giovedì 20 gennaio 2011

l’Unità 20.1.11
Sit in piazza organizzati dal partito democratico: «Bisogna fare qualcosa, non possiamo stare zitte»
A testa alta davanti al premier «Il voto delle donne ti caccerà»
Migliaia di adesioni all’appello alle donne del direttore de l’Unità per dire basta alla politica fatta di bunga bunga. E ieri sit-in delle donne Pd sotto Palazzo Chigi: «Berlusconi dimettiti».
di Maria Zegarelli


Oltre duemila adesioni, nel giro di poche ore all’appello alle donne lanciato dal direttore de l’Unità Concita De Gregorio «per dire basta» alla cultura del bunga bunga, delle escort, delle puttane più o meno di lusso, più o meno minorenni, recapitate a casa come «pizze». Basta alla compravendita di cose e persone senza differenza alcuna e ad un presidente del Consiglio che pensa di essere al di sopra di ogni cosa, neanche fosse Dio, compresa la legge. Non è vero che le parole cadono sempre nel vuoto, che il Paese è come anestetizzato, incapace di indignarsi. Ieri dopo poche ore in redazione e sul sito on line sono arrivate centinaia di adesioni, da Susanna Camusso, segreteria generale Cgil, Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd, Maria Ida Germontani, senatrice di Fli, Flavia Perina, direttrice del Secolo d’Italia, Carla Cantone, segretaria della Spi Cgil, Dacia Maraini, Barbara Alberti, Evelina Christillin, Alba Parietti, Emma Dante, Michele Murgia, Isabella Ferrari, Maria Sole Tognazzi, Barbara Pollastrini e poi ancora scrittrici, attrici, sindacaliste, accademiche. Tante, tantissime donne, famose, sconosciute, giovani e meno giovani, che dicono basta e rilanciano l’invito ad alzare la testa e la voce. Un fiume carsico che ha bisogno di tempo e affluenti per emergere e diventare visibile e imponente, ma chi l’ha detto che non è possibile?
Ieri mattina in Parlamento, Livia Turco e Marianna Madia davanti alla lettura dei giornali e ai particolari sempre più desolanti che emergono dall’inchiesta sulle serate hard del presidente del Consiglio si sono dette che sì, «bisogna fare qualcosa, non possiamo stare zitte, dobbiamo ribellarci a tutto questo schifo che sta venendo fuori». Così hanno deciso di organizzare un sit-in sotto Palazzo Chigi, alle 5.30 del pomeriggio. Roberta Agostini da via del Nazareno si è messa al lavoro, sms a deputate, senatrici e militanti dei circoli.
«Il voto delle donne ti caccerà», hanno urlato verso le finestre del Palazzo mentre via via capannelli di passanti curiosi e complici si avvicinava.

l’Unità 20.1.11
I democratici non chiedono le elezioni: «Non leviamogli le castagne dal fuoco, deve solo andare a casa»
«Vada dai giudici da dimissionario e si rimetta al capo dello Stato. Attaccare i pm è il solito trucco»
Pd: «Berlusconi è un eversivo» Bersani insiste: si dimetta
Emerge una strategia comune fra Terzo polo, Idv e Pd. Non chiedere le elezioni, «ma non le temiamo», spiega Bersani. «Non toglieremo le castagne dal fuoco a Berlusconi: levi dall’imbarazzo se stesso e il Paese».
di Maria Zegarelli


Silvio Berlusconi si deve dimettere, ma non sarà il Pd a chiedere le elezioni anticipate. «Noi non gli toglieremo le castagne dal fuoco. È lui che deve levare dall’imbarazzo se stesso e il Paese, vada dai giudici da dimissionario e poi si rimetta alle decisioni del capo dello Stato». Pier Luigi Bersani dice che la linea del partito non cambia, è quella tracciata da tempo, anche se oggi, alla luce dell’ultimo scandalo che ha investito il premier, «qualunque cosa è meglio del pantano in cui ha fatto finire il Paese». Ma al voto anticipato si deve arrivare «per un suo totale fallimento. Lui ha tradito l’articolo 54 della Costituzione che pretende da chi ha cariche pubbliche disciplina e onorabilità. Berlusconi ha tradito la Costituzione su cui ha giurato e non c’è bisogno della magistratura per sostenere questo». Durissima la presidente dei senatori Anna Finocchiaro che dopo l’ultimo attacco ai giudici sferzato ieri dal premier definisce «pericolose» e eversive le sue dichiarazioni.
Bersani a maggior ragione in questo quadro resta convinto che sia la Costituzione il faro e che debba essere il premier ad assumersi la responsabilità di portare il paese alle urne, anche se l’opposizione non può stare ferma ad aspettare, perché «tutto il mondo ci guarda, se ingoiamo anche questo dobbiamo vergognarci davanti al mondo». Il Pd, dice il segretario, non teme le elezioni, se si andrà al voto è pronto ad affrontare la sfida e vincerla, ma c’è un percorso costituzionale da cui non si prescinde. Se Berlusconi si dimetterà ipotesi al cui premier non pensa affattosarà il presidente della Repubblica a verificare se c’è una maggioranza per andare avanti o se le urne restano l’unica alternativa. Dal colloquio del leader Pd con Cesa dell’ Udc e con Fini la linea resta confermata: Berlusconi deve fare un passo indietro e presentarsi ai magistrati. Unica anche la strategia parlamentare per i prossimi voti in Aula, ma quanto alle alleanze future il Terzo polo resta un’incognita.
IL PD E IL LINGOTTO
Intensa giornata di colloqui anche “interni” per il segretario che ieri ha parlato a lungo con Walter Veltroni in vista del Lingotto 2 sabato a Torino. Toni distesi e l’impegno di Bersani a prendere la parola, su invito dello stesso Veltroni che esprime grande soddisfazione per le presenze annunciate che «confermano l’importanza, per tutto il Pd e il centrosinistra, di questo appuntamento che vuole essere un contributo di proposte e di idee per cambiare il Paese». E quello che rischiava di essere un appuntamento in polemica con la linea del partito, invece si sta trasformando in un’occasione per il pd di rinserrare le fila: ci saranno Enrico Letta, Rosy Bindi, David Sassoli e Dario Franceschini con cui ieri Veltroni ha parlato a lungo nel suo ufficio di Montecitorio. Un incontro «dai toni cordiali» nel corso del quale, fanno sapere i collaboratori vicini a Franceschini, si sono chiarite molte cose». Ovvio, ognuno resta sulle sue posizioni, ma dopo l’ultima direzione, durante la quale Bersani ha cercato di fare sintesi, il partito cerca di ricompattarsi. Incontro positivo anche quello tra il segretario e Beppe Fioroni, che proprio durante l’ultimo parlamentino Pd non aveva fatto sconti. Discutere, dice adesso, «è una cosa normale» e considerato che «Berlusconi si barricherà e la maggioranza gli costruirà una corazza intorno, noi dobbiamo pensare a costruire la maggioranza per vincere le elezioni e non per partecipare e basta».

l’Unità 20.1.11
L’analisi
La linea del Pd è molto chiara: fare di tutto per salvare il Paese
Dall’ultima Direzione sono emersi due fatti politici importanti: il primo è che il partito non è più una macchina “tritasegretari”; il secondo che la crisi viene prima di tutto. Anche delle alleanze
Punto di riferimento. Oggi il Pd è l’unico soggetto che può rivolgersi credibilmente a tutti gli italiani che non si riconoscono in questo governo. Anche a quelli che ascoltano Casini o Vendola
di Alfredo D’Attorre


Bisognerà forse iniziare a riflettere sull’effetto che un ciclo politico ventennale, fondato sullo svuotamento dei partiti democratici e sulla torsione in senso plebiscitario del sistema politico ha inevitabilmente prodotto anche sul rapporto fra informazione e politica. Da anni il sistema informativo è chiamato a descrivere la vita di soggetti politici che, nella grande maggioranza dei casi, hanno assunto una configurazione post-democratica. Si può davvero immaginare che tutto ciò non incida sul modo in cui viene compresa e rappresentata la vita interna dell’unica forza politica, il Pd, che prova a invertire la rotta rispetto a questa deriva leaderistica?
Si può certo aggiungere che talora il Pd ci mette del suo per accentuare questa desuetudine e difficoltà a confrontarsi con la fatica della democrazia. Non si vogliono qui sottovalutare i difetti del dibattito interno del Pd e, d’altronde, Bersani non ha certo nascosto questo problema. Ma il modo in cui l’esito dell’ultima riunione della Direzione è stato descritto su larga parte della stampa è l’ennesimo segnale che induce a cercare una spiegazione più generale, che va molto oltre i demeriti del Pd. Lo dimostra, in particolare, il modo piuttosto impressionante in cui i due più rilevanti dati politici sanciti dalla riunione sono stati rimossi o sottovalutati.
Il primo aspetto riguarda direttamente l’assetto interno del Pd. Per un periodo abbastanza lungo, a partire dalla crisi della segreteria Veltroni, il sistema informativo ha cavalcato il cliché di un partito costitutivamente instabile, che logorava segretari, linee politiche e maggioranze interne nel giro di qualche mese. Se questo aspetto veniva considerato così rilevante, sarebbe stato normale attendersi che, dopo la Direzione, venisse sottolineato il dato in controtendenza: Bersani, eletto nell’ottobre del 2009 con circa il 54% dei voti, vede allargarsi la maggioranza che appoggia la sua linea politica a oltre l’80%, mentre la minoranza interna non presenta una piattaforma alternativa, si limita a non partecipare al voto e, in queste condizioni, non può far altro che caratterizzare l’iniziativa pubblica del Lingotto come un tentativo di sollecitare la maggioranza su alcuni punti programmatici.
Il secondo aspetto, ancora più rilevante, riguarda l’interpretazione della proposta politica esterna. L’attenzione spasmodica della quasi totalità della stampa si è concentrata sulla risposta immediata del costituendo Terzo polo o dei soggetti alla sinistra del Pd alla prospettiva di un’alleanza elettorale larga. Ma così si perde del tutto di vista il punto di fondo della proposta di Bersani, che è quello di partire non da un’astratta geometria delle alleanze, ma da un’analisi realistica e non auto-consolatoria della condizione dell’Italia e dall’ampiezza del consenso popolare che occorre per porvi mano. Se si guardasse alla sostanza delle cose, si osserverebbe che questa analisi non è contestata da nessuna delle altre forze di opposizione, sebbene, allo stato, per evidenti esigenze tattiche e calcoli di partito, nessuna di esse è in grado di trarne le conseguenze politiche con la stessa coerenza con cui lo fa il Pd. Ma, proprio per questo, oggi il Pd è in condizione di essere il l’unico soggetto che può rivolgersi credibilmente a tutti gli italiani che non si riconoscono nell’attuale governo. Anche a quegli italiani, per esempio, che ascoltano le analisi allarmate di Casini e Vendola sulla gravità della crisi democratica e sociale italiana e iniziano a non capire come ci si possa poi sottrarre rispetto alla proposta del Pd.
Non bisogna però essere pessimisti: alla fine, come si sarebbe detto una volta, i fatti hanno la testa dura. Quando si arriverà al dunque, la solidità di una linea politica fondata sull’interesse del Paese metterà gli interlocutori politici di fronte alle proprie responsabilità e indurrà finalmente anche buona parte della stampa a convincersi che, per il Pd, aver compreso il punto di fondo della crisi italiana è stato più importante che inseguire il tatticismo quotidiano delle interviste.

l’Unità 20.1.11
Effetto Fiat: picconate sul contratto nazionale
Confindustria sottoscrive la proposta lanciata da Federmeccanica sulla «alternatività» del contratto aziendale rispetto a quello nazionale. «È una possibilità» conferma Marcegaglia. Contrari tutti i sindacati.
di Luigina Venturelli


Eccolo, infine, il tanto annunciato e temuto «effetto valanga» scatenato da Marchionne sulle relazioni industriali italiane: un contratto aziendale alternativo a quello nazionale, che consenta alle imprese di qualsiasi settore di prescindere dalla normativa generale senza accollarsi la scocciatura di uscire, anche solo temporaneamente, da Confindustria.
LA PROPOSTA DI SANTARELLI
Gli osservatori più accorti l’avevano previsto mesi fa, alle prime battute della vertenza Pomigliano. Adesso la cancellazione del contratto nazionale di lavoro come cornice obbligatoria di diritti e doveri, valida dalle Alpi alla Sicilia, è stata messa nero su bianco, pensata da Federmeccanica e subito convalidata dalla presidente di Confindustria. L’idea allo studio è quella di riformare il modello contrattuale del 2009 prevedendo la possibilità che «il contratto aziendale sia sostitutivo di quello nazionale» e non più solo integrativo. Per le industrie meccaniche, ma non solo.
Emma Marcegaglia l’ha definita «una «proposta immediata e tempestiva di modernizzazione», citando il solito modello Germania ed aprendo all’alternatività del con-
tratto nazionale in tutti i settori produttivi: «È una possibilità».
«Stiamo facendo un ulteriore passo avanti rispetto al sistema delle deroghe» ha spiegato il direttore generale Roberto Santarelli. «Dove ci sono le condizioni e con il consenso dei sindacati, deve essere possibile prevedere l’alternatività tra il contratto aziendale e quello nazionale, fermi restando, eventualmente, alcuni contenuti minimi comuni». In questo modo Federmeccanica si assicurerebbe il rientro in Confindustria delle newco di Pomigliano e Mirafiori, anche se le trattative per un contratto nazionale dell’auto dovessero andare per le lunghe o non soddisfare appieno le pretese del Lingotto. E, soprattutto, eviterebbe l’abbandono da parte delle aziende che volessero seguire l’esempio Fiat, anche se un’adesione a viale dell’Astronomia che non comportasse l’adesione a un ccnl, di fatto, verrebbe svuotata di sostanza normativa.
«Non è la morte del contratto nazionale» ha provato a rassicurare Santarelli, dato che le grandi aziende saranno probabilmente le sole interessate (o capaci) a trattare un accordo ad hoc. «Abbiamo 12mila associate e penso che 11.500 vorranno continuare ad utilizzarlo». Ma le opinioni dei sindacati, inutile dirlo, sono molto diverse.
LA FRENATA DEI SINDACATI
«Federmeccanica sbaglia per la quarta volta» ha commentato la leader Cgil, Susanna Camusso, ricordando i precedenti del contratto separato delle tute blu, le deroghe allo stesso e il contratto per l’auto ora in discussione. Ancora più duro il segretario della Fiom, Maurizio Landini, tra i primi a prevedere un simile esito: «È inaccettabile. A che cosa serve Federmeccanica se un’azienda può scegliere di non applicare il contratto nazionale?». Contrarie anche le altre sigle. «Abbiamo un contratto nazionale che è valido per altri due anni, nessuno metta il carro davanti ai buoi» ha detto il leader Cisl, Raffaele Bonanni. «Non siamo per la frammentazione. Il contratto nazionale deve essere un collante, i livelli contrattuali devono restare due» ha esplicitato il segretario Uilm, Rocco Palombella.
Mentre il ministro Maurizio Sacconi se n’è lavato le mani: «È materia delle parti». Aggiungendo subito dopo: «In ogni caso, dove si produce, il contratto aziendale definisce meglio lo scambio tra le parti».

il Fatto 20.1.11
Federmeccanica si arrende a Marchionne
Il contratto nazionale diventa un’opzione tra le altre
di Salvatore Cannavò


Con la vittoria di Mirafiori, sia pure di misura, Sergio Marchionne sta riscrivendo l'intero sistema di relazioni industriali in Italia. Lo conferma la presa di posizione di Federmeccanica, l'associazione degli industriali della meccanica.
IL MODELLO contrattuale del 2009 – siglato da Cisl, Uil, Confindustria e governo (non riconosciuto dalla Cgil) – va ormai superato e modificato per arrivare alla nuova frontiere del diritto del lavoro: “il contratto aziendale sostitutivo di quello nazionale”. Le parole sono quelle del direttore generale di Federmeccanica, Roberto Santarelli, che ha interpretato in questo modo la conclusione del direttivo dell'organizzazione di ieri. Prima di Mirafiori, la Confindustria stava ancora cercando di mantenere in vita il contratto nazionale sia pure provvisto di quelle “deroghe” che Cisl, Uil, Ugl e Fismic hanno già largamente concesso, valutando la   possibilità di arrivare a un contratto nazionale del settore Auto in grado di recepire le novità introdotte da Marchionne.
Da oggi si cambia pagina. Gli industriali, infatti, prendono atto dell’esito del referendum di Mirafiori e del fatto che l'associazione non riuscirà a imporre condizioni alla Fiat. Così Federmeccanica prova a lanciare l'idea di un sistema “misto” in cui   sia prevista “un'alternatività tra contratto aziendale e contratto nazionale”, fermi restando, dicono, alcuni contenuti minimi. Una sorta di contratto “à la carte”, nel senso che le aziende, ovviamente in accordo con i sindacati, potranno scegliere il modello di riferimento.
SANTARELLI si dice convinto che sulle 12 mila aziende associate il contratto nazionale sarà utilizzato “da almeno 11.500”. Le altre, probabilmente, sono quelle in cui la Fiom è meno forte e quindi può essere aggirata da un contratto aziendale più vantaggioso per le imprese. In questo modo, sostiene la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, la Fiat potrà “rientrare” nell'associazione di categoria, possibilità che la dirigente confindustriale dà per certa. 
La soluzione, però, non piace alla Fiom che la considera propedeutica “all'autoaffondamento” di Federmeccanica, come dice Giorgio Airaudo, responsabile nazionale Auto dei metalmeccanici Cgil. E non piace nemmeno ai sindacati firmatari dell'accordo di Mirafiori. Il più netto è Roberto Di Maulo, segretario del Fismic, il sindacato più vicino alle posizioni della Fiat: “Per noi il contratto dell'auto è quello di Mirafiori e lo porteremo a Federmeccanica affinchè l'adotti”. Di Maulo è un “pasdaran” e la sua idea è che quel contratto sostituisca, addirittura, l'intero contratto dei metalmeccanici. Una   posizione che però non convince Cisl e Uil. Il segretario generale di quest'ultima, Luigi Angeletti, ad esempio, si dice contrario perfino a estendere gli accordi di Pomigliano e Mirafiori agli altri stabilimenti Fiat.
IL PROBLEMA è che Federmeccanica, Cisl e Uil propendono per una posizione intermedia – salvaguardia di un ruolo al contratto nazionale sia pure con la disponibilità di numerose deroghe – che oggi viene spazzata via dall'azione di Marchionne e che, sull'altro fronte, è apertamente osteggiata dalla Fiom. Destinata quindi a rimanere solo sulla carta. Anche perché, nel frattempo, il governo non favorisce compromessi. Lo dimostra l'intervista rilasciata ieri da Maurizio   Sacconi al Sole 24 Ore in cui il ministro del Welfare non solo avalla la linea di Marchionne ma prova ad andare oltre, immaginando un sistema di deroghe anche per lo Statuto dei lavoratori, la legge “fondamentale” che fissa regole le garanzie per il mondo del lavoro, da cui il ministro vuole enucleare alcune norme adattabili alle diverse circostanze. L'idea di Sacconi, del resto, è nota: solo la contrattazione aziendale può soddisfare le esigenze di imprese e lavoratori perché a loro più prossima. Il contrario di quella idea solidaristica, affermatasi negli ultimi trent'anni, secondo la quale solo un sistema di norme generali può tutelare i lavoratori più deboli. Se anche lo Statuto dei lavoratori fosse sostanzialmente modificato – e il governo Berlusconi ci ha già provato in passato con l'articolo 18 – la scossa impressa da Marchionne avrebbe conseguenze durature. 
La partita delle relazioni sindacali quindi si complica e si intreccia anche con il nodo della “rappresentanza” con Confindustria che si dichiara disponibile a discuterne, con i principali sindacati confederali che restano su posizioni molto distanti tra loro e con la Fiom che si prepara allo sciopero generale del 28 gennaio.

Repubblica 20.1.11
L'ex ministro del Lavoro del Pd boccia la proposta della Federmeccanica: si vuole solo rincorrere Marchionne
Damiano: "È un'idea inaccettabile nelle piccole imprese sarà il far west"
di Paolo Griseri


La soluzione del problema sarebbe in un contratto di categoria a livello europeo per evitare che chi fa lo stesso lavoro abbia paghe triple o quadruple a seconda del Paese dove è l´azienda

Sostituire il contratto nazionale con quello aziendale? «Un´idea balzana». Cesare Damiano (Pd), ex ministro del lavoro, boccia senza appello l´idea lanciata dal direttore generale di Federmeccanica: «In quel modo si peggiorerebbe la vita dei lavoratori».
Damiano, scambierebbe il contratto nazionale con quello aziendale?
«Mi sembra una pessima idea, una proposta inaccettabile. Non vorrei che si fosse deciso di scardinare il sistema contrattuale italiano solo per inseguire Marchionne e convincerlo a tornare in Confindustria».
Quali effetti pratici avrebbe la proposta?
«Una nuova picconata al sistema contrattuale. E´ uno stillicidio: prima il combinato di norme e disdette che a Mirafiori impediscono a un sindacato di essere rappresentato se non accetta gli accordi. Ora questa proposta balzana di sostituzione del contratto nazionale con quello aziendale».
Che cosa cambierebbe, in concreto, per i lavoratori?
«Gli effetti si vedrebbero soprattutto nelle piccole imprese poco sindacalizzate dove verrebbe meno quel grado di tutele minime che è garantito dal contratto nazionale. Sarebbe il far west, il trionfo dei contratti-fai-da-te che favoriscono diseguaglianze e peggioramento delle condizioni di lavoro. Il salario di questi contratti finirebbe per essere anche molto inferiore a quello già risicato dei lavoratori Fiat».
Il direttore generale di Federmeccanica Santerelli nega che ci sia questo rischio. Sostiene che la maggior parte delle aziende si terrebbe il contratto nazionale. Non è d´accordo?
«Io so che l´appetito vien mangiando. Se aprissimo la strada della deregulation contrattuale, in breve tempo molti imprenditori fuggirebbero dal contratto nazionale, e non solo i grandi gruppi».
Non crede che quella deregulation sia inevitabile in tempi di globalizzazione?
«La globalizzazione c´è anche alla Volkswagen. Perché in Germania i salari sono più alti, gli orari sono più ridotti e i costruttori di automobili riescono a fare utili producendo vetture di qualità? Non è sul 7 per cento di costo del lavoro che si può pensare di risparmiare per battere la concorrenza internazionale».
Qual è dunque la sua proposta?
«L´ho avanzata nelle scorse settimane. Prevede di creare, all´interno del contratto nazionale dei metalmeccanici, una sezione apposita per le aziende del settore auto, come già accade per la siderurgia. Quella sezione dovrebbe comprendere norme su orari, turni, produttività, che vengano incontro alle specifiche esigenze di quelle aziende. Nulla vieta poi di rispondere a esigenze particolari con specifici accordi aziendali».
Lei considera questa una strada sufficiente?
«Potrebbe essere un primo passo. La vera soluzione del problema sarebbe in un contratto di categoria a livello europeo per evitare che chi fa lo stesso lavoro abbia paghe triple o quadruple in Germania, in Polonia, in Italia o in Serbia».

«Caro Fabrizio, ricorda l’insegnamento laico di uno dei nostri maestri, Riccardo Lombardi»
l’Unità 20.1.11
Biotestamento: Cicchitto batti un colpo
Appello ai socialisti della maggioranza
di Carlo Troilo, Associazione Luca Coscioni


Essendo stata annunciata per febbraio la ripresa del dibattito alla Camera sul testamento biologico, due dei più autorevoli sostenitori della legge, il prof. Veronesi e il senatore Marino, hanno fatto dichiarazioni che non mi sento di condividere appieno. «Meglio nessuna legge», ha detto Veronesi. Forse gli ha fatto eco il senatore Marino, che teme alla Camera “un clima da stadio” «è meglio lasciare la questione nel limbo attuale in cui ogni giorno all’interno degli ospedali, i medici decidono da soli».
Ora, è vero che la legge del centro destra è di fatto una legge “contro” il testamento biologico, per la pesantezza dell’iter previsto e per il predominio riconosciuto al medico rispetto alle volontà espresse nei testamenti biologici. Così come è vero che la mostruosa idea di rendere obbligatorie l’alimentazione e l’idratazione artificiale appare come una “vendetta” per il modo in cui si è conclusa la vicenda Englaro. Ma rinunciare a migliorare la legge e lasciarla cadere, continuando di fatto a tollerare l’eutanasia clandestina come male minore, mi sembrerebbe un segno di incoerenza e di mancanza di fiducia in se stessi da parte del centro sinistra. Penso che i sostenitori di una “vera” legge sul testamento biologico, come quella che individua Marino nella sua sintetica proposta, dovrebbero fare un appello a tutte le forze politiche: in particolare a Fini e ai suoi seguaci, che hanno sempre sostenuto il diritto di votare secondo coscienza sui diritti civili, ma anche ai tanti laici che militano nei partiti della maggioranza.
In questo spirito, e per il pochissimo che conto, faccio anch’io un appello personale. Lo rivolgo ai miei vecchi compagni socialisti che si sono schierati con Berlusconi (una scelta, diversa dalla mia, che però non mi sono mai permesso di sindacare). Mi rivolgo in particolare a Fabrizio Cicchitto. Caro Fabrizio, ricorda l’insegnamento laico di uno dei nostri maestri, Riccardo Lombardi; ricorda le nostre battaglie comuni per una società più libera e più moderna, per i diritti dei lavoratori, per il divorzio, per l’aborto (che tu, anche in anni recenti, hai difeso apertamente). Prenditi la tua libertà, contribuisci a fare in modo che lo scontro diventi incontro e che anche l’Italia, ultima in Europa, abbia una moderna legge sul testamento biologico. Se non ora, quando?
Comunque, penso che forze politiche serie, su certi temi e in certi momenti, debbano anche saper rischiare. Se alla fine la legge dovesse passare nella sua attuale, orrenda e palesemente anticostituzionale formulazione, dinanzi a noi si aprirebbe la strada per un referendum abrogativo che stavolta nessun Ruini potrebbe far fallire e che consentirebbe finalmente agli italiani di dire direttamente e chiaramente qual è la loro opinione sulle delicate scelte di fine vita.

l’Unità 20.1.11
Il mondo della cultura lotta insieme alla Fnsi contro i tagli del governo
Presso la sede della Fnsi a Roma il mondo della cultura, minacciata dai tagli del governo, annuncia una settimana di mobilitazione tra teatro, musica, danza e informazione. A rischio 4000 persone tra le aziende dei media.
di Luca Del Frà


«La Costituzione italiana non è afona a proposito di cultura e informazione: ne garantisce la libertà, l’esistenza e la pluralità. I politici e governi hanno certo la possibilità di scelta negli indirizzi ma, al contrario dei regimi totalitari, hanno degli obblighi e non possono disinteressarsene o fare come gli pare». Gaetano Azzariti, professore di Diritto costituzionale alla Sapienza, ha sintetizzato così le motivazioni ideali della protesta che ieri ha visto riunirsi associazioni e movimenti di tutto il mondo della cultura presso la sede della Fnsi. Un fatto unico in Europa e probabilmente nel mondo: giornalisti, attori, musicisti e danzatori, professori e ricercatori universitari, sceneggiatori e registi, poeti e scrittori per oltre 50 sigle diverse, dal 24 gennaio – quando il Parlamento discuterà il decreto mille proroghe – daranno vita a una settimana di manifestazioni organizzate e spontanee, «flash mob» e scioperi contro le attuali politiche del governo Berlusconi.
Un movimento compattato dalla pervicace politica di tagli indiscriminati delle risorse all’informazione – peraltro anche tassata con l’aumento delle tariffe postali per gli abbonamenti –, alla ricerca e alla università, ai beni e alle attività culturali, alla scuola. «Ma in questo momento – ha sottolineato Roberto Natale confermato in questi giorni alla guida della Fnsi – oltre ai tagli sono in gioco le ragioni della convivenza civile e di cittadinanza nel nostro paese». L’evidente manovra del governo per restringere gli spazi dell’informazione, passato in questi mesi anche per il tentativo di una legge bavaglio, rasenta il ridicolo: «Il giorno dopo che il parlamento con gli emendamenti alla Finanziaria votati anche dal centrodestra ha reintegrato i fondi dell’editoria – ha ricordato il senatore del Pd Vincenzo Vita –, il ministro Tremonti li ha nuovamente tagliati indirizzandoli al tax shelter per l’industria cinematografica, mettendo una contro l’altra due delle catego-
rie più colpite dalla sua politica». Il risultato di questa magia di cassa è «la probabile chiusura di oltre 90 testate, che assorbono circa 4000 persone tra giornalisti, grafici, poligrafici e altri lavoratori» ha spiegato Roberto Natale.Il disagio del mondo della cultura è palese: per il 2011 i finanziamenti preventivati per cinema, teatro, danza, musica, opera lirica, saranno circa un quinto di vent’anni fa. Il paragone con altri paesi europei fa impallidire: complessivamente in cultura la Francia investe oltre 7 miliardi di euro, la Germania supera i 12, in entrambi i casi siamo a circa il 2,2% del Pil, l’Italia ne impiega appena 1,7 e il rapporto è 0,21% del Pil che nel 2011 calerà allo 0,19. Perfino la Gran Bretagna, che ha optato per una politica di incentivazioni fiscali per il contributo dei privati ancora oggi assenti in Italia, malgrado i tagli di quest’anno spende circa il doppio dell’Italia (oltre 3 miliardi di euro). La proteste si svolgeranno nella settimana in cui approderà in Parlamento il mille proroghe. Nel testo del decreto al momento per cultura, università, ricerca e informazione non è previsto alcun tipo di miglioramento. Toccherà quindi agli emendamenti portati nelle commissioni e nella discussione in aula provare di cambiare la situazione.

Corriere della Sera 20.1.11
Un giovane su 5 non ha lavoro né crede di trovarlo
I dati Istat: la metà delle donne senza occupazione. Al Sud povere due famiglie su dieci
di Mariolina Iossa


ROMA — Una donna su due non lavora e ha rinunciato a cercare un lavoro. Un giovane su cinque non lavora e ha smesso di credere nella possibilità di trovare un’occupazione. L’Istat raccoglie in un unico dossier, Noi Italia, tutti i dati più significativi sul nostro Paese e quello che ne viene fuori è un quadro scoraggiante, grigio con macchie nere. Il nero è soprattutto quello della disoccupazione e delle condizioni economiche delle famiglie. L’Italia si colloca agli ultimi posti in Europa per tasso di occupazione femminile (46,4 per cento) — in pratica ha un lavoro meno di una donna su due — mentre i giovani che non lavorano e non studiano (giovani tra i 18 e i 24 anni) sono il 19,2 per cento, dato che posiziona l’Italia molto in basso nella classifica Ue a 27 Paesi, praticamente penultima, e dietro c’è solo Malta. La media europea è del 14,4 per cento. Sempre i giovani, quelli più in sofferenza: il tasso di disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni è superiore a quello europeo, è pari al 25,4 per cento ed è in aumento di oltre quattro punti rispetto all’anno prima. La media europea è del 19,8 per cento. Sono il 21,2 per cento, poi, poco più di due milioni, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano, i neet, ovvero quelli «non più inseriti in un percorso scolastico-formativo» ma neppure impegnati in un’attività lavorativa. Il dato italiano è in assoluto il peggiore dell’Ue. Va peggio anche per i livelli di occupazione: il 57,5 per cento della popolazione nella fascia di età 15-64 anni è occupato, ma come detto le donne sono solo il 46,4 per cento e gli uomini il 68,6 per cento. Il tasso di occupazione è diminuito in un anno di quasi un punto e mezzo dopo un lungo periodo di crescita, tornando ai livelli del 2005. Del resto, non ha un’occupazione in Italia il 37,6 per cento della popolazione mentre il dato europeo è fermo al 28,9 per cento, e circa il 45 per cento dei disoccupati è in cerca di lavoro da almeno un anno. Anche qui la differenza con l’Unione europea è notevole: da noi si registra una tra le quote più alte di disoccupazione di lunga durata (il 44,4 per cento), mentre la media europea si attesta attorno al 27 per cento. Pure quando c’è, spesso il lavoro è irregolare, soprattutto nel Mezzogiorno. «La quota di unità di lavoro irregolare è pari all’ 11,9 per cento — si legge nel dossier —. Nel Sud può essere considerato irregolare quasi un lavoratore su cinque» . Dunque, il sommerso resta molto rilevante, con la Calabria a percentuali più alte (26,6 per cento) ultima invece l’Emilia Romagna (8,5 per cento di lavoro irregolare). Non va molto meglio se parliamo di famiglie e livelli di povertà. Le famiglie in condizioni di povertà relativa sono una su dieci, il 10,8 per cento, sette milioni e 800 mila individui poveri, il 13,1 per cento della popolazione residente. Cinque famiglie su cento sono poverissime, per un totale di poco più di tre milioni di persone. Forte lo svantaggio del Sud, che riguardo alla povertà registra valori più che doppi rispetto alla media nazionale. Lì le famiglie in povertà relativa sono due su dieci (anzi di più, sono esattamente il 22,7 per cento) mentre nel resto d’Italia il dato è più vicino a quello della povertà assoluta, rispettivamente il 4,9 per cento e il 3,6 per cento al Nord e il 5,09 e 7,7 per cento al Sud. Crescono gli anziani, sono 144 ogni 100 giovani (in Europa solo la Germania è più «vecchia» di noi), e crescono gli immigrati: sono il 7 per cento del totale, oltre 4 milioni e 200 mila persone, quelli iscritti nelle anagrafi dei comuni italiani al 2010. Rimane a bassi livelli l’istruzione, con il 46 per cento degli italiani tra i 25 e i 64 anni che ha solo la licenza media come titolo di studio. Gli studenti disabili sono 130 mila, 73 mila nella primaria e 59 mila nella secondaria. Per loro l’inserimento è buono (sono oltre 60 mila gli insegnanti di sostegno) ma solo in 3 scuole su dieci si sono adeguate per l’abbattimento alle barriere architettoniche. Una curiosità che riguarda la cultura: appena il 47 per cento degli italiani legge almeno un libro all’anno nel tempo libero.

Repubblica 20.1.11
Fotografia di un Paese scoraggiato
di Chiara Saraceno


I dati dimostrano che spesso le nuove generazioni hanno abbandonato la partita prima di cominciarla

La fotografia scattata dall´Istat conferma ciò che si va ripetendo da tempo. L´Italia non è un paese per giovani. Perché ha tassi di disoccupazione giovanile tra i più alti in Europa, benché abbia i salari di ingresso tra i più bassi e benché tutta la flessibilità del mercato del lavoro sia a loro carico. Ha anche uno dei tassi di povertà minorile tra i più alti nei paesi Ocse. Ed anche il non invidiabile primato della più alta percentuale europea di giovani, in maggioranza donne, che non sono né in formazione né sul mercato del lavoro: avviati ad un percorso di marginalità ed esclusione sociale, o nel migliore dei casi, se donne, di dipendenza economica da un marito. È questo il dato forse più drammatico. Perché segnala che c´è una parte non piccola degli adolescenti e dei giovani che non hanno trovato sufficienti occasioni e stimoli per investire su di sé, sulle proprie capacità, e che hanno abbandonato la partita prima ancora di incominciarla. Scoraggiati tre volte: dalla noia e dalla svalorizzazione sperimentati in una scuola che, per mancanza di mezzi e competenze, spesso lascia perdere i casi più difficili e meno sostenuti dalle famiglie; dalla scarsa qualità, remunerazione e sicurezza dei lavori cui possono aspirare stanti le loro scarse o nulle qualifiche, tanto più se sono donne; ma anche dal vedere che anche i loro coetanei che studiano e si impegnano poi fanno fatica a trovare e tenere un lavoro e ad essere pagati decentemente. Probabilmente molti di loro fanno anche qualche lavoretto, nell´economia informale e talvolta illegale. In ogni caso vivono come estranei in una società che non riconoscono e che si disinteressa di loro, salvo che nel caso non si facciano notare per qualche comportamento particolarmente deviante o pericoloso.
Non è un paese per giovani, ma neppure per le donne, e non solo perché la velina e l´escort sembrano le uniche immagini e carriera femminili vincenti, ma perché l´occupazione femminile è una corsa ad ostacoli tra inadeguatezza dei servizi e scarso investimento da parte delle imprese; mentre l´inattività femminile non sempre far problema, quando non è vista quasi come una benedizione dai politici nella misura in cui, così come l´inattività dei giovani, tiene basso il tasso di disoccupazione. Se gli oltre due milioni di giovani che non sono né a scuola né nel mercato del lavoro si presentassero nel mercato del lavoro farebbero schizzare ancora più in alto il tasso di disoccupazione giovanile. Lo stesso succederebbe al tasso di disoccupazione femminile se le donne, specie a bassa istruzione e specie nel Mezzogiorno, fossero incoraggiate a presentarsi nel mercato del lavoro.
È allora un paese per vecchi? Sì e no. È vero che oltre la metà della spesa sociale in Italia è dedicata agli anziani, nella forma di pensioni. Ed è vero che gli anziani nel nostro paese sono l´unico gruppo sociale che hanno una forma di garanzia di reddito. Tuttavia ciò non li protegge del tutto dal rischio di povertà, che li vede ancora sovra-rappresentati, insieme ai minori. Soprattutto, alla garanzia di reddito non si accompagna una garanzia di cura non sanitarie appropriate. I servizi per gli anziani non autosufficienti sono ancora meno sviluppati di quelli per i bambini piccoli e con analoghe differenze territoriali. È un paese che si affida in modo sproporzionato alle disuguali risorse delle famiglie, investendo poco o nulla sul proprio futuro.

Corriere della Sera 20.1.11
In Italia crollo dei sì
Meno matrimoni del 1944
di Rita Querzè

qui
http://www.scribd.com/doc/47233016

Repubblica 20.1.11
"Pedofilia, la diocesi non denunci" Bufera sulla lettera del Vaticano


LONDRA - Nel 1997 l´allora nunzio apostolico, arcivescovo Luciano Storero, scrisse una lettera ai vescovi irlandesi chiedendo di non denunciare tutti i casi di molestie sessuali di preti su minori perché facendolo avrebbero violato le leggi canoniche. Immediata la reazione delle associazioni delle vittime della pedofilia in Irlanda: secondo Colm O´Gorman, responsabile di Amnesty International irlandese, «è il Vaticano alla radice del problema». Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha replicato che la posizione espressa dall´arcivescovo è quella che la Congregazione del Clero aveva assunto prima del 2001 quando papa Giovanni Paolo II cambiò le regole in seguito alla deflagrazione di casi negli Stati Uniti. «Si riferisce a una situazione che abbiamo superato», ha detto padre Lombardi al New York Times.

El Mundo 19.1.11
El Vaticano ordenó a los obispos irlandeses que no informasen de los casos abusos

qui
http://www.elmundo.es/elmundo/2011/01/18/internacional/1295384693.html

Irish Times 19.1.11
Vatican edict in 1997 rejected calls to report priests who abused

di Patsy McGarry
qui
http://www.irishtimes.com/newspaper/ireland/2011/0117/1224287680501_pf.html

l’Unità 20.1.11
Federalismo, spunta l’esenzione sugli immobili della Chiesa
di B. DI G.


Rispunta l’esenzione per le onlus e la chiesa dal tributo sulla proprietà immobiliare (la vecchia Ici). L’ultima proposta Calderoli sul federalismo comunale prevede infatti l’introduzione dell’Imu seconde case ed esercizi commerciali, da cui però vengono esplicitamente escluse le onlus e gli enti senza scopo di lucro. Dopo aver inizialmente annunciato l’intenzione di far pagare la tassa sulla proprietà anche alla chiesa una partita da 700 milioni di euro oggi il centrodestra sembra fare marcia indietro. C’entrano qual gli umori vaticani sugli scandali del premier e la conseguente tenuta della maggioranza? Valutino i lettori.
PARTITA
La partita sul federalismo è proseguita ieri con l’arrivo del testo scritto della proposta sul fisco comunale. Il documento è stato depositato solo nel tardo pomeriggio, e subito Roberto Calderoli ha invocato il voto. «Se mercoledì passerà ha detto il ministro si può proseguire fino a fine legislatura». A stretto giro la replica di Marco Causi (Pd). «Non è accettabile una forzatura come quella di Calderoli dichiara Il governo ha radicalmente modificato il decreto dello scorso settembre e pretenderebbe adesso l'approvazione del Parlamento al buio su un testo arrivato soltanto alle 5 di questo pomeriggio, senza numeri, senza quantificazioni, senza relazione tecnica».
Il testo conferma le anticipazioni della vigilia. Già da quest’anno si potrà optare per la cedolare sugli affitti con le due aliquote al 20% in caso di canone concordato e al 23% per quello libero. Si prevede anche un fondo di 600 milioni per coprire le detrazioni per gli inquilini con figli. Stando ai tecnici il sistema è conveniente per i redditi superiori a 28mila euro. L’imu è istituita dal 2014 e «sostituisce, per la componente immobiliare, l'imposta sul reddito delle persone fisiche e le relative addizionali dovute in relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non locati, e l'imposta comunale sugli immobili».

l’Unità 20.1.11
Una guerra inutile e sbagliata
Perché lasciare l’Afghanistan
di Luigi Bonanate


All’inizio del decimo anno di partecipazione alla guerra in Afghanistan possiamo ben dire che non c’è impresa militare nella storia che abbia prodotto risultati più miseri in tanto tempo. Forse non tutti hanno notato che nel suo recente comunicato-stampa di fine anno, la Nato ci ha informato che i morti in guerra in Afghanistan sono stati, nel 2010, più di 10.000, tra militari e civili, e che questa cifra rappresenta il tasso di mortalità più alto a partire dal 2001 (in dieci anni fa più di 100.000 morti!). Ovvero: invece che veder declinare la mortalità, la guerra continua a farla aumentare, un dato che normalmente e razionalmente ci dovrebbe far capire che le cose in Afghanistan stanno andando sempre peggio, non meglio.
E se non lo si capisse al volo, ci sarebbe sempre la dichiarazione del Presidente del Consiglio italiano che si chiede se sia opportuno restare in Afghanistan. Ora, delle due, una: o eravamo andati laggiù per nobili motivi e dunque finché non li abbiamo realizzati non possiamo onorevolmente andarcene, oppure se decidiamo di andarcene per aver avuto 36 morti senza aver concluso il lavoro ciò significa non solo che l’impresa è fallita, ma anche che non abbiamo saputo (noi e i nostri alleati) svolgerla. Si potrebbe poi ampliare la prospettiva e dirci che forse c’è qualche cosa di ancora più importante da smascherare: mentre i Servizi segreti ci raccontano che il mullah Omar (il secondo massimo ricercato al mondo, insieme a bin Laden, per trovare il quale non si è mai fatto altrettanto in tutta la storia dell’umanità!) se ne è andato in ospedale, in Pakistan, per farsi un’operazione al cuore, la popolazione afghana realizza in modo ogni giorno più chiaro che l’occupazione del suo territorio non ha più giustificazione alcuna, che il governo che gli Occidentali hanno contribuito a insediare è il peggiore che si sia mai visto (chi conosce qualcuno che sia stato in Afghanistan provi a farsi raccontare com’è la vita politica laggiù) e che si continua a morire per liberare il paese.
Noi che ricorriamo tanto sovente agli stereotipi nazionali dovremmo fare attenzione alle parole che usiamo: con quale autorevolezza definiamo «terroristi» gli afghani che combattono contro la coalizione occidentale? Si potrebbe dire e faccio ben attenzione alle parole che uso che si tratta invece di combattenti per l’indipendenza che cercano di liberare il Paese dalle forze di occupazione occidentali, che non sono riuscite nei compiti proposti e restano a difendere semplicemente la loro sopravvivenza. Ha ben ragione dunque Berlusconi a dubitare della permanenza in Afghanistan: dobbiamo andarcene, ma non per evitare vittime, bensì perché stiamo facendo una guerra sbagliata e inutile!

l’Unità 20.1.11
Colloquio con Mohamed El Baradei
«Il mio Egitto non è immune dalla rivolta tunisina»
Il premio Nobel per la pace: «Il cambiamento deve arrivare, anche da noi protagonisti i giovani senza futuro. Un monito per le nomenclature»
di Umberto De Giovannangeli


Ciò che è accaduto in Tunisia è, al tempo stesso, un segnale di speranza e un monito. La speranza è per quanti,
in Maghreb, nel Medio Oriente, si battono per il cambiamento. Il monito è rivolo alle nomenclature al potere che non intendono prendere atto del loro fallimento». L’Egitto non è immune dal “contagio tunisino”. A sostenerlo, nel colloquio con l’Unità, è colui che incarna le speranze dell’Egitto laico, progressista, che sfida il «Faraone» senza per questo farsi stritolare in un abbraccio mortale dall’integralismo islamico. È la doppia sfida di Mohamed El Baradei, ex Direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), premio Nobel per la Pace 2005, leader dell’opposizione democratica egiziana. Di una cosa El Baradei si dice convinto: «Alla base della rivolta tunisina vi sono ragioni che si ritrovano anche in altre realtà, come quella egiziana: la mancanza di prospettive di lavoro per le giovani generazioni, l’ingiustizia sociale elevata alla massima potenza, una rivendicazione di libertà e di diritti che si scontra con le chiusure di un potere incapace di rinnovarsi”. «È inevitabile, il cambiamento deve arrivare», sottolinea con forza l’ex Direttore dell’Aiea. E il motore di questo cambiamento sono i giovani. È la generazione sotto i trent’anni (che rappresenta il 60% della popolazione egiziana) che «non ha alcuna speranza, alcun futuro, ma neanche nulla da perdere», contrariamente alle generazioni precedenti che convivono con il regime o lo temono. «Il 42% degli egiziani – rimarca El Baradei vive con un dollaro al giorno, il 30% non sa leggere e scrivere, la disoccupazione è dilagante, la corruzione ovunque». S’infervora, El Baradei, quando gli riportiamo le parole del portavoce del ministero degli Esteri egiziano, Hossam Zaky: «Non crediamo che quanto è avvenuto in Tunisia possa facilmente ripetersi in altri Paesi». «È la riprova – commenta il premio Nobel per la pace – di un potere cieco e sordo, chiuso nella sua fortezza, incapace di cogliere il malessere che sta crescendo in tutto il Paese».
Quel malessere segnalato anche da episodi drammatici, avvenuti nei giorni scorsi: un uomo di 50 anni, padre di quattro figli che si cosparge di benzina e si dà fuoco davanti all’Assemblea del popolo egiziana per protestare contro il «no» delle autorità all’aumento della sua quota di pane; un giovane di 25 anni si dà fuoco sul tetto della sua casa di Alessandria d’Egitto. Muore poche ore dopo il ricovero in ospedale con ustioni sul 95 per cento del corpo. Secondo i familiari era depresso perché disoccupato. Altri tre egiziani in 48 ore hanno tentato il gesto, tra cui un avvocato che prima di innescare il rogo aveva gridato slogan contro il carovita. «Anche la rivolta in Tunisia – ricorda El Baradei – fu innescata dal giovane che per protesta si era dato fuoco. Si tratta di gesti estremi, disperati, ma che danno conto di una condizione generalizzata di rabbia, frustrazione non più sopportabile». Di fronte a questa situazione, l’Europa non può continuare ad essere succube di una logica perdente. Quella del «Male minore».
La logica, spiega El Baradei, che «porta l’Europa a sostenere leadership ormai usurate, nella convinzione, tragicamente sbagliata, che esse sono comunque un baluardo alla penetrazione del fondamentalismo, del jihadismo». Un errore strategico. «Perché solo un profondo cambiamento di classi dirigenti, che passa per il sostegno a quanti si battono per la giustizia sociale e contro i predatori di ricchezze, può rappresentare un investimento sul futuro anche per l’Europa». El Baradei non sottovaluta la lotta al terrorismo e la necessità di garantire la sicurezza degli egiziani: «Ma la lotta al terrorismo – dice – non giustifica la riduzione degli spazi, già angusti, di democrazia, non legittima il ricorso alla legge marziale. La sicurezza non può essere il pretesto per conculcare le libertà di un popolo. Il vero antidoto agli estremismi è la democrazia». «Giustizia sociale e Stato di diritto sono le due facce della stessa battaglia di libertà», si dice convinto El Baradei. Per quanto lo riguarda, ciò che lo ha spinto a impegnarsi in politica è «essere lo strumento di un cambiamento per l’Egitto», un Paese ben lontano dalla democrazia”.
Il premio Nobel per la Pace ha lanciato un appello al boicottaggio delle prossime elezioni presidenziali, fissate per il mese di settembre, e ha iniziato la raccolta delle firme per una petizione nella quale chiede una maggiore democratizzazione del Paese; l'ex Direttore generale dell' Aiea si dice disposto tuttavia a candidarsi alle presidenziali a condizione che «le elezioni siano libere e giuste». A questo fine, El Baradei ha dato vita all’Associazione nazionale apartitica per il cambiamento, che mira a riformare la Costituzione e in particolare un Articolo di essa che di fatto proibisce ai candidati indipendenti di concorrere per le elezioni presidenziali. Nelle riflessioni di El Baradei ricorre sovente il termine «cambiamento». Che il sessantottenne Nobel per la Pace articola così: «Cambiamento per me significa democrazia, libertà, giustizia sociale, rispetto delle minoranze». Principi che si traducono in programma politico: elezioni libere e monitorate, la fine dello stato d’emergenza, governo democratico, libertà di stampa, modernizzazione. El Baradei rifiuta l’etichetta di «salvatore della patria». «Nonèproprioilcaso–dice-.Le persone hanno raggiunto un tale livello di esasperazione che sono in attesa di una persona che le salvi, ma vorrei piuttosto che l’Egitto fosse in
grado di salvare se stesso. Se la gente vuole cambiare davvero questo Paese, tutti devono unirsi per realizzare questo sogno». Un diplomatico moderato costretto, suo malgrado, a vestire i panni di un «Saladino» laico in lotta contro il potere mummificato del «Faraone» Mubarak. Fa paura, El Baradei, alle élite abbarbicate al potere . «Lo so bene – afferma il Nobel per la Pace egiziano – ma penso di avere le spalle abbastanza larghe per sopportare questa campagna di demonizzazione. A darmi forza è la consapevolezza che sono sempre di più gli egiziani, soprattutto i giovani, che sentono che è venuto il momento di cambiare, di realizzare anche per il mio Paese un “Nuovo Inizio”».

l’Unità 20.1.11
Intervista a Nabil Shaat
«Il negoziato di pace è in coma profondo»
L’ex ministro degli Esteri dell’Anp: «Israele ha svuotato la trattativa Delusi da Obama, chiediamo all’Europa di riconoscere subito la Palestina»
«Netanyahu ha respinto anche la proposta di sospendere per 3 mesi i nuovi insediamenti. Così si chiude la porta»
di Umberto De Giovannangeli


Èstato lui a negoziare con Yitzhak Rabin il riconoscimento reciproco fra Olp e Israele. Lui a tirare le fila della diplomazia palestinese negli anni della speranza, successivi agli accordi di Oslo-Washington. Le diplomazie occidentali lo stimano, il presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) l'ha voluto al suo fianco a Washington per la ripresa dei negoziati diretti palestino-israeliani. L'uomo in questione è Nabil Shaat.
Chi lo conosce bene, sa che Shaat misura ogni parola. Ed è per questo che le sue considerazioni suonano come una «campana a morto» per i negoziati in stallo ormai da mesi. «Non credo proprioafferma che i negoziati riprenderanno presto, questo processo negoziale non ha più nessuna credibilità. È solo un esercizio di futilità, è ridicolo». Quanto al ritorno ai negoziati indiretti proposto dalla segretaria di Stato Usa Hillary Clinton, Shaat taglia corto: proposte simili, dice, «sono totalmente inutili» Con una metafora ospedaliera, l'ex ministro degli Esteri dell'Anp afferma che «se non è morto, il negoziato è certamente in un coma profondo». Forse irreversibile. Di fronte a questa situazione «comatosa», l'Autorità nazionale palestinese ha intrapreso una offensiva diplomatica su scala internazionale. A farsene interprete è lo stesso Nabil Shaat: si tratta, spiega, del riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967, anche in assenza di un accordo di pace con Israele. Una richiesta rivolta in particolare ai singoli Paesi europei che Shaat ha illustrato nei giorni scorsi in un incontro con i consoli a Gerusalemme di Francia, Gran Bretagna, Svezia e Danimarca, e con Marc Otte, responsabile per l'Ue del processo di pace in Medio Oriente.
Entro un anno è possibile la realizzazione di uno Stato palestinese, aveva sostenuto il presidente Usa Barack Obama all'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Cosa resta di questo auspicio?
«Ben poca cosa. Sulle intenzioni del presidente Obama non nutriamo dubbi, sappiamo che lui crede davvero nella possibilità di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”. Però...».
Però?
«Le buone intenzioni si scontrano con un governo, quello israeliano, che nei fatti sta svuotando di ogni sostanza il negoziato. Il presidente Obama parla di Stato palestinese, auspica un accordo globale ma la realtà è che i falchi israeliani hanno rigettato anche la proposta di una moratoria di tre mesi sugli insediamenti. La nostra posizione è chiara: senza uno stop alla colonizzazione israeliana in Cisgiordania e a Gerusalemme Est non è pensabile una ripresa delle trattative».
Per superare l'impasse, la segretaria di Stato americana Hillary Clinton propone un ritorno a negoziati indiretti. «Con tutto il rispetto per la signora Clinton, proposte simili sono totalmente inutili. È come si volesse chiudere ambedue gli occhi di fronte alla realtà. E questa non è una buona politica».
Netanayhu ribatterebbe che la vostra è una posizione rigida. «Rigida? Ma se agli inviati del presidente Obama abbiamo ribadito la nostra disponibilità ad una moratoria di due mesi degli insediamenti e in questo arco di tempo cercare una intesa sui confini dei due Stati. Cos' altro si pretende dai palestinesi? Di accettare in silenzio le forzature israeliane? Che non denunciassimo con forza ciò che è stato documentato dalle stesse organizzazioni per i diritti umani israeliane...».
A cosa si riferisce?
«Alla progressiva espulsione della popolazione palestinese da Gerusalemme, ai piani per la realizzazione di altre migliaia di abitazioni nelle colonie ebraiche in Cisgiordania. E l'elenco potrebbe durare a lungo. Di questo l'amministrazione Usa è consapevole, a parole lo deplora, ma ciò che conta sono gli atti concreti, le pressioni convinte che andrebbero fatte sul governo israeliano e che invece non si sono manifestate con la necessaria determinazione». È un'accusa al presidente Obama? «Più che un'accusa è un'amara constatazione dei fatti. Obama sa bene che la chiave del negoziato è in mano a Netanyahu. Ma quella chiave invece che aprire sta chiudendo la porta del dialogo».
A fronte di uno stallo del negoziato, l'Anp ha lanciato un'offensiva diplomatica a livello internazionale. Di questa iniziativa, lei è tra i protagonisti. Di cosa si tratta?
«Nella richiesta rivolta ai singoli Stati membri delle Nazioni Unite di riconoscere lo Stato di Palestina entro i confini del 1967. Già abbiamo ricevuto nuove, importanti risposte positive, come quella del Brasile. Ed è un appello che mi sento di rivolgere in particolare all'Europa e ai singoli Paesi europei».
Tra cui l'Italia?
«Affermativo. L'Unione Europea e i suoi singoli Stati membri possono e devono svolgere un ruolo da protagonisti in Medio Oriente, e non di comprimari rispetto agli Usa. Ma per farlo occorre il coraggio di indicare chi oggi sta sabotando il processo di pace».
A proposito del Brasile di Lula. Israele ha reagito al riconoscimento definendolo una “palese violazione degli accordi tra Israele e i palestinesi”.
«La nostra valutazione è opposta. In questo modo si contribuisce ad edificare un percorso di giustizia, libertà e pace in Medio Oriente. Un percorso fondato sulla non violenza. Mi lasci aggiungere che il vero illuso è chi pensa di poter procrastinare l'attuale status quo. Il 2011 sarà comunque un anno di svolta. I palestinesi avranno riconosciuto il proprio Stato. Il tempo dei rinvii è scaduto». Tra le richieste avanzate dall'Anp c'è anche lo stop alla realizzazione del “Muro” in Cisgiordania. Ma per Israele quel muro era e resta una barriera di sicurezza contro il terrorismo. «Definire difensivo un Muro costruito da Israele all’interno del territorio palestinese occupato è un’offesa, una provocazione, perché se si costruiscono recinzioni nel giardino del vicino, non è difesa, è un’annessione, e come tale va denunciata e combattuta».

l’Unità 20.1.11
Il presidente Usa parla di diritti: con la libertà società più armoniose
Il numero uno di Pechino: interesse reciproco collaborare
Obama riceve il cinese Hu: tra noi tensioni ma c’è dialogo
Obama riceve Hu Jintao alla Casa Bianca con tutti gli onori. In una conferenza stampa congiunta i due leader sottolineano l’importanza della cooperazione. Obama vuole «amichevole competizione», Hu «rispetto reciproco».
di Gabriel Bertinetto


Ventun colpi di cannone. Inni nazionali suonati dalla banda militare. Barack Obama e Hu Jintao ascoltano compunti sul prato della Casa Bianca. L’atmosfera è solenne. Ma non impedisce che nella rigidità del protocollo si insinuino momenti di sorridente scioltezza. Quando i due presidenti si muovono per incontrare e salutare gli invitati, Hu si ferma per uno speciale saluto a Sasha, una delle figlie di Obama, la quale ha accanto a sè una compagna di scuola i cui tratti somatici denunciano evidenti origini asiatiche. «Le presento mia figlia Sasha» dice il numero uno degli Stati Uniti. Il suo omologo cinese allora si china e abbraccia la ragazzina. Poco dopo in una conferenza stampa congiunta i leader delle due massime potenze mondiali annunceranno al mondo la loro volontà politica di collaborare.
«Cooperazione» è il termine che ricorre nei discorsi e nelle dichiarazioni. Con sfumature diverse, di non poco conto. Obama afferma che «se guardiamo al futuro, ciò di cui abbiamo bisogno è uno spirito di cooperazione, che significa anche amichevole competizione». Hu sottolinea come la collaborazione deva «basarsi sul rispetto reciproco», in particolare «sul rispetto delle scelte di ciascuno nel cammino verso lo sviluppo, e sul rispetto dei fondamentali interessi degli uni e degli altri».
ALLUSIONI POLEMICHE
Chiare le allusioni polemiche di Hu Jintao alle critiche americane per i diritti umani violati nella Repubblica popolare ed alle lamentele verso certi comportamenti commerciali che a giudizio di Washington danneggiano l’economia statunitense.
Palesi accenni al tema dei diritti umani del resto non mancano nelle parole che Obama pronuncia davanti alla stampa: «La storia mostra che le società sono più armoniose, le nazioni più prospere e il mondo più giusto, quando vengono sostenuti i diritti e le responsabilità di tutte le nazioni e tutti i popoli, compresi i diritti universali di ogni essere umano». L’evidente fossato che su questi argomenti separa i due governi, non impedisce a Obama di ricordare «l’enorme vantaggio che abbiamo nel successo dell’uno e dell’altro», e di collocare l’amicizia cino-americana in una prospettiva di lunga durata. Cita l’incontro fra Jimmy Carter e Deng Xiaoping nel 1979 che sancì la normalizzazione dei rapporti fra i due Stati, congelati nei trenta anni precedenti. E indica nel vertice in corso la base per le relazioni bilaterali dei trent’anni a venire.
Hu paragona le economie dei due Paesi, lasciando intendere, senza dirlo, di ritenere che quella cinese sia destinata a superare l’americana. «La Cina è il Paese a più alto tasso di sviluppo del mondo, mentre gli Stati Uniti sono il Paese più sviluppato al mondo». Come dire: ora siete i primi, ma l’avvenire ci appartiene. Anche lui però è convinto che ai due giganti non giovi lo scontro: «Abbiamo interesse a trovare terreni comuni di cooperazione, dalla sicurezza alla sanità, dai commerci agli scambi». Segni tangibili della volontà di collaborare, gli accordi che consentiranno agli Usa nuove esportazioni per 45 miliardi di dollari.

il Fatto 20.1.11
Hu Jintao e Obama, convergenze parallele
“La Cina riconosce l’universalità dei diritti umani” e firma accordi da 45 miliardi di dollari
di Giampiero Gramaglia


Per dare il benvenuto alla Casa Bianca al presidente cinese Hu Jintao, Barack Obama sciorina il tappeto rosso delle grandi occasioni con gli inni e i pifferi della Guerra d’Indipendenza del 1776. Ma non esita a evocare subito, fin dai discorsi di benvenuto, il tema delicato dei diritti dell’uomo. “La storia mostra – dice il presidente americano – che le società sono più armoniose, che prosperano di più e il mondo è più giusto quando i diritti e le responsabilità di tutti i Paesi e di tutti i popoli sono rispettati”. Per una visita di Stato carica di simboli e di obiettivi poteva essere un avvio coraggioso, ma scivoloso   . Ma Hu non è stato certo colto di sorpresa. E non ha poi battuto ciglio quando, in conferenza stampa, Obama gli ha chiesto d’aggiustare il valore dello yuan, che gli americani considerano sottovalutato, e di fare in modo che le imprese americane possano battersi ad armi pari con quelle cinesi.
NELL’INCONTRO con i giornalisti, Hu non ha neppure potuto schivare la domanda diretta di un reporter americano: “Come giustifica il mancato rispetto dei diritti dell’uomo?” da parte della Cina. Un problema di traduzione quanto mai opportuno gli consente, all’inizio, di stendere un’intercapedine di silenzio sull’argomento. Ma, poi,   sollecitato da un’altra domanda, risponde: “La Cina riconosce l’universalità dei diritti umani e molto resta da fare in Cina su questo fronte”, ma mette la questione nel contesto delle “molte sfide” che il suo Paese deve affrontare. Per il loro ottavo incontro nei neppure due anni trascorsi da Obama alla Casa Bianca–inmedia,unoognitremesii due presidenti hanno badato al sodo: risultati concreti e parole chiare. “Quando Usa e Cina cooperano ne ricavano sostanziali benefici”, dice Obama senza però nascondere “l’amichevole concorrenza” fra i due Paesi. Hu auspica una maggiore cooperazione fra le forze armate cinese e statunitense. Obama gli chiede di dialogare con il Dalai Lama,   capo spirituale dei tibetani in esilio. A Washington è in gioco il riequilibrio strategico tra le due potenze, dopo i parziali e non del tutto felici esiti degli incontri precedenti. Molti i punti caldi sull’agenda, a cominciare proprio dalle politiche monetarie e commerciali: gli Usa e la Cina non vogliono compromettere la stabilità del loro quadro economico nazionale, ma neppure vogliono mettere a repentaglio l’equilibrio globale. Così, Pechino sarebbe interessata a salvare e a sostenere l’area dell’euro e ad incoraggiare l’unità europea (che funzionerebbe da contrappeso anche politico nei confronti degli Stati Uniti) ma non vuole mutare radicalmente l’attuale registro politico ed economico minando il dollaro.   Ma più che molte parole, in questa visita contano alcune cifre. Usa e Cina firmano nell’occasione accordi commerciali per un valore di 45 miliardi di dollari, che permetteranno di mantenere 235 mila posti di lavoro americani. La commessa più grossa riguarda l’acquisto di 200 aerei Boeing – soprattutto B737 e B777, da consegnare di qui al 2013 – per un valore stimato di 19 miliardi di dollari. Il resto è ripartito in una settantina di contratti che riguardano grandi aziende – fra le altre, General Electric, Caterpillar, Alcoa – ma anche un numero crescente di piccole e medie imprese   . Ma non c’è solo l’economia. Obama e Hu vogliono che la Corea del Nord s’astenga da ogni “ulteriore provocazione” ed auspicano la denuclearizzazione della penisola (e il segretario di Stato Hillary Clinton auspica “maggiore cooperazione” da parte cinese contro gli “atteggiamenti provocatori” di Piongyang). E Washington e Pechino sono d’accordo per evitare che l’Iran si doti dell’atomica, anche se i cinesi non percorrono la via delle sanzioni bilaterali (che gli americani potrebbero invece inasprire).
INFINE, sempre in materia nucleare, Obama e Hu concludono un accordo di cooperazione sulla sicurezza, con la creazione in Cina di un centro finanziato congiuntamente. “Questa relazione sino-americana – afferma la Clinton – determinerà in molti modi pace, stabilità e prosperità del XXI Secolo”. 
Per Hu a Washington, però, non sono solo schermaglie verbali e intese sostanziose, cene alla Casa Bianca e pranzi di Stato. La visita diventa pure spunto di scaramucce politiche fra democratici e repubblicani: l’opposizione a Obama fa la voce grossa (“la pazienza con Pechino è quasi finita”) e, per non restare indietro, il capo dei democratici al Senato Harry Reid diserta la cena “con un dittatore” (salvo poi correggere un po’ il tiro).

Corriere della Sera 20.1.11
Obama a Hu: «Più rispetto per i diritti umani»
Il presidente americano cita il premio Nobel, incarcerato, Liu Xiaobo: «Ci vuole una svolta»
di Massimo Gaggi


Barack Obama chiede alla Cina un maggior rispetto dei diritti umani: «Abbiamo storie e culture molto diverse, ma riconoscere la libertà di parola, religiosa e di riunione contribuirà alla prosperità e al successo del vostro popolo» . Hu Jintao prima schiva la domanda di un giornalista americano trincerandosi dietro il cattivo funzionamento della traduzione simultanea. Poi, nuovamente incalzato durante la conferenza stampa, spiega che, nei limiti di un sistema assai diverso da quelli occidentali, la Cina vuole rispettare i diritti umani fondamentali e si propone di fare altri progressi in questa direzione. Ma non accetta pressioni straniere su quella che considera uja sua questione interna. Mentre fuori dalla Casa Bianca i dissidenti protestavano rumorosamente contro la visita del presidente cinese, ieri il presidente americano ha accolto quello della Repubblica Popolare sul prato che circonda la sua residenza con tutti gli onori — 21 salve di cannone, picchetti, bande, tripudio di bandiere e bimbi in festa — ma ha anche mantenuto la promessa di non passare sotto silenzio la questione dei diritti umani. Obama, premio Nobel per la Pace 2009, ha citato esplicitamente Liu Xiaobo, il dissente che ha ricevuto lo stesso riconoscimento nel 2010 ma non ha potuto essere premiato perché è in un carcere cinese, e ha invocato una svolta del gigante asiatico nella direzione delle libertà individuali e rivendicato più rispetto per il Dalai Lama e per l’autonomia del Tibet. Passaggi delicati della prima giornata della visita del presidente cinese a Washington, ma nel complesso il clima è stato cordiale e costruttivo, coi due leader impegnati a riannodare i fili del dialogo tra i due Paesi dopo un 2010 difficile e a sottolineare gli interessi comuni. «Non siamo ipocriti, non nascondiamo le divergenze che ci sono. In vari campi, anche su questioni economiche come l’insufficiente rivalutazione dello yuan» ha detto Obama. «Al tempo stesso riscontriamo progressi nell’impegno cinese ad applicare le sanzioni contro l’Iran, nel favorire la pace e la denuclearizzazione della penisola coreana e anche la volontà di Pechino di combattere la pirateria di chi viola il "copyright"americano in Cina» . Bisognerà vedere fino a che punto questi impegni troveranno concreta applicazione. Ma è comunque dal terreno economico che sono venuti i segnali più significativi in questa giornata costellata anche da incontri dei leader politici con alcuni dei maggiori imprenditori dei due Paesi e conclusa da una rara cena di Stato, un onore al quale Hu teneva molto. E alla quale il presidente, con Obama e tutti gli altri ospiti in smoking, si è presentato con un dimesso abito scuro e una cravatta azzurra, in puro stile repubblica popolare. A tavola menù americanissimo: bistecca «rib eye» con patate, cipolle e spinaci cremolati, preceduta da un’insalata alle pere e da un antipasto a base di aragosta del Maine. Per finire, torta di mele. A «fare titolo» , almeno per gli americani, in questa prima giornata del vertice è stato l’annuncio di contratti per oltre 45 miliardi di dollari firmati dalla Cina con imprese americane (19 andranno alla Boeing per 200 jet). Una boccata d’ossigeno per Obama che, sempre alla ricerca di nuovi strumenti per battere una disoccupazione che pesa come un macigno sulle sue prospettive di rielezione nel 2012, ha salutato con uno smagliante sorriso accordi che, ha detto, creano 235 mila nuovi posti di lavoro negli Usa. Il presidente, che sta cercando di tacitare le voci che chiedono ritorsioni protezioniste contro l’Asia, ha anche sottolineato che la Cina assorbe ormai più di 100 miliardi di dollari l'anno di merci e servizi: lavoro per mezzo milione di lavoratori Usa. I numeri citati da Obama fanno impressione, ma rappresentano pur sempre una frazione di un interscambio tra i due Paesi che continua ad essere assai sbilanciato a favore della Cina, il cui saldo commerciale con gli Usa è in attivo per ben 275 miliardi. I contratti valgono, insomma, due mesi di deficit. Per questo l'inquietudine dei parlamentari non si attenua. Una realtà che oggi Hu toccherà con mano quando, prima di partire per la sua tappa industriale a Chicago, visiterà il Congresso. Incontrando i leader di Camera e Senato, Boehner e Reid, che ieri hanno disertato la cena alla Casa Bianca.

Corriere della Sera 20.1.11
Scacciare le paure americane. La missione del leader cinese
Investimenti e joint venture come segni di buona volontà
di  M. Ga.


Più che un leader arrivato per imprimere una svolta alle relazioni Usa-Cina, questo Hu Jintao sembra un medico dimesso, intento a curare la «sindrome cinese» degli americani che, dicono i sondaggi, nel 65 per cento dei casi giudicano il gigante asiatico un nemico o comunque un serio problema per il loro Paese. Una nazione potente e inafferrabile, una «dittatura senza dittatori» che ha sposato il mercato e usa tutte le armi del capitalismo, ma continua a presentarsi al mondo come una repubblica comunista. E che alimenta la sua crescita formidabile col dirigismo: quello di una ristretta casta di tecnocrati «illuminati» , veri sacerdoti della pianificazione, che cercano di non lasciare spazio a uno statalismo sbracato. Tutto assai poco comprensibile per l’America delle libertà e della concorrenza che, invece, arranca faticosamente. Accogliendo Hu alla Casa Bianca tra picchetti, bande e salve di cannone, Barack Obama ha rievocato il vertice del disgelo tra i presidenti dei due Paesi che si svolse nel gennaio del 1979, sempre a Washington. Allora la Cina era un Paese debole e povero con un leader potente, Deng Xiaoping. Oggi la Cina è una potenza politica, economica e finanziaria il cui presidente, definito «un dittatore» dal leader del Senato Usa Harry Reid (prima gaffe di questo vertice), appare in realtà un leader con poteri limitati. L’anno scorso, quando Hu rispose con qualche apertura alla richiesta degli Usa di rivalutare lo yuan, fu sconfessato da altri leader cinesi espressione della lobby degli esportatori, anche se i banchieri centrali di Pechino erano favorevoli a un prudente apprezzamento della loro moneta: un modo per promuovere un progressivo riequilibrio di rapporti di cambio artificialmente bloccati per troppi anni. Insomma, man mano che cresce e diventa più ricca, la società cinese diventa più complessa. Ciò impone, anche in un regime autocratico, un processo decisionale più articolato. Uno spiraglio verso sviluppi democratici che, però, aggiunge curve tortuose a ogni percorso decisionale: militari, imprenditori delle province interne e anche altre articolazioni della società sono, infatti, più vulnerabili al risorgente nazionalismo cinese rispetto a un vertice politico di Pechino pragmatico e con maggiore esperienza internazionale. Insomma Hu è lo statista che nell’ufficialità di Washington costruisce la sua eredità politica (lascerà la presidenza nel 2012), ma il senso della sua visita va cercato lontano dai cannoni e dalle parate della Casa Bianca. Lo troveremo domani nei capannoni industriali di Chicago dove Hu, visitando aziende acquistate dal gigante asiatico o che stanno sviluppando joint venture tra i due Paesi, cercherà di mostrare agli americani anche una Cina che crea posti di lavoro negli Stati Uniti. Impianti eolici, pannelli solari, componenti delle auto costruite dai cinesi come medicine somministrate dal «medico» Hu. Può sembrare una risposta che sa di marketing ma, in fondo, il presidente cinese ricalca le tecniche di comunicazione di Obama che negli ultimi mesi ha parlato all’America dei suoi sforzi di risollevare l’economia non dalla Casa Bianca ma dalle fabbriche che sono riuscite a venire fuori dalla crisi. Semmai l’esibizione delle nuove forme di collaborazione industriale costringono l’America a confrontarsi con un’altra dolorosa realtà. Dalla Cina non vengono più solo prodotti a bassa e media tecnologia e gli Usa non dominano più tutte le frontiere più avanzate: Pechino, ad esempio, comprerà locomotive americane, ma per sviluppare una rete di moderne linee ferroviarie ad alta velocità, gli Usa andranno a lezione dai cinesi.

La Stampa 20.1.11
“La Casa Bianca è nei guai se non riesce a ottenere la rivalutazione dello yuan”
Lieberthal: “Al presidente serve un risultato concreto”

di M. Mo.

Yuan, Nord Corea, Sudan e riarmo cinese: sono questi i temi sui quali Obama tenta di intendersi con Hu Jintao secondo Kenneth Lieberthal, direttore del «China Center» della Brookings Institution ed ex titolare dell'Asia nel consiglio per la Sicurezza nazionale nella Casa Bianca di Bill Clinton, che sottolinea come «la carenza di risultati con Pechino è una debolezza del presidente».
Partiamo dal viaggio del segretario alla Difesa Robert Gates a Pechino segnato dalle polemiche a causa del simultaneo test cinese del jet «stealth J20». Quanta preoccupazione c’è a Washington per il riarmo di Pechino?
«Il fatto che una grande nazione in crescita economica si doti di più armamenti non deve sorprendere. Se a Washington c'è preoccupazione è per la carenza di contatti personali con i vertici militari cinesi e la poca trasparenza delle forze armate di Pechino, soprattutto per quanto riguarda l'acquisto di nuovi armamenti».
Come spiega la raffica di discorsi di ministri americani che ha preceduto il summit di Washington?
«Quando Barack Obama si recò a Pechino puntava a far decollare un'alleanza strategica che nonostante le buone intenzioni ancora non si è concretizzata. Obama ha bisogno di ottenere dei risultati concreti dal rapporto con Pechino e vuole sfruttare il summit, e quanto lo seguirà, per riuscirci. I discorsi di Gates, Geithner e Hillary sono serviti a mettere sul tavolo i temi cari a Obama: rivalutazione dello yuan, carenza di rapporti militari, assedio alla Corea del Nord e rispetto dei diritti umani».
Quando pesa il disaccordo sullo yuan?
«Questo è probabilmente l’ultimo summit fra i due leader prima del 2012, quando Hu lascerà l’incarico e noi avremo le presidenziali. La rivalutazione dello yuan è un tema di prima importanza economica per gli Stati Uniti e conta molto anche per il nuovo Congresso. Senza una convergenza vi saranno tensioni forti nel prossimo futuro».
È possibile un’intesa sulla Nord Corea?
«Stati Uniti e Cina hanno un interesse comune: denuclearizzare la penisola coreana. A nessuno dei due piace pensare che un tipo come Kim Jong Il abbia le armi atomiche. Il disaccordo è tuttavia su come riuscirci. La differente reazione al recente bombardamento di un’isola della Corea del Sud da parte del Nord ha messo in evidenza tale differenza: loro sono convinti di poter spingere Kim Jong Il a migliori comportamenti esercitando su di lui progressive pressioni, noi invece ci siamo convinti che ciò lo spinge a rinnovare le provocazioni. Serve un miglior coordinamento su come procedere ma non bisogna sottovalutare l'importanza di avere comuni obiettivi».
Quanto pesa il dopo-referendum in Sudan nell'agenda bilaterale?
«La Cina è molto presente in Sudan e noi abbiamo interesse a una transizione pacifica dopo il referendum. Anche qui gli interessi sono convergenti ma la difficoltà è decidere un approccio comune, concordando le strategie d'azione».
Cosa vede nell'immediato orizzonte delle relazioni Usa-Cina?
«La necessità per Obama di cogliere almeno in parte i risultati a cui mirava quando si recò nel 2009 a Pechino per offrire a Hu una partnership globale». [M. MO.]

KENNETH LIEBERTHAL DIRETTORE DEL CHINA CENTER DELLA BROOKING INSTITUTIONS LA CARRIERA TITOLARE DEL DOSSIER ASIA NEL CONSIGLIO PER LA SICUREZZA NAZIONALE DI BILL CLINTON FRA IL 1998 E IL 2000 SAGGISTA HA AL SUO ATTIVO BEN 19 LIBRI

il Riformista 20.1.11
«Il sistema fondato sul dollaro è destinato ancora a durare»
Paolo Guerrieri. Per l’economista italiano la partita Cina-Usa è all’inizio. «L’internalizzazione della moneta cinese, che deve diventare intera- mente convertibile, richiede ancora 10-15 anni»
di Tonia Mastrobuoni

qui
http://www.scribd.com/doc/47233075

Le Monde 19.1.11
Dr. Obama and Mr. Hu

qui
http://www.lemonde.fr/ameriques/article/2011/01/18/dr-obama-and-mr-hu_1467203_3222.html

La Stampa 20.1.11
Dante Di Nanni eroe di San Paolo
di Matteo Pericoli


Breve l’eroica vita di Dante Di Nanni. Troppo breve. All’alba di quel fatale 18 maggio 1944 aveva da poco compiuto 19 anni. Figlio di immigrati pugliesi, a 15 anni entra in fabbrica continuando a frequentare le scuole serali. A 17 si arruola come motorista in Aeronautica e l’8 settembre 1943 lo sorprende a Udine. Non torna a casa, va a fare il partigiano a Boves con l’amico Francesco Valentino.
Dispersa dai tedeschi la piccola banda, Dante torna a Torino ed entra nei Gap, gruppi di azione patriottica, comandati da Giovanni Pesce. Sulle rive della Stura, un ripetitore dell’Eiar disturba Radio Londra. Nella notte del 17 maggio, in quattro, tra cui Dante, lo fanno saltare. Ma lui si ritrova sette pallottole in corpo. Pesce all’alba del 18 maggio, lo fa trasportare in via san Bernardino, in Borgo San Paolo, nella base dei GAP, deposito di armi e esplosivi. Un medico lo visita e ne chiede il ricovero urgente; Pesce si allontana per cercare un’autolettiga. Dante resta solo e quando sente il rumore di un’autoblindo capisce che è finita.
Dopo aver respinto un primo assalto, striscia sul letto in modo da avere il balcone di faccia. Quella finestra è il suo ultimo contatto con il mondo. Da quella finestra si getterà in strada dopo aver lanciato l’ultimo esplosivo e sparato l’ultima pallottola. In trecento, con un blindato e un carro armato, impiegheranno due ore per avere ragione di un ragazzo ferito.

l’Unità 20.1.11
Presentata dinanzi al capo dello Stato la nuova edizione nazionale delle opere gramsciane
Gramsci, tutti quei pensieri per sognare una riscossa
Tre idee dei «Quaderni». Dopo quella togliattiana e quella di Gerratana arriva la terza versione
Un lavoro monumentale il cuore del quale sono i «Quaderni del carcere», capolavoro scritto dietro le sbarre e che viene risistemato non più in ordine cronologico ma secondo il progetto teorico gramsciano.
di Bruno Gravagnuolo


Fa uno strano effetto una cerimonia su Gramsci nei giorni in cui campeggiano gli scandali che investono l’esecutivo. E nel cuore del Palazzo della politica per eccellenza: Montecitorio. Abissi di anni luce, tra la dignità dell’eroico Gramsci e il vaudeville di Berlusconi. Tra il carcere e i pensieri del primo, e il cinepanettone di oggi. Eppure era proprio di Gramsci che si parlava ieri alla Sala della Lupa, alla presenza di Napolitano, Fini, Violante, Castagnetti e poi Bersani, con D’Alema, Livia Turco e tanti altri, studiosi, pubblico, politici. A sentire Giuliano Amato, Antonello Arru, Giuseppe Vacca e Gianni Francioni. Tema: la nuova edizione nazionale delle opere di Gramsci di cui nel 2007 sono usciti già due volumi, e di cui oggi esce un primo volume dell’epistolario (parte integrante delle Opere).
Evento non piccolo, che si inquadra nelle iniziative per i 90 anni del Pci nella storia d’Italia, a cura di Fondazione Gramsci e Cespe, e in quelle dei 150 anni dell’unità d’Italia (a nome delle quali ha parlato Amato, presidente del comitato ad hoc, nonchè vicepresidente dell’Enciclopedia italiana che edita oggi Gramsci).
Intanto in via preliminare va spiegata la nuova Opera Nazionale, che sotto il patrocinio della Presidenza della Repubblica includerà qualcosa come 16 volumi. Solo di Epistolario se ne prevedono 9, altri quattro di scritti giornalistici dal 1910 al 1926, e poi il cuore teorico gramsciano: I Quaderni del Carcere, oggi esposti «dal vivo» in via straordinaria nella mostra sul Pci alla casa dell’Architettura di Roma (fino al 6 febbraio in Via Manfredo Fanti). Prima novità, l’Opera che succede a quella Einaudi
(ferma a 15 volumi) avrà dentro di sé a cura di Chiara Daniele tutta la corrispondenza che ruota attorno a Gramsci, in primis quella di Tatiana, Sraffa, Togliatti, la famiglia, i compagni. Il che consentirà di chiarire i nessi del «caso Gramsci», caso teorico e politico negli anni del fascismo e dello stalinismo. Poi i Quaderni. Includono anche gli esercizi di traduzione di Gramsci. E non sono più disposti in ordine cronologico, come nell’edizione Gerratana del 1975 (cioè Einaudi) che prese il posto di quella togliattiana e tematica tra il 1948 e il 1951.
Stavolta i Quaderni curati da Gianni Francioni (ve ne parlammo più volte negli anni addietro) saranno disposti con un criterio totalmente diverso: concettuale e logico. Cioè a dire, si smontano e rimontanto i 33 Quaderni, sulla base del progetto sotteso alla loro stesura, quello tracciato dallo stesso Gramsci. Che mentre suddivideva le sue note tra il 1928 e il 1934 in Quaderni «miscellanei, misti e speciali», al contempo rieleborava e pensava in avanti progetti di Opere (progetti però, tanto che Vacca ha ricordato che di scritti si tratta, più che di opere). Gramsci insomma pensava, rielaborava e progettava. Specie sul marxismo di Bucharin, su Croce e anti-Croce, su Machiavelli, sul Partito, sugli intellettuali nel’Italia municipale e cosmopolita, sull’America e il fordismo. Come prima sulla Quistione meridionale, precarceraria. E lo faceva in prigione, dovendo riconsegnare matite, libri e quaderni. Di questo hanno parlato tutti in vario modo ieri, descrivendo il pensiero asistematico ma sistematizzante di un sardo che nella sua biografia, come nel suo meditare, svolge la particolarità (isolana) a consapevolezza globale: a pensiero-mondo. Ecco allora «l’egemonia», che è direzione pensata e guidata dei processi politici, categoria storiografica che indica le inter-dipendenze. E il rapporto dominanti-dominati. Nelle istituzioni, nelle forme simboliche, fin dentro le coscienze. Ecco ancora la «rivoluzione passiva»: trasformazione indotta dai processi mondiali esterni, come il Risorgimento a guida moderata. Ecco i concetti di blocco storico, alleanze, sovversivismo dall’alto (e «popolo delle scimmie») con cui Gramsci pensava il fascismo, e i «rimedi». Che sia tutto scritto lì? Non tutto, ma molto. Almeno per capire e per reagire.

Terra 20.1.11
Quelle vittime di pedofili tradite da Wojtyla Federico Tulli

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Terra 20.1.11
Giordano Bruno a lume di candela
di Alessia Mazzenga

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http://www.scribd.com/doc/47232920

mercoledì 19 gennaio 2011

l’Unità 19.1.11
Le altre donne
di Concita De Gregorio

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http://concita.blog.unita.it/le-altre-donne-1.266857

l’Unità 19.1.11
Non solo l’invito a lasciare, nel Pd si parla esplicitamente di elezioni. «Ora basta», dice il segretario
Il presidente del Copasir incontra il leader Fli: c’è la sfiducia a Bondi, si cerca un voto comune
Bersani: «Si dimetta e vada dai giudici» D’Alema vede Fini
Finocchiaro: «Non si comprende come una persona incapace di darsi limiti, in preda a istinti e pulsioni incontrollabili, soggetta a ricatti incresciosi, possa esercitare con dignità ed onore le funzioni di premier».
di Simone Collini


«Ora basta». Pier Luigi Bersani riunisce la segreteria del Pd e decide di accelerare sulla richiesta di dimissioni. Poco dopo Dario Franceschini alla Camera e Anna Finocchiaro al Senato la presentano formalmente. Ma questa volta non è come alla vigilia del voto di fiducia del 14 dicembre, questa volta non c’è spazio per posizioni mediane, per spiegazioni sull’opportunità di dar vita a un governo «di responsabilità istituzionale». E infatti insieme alla richiesta di dimissioni diversi dirigenti del Pd parlano esplicitamente di «elezioni».
È vero, come dice Paolo Gentiloni, che un voto anticipato non è ciò di cui ha bisogno ora il paese e che si dovrebbe invece «trovare in Parlamento una maggioranza che cominci ad andare oltre Berlusconi». Ma più d’uno durante la riunione della segreteria fa notare che di fronte a quanto sta emergendo le urne sono ormai auspicabili. «La strada principale sono le elezioni», ice il responsabile dell’Organizzazione Nico Stumpo ragionando sull’ipotesi di un Berlusconi dimissionario.
Bersani per ora tiene la barra ferma sulla richiesta di dimissioni ed evita di fare passi ulteriori, anche perché non vuole essere lui a «togliere le castagne dal fuoco» al premier, essendo convinto che il voto anticipato sarebbe «il definitivo fallimento di Berlusconi, di cui deve pagare il conto». Però definisce la situazione «da allarme rosso, vista dal mondo», e chiede a Berlusconi di «togliersi dall’imbarazzo e togliere l’Italia dall’imbarazzo, andando a difendersi davanti ai giudici da dimissionario e per il resto affidarsi al presidente della Repubblica e al Parlamento». Parole guidate anche dal rispetto della Costituzione, che affida al Quirinale ogni decisione in caso di un passo indietro da parte del premier, e che lasciano aperta la porta ad ogni ipotesi.
D’ALEMA VEDE FINI
Gli equilibri parlamentari sono infatti ancora tutt’altro che chiari. E in caso di un voto anticipato ancora non si sa bene come si muoverà il Terzo polo. Due questioni al centro di un incontro alla Camera tra Massimo D’Alema e Gianfranco Fini. Fli e Udc faranno fronte comune con il Pd nelle votazioni dei prossimi giorni (in agenda c’è anche la mozione di sfiducia a Bondi, oltre al federalismo tanto caro alla Lega) e intanto gettano al premier un’esca: si dimetta, apra una crisi di governo e decida lui il suo successore. Sia i dirigenti del Pd che quelli del Terzo polo sanno che si tratta di una proposta che Berlusconi non potrà mai accettare. Ma a quel punto sarà tutta sua la responsabilità di un voto anticipato.
Il Pd punta a gestire la fase cercando convergenze sul «dopo» con le altre forze dell’opposizione, ma nell’ottica del «governo di responsabilità istituzionale» e del «patto costituente» guarda anche ai settori della maggioranza che stanno vivendo con imbarazzo l’intera vicenda. Non a caso Franceschini, chiedendo nell’Aula di Montecitorio le dimissioni di Berlusconi, è arrivato ad aprire anche al centrodestra, rivolgendo questa frase al premier: «Lasci decidere al Parlamento e alla sua maggioranza».
A nessuno però sfugge che il primo tassello è incassare il passo indietro da parte del capo del governo. Il Pd andrà all’offensiva in ogni sede possibile, compresa la seduta di domani del Copasir: andrà a riferire Gianni Letta, ma l’opposizione chiederà che sia lo stesso Berlusconi a riferire sulla sicurezza, sua e del paese. «Non si comprende come una persona che appare incapace di darsi dei limiti, in preda a istinti e pulsioni incontrollabili soggetta a ricatti più incresciosi, possa esercitare con dignità ed onore le funzioni di presidente del Consiglio», attacca nell’Aula di Palazzo Madama Anna Finocchiaro. E Antonio Di Pietro annuncia che l’Idv porterà l’opposizione anche in piazza, partecipando oggi al sit-in organizzato da sigle della società civile davanti al Quirinale «per gridare il loro sdegno».

Corriere della Sera 19.1.11
La svolta di Bersani: è ora di pensare al voto
di Maria Teresa Meli


ROMA— «A questo punto dobbiamo anche pensare al voto anticipato» : così il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. È una svolta per il Partito democratico. Finora la parola elezioni era stata pronunciata solo davanti ai microfoni, alle telecamere e ai giornalisti per dimostrare che non si aveva paura del ricorso alle urne. Ma questa volta nel Pd si punta sul serio a questo obiettivo. Bersani non sta parlando a uso e consumo dei cronisti, ma sta esaminando la situazione con alcuni dei suoi fedelissimi, al riparo — almeno teoricamente— da orecchie indiscrete. Il segretario del Pd è seriamente convinto che le urne potrebbero portar bene al centrosinistra. E che, comunque, la situazione si sta incancrenendo e il voto potrebbe essere l’unica strada per rimettere in moto il Paese. L’altro ieri, dopo che i commissari del partito avevano visto le carte, si era tenuta una riunione lampo per valutare la situazione e già in quell’incontro si era fatta strada l’idea delle elezioni anticipate. Il giorno appresso, l’ulteriore accelerazione. «Credo che ormai il Paese si sia stufato di Berlusconi» , è l’opinione del leader del Pd, confortata da un sondaggio. Insomma, questa volta al Nazareno non vogliono farsi prendere in contropiede: guai a dare l’immagine di un partito paralizzato, che non è mai in grado di prendere una decisione in tempi bevi. «Vediamo se anche in questa occasione qualcuno dirà che non prendiamo posizione» , dicono dal Pd. Basta con l’eccessiva prudenza, che non paga. Del resto, già l’altro ieri il vicecapogruppo al Senato Nicola Latorre aveva detto a chiare lettere: «Per uscire da questo pantano a questo punto è auspicabile andare al voto» . Pasdaran del fronte pro elezioni è Rosy Bindi. La presidente del Pd spiega a qualche compagno di partito la sua linea: «Se andiamo al voto ora abbiamo la strada spianata, dopo tutto quello che è successo. Secondo me dovremmo rompere gli indugi» . Dunque, la linea è questa. Il governo d’emergenza— il governissimo, per intendersi — appare come una soluzione non più praticabile nel caso in cui Berlusconi cada. Sembra ormai puntarci il solo Franceschini. Secondo il capogruppo alla Camera dei deputati i margini di manovra ci sarebbero. Ma nell’entourage bersaniano la convinzione è un’altra. E, cioè, che dopo il voto parlamentare del 14 dicembre, dopo che è stata riconfermata la fiducia al governo, quella strada non sia più percorribile. Il che, tutto sommato, per molti nel Pd non è un male. Anzi è proprio un bene, visto che imbarcarsi in un’avventura del genere avendo contro Antonio Di Pietro e Nichi Vendola sarebbe stato complicato e, probabilmente, controproducente. Dunque, elezioni. Che, però, allo stato attuale rimangono un’aspirazione. «A questo punto convengono alle opposizioni ma a Berlusconi non convengono, quindi è difficile che ci si riesca ad arrivare, perché il centrodestra farà di tutto per scongiurare questo rischio» , spiega Beppe Fioroni a un gruppetto di deputati del Partito democratico. Ma il Pd non sarebbe Pd se non si dividesse anche su una prospettiva che, almeno al momento, non appare poi così vicina nel tempo. La minoranza interna, infatti, non tifa per le elezioni anticipate. Tutt’altro. Walter Veltroni, Paolo Gentiloni e Beppe Fioroni hanno bisogno di tempo per mandare avanti il loro progetto di partito alternativo a quello di Bersani. Il voto lo bloccherebbe sul nascere. Senza contare che con lo scioglimento anticipato della legislatura il candidato premier del Pd sarebbe inevitabilmente Bersani. Mentre la minoranza lavora su due ipotesi: Matteo Renzi o Nicola Zingaretti. Per questa ragione, mentre i bersaniani ormai non fanno mistero di sperare nell’interruzione anticipata della legislatura, quelli della minoranza, invece, dipingono questo scenario come una vera e propria iattura. Osserva Gentiloni: «Andare al voto adesso sarebbe da irresponsabili, il premier deve dimettersi e in Parlamento va trovata una maggioranza che sostenga un governo che vada oltre Berlusconi» . Ma, come osserva ironicamente un autorevole membro della segreteria, probabilmente «sarà Berlusconi a salvare il Pd e a evitare che il partito si divida, perché rimarrà al suo posto e non ci saranno elezioni» .

l’Unità 19.1.11
Primo vis-à-vis tra Camusso, Marcegaglia e il segretario Pd dopo le vicende di Mirafiori
La segretaria Cgil : «La linea di Marchionne molto difensiva, e non parla di Fabbrica Italia»
Prove di dialogo Cgil-Confindustria Bersani: «Ora un sistema di regole»
Gli accordi separati, il patto per la crescita e le regole per la rappresentanza per rimettere in gioco la Cgil dopo Mirafiori. Prove di dialogo tra Cgil e Confindustria. Bersani: «Rappresentanza, ci vuole un modello»
di Laura Matteucci


Ricucire lo strappo nelle relazioni industriali dopo Mirafiori. Anche Confindustria spinge in questa direzione, «noi siamo molto interessati ad un’intesa sulla rappresentanza», dice la presidente Emma Marcegaglia, «ma prima si devono mettere d’accordo Cgil, Cisl e Uil». Vista oggi, sembra ci sia più sintonia tra Marcegaglia e Pierluigi Bersani piuttosto che tra i confederali. Il segretario del Pd accelera: «Entro un anno, prima che parta tutto il meccanismo a Mirafiori, bisogna avere un modello di rappresentanza sindacale, di diritti, di esigibilità dei contratti, che metta in situazione di certezza il sistema, non questa o quell’altra azienda. È ora che le forze sociali e politiche si prendano le loro responsabilità». Primo vis-à-vis dopo il referendum di Torino mentre Marchionne già pensa di applicare lo stesso accordo anche a Melfi e Cassino, e il governo agonizza sempre più per lo scandalo Ruby e le altre ragazze del mucchio tra la leader degli industriali, la segretaria Cgil Susanna Camusso e il segretario Bersani. L’occasione è la presentazione, a Milano, del libro Il futuro è di tutti, ma è uno solo di Valeria Fedeli, per anni segretaria dei tessili Cgil, ovvero uno dei settori che più ha subìto, ma ha meglio affrontato, le sfide di un’economia in rapida trasformazione. La mitica globalizzazione. «Eppure, nessuna azienda si è mai comportata come la Fiat dice Fedeli I punti cardine sono sempre stati innovazione, diritti del lavoro, e nessuna deroga al contratto nazionale». Ma Marchionne, si sa, è un outsider, fuori anche da Confindustria (anche se Marcegaglia sottolinea: «lunedì ci sarà un incontro Federmeccanica-sindacati per definire il contratto dell’auto», e «non appena ci sarà, c’è la volontà di rientrare attraverso le due newco di Mirafiori e Pomigliano») e, come ribadito ancora ieri, andrà avanti per la sua strada.
Una posizione «molto difensiva» la sua, la definisce Camusso: «Come al solito non racconta il piano di Fabbrica Italia, e disegna un modello che scarica i costi solo sui lavoratori». «Il cuore del discorso continua la leader Cgil mi pare che sia quello di Paesi che fanno una politica industriale e attraggono investimenti e una dichiarazione della Fiat che, invece, dice che in questo Paese non c’è politica industriale».
IL FILOSOFO E IL RAGIONIERE
E questo è un altro punto sul quale Bersani e Marcegaglia sembrano pensarla in modo non dissimile: «Le vicende di questi giorni allontaneranno ancora di più il Paese dai suoi reali problemi», dice la presidente degli industriali. «Questo governo riprende il segretario Pd ha un disinteresse micidiale per l’economia reale, è tutto in mano a Tremonti che un po’ fa il filosofo, un po’ il ragioniere, ma non si occupa mai dei problemi come farebbe un idraulico». E i problemi, l’ha riconfermato ancora ieri Bankitalia, sono assai. «Non è che li può risolvere solo chi sta alla catena di montaggio, e non possiamo nemmeno diventare cinesi dice Bersani Lo sforzo bisogna distribuirlo, e chi ha di più deve dare di più. Il problema del made in Italy riguarda qualità, produttività, tempi, c’è bisogno di conoscenza, di ridurre lo stress e la pressione sull’organizzazione del lavoro. Di meccanismi che consentano la stabilizzazione dei lavoratori». Perchè questo è un altro tema sull’importanza del quale si trovano d’accordo tutti: la precarietà, in Italia vera conseguenza della flessibilità, «il fatto che le giovani generazioni si sentono abbandonate dal Paese», dice Camusso.
Marcegaglia invita la Cgil a riprendere la discussione al Tavolo per la crescita e l’occupazione, per chiudere un accordo raggiunto su tutti i punti, tranne quello della produttività. E Camusso, parlando di relazioni industriali, indica come parole chiave reciprocità e democrazia. «È essenziale un sistema di regole spiega Una stagione così difficile ha bisogno di maggiore rappresentanza e democrazia che in passato». Una nota anche sulla Fiom, che «può aver fatto errori, ma ha il grande merito di pensare ai lavoratori e alle loro condizioni», dice Camusso. E che non si può identificare come il problema della Cgil. Del resto, chiude, «io non mi permetterei mai di dire a Confindustria che il loro problema si chiama Marchionne».

l’Unità 19.1.11
Intervista a Giorgio Airaudo
«A Torino è finito un ciclo, il Pd capisca che può perdere»
Il sindacalista prende tempo sulla sua candidatura alle primarie: «Prima un vero programma di sinistra Fassino troppo sbilanciato su Marchionne»
di Andrea Carugati


Anche ieri mattina, all’alba, era ai cancelli di Mirafiori a volantinare. Eppure, ora che le polveri della battaglia contro Marchionne si sono appena posate, nella testa di Giorgio Airaudo, cinquantenne responsabile Auto della Fiom, si sta facendo strada l’idea di candidarsi alle primarie per il sindaco di Torino. «Sto facendo il sindacalista», risponde secco al telefono.
Ma Sinistra e libertà è in febbrile attesa di una sua risposta per Torino. «Guardi, le cose non stanno in questo modo. Le primarie sono il 27 febbraio. Dunque ci sono almeno due settimane per discutere di quale programma deve avere il centrosinistra per rivincere a Torino. E credo che sull’eredità di Chiamparino non è affatto detto che si vinca».
È un sindaco molto apprezzato.
«Sì, ma lo ha detto lui stesso che si è chiuso un ciclo in questa città. E non basta dire che si è amministrato bene. Quel progetto è finito, ora bisogna trovare risposte ai problemi nuovi e drammatici che vive Torino. Siamo una delle città più indebitate d’Italia. E poi i problemi sociali, le relazioni industriali: la vicenda Fiat ci ha posto davanti a un modello in cui, per attrarre investimenti, a pagare sono solo i lavoratori, che avranno condizioni di lavoro peggiori e meno libertà e diritti». Sembra un programma politico... «Sono molto legato alla mia città, non nego che ci sto pensando, ma i nomi sono l’ultimo dei problemi. Credo che alle primarie ci debba essere una candidatura unitaria di tutta la sinistra per mettere sul tavolo della coalizione delle questioni chiare. Primo: senza un’alleanza con tutta la sinistra vincere sarà difficile. Secondo: le primarie stanno coinvolgendo i torinesi molto meno della vicenda di Mirafiori. E i candidati in campo non mi pare abbiano dato il meglio sul caso Fiat».
Dunque lei cosa farà?
«Mi impegnerò perché in queste due settimane si discuta su che città abbiamo in mente. Sul lavoro ci sono differenze rilevanti nel centrosinistra, non è il caso di parlarne? C’è il rischio di cullarsi nell’illusione che non sia possibile perdere, una sindrome di autosufficienza. Non vorrei che si ripetessero gli errori che hanno portato alla sconfitta alle regionali. Troppi amministratori si sono arruolati sotto la bandiera di Marchionne, tranne uno, l’assessore Tricarico».
Una coalizione troppo «marchionnista»?
«Per vincere le elezioni bisogna convincere anche i tanti che hanno votato sì controvoglia, e quelli che hanno votato no e si sentono abbandonati dalla politica».
È una critica a Fassino?
«Io non mi sarei sbilanciato così, Marchionne aveva già tanti sostegni... Il modello che Fiat propone non ha nulla a che fare con la modernizzazione».

il Fatto 19.1.11
Fiat, Marchionne ci riprova: “Adesso tocca a Cassino e a Melfi”
Dopo Mirafiori, il modello Pomigliano si estende ancora
di Salvatore Cannavò


L’annuncio di Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat, arriva in una lunga intervista a Repubblica: dopo Pomigliano e Mirafiori, la Fiat costituirà new.co a Cassino e Melfi. Alla Fiom se lo aspettavano. “E' chiaro – spiega Sergio Bellavita, della segreteria nazionale – che si tratta di una strategia “politica”.
HA COMINCIATO con uno stabilimento totalmente in cassa integrazione, quello di Pomigliano, per finire, a Melfi, dove la cassa integrazione quasi non si fa. Un modo per ottenere il risultato piegando la resistenza degli operai”. A Melfi e Cassino, infatti, si produce, non con risultati eccezionali ma si produce abbastanza. La Grande Punto e la Punto Evo in Basilicata, la Bravo, la Lancia Delta e la Giulietta a Cassino. E su questo puntano in Fiom per cercare di suscitare una opposizione più forte. “Stavolta, spiega il responsabile Auto, Enzo Masini, la logica della nuova produzione e del nuovo investimento potrà avere minori effetti sui lavoratori anche se la logica del ricatto resta intatta”. Ieri il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, è stato proprio a Cassino. Il giorno dello sciopero generale dei metalmeccanici del 28 gennaio la manifestazione regionale del Lazio si terrà proprio nello stabilimento di Piedimonte San Germano, vicino a Cassino. In quello stabilimento la Fiom è solo il quarto sindacato, preceduto da Uilm, Fismic e Fim. A Melfi può invece vantare la prima posizione nelle elezioni Rsu che si sono svolte la scorsa estate, subito dopo il referendum di Pomigliano. La Fiom guadagnò in quell'occasione ben 400 voti a scapito di Fim e Ugl e superando così la Uilm, sindacato storicamente più forte.
COMUNQUE, la strategia di Marchionne è delineata e comporterà modifiche sostanziali soprattutto a Cassino. Nello stabilimento laziale, infatti, si lavora ancora su due turni con una piccola produzione notturna. In Basilicata, invece, la Fiat provò a introdurre i 18 turni nel 2004 ma una lotta operaia di 21 giorni la fece desistere. Da allora, dopo un primo periodo di 17 turni si è tornati ai 15 con 40 minuti di pausa, anche se a un ritmo diverso dagli altri stabilimenti (il cosiddetto Tmc-2) e con la mensa a fine turno. “Ed è proprio per via delle pause che incorporano ritmi di lavoro più frenetici e per la mensa a fine turno che in quello stabilimento si ha il 50 per cento di ridotte capacità lavorative ” dice ancora Masini, cioè operai “che si rompono”. La vertenza del 2004, il caso dei tre operai licenziati, la credibilità conquistata dalla Fiom fanno ritenere che a Melfi si possa giocare una partita decisiva ma per il momento è difficile fare previsioni , i lavoratori hanno appena appreso le notizie dalla Fiat e non ci sono ancora interventi sul campo.
QUELLO CHE è però chiaro è che il famoso “contratto per l'auto” Sergio Marchionne ha deciso di farselo da solo. Non ci sarà nessuna nuova riscrittura fatta in Federmeccanica in trattativa con i sindacati. Una volta completato il giro degli stabilimenti Fiat in Italia, uniformando le condizioni di lavoro, il modello contrattuale sarà quello di Pomigliano integrato dalle novità di Mirafiori. A quel punto il ritorno in Confindustria sarà dato solo dall'accettazione di quanto è stato scritto sul campo. Altrimenti, la Fiat continuerà a restare fuori dall'associazione degli industriali.

Repubblica 19.1.11
Camusso: Marchionne sulla difensiva non svela il piano Fabbrica Italia
Marcegaglia: interessati ad un accordo sulla rappresentanza
Le reazioni all'intervista rilasciata a "Repubblica" dall'ad di Fiat
di Ettore Livini


MILANO - Ancora lontana da Sergio Marchionne. Un po´ più vicina a Emma Marcegaglia. Il segretario della Cgil Susanna Camusso ha accolto con freddezza la promessa dell´ad Fiat di salari tedeschi e azioni ai dipendenti del Lingotto. Prima - è la sua idea - serve più chiarezza sui piani di investimento in Italia di Torino e «un quadro di regole certe sulla rappresentanza in azienda». Tema su cui proprio ieri sono arrivati segnali di disgelo con il numero uno di Confindustria. «Mi sembra che nell´intervista a La Repubblica sia uscito un Marchionne che gioca sulla difensiva. E che come sempre non racconta qual è il piano di Fabbrica Italia» ha commentato. Mirafiori «è la spia di un paese dove non ci sono più regole». Qualche euro in più e il miraggio di una partecipazione azionaria non bastano a risolvere i problemi di fondo: «In una stagione difficile in cui c´è bisogno di più partecipazione - ha proseguito il numero uno della Cgil - bisogna mantener viva l´idea che rinunciare alla rappresentanza dei lavoratori in azienda ci fa regredire».
La soluzione? Non certo la ricetta di Marchionne «convinto di avere in tasca un modello che funziona scaricando i costi sui lavoratori». Piuttosto «riaprire un tavolo per la crescita tra le parti sociali per fissare le regole generali in grado di dare una prospettiva al paese. Senza sottovalutare il segnale arrivato dall´alto numero di "No" uscito dalle urne di Mirafiori». Anche perché - come ha aggiunto il segretario del Pd Pierluigi Bersani - «non è stressando l´operaio alla catena che si risolvono i problemi di competitività di un paese».
L´appello di Camusso non è caduto nel vuoto, visto che anche in Confindustria, dopo la fuga in avanti dell´ad della Fiat, c´è voglia di ricucire il dialogo con i sindacati: «Non facciamoci travolgere da Mirafiori - ha risposto Marcegaglia alla Camusso - . Io sono la prima a non volere il Far West dove ognuno fa da sé. Noi abbiamo siglato con tutti i sindacati oltre 12mila accordi sul territorio e 34 contratti su 35. Tutti innovativi e senza un´ora di sciopero». Il problema della rappresentanza? «Sono pronta a discuterne, aspetto da quattro anni una proposta dai sindacati. C´è l´intesa del 2008, partiamo da lì», ha detto il presidente Confindustria. A patto che si rispettino due condizioni: «l´esigibilità del contratto dopo che è stato approvato al 51%» («va benissimo, ma lo rispettino anche le imprese», ha risposto Camusso) e il «no all´assemblearismo». Mirafiori? «Un´intesa positiva per un caso specifico. Utile per combattere problemi di assenteismo e produttività». Ma per evitare il Far West - ha proposto - bisogna che «le parti sociali concordino una cornice sottile di regole oltre le quali ognuno ha i suoi spazi per lavorare sulla produttività».
L´Italia - ha sottolineato Marcegaglia - «ha bisogno di un governo che governi e di un sindacato che cavalca il cambiamento senza rimanere ancorato al passato». Va bene il rigore sui conti pubblici - ha aggiunto - «ma non i tagli lineari. Bisogna eliminare le spese improduttive ma investire su scuola, ricerca e innovazione». «Tutto è in mano a Tremonti che fa un po´ il filosofo, un po´ il ragioniere, ma l´idraulico no», ha scherzato Bersani. Proprio il tavolo per la crescita può essere il primo banco di prova, sia per Camusso che per Marcegaglia: «Abbiamo già raggiunto un´intesa per 5 punti su 6. Manca solo quello della produttività, ma siamo vicini», ha sottolineato detto l´imprenditrice mantovana. E se non si cavalca la crescita - ha concluso - «non si va avanti».

l’Unità 19.1.11
Fecondazione e confusione
La strana logica di Avvenire
di Sergio Bartolommei


Il quotidiano Avvenire dovrà mettersi d’accordo con se stesso. In due articoli apparsi sullo stesso numero (13 gennaio) dell’inserto settimanale È Vita si sostiene una cosa e il suo contrario anche se, in entrambi i casi, la pretesa di verità è identica. Da una parte si biasima il mettere al mondo nuovi individui ispirandosi all’idea arrogante di “qualità della vita”; dall’altra si lamenta che il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (Pma) pregiudica la qualità di chi viene alla luce perchè espone ad accresciuti rischi di nascere prematuri, sottopeso, con deficit visivi, cerebrali e respiratori, malformazioni e malattie genetiche.
Non entriamo nel merito delle tesi dei due articoli, specie del secondo, che sembra trascurare completamente le ampie smentite che vengono dalle altissime percentuali di nati sani fra i milioni di individui venuti al mondo negli ultimi trent’anni grazie alla fecondazione assistita. Ci preme solo osservare che, da parte di chi dichiara di ispirarsi all’etica cattolica rivendicandone interna omogeneità e coerenza, occorrerà decidersi. O si è a favore dell’idea di “buone nascite” o si è contro l’idea di “qualità della vita”. Tertium non datur. Nel primo caso occorrererebbe lasciar cadere l’accusa di eugenica rivolta con atteggiamento ostile e liquidatorio contro chi opta per favorire, con la fecondazione assistita, il miglior controllo del processo riproduttivo, la diagnosi pre-impianto degli embrioni, l’eventuale selezione embrionaria. Nel secondo caso non si dovrebbe viceversa fare ricorso all’argomento dei rischi che (presuntivamente) corre chi nasce tramite Pma perchè farlo significherebbe optare per il controllo “eugenico” della riproduzione e per il metodo più efficace per dare un buon avvio alla vita (il migliore!) a chi nasce.
Si dirà che entrambe le versioni qualcosa hanno in comune, ed è il vantare i presunti meriti della modalità “naturale” di nascere. Così è, in effetti, ma ciò non scioglie la tendenza ai paradossi dell’etica cattolica. Al contrario, essa ne esce accresciuta. Ci si dovrebbe infatti ulteriormente intendere su quale significato di natura sia quello “buono” per il giornale della Cei: in un caso la natura è lo spazio della spontaneità, del caso e della imprevedibilità opposti a quello della “qualità” e del “ben fatto”. Nell’altro è il luogo della “qualità” e del “ben fatto” opposti alla imprevedibilità delle tecniche e dei loro effetti. Farà piacere se Avvenire vorrà dare un contributo a chiarire termini e questioni importanti e delicate, spesso all’origine di aspre battaglie politiche e legislative che vedono il giornale dei vescovi italiani rivendicare l’importanza di principi e valori “non negoziabili”.

Corriere della Sera 19.1.11
Obama e Hu Jintao ora cercano l’intesa
Restano le distanze su economia e diritti civili


In visita negli Stati Uniti, il presidente cinese Hu Jintao è stato ricevuto ieri alla Casa Bianca da Barack Obama. Sul tavolo del summit Usa-Cina, il più importante dell’era Obama, temi come i diritti civili, la rivalutazione dello yuan e le relazioni con le imprese cinesi.

DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK— Dopo i giorni delle barricate dialettiche— i ministri di Obama che hanno preparato il summit Usa-Cina lamentando i (presunti) torti subiti nel 2010 e allineando richieste a raffica, Hu Jintao che ha replicato rivendicando con orgoglio l’ascesa della nuova potenza asiatica, respingendo le richieste di rivalutazione dello yuan e liquidando i sistema valutario basato sul dollaro come roba del passato— è arrivato il momento delle strette di mano e dei sorrisi. Il presidente cinese, appena atterrato a Washington, è stato ricevuto con calore alla Casa Bianca da Barack Obama per una cena «intima» alla quale hanno partecipato, da parte americana, solo il segretario di Stato Hillary Clinton e il capo del Consiglio per la Sicurezza nazionale, Tom Donilon. Se i problemi sono ormai troppo vasti e complessi per essere risolti da un vertice— sia pure il più importante summit della presidenza Obama — Stati Uniti e Cina hanno ormai responsabilità talmente vaste davanti al mondo che non possono non mostrare un buon livello di comprensione reciproca e la volontà di cooperare. Per questo Obama, pur reduce da un 2010 caratterizzato da tensioni crescenti tra i due Paesi sul piano diplomatico e commerciale, ha deciso di concedere l’onore della cena di Stato — quella che si svolgerà stasera alla Casa Bianca— alla quale i cinesi, nel loro formalismo, tengono molto. Un onore che era stato negato cinque anni fa da George Bush a Hu, durante la sua precedente visita. Allora non solo il presidente cinese era stato liquidato con una colazione di lavoro, ma la visita era stata costellata da diversi incidenti e gaffe di protocollo, dall’irruzione di una manifestante del Falun Gong (un movimento religioso perseguitato in Cina) durante la conferenza stampa congiunta dei due leader, all’uso, presentando Hu durante una cerimonia, dell’espressione «presidente della Repubblica cinese» : la denominazione ufficiale di Taiwan, mentre quella di Pechino è Repubblica popolare cinese. Allora Hu inghiottì il rospo. Ma la Cina del 2010 è un Paese molto più forte, orgoglioso, sicuramente non più umile. È anche diventato il principale creditore del Tesoro americano, mentre il Paese ancora non si è ripreso dalla crisi. Obama ne è consapevole e cerca di compensare le sue debolezze economiche elevando il profilo politico della visita: metterà Pechino davanti alle sue responsabilità, soprattutto sull’Iran e per la mancata condanna delle aggressioni della Corea del Nord a Seul, e porrà con forza la questione dei diritti umani violati. Questioni che, quando sollevate, portano sempre Pechino a reagire con asprezza, ma che rivelano anche un suo fianco scoperto. Obama, però, ha anche bisogno di individuare un terreno di cooperazione e di dialogo, e quindi cerca di «sedurre» un interlocutore che ormai conosce molto bene e col quale ha rapporti personali cordiali — è l’ottava volta che si incontrano tra vertici internazionali, colloqui all’Onu e la visita del presidente americano a Pechino di fine 2009 — con un doppio ricevimento alla Casa Bianca: quello più riservato, confidenziale, di ieri sera e la cena di Stato di oggi, la prima in onore di un leader cinese negli ultimi 13 anni. Con quali prospettive? Non molte a sentire gli analisti (anche perché Hu è a fine mandato e può offrire poco), se non un rasserenamento del clima fra i due Paesi e l’annuncio di qualche buon affare: sulla questione dello yuan non sono prevedibili mutamenti di rotta di Pechino che vadano oltre l’attuale, lentissima rivalutazione (3,6 per cento in due anni). Qualche cosa di più il presidente spera per la penetrazione delle imprese Usa nel mercato cinese. Anche qui Hu non dovrebbe concedere molto ma, sapendo che Obama ha soprattutto il problema interno di rilanciare l’occupazione, insisterà sugli acquisti di merci Usa (aerei, prodotti agricoli, carne), sulle joint venture e sugli investimenti cinesi negli Usa (energie alternative) che creeranno posti di lavoro negli Stati Uniti. M. Ga.

Corriere della Sera 19.1.11
L’incontro-scontro con l’Occidente Quando il Celeste Impero ci snobbava
Fino a metà Ottocento, i mercati cinesi erano chiusi alle importazioni
di Michela Catto

Anche se la «leggendaria» interpretazione dello storico (e comandante) inglese Gavin Menzies (1421— La Cina scopre l’America, Carocci 2003) fosse vera, e dunque i cinesi fossero giunti sulle coste americane ben settanta anni prima di Cristoforo Colombo, ciò sarebbe un episodio della storia ma non farebbe Storia. Delle cento navi e dei 20 mila uomini inviati dall’imperatore Zhu Di e comandati dall’ammiraglio Zheng He non rimane ricordo che vada al di là di una mappa geografica cinese dell’America del 1763, fedele riproduzione di quella quattrocentesca. Ciò che per gli europei fu la scoperta del Nuovo Mondo, la rivoluzione che cambiò le loro conoscenze, il loro regime alimentare, aprendogli le porte della diversità culturale, e creando l’uomo moderno, per la Cina fu come se nulla fosse accaduto. Solo in anni recenti la Repubblica popolare cinese ha cercato di rivendicare la paternità della «scoperta» dedicando a Zheng He una mostra e sponsorizzandola nel mondo. Una forma di amnesia piuttosto ricorrente nella storia della civiltà cinese. Alla Cina antica si devono centinaia di invenzioni scientifiche e tecniche. Basti ricordare il sistema a fusi multipli per la torcitura della seta (1313 d. C.), il telaio allungabile (I sec. d. C.), la stampa su carta con caratteri mobili in ceramica (XI sec. d. C.: una lista lunghissima è stilata dell’eccentrico sinologo e biochimico Joseph Needham, 1900-1995, in Science and civilisation in China). Ma le macchine tessili, i torchi tipografici e ogni altra invenzione compirono altrove le loro rivoluzioni. Immobilismo, chiusura, ostilità e disinteresse verso lo straniero sono i caratteri che contrassegnarono il comportamento dei cinesi verso l’esotico e il diverso. Mentre gli occidentali ripetutamente percorrevano la via della seta attratti dalle possibilità commerciali offerte dalle rare e fini produzioni cinesi, o pervasi dal desiderio di convertire la Cina al cristianesimo, i cinesi restavano ben radicati nel loro Paese. Missionari cattolici, e molto più tardi protestanti — questi ultimi solo dopo aver superato la contraddizione implicita nel voler convertire coloro che non erano stati predestinati da Dio— misero in contatto Occidente e Oriente, facendo conoscere agli europei sia la Cina che quelle Americhe che Colombo aveva trovato casualmente mentre cercava nuove vie per raggiungerla. Spostandosi da un continente all’altro, i missionari elaborarono riflessioni e descrizioni e discussero le prime teorie razziali che riservarono il posto privilegiato ai cinesi e ai giapponesi, dotati di leggi, di un governo stabile, di libri e monumenti che li rendevano superiori ai «barbari e selvaggi» del Nuovo Mondo. Mentre il ginseng o le porcellane cinesi invadevano il mondo occidentale, l’imperatore cinese Qianlong (1711-1799) si chiedeva perché mai dovesse commerciare con l’Occidente quando già possedeva tutto ciò che gli occorreva. Nel Nuovo Mondo i cinesi giunsero molto più tardi sbarcando, alla metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento, dal piroscafo Eagle. Era l’inizio della prima grande emigrazione cinese, dell’arrivo in massa di disperati che dalla Cina cercavano fortuna in America. Subito furono chiamati coolies, una parola di origine coloniale a ricordare che il loro sfruttamento era come quello degli schiavi. Gli Stati Uniti accolsero la prima emigrazione che diede origine, a San Francisco, alla più grande Chinatown dell’Occidente. Ma iniziarono anche una politica di controllo e contenimento: nel 1859 venne istituita la prima scuola per cinesi e qualche anno dopo, nel 1862, la prima tassa anti coolies (due dollari e mezzo pro capite all’anno per ogni individuo di razza mongolide). Anche se non mancava chi esprimeva empatia verso i cinesi, come il giovanissimo Mark Twain nel suo Treaty with China dell’agosto del 1868, i provvedimenti proseguirono sulla strada della ghettizzazione: nel 1880 furono dichiarati fuorilegge i matrimoni misti; nel 1882 fu bloccata la loro emigrazione. I cinesi furono spesso considerati fonte di epidemie e quando, nel 1899, a San Francisco scoppiò la peste bubbonica, tra le misure prese vi fu la quarantena di Chinatown, preambolo della creazione nel 1910 del centro di quarantena obbligatoria per i cinesi nell’isolotto di Angel Island di fronte a Alcatraz. E il sospetto continuò per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, espressione della politica statunitense nei confronti della Repubblica popolare cinese, di cui un discendente, Steven Chu, siede ora tra i ministri scelti da Barack Obama, e i cui cittadini invadono i campus universitari americani o occupano i posti chiave a Silicon Valley. Per l’Occidente i cinesi erano il «pericolo giallo» , e non solo perché erano confusi con i giapponesi di Pearl Harbor o con le ripetute epidemie che arrivavano dall’Oriente. Gli stessi cinesi cominciarono, su influsso delle teorie razziali occidentali, a definirsi gialli e classificarono per la prima volta anche gli occidentali, non più genericamente «barbari» — come ancora scriveva nel 1793 l’imperatore Qianlong, convinto di essere il capo del Regno di Mezzo, ossia il centro del mondo — ma, secondo il colore della pelle, in «diavoli bianchi» e «diavoli neri» , una divisione che non cancellava la consapevolezza che i primi erano i «dominatori» e i secondi gli «schiavi» , mentre loro, «i gialli» , non avevano nessun rapporto con i «diavoli» . Oggi la Grande Muraglia attrae più turisti statunitensi dei grandi centri del Rinascimento italiano; presto il 221 a. C., che segna la vittoria di Qin, sarà familiare al mondo come le date del 1776 o del 1789 e l’imperatore Qin Shihuang (quello delle statue di terracotta, per intenderci) sarà noto al pubblico occidentale al pari di Napoleone o di George Washington. Tutto questo sarà il frutto di una strategia pianificata. La Repubblica popolare cinese non vuole perdere la sua battaglia culturale: i suoi numerosi istituti culturali nel mondo, gli investimenti nella diffusione della sua cultura ne sono una viva e attiva testimonianza. La Grande Muraglia è la più visitata del mondo, ma non ancora la più amata e neppure dotata dello spirito carismatico della statua della libertà, né il premio Confucio può ancora competere con il Nobel per la pace. La «Chimerica» , avventura che vorrebbe fondere Cina e America, non è ancora veramente iniziata e dal punto di vista culturale è ancora tutta da giocare.

Corriere della Sera 19.1.11
Lo yuan, i commerci e le nostre illusioni
di Massimo Gaggi


«Hu Jintao annuncerà investimenti negli Usa, comprerà molti prodotti americani. Quando fanno una visita, i cinesi comprano sempre. E una visita ufficiale come quella del loro presidente a Washington ha certamente l’obiettivo di generare titoli positivi sui giornali e in tv. È anche l’interesse di Obama, dopo un 2010 difficile nelle relazioni tra i due Paesi. Ma sulla rivalutazione dello yuan e anche sul riequilibrio del commercio tra le due sponde del Pacifico e sul difficile accesso delle imprese americane al mercato cinese, meglio non farsi illusioni: non ci sarà alcun cambiamento significativo» . Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group, il principale centro di ricerche americano focalizzato sull’Asia e specializzato nell’analisi di opportunità e rischi degli investimenti nei Paesi emergenti, osserva con un certo distacco la «storica» visita di Hu. È l’indebolimento della «leadership» americana che rende più difficile costruire meccanismi di «governance» globale e quindi incide anche sulle relazioni bilaterali tra i due giganti o c’è un cambiamento delle dinamiche interne della Cina? Alcuni segnali recenti fanno pensare che fattori come il nazionalismo di un esercito che rivendica autonomia e la forza crescente dei grandi gruppi industriali stiano limitando i margini d’azione del vertice politico di Pechino. «Tutti e due i fattori. Ci sarebbero buone ragioni economiche per rivalutare lo yuan, anche dal punto di vista cinese. Per tenere a bada l’inflazione, ad esempio. Ma non lo faranno perché la constituency degli esportatori è, ormai, una forza irresistibile in Cina. Pesano più delle altre forze che operano nel Paese e infinitamente più dei moniti del ministro del Tesoro Usa Geithner, delle esortazioni di Obama e anche delle minacce di ritorsioni protezioniste da parte del Congresso Usa» . Minacce non credibili? La Cina cresce velocemente, ma è ancora un’economia da 5 mila miliardi di dollari, un terzo di quella americana. «Conta il peso dei Paesi. E quello della Cina è molto aumentato, fino a darle la capacità di resistere alle pressioni americane. Al tempo stesso le traiettorie diverse tra emergenti e mondo industrializzato, più ricco ma destinato ad avere bassi livelli di crescita, crea una divaricazione degli interessi tra i Paesi» . Il politologo Joseph Nye, il teorico del «soft power» , un concetto assai caro anche a Hu Jintao, è appena tornato da un viaggio in Cina dove dice di aver trovato interlocutori assai meno deferenti del solito nei confronti di un’America giudicata in inesorabile declino. Una percezione secondo lui sbagliata, alimentata dal risorgente nazionalismo. «La visita di Hu correggerà, almeno in parte, questa percezione. Con gli acquisti di cui dicevo prima, e magari con l’adozione di posizioni più rassicuranti sulle questioni internazionali che stanno più a cuore agli Usa, dall’Iran alla Corea del Nord. Ma i trend di fondo resteranno quelli che le ho descritto. Soprattutto in campo economico. Guardi l’indagine della Camera di commercio Usa in Cina: ha messo in luce che le imprese americane che non si sentono più le benvenute in Cina sono ormai il 38 per cento, molto più del 23 per cento di due anni fa» . Eppure Obama sembra intenzionato a premere sulle questioni industriali più ancora che su quelle valutarie. «Il 2010 è stato dominato dalla battaglia per uno yuan più forte. Senza esito. Credo anch’io che nel 2011 Washington metterà in primo piano le questioni industriali. Ma i cinesi prenderanno tempo e il tempo gioca a loro favore: dai treni ad alta velocità, alle centrali nucleari, ai jet, la capacità cinese di assorbire le tecnologie occidentali, riprogettarle e trasformarle in nuovi prodotti avanzati sta sorprendendo tutti per la consistenza e la velocità del fenomeno» . La Cina avrà addirittura la forza di mettere in discussione quel sistema valutario basato sul dollaro che Hu definisce «un prodotto del passato» ? «Certo. Wall Street vede rosa, incoraggiata da analisi come quella di Standard Chartered che parla di una nuova fase di crescita globale, un "superciclo"destinato a durare fino al 2030. O quella che sta per essere presentata da Jim O’Neill di Goldman Sachs, che sostituirà i suoi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, indicati anni fa come i Paesi-guida dello sviluppo, ndr) con un numero più ampio di economie trainanti del mondo "emergente". Chi è così entusiasta non riflette abbastanza. Intanto la crescita non beneficerà tutti: come dicevo, Paesi di nuova industrializzazione che crescono molto velocemente e nazioni mature e sviluppate che ristagnano seguiranno rotte sempre più divergenti. Anche il confronto fra capitalismo di Stato e libero mercato si farà più acceso. Lo vediamo già oggi nei rapporti Usa-Cina» . Pensavamo che il mondo sarebbe stato governato dal G2, un condominio cino-americano capace di prendere in mano i destini del mondo dopo il crollo del 2008. Ma lei, dopo l’infruttuoso G20 di Seul del novembre scorso, parlò di G-zero, cioè di un mondo sempre meno governabile. Hu-Obama è il primo summit di questa nuova era? «Dobbiamo guardare in faccia la realtà. Crescita degli emergenti significa inevitabilmente anche instabilità politica, perché i nuovi protagonisti, al di là della loro struttura politica più o meno fragile, ma comunque non paragonabile alla solidità e alla compattezza delle istituzioni politiche dell’Occidente industrializzato, sono assai poco propensi ad assumersi responsabilità internazionali. Guardi, ancora una volta, la Cina: non muove un dito a livello internazionale se non c’è un suo interesse diretto in gioco» .

Corriere della Sera 19.1.11
Cina e Stati Uniti, potenze gemelle Concorrenti ma non troppo
di Sergio Romano


Nei loro incontri di Washington il presidente cinese e il presidente americano parleranno soprattutto di problemi spinosi e questioni controverse: il valore delle loro rispettive monete, lo stato dei loro rispettivi arsenali militari, Taiwan, la Corea del Nord, i rapporti della Cina con il Giappone, forse il Tibet. Molti lettori, leggendo il resoconto dei colloqui, penseranno che la Cina sia diventata troppo ingombrante per i gusti degli Stati Uniti e che i due Paesi siano destinati a scontrarsi prima o dopo sul piano economico, se non addirittura su quello politico e militare. È possibile, ma sarebbe giusto ricordare che i rapporti degli Stati Uniti con la Cina non sono mai stati simili a quelli che altre potenze (Gran Bretagna, Russia, Francia, Giappone, Germania e in piccola misura l’Italia) hanno avuto con l’Impero di Mezzo durante la lunga fase del suo declino. Nel 1900 l’America mandò un corpo di marines a Pechino per soffocare, insieme a forze europee e giapponesi, la rivolta dei Boxer, ma non partecipò allo smembramento dello Stato e all’umiliazione dell’Impero. Dopo la rivoluzione del 1911 e la creazione della Repubblica cinese, la potenza che maggiormente contribuì, con un generoso programma di borse di studio, alla formazione di una nuova classe dirigente, fu l’America. Più tardi, dopo l’apparizione dei comunisti sulla scena politica, l’uomo che meglio raccontò le loro battaglie fu un intellettuale americano, Edgar Snow, autore di un libro (Red Star over China) che fu per la Lunga marcia di Mao ciò che l’Anabasi di Senofonte era stata per i soldati greci in rotta verso il Mar Nero. Gli americani non furono meno generosi sul piano politico. A Yalta, nel febbraio del 1945, allorché spiegò a Churchill e a Stalin l’architettura delle Nazioni Unite, Franklin Delano Roosevelt volle che nel Consiglio di sicurezza la Cina avesse diritto a un seggio permanente. Dopo la Seconda guerra mondiale, quando i comunisti di Mao e i nazionalisti di Chiang Kai-shek ricominciarono a combattersi per il controllo del Paese, gli Stati Uniti mantennero i contatti con le due parti nella speranza di una sorta di riconciliazione nazionale. Scelsero la Cina nazionalista di Taiwan e il Kuomintang (il partito di Chiang) soltanto quando la Repubblica popolare, proclamata nel 1949, divenne l’alleata di Stalin e soprattutto dopo la guerra di Corea, quando un milione di «volontari» cinesi sostenne il Nord contro il Sud. Ma non appena il generale MacArthur dichiarò che il miglior modo di vincere la guerra era quello di usare contro le retrovie cinesi l’arma nucleare, il presidente Harry Truman si oppose e non esitò a congedare bruscamente, di lì a poco, l’uomo che pochi anni prima aveva messo in ginocchio il Giappone. La guerra di Corea, la Guerra fredda e la guerra del Vietnam ebbero l’effetto di congelare i rapporti fra i due Paesi. A Washington, sino alla fine degli anni Sessanta, prevalse la convinzione che la Cina fosse un irriducibile nemico, non meno pericoloso dell’Unione Sovietica. Occorreva quindi contenerlo e rintuzzarne l’influenza in Asia con uno sbarramento di amicizie e alleanze simile a quello della Nato. Ma dopo l’elezione di Richard Nixon alla Casa Bianca, qualcuno cominciò a rendersi conto che la situazione, in realtà, era alquanto diversa. In primo luogo la Cina non era più, da molto tempo, la fedele alleata dell’Unione Sovietica in Asia.
Gli incidenti di frontiera (qualche migliaio) e i cruenti scontri fra cinesi e sovietici sul fiume Ussuri, agli inizi del 1969, dovettero aprire gli occhi di molti funzionari del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca. In secondo luogo qualcuno si accorse che la Cina non era amica del Vietnam e non aveva alcuna intenzione di assecondare la crescita di uno Stato legato a Mosca molto più di quanto non fosse legato a Pechino. E Henry Kissinger, consigliere di Nixon per la sicurezza nazionale, capì che lo stabilimento dei rapporti con la Cina avrebbe avuto due effetti: quello di rompere definitivamente l’asse fra le due maggiori potenze comuniste del mondo e di permettere agli Stati Uniti di uscire più o meno decorosamente dalla trappola vietnamita, un conflitto che non potevano vincere e che stava mettendo a dura prova l’unità della società americana. I colloqui segreti di Kissinger con i dirigenti cinesi, una sorprendente partita di ping-pong fra squadre degli Stati Uniti e della Cina popolare, e il trionfale viaggio a Pechino del presidente Nixon dal 21 al 28 febbraio del 1972, cambiarono la storia del mondo non soltanto in Asia. E la Cina occupò finalmente all’Onu il posto che le era stato prenotato più di vent’anni prima dal presidente Roosevelt. Chi scrive ebbe occasione di trattare frequentemente con i cinesi a Parigi, in quegli anni, la ripresa dei rapporti diplomatici con l’Italia e ricorda come i suoi interlocutori dell’ambasciata di Cina avessero cominciato a parlare degli Stati Uniti, molto prima della visita di Nixon, in termini alquanto diversi da quelli del passato. Dinanzi a una delegazione italiana che non credeva alle proprie orecchie, l’ambasciatore della Repubblica popolare (un generale della Lunga marcia) disse un giorno seraficamente che l’America, in Cina, non era mai stata una potenza colonialista. Il primo importante rappresentante diplomatico degli Stati Uniti a Pechino fu George Bush sr, già presidente del Partito repubblicano e futuro direttore della Cia. Bush rimase a Pechino soltanto quattordici mesi, fra il 1973 e il 1974, ma il suo passaggio nella capitale cinese creò un clima di reciproca comprensione che avrebbe dato i suoi risultati nell’estate del 1989 quando l’uomo politico americano, dopo essere stato il vicepresidente di Ronald Reagan, lo aveva sostituito alla Casa Bianca. I moti studenteschi, esplosi durante la visita di Gorbaciov in maggio e repressi nel sangue in piazza Tienanmen dopo la partenza del leader sovietico, erano stati accolti in Occidente con un misto di sorpresa, indignazione e molti interrogativi senza risposta sulla piega degli eventi. Il solo uomo di Stato che non ebbe dubbi sulla linea da adottare fu per l’appunto Bush. Limitò le deplorazioni allo stretto necessario, moderò i toni della protesta e dette subito l’impressione di pensare che la dirigenza cinese aveva represso le manifestazioni per meglio proseguire sulla strada della modernizzazione autoritaria intrapresa da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta. Fu chiaro allora che gli Stati Uniti non avevano alcuna intenzione di sacrificare i loro rapporti con la Cina sull’altare dei diritti umani. È difficile negare che quell’atteggiamento saggiamente conservatore abbia risparmiato all’Asia e al mondo un’altra Guerra fredda, non meno paralizzante di quella che sarebbe finita pochi mesi dopo sul Muro di Berlino e nelle piazze dei Paesi comunisti dell’Europa centro orientale. Vi sono state da allora altre crisi sino americane. Il missile americano sull’ambasciata cinese di Belgrado durante la guerra del Kosovo, nel maggio 1999, provocò furiose manifestazioni nazionaliste nelle strade di molte città cinesi. L’atterraggio forzato di un aereo spia americano, imbottito di strumentazioni elettroniche, sull’isola cinese di Hainan nell’aprile 2001 (il presidente a Washington era George W. Bush) provocò rabbiose reazioni americane. Le accoglienze del Dalai Lama a Washington, come quelle dell’ottobre del 2009, suscitano i rabbiosi risentimenti di Pechino. Le delocalizzazioni di industrie americane in Cina e il vertiginoso aumento delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti hanno creato a Washington una lobby protezionista che pretende la rivalutazione del renminbi e l’adozione di sanzioni economiche. La vendita di armi americane a Taiwan viene percepita in Cina come una deliberata minaccia alla sicurezza nazionale. Non basta. Esiste una corrente neo conservatrice americana per cui la Cina è il nemico di domani: meglio quindi cogliere al volo la prima occasione e tagliarle le gambe prima che cominci a correre troppo velocemente. Ma dopo ogni crisi è arrivato sempre il momento in cui i due Paesi hanno rimesso nei cassetti le dichiarazioni bellicose e appeso di nuovo sulle loro porte il cartello del business as usual, al lavoro come sempre. Pura e semplice convenienza? Certo, il grande debitore (l’America) e il grande creditore (la Cina) sono uniti l’uno all’altro come gemelli siamesi e sanno di dovere scegliere fra vivere insieme o morire insieme. Ma esistono altri fattori non meno importanti. Quello che maggiormente colpisce nelle relazioni fra i due Paesi è il volume dei rapporti culturali e accademici. Migliaia di borsisti cinesi hanno studiato nelle università americane e migliaia di giovani americani hanno deciso di imparare il cinese. Non vi è soltanto competizione fra i due Paesi. Vi è anche reciproca ammirazione e, da una parte e dall’altra, un po’ d’invidia.

Repubblica 19.1.11
2050. Chi comanderà la terra
Usa, gigante malato obbligato al confronto con la Cina pigliatutto
di Federico Rampini


L´ammiraglio Mike Mullen, capo di tutte le forze armate Usa, non ha dubbi su quale sia «la singola maggiore minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti». In una testimonianza al Congresso ha risposto senza esitare: «È il nostro debito pubblico». Perciò è significativo che l´arrivo del presidente cinese Hu Jintao a Washington coincida col record storico di quel debito: solo a livello federale, ha sfondato i 14.000 miliardi di dollari, un livello senza precedenti che richiederà una legge del Congresso per autorizzare nuove emissioni di titoli del Tesoro. Sperando che "gli altri" - la Cina e tutti i paesi emergenti - continuino a comprare quei titoli. Perché nel frattempo anche la virtù finanziaria è diventata una prerogativa di quell´area del mondo che "non è Occidente". Nei prossimi cinque anni l´area di quei paesi che ci ostiniamo a chiamare emergenti e che invece sono largamente emersi, rappresenterà oltre il 50% di tutta la crescita mondiale ma solo il 13% nell´aumento del debito pubblico globale. Questo accelera ancor più lo spostamento dei rapporti di forza, delle gerarchie internazionali.
Come un nobile spiantato, l´America continua a dare in pegno pezzi dell´argenteria di famiglia; il risparmio e quindi la capacità di investire sul futuro (dalle infrastrutture alla scuola) si concentra nei suoi rivali. Cina in testa, naturalmente, ma con dietro di lei un mondo sempre più affollato. E´ già insufficiente anche la sigla dei Bric (Brasile Russia India Cina) perché bisogna tener conto di Turchia, Indonesia, Sudafrica. Il politologo di Time e Cnn (ma di origine indiana) Fareed Zakaria usa l´espressione «Rise of the Rest», l´ascesa del resto. Il futuro appartiene a tutte quelle nazioni che non sono membri del vecchio club di paesi di prima industrializzazione, cioè quello che coincide in larga parte con la civiltà occidentale di razza bianca. Gli «altri» per definizione. Che cosa questo significa per la leadership uscente, l´America lo ha assaggiato in due eventi traumatizzanti. Prima al vertice di Copenaghen sull´ambiente, quando l´intesa sulla riduzione delle emissioni carboniche naufragò di fronte a un veto insormontabile di Cindia. Cina più India: è inutile «blindare» accordi tra occidentali, è impossibile decidere se i due giganti più popolosi dicono no.
Il secondo smacco per l´America è il G20 di Seul, novembre 2010. Là Barack Obama crede di poter mettere sotto accusa la Cina che non fa abbastanza per aprire i suoi mercati e trainare la crescita degli altri. E´ invece il suo governo che si trova sul banco degli imputati, per iniziativa di un asse guidato da Cina e Brasile che accusa la Federal Reserve di stampare moneta esportando inflazione e bolle speculative. Un terzo disastro è stato evitato per un pelo: quando Brasile e Turchia furono sul punto di affermare una soluzione alternativa alle sanzioni sull´Iran, e quasi mandarono all´aria il delicato lavoro condotto per due anni dalla diplomazia Usa dentro il consiglio di sicurezza Onu.
Il confronto tra l´Occidente in declino e «gli altri», ha una dimensione psicologica che è cruciale. The Economist l´ha definita «la redistribuzione della speranza». La fiducia nel futuro, una caratteristica che sembrava impressa nel Dna dell´America, si è spostata altrove. 87% dei cinesi, 50% dei brasiliani, sono convinti che il loro paese si sta muovendo nella direzione giusta, verso un avvenire migliore. Solo il 30% degli americani ormai ha tanta fiducia nelle prospettive nazionali. E meno di un quarto degli europei.
A lungo l´America è stata immunizzata dalle profezie sul suo declino: troppo spesso i fatti le avevano smentite. Dopotutto, il tema del declino agita la cultura occidentale dai tempi di Edward Gibbon, che nel 1776 descrisse la caduta dell´impero romano come un´allegorìa del destino che attendeva l´Inghilterra e l´Occidente. Fino a Oswald Spengler («Il tramonto dell´Occidente», 1918) che proiettò la disgregazione dell´impero austroungarico su tutta la civiltà occidentale. Poi agli Stati Uniti in particolare John Kennedy nel 1960 annunciò il rischio di un sorpasso sovietico. Sul finire degli anni Settanta il celebre saggio di Ezra Vogel «Japan as Number One» disegnò un futuro in cui il predominio nell´economia globale sarebbe finito a Tokyo. La tentazione è forte, di scrollare le spalle anche oggi, di fronte all´ultima versione del «declinismo». Ma l´autorevole rivista Foreign Policy avverte: «Stavolta è diverso», e pubblica un dossier speciale in dieci punti, per spiegare che non ci sono paragoni possibili con le due ultime minacce sventate, quella dell´Urss e del Giappone. Non era mai accaduto in passato che l´America avesse solo due aziende nella classifica Fortune delle Top Ten mondiali. Non era mai accaduto che un segretario al Tesoro (Tim Geithner) pronunciasse la parola «default», bancarotta, come uno scenario remoto ma possibile per il debito pubblico americano.
Un segno visibile che si oltrepassata una soglia, sta nella caduta di consenso verso quelle regole della globalizzazione che l´America stessa aveva definito. L´idea cioè che la liberalizzazione degli scambi fosse un gioco a somma positiva, dove l´arricchimento di tutti gli «altri» non sarebbe andato a scapito del benessere americano. La visione «win-win», del commercio mondiale in cui tutti possono essere vincitori contemporaneamente, è stata a lungo il dogma condiviso dalla classe dirigente americana a prescindere dal colore politico. Oggi viene rimesso in discussioni da autorevoli voci della sinistra (Paul Krugman) e della destra (Fred Bergsten). Se l´America comincia a dubitare che la partita sia truccata in favore di altri, è il segno che un´èra sta chiudendosi davvero.

La Stampa 19.1.11
Bibbia, l’arma in più di Obama
Il Presidente parla della sua fede, cita Giobbe e risale nei sondaggi
di Maurizio Molinari


Barack Obama ha tratto ispirazione dall’esempio di Giobbe per incarnare la reazione dell’America alla strage di Tucson e il richiamo biblico ha contribuito a un balzo in avanti di popolarità grazie al quale il Presidente affronta senza remore la sfida dei repubblicani sulla Sanità.

La tregua con la destra è però ormai finita Oggi alla Camera il voto sulla riforma sanitaria Il leader statunitense ha «trovato nei passaggi biblici spunti di meditazione»

A svelare la genesi del discorso pronunciato in Arizona nel quale Obama ha chiesto alla nazione «un momento di pausa» nelle asprezze del duello politico per potersi «risollevare» sono stati i due consiglieri che lo hanno aiutato a redigerlo: il giovane predicatore pentecostale Joshua DeBois titolare dei «rapporti con le fedi» alla Casa Bianca e Cody Keenan, originaria di Chicago, che già partecipò alla scrittura del testo pronunciato da Obama a New Orleans per il quinto anniversario dell’uragano Katrina. Se nei due anni trascorsi dall’insediamento Obama raramente ha fatto trapelare dettagli sul proprio approccio alla fede, in questa occasione l’elemento religioso si è imposto quando il Presidente si è trovato, per una coincidenza di eventi, sotto una triplice pressione: la commozione popolare per le sei vittime di Tucson, l’improvvisa morte in un incidente d’auto di Ashley Turton, moglie del consigliere Dan Turton, e i funerali al Kennedy Center di Richard Holbrooke, l’inviato per l’Afghanistan. Trovatosi assediato da gravi lutti Obama, spiegano alcuni suoi collaboratori, «ha cercato dentro se stesso» identificando nei passaggi biblici sulla vita di Giobbe degli «spunti di meditazione».
Giobbe è la figura del libro dei Ketuvim che perde la sua famiglia, la salute e le sue proprietà riuscendo comunque a non crollare, e già in occasione del discorso sull’anniversario di Katrina, lo scorso 29 agosto, lo aveva ricordato con la frase «se un albero viene tagliato c’è la speranza che fiorisca ancora». È proprio questa capacità di risorgere dalle difficoltà che Obama ha identificato nel salmo 46, rileggendo più volte fra il giorno della strage e quello del discorso il testo in versi che recita «Dio è per noi rifugio e forza, aiuto sempre vicino nelle angosce. Perciò non temiamo se trema la terra, se crollano i monti nel fondo del mare. Dio sta in essa, non potrà vacillare, la soccorrerà Dio, prima del mattino. Il signore degli eserciti è con noi, nostro rifugio è il Dio di Giacobbe». Proprio il discorso di Tucson viene identificato dai sondaggi come la ragione del balzo in avanti nella popolarità di un presidente che in autunno aveva sofferto un sensibile calo di favori. Se in novembre, in occasione del voto di Mid Term, era sceso fino al 46% risalendo a fine anno al 50% sull’onda delle intese con i repubblicani su tagli fiscali e Trattato Start, ora Obama è arrivato - per Marist - al 53 per cento. A sostenere il recupero sono stati i giudizi positivi di leader repubblicani come John McCain e commentatori conservatori come Charles Krauthammer per il discorso di Tucson. Ma la fase di tregua con i repubblicani è stata di breve durata: da ieri la Camera dei Rappresentanti ha iniziato a discutere la legge per respingere la riforma della Sanità e per questa mattina è atteso un voto dall’esito scontato a causa della debolezza numerica dei democratici. Robert Gibbs, portavoce del Presidente, non sembra troppo preoccupato per il voto: «Non è un’iniziativa legislativa seria e non avrà seguiti di rilievo» per il fatto che al Senato gli equilibri numerici sono rovesciati.

La Stampa 19.1.11
Radiana, avvocato coraggio “Vi racconto la rivoluzione”
Da vent’anni in lotta con il regime: c’è ancora molto da fare
di Domenico Quirico


"MARITO COMUNISTA «Ma ho difeso tutti anche islamici e amici del capo in disgrazia»"

Il futuro di Radiana Nasraoui è incerto, come quello della rivoluzione tunisina. Tra una settimana potrebbe essere ministro, magari della Giustizia visto che è avvocato e ha difeso migliaia e migliaia di oppositori di Ben Ali. Questo se arriverà la seconda ondata, se sorgeranno, a guidare le folle, quelli che Hugo chiamava «i generali del popolo». Che oggi mancano per le vie di Tunisi. Lei non è un meneur delle folle: è, splendidamente, un’anima per cui il miracolo è ordinario, che ama ombrosamente una libertà di cui conosce il prezzo.
Ma ci sono le stesse probabilità che tra una settimana Radiana Nasraoui sia in prigione; lei che non ci è mai andata sotto Ben Ali nonostante le botte e le ciclopiche vessazioni. Solo perché era troppo conosciuta e le dittature hanno paura di una sola cosa, della cattiva (per loro) pubblicità. Questo accadrà se il «benalismo» senza Ben Ali, in corso di edificazione ma non ancora perfezionato, non riuscirà a far passare la finzione e a incamminarsi per le vie del «dispotismo democratico». Che non potrebbe sopportare la sfida di questa donna fragilmente indomita. A 57 anni con tre figli per ora respira a grandi boccate i tempi nuovi nella sua casa invasa di giornalisti e militanti, assordata dal telefono come da una colonna sonora: «C’è ancora molto lavoro per ottenere di vivere in una democrazia vera, ma per ora lasciate che sia felice». Non c’è stato il tempo di far riparare la porta scardinata dai poliziotti venuti ad arrestare per l’ennesima volta il marito, un altro indomito torturato ripetutamente in carcere, che dirige il partito comunista illegale per venti anni. Le pare quasi strano che non ci siano sbirri accampati come un tempo 24 ore su 24 sul pianerottolo. La sua forza? Aver difeso tutti, il marito, i comunisti, le vittime con e senza bandiere e ideologie, anche gli islamici. Perfino Kamel Fajef, l’uomo che «faceva» i ministri, il complice più stretto di Ben Ali. Quando è caduto in disgrazia lo hanno buttato nella prigione peggiore.
Questa rivoluzione ha avuto due eroi, uno è morto, il ragazzo che si è bruciato per protesta. L’altro è lei. Che ci racconta come l’ha scatenata. Una storia a conforto di tutti coloro che, ovunque, incalliscono mani infaticabili lottando contro il dispotismo.
Venerdì scorso di buon mattino era andata al ministero degli Interni dove era prigioniero suo marito. «L’avevano trascinato via, non sapevo neppure se era vivo». Il dittatore era ancora a Palazzo, saldo, nulla era accaduto: «Con me c’era la moglie di un altro arrestato, un paio di arrestati davanti alla sede del ministero. Un militante dei diritti umani, un sindacalista, è andato a mobilitare i lavoratori della Régie dei tabacchi, sono arrivati in 800, ha cominciato a spargersi la voce del perché ero lì, in strada, che parlavo con gli agenti di guardia. La folla cresceva, gridava, arrivavano telecamere. I poliziotti, terrorizzati, mi supplicavano di andare via, di andare a parlare da sola con un alto funzionario del ministero. Ho risposto che scendesse lui, in strada. Poi mi ha telefonato il ministro degli Interni mentre la folla urlava e premeva: prometteva che se tutto finiva avrebbero liberato mio marito. Non ci siamo mossi. Allora mi ha chiamato un amico di Ben Ali che avevo difeso in passato: a nome del presidente. Mio marito libero entro due giorni. Ancora no. La folla ormai era incontenibile. Mio marito è uscito dal ministero nel pomeriggio, proprio quando davano l’annuncio che Ben Ali era fuggito». [DO. QUI.]

il Riformista 19.1.11
«L’Egitto può esplodere da un momento all’altro»
di Azzurra Meringolo

qui
http://www.scribd.com/doc/47162711

il Riformista 19.1.11
Un rimpasto non basta a fermare la rivolta tunisina
di Andrea Luchetta

qui

Corriere della Sera 19.1.11
Storia di «mostri ordinari» e delle loro vittime
di Frediano Sessi


A supporto delle celebrazioni che spesso accompagnano il giorno della memoria, nel quale in Italia (e in gran parte dell’Europa) si ricorda lo sterminio nazista degli ebrei e la liberazione di Auschwitz, l’editoria propone numerose pubblicazioni, spesso di grande interesse. Tra queste, i disegni del ragazzo ebreo Thomas Geve, che scampato sedicenne dal carnaio di Auschwitz, ci restituiscono una insolita fotografia della vita in lager (Qui non ci sono bambini, Einaudi). Sid Jacobson ed Ernie Colón sono gli autori della biografia a fumetti che racconta la storia di Anne Frank, ripercorrendone le tappe salienti (Anne Frank. La biografia ufficiale a fumetti, Rizzoli/Lizard). Alcune opere di saggistica si possono, tuttavia, considerare più che necessarie per comprendere le nuove ricerche e la complessità della Shoah come evento storico. I due volumi della Storia della Shoah in Italia (Utet) che ci aprono lo sguardo anche sulle forme e le rappresentazioni della memoria nel dopoguerra; il nuovo saggio di Christopher Browning che ricostruisce a partire da quasi trecento testimonianze la vita e l’organizzazione quotidiana di un campo nazista di lavoro (Starachowice), ponendoci al centro di storie di eroismo, corruzione, compassione e disperazione, e aprendo uno sguardo nuovo sulla macchina dello sterminio (Lo storico e il testimone, Laterza); la prima guida sistematica in Europa sul complesso concentrazionario di Auschwitz-Birkenau (Visitare Auschwitz, Marsilio) che consente di decifrarne non solo la storia, le forme della memoria ma soprattutto quel che resta oggi allo sguardo dei tanti turisti che affollano ogni anno quel sito. Editi alla fine dello scorso anno, due saggi imponenti, per metodo di ricerca e qualità del contenuto: Donald Bloxham, Lo sterminio degli ebrei (Einaudi) ed Emilio Gentile, Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi (Feltrinelli). Al «dottor morte» , l’uomo che più di tutti simboleggia i crimini commessi dai medici nazisti, Jorge Camarasa dedica un lavoro che ne ripercorre le tracce della fuga (Mengele, l’angelo della morte in Sudamerica, Garzanti). Di altro genere è il saggio di Gabriele Nissim (La bontà insensata, Mondadori) che rilegge la tragica storia della Shoah attraverso le vite di quegli uomini e quelle donne che hanno avuto il coraggio di opporsi al male per portare soccorso alle vittime. Due incursioni in terra straniera, Francia e Germania, ci consentono di segnalare il saggio di Christian Ingrao, Croire et détruire (Fayard), la prima ricostruzione del ruolo degli intellettuali all’interno della macchina nazista di distruzione e da guerra SS; e il magistrale saggio di Peter Longerich, Heinrich Himmler (Siedler Verlag) che ricostruisce la vita e le scelte quotidiane di un «mostro ordinario» , uomo chiave dello sterminio nazista. Per tornare all’Italia, l’editore Giuntina, sempre attento alle questioni riguardanti la storia degli ebrei e dei perseguitati della storia, manda in libreria Luoghi della memoria in Italia 1938-2010 (a cura di Sira Fatucci e Lia Tagliacozzo). Tra le ristampe Salmen Gradowski, Sonderkommando (a cura di Philippe Mesnard e Carlo Saletti, Marsilio), un diario che ci conduce nel cuore dell’inferno di Auschwitz con la pietà di un ebreo costretto a bruciare i corpi dei suoi fratelli e che morirà nella rivolta contro le SS del lager.

Corriere della Sera 19.1.11
In piazza a 93 anni con il berretto di Frigia «Ho diritto di parlare»
Hessel dopo la censura dell’École Normale
di Stefano Montefiori


PARIGI — Stéphane Hessel parla in piazza del Panthéon, spalle alla tomba di Voltaire e sguardo verso i moltissimi cittadini intervenuti alla manifestazione, tra bandiere palestinesi e berretti di Frigia, icona della Rivoluzione francese. «La libertà di espressione non si tocca. L’École normale, dove superai il concorso di ammissione 70 anni fa — dice calcando il tono su 70 — ci aveva già assicurato la sala e non aveva alcun diritto di cancellare il nostro incontro. È un sopruso insopportabile, abbiamo tutte le ragioni per indignarci!» , e a questo punto gli applausi arrivano automatici, perché a 93 anni il diplomatico ex partigiano scampato da Buchenwald ed estensore della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sa come parlare a quella che è ormai la sua folla. Indignatevi! di Stéphane Hessel è il piccolo libro da mesi primo in classifica in Francia, un saggio che esorta alla ribellione pacifica contro le ingiustizie del mondo, prima introvabile ora distribuito ovunque, dalle edicole agli autogrill (già 750 mila copie vendute, tiratura prevista un milione). Ieri, l’indignazione era riservata all’École normale supérieure della rue d’Ulm. Su pressione del Crif (Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia) la direttrice della Scuola, Monique Canto-Sperber, ha annullato la conferenza di Hessel in favore dei palestinesi da tempo programmata nell’anfiteatro Jules Ferry del prestigioso istituto parigino. «Questioni di sicurezza» , ha spiegato ieri la direttrice in un imbarazzato comunicato, preceduto però da un editoriale del presidente del Crif, Richard Prasquier, che rivendicava il merito di avere fatto cancellare l’incontro. Prasquier ha lodato l’intervento del ministro dell’Educazione, Valérie Pécresse, e degli intellettuali Bernard-Henri Lévy e Alain Finkielkraut: questi ultimi però hanno entrambi seccamente smentito di essersi mossi per l’annullamento della conferenza. Tra le molte battaglie della lunga vita di Stéphane Hessel (contro i nazisti a fianco di de Gaulle, per i diritti dell’uomo, per la decolonizzazione, per l’ecologia) negli ultimi anni si è aggiunta quella per i palestinesi, e in particolare per gli abitanti di Gaza colpiti dall’intervento militare israeliano. Hessel ha deciso di prendere posizione contro Israele partecipando alla discussa campagna internazionale «Bds» (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), e per questo è stato accusato di antisemitismo e denunciato per «incitamento all’odio» : secondo gli attivisti filo-israeliani il boicottaggio di uno Stato è illegale in base alla legge francese. In difesa di Hessel nelle scorse settimane sono intervenute molte personalità del mondo politico e intellettuale, tra le quali Edgar Morin, Danielle Mitterrand, Hubert Vedrine, Daniel Cohn Bendit. Il dibattito alla Normale non prevedeva difensori del governo israeliano. Avrebbero dovuto partecipare cittadini di Israele ma tutti critici sull’operato del loro governo, come Nurit Peled, militante pacifista che ha perso una figlia in un attentato kamikaze, e Michel Warchawski, attivista pro-palestinese che in passato— a differenza di Hessel— ha dichiarato di essere antisionista, contrario all’esistenza stessa dello Stato di Israele. Non certo una conferenza equilibrata, quindi, però «qui fuori, al freddo, siamo molti di più di quanti saremmo mai potuti entrare nella sala di Rue d’Ulm» , ha detto dal palco Leïla Shahid, portavoce dell’Autorità nazionale palestinese presso l’Unione Europea. Hessel ha indossato di buon grado il berretto rosso offerto dagli organizzatori, e ha pronunciato un discorso senza traccia di odio anti-israeliano. Pretende — in omaggio a Voltaire — che la sua vecchia Scuola gli apra le porte, come promesso.

Corriere della Sera 19.1.11
Il discorso sul metodo come un autoritratto che spiega chi siamo
Cartesio: «Il dubbio conduce alla verità»
di Nuccio Ordine


«S arò ben lieto di illustrare in questo discorso quali sono le strade che ho seguito e di rappresentarvi la mia vita come in un quadro» : René Descartes, in latino Cartesius, esordisce nelle vesti di pittore nella sua prima opera, pubblicata nel 1637, che passerà alla storia come uno dei testi fondamentali della filosofia moderna. Ne Il discorso del metodo (o sul metodo seguendo la traduzione più diffusa) i fondamenti dei suoi principi filosofici, che hanno condizionato il dibattito filosofico scientifico per oltre due secoli, vengono dipinti come un autoritratto. In queste splendide pagine, racconto della vita e racconto della ricerca filosofica si fondono a un punto tale da essere entrambi necessari per spiegare l’avventura della conoscenza. E per raggiungere un pubblico più vasto, non solo degli addetti ai lavori, l’autore sceglie di esprimersi non in latino ma in volgare, scrivendo, secondo De Gourmont, uno dei capolavori della lingua francese. Cartesio parte dalla sua esperienza di giovane studente per prendere coscienza del fatto che, dopo molti anni di studio, «mi trovai gravato da tanti dubbi ed errori che mi sembrava di non aver tratto altro beneficio, cercando di istruirmi, se non la consapevolezza sempre più chiara della mia ignoranza» . Così decide di intraprendere una serie di viaggi alla ricerca di un sapere «che avrei potuto trovare in me stesso o nel gran libro del mondo» . E, nel prendere atto della varietà delle usanze e della diversità delle opinioni, «nutrivo sempre un estremo desiderio di imparare a distinguere il vero dal falso per vedere chiaro nelle mie azioni e camminare con sicurezza in questa vita» . Cartesio, insomma, è convinto che solo l’esercizio del dubbio può condurre alla verità. Di un dubbio radicale che deve investire ogni tipo di conoscenza. Bisogna smontare mattone per mattone la casa del sapere, rifiutando qualsiasi autorità e passando al vaglio tutte le conoscenze ereditate. Ma smontare la casa — le metafore architettoniche ricorrono spesso nel Discorso — non significa lasciare il vuoto al suo posto. Al contrario: il «dubbio metodico» è il mezzo di cui ci si serve per ricostruire un’altra casa più solida, le cui fondamenta sono costituite da un’affermazione che non dà adito a nessun tipo di dubbio: «Penso, dunque sono» . Perché proprio nell’atto di pensare che ogni cosa è falsa non posso negare di essere qualcosa: «Per pensare è necessario esistere» . Ma c’è di più: il dubitare ci fa capire che noi siamo comunque esseri imperfetti e che la nostra idea di perfezione non potendo appartenerci è stata immessa in noi dall’esterno, da un essere perfetto, da Dio (su questo tema però non sono mancate le critiche: si dimostra l’esistenza di Dio attraverso idee chiare e poi si chiama Dio come garante di queste stesse idee). La complicata ricerca della verità presuppone quindi un metodo che si fonda esclusivamente sull’uso della ragione. E di questo metodo esistono le prime quattro regole importanti: l’evidenza («non accettare mai per vera nessuna cosa che io non accettassi per evidenza» ), l’analisi («dividere ciascuna delle difficoltà che avrei esaminato... per risolverle meglio» ), la sintesi (iniziare «dagli oggetti più semplici e più facili da conoscere» fino a risalire «alla conoscenza dei più complessi» ) e l’enumerazione (ripercorrere le verità conosciute per ricostruire la catena dei collegamenti). Ma in questa opera Cartesio non vuole essere prescrittivo: «Il mio progetto non è quello di insegnare in questa sede il metodo che ciascuno deve seguire per guidare rettamente la propria ragione, ma solo di far vedere in quale modo ho guidato la mia» . Ecco perché la sua esperienza filosofica non si traduce in un trattato, ma in un discorso, in un racconto, in una «favola» . Perché i viaggi, le riflessioni solitarie, i dialoghi con i classici del passato servono soprattutto a capire noi stessi e il mondo che ci circonda. Non si studia per avere «onore o guadagno» , ma per arricchirsi di sapere. Pensieri edificanti, lontani ormai anni luce dalla rozza mentalità di chi oggi predica che la «cultura non si mangia» e che «le quattro pietre di Pompei» non meritano nessuna attenzione.

Repubblica 19.1.11
Perché il parto migliora il cervello delle donne
di Maria Novella De Luca


Maternità, ricerca Usa smentisce i luoghi comuni
Alle volte sembrano smemorate e distratte, ma in realtà selezionano le cose importanti
L’ossitocina, ormone principe del parto, stimola molte capacità sociali e produttive

È come un Big Bang emotivo. Dopo, infatti, nulla è più come prima. Testa, cuore, corpo e pensieri ruotano attorno a quell´essere appena nato e già allegramente prepotente, che vuole tutto, cibo, amore, calore, sorrisi, e guai a non soddisfare i suoi bisogni, gli strilli possono perforare il muro del suono. Accade quando nasce un bambino.

Le mamme, di solito, in questa fase, che dura dai primi mesi ai primi anni di vita del figlio, sembrano non capirci più niente, attonite in un nuovo ruolo dove tutto ruota intorno alla culla, intorno ai primi passi, intorno alle prime parole. Quasi il cervello delle donne, anche quelle meno vulnerabili alla mistica della maternità, si trasformasse ad un tratto in un «cervello di mamme», metamorfosi psicofisica finora molto raccontata ma ancora poco studiata, e caratterizzata il più delle volte da un pregiudizio negativo.
Prigioniere di una tempesta di ormoni e secondo un decalogo di luoghi comuni duri a morire, le donne-mamme diventerebbero meno affidabili sul lavoro (basta una febbre e la mamma-lavoratrice scappa a casa), meno disponibili verso i propri mariti e compagni, monotematiche nei discorsi (denti, asilo, tate, sonno), apprensive come non mai, sofferenti di amnesie e altre stranezze. Tutto vero? Forse, in parte,ma la lettura di questi «sintomi» va fatta esattamente al contrario, come afferma unsaggio della scrittrice e giornalista Katherine Ellison, in uscita il 26 gennaio edal titolo «Il cervello delle mamme» (Rizzoli), traduzione del best seller americano «The mommy brain. How motherhood makes us smarter». Un libro appassionante che smonta pezzo dopo pezzo tutti i luoghi comuni sulla maternità, e inserendosi in un nuovo filone di ricerche scientifiche dimostra che fare un figlio non solo rende le donne più intelligenti, capaci di raddoppiare gesti e azioni in un colpo solo (multitasking), ma addirittura la gravidanza fa espandere il cervello, e l´ossitocina, ormone principe di parto e puerperio, stimola capacità sociali e produttive che le stesse donne, prima di avere un bambino, non pensavano di possedere.
Certo, è vero, le neo mamme diventano smemorate «e mettono il dentifricio in frigorifero», muoiono di sonno o fanno altre stramberie, ma forse perché sono impegnate in qualcosa di più importante e il loro cervello «seleziona» le priorità. Una rivoluzione a 360 gradi insomma, che prova a restituire alla maternità il suo senso più vero. Tra i due estremi, che oscillano tra gravidanze glamour oltre ogni legge di natura e donne invece sempre più sole ed emarginate nei luoghi di lavoro dopo la nascita di un figlio.
E a questo tema, alle incredibili potenzialità delle «menti delle madri» aveva anche dedicato un libro due anni fa Massimo Ammaniti, professore di Psicopatologia dello Sviluppo all´università «La Sapienza» di Roma e famoso psicoanalista. In «Pensare per due» (Laterza) Ammaniti raccontava la metamorfosi emotiva e chimica del pensiero femminile che accompagna appunto la gravidanza e la nascita di un figlio, dove le emozioni sono simili ad una storia d´amore travolgente e romantica. Spiega Ammaniti: «Conosco il libro di Katherine Ellison e le ricerche a cui si riferisce, in particolare quelle dell´università di Yale. È un nuovo filone di pensiero che dimostra quanto ciò che accade durante la gravidanza, quando cioè si attiva il circuito cerebrale materno, resti poi nell´intelligenza femminile, proprio come ampliamento delle capacità in tutti i campi. Del resto la donna nei mesi che precedono il parto deve prepararsi a sviluppare abilità nuove, interpretare i bisogni del neonato, andare cioè al di là del linguaggio esplicito. E questo fenomenale allenamento diventa poi intelligenza emozionale, plasticità, capacità di relazione. Tutti elementi acquisiti con la maternità che si rivelano poi preziosi, ad esempio, nel mondo del lavoro».
Peccato però, sottolinea Silvia Vegetti Finzi, psicoanalista e autrice di alcuni fondamentali libri sul mondo dell´infanzia, «che di tutto questo non resti traccia quando le donne faticosamente cercano di reinserirsi in un ambito produttivo, che proprio in quanto mamme tende ad emarginarle». «Avere un figlio è forse l´esperienza più totale che una donna possa provare, è il superamento del narcisismo infantile, con la maternità si acquisiscono capacità sconosciute. Oggi però mi sembra che questa straordinaria intelligenza emotiva venga soffocata dalle difficoltà del formare una famiglia. Mentre al contrario ovunque si vedono immagini patinate di super genitrici in grado di fare tutto e di aver un bambino a qualunque età... In realtà basta leggere i blog delle mamme, per tornare nella realtà, e nella concretezza spesso faticosa del crescere un figlio».
Appunto. È come se diventare madri fosse da una parte un lusso esibito ed esaltato, e dall´altra una condizione che porta poi, nei fatti, svantaggi economici e sociali. Dice Chiara Volpato, professore di Psicologia Sociale all´università Bicocca di Milano: «Quando si diventa madri si scopre di avere uno sguardo più lungo e più aperto sul futuro, perché ci si proietta in avanti anche verso le vite dei figli, ed è davvero incredibile la capacità produttiva di molte donne dopo la maternità. E questi studi che finalmente valorizzano il "pensiero materno" sono fondamentali, ma in Italia cadono in una specie di deserto».


Repubblica 19.1.11
Giovanni Bollea
"Non distruggete la mia casa per i bambini"
L´ultimo appello del maestro della neuropsichiatria infantile, oggi gravemente malato, perché non venga smantellato il suo Istituto
di Leonetta Bentivoglio

Narrava qualche tempo fa il padre della Neuropsichiatria Infantile italiana Giovanni Bollea: «Ho incontrato un albero grande e grosso. Ci siamo guardati e lui mi ha detto: siamo entrambi alla fine». Ora che sul bilico della fine c´è davvero, Bollea, 97 anni compiuti in dicembre, sfida la morte con un´energia miracolosa. E dalla sua agonia lancia un appello per la salvaguardia e l´indipendenza dell´Istituto neuropsichiatrico romano da lui fondato: è questa la sua ultima, importante battaglia.
Colpito da un´ischemia cerebrale, l´autore di Le madri non sbagliano mai, libro-bibbia della "nuova educazione" (è appena stato tradotto e pubblicato in Spagna, dove lo stanno celebrando recensioni entusiastiche), scivolò il 12 agosto in un coma di quaranta giorni. Poi, prodigiosamente, riemerse in settembre, e da allora è ricoverato al Policlinico Gemelli di Roma, dimostrando una resistenza «che ha sconvolto tutte le previsioni e le statistiche dei medici», riferisce la moglie Marika. Trascorre muto questi giorni estremi, nutrito artificialmente e catturato spesso da uno stato soporifero. Però vuole comprendere e reagire. A volte si commuove per l´abbraccio di un parente. A tratti replica ai visitatori con piccole pressioni sulla mano, di volta in volta traducibili in un sì o in un no. E anche così, invaso dalle cannule e col volto pallido e scavato, ha una luce speciale. Una folta famiglia lo circonda. Con Marika ci sono i sei figli: Ernesto, Mariarosa e Daniele, avuti da Bollea nel primo matrimonio con Renata Jesi; e Barbara, Arturo e Marco, nati da Marika e dal suo primo marito, ma cresciuti con Bollea. Lo psichiatra che ha salvato dal disagio tanti bambini («a queste guarigioni devo i miei giorni più felici») ha oggi sette nipoti e tredici bisnipoti.
Ciò che più lo angustiava, prima di slittare nella condizione attuale, era il destino della Facoltà di Neuropsichiatria Infantile dell´Università "La Sapienza", col relativo Istituto di Via dei Sabelli a lui intitolato. «Giovanni ha diffuso in modo profondo e capillare una neuropsichiatria specifica per bambini e adolescenti: prima erano i pediatri a occuparsi dei problemi neuropsichici infantili», spiega la signora Bollea. «Creò una cattedra all´Università di Roma ed è a lui che si deve la nascita dell´Istituto che ha curato la più alta percentuale al mondo di bambini e ragazzi Down e neurolesi». Si è parlato di una possibile annessione dell´Istituto "Bollea" a Pediatria: un clamoroso passo indietro. Per questo, già un anno fa, Giovanni scrisse a Frati, Rettore della Sapienza, una lettera in cui gli chiedeva di proteggere la struttura da un accorpamento. «Grazie al lavoro di Bollea, l´Italia conta su numerosi centri di Neuropsichiatria Infantile. Sarebbe terribile togliere autonomia al cuore di questa mappa, cioè all´istituto romano che porta il suo nome», protesta Marika. Incombono nel frattempo i tagli della Regione Lazio che potrebbero comprometterne il funzionamento: il piano regionale, per l´Istituto di Via dei Sabelli, prevede una drastica riduzione di posti letto.

Repubblica 19.1.11
Vi racconto Come nasce il sorriso
di Giovanni Bollea

Pubblichiamo un testo inedito di scritto l´anno scorso e dedicato al sorriso dei bambini
È vero che il sorriso è una capacità innata dei bambini? Sì, dopo il primo pianto, appena uscito dall´utero, vediamo il sorriso del bambino legato a quello della madre che lo guarda a sua volta negli occhi. E, subito dopo, il piccolo afferra teneramente la mammella della madre, seguito dal sorriso felice di quando lei la lascia.
Il sorriso che nasce non dalla vista del volto della madre, ma dal suo profumo, rimarrà nella sua memoria per sempre. E così al primo dentino, al primo passo, all´entrata della Scuola Materna.
In questo modo il sorriso dei primi anni si prolunga anche durante le esperienze iniziali all´interno delle difficoltà scolastiche, che si manifestano già nell´asilo nido, dove i primi collegamenti con l´altro da sé sono ritmati dagli episodi di pianto, che è il loro modo di colloquiare. Ma il dramma nasce quando il bambino non è ascoltato né seguito, o quando la madre ritarda nel riprendere il bambino alla Scuola materna. Al loro incontro, perciò, ci sarà di nuovo "quel" sorriso d´intesa. Quel famoso sorriso del dopo scuola che non sarà mai più lo stesso durante tutto il suo cammino di adulto.
Ricordiamoci che anche nella gioia di aiutare la mamma nei piccoli lavori di casa il bambino manifesterà la preferenza della madre nei suoi confronti, che così lo fa sentire sempre più importante.
Il sorriso è lo stare con la madre, il ridere è la manifestazione dell´orgoglio e della soddisfazione di eseguire e conquistare qualcosa insegnatogli da lei, dalla quale gli giunge un segno di allegra approvazione. Il sorriso è quindi amore, il ridere è. .. "obbedire".
Nelle persone adulte c´è sempre un ricordo perenne della prima infanzia fino ai 10 anni per le tante cose fatte insieme: regali dei genitori, gioco e bicicletta col padre.
Se poi c´è l´amore della madre con i nonni anche la loro gentilezza ha una sua funzione rassicurante. Coinvolgerli in modo positivo nelle realtà quotidiane: ecco che l´elemento formativo darà felicità al bambino, se non lo avrete mai fatto sentire come un ordine. Il significato di comando non deve mai essere trasmesso infatti come un invito obbligatorio prima dei 4-5 anni. Sembrerà semplicistico e forse ovvio ma pochissimi invece capiscono l´importanza di farsi accompagnare e far partecipare il bambino alle commissioni, commentando a voce alta le cose che vedono.
Questo sia con i genitori che con i nonni.
L´infanzia sorridente in questo periodo storico non è purtroppo la normalità ma l´amore, lo slancio impegnato e caricato di generosa attenzione quotidiana formerà un adulto più o meno maturo.

Avvenire 19.1.11
I Pensieri di Pascal caduto da cavallo...
Secondo il matematico «laico» Odifreddi, il grande filosofo francese «sprecò il suo talento» scrivendo il suo capolavoro, e solo perché era diventato pazzo dopo aver battuto la testa in un incidente con la carrozza!
di Bruno Nacci


E non basta: fu la conversione a rovinare del tutto il suo genio...
Peccato che tutte le «prove» del polemista anticlericale non siano affatto fondate su documenti, ma solo su aneddoti e induzioni disinvolte. E questa sarebbe vera scienza?

Nel numero di gennaio del­la rivista Le scienze, Pier­giorgio Odifreddi ha scrit­to un articolo su Blaise Pascal la cui lettura risulta davvero imba­razzante. Non so se la citazione di Einstein, posta come premessa all’articolo per introdurre il tema degli scritti di Desargues e De­scartes, secondo cui «la scienza non è una repubblica delle bana­ne », sia frutto di un brutto tiro giocato dall’inconscio, oppure se dobbiamo prenderla come avvio autoironico di quanto segue... Ho scritto «imbarazzante» perché ra­ramente mi è capitato di imbat­termi, nel merito, in una tale se­quenza di inesattezze a proposito di uno dei maggiori scienziati moderni, nonché il massimo scrittore in prosa del Seicento francese, ma anche – mi si perdo­ni la franchezza – in una visione tanto miope e puerile dell’animo umano. Iniziamo dalle inesattez­ze. Odifreddi afferma che a 31 an­ni Pascal, sotto l’influsso dei gian­senisti, «era completamente per­so per la scienza». Dunque faccia­mo un po’ di conti, essendo nato nel 1623, Pascal aveva 31 anni nel 1654. Citando i soli studi scientifi­ci, nel 1654 Pascal termina i Traités de l’équilibre des liqueurs et de la pesanteur de la masse de l’air, lavora al Traité des coniques, di cui ci rimane un frammento, pubblica il Traité du trian­gle arithméti­que; nel 1655 scrive De l’E­sprit géométri­que e Introdu­tion à la Géométrie ; nel 1658 indice un concorso inter­nazionale per risolvere il pro­blema della «roulette» di cui rivelerà la soluzione nelle Lettres de Dettonville, capolavoro degli studi matematici che sugge­rirà a Leibniz il calcolo differen­ziale. Per non parlare del carteg­gio con scienziati come Sluse, Fermat, Huygens, eccetera, o del complesso piano da lui curato nei dettagli per il primo sistema di trasporti pubblici in Europa tra 1661 e 1662, anno della morte. Pascal completamente perso per la scienza dal 1654? Ma Odifreddi, oltre al nefasto influsso gianseni­sta (e dimenticando forse che tra i giansenisti c’erano studiosi come il grande Arnauld) afferma peren­toriamente che la causa del ritiro (presunto) di Pascal dalle scienze sia stata la follia: «Il 23 novembre 1654 Pascal impazzì». Ohibò. Do­po essermi strofinato gli occhi, ho proseguito la lettura dell’articolo che esporrebbe le prove di que­sta, inedita, pazzia di Pascal: «Lo testimonia il Memoriale che scris­se quella sera, pieno di frasi senza senso». Ora, che quello che tutti ritengono un documento di alta spiritualità possa essere interpre­tato come un segno di follia, è pensiero bizzarro se pure lecito. Ma neppure a Odifreddi la moti­vazione dev’essere sembrata troppo fondata, se ha sentito il bi­sogno di precisare che «la religio­ne e il misticismo erano comun­que solo effetti, o concause, della sua trasformazione». Dunque, la religione e il misticismo pascalia­no non erano sufficienti, e a que­sto punto Odifreddi introduce l’argomento princeps in sostegno a quanto afferma: «Pascal era in­fatti reduce da un grave incidente in carrozza sul ponte di Neuilly, in cui aveva letteralmente battuto la testa. In seguito soffrì per tutta la vita di forti emicranie. E quando morì nel 1662, a soli 39 anni, l’au­topsia rivelò evidenti lesioni cere­brali ». Un lettore sprovveduto che legge un passo come questo è certamente portato a credergli (che dovizia di informazioni!); peccato che in queste poche righe l’unico dato certo riguardi l’anno della morte di Pascal. L’incidente sul ponte di Neuilly è un aneddo­to, riportato da un anonimo forse alla fine del Seicento, che dice di averlo saputo da.... che a sua volta dice di averlo saputo da.... che a sua volta dice di averlo saputo dalla nipote di Pascal! Ma Odi­freddi, troppo preso dalla provvi­denziale tempestività di questo storia, vi aggiunge anche del suo: nell’aneddoto si dice che due dei cavalli, rotti i finimenti, cascaro­no nella Senna mentre la carrozza no, dal che il professore ha dedot­to che Pascal avesse «letteralmen­te » battuto la testa (rimane un dubbio: cosa vuol dire battere la testa «letteralmente»?), e poiché le deduzioni sono come le ciliegie e una tira l’altra, vi aggiunge an­che la ovvia (per lui) constatazio­ne che «in seguito» il pover’uomo avesse sofferto di emicranie. Pec­cato che Pascal ne patisse fin dalla prima giovinezza, ma dall’aldilà sarà certo grato di avergli abbre­viato di una de­cina d’anni – per esigenze di copione – la sofferenza. Do­po le ciliegie, la ciliegina: l’au­topsia avrebbe rivelato, sem­pre secondo O­difreddi, «evi­denti » lesioni cerebrali... Ora, a parte il fatto che tutta la sequenza è puramente immaginaria, dove ha letto il pro­fessor Odifreddi che nel referto autoptico si parlava di evidenti fratture cerebrali? Nel reperto (at­tendibile o meno rispetto alla me­dicina del tempo), al contrario, si parla di una mancata chiusura in­fantile di certe suture craniche che gli avrebbero causato per tut­ta la vita devastanti dolori alla te­sta. La lettura del referto e di altre diagnosi dei medici lascia spazio solo per due ipotesi, formulate nel Novecento: il cancro o la tu­bercolosi. Fermo restando poi che le (supposte) fratture cerebrali causate da un (supposto) inci­dente stradale nel 1654, non gli a­vrebbero impedito di scrivere ne­gli anni successivi, tra l’altro, le
Provinciales e le Pensées, bagatelle che anche un pazzo o uno con e­videnti fratture cerebrali natural­mente potrebbe scrivere! Però il professor Odifreddi, con invidia­bile disinvoltura che spero riservi solo alle miserabili vicende di un Pascal qualsiasi, mirava ad altro, una specie di perorazione conclu­siva, tanto polemica quanto sprezzante, che riproduco per la gioia (e lo spasso) di tutti i lettori di Pascal: «Oggi lo si ricorda quasi soltanto per i confusi Pensieri nei quali sprecò il suo talento, ma in gioventù aveva fatto vedere di co­sa sarebbe stato capace, se fosse stato risparmiato dalla conversio­ne ». Ma allora è stato il colpo «let­terale » alla testa o la conversione a sviarlo, facendone prima un pazzo e poi un debole di mente, o tutti e due? E poi: è proprio sicuro che una conversione, con o senza colpo in testa, possa rovinare per sempre un talento? Se questo è un assioma, dov’è la sua eviden­za? Ma se dal 1654 Pascal era già impazzito e invalido (parole di O­difreddi), com’è possibile che in seguito sprecasse il suo talento in quelle opere che, a dire il vero, so­lo il nostro esperto ritiene insigni­ficanti? Quale talento gli era rima­sto? E poi quanti di noi vorrebbe­ro fare a meno della conversione di un san Paolo o di un sant’Ago­stino? Divennero realmente ace­fali a causa della conversione?
Credo che sia inutile commentare o infierire oltre su un simile pro­cedimento argomentativo lacu­noso e non poco illogico, ma a proposito di «confusione»: non è che l’inconscio, ancora una volta, abbia preso la mano a Odifreddi?

Avvenire 19.1.11
Ma la vera politica non accetta «distrazioni»
di Maurizio Schoepflin


Leggere Pascal in chia­ve politica è scelta ori­ginale e interessante. L’ha compiuta Roberto Gatti in Politica e trascen­denza (Studium, pp. 250, euro 20,50), nel quale ha inteso «situare la riflessione politica di Pascal entro il contesto della politica mo­derna e valutarne la porta­ta sullo sfondo del progres­sivo delinearsi di quella che è stata definita la 'macchina politica della modernità'». Tale opera­zione ha richiesto che di al­cuni tra i più significativi temi pascaliani venisse of­ferta un’interpretazione di­versa – non opposta – ri­spetto a quelle abituali sul celebre genio di Clermont Ferrand. Per esempio, a molti è noto l’argomento del divertissement , discu­tendo del quale Pascal ha modo di criticare l’atteg­giamento di chi preferisce non pensare ai più seri problemi dell’esistenza e si perde in occupazioni insi­gnificanti e banali, che tut­tavia permettono di non affrontare le questioni in­quietanti della vita. Ebbene – afferma Gatti –, l’acuta di­samina del divertissement condotta da Pascal può es­sere considerata parte im­portante di una più vasta analitica esistenziale che «fa da premessa alla teoriz­zazione di un ordine politi­co della ragionevolezza in cui, in una prospettiva di­versa sia da quella giusna­turalistica che da quella giuspositivistica, si con­densa il senso più proprio e più caratteristico della ri­flessione politica pascalia­na ». Se, come ritiene Gatti, l’asse portante di tutta la speculazione pascaliana è la sproporzione tra finito e Infinito, particolarmente complessa diviene l’inter­pretazione delle convinzio­ni che Pascal ebbe circa il rapporto esistente fra Prov­videnza divina e sviluppo della storia umana. Per un verso, il filosofo dei Pensieri non stabilisce un collega­mento esplicito fra disegno divino e divenire storico, ma ammette che la fede è in grado di condurci ben al di là delle evidenze verifi­cabili: «Com’è bello vedere – si legge in un frammento –, attraverso gli occhi della fede, Dario e Ciro, Alessan­dro, i Romani, Pompeo ed Erode, agire, senza saperlo, per la gloria del Vangelo!».
Gatti fa dialogare Pascal con alcuni pensatori della modernità, quali Machia­velli, Hobbes, Spinoza, Locke, Rousseau e Marx, al fine di cogliere l’irriducibile originalità pascaliana, deri­vante soprattutto dalla de­cisa accentuazione della dimensione della trascen­denza e di quella escatolo­gica, accentuazione che – conclude Gatti – conferisce al discorso politico di Pa­scal una tonalità di proble­matica incompiutezza.

L'Osservatore Romano 19.1.11
Tra cure proporzionate e accanimento
La fine naturale della vita
di Ferdinando Cancelli


    "Ero malato e mi avete visitato" (Matteo, 25, 36). "A voi, ricercatori e medici, spetta mettere in opera tutto quello che è legittimo per sollevare il dolore; spetta a voi in primo luogo proteggere la vita umana, essere i difensori della vita dal suo concepimento fino alla sua fine naturale" affermava Benedetto XVI visitando il Centro Cardinale Paul Emile Léger di Yaoundé, in Camerun, il 19 marzo 2009. Lo stesso tipo di messaggio sarà udito in ben diverso ambiente:  nella Sala dei Ricevimenti della Hofburg di Vienna, il 7 settembre 2007, il Papa affermerà:  "È nell'Europa che, per la prima volta, è stato formulato il concetto di diritti umani. Il diritto umano fondamentale, il presupposto per tutti gli altri diritti, è il diritto alla vita stessa. Ciò vale per la vita dal concepimento sino alla sua fine naturale".
    Un ascolto non superficiale di queste parole rappresenta un mandato da compiere e pone un interrogativo:  se è chiaro, anche alla luce dei progressi dell'embriologia, che il concepimento, l'unione cioè dello spermatozoo del padre con l'oocita della madre, rappresenta l'inizio della vita di una persona, altrettanto chiaro significato va attribuito alla definizione "fine naturale" della vita. In altre parole, che cosa si intende quando si parla di "fine" o di "compimento naturale" della vita? È evidente che non si possa attribuire all'aggettivo "naturale" il significato di "affidato alla storia naturale di malattia":  quest'ultima descrive infatti in medicina l'andamento di una malattia lasciata a se stessa, non curata con alcun mezzo e, in molti Paesi del mondo, è fortunatamente sempre più raro che il medico si imbatta in simili casi nei quali la natura sia lasciata libera di fare il suo corso. Assumere un semplice antibiotico per una banale infezione è già di per sé mezzo per modificare la "storia naturale" di una malattia.
    La risposta va quindi cercata altrove e il magistero ci viene in aiuto con Giovanni Paolo II, tra quelli dedicati al "dramma dell'eutanasia". "Mediante sistemi e apparecchiature estremamente sofisticati - si legge nell'enciclica Evangelium vitae (n. 64-65) - la scienza e la pratica medica sono oggi in grado non solo di risolvere casi precedentemente insolubili (...) ma anche di sostenere e protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema".
    La differenza tra gli interventi terapeutici adeguati (proporzionati), secondo criteri oggettivi, alla situazione del malato e interventi inutili o dannosi (sproporzionati, tali da configurare un vero e proprio "accanimento terapeutico") è anche descritta poco oltre dallo stesso Pontefice parlando della "decisione di rinunciare al cosiddetto "accanimento terapeutico", ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati rispetto ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi".
    Possiamo cercare di comprendere a fondo queste parole con un esempio:  quello di un malato oncologico giunto agli ultimi giorni di vita dopo aver interrotto chemioterapie che, non dando in tal caso più alcun risultato, risultano ormai inutili e gravose (quindi "sproporzionate"). Questo malato è destinato alla "fine naturale" della vita e le uniche cure "proporzionate" per lui saranno quelle che mirano al controllo dei sintomi e all'accompagnamento; in un caso come questo anche la nutrizione e l'idratazione clinicamente assistite, doverose in fasi più precoci di malattia se il malato non può più assumere autonomamente cibo e acqua, potrebbero rivelarsi mezzi "sproporzionati" se l'organismo non fosse più in grado di assimilarli.
    Circoscrivendo quindi il campo a quelle situazioni in cui "la morte si preannuncia imminente e inevitabile" e sottolineando anche in questi casi la necessità delle cure normali, come le cure igieniche, Giovanni Paolo II ci permette quindi di comprendere bene le parole del suo successore Benedetto XVI:  la "fine naturale" della vita è quella alla quale una persona va incontro nonostante il ricorso a mezzi di cura proporzionati. La rinuncia invece a mezzi sproporzionati quindi inutili o dannosi, conclude Giovanni Paolo II citando le parole della Dichiarazione Iura et bona del 5 maggio 1980, "non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte".