venerdì 21 gennaio 2011

l’Unità 21.1.11
Il leader dei Democratici giudica auspicabile il voto: «Di fronte a Berlusconi Ben Ali ci fa u nbaffo»
E alle altre forze di opposizione: «Di fronte a questo scempio lasciamo stare gelosie e piccole beghe»
Bersani lancia la mobilitazione Pd «10 milioni di firme per cacciarlo»
La decisione di portare l’opposizione anche fuori dal Parlamento è stata presa dopo un giro di telefonate con Bindi, Letta e gli altri dirigenti del partito. «Berlusconi non mollerà e diventerà sempre più pericoloso»
d Simone Collini


Diecimila gazebo per raccogliere dieci milioni di firme. Il Pd lancia una mobilitazione per portare anche fuori dal Parlamento la richiesta di dimissioni del premier. La decisione è stata presa ieri dopo un giro di colloqui tra Bersani, Letta, Bindi e altri dirigenti del partito. «Dobbiamo rispondere colpo su colpo in Parlamento ma non basterà», è stato il ragionamento fatto dal segretario del Pd ai suoi. «Berlusconi non mollerà, sarà ancora più pericoloso perché si chiuderà a riccio e compirà altri strappi. Non ha più un sogno da vendere ma ha ancora forza mediatica, economica e anche di ricatto». E non si è dovuto impegnare troppo per convincere gli altri dirigenti che questo è il momento di lanciare un’iniziativa di piazza. Anzi, “di piazze”, visto che la raccolta di firme si svolgerà per tutto il mese di febbraio nei principali centri italiani, davanti alle scuole, alle università, alle fabbriche.
VIA BERLUSCONI, PENSIAMO A NOI
Il testo da sottoscrivere sarà breve: «Basta Berlusconi, occupiamoci dei problemi del paese». E Bersani in serata durante un’intervista a “Repubblica Tv” (e a proposito di televisioni dice che di fronte a un Tg1 «incredibile» come questo «pagare il canone Rai è sempre più difficile») sottolinea che l’iniziativa servità a «dare voce a tutti gli italiani indignati che vogliono mandare a casa Berlusconi», a prescindere da come abbiano votato in passato, perché la convinzione del segretario Pd è che anche molti elettori della Lega e anche del Pdl stiano vivendo questi momenti con difficoltà. E poi
con tutte queste firme che ci farete?, gli domandano. «Le carichiamo su un camion e le portiamo a Palazzo Chigi, senza cercare porte di servizio o strane residenze. Gli facciamo vedere coi tir cos’è l’Italia».
AUSPICABILE VOTO ANTICIPATO
A Bersani non sfugge che tenere allestiti per un intero mese i gazebo richiederà al suo partito «uno sforzo organizzativo straordinario», ma è anche convinto che questo sia il momento di giocare il tutto per tutto, puntando anche al voto anticipato. I colloqui con Fini e con Casini sono ormai quotidiani, e al leader del Pd sono arrivate rassicurazioni sul fatto che il Terzo polo farà fronte comune in Parlamento sia sulla sfiducia a Bondi che sul no all’ultima versione di federalismo proposta dalla Lega. L’obiettivo è far cadere il governo, e anche se Bersani vuole mostrarsi rispettoso della Costituzione (a quel punto la parola spetterebbe al Quirinale e poi si dovrebbe vedere se ci fosse un’altra maggioranza in Parlamento) non nasconde di auspicare un voto nei prossimi mesi: «Qualsiasi situazione è meglio di questa, comprese le elezioni anticipate».
BASTA GELOSIE E PICCOLE BEGHE
Non a caso alle altre forze dell’opposizione lancia nuovamente un appello a ragionare insieme su un «patto costituente» e su come non consegnare anche il prossimo decennio a Berlusconi, magari grazie alla legge elettorale “porcata” nel frattempo eletto al Quirinale («io non faccio morallismi, se uno fa il regista di film porno non ho obiezioni, ma Berlusconi ha tradito la Costituzione»). Bersani, che da settimane assiste a una serie di veti incrociati tra l’Udc di Casini, Sinistra e libertà di Vendola, l’Idv di Di Pietro, chiede a tutti di lasciar stare «gelosie e piccole beghe», l’«interesse di partito» per incassare due o tre punti percentuali in più o per esprimere il candidato premier. «Davanti a Berlusconi Ben Ali ci fa un baffo, di fronte allo scempio che vediamo cerchiamo di essere tutti generosi», è l’appello che lancia. Bersani assicura che lui lo sarà e che l’importante è trovare un accordo su pochi punti su cui «ricostruire il paese» (riforma fiscale, mercato
Foto Ansa
del lavoro, legge elettorale): «Se non lo troviamo piuttosto vado da solo». Ma se c’è un accordo su questo, bisogna fare fronte comune. Il leader del Pd si mostra fiducioso soprattutto per un fatto: «Di fronte al rischio di una deriva plebiscitaria sarà inevitabile parlarci». Ma, aggiunge, «se qualcuno dovesse comunque sottrarsi si dovrà prendere le sue responsabilità».
il Fatto 21.1.10
Berani: “10 milioni di firme contro il premier”. Ma il Pd non va in aula


Promette la raccolta delle firme di 10 milioni di “italiani indignati”, si azzarda a dire che guardando il Tg1 “pagare il canone diventa sempre più difficile”, chiede un “moto dell’opinione pubblica”. Eppure il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, non riesce ancora a incidere dove dovrebbe: nell’aula del Parlamento. Mercoledì, al primo appuntamento importante dopo il caso Ruby, si è presentato sotto tono. Dieci assenze pesanti – che assieme a un’altra decina di banchi vuoti tra Idv, Api, Udc e Fli – avrebbero potuto votare contro la relazione del ministro Alfano sullo stato della giustizia. Che invece, nonostante i giorni bui, è uscita da Montecitorio con 20 voti di vantaggio. Dallo staff del capogruppo Franceschini spiegano che il problema assenteismo non esiste: Arturo Parisi aveva la febbre a 39°, altri otto assenti erano tutti giustificati da certificati medici e Pierluigi Castegnetti non va nemmeno nominato: “Si immagini se in questi giorni sto fuori dalla Camera – sbotta al telefono – Quando non sono in aula è perché mi sto occupando delle questioni della giunta (dove si esaminano le carte della Procura su Ruby, ndr)”. Ma al di là delle assenze, neanche il dibattito in aula sapeva di barricate. Replicano al ministro Alfano Guido Melis e Cinzia Capano, non proprio due colonne del partito. E quando tocca ad Andrea Orlando, responsabile Giustizia del Pd, tra le prime cento parole che pronuncia ci sono queste: “Il ministro Alfano è un uomo accorto, non c’era bisogno di oggi per scoprirlo”. Ieri, il capogruppo Idv alla Camera Massimo Donadi ha scritto una lettera agli onorevoli colleghi: “Cari amici (…) qualora riuscissimo a serrare le nostre file e ad incalzare il governo con nostre proposte legislative, oltre che a contrastare compattamente le azioni dell’esecutivo, questa maggioranza, alla Camera, non reggerebbe nemmeno un mese”. Tutti presenti? L’appello è cominciato. (pa.za.)

La Stampa 21.1.11
C’è un rischio anche nel voto
di Lucia Annunziata


Il mondo politico italiano è di nuovo in preda alla frenesia delle urne. L’ombra del voto viene agitata o invocata alternativamente – ed è già più volte successo in questi ultimi due anni - come spauracchio o come minaccia a fasi alterne, magari dagli stessi soggetti politici. Ma sotto l’orgia (letterale) di volti e parole, c’è una sola domanda che val la pena porsi: possiamo davvero andare a votare? E’ possible, è credibile, ed è, soprattutto, utile andare a votare? In altre parole: ogni elezione anticipata in quanto ratifica di una crisi, ha un suo prezzo - noi possiamo pagare quello che è attaccato a questa eventuale nuova precipitazione verso le urne?
La risposta non è da cercare nelle alchimie dentro le coalizioni e negli scontri politici di queste ore. La soluzione a questo dilemma, qualunque sia la nostra opinione politica, non è più solo nelle mani di noi italiani: i limiti di agibilità politica del nostro Paese sono ormai da tempo stati ridisegnati dal contesto internazionale, dagli obblighi e dai doveri che questa collocazione ci pone. Ce lo ha ricordato proprio ieri la Bce, la Banca Centrale Europea, con un comunicato che ci riporta con i piedi per terra – ed è tipico della deformazione del nostro dibattito pubblico nazionale che questo comunicato sia finito nella zona «economia» invece di esplodere con tutta la sua forza nell’universo politico.
Cosa ci manda a dire la Bce? Nel suo bollettino di gennaio, l’istituto di Francoforte ci dice che la ripresa dell’economia dell’eurozona per il quarto trimestre del 2010, è rimasto dominato da un livello di «incertezza persistentemente elevato» e con rischi «lievemente orientati al ribasso». E aggiunge che a dicembre e agli inizi di gennaio le tensioni sul debito sovrano non si sono manifestate solo in Grecia, Irlanda e Portogallo, ma «anche in altri Paesi dell’area dell’euro quali Spagna, Italia e Belgio». In parole più semplici, la crisi del debito che pochi mesi fa ha attraversato come una tempesta l’Europa non è finita, e l’Italia rimane lì, tra i Paesi su cui l’ombra della destabilizzazione continua ad allungarsi. Robe tecniche, robe da economisti, robe troppo lontane da Ruby? Non proprio. Andate indietro con la memoria: ricordate il calare della crisi del default dei vari Paesi superindebitati d’Europa? Ricordate che impatto ha avuto questo eccesso di debito sui cittadini della Grecia, sulle strutture dell’Europa, ricordate le tensioni fra Paesi virtuosi e Paesi indebitati, l’ultimatum della Germania, il ricorso a montagne di denaro per salvare l’Irlanda, la disunità politica, il crollo dell’euro? Ricordate la bruttura di quel neologismo per indicare i Paesi indebitati, «pigs», che sta per Portogallo Irlanda Grecia Spagna, ma si legge come «porci»? Il legame che tiene insieme l’Europa, la sicurezza che ce ne viene, ma anche gli obblighi, si sono tradotti chiaramente in quella crisi in tutto il loro impatto sulle società in cui viviamo. Quella turbolenza, quella incertezza non sono mai davvero finite, portando con sé scenari che non sono rassicuranti: è da novembre che in sede internazionale economisti di grande autorevolezza, come il premio Nobel Paul Krugman, si chiedono «può salvarsi l’Europa?» (è proprio questo il titolo dell’articolo scritto da Krugman sul New York Times). Ed è da allora che circola intorno all’Italia il dubbio che il prossimo Paese a rischio potrebbe essere il nostro. Non roba da poco: l’Italia rimane una delle maggiori economie dell’Eurozona.
Cose da far tremare le vene nei polsi e che però non trovano mai davvero un modo per inserirsi nel dibattito nazionale, che rimane profondamente richiuso su se stesso, che si frantuma allegramente, che preferisce i propri interessi particolari a quello pubblico generale. Per capire quanto priva di senso sia la classe dirigente che guida il nostro Paese, basta confrontare le date dello scandalo Ruby con quelle delle tensioni internazionali – nel loro quasi perfetto sovrapporsi c’è tutto il senso dello smemorato e allegro disimpegno del nostro premier.
E’ così del tutto a proposito che la Bce ieri ci abbia ricordato la durezza delle condizioni in cui navighiamo. L’Italia, dice il bollettino, è ancora nella lista a rischio. La Bce ritorna a chiedere ai Paesi dell’area dell’euro di fare presto, di attuare «con tempestività riforme strutturali consistenti e di ampia portata a integrazione del risanamento dei conti pubblici per migliorare le prospettive di una maggiore crescita sostenibile». E l’Italia si cita nell’invito: «Profonde riforme risultano particolarmente necessarie nei Paesi che in passato hanno subito una perdita di competitività». E anche per l’Italia suona certo l’avvertimento: «Per quanto riguarda i conti pubblici, vista la perdurante vulnerabilità alle reazioni avverse del mercato, i Paesi devono impegnarsi al massimo al fine di conseguire i propri obiettivi di disavanzo e condurre saldamente il rapporto debito pubblico/Pil verso un percorso discendente», Ma se questo è il punto in cui siamo, possiamo davvero permetterci una nuova campagna elettorale? Non rischiamo di aprire, con una lunga battaglia intorno alle urne, quel varco in cui si infilano speculazioni internazionali, destabilizzazione, e mancanza di fiducia? La stabilità è sempre, in momenti di tensione, la maggiore assicurazione sulla vita di un Paese – e tuttavia la mancanza di stabilità è proprio la malattia che da sempre ha penalizzato l’Italia. Aver mancato di riportarci in questa zona di sicurezza, è forse il prezzo maggiore che la seconda Repubblica ci ha fatto pagare. Una responsabilità che va accollata anche ai governi di centro sinistra, ma che di sicuro è una delle maggiori sconfitte dell’attuale premier entrato sulla scena politica con la promessa proprio di cambiare e stabilizzare il Paese.
La risposta alla domanda iniziale può dunque essere una seconda domanda: come si difende la stabilità italiana? Forse non andando alle elezioni? O forse proprio scegliendole? Qualunque sia l’opzione, ora che siamo di nuovo davanti a una drammatica scelta della vita pubblica, abbiamo il diritto di avere dalla nostra classe dirigente una opinione chiara non sul sesso con Ruby ma sul prezzo che in ciascuno dei due casi pagheremo.

il Fatto 21.1.10
Tremonti elogia Berlinguer
Il ministro cita Pasolini e loda il più amato del Pci (e i sogni della Lega)
di Luca Telese


Mentre Silvio Berlusconi si cala l’elmetto e trascina il Pdl in trincea, Giulio Tremonti impugna il fioretto e cesella arabeschi possibili nel nome di Enrico Berlinguer, celebrando il segretario del Partito comunista, il leader più amato della sinistra italiana. Possibile? Mentre il centrodestra alza il ponte levatoio e si chiude nel fortino, Tremonti impugna la bandiera dell’austerità (lasciata cadere nel fango dai dirigenti immemori del centrosinistra) la modella sulle proprie esigenze, scavalca a sinistra il suo interlocutore di sinistra di ieri – Emanuele Macaluso – cita Pierpaolo Pasolini con magnanimità e una ironia sorprendentemente anti-industriale. Se non è un viatico per il governissimo, poco ci manca. Non ci credete? Eppure è successo, ieri a Roma. Per capire il senso dello strappo culturale del ministro dell’Economia bisogna capire il colpo d’occhio. Lo spunto del convegno è un libro pubblicato da un piccola ma acutissima casa editrice (Le edizioni dell’Asino), La via dell’austerità.
IL TESTO è il recupero del discorso più importante, delicato (e anche controverso, visti gli attacchi furibondi che piovvero da destra e da sinistra) di Berlinguer, quello con cui nel 1977 il segretario del Pci indicava (molto prima delle riflessioni sullo “Sviluppo sostenibile”) l’idea che una società capitalistica avanzata per non declinare deve abbandonare il modello dello sviluppo e del consumo indiscriminato. Al tavolo i moderatori sono due “ex ragazzi” della sinistra come Luigi Manconi e Marino Sinibaldi (oggi direttore di Radio3). Al fianco di Tremonti c’è il più importante padre nobile della sinistra riformista, Macaluso. In platea ci sono Bianca Berlinguer (Tg3), il leader possibile del Pd Nicola Zingaretti (che era anche padrone di casa ospitante), ma anche nomi importanti della storia socialista come Bobo Craxi (Bettino fu il grande nemico dell’Austerità) e Gianni De Michelis (che in qualche modo fu anche il simbolo incarnato di un certo edonismo craxiano degli anni ottanta). È di fronte a questa platea della sinistra magicamente riunita in nome del dibattito delle idee che Tremonti spiazza tutti. Ad esempio quando cita in questo modo gli Scritti Corsari: “Io mi ricordo l’articolo di Pasolini sulle lucciole. Voglio leggervi come finiva. Darei l’intera Montedison in cambio di una lucciola”. La platea resta quasi interdetta, Tre-monti piazza la sua battuta: “Come è andata a finire lo sapete tutti: la Montedison oggi non c’è più, e le lucciole invece sono tornate” . Come come? Cosa vuol dire il ministro dei tagli in asse? Che la poesia e il romanticismo pasoliniano sono più importanti dell’apologia del mercato e dell’industrialismo? Lo stupore non si dirada e il ministro continua: “Quel discorso era in realtà un discorso sul vuoto del potere in Italia”. Mentre tutti cercano di capire i riferimenti, Tremonti passa a Berlinguer, con un’altra soprendente apologia del leader comunista che gli ex comunisti non hanno più il coraggio di citare: “Quando Berlinguer ha fatto il suo discorso sull’austerità il comunismo non era solo l’hardware dell’Unione sovietica, ma anche il software dei movimenti e della decolonizzazione…”. Tutti sono con il fiato sospeso, il ministro si prosegue la sua analisi: “Il mondo occidentale era al suo punto più basso dopo lo shock petrolifero, il comunismo reale era al punto più alto della sua storia. Ma in realtà quel vertice di successo è stato anche il punto della sua crisi nel mondo”. E in Italia? La lezione prosegue così: “L’austerità fu un fondamento di moralità con cui Berlinguer voleva combattere gli sprechi, ma poi, per l’eterogensi dei fini, i governi di solidarietà nazionale produssero il debito publbico”. Ancora una volta abilissimo, insomma, Tremonti salva il segretario del Pci, ma accontenta anche gli ex socialisti. Manconi sottolinea il passagio più forte: “Quindi il discorso di Berlinguer era fondato sulla moralità, non sul moralismo…”. Quando Tremonti ritorna all’oggi c’è un altro brivido anti-globalizzazione: “Se ci pensate, sul fronte del tempio dei valori del primo novecento c’era ancora scritto: liberté, egalité, fraternité…. Mentre sul tempio dela contemporaneità si legge solo: Globalité, monnaye, marché”. Ovvero: globalizzazione, mercato e moneta.
QUI TREMONTI si fa ironico: “Non dico di recuperare il dirigismo del passato, ma almeno tornare a degli elementi di programmazione economica, almeno sul piano internazionale, non solo si può, ma si deve”. Ed è curioso che nella dinamica del dibattito il discorso sul software e sull’hardware sia contestato proprio da Macaluso: “Non condivido. Nel 1977 il comunismo era già in crisi”. E legge – a riprova – l’intervento con cui proprio in quel convegno Aldo Tortorella criticava l’economia del socialismo reale . Eppure, quando si passa alla contemporaneità c’è spazio per un altro colpo di scena. Già, perché Tremonti ritorna al nodo della moralità berlingueriana per declinarla in questo modo: “Il federalismo è la nuova etica civile” (ad esser maliziosi – e lo siamo – si potrebbe dire che nel programma immaginario di un nuovo governo arruola anche la Lega). E il centrodestra? Qui c’è persino un giallo. Già, perché Tremonti dice: “Tra le poche cose buone fatte da questo governo ci sono la lotta al debito pubblico e gli ammortizzatori sociali”. Altro che ministro arcigno: “Abbiamo usato le risorse che avevamo per difendere le pensioni e la sanità, che sono come l’aria: te ne preoccupi solo quando non li hai”. Insomma ecco il programma di un governo rigorista, equo, morale, che ricorre a un personale politico di destra, ma affonda le sue radici nella storia della sinistra italiana. Il sottotesto politico è molto sofisticato, ma il messaggio simbolico è clamoroso: è nato il tremontismo berlingueriano, l’ideologia perfetta di un possibile governissimo. Che tiene insieme tutti gli “ismi”, ovviamente. Tranne il consumismo, e il berlusconismo.

Repubblica 21.1.11
L´Europa e la globalizzazione
di Mario Pirani


Il referendum di Mirafiori non chiude la vicenda Fiat, così come le elezioni di un Parlamento non pongono fine alla dialettica politica tra partiti contrapposti.
Paragone percorribile se, però, alla fine si giunge a una composizione che assicuri la rappresentanza a tutti quelli che hanno votato per il Sì o per il No. Composizione che sarà facilitata se a tutte le parti in causa risulterà chiaro che Torino è stata teatro non di una dura vertenza sindacale ma di un´aspra verifica per accertare se nella più grande impresa italiana esistano o meno le premesse per restare al tavolo mondiale della competizione automobilistica. L´interrogativo che sottostà a questa come ad altre partite che si giocheranno ancora, è se l´Europa è destinata a soccombere nello sconvolgimento della mondializzazione o se riuscirà, quanto meno, a ridisegnare un profilo in grado di reggere in condizioni nuove ma democraticamente garantite. A Mirafiori, invece, non lo si è compreso. La Fiat – dice Marchionne – non è riuscita a farlo capire ma resta da chiedersi il perché di tanta afasia (od arroganza inutile?), mentre l´errore grave commesso, a mio avviso, dalla Fiom è stato di impostare la lotta solo sul piano dei diritti cosiddetti "indisponibili" e, quindi, non contrattabili come quelli della prima parte della Costituzione, quando si trattava invece di conquiste sindacali sacrosante. Sarebbe stato meglio, per contro, elaborare una piattaforma di scambio per ottenere in luogo delle modifiche al processo produttivo una partecipazione agli utili della produttività acquisita e in prospettiva una rappresentanza nel consiglio di amministrazione, non aliena, persino, a Marchionne.
Certo, si sarebbe trattato di una rivoluzione culturale che avrebbe rovesciato il vecchio schema della lotta di classe come condizione permanente dei rapporti di lavoro. Si è visto, purtroppo, che non solo la Fiom ma l´assieme della sinistra, divisa tra dubbi e fughe in avanti, non riesce – se mai vi riuscirà – a proporsi come guida di un processo di ripresa politica e sociale nella temperie causata dalla globalizzazione.
Va, però, detto che una rivoluzione culturale della natura suesposta implica difficoltà grandissime. L´Europa – in particolare quella nordica e occidentale, compreso lo spartiacque della nostra penisola – tra i soggetti della globalizzazioni, è quella più esposta alle penalizzazione perché è il continente con un livello di vita medio più alto, un Welfare più generoso e nell´animo della gente introiettato come un diritto acquisito, condizioni di lavoro incardinate in un patrimonio di garanzie sindacali frutto di un secolo di lotte sociali. Un impianto che poteva reggere dietro l´usbergo militare e politico atlantico, in un universo spartito tra mercato capitalistico, socialismo reale e terzo mondo in lento sviluppo. In pochi decenni tutto questo è scomparso e si è trasformato. Tutto scorre e supera vecchie frontiere pressoché in disuso: uomini, capitali e informazioni. Sconquassi finanziari, conflitti terroristici, migrazioni di massa segnano l´epoca in corso. L´Europa sembrava aver imboccato con l´Unione economica e monetaria una strategia nuova e vincente per stringere i ranghi, allargati anche ad Est, rinnovare se stessa, darsi una missione a livello della sua dimensione e della sua storia. Poi la paura ha preso il sopravvento, il cantiere europeo è rimasto a metà, la nostalgia di una difesa impossibile delle strutture passate ha inquinato le menti, l´incertezza del presente, il timore del rischio e l´incapacità di immaginare un futuro hanno rattrappito ogni strategia vincente volgendola in diffidenza, odio per l´altro, smarrimento di antiche solidarietà.
Da questo punto di vista il referendum di Mirafiori ha un precedente molto più imponente ma che dal punto di vista analogico gli si attaglia come un guanto, anche se l´esito è stato l´opposto: il referendum che nel maggio 2005 col 54,6% di No bocciò in Francia la costituzione europea e tarpò ogni slancio all´Unione. Lo slogan che unì una parte della sinistra, compresa un´ala del Ps, all´estrema destra lepenista, fu la "paura dell´idraulico polacco" e, cioè, della cosiddetta direttiva Bolkestein che avrebbe permesso ai lavoratori comunitari di prestare la loro attività anche provvisoriamente negli altri Stati dell´Ue, restando sotto il regime previdenziale del Paese d´origine. La Polonia era appena stata ammessa all´Ue e le plombier polonais a buon mercato divenne lo spauracchio non solo degli artigiani francesi ma dei ceti che si sentivano più esposti alla concorrenza. In conseguenza della vittoria dei No l´euro restò appeso alla Banca centrale di Francoforte senza neppure un embrione di governo europeo in grado di orientare la politica economica. Negli anni che seguirono la paura dell´emigrazione, la diffidenza verso l´Europa, le nostalgie nazionaliste e razziste hanno messo il vento nelle ali della destra estrema dall´Olanda alla Scandinavia, dall´Austria all´Ungheria. Da noi la Lega controlla il governo dalla roccaforte padana. Ora, tra l´altro, stiamo andando verso le elezioni presidenziali in Francia. Sarkozy è in difficoltà a i sondaggi danno i lepenisti, guidati dalla figlia del vecchio leader, una bionda e prestante capo popolo, in rimonta al 16-17%.
Ecco qualche slogan del suo ultimo discorso: "L´Europa di Bruxelles ha imposto ovunque i distruttivi principi dell´ultra liberalismo e del libero scambio a spese dei servizi pubblici, dell´occupazione, dell´equità sociale e della stessa crescita economica. Mentre la crisi e la globalizzazione imperversano e tutto crolla, resta solo lo Stato … che deve ritrovare il suo ruolo regolatore nel campo economico e riappropriarsi del controllo di alcuni settori strategici come l´energia, i trasporti e, se necessario, le banche insensibili ad ogni appello etico." Non vedo differenza tra queste parole d´ordine e quelle espresse, con minore vigore e forza di convincimento, da una parte notevole della sinistra. Con un solo spartiacque: il razzismo e la deriva populistica nelle sue varie espressioni, destinate a livello dell´opinione pubblica elementare a giocare a favore della demagogia di destra che usa la paura dell´altro come una indecente arma impropria. Di fronte al possibile aggravarsi della crisi economica rischia in prospettiva di riprodursi il paradigma che portò negli anni Trenta le destra al potere in mezza Europa.
Eppure una via d´uscita c´è: non si tratta, affatto, di affrontare la crisi portando le nostre condizioni di lavoro a livello dei cinesi, bensì di innalzarle a livello dei tedeschi. La Germania, sia nella versione Merkel che in quella socialdemocratica, ha dimostrato di saper reggere, sul piano della difesa della democrazia e di una forte economia con i salari più alti d´Europa, grazie a una salda ideologia riformista, basata su quella "economia sociale di mercato" o "modello renano" che dir si voglia, che vede ormai da decenni, in un rapporto, di volta in volta, collaborativo oppur conflittuale, non di principio ma ancorato a una presa d´atto della congiuntura economica e regolato dalla cogestione, il meccanismo di una dinamica di progresso. L´altro pilastro è quella "religione della moneta", che dopo due inflazioni devastanti, si è tramutato in una seconda natura della Germania. La nostra sinistra che per decenni si abbeverò al mito sovietico, per restare alla fine deprivata da ogni idea di futuro, dovrebbe ritrovare nell´esperienza pratica e nei principi orientativi della democrazia tedesca, le fonti per un rilancio di un riformismo forte e di nuovi diritti, non in difesa di fortini diroccati ma all´attacco per nuove frontiere politiche e sindacali.

l’Unità 21.1.11
La proposta Calderoli conferma il privilegio per luoghi di culto e immobili del non profit
Il testo non piace a nessuno. nemmeno ai Comuni. Il Pd: se non cambia votiamo no
L’ultima corruzione, rispunta l’esenzione Ici per la Chiesa
Nell’ultimo testo sul federalismo comunale viene confermata l’esenzione Ici alla Chiesa, che in origine era stata eliminata. Un regalo da 700 milioni al Vaticano, proprio alla vigilia del consiglio dei vescovi.
di Bianca Di Giovanni


L’ultimo appiglio del governo prima del precipizio arriva con l’ultima versione del federalismo municipale, trasformata da Roberto Calderoli in un pot-pourri senza altro senso se non quello di attirare consensi. Peccato che scontenti tutti, in primo luogo i Comuni, diretti interessati. Tutti meno uno: il Vaticano. La Chiesa incassa la conferma dell’esenzione Ici (che diventerà Imu) sugli immobili destinati ad attività di culto e non profit. Un regalo da 700 milioni di euro, arrivato proprio alla vigilia del consiglio permanente della Cei. Appuntamento che potrebbe diventare uno spartiacque per la legislatura, visto che si attende il giudizio dei prelati sulle ultime vicende del premier.
TESTO
Il testo del decreto attuativo depositato due giorni fa da Calderoli esclude dall’imposta sugli immobili i soggetti «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive». Altre esenzioni sono previste: per gli immobili destinati ad attività di culto, di tutte le confessioni; per alcuni fabbricati di proprietà della Santa Sede indicati dal trattato lateranense; e per tutti gli immobili dello Stato degli enti locali, delle Usl e delle camere di commercio. Non pagheranno l'Imu anche i fabbricati degli Stati esteri e delle organizzazioni internazionali, oltre che i fabbricati inagibili. Alcune esenzioni erano entrate nel mirino di Bruxelles, tanto che nella bozza precedente lo «sconto» non era previsto per gli immobili non di culto. Poi la bufera Ruby e la fitta trama di contatti diplomatici Oltretevere hanno spinto per il dietrofront.
Dal testo prendono le distanze il Pd (che pure era partito con un’apertura) e i centristi. Per non parlare della bocciatura dei Comuni. «Impossibile dare un giudizio positivo», ha sentenziato Sergio Chiamparino dopo un incontro con Calderoli. Con la nuova Imu (la cui aliquota è demandata di anno in anno alla Finanziaria) di fatto i sindaci perdono anche la poca autonomia residua. «Staremmo sempre a Roma con il cappello in mano ha spiegato Chiamparino è un’inaccettabile subalternità dei Comuni». Legautonomie, con Marco Filippeschi, parla di un assetto della finanza locale «rigido e largamente dipendente da scelte centraliste». Di fatto tutta la costruzione del fisco municipale si riduce a diversi gradi di compartecipazione al gettito.
PROROGA
In generale il testo dice ancora troppo poco sui numeri, sui fondi perequativi, il meccanismo della tassa di soggiorno (che viene concessa a livello provinciale). Insomma, c’è molto ancora da capire (anche se si capisce che conviene a Chiesa e grandi società, visto che le Spa sono esentate). Per questo l’Anci ha insistito per una proroga, su cui si è dibattuto per l’intera giornata. Il termine fissato dalla delega indica il 21 maggio per l’emanazione dei decreti attuativi. Ieri in molti (terzo polo, Comuni e Pd) hanno chiesto una proroga di sei mesi per consentire un esame più attento. Ma sullo slittamento pesa il no della Lega, che vuole una corsia preferenziale per il provvedimento-bandiera del Carroccio. In serata Enrico La Loggia (Pdl) ha annunciato che l’ipotesi sarà vagliata dal consiglio dei ministri di oggi. «Nel frattempo restano i termini previsti», ha detto.
Per Pier Luigi Bersani il decreto così comìè è stravolto. «O loro rinviano e ci mettiamo a discutere, o noi votiamo contro», ha dichiarato il leader democratico. Sommati ai voti del terzo polo, con l’ingresso del Fli, la maggioranza non ha margini nella bicamerale sul federalismo. Per questo i «furori» leghisti devono addomesticarsi a una trattativa. Tanto che ieri Calderoli ha accennato un’apertura per un approfondimento tecnico.

Repubblica 21.1.11
Il testo originario del decreto aveva ristabilito l´obbligo fiscale. E ora l´Italia rischia la bocciatura della Corte europea
Chiesa, dietrofront del governo niente Imu per hotel, cliniche e scuole
di Luisa Grion


ROMA - Nel rush finale verso il federalismo l´ultimo regalo va alla Chiesa. La bozza del provvedimento, che fra mille polemiche mercoledì prossimo andrà al voto, da ieri prevede uno sconto a favore della Santa Sede: gli immobili di proprietà del Vaticano, le sedi di culto, gli ospedali e le cliniche private legate alla Chiesa, gli oratori, ma anche le scuole private e gli alberghi gestiti dal mondo cattolico non verseranno un euro per la nuova Imposta municipale unica prevista dal federalismo per rimpolpare (dal 2014) le casse dei Comuni. L´ultima versione elaborata dal ministro leghista Calderoli arriva in un momento difficile per i rapporti fra governo e Chiesa, prevede una esenzione totale e corregge il testo originale che non prevedeva sconti.
Il dono, esteso agli edifici ecclesiali non di culto, è stato offerto ricalcando il modello già utilizzato per le esenzioni Ici, nonostante a suo tempo Bruxelles avesse manifestato molte perplessità in proposito. Lo scorso ottobre la Commissione Ue aveva infatti chiesto al governo italiano spiegazioni sul benefit fiscale, sospettato di rappresentare un illecito aiuto di Stato. Dall´Italia, ha sottolineato ieri la portavoce di Almunia, non è arrivata risposta. In compenso, è arrivato il raddoppio.
Ma a parte l´Imu (che i privati verseranno solo sulla seconda casa con aliquote stabilite di volta in volta dalla Finanziaria) e gli sconti al mondo cattolico, il provvedimento sul federalismo fiscale contiene molte altre novità. Per compensare la perdita di gettito che dovranno mettere in conto su diverse imposte, ai Comuni - per esempio - sarà assegnata una compartecipazione del 2 per cento sulle entrate da Irpef.
Altre compensazioni arriveranno alle giunte grazie alla introduzione della cedolare secca sugli affitti. La misura, fra le più discusse, prevede che gli affitti a canone libero siano tassati al 23 per cento, quelli a canone concordato al 20, ma secondo la stessa Confedilizia, (l´associazione dei proprietari) ad avvantaggiarsene saranno solo le classi di reddito dai 28 mila euro in su. Il gettito assicurato dal 3% di differenza fra le due versioni (più o meno 400 milioni) - secondo quanto promesso da Calderoli - sarà «destinato a misure in favore delle famiglie con figli a carico che vivono in affitto». Sempre riguardo agli immobili, il provvedimento dà una stretta alle case fantasma, quadruplicando le sanzioni per chi, dopo il 31 marzo, non si metta in regola con la sanatoria su case e fabbricati non dichiarati.
Polemiche accompagnano anche l´introduzione della tassa di soggiorno. I Comuni, solo se capoluoghi di provincia, potranno chiedere ai turisti un pagamento extra fra i 50 centesimi e i 5 euro a notte. La misura ha scontentato tutti. Confcommercio in primis: «Non facciamoci del male», ha chiesto il presidente Sangalli. Sulla difficile partita del federalismo la Lega lancia il suo aut aut («o passa o si va al voto»), ma il provvedimento sembra convincere poco i contribuenti. Secondo un sondaggio Consiglio commercialisti-Censis, per il 42,5% dei contribuenti il tutto si tradurrà in un aumento delle tasse.

La Stampa 21.1.11
Gli immobili della Chiesa esenti dall’Imu
Esclusi luoghi di culto, scuole, ospedali
di Alessandro Barbera


L’ Imu, l’imposta che a partire dal 2014 sostituirà l’Ici, non sarà applicata agli immobili la cui proprietà è riconducibile alla Santa Sede. Non solo chiese, sedi di culto, oratori e scuole private, ma anche alberghi, centri sportivi, ex conventi convertiti in residenze a pagamento. Nella prima versione del decreto delega sul federalismo fiscale, la mancata conferma dell’esenzione aveva messo in allarme le gerarchie ecclesiastiche. Non è difficile capire il perché: con quella norma, ogni anno, l’universo della Chiesa risparmia diversi milioni di euro di imposte. Ieri, nella versione riveduta e corretta del decreto sul federalismo municipale, Roberto Calderoli ha posto rimedio a quella che il governo aveva definito una «svista». La notizia ha portato grande sollievo degli ambienti di Oltretevere, ma non è bastata a evitare il duro monito del segretario di Stato Tarcisio Bertone sulle note vicende di Arcore.
Il governo conferma dunque la platea delle esenzioni Ici garantite finora. E lo fa nonostante sia aperto, di fronte alla commissione europea, un fascicolo presentato da un gruppo di albergatori e dai radicali Carlo Pontesilli e Maurizio Turco. Oggetto del contendere non è l’esenzione a favore dei luoghi di culto che il decreto - come avviene già oggi - conferma per le altre confessioni religiose; la ragione dell’indagine, che potrebbe tramutarsi in una procedura di infrazione, riguarda l’allargamento agli altri immobili che con l’attività di culto non hanno molto a che fare. Luoghi, come gli ex conventi tramutati in alberghi, che così - dicono i ricorrenti - compiono concorrenza sleale nei confronti degli altri privati.
Benché su questo punto sia improbabile una marcia indietro, è ormai sicuro che il testo Calderoli sul federalismo municipale cambierà ancora. Ieri il terzo Polo (Fli, Udc, Mpa, rutelliani) e il Pd, insoddisfatti per le modifiche presentate da Calderoli, hanno chiesto lo slittamento del voto finale previsto per mercoledì prossimo. Stessa cosa ha fatto l’Anci, che ha denunciato «l’incertezza» dei numeri e dell’impianto complessivo del testo. Dietro l’insoddisfazione c’è molta politica e qualche sostanza: mai come in questo momento, senza una maggioranza certa nella commissione bicamerale, terzo Polo e Pd hanno spazio per chiedere ulteriori modifiche. In buona sostanza, terzo Polo e Pd chiedono di garantire ai Comuni risorse certe e possibilmente omogenee, evitando sperequazioni fra Comuni.
Il governo potrebbe tirare dritto e accettare un voto 15 a 15, anche perché il voto delle commissioni non è vincolante. Si tratterebbe però di una foratura politicamente rischiosa che - lo si capisce dalle loro dichiarazioni - Bossi, Calderoli e Tremonti vogliono evitare. La decisione arriverà f o r m a l m e n t e con il consiglio dei ministri di stamattina, ma ieri sera, negli ambienti del governo, si dava per scontata una proroga dei tempi. Le ipotesi sono due: o uno slittamento di qualche giorno per dare alla commissione più tempo per discutere eventuali modifiche, oppure mettendo il federalismo municipale «in coda» e nel frattempo tentare l’accordo sul testo dedicato alla spesa sanitaria delle Regioni.
La Suprema corte contesta il riconoscimento automatico delle sentenze di nullità. Gli avvocati: giusto, basta scappatoie per privilegiati

Repubblica 21.1.11
La Cassazione contro la Sacra Rota "Matrimonio valido se dura per anni"
Lo scorso anno anche Ratzinger aveva chiesto più rigore al tribunale ecclesiastico
di Elisa Vinci


ROMA - Rapido, poco costoso. Il divorzio all´italiana sempre più spesso si chiama annullamento. Dopo il monito del Papa, la Cassazione dice stop al disinvolto aumento dei riconoscimenti delle sentenze della Sacra Rota. «I tribunali laici non possono convalidare in automatico la nullità di unioni concordatarie fondate su decenni di convivenza», afferma la Corte. E gli avvocati matrimonialisti denunciano: «Cancellare le nozze è spesso una scappatoia per risparmiare tempo e denaro». Chi ottiene l´annullamento infatti non paga più, senza divorzio non c´è mantenimento.
Maria Lorenza "ripudiata" dopo vent´anni dal consorte con il pretesto di avergli taciuto il rifiuto a diventare madre, aveva chiesto alla Cassazione se la delibazione trascritta dalla Corte d´appello di Venezia quattro anni fa, non fosse in contrasto con gli articoli del codice civile e della Costituzione sul matrimonio e la famiglia. Gli ermellini hanno raccolto le sue obiezioni, spiegando che «dopo un´unione tanto lunga», insomma dopo vent´anni, l´unica via percorribile resta quella della separazione civile.
Una «sentenza storica». «Basta con le disinvolte ed incontrollate scappatoie», afferma il presidente dell´Associazione avvocati matrimonialisti italiani, Gian Ettore Gassani. I numeri parlano chiaro, un matrimonio fallito su 5 finisce davanti alla Sacra Rota: 8.400 richieste solo nel 2009, quasi seimila le nullità.
«È condivisibile l´orientamento della Suprema Corte - dicono i matrimonialisti - La ratio di tale decisione deriva dalla necessità di evitare che il ricorso alla giustizia ecclesiastica possa tradursi in una disinvolta ed incontrollata scorciatoia finalizzata all´ottenimento della libertà in tempi rapidissimi che nulla ha a che vedere con le reali cause che possano determinarne l´annullamento». Sono nove i casi di nullità previsti in Vaticano. Tra gli altri: matrimonio combinato, l´incapacità psicologica di vivere la donazione reciproca, non accettazione della sessualità aperta alla procreazione
Già nel 2008 e ancora l´anno scorso Papa Benedetto XVI aveva invitato il tribunale ecclesiastico a un maggiore rigore. Adesso la Cassazione invita apertamente i giudici italiani a stanare i furbi, soprattutto dopo unioni lunghe una vita. La Corte infatti sottolinea: «La prolungata convivenza è considerata espressiva di una volontà di accettazione del rapporto che ne è seguito ed è incompatibile con il successivo esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione, altrimenti riconosciuto dalla legge». A chiedere la nullità delle nozze celebrate nel giugno 1972 era stato il marito. Raccogliendo il reclamo di Maria Lorenza, la prima sezione civile - sentenza 1343 - spiega che dopo tanti anni di matrimonio «è contrario ai principi di ordine pubblico rimetterlo in discussione adducendo vizi del consenso». Per sciogliere le nozze bisogna intraprendere la strada della separazione civile, senza cercare la scorciatoia della nullità, che mette al riparo dal dover pagare l´assegno alla ex moglie ma viola i principi del nostro ordinamento.

Repubblica 21.1.11
La rivoluzione araba
Dalla Tunisia all´Egitto l´eco della rivolta agita i regimi. Viaggio al Cairo tra i timori di contagio e le speranze di rinnovamento
di Bernardo Valli


L´insurrezione tunisina turba i sonni dei leader arabi Il timore del contagio è forte soprattutto al Cairo, dove l´ottantaduenne Mubarak deve sedare il malcontento di una popolazione sempre più povera
Tre uomini si sono dati fuoco, come il giovane che ha scatenato la rivolta contro Ben Ali

Non accadeva da più di mille anni. Lo senti dire spesso con una certa emozione, anche da chi, di solito, a cena sulla riva del Nilo, mantiene una certa flemma, e non parla di politica. Argomento indigesto. Capita di udire le stesse parole – mille anni! – anche nel suk di Khan el Khalili, dove non si ha l´abitudine di misurare il tempo. Forse è un´esagerazione. Basta frugare a fondo nella storia araba e qualcosa di simile salta senz´altro fuori: una spontanea rivolta di piazza che, come è accaduto a Tunisi, caccia dal potere un raìs detestato e corrotto.
Il tunisino Ben Ali, l´ex raìs adesso in esilio a Gedda, un tempo era considerato come è capitato ad altri uno "zaim", apparteneva alla categoria dei capi arabi che se non sono proprio un´espressione della volontà popolare, sono perlomeno capaci di interpretarne i sentimenti, incarnano insomma la media dei loro sudditi. Ben Ali all´inizio non era dunque soltanto un raìs, vale a dire un boss, più duro che giusto, e incallito dalla corruzione, quale è poi diventato secondo un´inevitabile parabola. E si sa che i soli in grado di scalzare un raìs di quella specie, amato o detestato che sia, sono i militari. Ci vuole un colpo di Stato, un putsch, o una guerra. Altrimenti nessuno li schioda. Salvo la morte che vince le longevità caparbie dei raìs. A memoria d´uomo la gente, il popolo, al massimo riempie le piazze e se ne va lasciando cadaveri e feriti nella polvere. La Tunisia è un´eccezione: la piazza ha vinto.
E´ normale che il fatto sia definito storico e provochi brividi nel Maghreb e nel Maschreck, nel mondo arabo d´Occidente e d´Oriente: brividi di malessere, se non proprio di paura, tra i potenti, tra i colleghi di Ben Ali; ma anche stimoli per sperare tra quelle che ancora si chiamano masse; le masse arabe che possono sognare di poter imitare un giorno i tunisini.
Una forte e qualificata rappresentanza di potenti arabi era riunita fino a poche ore fa a Sharm el Sheik, sul Mar Rosso egiziano, con la tacita decisione di non parlare della Tunisia. Perché farsi paura, evocando un possibile contagio di quella rivolta riuscita? All´ordine del giorno c´era la situazione economica e sociale e non era quindi il caso di evocare i demoni scatenatisi sulla costa Mediterranea. Se ne è ben guardato Hosni Mubarak, il raìs egiziano che governa su ottanta dei trecento milioni di arabi. Ma il segretario generale della Lega Araba, Amr Mussa, ha fatto da guastafeste ricordando che «la rivoluzione tunisina non è lontana».
È lì a due passi. Come si può non parlarne? E ha riconosciuto che gli arabi «sono entrati in uno stato di rabbia e di frustrazione senza precedenti». La diagnosi di Mussa deve avere provocato una scarica di adrenalina nell´assemblea dei potenti, a Sharm el Sheik. O perlomeno ha acceso dei dubbi sull´immutabilità del potere.
La rabbia, la frustrazione, la forte curiosità, non le vedi concretizzate sulle rive del Nilo. Niente manifestazioni. Soltanto una manciata di giovani nei giorni scorsi davanti all´ambasciata tunisina. Ma nei discorsi i tunisini sono i nuovi eroi popolari. Allo stesso modo gli egiziani esaltavano i feddayn palestinesi per consolarsi dell´umiliante sconfitta nel Sinai, davanti all´esercito israeliano, nel ‘67.
Ci sono stati dei sacrifici umani; e si dice siano stati ispirati da Mohammed Bouazizi, il tunisino di 26 anni che si è appiccato il fuoco il 17 dicembre, per protestare contro il rifiuto della polizia di dargli il permesso di vendere frutta e verdura. Morto qualche giorno dopo, Bouazizi è diventato il martire della rivoluzione tunisina. È già una leggenda: è lui che ha infiammato il paese. Davanti al Parlamento, qui al Cairo, l´egiziano Abu Abdel Monem ha seguito il suo esempio, lunedì 17 gennaio, al mattino. Arrivava da Qantara, nel delta del Nilo, dove aveva un piccolo negozio di alimentari, e ha acceso un fiammifero dopo essersi cosparso di benzina. Non ce la faceva più a mantenere la famiglia con quattro figli. Ad Alessandria, Ahmed Hashem, 25 anni, è salito sul tetto della sua abitazione e si è immolato. Un avvocato, Mohamed Faruk Hassan, ha tentato invano di uccidersi con lo stesso rito, al Cairo, nelle vicinanze del Parlamento, spiegando che il suo sacrificio era una protesta contro l´aumento dei prezzi.
Le autorità, confortate dai medici, hanno detto che quei suicidi o tentati suicidi non avevano un carattere politico. Si trattava di malati mentali, non di avanguardie di una "rivoluzione dei gelsomini" versione egiziana. Subito gli internauti, che hanno diffuso notizie e immagini degli avvenimenti tunisini, hanno lanciato uno slogan: «Siamo tutti malati mentali». Gli egiziani amano le nokta, le barzellette, le battute, ironiche o sarcastiche, che non risparmiano i politici. Grazie al web le nokta circolano indisturbate. La Grande ragnatela mondiale, tanto efficace in Iran o in Moldavia, ha consentito e consente tra Tunisi e il Cairo una fitta rete di scambi di informazioni e di suggerimenti che la censura non riesce a impedire. Quello spazio che sfugge al loro controllo è l´ossessione dei regimi autoritari e dei loro servizi di sicurezza. In questi giorni è l´ossessione delle principali capitali arabe.
All´Università americana, dove chiedo con candore a due sofisticati docenti arabi se hanno l´impressione che l´Egitto di Mubarak stia adesso correndo il rischio di crollare, ricevo una risposta degna della Sfinge. Prima un sorriso ironico e poi un ben scandito «forse domani, forse mai». Una non risposta. Ma inevitabile. È quasi identica la risposta di un redattore di Al Ahram, il quotidiano cairota che ieri sottolineava con risalto l´impatto degli avvenimenti tunisini nei paesi arabi. Dico quasi perché il giornalista mi offre un´analisi più ampia della situazione egiziana, assai diversa da quella tunisina, non solo per la natura del regime, ma anche per le dimensioni e la complessità della nazione che si stende sulle sponde del Nilo.
Quella di Hosni Mubarak, al potere dal 1981, anno dell´uccisione di Anwar al Sadat, è una dittatura sottile, capace di centellinare gli spazi di libertà e di imporre un esteso controllo poliziesco. Il suo partito, il Pnd (Partito nazional democratico), è la formazione politica dominante. Di fatto, il partito unico che il presidente ha affidato al figlio più giovane, Gamal; mentre l´altro figlio, Alaa´ Mubarak, si dedica agli affari. E in quel campo è considerato dinamico e invadente. Business e politica spesso si confondono. O addirittura si fondono. Una piccola costellazione di partiti minori, impegnati in un´opposizione dubbia, comunque con angusti spazi di manovra, dà una parvenza democratica a un regime che democratico proprio non è. I Mukhabarates-A´amat, i servizi segreti, sono i veri garanti del regime. Lo stato dì emergenza, decretato nel 1981, all´epoca dell´assassinio di Sadat, è tuttora in vigore.
La liberalizzazione degli scambi economici ha avuto come principale conseguenza una ancora più ampia differenza dei redditi, se tali possono essere chiamati quelli delle classi più diseredate in continuo aumento. Il rincaro dei prezzi porta a puntuali rivolte; la più recente e la più grave è avvenuta nel 2008; e almeno sotto questo aspetto il grande Egitto presenta qualche somiglianza con la piccola Tunisia (con soli dieci milioni di abitanti). Ma per il resto i profili dei due paesi sono molto diversi.
La rivolta tunisina non ha rivelato finora nessuna infiltrazione musulmana integralista. È stata laica. Nelle manifestazioni non sono apparse bandiere verdi dell´Islam, né sono risuonati slogan religiosi. Appare dunque usurpato il ruolo di diga anti-islamica affidato a Ben Ali dai suoi protettori americani ed europei.
Invece il movimento dei Fratelli Musulmani, moderato ma anche matrice di correnti integraliste, in elezioni oneste, senza i grossolani brogli tradizionali, otterrebbe in Egitto risultati vistosi. Mubarak li tiene a bada, li emargina, capita che li corteggi in segreto, aiuta le moschee e cosi indirettamente li blandisce, li mette ogni tanto in prigione.
Tra i suoi principali compiti c´è quello di impedire il dilagare dell´islamismo. Come i suoi colleghi sorveglia il suo popolo. Più che esserne l´espressione, è il guardiano. Il pericolo islamista, vero, esagerato o inventato, dà legittimità ai regimi autoritari. L´Egitto di Mubarak è schiacciato tra gli Stati Uniti, che finanziano in larga parte il suo esercito, e Israele, che gli consente un ridotto spazio di manovra.
E poi c´è l´età, ottantadue anni, e il problema della successione. Entro l´anno il vecchio generale dovrà decidere se lasciare il potere al figlio Gamal, o restare per altri sei anni alla presidenza. Quello sarà un momento cruciale. Dopo trent´anni di potere Hosni Mubarak soffre di qualche malanno fisico e dell´usura del potere. Gli attentati alla sua persona non si contano. Ma quel che pesa su di lui, e su di chiunque governi nel prossimo futuro l´Egitto, è il problema di creare i mezzi per far vivere i cento milioni di egiziani di domani. Cioè del 2050. Due secoli fa il Nilo dava da mangiare a 6-8 milioni di uomini e donne. Oggi vivono sulle sue sponde ottanta milioni, dei quali dieci sono copti. Una rivoluzione egiziana sarebbe un´altra cosa.

Repubblica 21.1.11
Nel palazzo del potere assaltato dai rivoltosi "Sparite dalla Tunisia"
di Renato Caprile


Fino a una settimana fa era di fatto il numero due del regime. Dopo Ben Ali, il presidente, e prima ancora del premier Ghannouchi, c´era infatti lui, Mohammed Ghariani, il segretario generale dell´Rcd, a dettare legge in Tunisia. A capo di un partito con due milioni e mezzo di iscritti su una popolazione di dieci, con finanziamenti praticamente illimitati, poteva mettere bocca su tutto. Promuovere o affossare carriere. Nella tv di Stato, nei giornali, nell´industria come nella pubblica amministrazione. Ma corre veloce la storia in questa parte del Maghreb e oggi monsieur Ghariani, che ci riceve nel suo sontuoso ufficio, tutto legno e divani Frau, al quattordicesimo piano dei diciassette del monumentale edificio dell´odiato partito unico ha l´aria di un uomo sull´orlo di una crisi di nervi. Fuma una sigaretta dopo l´altra e non sta fermo un attimo. Consapevole forse che in questo ennesimo giorno di protesta, sono proprio lui e la sua creatura, gli ultimi "mostri" da abbattere prima che la gente possa dire: è finita. Ed è esattamente ciò che accadrà alle 11 e 30, mezz´ora dopo che è iniziata la nostra conversazione.
Siamo in alto, molto in alto. Ma gli echi di una piazza in subbuglio che si sta organizzando per marciare compatta, per la prima volta da quando è iniziata la crisi, da Avenue Bourguiba fin verso questo grattacielo di marmi e specchi di rue Kames, protetto da blindo dell´esercito e dove funzionari e impiegati dell´Rcd sono asserragliati. arrivano in maniera distinta. E fanno paura perché dalle pareti di vetro si vede tutto. «Oddio», si lascia scappare una segretaria terrorizzata prima di lasciare in lacrime la stanza. «Ma sono solo poche centinaia di persone», prova a minimizzare Ghariani, ma è fin troppo evidente che nemmeno lui ci crede. «Senza di noi - continua - e non mi riferisco, è ovvio, alla mia persona, questo paese rischia di non uscire dalla crisi. Certo dobbiamo cambiare nome, diventare un partito come tutti gli altri, svincolarci da ciò che fino a ieri ci ha identificato con lo Stato, ma siamo la spina dorsale della Tunisia e quindi non possiamo sparire perché sarebbe un disastro». Forse c´è del vero in quel che dice Ghariani, basti pensare all´Iraq e alla scellerata decisione di sciogliere il Baath di Saddam. Ma una sessantina di metri più giù, le centinaia di persone che intanto sono diventate migliaia non la pensano così. Ormai premono contro i cancelli, qualcuno prova addirittura a scavalcarli. Dal tetto gli uomini della sicurezza sparano ripetute raffiche di mitra al cielo nel tentativo di disperdere la folla. Ma sembra inutile. Ghariani che è sempre più pallido e ormai ha più occhio alle finestre che a noi, sarebbe tentato di congedarci, ma continua nella sua difesa d´ufficio. «La Corruzione? Certo che c´era, ma noi ne eravamo fuori». «L´Rcd fabbrica di posti di lavoro? Esagerazioni, si dimentica che anche qui ci sono i concorsi». «I rapporti con Ben Ali? Stretti, è ovvio, lui era il presidente, ma negli ultimi tempi era come lontano, diventato troppo ostaggio della sua famiglia». «I Trabelsi? C´entravano poco o nulla col partito. Erano indifferenti alla politica, a loro interessavano solo gli affari». Le urla, le imprecazioni che vengano dal basso «Ladri, dovete sparire, restituiteci i nostri soldi», impongono un improvviso stop alla nostra chiacchierata. Sembra proprio che la situazione stia precipitando. Rientra la segretaria, ora singhiozza. Ghariani prova a consolarla e l´abbraccia prima che i suoi uomini lo portino via. Impiegati e uscieri si rifugiano nei sotterranei. Ma l´assalto al palazzo non ci sarà. La Radio ha appena dato la notizia che tutti gli otto ministri Rcd del governo Ghannouchi si sono chiamati fuori dal partito. Ormai l´Rcd è una sorta di scatola vuota. E la folla può finalmente sciogliersi in un lungo applauso. E due. Dopo Ben Ali, è out anche il suo partito, mentre viene riconosciuta la legittimità di tutti gli altri, comunisti e islamici compresi.
Resta il governo del "dopo", riunitosi ieri per la prima volta senza i cinque ministri che già si sono dimessi. Il nuovo, dunque, avanza velocemente come l´inchiesta contro i 33 parenti del deposto presidente, arrestati negli ultimi giorni e sospettati di "crimini" contro la Tunisia. Una parte del "tesoro" - perle, diamanti, zaffiri, monete d´oro e carte di credito - è già al sicuro. Restano i milioni dei conti all´estero e l´ingente quantità di reperti archeologici di cui erano zeppi palazzi e ville dei vip della nomenklatura.

Corriere della Sera 21.1.11
Hu vuole rassicurare Obama e gli Usa «Non siamo una minaccia per nessuno»
di Massimo Gaggi


Dallo splendore e dalla cordialità della cena di Stato— 225 ospiti in abito da sera alla Casa Bianca per onorarlo — al calvario di una mattinata al Congresso ad ascoltare i rimbrotti a raffica di deputati e senatori. Hu Jintao sapeva che la visita a Washington avrebbe portato con sé qualche spina: i richiami di Obama sui diritti umani violati e, ieri, il difficile confronto con un Parlamento nel quale decine di deputati hanno firmato la richiesta di introdurre sanzioni contro la Cina se non smetterà di manipolare la sua valuta. Per Hu è stato forse il momento più difficile della sua visita negli Usa: se l’è cavata dando risposte lunghissime, prolisse e inconcludenti. In pochi, così, hanno avuto il tempo di parlare e di rinfacciargli le violazioni dei diritti umani, quelle della proprietà intellettuale e le barriere commerciali che bloccano la penetrazione delle imprese Usa in Cina. Poi, prima di partire per Chicago dove oggi visiterà alcune joint-venture sino-americane, il presidente cinese ha parlato al pranzo dei «business leader» dei due Paesi. Nel giorno in cui Pechino ha diffuso i dati del consuntivo 2010 che sanciscono il suo sorpasso economico sul Giappone (la Cina nell’ultimo trimestre è cresciuta del 9,8%, del 10,3%nell’intero anno e ora ha davanti a sé solo gli Usa), Hu si è sforzato di mostrare la faccia rassicurante del suo Paese: «Siamo una potenza pacifica. Non perseguiamo alcuna politica espansionista e non è vero che intendiamo lanciarci in una corsa agli armamenti. Non diventeremo una minaccia militare per nessuno» . Parole significative, ma in contrasto con quello che i Paesi limitrofi e la stessa diplomazia Usa hanno sperimentato negli ultimi mesi: risorgente nazionalismo, rapporti aspri coi capi delle forze armate cinesi, atteggiamento duro di Pechino nelle controversie territoriali col Giappone e il Vietnam. Ma Hu ha cercato di dirottare l’attenzione su alcune conseguenze positive della crescita del gigante asiatico: per esempio il fatto che la spumeggiante economia cinese ha fin qui creato 14 milioni di posti di lavoro al di fuori del Paese. L’obiettivo della visita a Chicago è proprio quello di mettere sotto gli obiettivi delle telecamere alcuni di questi investimenti che producono occupazione negli Usa. Ma prima di poter fare il suo discorso a tinte rosa agli uomini d’affari, il presidente cinese è dovuto passare per le forche caudine del Congresso. Qui la dialettica è stata molto più brutale. Cortesi ma freddi, lo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, e la leader della minoranza democratica, Nancy Pelosi, hanno bombardato Hu. Boehner ha insistito sulle violazioni della proprietà intellettuale delle aziende americane, ma ha parlato anche di libertà religiose violate e di una politica mirante a limitare la crescita demografica anche «con un uso coercitivo dell’aborto» . La Pelosi si è concentrata sui diritti umani, chiedendo, in particolare, la scarcerazione del Nobel Liu Xiaobo. Hu ha dato risposte evasive. Ma sul copyright ha ammesso che Pechino si è resa conto in ritardo della serietà del problema e ha assicurato che ora lo sta affrontando con determinazione. Poi ha pure trovato il modo di contrattaccare, invitando anche il Congresso a smantellare barriere commerciali: quelle che bloccano le esportazioni di merci americane in Cina nei settori considerati strategici. Un po’ meno teso il dialogo al Senato, dove Hu è stato accolto da personaggi come John Kerry e John McCain. Alle loro domande, meno brutali ma sostanzialmente simili a quelle dei colleghi della Camera, il presidente cinese ha risposto che il suo Paese sta cercando attivamente di ridurre le tensioni tra le due Coree, ma ha aggiunto che il contesto nel quale opera è molto difficile. E poi, pur promettendo che la Cina continuerà a cercare di fare progressi nei diritti umani, ha invitato i suoi interlocutori a non tirare troppo la corda su Taiwan e l’autonomia del Tibet: «Sono problemi che riguardano la sovranità e l’integrità territoriale della Cina. Rispettatele. La storia dei rapporti Usa-Cina dimostra che le nostre relazioni progrediscono quando c’è rispetto reciproco» .

La Stampa 21.1.11
Nel 2005 aveva superato l’Italia e nel 2007 la Germania: Il Paese resta in fondo alla classifica come reddito per abitante
La Cina sorpassa anche il Giappone
Crescita del 10% nel 2010, è la seconda economia. Ma l’inflazione spaventa le Borse
di Luca Fornovo


Dieci anni fa era la settima economia del mondo, nel 2005 ha superato l’Italia, nel 2007 la Germania e - ormai è ufficiale - nel 2010 la Cina ha sorpassato anche il Giappone. Grazie a una crescita del prodotto interno lordo (pil) del 10,3%, l’economia del Dragone si piazza così al secondo posto, subito dietro gli Stati Uniti, che mantengono saldo il loro primato. Secondo Goldman Sachs, bisognerà aspettare fino al 2030 per vedere la Cina sorpassare gli Usa, in termini di Pil.
Una corsa quella del Dragone che è proseguita anche a dicembre (+9,8%) superando le previsioni. Ma il “lato oscuro” della crescita cinese che preoccupa analisti ed economisti è l’inflazione. In tutto il 2010, i prezzi in Cina sono saliti del +3,3% (+7,2% i generi alimentari), una crescita superiore a quella «desiderata» dal governo di Pechino del 2%. Lo spauracchio dell’inflazione cinese, unito ai timori sempre più evidenti di un aumento dei tassi di interesse nel Paese con effetti negativi sui consumi, ha mandato in rosso le Borse. In Asia, Tokyo ha perso l’1,13%, ma ancora peggio hanno fatto le piazze di Hong Kong (-1,70%) e Shanghai (-2,92%). In Europa il listino peggiore è Londra (-1,82%), seguita da Stoccolma (-1,66%), Francoforte (-0,83%) e Parigi (-0,30%). Uniche eccezioni Madrid (+0,76%) e Milano (+0,37%) che sono riuscite a chiudere in rialzo, trainate da banche e assicurazioni. Anche New York ha chiuso in calo, con il Dow Jones a -0,01% e il Nasdaq a -0,77%.
Tra i titoli più colpiti, invece, quelli dell’auto con Fiat Spa (-3,8%) e Volkswagen (-4,6%). Anche in questo caso la doccia fredda è arrivata da Pechino, che per contenere inflazione e consumi, ha annunciato di voler limitare a 250 mila unità all’anno il numero delle immatricolazioni di auto di quest’anno dalle 800 mila del 2010. I timori per una frenata dell’economia cinese hanno raffreddato anche il prezzo delle materie prime, provocando gli scivoloni di di Rio Tinto (-3,2%), Fresnillo (5,9%) e Xstrata (-5,1%). I dati economici di Pechino, che hanno sancito il sorpasso della Cina sul Giappone, sono arrivati durante la «storica» visita del presidente Hu Jintao negli Usa. In particolare ieri, a Washington, Hu Jintao ha firmato accordi per assorbire in Cina esportazioni americane per 45 miliardi di dollari e si è impegnato ad acquistare 200 aerei della Boeing.
In Giappone, invece, il ministro dell’Economia, Kaoru Yosano ha incassato, senza polemiche, il sorpasso della Cina. «È meritevole di lode», ha detto Yosano, perché è il risultato della «realizzazione economica» di Pechino compiuta con gli sforzi del governo e della popolazione. Anche se Tokyo diffonderà i suoi dati 2010 il 14 febbraio, le stime parlano di un pil nominale del Giappone di 5.390 miliardi di dollari contro i 5.745 miliardi della Cina e i 14.624 miliardi degli Usa. Yosano ha rilevato che la forte crescita della Cina «porterà anche qualche beneficio all’economia nipponica». Le economie delle due potenze sono già molto collegate: l’interscambio commerciale è stato di 151 miliardi nella prima metà del 2010 (+34,5%), mentre Pechino è il principale partner commerciale di Tokyo.
Ma nonostante il sorpasso, la Cina rimane indietro rispetto a molti Paesi se si considera il pil pro capite (il reddito per abitante), che secondo il Fmi è stato di circa 7.500 dollari nel 2010. Negli Usa il pil pro capite è di circa 47 mila dollari, in Giappone è di 33 mila dollari e di 30 mila in Italia. E ora gli occhi degli economisti sono puntati su un altro «fenomeno emergente»: l’India che, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, supererà l’Italia già dal 2015.

Repubblica 21.1.11
I numeri della letteratura
Quando la matematica ci aiuta a leggere Kafka
di Piergiorgio Odifreddi


Con le radici quadrate si possono capire i diversi ritmi dei racconti
I temi sono gli stessi: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità
Gabriele Lolli, sul modello delle "Lezioni americane" di Calvino, utilizza teorie e paradossi per raccontare scrittori e romanzi
L´opera del logico è un insieme di trame, associazioni e suggestioni In questo modo si evidenziano i legami tra le due discipline
Questo schema di analisi si potrebbe applicare anche alla musica e ad altre arti

Nel suo celebre e surreale racconto Pierre Menard, autore del Chisciotte Borges proponeva di ravvivare la letteratura basandosi sulla tecnica dell´anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee: «Questa tecnica, di applicazione infinita, ci invita a scorrere l´Odissea come se fosse posteriore all´Eneide, e il libro Le jardin du Centaure di Madame Henri Bachelier come se fosse di Madame Henri Bachelier. Questa tecnica popola di avventura i libri più calmi. Attribuire a Louis Ferdinand Céline o a James Joyce l´Imitazione di Cristo, non sarebbe un sufficiente rinnovo di quei tenui consigli spirituali?».
Borges va sempre preso seriamente, soprattutto quando sembra scherzare. Ha fatto dunque bene Gabriele Lolli a seguirne, consciamente o inconsciamente, il consiglio e a proporre nel suo ultimo e bellissimo Discorso sulla matematica. Una rilettura delle Lezioni americane di Italo Calvino (Bollati Boringhieri, pagg. 226, euro 18). Lo dichiara esplicitamente nel sottotitolo. E lo mostra fin da subito nella prima pagina, che riproduce l´indice autografo delle Sei proposte per il prossimo millennio del grande scrittore, scomparso proprio mentre stava portandole a termine.
L´occasione di scriverle gli era stata fornita dall´Università di Harvard, che l´aveva invitato nel 1984 a tenere le prestigiose Norton Lectures: una serie di sei conferenze distribuite nel corso dell´anno accademico, e dedicate in senso lato alla "poesia". Calvino interpretò il termine liberamente, come "comunicazione poetica", e scelse come argomenti delle sue sei lezioni la leggerezza, la rapidità, l´esattezza, la visibilità, la molteplicità e la consistenza. Riuscì a completare le prime cinque, ma morì prima di poter scrivere la sesta. Le lezioni non furono dunque mai tenute e apparvero postume nel 1988, curate dalla moglie.
Ora, Calvino era uno scrittore particolarmente sensibile alla scienza e alla matematica. Negli anni ´60 si era trasferito a Parigi, aveva incontrato Raymond Queneau ed era entrato a far parte dell´Oulipo che questi aveva fondato: una singolare confraternita di letterati-matematici e matematici-letterati che perseguiva il triplice obiettivo di una scrittura che possedesse ed esibisse immaginazione scientifica, linguaggio logico e struttura matematica. Nelle Lezioni viene tessuta una trama di riferimenti e di connessioni che individuano le stesse caratteristiche in autori parascientifici appartenenti a quella che Calvino stesso definì «una linea di forza della letteratura», che va da Lucrezio a Borges passando per Ariosto, Galileo e Leopardi.
È dunque perfettamente sensato che Lolli abbia voluto rileggere Calvino alla Borges, andando a ricercare quegli stessi aspetti nella matematica invece che nella letteratura. Utilizzando, quindi, le stesse categorie delle Lezioni e applicandole a teoremi, dimostrazioni e paradossi matematici. Ad esempio i racconti noir di Léo Malet vengono accostati alla dimostrazione di "irrazionalità" della radice quadrata di 2 per spiegare come il tempo possa scorrere veloce. Al contrario nel Signore degli Anelli è lentissimo. Oppure: Hilbert si lega a Valéry, mentre dall´infinito di Cantor si può arrivare fino ad una citazione di Anthony Trollope. E d´altra parte cercando di capire l´insiemistica di Dedekind e Zermelo possiamo ritrovarci a leggere Kafka e Musil. Il risultato è un pezzo di bravura che intreccia le due discipline come i fili di un tappeto persiano, un fuoco d´artificio variopinto e scoppiettante che mostra con citazioni ed esempi com´esse siano in realtà due facce di una stessa medaglia, e si prestino perfettamente a parallele analisi strutturali ed estetiche.
Si tratta di un´opera sostanzialmente oulipiana, che soggiace alla costrizione formale di rileggere un libro di critica letteraria come se fosse un testo di filosofia della matematica. È sicuro che l´autore si sarà divertito molto a scriverlo: quanto al lettore, si divertirà anch´egli a leggerlo. E, se è un matematico, si morderà le dita per non aver pensato di fare la stessa cosa anche lui, prima dell´autore.
Oltre che alla lettera, il sentiero aperto da Lolli si può però ripercorrere anche nello spirito, costeggiandolo o allontanandosene a piacere. Ad esempio, si può ricordare che Calvino non fu né il primo, né l´ultimo italiano a ricevere l´onore di tenere le Norton Lectures. Nel 1992-93 toccò a Umberto Eco, che aprì con un doveroso omaggio a Calvino le sue Sei passeggiate nei boschi narrativi, dedicate a entrate e indugi nel bosco, esplorazioni di vari boschi reali o possibili, e indagini di strani casi e fittizi protocolli.
Volendo borghesizzare Eco, invece che Calvino, le cose si fanno più complicate. Ma è lo stesso Eco a suggerirci la via, scegliendo come uno dei boschi possibili un classico della divulgazione matematica quale Flatlandia di Abbott. Essendo in vena di imborghesimenti, però, tanto vale andare direttamente alla fonte. A Borges stesso, cioè, omaggiato sia da Calvino che da Eco, e pure lui autore di uno splendido ciclo di Norton Lectures nel 1967-68, su L´invenzione della poesia. I suoi argomenti, che vanno dal mistero alla metafora, dal racconto alla traduzione, dal pensiero al credo del poeta, sembrano fatti apposta. Ad esempio, non si adatta forse a entrambe le discipline l´affermazione che «la scoperta di un nuovo problema è tanto importante quanto la scoperta della soluzione di uno vecchio»? O che «non ci si deve preoccupare troppo delle definizioni»? O che «si usano parole comuni e le si rendono non comuni estraendone la magia»? O che «le parole sono un´algebra di simboli»?
Ma perché non rileggere anche la musica in chiave matematica? In fondo, già Pitagora parlava di armonia del mondo e della musica delle sfere. Volendo restare nell´ambito delle Norton Lectures, che sono state tenute da musicisti che vanno da Igor Stravinsky nel 1939-40 a Luciano Berio nel 1993-94, il ciclo che forse più attira l´attenzione è quello di Leonard Bernstein nel 1973-74.
Già il titolo, La domanda senza risposta, è una metafora del teorema di Godel e rimanda direttamente ai suoi enunciati indecidibili. Ma il resto non è da meno: non sorprendentemente, visto che l´intero ciclo di conferenze di Bernstein era già, a sua volta, una borghesizzazione di Linguaggio e mente di Noam Chomsky. Le prime tre conferenze, sulla fonologia, la sintassi e la semantica, corrispondono semplicemente alle tre divisioni logiche del linguaggio. Le due successive, sull´ambiguità e la crisi del ventesimo secolo, richiamano i paradossi e la crisi dei fondamenti. L´ultima, infine, sulla poesia della terra, non è altro che una riformulazione dei motti pitagorici.
Volendo, dunque, il ciclo di Bernstein potrebbe costituire una base per una rilettura dell´intera logica. Chissà, forse questo potrebbe essere il prossimo libro di Lolli, che è appunto uno dei più titolati logici italiani. Per ora, godiamoci il suo Discorso sulla matematica.

Corriere della Sera 21.1.11
Socialisti e comunisti faida dei fratelli separati
risponde sergio Romano


Sono un elettore di sinistra di 75 anni; ho speranza di vedere nella mia vita cessare la faida fra socialisti e comunisti iniziata nel secolo scorso al Congresso di Livorno?
Roberto Zampetti

Caro Zampetti, N ella sua lettera lei sostiene implicitamente che la faida durò poco meno di un secolo. È vero. Quando Lenin proclamò i sacrosanti principi della III internazionale e invitò la sinistra europea a sottoscriverli, tutti i partiti socialisti entrarono in crisi. La prima scissione fu quella tedesca, consumata nel calor bianco della breve guerra civile che scoppiò in Germania dopo la disfatta. La seconda fu quella del partito socialista francese a Tours nel dicembre 1920 e la terza quella del partito socialista italiano a Livorno nel gennaio 1921. Vi furono più tardi i «fronti popolari» , vale a dire il tentativo di ricomporre l’unità sotto forma di un’alleanza estesa ad altri partiti e gruppi di sinistra. Quello spagnolo vinse le elezioni del febbraio 1936, quello francese ottenne la maggioranza dei voti nelle elezioni del giugno dello stesso anno e quello italiano fu sconfitto dalla Democrazia cristiana nell’aprile del 1948. Ma ciascuno di essi, indipendentemente dai risultati elettorali, ebbe una vita difficile, turbata da numerose divergenze e sempre fortemente condizionata dai vincoli di disciplina che legavano i partiti comunisti occidentali alla casa madre sovietica. Il primo sprofondò nel marasma della guerra civile, il secondo governò soltanto per un anno e il terzo esalò l’ultimo respiro dopo l’insurrezione ungherese del 1956. Nonostante le buone intenzioni, i socialisti e i comunisti erano condannati a litigare. I primi avevano assorbito, sia pure in dosi diverse da un Paese all’altro, la lezione revisionista di Eduard Bernstein; i secondi erano sottomessi, anche quando dettero prova di un certo pragmatismo, ai canoni ideologici dell’Urss. Gli esiti della Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda ebbero l’effetto di rendere le loro relazioni ancora più antagonistiche. Nei Paesi occupati dall’Armata Rossa i comunisti, dopo avere conquistato il potere, trattarono i fratelli separati peggio di quanto non trattassero i partiti borghesi. Non erano disposti a permettere che una parte della classe operaia sfuggisse al loro controllo. Alla sua domanda— vedrò la fine della faida?— devo rispondere, caro Zampetti, che il match è finito. Vi sono ancora nel mondo alcuni partiti comunisti, ma sono testimonianze e residui di un’epoca ormai conclusa. Nel lungo braccio di ferro del secolo scorso fra i due maggiori protagonisti della sinistra europea, il vincitore è certamente la social-democrazia. Ne abbiamo avuto una conferma constatando l’importanza assunta dai partiti socialisti, divenuti quasi ovunque, negli ultimi vent’anni, forze di governo o maggiori partiti di opposizione. Ho scritto «quasi ovunque» perché esiste in questo quadro l’anomalia italiana. Da noi i socialisti sono scomparsi nelle paludi di Tangentopoli e gli eredi dei comunisti, anche se per periodi relativamente brevi, sono andati al potere.

Corriere della Sera 21.1.11
Fare politica bevendo vino
di Eva Cantarella


C ominciamo dal titolo: per noi, il vino puro è quello genuino, non adulterato. Per i greci era il vino non mescolato con l’acqua. La regola di allora, infatti, voleva il vino venisse diluito, prima di essere bevuto. Come accadeva, in particolare, nel corso dei symposia, le celebri bevute collettive (da syn-potein, bere insieme), alle quali a sera, come ben noto, si dedicavano i greci: quasi superfluo a dirsi, solamente gli uomini. Eccezion fatta per alcune giovani donne a questo scopo retribuite, come le musiciste, le danzatrici e soprattutto le «etere» , prostitute di alto bordo e di una certa qual cultura, che accompagnavano gli uomini nelle occasioni sociali alle quale le donne «per bene» non erano ammesse. È un argomento, quello dei simposi, che aiuta a comprendere molti aspetti della cultura greca, e al quale non a caso— soprattutto a seguito di un celebre convegno organizzato da Oswin Murray nel 1984 — sono state dedicatemolte importanti ricerche. Ma questo libro di Maria Luisa Catoni, Bere vino puro -Immagini del simposio (Feltrinelli, pagine 528, e 39) è diverso da quelli che lo hanno preceduto. Come scrive l’autrice, in esso il simposio è trattato «come un mezzo, un microcontesto che ci permette di osservare, in dimensione ridotta, alcuni fenomeni sociali e culturali rilevanti che avvengono nel macrocontesto della città e del mondo greco» (p. XVII). Il simposio come ambiente antropologico, insomma: il luogo e il momento nel quale il consumo del vino si intrecciava con la contemplazione delle immagini dipinte sui vasi nei quali il vino veniva servito e bevuto, con l’ascolto dei poemi lirici, con la conversazione sul tema comunicato agli invitati al momento dell’invito. E anche uno dei momenti e dei luoghi del corteggiamento. Al simposio, infatti, accanto agli adulti, partecipavano anche i giovani uomini, che gli adulti corteggiavano nel tentativo di convincerli a diventare i loro «amati» (eròmenoi), termine che alludeva a un rapporto non solo amoroso, ma anche pedagogico, conferendo all’ «amante» (erastès) il ruolo di mentore del giovane, che apprendeva dal più anziano le virtù del buon cittadino. Era una «bevuta» , il simposio, data la sua funzione, nel corso del quale tutto si svolgeva secondo un rituale ben preciso e rigorosamente regolato, ivi compresa, per non dire in primo luogo, l’assunzione del vino, regolata da prescrizioni che riguardano il livello e il tipo di ubriachezza che, di volta in volta, si decideva di voler raggiungere: tutti allo stesso modo. Il «bere insieme» implicava l’idea di un’uguaglianza che era uno dei valori che caratterizzava la pratica: si beveva tra uguali. Impossibile, purtroppo, analizzare come piacerebbero i diversi argomenti trattati nel libro. Limitiamoci a qualche spunto tratto dal primo capitolo: «Come si faceva un simposio» . Per cominciare: la sala a ciò adibita (andron, sala degli uomini) aveva forma quasi quadrata; lungo le pareti erano addossati i letti (klinai: lunghezza cm centottanta, larghezza tra gli ottanta e i cento); su ciascun letto stavano distese, appoggiate sul braccio sinistro (un’abitudine importata dall’Oriente), una o due persone. La disposizione dei posti (a differenza che nel convivio romano) era ugualitaria, non vi erano posti privilegiati. Il che non toglie che, nella Atene democratica, la pratica potesse essere considerata ostile alla democrazia. Quando nel 408 a. C., con la riforma di Clistene, venne introdotta la magistratura della pritania, i nuovi magistrati, in numero di cinquanta, dovevano mangiare ogni giorno insieme, con un contributo (misthos) offerto dallo Stato, stando seduti, e non reclinati (posizione considerata un eccesso di sfarzo). Sarebbero tante, ancora, le cose sulle quali varrebbe la pena soffermarsi: ad esempio, il confronto con i simposi nelle zone doriche (Sparta e Creta) e i diversi valori che questi esprimevano. O anche i modi solitari di bere, nelle osterie, e quelli solitari e smodati, attribuiti a esseri come i satiri: ma anche, non poco significativamente, alle donne. Sono tante le informazioni e infiniti gli spunti di riflessione offerti da questo libro. A chi lo leggerà non mancherà certo la possibilità di scegliere su quali orientarsi e di apprezzarli come meritano.

Corriere della Sera 21.1.11
Céline divide a cinquanta anni dalla morte Per gli ebrei non è un anniversario da celebrare
di Stefano Montefiori


PARIGI — Céline il maledetto, l’antisemita, Céline l’autore di Viaggio al termine della notte ma anche, purtroppo, di Bagatelle per un massacro non può essere celebrato dalla Repubblica francese: le colpe dell’uomo sono più importanti dei meriti dello scrittore. Lo sostiene il cacciatore di nazisti Serge Klarsfeld, che a nome della sua «Associazione dei figli dei deportati ebrei di Francia» chiede solennemente al ministro della Cultura, Frédéric Mitterrand, di ritirare il nome di Céline dall’elenco delle personalità da onorare nel 2011, cinquantenario della sua morte. A distanza di mezzo secolo il fantasma di Louis-Ferdinand Auguste Destouches continua ad agitare la Francia, perché mai come in Céline la grandezza artistica convive con parole e azioni spaventose: l’odio per gli ebrei, l’assoluta e proclamata convinzione che le guerre mondiali dipendessero dalla loro avidità, l’auspicio di un’alleanza della Francia con Hitler, fino al rifugio nella Germania nazista e poi in Danimarca. Finita la guerra Céline venne amnistiato in qualità di reduce decorato del 1914-1918 e ottenne il permesso di rientrare in patria, senza conquistarne però il perdono. Oggi, ilministroMitterrand presenterà l’edizione 2011 del «Recueil des Célébrations nationales» , il volume degli Archivi nazionali che da 25 anni raccoglie gli anniversari da onorare nei mesi successivi. Accanto ai profili e all’elenco degli eventi in omaggio a Luigi XIV, Marie Curie, Blaise Cendrars, Michel Foucault e Franz Liszt (tra gli altri), ecco le difficili pagine dedicate a Céline. Il curatore è consapevole che i valori della Repubblica sono in gioco, e infatti il testo comincia con queste parole: «Dobbiamo, possiamo celebrare Céline? — si chiede Henri Godard, professore emerito della Sorbona —. Le obiezioni sono troppo evidenti. È stato uomo di un antisemitismo virulento. Ma è anche autore di un’opera letteraria che con quella di Proust domina il romanzo francese della prima metà del XX secolo» . Per concludere: «Siamo ormai in grado di riconoscere l’arte anche quando non coincide con i nostri valori morali, o li contraddice. Commemorando Céline, ci inscriviamo nella linea di questo riconoscimento, che è una delle conquiste del XX secolo» . Un conquista sulla quale non c’è affatto unanimità. Serge Klarsfeld, 75 anni, chiede infatti il ritiro immediato del volume e la soppressione delle pagine dedicate a Céline: «Bisogna attendere secoli, e non solo cinquant’anni, perché si possano commemorare allo stesso tempo le vittime e i loro carnefici» . Il sindaco di Parigi Bertrand Delanoë si dichiara d’accordo: «Ancora una volta Klarsfeld ha ragione. Céline fu un grande scrittore, e un farabutto. Non c’è altro da dire» . La questione è culturale, storica, ma inevitabilmente anche politica. Assieme ad Albert Cohen, Céline è lo scrittore preferito di Nicolas Sarkozy: nel 2008, per il suo 53 ° compleanno, i collaboratori regalarono al presidente un suo autografo originale. «Si può amare Céline senza essere antisemiti, come si può leggere Proust senza essere omosessuali» , si difese Sarkozy. Anni indietro, prima ancora che la coppia presidenziale si conoscesse, Carla Bruni era andata a rendere visita a Lucette Destouches, la vedova, nella casa di Meudon dove Céline morì nel 1961. Ed è sulla comune passione per il Viaggio al termine della notte che è nata la frequentazione dei Sarkozy con Fabrice Luchini, uno dei migliori attori francesi contemporanei, più volte ospite all’Eliseo. La polemica è solo cominciata.

l’Unità 21.1.11
90 ANNI DOPO
A Livorno sulle tracce del Pci e di una grande storia
Passato & presente Oggi solo con un po’ di fantasia si può immaginare che al Teatro San Marco nacque, il 21 gennaio 1921, il partito dei comunisti italiani: tra «avallamenti, buche e scrosci di pioggia»
di Vladimiro Frulletti


Un paio di chilometri, un quarto d'ora a passo non particolarmente svelto, separano il teatro Goldoni dal teatro San Marco. Lungo questo piccolo percorso nel centro di Livorno è passato, novant'anni fa, un pezzo della nostra storia. Dietro una bandiera rossa, al canto dell'Internazionale. È passato col corteo della minoranza comunista (scortato da guardie regie e carabinieri, ma anche da operai scesi dalle gallerie del Goldoni, annota Paolo Spriano) che, dopo 7 giorni di dibattito molto acceso (Bombacci, accusato di essere «un rivoluzionario da temperino», tirò fuori anche una pistola), abbandonava il XVII congresso del Partito Socialista per far nascere, al San Marco appunto, il Partito Comunista d'Italia, sezione della III Internazionale.
Oggi per immaginare che lì, in via San Marco, tra i canali del quartiere Venezia, c'era un teatro ci vuole un sacco di fantasia. Ma pure 90 anni non era messo meglio. Del resto i comunisti quel 21 gennaio avevano fretta di trovare un posto libero e l'unico era il San Marco. E si capisce anche il perché. «I delegati – racconterà su Rinascita nel '65 Umberto Terracini, uno dei protagonisti di quel 21 gennaio assieme a Bordiga, Gramsci e Bombacci (Togliatti era rimasto a Torino a dirigere l'Ordine Nuovo in vista di un'imminente insurrezione alla Fiat) – non vi trovarono sedie o panche... Sul loro capo, dagli ampi squarci del tetto infracidito, venivano giù scrosci di pioggia..». C'erano «...avvallamenti e buche nelle quali si raccoglieva l'acqua...» e «finestre pri-
ve di vetri» e «palchi senza parapetti» e «sudici tendaggi sbrindellati che pendevano attorno al boccascena». Del resto per tutta la Grande Guerra era stato usato come deposito di materiale per l'Esercito. Solo anni dopo tornerà teatro per poi sprofondare definitivamente sotto le bombe della II Guerra Mondiale.
Oggi del San Marco è rimasta una parete, dall'aspetto non particolarmente stabile, con ingressi a volte e mattoncini rossi. Al di là, grandi vetrate e colonne d'acciaio racchiudono una scuola d'infanzia e il suo «ortoarcobaleno». Un bel posto dove i bambini
giocano a fare i contadini con la terra vera... A far capire che da qui è passato qualcosa ci sono tre bandiere rosse strappate e una targa con foglie d'alloro secche. L'hanno messa i comunisti livornesi nel 1949: «Tra queste mura – recita – il 21 gennaio 1921 nacque il Partito Comunista Italiano avanguardia della classe operaia», citando poi Marx e Engels, Lenin e Stalin, Gramsci e Togliatti. Ma per notarla bisogna passarci apposta, girare attorno al palo della fermata dell'autobus, schivare delle transenne, sapere dove guardare e cercarla.Eppure quelle bandiere rosse e quei nomi scolpiti avevano spinto la ministra Gelmini, su indicazione del
Pdl locale, a mandare ispettori per verificare che quei simboli non suscitassero indebite pressioni (dopo i suoi silenzi sul Sole leghista nella scuola di Adro) sui bambini della materna. Al momento effetti non se ne sono visti. Se non quello di (ri)suscitare in gran parte della città anche un certo orgoglio per aver fatto da sfondo alla nascita del Pci. Anche se, si racconta, la scelta di Livorno per il congresso socialista fu una necessità. Serviva un posto dove stare al sicuro dalle violenze squadriste dei fascisti e Livorno, proprio per questo motivo, fu preferita a Viareggio spiega Costantino Lapi, 70 anni, memoria storica (ora nel Pd) del Pci livornese. E di orgoglio parla proprio il giovanissimo segretario (20 anni), Davide Rossetti, della sezione Pd del quartiere Venezia (già «Palmiro Togliatti», oggi intitolata alla partigiana comunista Valeria Capessini Mazzani) che sta a due passi dal San Marco. Mentre all'invito lanciato su Facebook da Niccolò Ghelarducci dei giovani comunisti livornesi per le celebrazioni promosse da Rifondazione e Federazione della Sinistra (domani, spiega Alessandro Trotta, ci sarà anche il corteo dal Goldoni a San Marco). «Attorno a quella lapide – spiega il sindaco Alessandro Cosimi – si sono intrecciate le storie di tante famiglie. Col Pci s'è formato un comune sentire, e io non mi vergogno a dire che le mie radicisonolì».Enonèuncasochelaprima, storica, bandiera del Pci, fatta a Livorno nell'occasione del San Marco, ha sempre fatto mostra di sé (ora l'hanno prestata a Roma per la mostra di questi giorni) nelle stanze dei segretari del Pci, poi Pds, poi Ds e fino al Pd.
Che in realtà in parecchi, anche a Livorno, pensano che il Pci sia nato al Goldoni. E non è neanche sbagliato. Perché è lì che la mattina del 21 Bordiga dal palco gridò: «I delegati che hanno votato la mozione della frazione comunista abbandonino la sala, sono convocati alle 11 al Teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista, sezione italiana della Terza Internazionale». Garibaldo Benifei, 99 anni, 5 anni di galera per propaganda antifascista («davo volantini contro la guerra») e partigiano, aveva 9 anni e stava a Campiglia, dove ricorda «quel delegato socialista che di ritorno da Livorno portava sul bavero della giacca il simbolo del nuovo partito: la falce e il martello fra le spighe di grano». Benifei oggi è nel Pd, guida l'associazione dei perseguitati politici antifascisti (Anppia), e va nelle scuole a raccontare la sua storia: «Ma vado anche a mettere in guardia dal pericolo – spiega lucidamente – di chi vuol far fare passi indietro alla nostra democrazia, alla nostra libertà. Che anche i comunisti italiani hanno contribuito, a volte pure con la vita, a costruire».
La storia cominciata a Livorno con una scissione, poi finì, 70 anni dopo a Rimini con altre scissioni. «Tessere non ne ho più – racconta l'ultimo segretario del Pci livornese, Valerio Caramassi, oggi manager e editore – e forse non esistono più, come si dice, destra e sinistra, ma il sopra e il sotto sì che esistono e il Pci mi ha insegnato a guardare sempre al punto di vista di chi sta sotto».

l’Unità 21.1.11
No, non fu Lenin il nostro pane
Ma l’egemonia sì
L’idea originale dei comunisti italiani fu soprattutto quella di farsi classe dirigente prim’ancora di andare al potere Ma il peso del legame con l’Urss resta sulla nostra generazione
di Alfredo Reichlin


È il 150esimo anniversario dell’Italia unita. E tutto spinge a ripensare i caratteri del moto risorgimentale, il ruolo che in esso
ebbero le classi dirigenti, gli intellettuali, le masse popolari. E poi, quanto il fascismo usò e distorse il mito risorgimentale e quanto le forze che guidarono la Liberazione e la Ricostruzione della democrazia italiana non solo si rifecero ai valori risorgimentali ma incisero sul vecchio blocco storico che si era costituito al tempo dall’unità d’Italia, sia fondando la Repubblica e sia dando alle forze popolari un ruolo e un posto che esse nella storia d’Italia non avevano avuto mai.
È in questo quadro che questa Mostra si colloca. Sappiamo benissimo che il PCI è storia conclusa e la sua vicenda è del tutto irripetibile. Ma se questo è vero è altrettanto vero che essendo per tanti aspetti questa vicenda non separabile da quella nazionale essa pesa nel bene così come nel male anche sul modo di essere dell’Italia di oggi. E sono molte le cose di oggi che, a loro modo, spingono a tornare sul grande interrogativo su cosa in realtà sia stato quella strana «giraffa»: il PCI. Era questa la singolare immagine che Togliatti usava spesso per definire il suo Partito. E non era affatto il mascherare o rinnegare l’appartenenza al movimento comunista internazionale né rinunciare a rivendicare la propria origine nella rivoluzione russa. Del resto, nessuno come lui difese quel famoso «legame di ferro» con la Russia staliniana. Ciò che egli voleva dire era un’altra cosa: che venivamo da lontano, e in primo luogo da quelli che egli definì i nostri padri, i pionieri del socialismo. Quegli uomini straordinari che all’inizio del secolo XX dettero alle plebi contadine della Valle Padana una formazione politica tale per cui la politica era tutt’uno con una fede e un ideale di riscatto umano. Ma era, al tempo stesso una lotta per il progresso civile sorretti da una visione del mondo e una cultura che andavano ben oltre gli orizzonti della buona amministrazione. Era, quel socialismo italiano la formazione di una nuova umanità. E il suo segno rimane. Ecco un grande tema che mi limito solo a sfiorare ma che nella Mostra è molto presente: è il carattere originale, di massa di questo partito. Partito di governo perché partito di popolo. Ma proprio qui sta il lato tragico della singolare vicenda del PCI. Il partito il quale si pose il compito di conciliare per la prima volta la classe con la nazione e di insegnare alle masse povere intrise di sovversivismo che cos’è la democrazia e perché è interesse dei ceti sfruttati e subalterni difendere lo Stato democratico, che tuttavia è lo stesso partito che per il suo legame con l’URSS staliniano ha contribuito a rendere incompiuta la democrazia italiana. E questa responsabilità pesa sulla mia generazione.
La Mostra comincia dalla Prima guerra mondiale ma si incentra sul rapporto del PCI con la Repubblica. Eppure tante cose testimoniano che la cultura politica di quel comunismo italiano veniva da molto più lontano.
Da quei problemi irrisolti che tennero gli italiani ai margini dei grandi movimenti che avevano segnato in Europa l’avvento dell’Età moderna.: la rivoluzione inglese che aveva affermato la supremazia del Parlamento. E poi i sommovimenti religiosi e sociali innestati da Lutero nel mondo contadino tedesco. E soprattutto la gloria della Rivoluzione francese, l’Illuminismo e i Diritti dell’Uomo. L’Italia, invece, per secoli restò ai margini e subì il potere temporale dei Papi. Coloro che oggi riducono il Risorgimento a una sorta di conquista regia dalla quale si possa tornare indietro dimostrano che di questa storia non hanno consapevolezza.
La forza dei comunisti italiani è stata quella di pensarsi come parte delle grandi correnti riformatrici europee. I nuovi giacobini e i nuovi italiani. E io penso che proprio da qui veniva l’idea di un partito diverso rispetto alle formazioni rivoluzionarie concepite sul modello strettamente classista, bolscevico. Il PCI non fece sua la visione del potere che veniva da Lenin. L’idea sulla cui base edificò se stesso era molto diversa: al fondo era l’idea dell’egemonia. Una classe diventa dominante se prima ancora di andare al potere diventa dirigente. E questo fu il pane che noi mangiammo insieme con tante altre sciocchezze. Fu un’ idea nostra, originale della rivoluzione italiana.
Non «fare come in Russia» ma affrontare noi le grandi questioni irrisolte che avevano bloccato il cammino del popolo italiano. Grandi questioni storiche, non riducibili alla prepotenza dei padroni: la questione contadina, la questione meridionale, la questione vaticana, cioè il problema di come combinare la pace religiosa con le libertà politiche e civile: laicità dello Stato e riconoscimento dell’apporto che una coscienza religiosa può dare alla coscienza sociale e civile.

l’Unità 21.1.11
Gualtieri: «Una forza che ci ha resi più moderni»
Parla lo storico «Il Pci ha una genesi minoritaria e filosovietica, ma muta la sua debolezza in forza e diventa artefice della democrazia italiana»
di Bruno Gravagnuolo


Livorno, 21 gennaio 1921. L’«evento» si è consumato in una settimana. Dal famoso congresso, con coda al teatro San Marco, uscira un Pc.d’I. minoritario: 16 deputati, 40mila iscritti e 10 cooperative. Vince Amadeo Bordiga. Gramsci e Togliatti sono in seconda fila, e il socialismo è diviso mentre il fascismo avanza. Dopo ci sarà un completo capovolgimento culturale di quel partito, che ne spiega la lunga durata. Quale? Ne parliamo con Roberto Gualtieri, storico a Roma, deputato europeo del Pd, 44 anni e autore de Il Pci nell’Italia repubblicana(Carocci), nonché di Togliatti e la politica estera italiana (Editori Riuniti).
Gualtieri, il Pc.d’I. nasce settario e bordighiano. Ma ha cercato costantemente di capovolgersi nel contrario. Come mai questo paradosso? «È uno dei nodi cruciali: Pc nato con spirito di scissione e sezione dell’Internazionale. In seguito ha cercato di emanciparsi dalle sue origini, per diventare attore della storia italiana: partito di massa e non di quadri leninista. E democrazia progressiva dentro la grande alleanza con l’Urss. Questo elemento resta e rafforza paradossalmente la sua capacità di manovra...»
Sforzo di trovare la propria identità tra autonomia e legame di ferro? «Qui il paradosso. Il nesso con l’Urss, destinato a diventare una gabbia, ha garantito la forza autonoma del Pci. La svolta originale di Salerno del 1944 è stata possibile proprio inserendosi in un nesso internazionale dove l’Urss era coprotagonista. Togliatti aveva una sua visione, anche del ruolo dell’Urss, ma rimase un leader del comunismo internazionale e ciò lo legittimava. Bordiga con il suo “leninismo” era meno filosovietico e bolscevico...»
Togliatti cercava una sua strada nella tenaglia dei blocchi e di Yalta? «Era contrario al paradigma dicotomico della guerra fredda, voleva un’alleanza larga antifascista, transnazionale. Detto ciò nel dopoguerra diviene un interprete della guerra fredda, e si schiera contro l’Europa e la Nato, pur dentro una visione più temperata».
Ma se vinceva il Fronte popolare nel 1948, avremmo avuto una dittatura filosovietica? «Rifiuto la storia con i “se”. È impossibile. L’originalità democratica del Pci fu frutto di una complessa dialettica tra la visione togliattiana e le condizioni in cui si trovò ad operare. Il Pci fu condizionato e democratizzato da ciò che contribuì a instaurare: la Costituzione repubblicana. Difficile poi pensare che il Fronte vincesse, e forse anche Togliatti lo escludeva».
Che funzione storica ebbe il Pci per l’Italia e la sua modernità? «Un vettore chiave della modernizzazione e dell’europeizzazione del paese. Fuori di certi schematismi liberal-azionisti, fu protagonista di una originale democrazia dei partiti. Artefice di un vero sistema democratico. Fu proprio il successo di quel sistema che includeva le masse nello stato dentro la crescita economica, a rendere obsoleti quei partiti».
Quando diviene incolmabile il ritardo? «Per il Pci, ciò accade con la sconfitta del compromesso storico, la cui eclisse consegna tutti a un destino di democrazia bloccata. Superato il centrismo e il centrosinistra, superata l’alleanza tra le “tre grandi componenti” Dc, Pci e Psi, superata la strategia morotea e il possibile ingresso del Pci al governo, si va in stallo. E iniziano gli anni del debito, della questione morale, del riflusso e dell’isolamento». Mancò lo start di una nuova innovazione nel Pci? La capacità di condizionare il Psi e rilanciare un’alternativa? «Esplose la contraddizione insostenibile dell’identità comunista, tra Europa e Urss, malgrado lo strappo di Berlinguer del 1981. Mancò un’altra strategia di governo. Questioni valoriali e di denuncia giuste dal globalismo alla questione morale non compensarono l’isolamento e il vuoto di strategia di quel Pci, che perse ogni funzione trainante».
La svolta del 1989: non fu confusa e solo dettata dalla necessità? «Nodo chiave, ma merito di Occhetto aver tentato di dare una risposta. I fondamenti culturali della svolta erano deboli, frutto di un ritardo affannosamente colmato. Il mix programmatico del Pds di quegli anni risente dell’egemonia conservatrice. Dalla forma di governo, al liberismo in economia: come con Eltsin in Russia... Sotto il movimentismo referendario c’era sbandamento e subalternità al conservatorismo».
Meglio sarebbe stato proclamarsi socialisti, magari a modo proprio? «Giusto dire che sarebbe stato meglio fare così. Ma se ciò non è accaduto, c’è un motivo profondo. La mutazione del Pci in una forza spendibile e ampia del socialismo europeo era ostacolata dal fatto che gli eredi del Pci, da soli, non riuscivano a costruire una forza del genere. Il Pds è sempre stata una forza modesta rispetto ai socialisti in Europa. Di qui la necessità dell’incontro con altre forze riformiste, nel rispetto delle loro identità, per costruire un analogo delle forze socialiste in Europa: il Pd, composto da diversi riformismi. In Europa siamo il secondo gruppo parlamentare perché abbiamo fatto il Pd. Il Pds era una cosa modesta»
Dunque il Pd è l’equivalente, originale e diverso, di una forza del socialismo europeo, o almeno di una sinistra riformista e popolare?
«Non direi solo di sinistra. Ma progressista, fatta di più riformismi, popolare, di massa. Il che richiede la capacità di avere un rapporto sano e non esclusivo con la propria storia e le proprie storie, con i propri ceti di riferimento. Questa oltretutto è la storia, così come ha cercato di farla la mostra romana sul Pci: un rapporto sano col proprio passato. Senza fare tabula rasa. L’Italia non ha mai avuto una forza come il Pd, che non è la continuazioné del Pci, né della Dc. Ma è il tentativo di scrivere una nuova storia di progresso, senza dover subire la vecchia».

l’Unità 21.1.11
Luigi Polano
La voce dell’Italia antifascista
Nel 1941 era un elegante comunista sardo. Togliatti gli affidò una missione delicatissima: installare una stazione radio in un luogo segreto e interrompere le trasmissioni dell’Eiar
di Antonio Sanna


Quando Luigi Polano, nel settembre del 1941, riceve il telegramma di Togliatti, è impegnato in una di quelle missioni che fanno parte del suo lavoro di emissario e dirigente dell’Internazionale dei lavoratori del mare e dei portuali. In quel momento si trova in una non meglio identificata località dell’estremo Oriente. Ercoli lo convoca con urgenza a Mosca per comunicazioni e Polano infila le poche cose che ha con se in una valigia e rientra a Mosca, dopo un viaggio avventuroso che dura settimane. Togliatti quando vede comparire davanti a sè questo elegante comunista sardo di 41 anni, che era stato uno dei fondatori del Pci con Bordiga e Gramsci, il primo segretario nazionale della federazione giovanile comunista, esule in Urss dal 1924 per sfuggire alle persecuzioni fasciste non si perde in preamboli. Gli annuncia che deve impegnarsi «in una missione delicata ma di grande importanza ed interesse per il partito». Gli chiede di installare una stazione radio in una località segreta da dove avrebbe dovuto interrompere le trasmissioni dell’Eiar.
Polano si mette subito al lavoro e un paio di settimane dopo, il 6 ottobre del 1941 comincia la sua straordinaria avventura di controinformazione, assai nota agli storici della radio ma non al grande pubblico. Alle 20,30 di quel giorno, Mario Appelius, uno dei commentatori principali dell’Eiar fascista ha appena cominciato a parlare nella sua rubrica «Il commento ai fatti del giorno». Durante una pausa del suo discorso si sente distintamente: «Italiani, qui parla la voce della verità». Appelius e i tecnici restano agghiacciati quando la «voce» dopo una pausa prosegue: «la voce dell’Italia libera» e, insiste ancora, «la voce dell’Italia antifascista». Appelius dopo il primo attimo di smarrimento fa finta di nulla ma Polano, lo «spettro» come verrà definito dalla propaganda fascista, va avanti: «Ogni sera a questa stessa ora la Voce vi dirà la verità sull’andamento della guerra. La verità sulle prospettive della guerra criminale scatenata da Hitler sulla complicità del governo e del partito fascista con la guerra di aggressione del nazismo».
Le trasmissioni cominciate nell’otobre 1941 terminarono il 4 giugno 1944 con una breve interruzione quando Polano dovette trasferirsi dalla località segreta dalla quale operava perché coinvolta in episodi bellici. Quelle trasmissioni per tre anni diventano un formidabile strumento propagandistico contro le notizie diffuse dal regime e costringono Appelius a umilianti contradditori e, persino, a stampare un libello contro lo «spettro». Mussolini è furibondo e chiede di conoscere la nazionalità dello «spettro». I servizi d’informazione si convincono che la radio trasmetta dalla località di Novorossjsk in Unione Sovietica, una località sul Mar Nero. Ma non è vero. Il Miniculpop non prende sottogamba la questione e passa all’offensiva immaginando allora che lo «spettro» sia inglese. E il 12 ottobre quando Appelius se la prende con gli anglosassoni ecco che Luigi Polano emerge dall’etere: «Mentitore! La guerra dell’asse è una guerra di aggressione e di conquista: l’asse perderà questa guerra per la resistenza dei popoli». Appelius fa finta di niente e insiste: «Contro il fronte interno germanico l’Inghilterra si romperà la sua testaccia di ferro e contro il fronte interno italiano si romperà la sua faccia di bronzo». Lo spettro. «Il fronte interno italiano si rivolta contro il fascismo». Appelius: «... questo è poco ma sicuro». Lo spettro. «È sicuro che gli italiani si rivolteranno al fascismo e che l’asse sarà sconfitto».
Nei giorni successivi per una scelta politica del regime di accettare il contraddittorio la voce di Polano e quella di Appelius sono messe sullo stesso livello sonoro. Lo scontro divampa apertamente nell’etere. Il 15 ottobre Appelius apre la sua trasmissione definendo «bastardo» il misterioso antifascista e accusando l’Inghilterra di aver commesso un errore nell’aver accettato l’alleanza con l’Urss.
Nato a Sassari il 3 aprile 1897, Polano aderisce a 17 anni alla gioventù socialista e nel 1916 ne diventa il segretario regionale sardo. Si trasferisce a Roma ed entra nel gruppo dirigente nazionale della Fgs e nel 1917 segretario nazionale. L’anno dopo finisce in carcere per sei mesi con l’accusa di «disfattismo». Nel 1919 e nel 1920 si reca a Mosca dove incontra e discute con Lenin. Nel 1921, al congresso di Livorno, annuncia la confluenza della Fgs nel nascente Pcd’I. L’anno dopo e a Trieste come caporedattore del giornale comunista Il Lavoratore. Nel 1923 è arrestato con Vittorio Vidali, il futuro comandante Carlos, e rispedito in Sardegna dove resta sino al 1924 quando lascia l’Italia, con la moglie Maria Piras sposata nel 1922. Comincia così la sua attività di agitatore antifascista che lo porterà in Francia, Inghilterra, Germania, Spagna, Portogallo, Grecia, Stati Uniti come dirigente del sindacato comunista dei marittimi e portuali. Polano rientra in Sardegna nell’ottobre del 1945 e poche settimane dopo assume l’incarico di segretario della federazione comunista di Sassari. Parlamentare per vent’anni dal 1948 al 1968. Muore il 24 maggio 1984 a 87 anni. Pochi giorni prima di Enrico Berlinguer.

L’Osservatore Romano 21.1.11
Fede e ragione alla luce del discorso di Papa Benedetto XVI all'università di Ratisbona
Ma la razionalità non è riduzionismo scientifico
di Giorgio Israel, docente di matematica all’Università La Sapienza di Roma


È ben noto come il discorso di Ratisbona abbia sollevato un'ondata di violentissime polemiche. Esso è stato visto come una critica della religione musulmana in quanto dominata da una visione di trascendentalismo assoluto. In realtà, la critica era molto più ampia e riguardava anche tendenze sviluppatesi nel mondo cristiano e tendenti a rompere il rapporto con lo spirito greco, tendenze che portavano all'idea che di Dio possiamo conoscere soltanto la voluntas ordinata e non possiamo esplorare l'imperscrutabile ragione. Pertanto, il discorso di Ratisbona va visto piuttosto come un'esortazione a valorizzare al massimo quella sintesi tra spirito greco e lo spirito delle religioni monoteistiche, che è apparso e appare soprattutto oggi offuscato, sia per responsabilità dell'integralismo religioso, sia del positivismo.
    Se la religione classica tutto sommato propendeva per una visione contemplativa - è indubbio che l'ebraismo biblico ha un atteggiamento tutto sommato passivo nei confronti del dispiegarsi della volontà divina di cui si limita ad ammirare le straordinarie creazioni - l'ebraismo medioevale, soprattutto con il suo massimo rappresentante, Mosé Maimonide, mostra fino a qual punto è giunta la sintesi tra pensiero greco e religiosità monoteista. È giunta al punto che Maimonide afferma che la chiave del racconto della Genesi - il cosiddetto Ma'aseh Bereshit - è stata persa dalla tradizione, ma che questa chiave ci viene restituita dalla fisica di Aristotele. Logica e fisica - afferma con estrema audacia Maimonide - permettono di decriptare la Bibbia e di scoprire che la Genesi e Aristotele dicono la stessa cosa. Allo stesso modo, il Racconto del carro - Ma'aseh Merkabà - ovvero la visione mistica del carro divino da parte del profeta Ezechiele, è in perfetta armonia con la metafisica di Aristotele. Questo razionalismo è talmente forte che, anche nella reazione antiaristotelica della mistica kabbalistica esso non viene abbandonato e diventa una chiave essenziale dell'esegesi biblica. Anzi, la rinuncia all'esegesi viene condannata. "Coloro che si occupano del senso ovvio della Torah dormono di un sonno profondo", ammonisce Moshe Hayim Luzzatto e lo Zohar definisce questo senso ovvio la mera "paglia" della Torah.
    Del resto è noto come Maimonide, san Tommaso d'Aquino e Averroé costituiscano la triade razionalista della teologia delle tre grandi religioni monoteiste, ispirata a uno stretto rapporto con il razionalismo greco. E proprio ad Averroé dobbiamo l'affermazione che "niente prova la saggezza divina meglio dell'ordine del cosmo. L'ordine del cosmo può essere provato dalla ragione. Negare la causalità è negare la saggezza divina (...) e colui che nega la causalità nega e disconosce la scienza e la conoscenza". Sono parole scritte in risposta all'Autodistruzione dei filosofi di Al Ghazali che, al contrario, sosteneva che "il cosmo è volontario. È creazione permanente di Dio e non obbedisce ad alcuna norma. (...) La natura è al servizio dell'Onnipotente:  essa non agisce in modo autonomo, ma è utilizzata al servizio del suo creatore. (...) Le scienze matematiche sono alla base delle altre scienze, dai cui vizi lo studioso rischia di rimanere contagiato. Sono pochi coloro che se ne occupano senza sottrarsi al pericolo di perdere la fede".
    È innegabile che il mondo islamico non abbia scelto Averroé contro Ghazali, bensì abbia scelto Ghazali contro Averroé, la cui figura non è mai stata rivalutata. È proprio nella condanna mai revocata di Averroé che risiede la rottura nella storia dell'islam con la fondazione della scienza moderna, la sua autoesclusione dagli sviluppi della modernità, cui pure l'islam aveva contribuito in modo tanto decisivo proprio con la trasmissione della cultura greca. Questo è un fatto indiscutibile e ben noto agli storici, e non può essere fonte di offesa rilevarlo. Al contrario, rilevarlo, anche indicando in modo pacifico e amichevole i rischi che comportano determinate scelte, è un contributo alla crescita di tutti, nell'ottica di una concezione del dialogo che mi pare caratteristica del pensiero di Benedetto XVI, ovvero tanto aperto quanto non sincretistico. È una concezione che richiama una bella frase del filosofo Emmanuel Levinas:  "Non si tratta di pensare insieme, io e l'altro, ma di stare faccia a faccia".
    La chiarezza e l'onestà intellettuale inducono altresì a non nascondere che la crescita della rivoluzione scientifica è stata contrassegnata da grandi conflitti con le autorità religiose, che spesso ebbero risvolti anche drammatici. Non vi fu soltanto il caso Galileo, ma anche le minacce che indussero Descartes a non pubblicare Le Monde, la persecuzione subita in ambito protestante da Copernico, le difficoltà che indussero Newton a nascondere il suo monoteismo antitrinitario, la condanna di Spinoza da parte della comunità ebraica di Amsterdam, e molte altre analoghe vicende. Tuttavia, non è certamente sminuirne la gravità affermare che quasi tutte queste vicende sono state drammatiche in quanto hanno rappresentato una manifestazione di intolleranza, ma non hanno mai messo in discussione l'idea della coerenza tra fede e ragione, né hanno arrestato il cammino della scienza e della filosofia. Si confrontavano tra di loro modi differenti di vedere il rapporto tra religione e ragione, anche diverse metodolologie scientifiche o di uso della ragione. Non fu deplorevole che a Galileo fosse stato opposto un diverso punto di vista, quanto che la contesa fosse stata risolta con la forza. D'altra parte, come ha osservato lo storico della scienza, Amos Funkenstein, tutti i grandi protagonisti della rivoluzione scientifica, da Galileo a Descartes, da Keplero a Newton, erano dei "teologi laici", per cui le questioni in gioco gravitavano sempre attorno al rapporto tra scienza e teologia.
    Che la rivoluzione scientifica e gli sviluppi filosofici a essa connessi siano stati un grande e ulteriore passo sulla via della sintesi tra pensiero religioso monoteista e pensiero greco si vede dal fatto che il primo ha iniettato nel secondo l'idea dell'infinito che era rimasta preclusa o quantomeno confinata al pensiero greco, il quale era molto diffidente nei suoi confronti. Questo è stato visto molto bene da un grande filosofo contemporaneo, Edmund Husserl, che definisce la grande impresa della conoscenza europea che prende forma dal Cinquecento, come una scienza onnicomprensiva, una "scienza della totalità dell'essere" che "persegue nientemeno che lo scopo di riunire scientificamente, nell'unità di un sistema teoretico, tutte le questioni ragionevoli attraverso una metodica apoditticamente evidente e attraverso un progresso infinito ma razionale di ricerca". Husserl aggiunge significativamente che tra i tanti problemi che si pone questa filosofia razionale v'è quello di Dio "che contiene evidentemente il problema della ragione "assoluta" in quanto fonte teleologica di qualsiasi ragione nel mondo, del "senso" del mondo". Così come sono problemi razionali - egli aggiunge - "il problema dell'immortalità" e il "problema della libertà". E non è certamente un caso che sia stato Husserl a criticare con tanta forza analitica la "decapitazione" della ragione compiuta dal positivismo, la razionalità "ridotta" da esso proposta, con un linguaggio che contiene molte assonanze con quello di Ratisbona e di altri discorsi di Benedetto XVI. Non è un caso, anche perché pochi filosofi come lui hanno percepito il valore del concetto di ragione che si è espresso nella civiltà europea e pochi come lui hanno amaramente ammonito contro il rischio che ne venisse smarrito il senso, un rischio che oggi è di fronte a noi come un fatto reale.
    Ma qui è necessario sviluppare alcune considerazioni sul punto che riguarda il rapporto tra ragione scientifica e religione. L'affermazione teologica più forte della coerenza tra religione e scienza sta nella tesi di Galileo che il mondo è matematico, anzi che il mondo è stato strutturato da Dio in forma matematica, per cui la scoperta delle leggi, espresse in forma matematica, che governano la natura, comporrebbe l'armonia tra razionalità oggettiva posta da Dio a base della creazione e la nostra ragione soggettiva. Questa formula galileiana è affascinante ma ritengo che sia elusiva e anzi che da essa derivino molte delle difficoltà che hanno condotto all'attuale riduzione positivistica della ragione. Difatti, come dimostra lo stesso sviluppo storico della scienza, l'ipotesi che il mondo è matematico è soltanto un'ipotesi di un genere molto particolare, in quanto assolutamente inverificabile. Essa è in realtà un'ipotesi metafisica che per sorreggersi ha bisogno di verifiche continue, ma mai definitive. Il corso degli eventi ha piuttosto dimostrato che in tanti ambiti essa appare smentita o quantomeno appare molto dubbia.
    La conseguenza più pericolosa di tale ipotesi è di aver generato l'idea che non soltanto il mondo fisico, ma ogni aspetto del mondo sia matematico. Come si dice nel discorso di Ratisbona, è ormai comune ritenere che "soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità", per cui "ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio, e così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercano di avvicinarsi al canone della scientificità". Ma questo sviluppo è profondamente negativo non soltanto per la scienza, in quanto l'efficacia del matematismo nelle scienze umane è lungi dall'essere evidente. Esso è anche fonte di riduzione del razionalismo al riduzionismo positivistico e quindi è la fonte diretta della "limitazione autodecretata della ragione". In realtà qui il matematismo è soltanto rappresentativo di una tendenza alla dittatura del riduzionismo. Quando si tende - come accade oggi - a cancellare ogni forma di conoscenza che non sia segnata dal prefisso "neuro" - e si parla di neuro-economia, di neuro-etica, di neuro-filosofia e persino di neuro-teologia - è facile intendere le conseguenze. Chi ingenuamente vede una conferma della religione nella pretesa scoperta di strutture neuronali che spiegherebbero l'emergere nel cervello del sentimento di trascendenza e quindi - come si dice - mostrerebbero "l'esistenza di Dio nel cervello", non si avvede che mettere Dio alla mercé di una conformazione cerebrale - che esiste in alcuni individui e in altri no, che può degenerare nel processo evolutivo o essere soppressa con interventi umani - significa distruggerlo.
    Non ci difenderemo validamente dal relativismo se non affermando che la razionalità che si esprime nella soggettività umana è irriducibile ai canoni ristretti dell'oggettivismo scientifico di tipo fisico-matematico o dello scientismo riduzionista e materialista. "Razionalità ampia" significa ricercare un'idea dell'oggettività più ampia di quella suggerita da quei canoni, entro i quali non c'è spazio per l'idea di Dio.