lunedì 17 gennaio 2011

l’Unità 17.1.11
La riforma della rappresentanza, la nuova sfida aperta dalla Cgil
Oggi la Cgil invierà ai vertici di Cisl e Uil la proposta di riforma della rappresentanza nei luoghi di lavoro approvata dal direttivo di Corso Italia. Ma Bonanni frena e ripropone il documento unitario del 2008.
di Luigina Venturelli


Se la prima fase della partita si è appena chiusa con il referendum di Mirafiori, la seconda si apre oggi con la presentazione a Cisl e Uil della proposta Cgil sulla rappresentanza sindacale. In giornata, sulle scrivanie dei leader confederali che hanno firmato l’accordo separato, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, arriverà il documento su cui scomette la segretaria generale di Corso Italia, Susanna Camusso. Non solo per ricomporre le fratture generate dalla vertenza Fiat, assicurando così alla Fiom la possibilità di rientrare nella fabbrica torinese, ma anche per prevenire la reazione a catena che la strategia Marchionne potrebbe generare in altre aziende, del settore metalmeccanico e non.
LA PROPOSTA CGIL
La bozza approvata dal direttivo di sabato scorso prevede, tra l’altro, la soglia del 5% (calcolato tra numero di iscritti e voti ottenuti nelle elezioni Rsu) per considerare rappresentativo un sindacato, la verifica tra i lavoratori a trattativa aperta in caso di contrasti tra i negoziatori, e il ricorso al referendum vincolante per superare il permanere del dissenso tra le diverse sigle. L’obiettivo, ha spiegato Camusso, è «costruire una modalità di coinvolgimento dei lavoratori che sia precedente le rotture, darci un metodo che provi a evitare che ogni grande vicenda si concluda con una rottura tra le organizzazioni». A tal fine la Cgil ha già chiesto un incontro a Cisl e Uil, anche se difficilmente il dialogo si aprirà prima che il clima tra le tre confederazioni si sia svelenito. Dunque, non prima dello sciopero generale delle
tute blu indetto dalla Fiom per il prossimo 28 gennaio.
Allo stato attuale, le premesse per arrivare ad una riforma condivisa della rappresentanza sindacale sono scarse. «Una proposta unitaria esiste già, se vogliono procedere su quella strada possiamo firmare anche domattina» ha fatto sapere Bonanni, riferendosi al documento unitario del 2008 sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil, ma rifiutato dalla Fiom. Mentre il testo proposto ora da Corso Italia servirebbe «solo a confermare la spinta al veto dei metalmeccanici».
IL RICORSO ALLE VIE LEGALI
La strada di Susanna Camusso si prospetta tutta in salita. Pur confermando che il sindacato «valuterà se ricorrere alla magistratura» per evitare che la Fiom resti esclusa da Mirafiori dopo l’esito del referendum alle carrozzerie torinesi, la segretaria non ha dubbi, la strada giudiziaria comunque «non basta» e «non si può affidare la rappresentanza sindacale al ricorso della magistratura».
E certo non aiuta l’apparente apertura del ministro Maurizio Sacconi che, augurandosi che la Cgil rinunci alle vie legali per salvaguardare la rappresentanza sindacale a Mirafiori, ipotizza un’intesa tra le confederazioni «nella misura in cui la Cgil avrà anche la delega della Fiom a negoziare». Lo scopo resta sempre quello: mettere a tacere il dissenso delle tute blu di Maurizio Landini.

Corriere della Sera 17.1.11
Voto a Mirafiori, Camusso avverte: «Ricorso al tribunale? Valuteremo»
Sacconi, stop alla Cgil sull’intesa. Marcegaglia: una proposta per i contratti
di  Enrico Marro


ROMA — «Valuteremo se ricorrere alla magistratura» . Per la prima volta, Susanna Camusso affaccia l’ipotesi di ricorsi contro gli accordi Fiat di Mirafiori e Pogliano. Finora era stata solo la Fiom a farlo. Il segretario della Cgil ha però subito aggiunto, ieri nella trasmissione «In mezz’ora» , che non si può pensare per questa via di risolvere il problema della «rappresentanza sindacale» . Che è invece oggetto della proposta Cgil che oggi Camusso invierà a Confindustria, Cisl e Uil, con la richiesta di aprire un confronto per un accordo che sostanzialmente allarghi le regole vigenti nel pubblico impiego (Rsu elettive e indici di rappresentatività dei sindacati) al settore privato. Regole necessarie anche secondo il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. La prima risposta del leader della Cisl, Raffaele Bonanni, è però stata negativa: «Camusso non può chiederci di mediare tra lei e la Fiom» . Difficoltà ancora maggiori ci sono rispetto all’ipotesi di una riapertura della trattativa con la Fiat, chiesta dal leader della Fiom, Maurizio Landini. I sindacati che hanno firmato l’accordo con la Fiat e vinto il referendum tra i lavoratori non ci pensano proprio. E ieri anche il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha affermato che «l’accordo non sarà riaperto» , annunciando invece per i prossimi giorni l’avvio di un tavolo con le parti sociali sul tema di come «modulare i tempi del lavoro con i tempi della famiglia» e rispondere così, secondo Sacconi, anche al disagio espresso dal 46%di no nel referendum di Mirafiori. «Certe volte — ha esemplificato il ministro -la flessibilità di mezz’ora in entrato o uscita risponde alle esigenze delle famiglie» , così come l’incentivazione degli «asili nido aziendali» . Visti tutti questi ostacoli la Cgil finirà davvero per percorrere la via giudiziaria? La Fiom ha già messo al lavoro i suoi avvocati. Camusso invece, nonostante quello che ha detto ieri in tv, continua a pensare che la magistratura sia l’extrema ratio. Anche perché, spiegano in Cgil, nel promuovere la causa c’è un rischio boomerang altissimo: se si perdesse, la svolta Marchionne costituirebbe un precedente corroborato anche sul piano giuridico. Verranno quindi percorse prima tutte le altre strade per ricucire, perché «la Fiom non può restare fuori da Mirafiori» . In prospettiva, un tavolo interessante è quello fatto intravedere da Marcegaglia nell’intervista pubblicata ieri dal Sole 24 Ore, quando ha parlato della necessità di evitare per il futuro che altre aziende, come la Fiat, siano costrette a uscire (sia pure momentaneamente) dalla Confindustria per farsi contratti su misura: «È un argomento che abbiamo discusso nel comitato di presidenza e al massimo entro la primavera prepareremo una proposta su come far stare dentro la confederazione mondi diversi. La presenteremo ai sindacati, perché sarà la base dei futuri contratti» . Di sicuro, poi, dovrà aprirsi il tavolo tra Federmeccanica e sindacati sul contratto dell’auto, che dovrebbe servire, secondo gli accordi tra Marcegaglia e Marchionne, a far rientrare la Fiat nel sistema Confindustria. E sarà questa un’occasione concreta di rientro anche per la Fiom.

Corriere della Sera 17.1.11
Diritti e lavoro tra miti e verità
di Ernesto Galli della Loggia


Si comprende l’emozione e lo scalpore suscitati in molti ambienti dal referendum di Mirafiori e dalla vittoria dei sì. Entrambi gli eventi mettono radicalmente in discussione, infatti, l’intera vulgata ideologica costruita in tutti questi decenni intorno alla Costituzione: vulgata fatta propria dalla stragrande maggioranza dell’establishment italiano. Mettono in discussione, cioè, l’insieme d’idee correnti formatesi nel tempo circa il senso della nostra vita pubblica, la presunta tavola dei valori alla sua base, la sua rappresentazione simbolica; nonché, per finire, una certa idea di che cosa siano la democrazia e la cittadinanza democratica. Intendiamoci: non è che finora su tutte queste cose non mancassero voci dissonanti. Ma questo dissenso sulla Costituzione, lo chiamerò così, quando non era l’espressione sgangherata di certo berlusconismo con fini smaccatamente politici è stato finora sempre attento a mantenersi molto defilato, a evitare l’asprezza della discussione pubblica, per timore di clamorose messe all’indice da parte del senso comune e dell’opinione dominante. La vulgata — termine a cui non do alcun senso denigratorio — ha così avuto modo di vivere e prosperare senza problemi soprattutto nell’ambito del ceto intellettuale. L’elemento principale di tale vulgata messo in crisi dal referendum di venerdì riguarda l’idea che la democrazia sia tale perché essa riconosce eguale valore ai diritti politici e ai diritti sociali— che però sarebbero in sostanza quelli del «lavoro» , non a caso indicato dall’art. 1 della nostra Costituzione come il fondamento della Repubblica democratica. Ma è questa un’equiparazione che si presta a molte obiezioni: la più importante (che non sono certo il primo a muovere) è che mentre per essere riconosciuti ed esercitati i diritti politici (eguaglianza di fronte alla legge, elettorato attivo e passivo, diritto alla libertà personale, di parola, diritto di sciopero ecc. ecc.) non necessitano di alcun contesto esterno particolarmente favorevole, viceversa il godimento dei diritti cosiddetti sociali e del lavoro in specie è perlopiù possibile solo se vi è un contesto economico esterno favorevole. Da qui — per esempio in una condizione di mercato planetario globale come è quella attuale— l’ovvia, inevitabile contrattabilità, e dunque anche comprimibilità, di tali supposti «diritti» . Ma ciò posto sembra alquanto implausibile sostenere — come si è sentito invece in questi giorni a proposito della vertenza Fiat — che se i «diritti» del lavoro non sono esercitabili nel modo in cui i loro titolari chiedono, allora non esisterebbe più neppure un vero regime democratico. Tali diritti, infatti, hanno per loro natura un contenuto mutevole, non poggiano, né possono mai poggiare, su alcuna base solida definitiva. Ciò vuol dire dunque che per un regime democratico le condizioni sociali dei cittadini sono indifferenti? Neanche per idea!
Ma dire condizioni sociali dei cittadini è cosa diversa dal dire diritti del lavoro. Invece, facendo del «lavoro» addirittura il fondamento dello Stato democratico, la Carta costituzionale ha certamente favorito questa confusione. Confusione non neutrale, peraltro, dal momento che da essa discende per l’appunto la presunta centralità dei «diritti del lavoro» e via via, per logica conseguenza, quella dei «lavoratori» (intesi perlopiù come i lavoratori manuali), del «mondo del lavoro» , dei «partiti del lavoro» , dei sindacati, ecc. E cioè discendono un’ideologia della Costituzione fortemente unilaterale, un sentimento e un’idea di democrazia utilizzabili, e troppo spesso utilizzati, a fini politico-partitici. Rimane naturalmente, eccome!, il problema della condizione sociale dei cittadini. È questo problema che il patto di cittadinanza democratica deve mettere al proprio centro, non i «diritti del lavoro» . In una società democratica non vi sono luoghi politico-simbolici privilegiati, come abbiamo letto in questi giorni che sarebbe la fabbrica, né diritti particolari, come sarebbero quelli del «lavoro» , i quali esprimerebbero un particolare valore di «dignità» o di «emancipazione» . La figura centrale della democrazia non sono «i lavoratori» , è «l’uomo della strada» ; in una democrazia un metalmeccanico non ha maggior peso o maggiore dignità di una massaia o di un piccolo coltivatore. Ed è precisamente sulla generalità dei cittadini che è sempre più urgente rimodellare le politiche sociali, definendo il profilo di quel nuovo welfare di cui ha parlato proprio ieri sul Corriere Maurizio Ferrera: più servizi e migliori, più prevenzione e più assistenza alle situazioni di disagio, più sostegni per figli e famiglie, per gli anziani, sussidi di disoccupazione personali. Ma per tutti, perché in una democrazia i benefici sociali e il diritto ad essi non possono dipendere (come invece avviene oggi) dalla condizione lavorativa o non lavorativa dei cittadini— se sono operai, professionisti, casalinghe o impiegati— ma solo dal livello e dall’urgenza dei loro bisogni.

Repubblica 17.1.11
Epifani: "Fiat faccia la prima mossa metà dipendenti senza rappresentanza"
"Per Marcegaglia una vittoria di Pirro con lo sfaldamento progressivo di Confindustria"
"Importante risultato per la Fiom, ma ora serve una soluzione per quel 46 per cento"

di Paolo Griseri

TORINO - La vicenda di Mirafiori? «Un sintomo del provincialismo italiano». Guglielmo Epifani ha guidato la Cgil nella prima fase dello scontro tra Marchionne e la Fiom. Dopo la conclusione del referendum dice: «C´è il rischio di una lunga fase di stallo. E´ ora di smetterla di fare il tifo, bisogna provare a usare la testa. Tutti capiscono che non si può lasciar fuori dalla fabbrica chi rappresenta la metà degli operai. La prima mossa, a questo punto, toccherebbe a Marchionne».
Epifani, perché parla di provincialismo?
«Mi chiedo in quale Paese europeo possa accadere che una decisione di tale importanza sul futuro del sistema industriale viene caricata sulle spalle di 5.000 lavoratori. Mi chiedo in quale Paese europeo un governo lascia che tutto questo accada senza intervenire. Mi chiedo ancora in quale Paese europeo viene consentito alla più importante azienda privata di lasciare senza rappresentanza sindacale la metà dei dipendenti. Tutto ciò può accadere solo nell´Italia di questo periodo».
Secondo lei il governo ha fatto il tifo a Mirafiori?
«Il governo ha fatto il furbo. Prima lesinando alla Fiat quegli incentivi che tutti gli altri Paesi europei hanno concesso nella fase più difficile della crisi. E poi diventando tifoso quando ha capito che lo scontro tra il Lingotto e i sindacati poteva favorire la divisione e isolare la Cgil. Un governo serio avrebbe provato a promuovere la mediazione. Così accade dappertutto. Qui invece abbiamo avuto il governo che fomentava la divisione, soffiando sul fuoco delle spaccature sindacali. Un comportamento da strapaese».
Lei parla di provincialismo. Non ritiene che Marchionne rappresenti la modernità in Italia?
«Non mi pare che la sua ricetta sia così moderna. Marchionne propone un modello, quello del sindacalismo aziendale, che è stato una delle cause del fallimento della Chrysler. Un modello che lascia ogni sindacato da solo, chiuso nella sua fabbrica, con un welfare aziendale che è il primo ad andare in crisi. Se oggi il sindacato è il principale azionista a Detroit è proprio per provare a riparare i guasti di quel sistema».
Quale altra responsabilità carica sulle spalle del Lingotto?
«Aver provato a scegliere i sindacati al posto dei lavoratori. Questo è un vulnus molto grave. In tutti i sistemi democratici, i rappresentanti vengono scelti dai rappresentati: è il cuore di ogni democrazia. Se io garantisco rappresentanza solo ai sindacati che sono d´accordo con l´azienda, metto in atto una grave lesione del sistema democratico».
In questa vicenda si è consumata una delle più gravi rotture sindacali. A suo parere, è componibile?
«In questi anni c´è stato un deterioramento progressivo dei rapporti unitari. Un processo che è iniziato nel 2001. Oggi siamo arrivati, in alcuni casi, alla rottura di rapporti personali. Per fortuna accade in alcune categorie e non nella maggioranza, ma è un fatto grave. Penso che per invertire la tendenza servirebbe abbandonare la logica del tifo e trovare sedi di mediazione. In genere è interesse dei governi creare le condizioni perché questo avvenga. Ma non mi sembra che oggi questa sia una delle principali preoccupazioni del nostro governo».
Che cosa dovrebbe fare la Fiom adesso?
«Penso che l´importante risultato raggiunto nel referendum obblighi la Fiom ad andare avanti per la sua strada. Bisognerà comunque trovare il modo di evitare che a Mirafiori il 46 per cento dei lavoratori sia senza rappresentanza. Per questa ragione credo che tutti dovrebbero smetterla di fare i tifosi».
A chi pensa?
«Innanzitutto alla Fiat. Non so come Marchionne possa pensare di far funzionare una fabbrica con metà dei dipendenti che hanno espresso esplicitamente il loro dissenso e un´altra fetta che ha dichiarato di approvare l´intesa solo per salvare il posto di lavoro. Poi penso alla Confindustria. Marcegaglia può oggi cantare vittoria, ma rischia di celebrare una vittoria di Pirro che può aprire la strada allo sfaldarsi progressivo dell´associazione degli imprenditori. E penso anche ai segretari di Cisl e Uil: sanno che così non si va da nessuna parte. Questa è stata una vittoria dimezzata per chi pensava di trionfare con l´80 per cento».
Come giudica il comportamento del Pd in tutta questa vicenda?
«Il Pd ha diverse anime ed era prevedibile che sul merito sindacale emergessero posizioni articolate. Quel che invece mi aspetto è che un partito che si chiama democratico metta la questione della rappresentanza in fabbrica in cima alla sua agenda. Cercando di approvare una legge in Parlamento che eviti di lasciare senza voce metà dei lavoratori della Fiat».
Lei parla di fase di stallo. Chi dovrebbe fare la prima mossa per uscirne?
«Penso che tocchi a Sergio Marchionne. Perché è stato il protagonista di questa vicenda, ha vinto il referendum e dunque da sabato ha una responsabilità ancora maggiore».

Repubblica 17.1.11
Quei lavoratori da proteggere
di Tito Boeri


Invece dell´accordo storico abbiamo avuto un disaccordo senza precedenti. Non sarà facile governare Mirafiori.
Serve un salario minimo orario sotto il quale nessun dipendente possa scendere Questo sistema di relazioni industriali fa acqua da tutte le parti: interviene in ritardo e accentua i conflitti

Non sarà facile governare gli impianti con il 50% di operai favorevoli e il 50 di contrari. Sarà una sfida in più per Marchionne. Meglio, comunque, sospendere il giudizio sul suo operato. I manager vanno giudicati dai risultati e non dalle intenzioni. Potremo fra due o tre anni trarre un primo bilancio della sua gestione. Nel frattempo bene che gli azionisti rivedano gli schemi di remunerazione del management in modo tale da incentivare il raggiungimento di obiettivi di lungo periodo. Bene anche che il governo si schieri a favore del paese, spingendo affinché tra questi obiettivi ci sia anche la salvaguardia degli attuali livelli occupazionali senza ulteriori aiuti di Stato, incrementi salariali per i lavoratori in linea con i miglioramenti di produttività e, soprattutto, il mantenimento a Torino del cuore delle fasi di progettazione, quelle in grado di avere ricadute produttive sull´intero sistema produttivo.
Il referendum a Mirafiori è stato salutato dal nostro ministro del Lavoro come una nuova era nelle relazioni industriali. Ci indica, invece, una volta di più che è un sistema che fa acqua da tutte le parti: copre sempre meno lavoratori, interviene sempre più in ritardo e accentua, anziché gestire, i conflitti, non incoraggia gli aumenti di produttività e salari. Costringe a creare una nuova azienda e ad uscire dalle associazioni di categoria per fare contrattazione a livello decentrato, diventando così ancora meno governabile. Le riforme più urgenti riguardano le regole sulle rappresentanze sindacali, i livelli della contrattazione, la copertura delle piccole imprese, i minimi inderogabili e i confini fra contrattazione collettiva e politica.
Nel confronto su Mirafiori la frattura tra i sindacati si è ulteriormente accentuata. Occorrono regole che permettano la contrattazione - il che significa prendere impegni con la controparte e rispettarli - anche quando il sindacato è diviso. E che non condizionino come a Mirafiori la rappresentanza dei lavoratori alla firma del contratto.
I livelli della contrattazione. Nelle aspre polemiche di questi giorni, i sindacati si sono rinfacciati di avere sottoscritto accordi ben più onerosi per i lavoratori in altre imprese. Alla Sandretto la Fiom (non la Fim) ha firmato per deroghe al ribasso dei minimi salariali fissati dal contratto nazionale, pur di salvaguardare i livelli occupazionali. Alla STM, alla Micron e alla Exside, Fim, Fiom e Uilm hanno accettato turni che impongono il lavoro notturno molto più di frequente e con maggiorazioni salariali inferiori a quelle previste alla Fiat. E ci sono molte piccole e medie imprese nel metalmeccanico in cui si accettano condizioni di lavoro ancora più pesanti in quanto a turni e pause. Non c´è nulla di male se un sindacato accetta queste condizioni in un´azienda e non in un´altra. Può farlo perché i lavoratori hanno esigenze diverse, perché le caratteristiche delle mansioni sono differenti, perché le condizioni del mercato e il potere contrattuale dei lavoratori cambiano a seconda dell´impresa e delle condizioni del mercato del lavoro locale. Questo dimostra che c´è bisogno di contrattazione azienda per azienda. E´ l´unica che permetta al sindacato di salvaguardare posti di lavoro in aziende in difficoltà o di rinunciare ad aumenti salariali per fare assumere più lavoratori. A livello nazionale si può solo contrattare sui salari, non sui livelli occupazionali. Chi si oppone al rafforzamento del secondo livello della contrattazione, rinuncia di fatto a tutelare molti posti di lavoro.
La contrattazione aziendale è difficile in aziende medio-piccole. In molte di queste non potrà che continuare a valere il contratto nazionale. Oltre a dare copertura contro l´inflazione bene che fissi delle regole retributive più che dei livelli salariali uniformi da imporre in realtà tra di loro molto differenziate. Ad esempio, si può stabilire che una quota minima dell´incremento della redditività di un´azienda sia trasferita ai lavoratori sotto forma di salario più alto. Un sindacato che continua a lasciare da soli i lavoratori delle piccole imprese nel loro tentativo di partecipare agli incrementi di produttività non ha futuro nella stragrande maggioranza delle imprese italiane. Come evidenziato anche dalla composizione del voto a Mirafiori (il turno di notte, che avrà i maggiori carichi di lavoro e incrementi retributivi, ha votato a larga maggioranza a favore del sì, al contrario degli altri reparti) oggi molti lavoratori italiani sono disposti a lavorare di più e in condizioni più pesanti pur di guadagnare di più. Non sorprende data la stagnazione dei salari negli ultimi 15 anni.
Questo ci porta ai minimi inderogabili. Bene definirli con precisione e preoccuparsi di farli rispettare per tutti. Ci vogliono dei minimi al di sotto dei quali nessun contratto può scendere. Devono essere per forza di cosa essere fissati per legge e valere per tutti, anche per chi lavora nel sindacato, nei partiti o nel volontariato. Ci vuole un salario minimo orario. Ma ci vogliono anche un´assicurazione sociale di base, a partire da quella contro la disoccupazione.
Infine i confini tra contrattazione e politica. Troppi politici hanno perso in queste settimane un´ottima occasione per stare zitti, pronunciandosi a favore o contro l´accordo Mirafiori. E´ una ingerenza fastidiosa, inaccettabile, e hanno fatto bene i leader confederali a denunciarla. Ma bisogna ammettere che troppe volte è proprio il sindacato a chiamare in causa la politica. Lo ha fatto anche a Mirafiori. Bene che la smetta. La politica non si fa certo pregare quando si tratta di invadere terreni su cui non dovrebbe avere alcuna voce in capitolo.

Corriere della Sera 17.1.11
Pd, lo stop a Vendola piace alla minoranza e all’Udc «Letta ha corretto Bersani»
E la Lega apre sul sì al federalismo: passo storico, sia condiviso
di Monica Guerzoni


ROMA — Il fenomeno Vendola «si sgonfierà presto» e non è al presidente della Puglia che il Pd deve guardare, ma all’alleanza, già dalle Amministrative, «tra moderati e progressisti» . E dunque al terzo polo di Casini. Il sasso che Enrico Letta getta nello stagno del Pd dalle pagine del Corriere agita le acque democratiche, dove la minoranza esulta per la «correzione di linea» della segreteria. Ma anche nel Polo della Nazione e nella Lega Nord l’analisi dell’ex ministro innesca riflessioni nuove. Da Bettola, sua città natale, Bersani smentisce «operazioni sottotraccia» per formare un governo tecnico: «La Costituzione dice che quando un governo è in crisi la parola passa al capo dello Stato e al Parlamento» . Eppure in casa Pd non è sfuggita l’accoglienza, più che positiva, riservata dai vertici del Carroccio all’apertura del vicesegretario. «Ha ragione Letta quando dice che il federalismo deve essere fatto insieme e tutti devono riconoscervisi— non esclude convergenze il presidente dei deputati, Marco Reguzzoni —. È una di quelle riforme storiche sulle quali è necessario avere il massimo consenso possibile» . Le idee del vice di Bersani, determinato a spostare verso il centro il timone delle alleanze, trovano ascolto anche nel nuovo polo. Per Gian Luca Galletti, vicecapogruppo dell’Udc alla Camera, «un’alleanza con Vendola e Di Pietro è destinata al fallimento» e dunque Casini, come Letta, «pone una questione vera» . Pierluigi Mantini (Udc) vede un Pd che si «rimette in gioco» e Adolfo Urso, coordinatore del partito di Fini (Fli), dice di apprezzare «le tesi autenticamente riformiste, aperte al dialogo e senza preclusioni ideologiche» . Di segno opposto le reazioni che lo schema lettiano di un’alleanza «tra moderati e progressisti» provoca a sinistra. Claudio Fava, di Sel, legge nelle parole dell’ex ministro la prova che il Pd è in declino, per «supponenza, ingenuità e confusione» . E Gennaro Migliore, coordinatore del partito di Vendola, attacca sulle primarie: «Le vogliamo per fare chiarezza» . La risposta dei lettiani di Trecento-Sessanta è fortemente polemica. Marco Meloni, della segreteria del Pd, respinge il «populismo irresponsabile» e la cultura «passatista e antistorica dei compagni di Vendola» . Ma è all’interno del Pd che la posizione di Letta, atteso il 22 gennaio al Lingotto per il ritorno sulla scena di Veltroni, segnala convergenze e divergenze. Si dice che Bersani sia preoccupato per le mosse del suo vice, ma non voglia darlo a vedere. «Sulle alleanze siamo larghi sulla testa» , risponde il segretario a chi gli chiede se sia possibile riprodurre, su scala nazionale, l’alleanza Pd-Udc-Idv che governa le Marche. Ma il dalemiano Matteo Orfini, membro della segreteria, interpreta Letta in continuità con Bersani: «Non chiude del tutto su Vendola...» . Eppure la minoranza di Modem festeggia la svolta. Beppe Fioroni affida il suo apprezzamento al senatore Lucio D’Ubaldo: «Letta sottrae il Pd al continuo logoramento di Vendola e Di Pietro e corregge la linea di Bersani. Ora le ragioni della minoranza sono più forti di quel che si è disposti ad accettare» . Marco Follini ritiene «illusorio» tenere insieme tutti, da Vendola a Casini: «Il Pd deve proporsi come perno di una grande alleanza antipopulista» . E il veltroniano Stefano Ceccanti tira la coperta dalla parte dell’ex segretario: «Alla prova delle questioni economiche e della vicenda Fiat, Letta converge sulle idee di Veltroni» .

Corriere della Sera 17.1.11
La Puglia e il governatore che sta altrove
Gli avversari: troppe assenze in Regione. I suoi: c’è ogni volta che serve
di Goffredo Buccini


Fruga qua, scartabella là, rovista tra faldoni, scartafacci e ritagli nella sua stanza da capogruppo pdl in Regione. Poi pesca nel portafoglio un appuntino spiegazzato: «Ecco, guardi! È fortunato, c’ho il dato esatto: 29 per cento!» . Traduciamo. Rocco Palese si spazientisce: «Sono le assenze di Vendola in giunta nel 2009! Otto per cento nel 2006, quattro nel 2007 e nel 2008, poi questo picco, vede? Ce l’ho dall’ultima campagna elettorale 'sto biglietto» . Vita agra d’un salvatore designato della patria: appena metti fuori il naso dalla tua città, eccoli lì, tutti pronti a farti le bucce. Capitò a Veltroni, nell’anno in cui era incinto del partito democratico prossimo venturo, ancora sedeva in Campidoglio e tutti sospettavano avesse già abbandonato Roma. Capitò a Bassolino, quand’era ancora il cavaliere senza macchia del Rinascimento napoletano e però aveva ceduto alla tentazione d’una poltrona nel primo governo Prodi. Capita. «Lo fanno per azzopparti, vecchia tattica, vorrebbero farti sparire ma ti rinfacciano di essere altrove» , sospira il giovane ricercatore precario Vincenzo Cramarossa, una delle anime delle Fabbriche di Nichi, con in mano il libro curato per conto del suo vate, «C’è un’Italia migliore» (opera collettiva, naturalmente), fresco di libreria. Capita, sì. Sicché capita anche a questo politico-non politico che chiama la politica «danza della vita» come fosse una farfalla neofita, ma che balla questa danza da quando, implume figgicciotto fuori dagli schemi, aveva appena quattordici anni (ora va per i 53) e già non si prendeva con Massimo D’Alema che già cercava di dimostrarne i sessanta e rotti di adesso. Del resto non è solo una fisima revanscista del povero Palese — il candidato indigesto a Berlusconi e impallinato da Vendola— che aggiunge pignolo: «Dai verbali mi pare che anche alla conferenza Stato-Regioni ci sia poca presenza materiale… Emiliano, il sindaco, spara su Facebook le foto dei dipendenti pubblici sfaccendati? Beh, cominci da questo governatore girovago che tra viaggi negli Usa, salite sui tetti romani e comparsate a Mirafiori non sta mai in sede» . Nichi, ovvero Nikita, in odio a Stalin (suo padre inseguiva prima di lui l’ossimoro del comunista libertario descritto felicemente da Peppino De Tomaso), è ben capace di prescindere dalla presenza materiale, s’intende. Uno che ha imparato da don Tonino Bello la «convivialità delle differenze» , sa che lo spirito e non la carne è ciò che conta in un partito-non partito e forse perfino in un’amministrazione non amministrata. Il suo spirito aleggia sulla Puglia anche nei giorni di assenza. Venerdì pomeriggio, per dire, mentre Taranto ancora traballava tra la crisi delle cozze alla diossina e quella della giunta provinciale, il governatore, che dopo Moro e Pinuccio Tatarella più ha cercato di ricondurre il molteplice a unità e il consociativismo a inclusione in terra di lampascioni e strascinati, era dato a Brescia per una manifestazione e a Bergamo per un dibattito. Capita. Nichi non dà mai buca a nessuno, ha solo diradato l’agenda pugliese dall’estate 2009, vero momento cruciale del vendolismo, quando la prima giunta saltò, travolta dagli scandali di gente non immacolata ma esperta come Frisullo e Tedesco. Dicono che da allora Nichi non si fidi più, che tutta l’attività amministrativa abbia frenato, che lui sia proiettato altrove anche per quello. Di quell’ «altrove» sanno qualcosa quelli di un centro di riabilitazione della provincia che, a corto di fondi, dopo avergli chiesto un incontro per un mese, lo minacciarono di piantarsi con quaranta disabili in carrozzella sul marciapiede della giunta. Lui li dirottò su Tommaso Fiore, nipote del narratore dei «Formiconi di Puglia» , medico impegnatissimo nel sociale e assessore alla sanità del Nichi bis. E qui, in questa Bari che elabora l’assenza del suo ragazzo prodigio ancor prima che il distacco sia consumato, si apre il secondo capitolo, quello del mentre e del dopo. Chi governa quando Nichi non c'è? E chi governerà? Michele Emiliano, con quella stazza da Falstaff della politica e l’irruenza «barbara» che lui stesso si attribuisce sorridendo, è antropologicamente il più lontano da Nichi sulla scena pugliese. E proprio per questo l’unico che ha la personalità per rimpiazzarlo. «Non è detto» , frena: «se non c’è intesa leale, io sto benissimo qui in Municipio» . La gente lo ferma per salutarlo sul corso, le pose da sceriffo non l’hanno certo reso impopolare. «Pd o non Pd, Nichi correrà comunque se si vota alle politiche. Ma il Pd dovrebbe fare con lui come il Milan con Cassano» : traduciamo, un mattocchio che ti fa vincere. «Beh, lui Berlusconi può batterlo, io ci credo. Se perdiamo stavolta tocca andare in montagna con lo Sten» . Il mitra? «Metaforicamente, si capisce» . Si capisce. Mentre Roma sembra scivolare verso le elezioni, l’aria a Bari è questa, perché dopo le politiche le regionali sarebbero inevitabili. Dicono che scaldi i muscoli anche Domenico Di Paola, presidente degli aeroporti, manager adorato da Nichi e incarnazione del vendolismo trasversale ben prima che Don Verzé irrompesse a benedire la scena: era uno degli intimi di Tatarella, ora c’è chi scommette che Vendola pensi a lui per la propria successione. Sul palazzo della Regione sventola l’arcobaleno pacifista assieme al tricolore. Dentro, in fondo a un labirinto di corridoi, c’è Nicola Fratoianni, 38 anni, sette deleghe da assessore e soprattutto la fama di governatore ombra in assenza del leader: «Non credo proprio, non ne sarei capace» , si schermisce questo giovane pisano trapiantato a Bari dalla Rifondazione bertinottiana. Sembra uno dei barbudos di Fidel in attesa di muovere su Santa Clara: «Se si vota, vinciamo. Punto» . Sicché Vendola è in fuga per la vittoria? Le mani di Fratoianni si agitano nell’aria a enumerare iniziative e percentuali locali: «Nichi c’è tutte le volte che qualche elemento richiede il suo intervento. E comunque c’è tantissimo, basta storie…» . Mentre parliamo, per puro caso, Vendola non c’è. Ma per uno che — come scrisse Maria Laura Rodotà— è capace di «contestualizzare» quanto pochi altri, essendo gay e governatore di una regione ancora venata di maschilismo, amato dai giovani postcomunisti e dai vecchi fascisti pugliesi, cattolico con rosario in tasca e compagno convivente a casa, beh, la presenza assenza è solo l’ultima cravatta colorata nell’armadio degli ossimori.

Repubblica 17.1.11
Al Aswani: "Non si ferma qui i Paesi arabi sono pieni di rabbia"
di Francesca Cafarri


«È un momento storico per l´intero mondo arabo: l´impatto di questa rivoluzione non si fermerà». Ala Al Aswani è uno degli scrittori arabi più famosi del mondo: egiziano, con il suo "Palazzo Yacoubian" ha raccontato i disagi e le tensioni nascoste nel suo Paese. Negli ultimi anni, anche grazie a quel successo, è diventato una delle voci più ascoltate fra quelle che chiedono un cambiamento democratico nei Paesi della regione.
Cosa le fa pensare che questo movimento non si fermerà?
«Due fattori. Il primo che quello che è accaduto in Tunisia è una rivoluzione vera e propria, partita dal basso: non un colpo di Stato militare né una protesta di stampo islamista. Il secondo è che le similitudini fra la situazione tunisina e quella di altri Paesi sono moltissime. Prendiamo il mio Egitto: in Tunisia il controllo del regime sulla società era maggiore ma il resto - corruzione, disoccupazione giovanile, elezioni truccate, povertà - è uguale. E in Tunisia, come in Egitto, il regime si basava sull´appoggio di fondo di Unione europea e Israele. Ma le similitudini ci sono anche con Paesi come l´Algeria e il Marocco, dove il malcontento è diffuso».
Non crede però che ora i leader arabi siano pronti a fronteggiare una situazione come quella tunisina?
«La lezione di questi giorni è che la democrazia si paga con il sangue: nel mondo arabo come in Occidente. Accadrà di nuovo. Quanto alla preparazione, voglio citare Gabriel Garcia Marquez e Mario Vargas Llosa, autori di pagine bellissime sulla solitudine dei dittatori: non capiscono, perché nessuno racconta loro la verità. Quindi no, non sono pronti».
Lei è ottimista?
«Mi piacerebbe esserlo. Ma temo che la strada per la democrazia sarà costellata di altro sangue».
Prossima tappa?
«Le rispondo che nelle nostre strade, come su Internet io vedo una grande gioia per quello che è accaduto in Tunisia. Potrei dirle quindi Egitto, ma non lo farò: potrei dirle anche Algeria, un Paese di grandi risorse naturali e grandi ricchezze dove la gente vive in povertà. O Libia. Ci sono 22 Paesi nel mondo arabo e in nessuno c´è una vera democrazia: la Tunisia ci mostra che anche gli arabi possono fare la rivoluzione. L´intero mondo arabo è a una svolta, ma non so chi sarà il prossimo a voltare pagina».

l’Unità 17.1.11
Il governo israeliano pronto a varare il piano per la costruzione di 1400 alloggi nella zona di Gilo
I palestinesi attaccano il premier: «Gli Usa devono ritenerlo responsabile della fine del dialogo»
Gerusalemme Est, ancora case Netanyahu affossa il negoziato
L’ex presidente della Knesset denuncia: in atto pulizia etnica
di Umberto De Giovannangeli


Il governo israeliano non si ferma. Un nuovo progetto per la costruzione di 1400 nuove abitazioni nella parte Est di Gerusalemme, avrà presto luce verde. Un colpo di grazia per il negoziato con i palestinesi.

È il colpo di grazia a un negoziato agonizzante. Un nuovo progetto per la costruzione di alloggi israeliani in una zona colonizzata di Gerusalemme Est sta per essere approvato dal governo dello Stato ebraico. Secondo quanto riferito ieri dalla radio militare israeliana, si tratterebbe di un piano per la costruzione di circa 1.400 nuove abitazioni nella zona di Gilo, nella parte sud-orientale della Città santa. Il progetto potrebbe ricevere l’avallo della Commissione per la pianificazione regionale già nei prossimi giorni, secondo la radio. Alcuni consiglieri comunali hanno confermato il piano, alcuni per denunciarlo, altri per esprimere soddisfazione. «Non c’è alcun dubbio che il semaforo verde a questi nuovi alloggi sarà il colpo di grazia al processo di pace con i palestinesi», da oltre due mesi congelato dopo il rifiuto di Israele di prolungare la moratoria sulla sua politica coloniale in Cisgiordania, rimarca il consigliere comunale Méir Margalit del partito Meretz (sinistra). «Il 2011 è iniziato nel modo peggiore, con un’accelerazione dell’aggressività del governo Netanyahu-Lieberman – dice a l’Unità Colette Avital, parlamentare laburista. -. È come se Netanyahu intendesse approfittare della debolezza, vera o presunta, di Barack Obama per portare a compimento i suoi piani. Mi auguro – conclude Avidal – che questa nuova provocazione svegli l’America e il suo presidente».
ESCALATION
«Gilo è parte integrante di Gerusalemme. Non ci può essere alcun dibattito in Israele sulla costruzione di questo quartiere», taglia corto Elisha Peleg, consigliere comunale del Likud, il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu. La realizzazione di queste nuove unità abitative estenderà il quartiere fino alla colonia di Har Gilo che Israele considera parte integrante del blocco di insediamenti di Gush Etzion: «Il governo Netanyahu prosegue nella realizzazione del disegno della Grande Gerusalemme. E questo disegno è a sua volta parte di un piano che tende a trascinare il negoziato alle calende greche e nel frattempo svuotarlo di ogni significato concreto», ci dice Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al Quds di Gerusalemme est. «Le autorità israeliane – spiega Nusseibeh – stanno trasformando gli insediamenti in vere e proprie città. Per poi dire: come posso cancellarle. Alla fine vorrebbero che i palestinesi si accontentassero di uno Stato francobollo. E se dovessimo rifiutare, ecco pronta l’accusa: vedete, sono incontentabili». «Penso che sia il tempo per l'amministrazione americana di ritenere ufficialmente Israele responsabile del fallimento del processo di pace», gli fa eco il capo dei negoziatori dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Saeb Erekat. Per il segretario generale di Peace Now, Yariv Oppenheimer, il nuovo progetto israeliano «non solo danneggerà le possibilità di raggiungere un accordo sulla questione di Gerusalemme, ma potrebbe anche creare un problema internazionale per Israele e per la sua legittimità all'estero».
SIMBOLO DEMOLITO
Costruzione di nuovi alloggi e demolizione di edifici-simbolo: è il caso dello Shepherd Hotel, che si trova dentro il quartiere palestinese Sheik Jarrah, vicino alla residenza storica del Gran Mufti Haj Hamin al-Husseini. Con l’occupazione di Gerusalemme est da parte d’Israele nel 1967, lo Shepherd Hotel fu usato come base della polizia di frontiera israeliana. Poi l’edificio rimase abbandonato e venne dichiarato proprietà abbandonata dal governo israeliano, fino a quando fu acquistato da un uomo d’affari statunitense, Irving Moscowitz, e da questi donato ad «Ateret Cohanim», un’organizzazione ebraica di estrema destra a sostegno della colonizzazione israeliana della Cisgiordania. Nel 2009 le autorità governative di Gerusalemme hanno deciso di destinare il sito di Shepherd Hotel alla realizzazione di 20 residenze da dare in uso abitativo ai coloni israeliani. Nei giorni scorsi le ruspe hanno cominciato l’opera di demolizione, nonostante le proteste dell’Ue, di Stati Uniti e del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon che ha definito «profondamente deplorevole» la decisione israeliana.
Decisione che ha provocato l’immediata reazione della segretaria di Stato Usa Hillary Clinton che ha chiesto, con una nota ufficiale, al governo israeliano di rinunciare alla costruzione di insediamenti israeliani. Ma la risposta di Benjamin Netanyahu è stata lapidaria: «Non ci può essere una parte di Gerusalemme che gli ebrei non abbiano diritto di acquistare». La Gerusalemme di Netanyahu non è quella di Avraham Burg, già presidente della Knesset: «Non sento mia – afferma – una città che assiste ogni giorno al triste, tragico spettacolo di intere famiglie palestinesi costrette a lasciare le loro case. È un silenzioso esodo di massa, una “pulizia etnica” strisciante, che dovrebbe indignare».

Corriere della Sera 17.1.11
Hobsbawm: la crisi finanziaria rilancia la lezione di Marx
di Antonio Carioti


Ci sono anche delle pagine inedite sul pensiero di Antonio Gramsci nel nuovo libro dello storico inglese Eric Hobsbawm, che sta per uscire in Gran Bretagna. Il volume, intitolato How to Change the World (Little, Brown &Company, pp. 480, £ 25) raccoglie alcuni saggi già pubblicati su Karl Marx e il marxismo, più altri scritti nuovi riguardanti l’attualità del filosofo tedesco rispetto alla crisi che ha investito l’economia mondiale. E il titolo, «Come cambiare il mondo» , rende subito l’idea della posizione di Hobsbawm, icona della sinistra anglosassone, convinto che «il superamento del capitalismo» resti tuttora una prospettiva «plausibile» . In una lunga intervista apparsa ieri sull’ «Observer» , a cura di Tristram Hunt, lo studioso presenta il libro e celebra una sorta di rivincita intellettuale sui teorici del neoliberismo, egemoni per lungo tempo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, che predicano «la pura economia di mercato e il rifiuto dello Stato e dell’intervento pubblico» . Negli anni Novanta alcuni di loro erano giunti a sostenere che la globalizzazione avrebbe permesso al capitalismo uno sviluppo illimitato, senza più crisi economiche di rilievo, ma il crac del 2008 li ha smentiti rudemente. E la forte instabilità del sistema, osserva Hobsbawm, riabilita l’analisi di Marx, che «predisse il mondo moderno molto più di chiunque altro nel 1848» (data d’uscita del celeberrimo Manifesto del partito comunista, scritto da lui con l’inseparabile Friedrich Engels). Al tempo stesso Hobsbawm, noto in Italia soprattutto per la sua opera sul Novecento Il secolo breve (Rizzoli), riconosce che all’importanza del pensiero teorico di Marx corrisponde la povertà delle sue proposte politiche. Il filosofo di Treviri «previde la globalizzazione» , ma il suo programma consisteva solo nel fatto «che i lavoratori avrebbero dovuto unirsi in un blocco sorretto dalla coscienza di classe e agire politicamente per prendere il potere» . Ben scarse invece le indicazioni di Marx su come governare, tanto che i suoi seguaci del XX secolo, i socialdemocratici come i comunisti, finirono per ispirarsi, in modo assai diverso, alle «economie di guerra pianificate dallo Stato durante la Prima guerra mondiale» . Insomma, per come lo descrive Hobsbawm, Marx può tuttora servire per comprendere come funziona il mondo, ma non certo per trovare il modo di cambiarlo, tanto più che la sinistra occidentale, che aveva confidato nella globalizzazione, sembra decisamente disorientata. Così Hobsbawm confida al suo interlocutore di trovarsi a suo agio soprattutto guardando all’America Latina, dove gli ideali socialisti restano al centro del dibattito pubblico. Come esempio virtuoso cita il modo in cui la sinistra brasiliana dell’ex presidente Lula ha messo insieme il movimento sindacale e altre forze progressiste, fino a costruire una coalizione vincente. Mentre la Cina appare allo storico inglese «un grande mistero» . Quanto allo sloveno Slavoj Žižek, guru del nuovo radicalismo, Hobsbawm lo liquida come un performer, che può colpire con le sue provocazioni, ma non aiuta molto «a ripensare i problemi della sinistra» . Alla fine l’impressione dell’anziano studioso, non lontano dai 94 anni, è che compito dei progressisti sia soprattutto difendere gli istituti dello Stato sociale e cercare una nuova combinazione tra pubblico e privato per riformare l’economia. Suggerimenti vaghi, certo insufficienti a decretare la sospirata fuoriuscita dal capitalismo: in questo Hobsbawm appare quanto mai fedele alla lezione di Marx.

Repubblica 17.1.11
Hu Jintao e Obama i padroni del mondo
di Federico Rampini


Quarant´anni dopo l´avvio delle relazioni diplomatiche tra Cina e Stati Uniti, il presidente Hu Jintao atterra domani a Washington con un´agenda inimmaginabile, rispetto a quella che Mao Zedong presentò a Richard Nixon. Nel 1972 il leader di una nazione fallita chiese esplicitamente all´America un piano di aiuti per salvare 820 milioni di contadini dalla fame.
Domani il capo del Paese dei record, che si appresta a salvare e a guidare il mondo in questo secolo, baderà invece a rassicurare la Casa Bianca su una ragionevole lentezza del tramonto Usa. I ruoli non sono ancora invertiti, ma oggi è Barack Obama a dover chiedere alla Cina un programma di salvataggio per gli Stati Uniti e per l´Occidente, cercando di capire non se, ma quando Pechino supererà anche Washington iniziando a controllare il mondo che gli Usa rappresentano. Lo storico aggancio potrebbe già avvenire nel 2018 anche se alcuni lo rinviano al 2030.

Il 47% degli americani è convinto che il sorpasso del Pil tra Cina e Stati Uniti sia già avvenuto. Il risultato dell´autorevole sondaggio annuo Pew Research è rivelatore. In realtà nelle proiezioni più ottimiste l´economia cinese non raggiungerà le dimensioni americane prima del 2018 (altri rinviano lo storico aggancio verso il 2030). Ma le percezioni contano, e di percezioni è fatto questo G2, il vertice sino-americano che si apre domani sera a Washington con una cena privata. I due padroni del mondo: che piaccia o no a Barack Obama e Hu Jintao, così li considerano le loro opinioni pubbliche, e le altre nazioni. Quella visione dei due padroni, per quanto controversa, rende perfettamente il percorso storico che ha cambiato i connotati del mondo.
Questa visita coincide con il quarantesimo anniversario della «diplomazia del ping pong», quando le due nazionali di tennis da tavolo furono usate nel 1971 come apri-pista per il primo incontro diretto tra Richard Nixon e Mao Zedong nell´anno seguente: la Cina di allora era un gigante povero, sempre minacciato dalle carestie, utile all´America solo come contrappeso politico-diplomatico all´Unione sovietica.
Per ritrovare la precedente visita di Stato del presidente cinese a Washington rispetto a quella di domani sera, bisogna risalire al 1997 con Jiang Zemin ricevuto da Bill Clinton: la Cina era già in piena modernizzazione, ma mancavano ben quattro anni al suo ingresso nell´Organizzazione del commercio mondiale, il suo impatto nella globalizzazione era modesto, e proprio in quell´anno doveva difendersi dal contagio della crisi finanziaria asiatica.
Oggi ci sembra lontano perfino il 2006, quando Hu Jintao fu ricevuto (ma non col rango della visita di Stato) da George Bush.
L´America pre-recessione era ben più sicura di sé. Al punto da infliggere al ospite, per pura sbadataggine, diverse offese di protocollo: l´insufficiente servizio d´ordine alla conferenza stampa consentì una mini-manifestazione di protesta di Falun Gong; poi l´inno nazionale fu attribuito alla Republic of China che è il nome ufficiale di Taiwan. Errori che l´Amministrazione Obama non ripeterà certo: oggi un vertice sino-americano è preparato con ben altra cura. Hu rappresenta un paese che ha sfondato i 250 miliardi di dollari di attivo commerciale annuo con gli Stati Uniti nel dicembre 2010. Il 21% di tutti i debiti esteri del Tesoro Usa sono detenuti da Pechino, per un totale di 850 miliardi. E la banca centrale cinese con 2.850 miliardi nelle sue casse (la massima parte in dollari) ha il 25% delle riserve valutarie mondiali. Il peso dell´ospite lo si misura dalla lotta senza quartiere che si è scatenata per un «posto a tavola» nella cena di Stato alla Casa Bianca. Tutti i chief executive delle banche di Wall Street stanno facendo da settimane un lobbying forsennato per essere inclusi tra i Vip che «assisteranno alla storia». Hu da parte sua ha risposto con un gesto molto "imperiale": al primo posto nella lista degli invitati che spettano a lui, ha messo i sindaci di San Francisco e Oakland, i primi due sino-americani a governare due metropoli Usa.
L´idea del G2 non ha più quel fascino bonario e ingenuo che le fu attribuito all´inizio della presidenza Obama, quando prevaleva l´ottimismo della volontà. Oggi nessuno vede come realistico un «direttorio» a due che risolve tutti i problemi del pianeta. Le differenze, di interessi e di valori, sono troppo grandi. Ciò non toglie nulla alla centralità del loro rapporto: quando è produttivo, quando è conflittuale, quando è nello stallo, è sempre e comunque il più rilevante di tutti.
L´economia resta il dossier più corposo. Su questo terreno la definizione dei padroni del mondo non è esagerata. Il segretario al Tesoro Tim Geithner prevede che «al massimo in dieci anni la Cina avrà scalzato l´Europa come principale partner commerciale degli Stati Uniti». A Washington il Fondo monetario vede un 2011 dominato da due motori di sviluppo: da una parte i paesi ex-emergenti tra i quali la Cina ha una leadership indiscussa; d´altra parte gli Stati Uniti che si avviano verso una crescita del Pil doppia rispetto all´eurozona. Geithner preme per una più sostanziosa rivalutazione del renminbi, la moneta cinese che oggi gode di una «sotto-valutazione competitiva». Ammette che Pechino ha mantenuto una parte delle promesse: «In termini reali il renminbi si è rivalutato del 10% annuo». I timori americani però si stanno spostando altrove. Anzitutto sul sistematico saccheggio della proprietà intellettuale da parte dei cinesi. Secondo i termini usati da un´indagine del Congresso, «perfino i ministeri di Pechino fanno ricorso regolarmente a software pirata, rubato dalle aziende informatiche Usa senza pagare i copyright». Un altro coro di lamentele riguarda il livello dei sussidi di Stato erogati da Pechino alle sue aziende, falsando la concorrenza con gli stranieri. I casi più clamorosi riguardano la Green Economy tanto cara a Obama. Le maggiori aziende americane dell´energia solare stanno chiudendo le fabbriche di pannelli fotovoltaici sul territorio Usa per delocalizzarle in Cina. In questo caso non conta il differenziale nel costo del lavoro (è un settore hi-tech a bassa intensità di manodopera) quanto il vantaggio incolmabile offerto dalla generosità dei sussidi pubblici cinesi. La «dottrina Obama» prevede che dalla crisi economica si esca con un riequilibrio tra le due economie maggiori: alla Cina tocca «consumare di più, ridurre il risparmio, importare». Dalla rapidità di questo aggiustamento, dipenderà che l´America si senta meno defraudata nell´assetto attuale del G2. Altrimenti c´è il rischio che uno dei due padroni del mondo denunci il contratto, e cerchi di forzare una revisione delle regole del gioco. Ma "l´incidente" potrebbe anche venire dalla Cina: lo scoppio di un bolla speculativa, un eccesso d´inflazione. Per questo Geithner evita di esasperare la tensione: lo status quo è molto meglio di un salto nel buio.
All´indurimento dei toni nel rapporto a due contribuisce di più la spinta al riarmo della Cina. Lo choc più recente è la scoperta che le forze armate di Pechino hanno messo a punto il loro «caccia-bombardiere invisibile», in codice il J-20, il cui primo test ha coinciso provocatoriamente con una visita a Pechino del segretario alla Difesa, Robert Gates. Da Washington ha risposto Hillary Clinton con un duro richiamo sui diritti umani: «La Cina mantenga gli impegni, liberi i dissidenti politici e riformi il suo sistema politico, se vuole essere all´altezza delle sue responsabilità globali nel XXI secolo». Nella eccezionalità del vertice di mercoledì c´è anche questo: sarà la prima volta che un presidente degli Stati Uniti è costretto a offrire un ricevimento di Stato in onore di un leader straniero che tiene in carcere il premio Nobel della Pace (Liu Xiaobo).
Il tema che più cattura il sentimento dell´America alla vigilia di questo G2 è un altro. Il sorpasso di cui c´è la consapevolezza più acuta, è quello misurato nella classifica Ocse-Pisa sui risultati di apprendimento nei licei di tutto il mondo. Per la prima volta nella storia, i licei di Shanghai hanno conquistato il primato assoluto. I licei americani sono arrivati al 15esimo posto nella capacità di lettura, al 23esimo nelle scienze, al 31esimo in matematica. «Chi vince a scuola oggi, vincerà la competizione economica del futuro», avverte Obama. La sfida dei padroni del mondo, dentro il G2, è diventata anche l´unica gara che conta, e il luogo dove si misura chi sta facendo le scelte giuste per il suo futuro.

Repubblica 17.1.11
I cinesi puntano sull´affermazione dello yuan e sull´alta tecnologia
Pechino pronta al sorpasso "Il dollaro è al tramonto"
di Giampaolo Visetti


(...)
Hu Jintao sa di essere ormai l´azionista di riferimento del cosidetto G2 e non ha nascosto l´intenzione di mettere sul piatto, già nella cena informale di domani sera, la preoccupazione cinese per il destino degli 860 miliardi di dollari investiti nel debito statunitense.
Forte del ruolo di nuovo banchiere di quello che resta il primo mercato finanziario del pianeta, attento a non allarmare i suoi indispensabili clienti europei, Hu porrà dunque subito a Obama le tre questioni-chiave che Pechino intende iniziare a risolvere nel corso della sua seconda visita ufficiale oltreoceano: la cessione dell´alta tecnologia delle imprese americane alle industrie cinesi, il ritiro delle forze armate Usa dall´Asia e il via libera ad un nuovo ordine monetario internazionale che nel medio periodo veda lo yuan affermarsi quale valuta di riferimento assieme a dollaro ed euro. Il messaggio che porta a Washington è chiaro: «Un sistema monetario internazionale basato sul dollaro appartiene ormai al passato». I tre punti dell´agenda segreta di Hu, irrobustita e allo stesso tempo indebolita dall´interdipendenza fatale tra i due «padroni del mondo», non possono ovviamente essere accolti in quella, assai meno assertiva, di Barack Obama.
L´importanza che Pechino assegna a questo incontro, ad un anno dal cambio della propria leadership, conferma però che il presidente cinese accetterà di sottolineare «i molti interessi bilaterali in comune nell´interesse di tutto il mondo», ma che questa volta pretenderà di non uscire dalla Casa Bianca a mani vuote. Secondo i dirigenti cinesi la partita economica precede oggi quella politica e si gioca tra il valore dello yuan, capace di far fallire il mondo della produzione statunitense, impedendo la ripresa e pregiudicando un bis dei democratici, e la necessità della Cina di colmare il gap di conoscenza e tecnologia per trasformarsi realmente in una superpotenza postcapitalista, fondata su una classe media, con i requisiti per rendere stabile il sorpasso sul Giappone e iniziare quello sugli Usa.
Sia Hu che Obama, in una fase di massima incertezza globale, hanno interesse a non travolgere il precario equilibrio di un «temporaneo G2 necessario», secondo la definizione del premier Wen Jiabao. Gli Stati Uniti, rappresentanti di un´Europa in frantumi, non possono però più permettersi la pazienza cinese e per questo hanno presentato un ordine del giorno in cui i nodi politici della sicurezza mondiale precedono i dossier finanziari e produttivi, fino a costituire la condizione per una soluzione dei secondi.
Affermare che in quattro giorni Hu Jintao e Barack Obama si spartiranno il controllo del mondo per i prossimi venticinque anni, come sintetizzano in queste ore i diplomatici europei, può essere una provocazione tesa a scongiurare un pianeta bipolare. È vero però che alla fine di questa settimana sapremo come Cina e Usa hanno deciso di affrontare le questioni che preoccupano la maggior parte dell´umanità e soprattutto se ancora per un po´ lo faranno formalmente insieme. Lo scontro-simbolo tra dollaro e yuan, con l´euro alle corde, è la punta di un iceberg che sott´acqua vede gli interessi di Pechino e Washington sempre più in rotta di collisione. Dal 2008 gli Stati Uniti hanno perso due milioni di posti di lavoro, emigrati in Cina per effetto dell´outsouricing. Gli Usa importano così merci cinesi per 296 miliardi di dollari, esportando per soli 69. È uno squilibrio commerciale senza precedenti, che alimenta l´impetuosa crescita del Pil di Pechino, l´investimento record nei titoli di Stato dell´Occidente in crisi, l´inedita influenza della Cina negli organismi internazionali e la sua corsa al riarmo. Domani Obama cercherà di convincere Hu che solo arrestando la caduta Usa, rivalutando realmente lo yuan e scongiurando l´esplosione dell´inflazione cinese, può rendere stabile lo sviluppo di una nazione da 1,4 miliardi persone che da trent´anni cresce del 10% all´anno. Il patto a due tra economia, politica e forze armate è reso però difficile da una reciproca sfiducia personale di fondo e le mosse che hanno preceduto l´imminente visita lo dimostrano.
Dopo i cyber-attacchi contro Google e lo scoppio della «guerra dei dazi», che hanno segnato il tempestoso 2010 del G2, la ripresa del dialogo è stata interrotta dal premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo, sponsorizzato da Washington, e dai missili nordcoreani contro il Sud, suggeriti da Pechino. Hu Jintao, alla prima visita all´estero dopo l´assegnazione del Nobel «a una sedia vuota», è deciso a non finire sul banco degli imputati nell´unico Paese in grado di ricordargli il concetto universale di diritti umani.
L´incubo di un´implosione nucleare della penisola coreana, serve così alla Cina per arginare il ritorno dell´interesse militare Usa nel Pacifico, riaffermando il proprio. Il «mistero dello Stealth» è illuminante. Martedì scorso, mentre il segretario alla difesa Gates incontrava Hu a Pechino, l´esercito cinese ha testato il suo primo bombardiere invisibile. La Casa Bianca ha minimizzato la beffa sostenendo che Hu, che si è fatto precedere in America da una serie di spot-tivù propagandistici interpretati dalle star nazionali, sarebbe stato all´oscuro del volo e adombrando uno scollamento tra partito e forze armate in Cina. Ha dovuto poi prendere atto dell´ennesima dissimulazione della leadership comunista, interrogarsi sulle sue ragioni e lanciare l´allarme sul nascente pericolo di «una potenza militare atomica opaca e fuori controllo». Pechino ha risposto che «la valutazione dello yuan dipende esclusivamente da opportunità interne» e gli amici-nemici del G2, compresa la delicatezza dei toni, sono tornati a preparare il vertice di mercoledì in silenzio e convinti dell´inaffidabilità della controparte.
Solo una missione, mentre la Cina si compra il mondo, spinge dunque Hu Jintao a Washington e a Chicago: salvare oggi i suoi creditori per non perdere lo slancio che sta garantendo alla Cina di farli fallire domani, sfilandoli a India, Giappone e infine anche all´Europa. Conquistare il controllo del mondo nel Duemila è l´ultimo compito del suo mandato e su questo si gioca un ritratto su piazza Tiananmen, dove davanti a Mao ha appena riportato anche Confucio.

l’Unità 17.1.11
Più pistole per tutti: perché l’America non controlla le armi
di Harold Evans


Il tasso di omicidi negli Usa cresce di pari passo con la vendita di armi da fuoco. Ma nessuno vuole intervenire. «Non sono le armi ad uccidere la gente»: ve lo sentirete ripetere in tutte le salse. Ma non è così: una sola arma da fuoco può uccidere molte persone in pochi secondi. Un’arma ha la capacità di tradurre la rabbia in strage.
Dare al linguaggio vigliacco e spregevole usato nella lotta politica la responsabilità della sparatoria a Tucson, Arizona, è fuorviante. Il problema non è il linguaggio. È la legge. Dovremmo essere uno Stato di diritto, ma sia i repubblicani che i democratici si sottraggono al compito di approvare leggi che farebbero diminuire il numero degli omicidi. Non sono le armi ad uccidere la gente. Ve lo sentirete ripetere in tutte le salse. È il mantra della National Rifle Association, un mantra che viene ripetuto ad ogni massacro, come un ritornello. «Il male non è nelle armi ma nelle persone che le impugnano», garantisce il repubblicano dell’Arizona Trent Franks su Meet the press. Nessuna legge che introducesse forme di controllo sulla circolazione delle armi potrebbe impedire «a chi decidesse di farlo, di uccidere un’altra persona», gli fa eco il senatore del Tea Party Mike Lee (repubblicano dello Utah) sulla Cnn. È proprio così? Se il folle di Tucson non avesse potuto così facilmente e legalmente procurarsi un’arma e i relativi proiettili, avrebbe potuto scatenare la sua furia contro una folla di persone uccidendone sei e ferendone tredici? Ovviamente no. Sono le armi che uccidono la gente. Una sola arma da fuoco può uccidere molte persone in pochi secondi. Un solo coltello non può fare altrettanto. Un’arma ha la capacità di tradurre la rabbia in strage. L’omicida può avvicinarsi alle vittime nascondendo l’arma per coglierle di sorpresa. Mi si obietta che se anche le vittime sono armate, l’aggressore nemmeno ci prova. Il fatto è che l’aggressore ha sempre il vantaggio della sorpresa.È triste dirlo, ma il fatto di possedere un’arma e di essere una sostenitrice del secondo emendamento (diritto di possedere le armi) non è stato di aiuto a Gabrielle Giffords. Le banche sono ben difese eppure di tanto in tanto vengono rapinate. Il ritornello che le armi non uccidono la gente è un modo vigliacco per sottrarsi alla responsabilità. Sta di fatto che Gabrielle Giffords è in coma, la carriera di un eccellente giudice federale è stata troncata, la piccola Christina Green, di 9 anni, è morta mentre forse stava tentando di imparare come l’America si governa. Ecco come si governa, Christina. Evitando di affrontare il tema del controllo della circolazione delle armi e accusando chiunque osi obiettare di essere un liberal fanatico che vuole sovvertire il secondo emendamento senza prestare alcuna attenzione ad alcuni semplici fatti. In tutti i Paesi occidentali nei quali sono state approvate leggi per il controllo della circolazione delle armi, il numero degli omicidi è enormemente inferiore rispetto agli Stati Uniti. Negli Stati Uniti il tasso di omicidi è di 5,28 per 100.000 abitanti, in Canada dello 0,47, in Australia dello 0,07, in Gran Bretagna dello 0,06 e in Giappone dello 0,05. Il tasso di omicidi negli Stati Uniti è in stretta correlazione con la vendita di armi da fuoco. Più armi più morti, mentre l’incremento del numero di armi in circolazione ha superato l’incremento demografico. Gli Stati con la legislazione più permissiva in materia di armi e con il maggior numero di armi in mano ai privati cittadini – Louisiana, Alaska, Alabama, Nevada – fanno registrare il più alto tasso di omicidi pro capite, stando ai dati provenienti da studi federali del Violence Police Center. Al contrario, gli Stati con la legislazione più restrittiva e con un numero minore di armi in circolazione hanno un tasso più basso di omicidi. Gli Stati migliori per salvare la pelle: Hawaii, Rhode Island, Massachusetts, Connecticut e New York. Se vivete in Nevada avete tre volte più probabilità di morire colpiti da un colpo d’arma da fuoco di un cittadino che vive a New York. I principali fautori di una ragionevole – ripeto: ragionevole – normativa sulla circolazione delle armi sono le forze di polizia. I responsabili delle forze dell’ordine non riescono a capire come sia possibile che la National Rifle Association e i suoi pupazzi del Congresso riescano a bloccare misure che aiuterebbero la polizia a risolvere molti casi e a ridurre il numero di armi in mano ai criminali e alle persone mentalmente instabili. La vigliaccheria della classe politica ha dell’inverosimile. Durante la campagna presidenziale del 2008, il presidente Obama e il suo ministro della Giustizia hanno promesso di reintrodurre il divieto di possedere armi d’assalto. Una volta eletti se la sono svignata. Come molti membri del Congresso, di entrambi i partiti, hanno paura della National Rifle Association. Ma sono proprio gli iscritti a questa associazione e i loro dirigenti che ricorrono regolarmente e senza alcuno scrupolo alla loro capacità di scatenare reazioni isteriche.
I 500 sindaci facenti parte della coalizione nazionale «Sindaci contro le armi illegali» hanno commissionato uno studio al sondaggista conservatore Frank Luntz per conoscere la posizione di 401 membri della National Rifle Association e di 431 possessori di armi da fuoco non iscritti alla associazione.
Due delle domande hanno avuto risposte sorprendenti: 1) È favorevole o contrario all’ipotesi che chi vende le armi controlli la fedina penale dell’acquirente? Risposta: il 69% dei membri della National Rifle Association si è detto favorevole mentre tra i possessori di armi non iscritti all’associazione si è detto favorevole l’85%.
2) Condivide o non condivide la seguente affermazione: «il governo federale non dovrebbe limitare il diritto della polizia di raccogliere, utilizzare e condividere dati che possano aiutare le forze dell’ordine a far rispettare le leggi federali, statali e locali in materia di controllo delle armi». Risposta: il 69% dei membri della National Rifle Association ha detto di condividere l’affermazione e nello stesso modo si è espresso il 74% dei possessori di armi non iscritti all’associazione.
Forse la National Rifle Association è il Mago di Oz. La sparatoria di Tucson è l’occasione giusta per scoprirlo.

l’Unità 17.1.11
«Sesso e potere»
un’egemonia che uccide la gioia dei sentimenti
Per avvicinarci alla cultura sessuale, ecco due saggi anglosassoni che riscuoterebbero scarso successo nelle vetuste cricche italiane non fosse altro perché trattano di diritti e di sessualità consapevole
di Nicla Vassallo


All’estero vivi. Con una libertà educata e coerente, in azioni, costumi, pensieri, cui pare che per gli italiani perduri l’obbligo di rinunciare in patria. Trovi intelligenza, sensibilità, maturità. All’estero non vige il timore d’esprimersi in gesti e parole signorili. La differenza tra vivere entro i nostri confini e al di là di essi si sta trasformando vieppiù in un baratro. A mancare di qua rimane molto troppo ormai? Manifeste alcune cause e ragioni: da una parte il vuoto di una certa polis e di coloro che la governano, dall’altra troppi cittadini-spettatori (televisivi) che si lasciano incantare, perdendo le competenze di votare propriamente.
Eccoci a una democrazia il cui il potere non è a tutti gli effetti consegnato nelle mani del popolo e allora che democrazia è? Una democrazia in cui un pilastro rimane una magistratura, che occorre difendere dagli assalti costanti di chi non la rispetta, di chi l’accusa di complottismo. Una magistratura che fa parte della cultura.
Democrazia e cultura proseguono di pari passo. Di fronte a un governo incolto, eppure accorto nel controllare la cultura (tagliando a essa ogni risorsa economica) e nel deprezzare la democrazia, non si capisce in qual modo reagire, se non con massima indignazione, proseguendo (per quanto si riesce, a fatica) a fare cultura, ad acquisirla, a trasmetterla. A difendere le proprie posizioni, argomentando, non rincorrendo agli insulti, alle epurazioni, alle telefonate.
Dei tanti contenuti culturali, nel nostro paese viene assolutizzato quello sessuale. Giornali e televisioni vi puntano in misura notevole, mentre la prostituzione prolifera nelle menti, nei corpi, nei sentimenti di parecchi. Per questo all’estero diventiamo sempre più famosi, per le irrefrenabili pene sessuali che conducono cricche veterane verso giovani e minorenni fissazioni patologiche che offendono ogni senso del pudore e ogni opportunità di una politica onorevole. O è banale apparenza? Forse, non ci troviamo al cospetto di una vera e propria cultura sessuale, bensì dell’imposizione dell’ennesima egemonia che non coltiva le sessualità, le strumentalizza, uccidendo il potere espressivo e creativo delle manifestazioni amorose, dei sentimenti puri, del sesso elegante.
Come avvicinarsi alla cultura sessuale? Grazie a due volumi che riscuoterebbero scarso successo in quelle cricche veterane, non fosse altro perché trattano di diritti e ragionamenti.
Momin Rahman, sociologo, e Stevi Jackson, professore di Women’s Studies (da noi chi ha una qualifica ufficiale così?) propongono in Gender & Sexuality (Polity Press, Cambridge) una prima domanda da non eludere: «Cosa pensi del matrimonio tra persone del medesimo sesso?». Non occorre essere omosessuali, né femministe per sollevarla; è sufficiente riconoscere a ogni individuo il diritto di vivere le proprie scelte e i propri amori in senso pieno, fino ad aspirare ai tanti doveri che ogni matrimonio richiede. Ciononostante, a importare rimane l’occasione di connettere i femminismi agli studi critici sulle sessualità, sulle variazioni e le connessioni dei concetti di sesso e di genere, sulle trasmutazioni delle nostre identità che mescolano maschile e femminile, sulla necessità di affrontare le preoccupazioni di tutti noi, sulla nostra esistenza, nelle sue tante declinazioni, pure storiche e geografiche, nel suo credibile contrasto tra individualità e comportamenti.
Nonostante offra un approccio sociologico, Gender & Sexuality sembra fantascienza da noi, dove il problema si limita da tempo al decifrare gli atti immorali e illeciti delle veterane cricche di potere, potere in troppi sensi del termine.
Che fare, allora? Provare con la filosofia. Raja Halwani, accademico che insegna a Chicago, ci regala Philosophy of Love, Sex, and Marriage (Routledge, New York & London). L’amore, ovvero l’infatuazione, l’emozione, l’eticità, la profondità, la sessualità, l’unione, soprattutto un attaccamento che si fonda su ragioni personali, relazionali, nonché sulle caratteristiche di sé e dell’amato/a. Il sesso, ovvero l’adulterio, il desiderio, le fantasie, le oggettificazioni, il piacere, le perversioni, la pornografia, la promiscuità, la prostituzione, le virtù, i vizi qui sfioriamo alcuni punti del problema che domina il «bel paese», ma, se ti trovi a leggere il volume in una biblioteca di una buona università all’estero, i tuoi pensieri non vanno certo a quali proprietà (o improprietà) del concetto di sesso sono giunte a concretizzare e ridicolizzare le nostre cricche veterane. Matrimonio, poi, con la difficoltà di offrire una sua buona definizione che abbia un’efficace portata generale, senza risultare ancorata a uno specifico periodo, matrimonio che nel mondo occidentale contemporaneo si confronta con la monogamia, con ciò che rappresenta sul fronte amoroso o sessuale, e, nuovamente, anche per Raja Halwani, matrimonio che avviene tra persone del medesimo sesso.
Uscito da quella università, atterrato sul suolo nazionale, vieni risucchiato da bizzarre processioni speculative sui «teoremi contro di lui» (ma qual è il significato di teorema?) e il tutto si trasforma in complotto, mentre si dissolve la convinzione che il matrimonio (in senso reale e metaforico) debba consistere in qualcosa di serio e onesto.
I problemi non paiono essere quelli dei diritti umani e civili (lavorare e sposarsi, per esempio), ma piuttosto quelli di pornografizzare e opprimere la realtà. Del resto, è facile, a volte basta qualche telefonata. Cosa rimane d’importante? La speranza di chi non cede alla prostituzione generalizzata,
di individui che lottano per il proprio lavoro pulito, che lo svolgono con coscienza, senza rassegnarsi a quell’ottica da Grande Fratello orwelliano cui risulta assurdo comprendere chi rifiuta di prostituirsi. Speranza in chi vota per i propri diritti, in chi lotta per testimoniare la legalità e farla rispettare. Speranza nella dignità.

Corriere della Sera 17.1.11
Torna a splendere l’azzurro di Piero della Francesca Corretti gli errori dell’ 800
Il restauro restituisce un capolavoro del Rinascimento
di Paolo Conti


«La Madonna di Senigallia ha un posto particolare non solo nella vicenda pittorica di Piero della Francesca ma anche della stessa storia complessiva dell’arte italiana. Assistiamo a una straordinaria simbiosi tra la grande tradizione artistica nostrana, con la meravigliosa misura di questa Madonna monumentale perfettamente inserita nella scatola prospettica della stanza. E insieme ecco il mondo nordico, la pittura fiamminga appresa sicuramente da Piero a Urbino nella raffinatissima reggia di Federico da Montefeltro, con quella finestra semichiusa dalla quale penetra un getto di luce capace di regalare un pulviscolo dorato a tutti i personaggi ma soprattutto all’angelo sulla sinistra. Un autentico capolavoro» . Una breve risata: «Quell’angelo, con i suoi capelli color sole e dunque color oro, sembra appena uscito da un parrucchiere...» Antonio Paolucci, ex storico soprintendente fiorentino e già ministro per i Beni culturali, ora è attivissimo responsabile dei Musei Vaticani. Ma in questo caso, con la colta ironia che tutti gli riconoscono, parla da curatore dell’imminente mostra monografica dedicata a Melozzo da Forlì («Melozzo da Forlì. L’umana bellezza tra Piero della Francesca e Raffaello» ) che aprirà il 29 gennaio proprio a Forlì, nei Musei di San Domenico. Paolucci è entusiasta. Per la mostra (realizzata anche grazie all’intervento della Cassa dei Risparmi di Forlì che ha finanziato sia la rassegna che le operazioni di restauro) è tornato al suo antico splendore quel magnifico capitolo della produzione di Piero della Francesca, artista tanto studiato quanto ancora povero di certezze biografiche. La Madonna di Senigallia, secondo molti critici, appare come un gruppo «in cammino» : il taglio al busto suggerisce l’idea che i personaggi stiano camminando nella direzione dell’osservatore. La Madonna dunque idealmente deambula, e così l’angelo maschile sulla sinistra (che guarda negli occhi il visitatore) e quello femminile sulla destra. I simboli sono numerosi e particolarmente affascinanti. Il Bambino benedice con la destra e nella sua mano sinistra tiene stretta una piccola rosa bianca, richiamo esplicito alla purezza della Vergine sua madre, mentre al collo ha una collana di coralli rotondi con un pezzo non lavorato come pendaglio, antichissimo simbolo di protezione dei bambini: ma nelle scene artistiche sacre ha sempre avuto un valore di profezia della Passione e Morte del Cristo per il colore rosso-sangue. Gli angeli sono pressoché identici a quelli che appaiono nella famosissima Pala di Brera e c’è chi pensa all’intervento di copia di allievi della bottega di Piero. Il dipinto (olio su tela supportato da una tavola di noce), esposto permanentemente nella Galleria Nazionale delle Marche, ha avuto una vita avventurosa. Venne rubato dal palazzo Ducale di Urbino il 6 febbraio 1975 con «La flagellazione di Cristo» . I due capolavori vennero ritrovati il 22 marzo 1976 a Locarno, in Svizzera. Per fortuna non ebbero alcun danno. Il restauro, affidato all’Istituto Superiore per il restauro guidato da Gisella Capponi, segue di oltre mezzo secolo quello già molto accurato e voluto da Cesare Brandi nel 1953 sempre all’Istituto (venne affidato alle mani di Paolo e Laura Mora). A Brandi e ai Mora si devono avanguardistiche (per i tempi) indagini conoscitive (fotografie alla fluorescenza degli ultravioletti, radiografie, sezioni stratigrafiche) che analizzarono alcuni aspetti della tecnica come «l’estrema sottigliezza... della preparazione» e l’uso dell’olio di lino nella mistura dei colori (ovvero nella mestica, in termini pittorici). In più venne raddrizzata la tavola stessa, di supporto al dipinto, che tendeva a curvarsi. Ma il restauro di questi giorni (che è costato il piano ferie al nucleo dei migliori restauratori dell’Istituto Superiore, proprio per consegnare il dipinto nei tempi previsti) ha veramente ripristinato una struttura originale. Spiega infatti Gisella Capponi, che ha assunto la guida dell’Istituto nel settembre 2009: «Il lavoro, posso affermarlo, è stato veramente puntualissimo. I restauratori si sono soprattutto impegnati a togliere di mezzo gli interventi di ridipintura ottocenteschi sulle numerose lacune della tavola. In quel periodo si tendeva a ridipingere con generosità, allargando quindi di molto l’area di intervento e sovrapponendosi troppo spesso al colore originario della mano di Piero. Di fatto le risarciture e le reintegrazioni avevano finito con il creare un grave danno alla complessiva leggibilità dell’opera. In più la verniciatura aveva ingiallito i toni cromatici» . I restauratori hanno agito (armati di stereomicroscopio) con il Solvengel, un supportante di un solvente che permette al liquido di non penetrare troppo nella tavola consentendo così di asportare la pittura ottocentesca senza creare danni a quella di Piero della Francesca. Così sono riapparse le lacune. Ancora Gisella Capponi: «Ma stavolta abbiamo agito con leggerezza con l’acquarello operando a tratteggio e limitandoci, con estremo rigore, nell’ambito delle mancanze» . L’aver cancellato la riverniciatura ha permesso di ritrovare anche il nitore del fascio di luce che appare dalla finestra. Di far riemergere i grigi, gli azzurri, i cilestrini, l’oro sparso nell’aria, il rosso del corallo, le vesti degli angeli e di rivederli nell’equilibrato sfolgorio voluto da Piero. Gisella Capponi è sicura che il restauro «permetterà nuove analisi critiche e soprattutto ora permetterà di studiare con maggiore profondità gli sfondi, dunque il mobilio, la stessa finestra. Sarà un po’ come "riscoprire"la Madonna di Senigallia» . Con la Madonna di Piero a Forlì verranno esposti altri due meravigliosi restauri, quelli del «San Marco Evangelista» e «San Marco Papa» proprio di Melozzo da Forlì, realizzati per la chiesa romana di San Marco in piazza Venezia. Un restauro molto difficile, diretto da Carla Raffaelli, visto il cattivo stato cromatico delle opere. Ma comunque molto efficace.

Corriere della Sera 17.1.11
Hina, storia senza rimorso «Sbagliava, l’ho uccisa»
Il padre mai pentito: la libertà ci ha rovinato
di Gian Antonio Stella


«I o in Pakistan sarei stato condannato, ma non a trent’anni. A trenta non è giusto. Ho ucciso mia figlia, ma questa è "mia"figlia» . Cinque anni dopo avere sgozzato Hina da orecchio a orecchio, come un capretto, Muhammad Saleem non è per niente convinto d’aver fatto una cosa mostruosa. E non si dà pace. Non si dà pace perché lì in galera non può assolvere il suo dovere di capofamiglia con la moglie e i bambini piccoli. Perché ha coinvolto nel delitto Zahid e Khalid, i fratellastri che aveva preso come mariti per le altre figlie. Perché non si perdona di essere venuto via dal suo Paese per trovare un lavoro in una fonderia bresciana: «In Pakistan non sarebbe successo, perché non c’è discoteca, non c’è la donna libera, non come qua, non così» . Nossignore: «Una libertà così non va bene, troppa libertà per la donna. Anche per l’uomo» . Il rimorso, però, no. Questa è la certezza, sconvolgente, che dà la lettura della sua prima intervista. Concessa nel carcere di Ivrea a Giommaria Monti e Marco Ventura. Due giornalisti dai percorsi diversi, il primo a lungo collaboratore di Michele Santoro, il secondo inviato del «Giornale» e successivamente nello staff di Palazzo Chigi, uniti dalla voglia di capire che cosa accadde quell’ 11 agosto 2006 a Zanano di Sarezzo, nella bassa Val Trompia. E autori del libro Hina. Questa è la mia vita (Piemme, pp. 308, e 16) che, in libreria da domani, ricostruisce «come» lo scontro frontale fra due mondi inconciliabili, «quello cristallizzato del padre e quello magmatico della figlia adolescente in una società come quella bresciana dove tutti lavorano e gli "estra"producono una ricchezza calcolata in quattro miliardi di euro l’anno» , sfociò in un omicidio terribile che scosse l’Italia. È un detenuto modello, Muhammad: «Sembra l’uomo più pacifico del mondo, incapace di fare del male. Sembra l’incarnazione del padre buono e severo per il quale esistono solo il lavoro, la famiglia e la moschea» . Esattamente come lo ricorda il maresciallo dei carabinieri Antonio Indennitate: «Mai uno scatto d’ira o una parola fuori posto. Un capofamiglia, una persona rispettata. Era uno che nella comunità pachistana riscuoteva molto rispetto e molta stima» . Uno «autorevole» . Al punto che la vicina di casa che la sera del delitto vide i generi di Saleem scavare nell’orto come se dovessero seppellire una bestia, ricorderà che lui non scavava: dirigeva. In realtà, scrivono Monti e Ventura, Muhammad Saleem «è due volte prigioniero: del carcere e della sua tradizione» . E se vogliamo pure del ruolo che, su consiglio degli avvocati, si è cucito addosso. All’inizio, quando si presentò ai carabinieri del paese, disse: «Maresciallo Antonio, ora sono in pace con me stesso, ho ritrovato la mia tranquillità» . Ora no. Continua a ripetere che era accecato «dalla vergogna» : «Non volevo ucciderla. Non volevo ucciderla» . E spiega che no, per carità, lui non ha «mai picchiato i bambini» . Neanche Hina? «Non l’ho mai picchiata» . Il bastone? «Non c’era nessun bastone» . Come poteva? «Io sono un bravo padre» . La figlia aveva paura di lui? «Non capisco» . E giura: «Mai, mai ho sbagliato con Hina. Mai. Io non volevo che mia figlia fosse troppo libera, che si drogasse...» . Dice che gli hanno dato trent’anni («mi piace di più la condanna a morte» ) perché tante persone «odiano i musulmani, vogliono togliergli la libertà, non so perché, forse perché c’è il terrorismo» . Anche se, assicura, la religione «non c’entra» . Dice che quel giorno è successo tutto per sbaglio, che litigarono perché la figlia «voleva mille euro» , che fu lei a tirar fuori il coltello e che lui glielo strappò e poi tutto è confuso nella sua memoria. Ma al processo, ricordano Monti e Ventura, il pm Paolo Guidi ammonì: «Le è stato impedito per sempre di parlare e di vivere, ma il suo corpo parla e dice l’ultima parola. Un corpo martoriato da più persone che l’hanno aggredita col solo e unico scopo di ucciderla» . L’autopsia non lasciò dubbi: «Nove ferite al collo, sette al volto, otto all’arto superiore destro, due all’arto superiore sinistro e due alla superficie anteriore del torace» . Più di ogni altra cosa, parlava «una tipica lesione da "sgozzamento"o "scannamento"» . Lui sospira: «Tutta la vita sempre ho rigato dritto, non ho rubato, mai fregato. Questa Italia ci ha rovinato, ha rovinato tutto, ha ammazzato tutta la mia famiglia. Senza padre e senza marito, sono morti anche loro» . Quando la moglie Bushra va a trovarlo, dice, non parlano «mai di Hina perché fa male, fa sempre male» . L’orrore, il sangue, la riprovazione morale, il processo, la condanna, la detenzione, il confronto con gli altri detenuti non hanno spostato di un millimetro la sua visione del mondo, della vita, dei valori. Imbullonata al Pakistan, al rigido e rassicurante piccolo mondo antico di Gujrat, alla religione, che con bizzarro strafalcione chiama «regione» : «Io non la mandavo in piscina, è vero. In piscina non ci andava perché per la nostra regione non si può» . Fine. Certo, fu «giusto mandarla a scuola, però la scuola le ha cambiato la vita. Voleva vivere come le sue amiche, questa è la verità. Io non volevo e lei voleva» . Maledetta scuola: «Prima era molto, ma molto brava» , ma «quando ha cominciato le superiori ha cambiato cervello» . Aveva tutto chiaro, lui: «Ho scelto io i mariti delle mie figlie. Glieli ho presentati io. Anche io e Bushra ci siamo sposati così, e prima di noi i nostri genitori» . Perché cambiare? Anche a Hina aveva pensato: «Avevamo scelto un cugino» . Lei disse no. E forse anche quella volta buttò in faccia a suo padre quella frase che Muhammad non poteva capire e che dà il titolo al libro: «Questa è la mia vita» . Dice che non sa perché ha voluto seppellirla nell’orto: «Nella mia mente c’era solo che mia figlia era tornata a casa. Quando è morta pensavo solo a questo, ad averla vicina, a casa mia (...) pensavo solo: ecco, è tornata, è di nuovo a casa» . Proprietà privata.

L’espresso 3.2011
Metti la Cina sul lettino
Era data in crisi a causa delle neuroscienze. Invece la psicoanalisi ha un nuovo presente e un promettente futuro nelle terre vergini, da Mosca a Delhi a Pechino. Rapporto su una sfida non senza polemiche
di Stefania Rossini


La psicoanalisi parla cinese, russo, coreano, arabo, indiano. Supera vecchie frontiere culturali e invade territori ancora vergini. Si insinua tra il pensiero di Confucio e l'obbedienza a Maometto, compromettendone il primato nel dominio dell'animo umano. Quello che fino a pochi anni fa sembrava impossibile sta avvenendo: la globalizzazione ha piegato alle sue leggi anche la disciplina più riservata per natura e meno incline per struttura a misurarsi con i cambiamenti del mondo. Mentre in Occidente il dominio degli psicofarmaci e l'emergenza economica ne hanno un po' appannato lo smalto, facendo diminuire i pazienti non più disposti a terapie lunghe e costose, ecco aprirsi paesaggi sconfinati che forse l'arricchiranno nei contenuti, forse la modificheranno nei metodi, ma certo la stanno chiamando a una nuova avventura.
I primi a rilanciare la psicoanalisi con l'entusiasmo e la fretta di un ritorno alla vita, sono stati i paesi dell'ex Unione sovietica, che dopo mezzo secolo di isolamento hanno ritrovato le tracce del loro contributo alla stagione dei pionieri, quando molti dei seguaci di Freud provenivano dall'Europa dell'Est (come Wilhelm Reich o Lou Andreas-Salomé) e i più ricchi pazienti erano russi (come il giovane aristocratico che ispirò "Il caso clinico dell'uomo dei lupi"). A Mosca, in particolare, va oggi crescendo un interesse culturale e clinico che sembra recuperare lo slancio dei primi decenni del secolo scorso, quando si formò quella curiosa alleanza fra psicoanalisi e bolscevismo sotto la protezione di Trotskij che aveva vissuto a Vienna, era amico di Adler e sapeva far uso di concetti freudiani. Come si sa, Stalin azzerò ogni attività confinandola nella clandestinità fino all'estinzione, con l'unica eccezione dell'Ungheria dove alcuni psicoanalisti riuscirono a sopravvivere, probabilmente per la forte impronta lasciata da quel genio della psiche che era stato Sándor Ferenczi. Ma alla caduta del Muro, anche a Praga, a Bucarest, a Varsavia, a Kiev, a Vilnius, fino a isolate città della Siberia, si sono ricostituiti gruppi di analisti, mentre l'editoria sforna migliaia di copie di saggistica psicoanalitica, compresi i classici che il regime aveva messo sotto chiave nelle biblioteche di Stato, rendendoli accessibili soltanto a chi dimostrava di voler criticare quel decadente pensiero borghese.
Sarà perché, come pensava Freud, i popoli slavi hanno una predisposizione particolare all'indagine dell'inconscio, sarà perché il ritorno alla libertà invita a prendersi cura delle ferite proprie e di quelle altrui, o sarà per compensare il tempo perduto, ma la fortuna della psicoanalisi nell'Est europeo sembra destinata ad aumentare. "Lo sgretolamento della società totalitaria ha fatto ricadere sugli individui problemi di sopravvivenza che sollevano angosce prima affidate in gran parte alle strutture sociali. Ora ognuno è costretto a fare conto sulle forze del proprio io", dice lo psicoanalista triestino Paolo Fonda, responsabile del The Han Groen Prakken Psychoanalytic Institute for Eastern Europe che da vent'anni si occupa della rinascita della psicoanalisi nei paesi ex sovietici. D'altra parte il trauma del comunismo irrompe spesso da un passato da rielaborare, come si deduce dalle centinaia di pazienti che si sono già sdraiati su un lettino. Molti di loro hanno raccontato storie agghiaccianti, come quella del giovane universitario che nel 1995 si vide recapitare una lettera del Kgb in cui gli si chiedeva scusa per l'uccisione del nonno paterno e di quattro zii, ora riabilitati. Il ragazzo apprendeva in quel modo un segreto famigliare che suo padre, unico sopravvissuto, aveva custodito per decenni.
Ma se l'Europa dell'Est sta riannodando il filo interrotto della propria storia, riavvicinandosi alla famiglia comune, i nuovi mondi che si appropriano dei saperi freudiani fanno interrogare la psicoanalisi sull'universalità dei propri assunti e sulla possibilità che questi trovino casa anche in contesti culturali del tutto diversi. Ad esempio, in Libano, dove è già presente un gruppo di analisti ufficialmente riconosciuti e nei paesi del Maghreb, dove se ne stanno formando altri, la sfida è alla concezione patriarcale islamica, mentre in India, dove l'insediamento è più antico, l'analista Jhuma Basak vede la psicoanalisi come un fattore di emancipazione e un contenitore dei cambiamenti in atto. Il confronto più impegnativo con l'alterità si gioca però nell'ultima frontiera, quella fino a ieri davvero impensabile: la Cina. Ed è per questo che l'International Psychoanalytic Association, l'organismo fondato da Freud nel 1910 per garantire la corretta diffusione della psicoanalisi nel mondo, ha voluto celebrare a Pechino con una conferenza internazionale, il centenario della sua fondazione.
Solo trent'anni fa un intellettuale acuto come Roland Barthes, nel saggio "Alors la Chine", si diceva sicuro che la teoria dell'inconscio non avrebbe mai interessato i cinesi perché questi sono "un popolo senza isteria", senza cioè quel primo eclatante sintomo del corpo che aveva indirizzato Freud a indagare la psiche. È invece accaduto che i primi psicoanalisti europei siano stati chiamati in Cina nel 1983, proprio per una consulenza su un caso di isteria di massa nell'isola di Hainan: tremila persone cadute preda di una sindrome collettiva dovuta alla credenza che spiriti maligni stessero facendo rientrare nel corpo degli uomini il pene e in quello delle donne i seni e la vulva. Fu un buon inizio perché da allora le visite e le conferenze degli occidentali, soprattutto tedeschi e norvegesi, si sono moltiplicate, fino all'attuale esplosione di interesse che vede una grande produzione di saggi , di articoli divulgativi e di siti Internet.
Resta aperto il delicato problema della formazione che in questa fase difficilmente potrà seguire le rigide regole codificate in un secolo di psicoanalisi (quattro sedute a settimana per molti anni), ma dovrà almeno in parte adattarsi alla flessibilità già sperimentata per i paesi dell'Europa dell'Est: soggiorni periodici di alcuni mesi in Occidente, settimane e weekend intensivi. Per ora, i "veri" analisti si preparano interamente all'estero, mentre in Cina i training sono indirizzati prevalentemente a formare psicoterapeuti ad indirizzo psicoanalitico. È il punto che suscita più discussione in una parte della comunità psicoanalitica internazionale, insieme a quello della profondità delle differenze culturali e delle insidie che vi si nascondono. Ci si interroga su come potrà adattarsi una costruzione profondamente europea, nata sul modello di una famiglia nucleare di tipo borghese, al collettivismo cinese e alla famiglia allargata. Ma se il timore di alcuni è che sia proprio la psicoanalisi a uscirne trasformata, quanti si occupano con continuità delle nuove frontiere si augurano che ciò avvenga. Lo ha detto con chiarezza il presidente dei gruppi internazionali della Società psicoanalitica (New Ipa), Jorge Canestri che, parlando a un pubblico di cinesi, americani, europei, coreani, giapponesi e indiani, ha affermato: "La trasmissione della psicoanalisi, specie se si verifica in contesti culturali molto diversi, non va a senso unico, ma produce una fecondazione reciproca di culture, di teorie e di visioni del mondo con il risultato di arricchire l'intero pensiero psicoanalitico".
Dalla Cina, che perde Confucio per abbracciare Freud, può cominciare insomma il secolo secondo della psicoanalisi. n

L’espresso 3.2011
Più che Narciso poté la vergogna
Come cambierà il linguaggio dei seguaci di Freud
colloquio con Maria Teresa Hooke
di Stefania Rossini


Maria Teresa Hooke, già presidente della Società psicoanalitica australiana, è stata, con la cinese Yang Yunping, responsabile dell'organizzazione della conferenza "Freud e Asia", che si è svolta lo scorso autunno a Pechino, primo incontro ufficiale tra i maggiori esponenti della psicoanalisi internazionale e i terapeuti a orientamento psicoanalitico che si vanno moltiplicando in Cina e in tutto l'Oriente. A lei chiediamo i risultati di un incontro fino a ieri impensabile nell'ambiente tradizionalmente chiuso dei discendenti di Freud.
Qualcuno ha parlato di un congresso storico.
"Credo che sia la parola giusta. Ci siamo incontrati a compimento di un lavoro di contatti e di formazione fatto in Cina per anni da psicoanalisti tedeschi, norvegesi e americani. Erano presenti anche tutte le altre società asiatiche che si rifanno alla psicoanalisi. Ma la vera sorpresa non siamo stati noi per loro, bensì loro per noi. Molti dei delegati occidentali non si aspettavano di trovare gruppi organizzati e altamente sofisticati nelle conoscenze e nella pratica".
Resta però un interrogativo ineludibile. Come può la Cina, con la sua cultura millenaria e la sua storia presente, fare propria una disciplina con radici così profondamente europee?
"È il problema che ci siamo posti lungo tutti i lavori del congresso, con gli occidentali preoccupati che la psicoanalisi vada incontro a trasformazioni e i cinesi impensieriti di subire una colonizzazione culturale. Perché ciò non avvenga, è necessario uno scambio continuo di concetti, di esperienze, di miti e di parole che possono avere riferimenti diversi".
Per esempio?
"I cinesi sono molto interessati alle teorie sul trauma e sulla sua trasmissione attraverso le generazioni. Ma il trauma va declinato nel loro contesto, che è quello della rivoluzione culturale, con milioni di persone perseguitate e uccise".
Sono passati più di trent'anni...
"Il tempo non conta perché di quella tragedia in Cina non si può parlare e il trauma non può essere elaborato come è avvenuto in Germania, dove fa parte della storia. I pazienti che oggi si rivolgono alla psicoanalisi sono i discendenti degli uomini e delle donne uccisi nella rivoluzione culturale. Portano un dolore tremendo che è stato trasmesso nel silenzio e nel segreto storico e familiare".
C'è senso di colpa per quanto è avvenuto?
"La cultura asiatica conosce la vergogna, più che la colpa. A un altro livello, lo si vede anche quando mostriamo, attraverso filmati, il trauma dei bambini staccati precocemente dai genitori. C'è una forte reazione di vergogna perché in Cina è diffusa l'abitudine di lasciare i neonati ai nonni o, in passato, nei kindergarten di Stato".
Che ne sarà di concetti classici, come il complesso di Edipo, nel passaggio dalla famiglia occidentale a una società così collettiva?
"Siamo talmente all'inizio che è difficile dirlo. Ma credo che, con qualche inevitabile aggiustamento, i fondamenti della psicoanalisi rimarranno intatti perché sono universali. Come sono universali i problemi umani che riscontro nei pazienti cinesi, scontando il contesto diverso".
Un contesto che oggi è fatto anche di una corsa alla produzione e al consumo. È arrivata anche la cultura del narcisismo?
"C'è una forte spinta verso i problemi dell'individuo e questo spiega anche il forte interesse per la psicoanalisi. Ma la transizione dalla società collettiva è appena cominciata e la cultura del narcisismo, come la conosciamo in Occidente, non ha ancora fatto il suo debutto".

L’espresso 3.2011
Oscar a perdere
Guadagnino e Bellocchio conquistano gli Usa. Ma noi per vincere la statuetta abbiamo scelto Virzì. Sarà un'impresa. Che non accade da più di dieci anni. Ecco perché
di Alessandra Mammì


Visti da Hollywood, dobbiamo sembrare parecchio strani. Per quel che ne sanno loro dall'Italia arriva un film (bello) che concorre all'Oscar come migliore opera in lingua straniera, scelto quasi all'unanimità da apposita commissione di produttori ed esperti: ed è "La prima cosa bella" di Paolo Virzi. Poi c'è un altro film (bello) che la suddetta commissione non ha amato quasi per niente, ma che ha conquistato la critica in America, si è piazzato nella cinquina dei Golden Globe ed è pronto a concorrere in tutte le categorie dell'Oscar tranne che in quella come miglior film straniero: ed è "Io sono l'amore" di Luca Guadagnino con una straordinaria Tilda Swinton. Infine c'è un terzo film (bellissimo) che avrebbe dovuto esser scelto nel 2010 al posto di "Baària": ed è "Vincere" di Marco Bellocchio. Il "New York Times" lo promuove come uno dei migliori della stagione, meritevole di nomination come film, attrice (Giovanna Mezzogiorno) e attore (Filippo Timi). Peccato che per cavilli burocratici (o distrazione dei distributori americani) "Vincere" non è iscritto al concorso e quindi non può vincere niente.
Ad aggiungere confusione a confusione, c'è la polemica che dilaga. Guadagnino rimprovera alla commissione di non aver saputo capire le potenzialità del suo film. Virzì rimprovera a Guadagnino di parlare male di lui invece di fare un gioco di squadra. Giampaolo Letta amministratore delegato di Medusa (produttore del film di Virzì) gonfia il petto e avverte Guadagnino che "il suo atteggiamento mette in discussione l'operato di un'intera commissione". E allora? Non si può fare? Sinceramente sulla lungimiranza di queste commissioni ci sarebbe parecchio da discutere. Tabelle alla mano è da anni che sbagliano film. O meglio strategia. Perché per vincere un Oscar non basta che il film sia bello: è necessario che piaccia all'Academy. "La vita è bella" (ultimo Oscar vinto nel 1999) non era solo un bel film, ma era perfetto per Hollywood. Riprovarci con "Pinocchio" sperando nel tocco magico di Benigni fu un errore. Come è stato un errore insistere con Tornatore dopo "Nuovo cinema Paradiso". Fu riproposto altre tre volte ottenendo una sola nomination e la bruciante esclusione di "Baarìa": kolossal nato per vincere, grazie ai muscoli di Medusa, le musiche di Morricone, i volti da esportazione (come la Bellucci) e l'epopea con tutti i cliché che gli americani avrebbero dovuto amare. E invece, col senno di poi, si capisce che avrebbe avuto più chance il potente, scomodo e coraggioso, quasi caravaggesco ritratto del Duce dipinto da Bellocchio in "Vincere".
Errare è umano, perseverare invece... Perché di errori ne son stati fatti tanti. Si era sicuri di "Gomorra" anche per il sostegno di Scorsese e invece l'Academy lo snobbò. Fu il "Divo", invece, uscito in Usa l'anno dopo, a portare a casa un premio di consolazione per il trucco. Non si lottò abbastanza per "No man's land" (prodotto in Italia con soldi di Fabrica) e lasciammo ai bosniaci la soddisfazione di alzare la statuetta, mentre noi restavamo storditi a guardare la "Stanza del figlio" di Nanni Moretti non raggiungere neanche la cinquina. Cos'è che non funziona più? Perché un tempo (vedi tabella) era tutta una conquista di podi e nomination, e ora è un'esclusione dopo l'altra? La risposta di Marco Bellocchio è diretta: "In una situazione di duopolio la commissione è troppo condizionata della due major Rai e Medusa che indirizzano spesso la scelta non sui film più interessanti o che hanno probabilità di vincere, ma su quelli di grande produzione. La legge del più forte non sempre coincide con quella del più bello". "Quello che dice Bellocchio", commenta Virzì, "è vero, ma non è un fenomeno solo italiano. Avviene dappertutto, specie negli Usa dove anche nella competizione dei 65 stranieri, i titoli Sony Classic godono di un'impari potenza promozionale. La differenza con l'Italia è che la Paramount non è riconducibile al capo del governo. Questo conferisce un senso di ingiustizia a quella che altrove è fisiologia di rapporti di forza industriali, alimentando rancori ed impedendo un sano gioco di squadra".
Eppure, persino nella patria delle major capita che il forte "Avatar" sia umiliato dal bel " The Hurt Locker" della Bigelow. Da noi invece contrastare l'influenza del duopuolio è più difficile, sebbene a questo scopo i meccanismi che regolano la commissione siano stati modificati quasi ogni anno. Secondo Andrea Occhipinti, fondatore della Lucky Red e giurato insieme ad altri 15 signori scelti dall'Anica - tra cui due premi Oscar (Gabriele Salvatores e Dante Ferretti), produttori (Aurelio De Laurentiis o Paolo Ferrari della Warner), critici e giornalisti (Roberto Escobar, Gloria Satta o Alberto Crespi), "una simpatica lobby ha spesso escluso i buoni film indipendenti. Quest'anno l'introduzione del voto segreto è stata un passo avanti, come lo sarebbe l'allargamento della commissione a più figure super partes, meno coinvolte nelle produzioni". Ferretti da Londra spiega come "la scelta di Virzì sia giunta come conclusione su quale fosse il volto dell'Italia più vicino alla realtà", e osserva: "I tempi sono cambiati. Se una volta concorrevano all'Oscar straniero quasi solo le cinematografie europee, la globalizzazione ha moltiplicato i concorrenti. Dagli anni Novanta a oggi si è passati da 45 a 65 titoli contro cui combattere".
Ma invece di studiare piani di battaglia contro il nemico globale, i nostri candidati si insultano in inglese sulle colonne dell'"Hollywood Reporter". Che titola "Exclusive: battle of the italian contenderes gets ugly". E per raccontare la battaglia che si fa dura, raccoglie gentili osservazioni di Guadagnino che stigmatizza i film che sembrano remake dei "Vitelloni" senza Fellini. Mentre Virzì ricorda a Guadagnino che "Io sono l'amore" sarà pure andato bene in America ma è stato un flop in patria ed è bizzarro pretendere che come miglior film italiano se ne indichi uno che agli italiani non è piaciuto.
Giusto. Però quando si parla di Oscar bisognerebbe giocare per vincere. E applicare tutte le strategie per portarselo casa. Compresa quella di smetterla di litigare. Guadagnino promette: "Lasciatemi dire "Forza Paolo" e chiudiamo le polemiche perché un Oscar è economia allo stato puro, che premia non solo il cinema ma l'intera immagine del made in Italy". E allora concentriamoci sul fatto che quest'anno ben tre nostri film sono stati sotto le luci della ribalta. E due di loro hanno ancora forti chance di vincere. Zitti tutti e incrociamo le dita.