domenica 23 gennaio 2011

l’Unità 23.1.11
La rivolta delle donne, 35mila firme


Sul sito dell’Unità continuano ad arrivare risposte alla sollecitazione del giornale. L’Italia si indigna
C’è un’Italia che non si piega, che non si rassegna, che guarda oltre la decadenza che alberga nel breve tratto tra Palazzo Grazioli e Palazzo Chigi con dependance ad Arcore. All’invito dell’Unità rivolto alle donne che non ci stanno ad essere omologate alle donne di Arcore, a dire no, si sono unite firme illustri non catalogabili come destra o come sinistra (anche se moltissime di sinistra). Ogni giorno. E in pochi giorni la rivolta delle donne, come l’abbiamo chiamata ha portato fino a ieri
sera a 35mila firme. Abbiamo sollevato un nervo scoperto. Il nervo scoperto di tutte quelle persone che non vogliono continuare ad assistere immote al disfacimento totale di questo Paese nelle mani del drago, così come lo ha definito la moglie prima di avviare la separazione, Veronica Lario, che quasi due anni fa lanciò un messaggio di allarme a tutto il Paese, di un problema che non era solo il suo, ma che l’evidenza dei fatti odierni testimonia essere il nostro, di tutti noi. Dimostriamo che c’è un’altra Italia, certifichiamolo con le nostre firme, in prima persona. Questo stanno facendo e hanno fatto le migliaia di donne che hanno lasciato il loro nome e cognome sul sito dell’Unità (www. unita.it) e di tutte le altre che decideranno di farlo. In alto le risposte di donne conosciute sul perché hanno firmato l’appello e su cos’altro si deve fare.

l’Unità 23.1.11
Veltroni rilancia quaranta mesi dopo il «battesimo». Bersani «non vede distanze con Walter»
«Italia sull’orlo del precipizio: subito un nuovo governo, e se non fosse possibile al voto per vincere»
Al Lingotto il Pd ritrova l’unità «Così torneremo a vincere»
In un momento «drammatico per il Paese», dal Lingotto riparte un Pd «più unito», con proposte dei Modem che la maggioranza condivide. Con la voglia di parlare ad un vasto elettorato e diventare forza di governo.
di Maria Zegarelli


È il giorno del ritorno di Walter Veltroni, di nuovo qui al Lingotto di Torino dove tutto iniziò quel giugno del 2007, ma nulla è più come allora. Allora delineò il profilo del partito democratico e lanciò la sua candidatura alle primarie, oggi ri-
lancia il progetto del Pd da leader della minoranza interna e l'appuntamento, che rischiava di essere un punto di rottura, diventa l'occasione di una ritrovata unità del partito nell'obiettivo di mandare a casa Silvio Berlusconi. Anche a costo di nuove elezioni che nel Pd nessuno vuole davvero. Concorde l'analisi di Veltroni e del segretario Pier Luigi Bersani sul punto: l'Italia è sull'orlo del precipizio, un momento «drammatico», lo definisce il leader Pd, per i colpi di coda di un premier che vede il suo tramonto e lo combatte con tutto il suo potere mediatico, economico e politico a costo di mettere a rischio le stesse istituzioni che rappresenta. Piena la sala Gialla del Lingotto, piena quella Azzurra aperta per contenere le migliaia di persone arrivate già dalle prime ore del mattino. Applauso convinto quando Veltroni dice «basta sentirsi ex di qualcosa», chiudiamo con il Novecento, entriamo nel nuovo Millennio e accettiamo la sfida della modernità, dell'innovazione, «superiamo i conservatorismi di destra e di sinistra». Veltroni sceglie la linea del dialogo e della proposta, Bersani la coglie, alla fine della giornata i commenti sono unanimi: un passo in avanti di tutto il partito.
Ma i distinguo restano e aspettano la prova dei fatti per capire se davvero il Pd può vincere la sua sfida. Bersani nota: «Sulla proposta politica non c'è lontananza, il partito è pronto alla battaglia che il paese ci chiede». Ed eccola la battaglia: «Un nuovo governo, non un ribaltone, che comprenda tutte le forze parlamentari, con un premier che sappia garantire un clima istituzionale nuovo», ma se questa strada non fosse percorribile, dice l'ex segretario, e se la prospettiva dovesse restare «la livida prosecuzione di un governo al tempo stesso inesistente e pericoloso, con un ulteriore imbarbarimento della situazione nazionale», allora «le opposizioni, unite, dovrebbero chiedere le elezioni». «Noi siamo pronti – assicura Bersani – e in quel caso vinceremo». Già, a patto di dirci «la verità – incalza Veltroni -, oggi gli italiani non credono ancora che da noi e più in generale dal centrosinistra, possa giungere la risposta ai loro problemi». Dunque bisogna proporre «un progetto coraggioso di cambiamento e una proposta di governo autorevole» per riconquistare «menti e cuori» degli italiani per tornare ad essere «il primo partito del paese». Tre le condizioni per farcela: non opporre al populismo di destra un populismo di sinistra; affrancarsi dall'illusione della coazione “a ripetere la fatica di Sisifo di costruire schieramenti eterogenei” ed avere il coraggio dell' innovazione. Veltroni lancia l'Agenda Italia 2020, “facciamo come la Germania” un pacchetto “di riforme chiare e precise” per far si che in un decennio si dimezzi il debito pubblico (portandolo all'80%), cresca la produttività e si consenta il risanamento finanziario, in «un contesto di maggiore giustizia sociale e di sostenibilità ambientale». Riduzione della spesa corrente, carriere e stipendi legati al risultato – anche per Marchionne -; valorizzazione del patrimonio pubblico; detassazione degli stipendi delle donne, delle partite Iva e individuazione di una no tax area per le famiglie. Rilancia un sistema forte di flexicurity, nuove relazioni sindacali e ridefinizione delle regole di rappresentanza, più contrattazione collettiva e partecipazione dei lavoratori alla vita dell'azienda. Paolo Gentiloni lo definisce il Manifesto del partito democratico, «il Lingotto, la nostra Pontida».
«Non dobbiamo essere come Ulisse, che ha nostalgia della propria terra – esorta Veltroni -, ma come Abramo, aperto alla speranza di terre nuove e cieli nuovi» e non rinunciare alla vocazione maggioritaria. «Non ho mai avuto dubbi – replica Bersani sull'esigenza di un autonomo profilo del Pd , ma dentro un meccanismo gravitazionale, un partito che ha un progetto ed è attrattivo in diverse direzioni». Ma la riscossa democratica ha bisogno di molti attori, da qui l'appello del segretario alle «élite del paese», intellettuali, economiche, imprenditoriali: «Chi sta zitto oggi non so come potrà parlare domani».

l’Unità 23.1.11
Ruby compatta il Pd
Una tregua al Lingotto ma le differenze restano
Col premier-gate e le intercettazioni si ricuce lo strappo del Movimento democratico: restano le distanze con la direzione, ma Bersani e Veltroni si lanciano segnali di pace e apprezzano le loro reciproche disponibilità
di Simone Collini


Bersani e Veltroni ne hanno discusso quando è iniziato a trapelare il contenuto delle intercettazioni sulle notti del premier: con la possibilità che si vada ad elezioni anticipate, l'unità del partito non va messa in discussione. E così la giornata del Lingotto 2 si chiude senza le tensioni e le polemiche registrate alla Direzione del Pd di due settimane fa. Ma le distanze tra la segreteria e la minoranza di Movimento democratico restano. Così come fanno un certo effetto gli applausi tiepidi con cui questa platea ragionevolmente composta da militanti e simpatizzanti del Pd saluta il segretario al suo arrivo, o gli risponde quando parla al microfono. E anche gli interventi dell'ex e dell'attuale leader del Pd, al di là dei reciproci apprezzamenti («il bell'intervento di Walter», dice Bersani, «ho apprezzato la disponibilità e l'apertura del segretario», dice Veltroni), in più passaggi sono rivelatori del fatto che quella siglata nel Pd potrebbe essere soltanto una tregua.
Veltroni, al di là delle proposte programmatiche su cui centra il suo intervento, non risparmia una critica a chi a lungo «non noi – precisa riferendosi a Movimento democratico – ma nel nostro partito ha pensato che potesse essere una tradizionale strategia delle alleanze a sopperire al nostro calo di consensi: oggi è chiaro a tutti che non è così». Quando interviene poco dopo, Bersani assicura che ascolterà ogni contributo, ma che sarà poi lui a dare la linea: «Avrò un dialogo amichevole con tutti perché so che il mio compito, in quanto segretario, è garantire dignità politica ad ogni posizione nel partito e poi costruire una direzione di marcia univoca. È il mio compito – ripete – è faticoso e bello». Veltroni torna a sottolineare
che «senza la vocazione maggioritaria e senza il bipolarismo il Pd non sarebbe se stesso» e che sarà solo «la forza delle nostre proposte, del nostro programma, ad attrarre chi diventerà nostro alleato»: «Non saremo noi a rincorrere chi magari, poi, alla fine, ci direbbe no». Non parole generiche ma una critica che nei giorni scorsi la minoranza ha esplicitamente rivolto alla segreteria. Bersani disinnesca la minaccia di frizioni dicendo che non vede «lontananze politiche e politiche e programmatiche», anche perché lo stesso Veltroni in un passaggio aveva detto che non bisogna compiere l'errore del '94, quando una divisione nel fronte progressista aprì la strada al ciclo berlusconiano. Però mette i puntini “i”, precisando: «Io non ho mai avuto un dubbio sul compito del Pd, sul suo autonomo profilo. Nella mia testa non c'è mai stata l'idea di una divisione dei compiti», ovvero di rappresentare l'elettorato di sinistra lasciando all'Udc quello di parlare alle fasce di elettori di centro. «Il Pd è ineludibile, indispensabile, ma non voglio che questo appaia come esclusiva. Questo significa che noi dobbiamo essere capaci di ragionare e di fare una proposta per noi ma non solo per noi».
E ancora: Veltroni non fa neanche un accenno alla campagna di mobilitazione lanciata in questi giorni dal segretario, la raccolta di dieci milioni di firme per chiedere a Berlusconi di presentare le dimissioni. E Bersani, al di là di generici apprezzamenti, non entra nel merito delle proposte avanzate dall'ex segretario, rimandando la discussione all'Assemblea nazionale che si terrà a Napoli il prossimo fine settimana.
E potrebbe essere proprio l'appuntamento di venerdì e sabato il terreno in cui sperimentare se quella siglata al Lingotto sarà una tregua solida. Anche perché qualche esponente di Movimento democratico già anticipa che vuole vedere se le «aperture» mostrate ieri dal segretario avranno o meno delle conseguenze concrete sul piano programmatico.

Repubblica 23.1.11
Ritorna in scena il Partito Democratico
di Eugenio Scalfari


È MOLTO difficile in queste settimane di tensione politica, giudiziaria, mediatica, che ci sia in Italia un evento tale da esimerci dallo scandalo Berlusconi. Se ne è dovuto occupare, nel linguaggio appropriato che è quello della più alta istituzione dello Stato, il nostro Presidente della Repubblica e se ne è dovuto occupare addirittura il Papa. E ovviamente se ne occupano i giornali per soddisfare il legittimo diritto dei loro lettori ad essere informati.
Ieri Ezio Mauro ha indicato ancora una volta la linea del nostro giornale: a noi non interessano i comportamenti privati delle persone che rientrano nell´ambito della loro libera scelta; a noi interessano i comportamenti non saltuari ma ripetuti fino a esser diventati uno stile di vita d´un uomo pubblico, anzi del più importante degli uomini pubblici, che sono inevitabilmente di (cattivo) esempio all´insieme dei cittadini e che contrastano con l´articolo 54 della Costituzione secondo il quale il rappresentante di un´istituzione deve tenere alto il decoro dell´ente che rappresenta.
Voglio qui citare le parole con le quali Walter Veltroni ha aperto ieri il suo discorso al Lingotto di Torino, dedicate proprio a questo tema, perché in quelle parole ci riconosciamo interamente: «Un uomo di governo che minaccia i giudici che lo indagano: sono le agghiaccianti parole pronunciate da Berlusconi nell´ultimo suo messaggio televisivo».
«Ciò che dava più dolore – ha aggiunto Veltroni – è che quella espressione minacciosa sulla "punizione" dei magistrati veniva pronunciata davanti alla bandiera tricolore. Nessuno può dimenticare che per difendere l´onore di quella bandiera e di questa nazione molti magistrati hanno dato la vita. La situazione in cui l´Italia si trova è davvero grave e pericolosa. Il presidente del Consiglio è accusato non di comportamenti ma di gravi reati. Egli sostiene per l´ennesima volta che solo di fandonie e di complotti si tratta. Ma non lo deve dire in Tv facendosi scudo del suo ruolo e utilizzando il suo impero mediatico. Deve dirlo ai magistrati, come ogni cittadino».
Ho citato Veltroni perché l´evento sul quale mi sembra doveroso oggi riflettere e commentare è il suo discorso, la risposta di Bersani, l´ingresso – finalmente – del Partito democratico in un´arena politica dove finora era mancata la presenza della maggiore forza d´opposizione. Quest´assenza suscitava sconcerto e turbamento, molti davano per liquidato il riformismo democratico italiano e il vuoto che a causa di quell´assenza si stava creando rendeva ancor più difficile lo sblocco d´una situazione sempre più insostenibile.
Ieri questo vuoto è stato colmato o almeno sono state poste le premesse perché lo sia. Con lucidità di pensiero e con fermezza d´intenti. La maggior forza d´opposizione è finalmente entrata in campo con un obiettivo e un programma. Ora il quadro è finalmente completo ed è questo che dobbiamo esaminare: la sua efficacia, la sua capacità di modificare gli equilibri e di sanare gli squilibri, l´accoglienza che potrà ricevere da un Paese turbato, insicuro, arrabbiato.
* * *
Una prima osservazione riguarda la riapparizione di Veltroni sulla scena politica dopo due anni dal Congresso del 2008 e un anno dalle dimissioni da segretario del partito.
Ha parlato da leader, con la passione e l´eloquenza d´un leader ed anche con il senso di unità e di generosità che un leader deve avere, il desiderio di fare squadra, di rilanciare una scommessa all´insegna del cambiamento. «Dobbiamo uscire dal Novecento», ha detto e ripetuto più volte e più volte ha cercato di scrollare di dosso il fin qui diffuso rimprovero che veniva mosso al Pd e a tutta la sinistra, d´essere paradossalmente diventato una forza conservatrice anziché innovativa.
«Non ci potrà mai essere una forza più radicale della nostra» ha detto «perché più radicale del nostro riformismo non ci sarà nulla e nessuno». E citando Mark Twain: «Tra vent´anni sarete più delusi per le cose che non avrete fatto che per quelle che avrete fatto. Quindi mollate le cime. Allontanatevi dal porto sicuro. Prendete i venti con le vostre vele. Esplorate. Scoprite. Sognate».
La platea del Lingotto e probabilmente i democratici militanti e i tanti diventati indifferenti o addirittura ostili per delusione subita, è questo che aspettavano: non di perenne attracco ai porti dove impera il politichese, la conservazione dell´esistente, le rivalità tra capi e capetti, tra galli e galletti, ma il coraggio di fronte alle novità e la capacità di affrontare il mare aperto.
Bersani è un uomo concreto. D´Alema un politico fine. Franceschini un combattente esperto. Enrico Letta un abile diplomatico. All´interno di un recinto. Veltroni ha anche lui queste qualità insieme ai difetti che in tutti rappresentano l´altra faccia dei punti di forza; ma possiede un "in più" che nessuno degli altri ha: è capace di evocare un sogno. Non il sogno dell´utopia, ma quello che emerge dalla realtà.
Si discute spesso del carisma e della sua definizione. Spesso il carisma sconfina nel populismo ed è quello di Berlusconi. Ma ci fu il carisma di De Gasperi, che certo non era un populista, e quello di Berlinguer, quello di Ugo La Malfa, quello di Craxi, quello di Pertini. C´è stato uno specialissimo carisma di Ciampi e quello di Romano Prodi e quello, impalpabile perché volutamente privo d´ogni retorica, di Giorgio Napolitano.
Ebbene, c´è anche un carisma di Veltroni: il realismo che evoca il sogno di un´Italia nuova e di una nuova frontiera. Veltroni ha ricordato nel suo discorso Roosevelt e Luther King e la nuova frontiera kennedyana. Potrà funzionare oppure no il suo carisma, ma nel Pd oggi è il solo che possieda quel requisito e se non lo saprà usare la responsabilità sarà soltanto sua.
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Le sue proposte politiche, economiche, sociali, sono state "offerte" come suggerimenti al gruppo dirigente e agli organi del partito, dei quali si è ben guardato dal mettere in discussione il ruolo. Ma erano suggerimenti così precisi e circostanziati, così "oltre" il politichese corrente da costituire un programma e una strategia.
A partire dall´Europa, che non deve e non può diventare uno Stato, ma deve però esprimere un governo che guidi l´economia del continente e un Parlamento che sia eletto direttamente da tutti i cittadini dell´Unione.
E poi: una politica economica che abbia come obiettivo la crescita, la cultura, la ricerca; una politica finanziaria volta alla riduzione del debito pubblico; un patto con i ceti abbienti per farli contribuire al finanziamento necessario a ridurre il debito con un prelievo patrimoniale diluito in tre anni così come fu fatto nel 1998 con la tassa per l´ingresso nell´euro; una politica dei redditi in favore delle donne, delle famiglie, dei giovani, dei lavoratori, delle partite Iva, delle imprese, ottenuta con sgravi concretamente indicati; il federalismo visto come autonomia delle comunità. «L´Italia – ha detto con molta efficacia – è la comunità delle comunità, un Paese molteplice, la cui molteplicità può essere una grande ricchezza o una grande sventura ma che comunque non potrà mai esser cancellata perché è iscritta da secoli nella nostra storia».
Ha detto anche parole molto chiare sul caso Marchionne, l´altro evento che ha fatto irruzione nella nostra immobile economia. Un´irruzione positiva secondo Veltroni, che ora però dovrà dimostrare la sua capacità di vincere la sfida del mercato con nuovi modelli di auto, nuovi investimenti, un piano industriale adeguato associando però i lavoratori al controllo e alla partecipazione nell´azienda agli utili ed anche al capitale e assicurando la rappresentanza di tutti i lavoratori senza discriminazioni.
Infine la lotta alla mafia e alla corruzione, indicando anche qui gli strumenti concreti per renderla efficace.
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C´è stata, nel discorso di Veltroni, anche un´apertura a Vendola, un invito a collaborare e a non chiudersi nei veti, nel massimalismo e nell´utopia. In realtà quell´apertura è stata possibile perché Veltroni – così penso io – è il solo nel Pd che possa ridimensionare Vendola. Anche il governatore con l´orecchino è portatore d´un sogno. Se si confronta soltanto col politichese, il sogno di Vendola vince anche se isolerebbe la sinistra in una presenza puramente testimoniale. Ma se il sogno vendoliano e la sua "narrazione poetica" si confronta con un sogno che emerge dalla realtà, allora l´orecchino non basta a fare la differenza anche se può dare un contributo ad un riformismo "ben temperato".
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La risposta di Bersani è stata una presa d´atto all´interno della cornice indicata da Veltroni. Una presa d´atto coraggiosa e costruttiva, l´invito a fare squadra e a vitalizzare le strutture del partito, rinnovandole se necessario, spronando i democratici alla battaglia.
Bersani ha un suo modo di parlare paesano e colloquiale. Dopo il discorso di Veltroni così teso e intenso, faceva uno strano effetto, di quelli che spesso Crozza provoca quando lo imita a "Ballarò". Uno strano effetto ma molto positivo, di chi ricorda che un partito è comunque lo strumento di filtraggio sia della realtà sociale sia del sogno d´una nuova frontiera. Ma su questo non c´era contrasto con Veltroni, che aveva concluso il suo discorso con l´elogio della politica, quella praticata con la maiuscola, come il solo strumento che consenta la realizzazione del bene comune.
Oppure del male comune, come quello in cui il Paese è sprofondato e dal quale deve riemergere se vuole ancora avere un futuro.

l’Unità 23.1.11
Ruby, gli adulti e quelle cicatrici che ti condizionano la vita
Le violenze sui minori lasciano segni profondi nell’anima e nei comportamenti futuri. Purtroppo c’è sempre chi se ne approfitta. Indispensabile rivolgersi a un centro specializzato di terapia
di Luigi Cancrini


Chi lavora con i minori abusati sa che la rivelazione dell’abuso è difficile e dolorosa. E, soprattutto, ha conseguenze laceranti per chi la compie. Si scontra con l’incredulità e il fastidio di quelli a cui si tenta di raccontare e apre contraddizioni insanabili fra gli adulti che si occupano del minore alienandogli, a volta per sempre, l’affetto degli adulti di cui ha più bisogno. Lo espone alla curiosità professionale dei periti e all’aggressività senza limiti degli avvocati nel corso dei processi in cui quella che viene esposta è prima di tutto una vergogna che ricade su di loro oltre che sulla loro famiglia: continuamente creando la possibilità di una ritrattazione che può fermare il processo ma non il disprezzo che ancora più pesantemente ricadrà su chi la mette in opera.
LA VITA DEI MINORI ABUSATI
I minori abusati e non curati al tempo in cui l’abuso fu perpetrato, vanno incontro regolarmente a problemi gravi nel corso della loro vita adulta. I comportamenti sessualizzati e, un po’ più avanti, la promiscuità sessuale sono segni tipici della disarmonia che accompagna il loro sviluppo, tossicodipendenza e prostituzione sono complicanze frequenti di questa disarmonia. Quella che si sviluppa nel tempo, infatti, è una tendenza forte a muoversi in modi che sono insieme trasgressivi e autopunitivi: dando spazio in modo più o meno disordinato alla rabbia per quello che hanno subito e al senso di colpa che comunque a quelle esperienze “vergognose” si lega.
RUBY
La storia di Ruby così come emerge dalle cronache e dalle sua stessa testimonianza è, da questo punto di vista, una storia tremendamente banale. L’abuso a nove anni da parte degli zii, il silenzio della famiglia, le fughe da casa e dalle Comunità, l’utilizzo disinvolto del proprio corpo (“ero il suo culo” dirà parlando di Berlusconi) per avere di volta in volta soldi e un po’ di affetto, affetto e un po’ di soldi, l’alternarsi di comportamenti trasgressivi e autopunitivi. Fino al momento in cui le sembra possibile, finalmente, avere una quantità di soldi, di ammirazione e d’importanza su cui poche delle persone come lei possono contare: l’incontro con “papi”, l’uomo anziano accecato dalla paura di essere vecchio fino al punto da prendere sul serio le manifestazioni di affetto di una ragazzina e indementito dal narcisismo fino al punto da credere di essere davvero, per lei, un benefattore.
L’UTILIZZATORE FINALE
È in questo contesto che si sviluppa l’incontro di Ruby con “papi” a cui viene presentata da due dei fedeli servitori di quest’ultimo: il giocatore d’azzardo e il manager senza scrupoli di ragazze e ragazzi che ostentano il loro corpo sulla linea grigia che così spesso divide il mondo dello spettacolo minore da quello della prostituzione. Fidati, ambedue, perché da lui generosamente retribuiti con soldi o incarichi prestigiosi. Ma imprudenti stavolta per eccesso d’avidità perché la minore età di Ruby dovrebbe essere nota a loro prima che a lui e perché se lei, come è possibile, gli piacerà, il rischio che si corre è davvero alto: una persona che soffre di una dipendenza da sesso non può più distinguere, nel momento dell’eccitazione, il lecito dall’illecito.
IL DOPO
L’incontro fra due avidità non è un incontro fra due persone. È un incontro che si nutre all’inizio di un entusiasmo un po’ forzato e che si scioglie poi nella soda caustica della necessità di negarlo. L’incontro (sessuale) non è mai avvenuto, dirà lui che altrimenti dovrebbe dimettersi e accettare il trasferimento da Arcore (o da Palazzo Chigi) a San Vittore e lo stesso un po’ più tardi dirà lei che accuratamente, tuttavia, dissemina in varie conversazioni le prove del rischio che lui correrebbe minacciandola o facendola passare per pazza (precedente illustre è quello di Mussolini con Ida Dalser). Reso più duro, lui, dalla conoscenza ormai non più evitabile del disprezzo, degli imbrogli, del fastidio e dell’umorismo di cui le sue battute da scemo del villaggio, le sue “canzoni” e le sue debolezze lo rendono oggetto anche fra quelli che le coltivano e le favoriscono (o le sfruttano) e resa più dura, lei, dalla verifica non certo inaspettata dell’aridità desolante di un uomo che fa sesso con il tuo corpo ma a cui nulla importa della persona che c’è dentro. Come al tempo dei tuoi nove anni.
RIFLESSIONE PSICHIATRICA
Poiché è questo il mio mestiere, quella che non posso esimermi dal fare è una riflessione sulla patologia da cui tutto questo proviene e che tutto questo ulteriormente amplifica. Sui meccanismi difensivi tutti centrati sulla negazione collusivamente utilizzati da due persone unitamente che li muovono. Avesse il coraggio splendido di altri che lo hanno fatto, mi piacerebbe poter dire a Silvio: dimettiti e inizia un lavoro di terapia. Con il coinvolgimento e l’aiuto, magari, di Veronica. Avesse la forza di capire che è per il suo bene e per la sua vita, mi piacerebbe poter dire a Ruby: rivolgiti ai terapeuti di un centro come il Tiama di Milano e l’Hansel e Gretel di Torino cercando una cura, lì, per l’antica ferita che ancora ti condiziona. Un consiglio di cui so, tuttavia, che difficilmente verrà accettato perché la forza della negazione è molto superiore, ancora, a quella della ragione e del bisogno di ritrovare un equilibrio sano. Un consiglio, tuttavia, da cui non posso esimermi nel momento in cui penso al vuoto e all’infelicità profonda e negata che la clinica mi ha insegnato a intravedere dietro le maschere comportamentali degli abusati e dei loro carnefici. Iniziali e finali.

Corriere della Sera 23.1.11
Il «sexgate» non toglie voti al centrodestra
Pdl stabile sul 30%. Ma un italiano su due pensa che Berlusconi debba dimettersi
di Renato Mannhemer


L o scandalo del «sexgate» che ha coinvolto Silvio Berlusconi occupa da giorni le prime pagine dei giornali. Alla televisione si sono ogni giorno succeduti i talk show sull’argomento. Tutti discutono sull’ondata di accuse infamanti che è stata riversata, a torto o a ragione, contro il presidente del Consiglio. Tanto che in molti ne hanno chiesto le dimissioni o, comunque, l’immediata disponibilità — da lui per altro sin qui rifiutata— a presentarsi davanti ai magistrati. Si tratta di uno degli episodi di più violenta messa in discussione della credibilità del Cavaliere. Ciononostante, la distribuzione delle intenzioni di voto non ha subito, in questo stesso periodo, alcun mutamento particolarmente significativo. Il Popolo della Libertà rimane stabile attorno al 30 per cento (con una variazione minima, addirittura di lieve crescita, rispetto alla settimana scorsa). Anche la Lega appare assestata tra il 10 e l’ 11 per cento, analogamente a quanto rilevato negli ultimi mesi. Ci si può domandare il perché di questa apparentemente incomprensibile stabilità, malgrado la tempesta mediatica in corso. Il fatto è spiegabile da una pluralità di motivazioni, tra le quali due appaiono prevalenti. Per un verso, gli elettori di centrodestra appaiono in larga misura già assuefatti alle notizie sullo stile di vita del premier. Il suo interesse per le giovani donne era già emerso, seppure con minore clamore e in assenza dell’interesse della magistratura, mesi fa, anche allora senza effetti rilevanti sulle intenzioni di voto. D’altro canto, soprattutto, i medesimi elettori — anche quelli potenzialmente più mobili e collocati al centro dello schieramento politico— non vedono alternative praticabili alla loro opzione precedente e finiscono, più o meno volentieri, con il confermare la loro fiducia al Cavaliere o, meglio, al Pdl, guardando magari ad altri leader al suo interno. Senza che l’opposizione o il terzo polo riescano a persuaderli. È questo il motivo per cui anche l’elettorato cattolico — che pure dovrebbe essere più sensibile agli ultimi avvenimenti— non appare avere mutato più di tanto le proprie preferenze. Insomma, per una serie di motivi (tra i quali la difficoltà a comunicare proposte chiare e persuasive e la scarsa presa mediatica della leadership), l’opposizione — e il Partito democratico in particolare, come ha bene dimostrato Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore di ieri — non riesce ad accreditarsi come una proposta credibile e attraente. Tanto che malgrado le difficoltà in cui si trova — o si dovrebbe trovare — la maggioranza, il partito di Pier Luigi Bersani, rimane debole e oscilla tra il 24 e il 25 per cento a seconda dei sondaggi. La fragilità del consenso elettorale del Pd lascia spazio specialmente alla crescita della formazione di Nichi Vendola che supera nettamente il 7 per cento, ma continua ad attrarre solo una porzione minoritaria dell’elettorato di sinistra. E, come si è detto, anche il terzo polo stenta sin qui a conquistare la fiducia degli indecisi. I quali, però, crescono in numero, superando il 40 per cento. Segno dell’estendersi della perplessità e, in certi casi, del disorientamento, sia pure in assenza di mutamenti significativi nelle intenzioni di voto. La similitudine del panorama odierno delle opinioni politiche degli italiani rispetto ai mesi passati è confermata anche dalla distribuzione degli orientamenti sull’ipotesi di dimissioni del premier. La quota di quanti auspicano questa scelta si è accresciuta nell’ultimo anno, ma, nella sostanza, si ripropone lo scenario consueto: un Paese spaccato a metà tra chi ritiene che le dimissioni siano indispensabili (49 per cento) e chi, solo un po’ meno, (45 per cento) manifesta la posizione opposta. Come è ovvio, i diversi pareri sono motivati soprattutto dalla posizione politica (anche se si registra qualche eccezione: il 13 per cento degli elettori leghisti invita Berlusconi a dimettersi e, sull’altro fronte, il 18 per cento dei votanti per il Pd suggerisce che continui a svolgere le sue funzioni). Il fatto che la maggioranza opti per l’abbandono della carica è determinato dalla posizione prevalentemente antiberlusconiana dell’elettorato di centro e del Futuro e libertà in particolare. Tutto (quasi) come al solito. L’effetto principale degli avvenimenti di questi giorni è dunque per ora solo questo: un ulteriore distacco dalla politica e un accrescimento dell’indecisione e della tentazione di astenersi.

Repubblica 23.1.11
Rabbia, sogni e fantasia a Marghera va in scena la Woodstock dei movimenti
Dagli studenti ai No Dal Molin, tutti i volti della protesta
In migliaia alla due giorni di dibattiti. "Dopo la rivolta d´autunno non si torna indietro"
di Corrado Zunino


ROMA - In un centro sociale ai confini del petrolchimico di Marghera si scopre che la grande protesta italiana, innervata nel caldo autunno del 2010, non si è spenta in questo gennaio in cui gli operai hanno incassato l´onorevole sconfitta di Mirafiori e gli universitari inghiottito la legge Gelmini che riforma gli atenei pubblici. Attorno a questi due protagonisti della scena pubblica - i sindacalisti e gli operai della Fiom da una parte, gli studenti medi e universitari insieme ai ricercatori dall´altra - si sono dati appuntamento al Rivolta Pvc i movimenti sociali del paese. "Uniti contro la crisi", è il cartello comune. Ieri e oggi: due giorni di racconti e progetti, parole e cene collettive.
Sono venuti ai confini del petrolchimico di Venezia i comitati vicentini in conflitto con il progetto di una base Nato nel quartiere Dal Molin, dietro la basilica palladiana. Un viaggio più lungo lo hanno affrontato "quelli" dei rifiuti campani. Vivono intorno alle discariche di Chiaiano, Marano, Terzigno e sono contro, violentemente contro, gli inceneritori «che producono diossina». Da Roma periferia sono saliti gli occupanti di Action, loro prendono case vuote per darle agli sfrattati. Ci sono i lavoratori dello spettacolo. Gli Zero punto Tre che hanno appena occupato il Teatro Metropolitan nel centro della capitale, cinema d´essai vicino alla chiusura, ed esponenti del movimento Centoautori. Monopolizzò l´attenzione all´ultimo Festival di Roma.
Ai tre workshop di Marghera si sono iscritti in milleseicento. Al centro sociale Rivolta, nato nel ´93 sotto la guida del disobbediente Luca Casarini, trasformato nel tempo in un bunker tecnologico con una mensa da duemila posti, si ascolta l´economista Guido Viale parlare «dell´irrealizzabile modello Marchionne». E il segretario Fiom Maurizio Landini chiamare i precari di tutta Italia: «Venerdì prossimo sciopereremo in venti città, studenti e ricercatori affiancateci, costruiremo una primavera di resistenza». In serata si vede Fausto Bertinotti. Non c´è Nichi Vendola, verso il quale si sono avvicinati diversi vecchi "no global", alcuni "indisponibili" di questa stagione. La Sala Open Space è dedicata al lavoro, la Nite Park al collasso ecologico, ma è nella Sala Hangar che vecchie parole trovano stili da ultima generazione. Seggiole in circolo, si ascolta Naam, studentessa italo-inglese. Racconta l´assalto alla limousine di Carlo e Camilla nel cuore di Londra e rivela: «Il movimento italiano ci ha offerto ispirazione quotidiana, lo abbiamo studiato su Internet scoprendo i book-block e le prese dei monumenti. Come voi, abbiamo perso: le tasse universitarie sono salite a novemila sterline. Ma non ci scoraggiamo, siamo parte di un movimento di ribellione europeo, Grecia, Francia, Albania, un movimento mondiale, Algeria, Tunisia». Gli appunti del suo discorso stanno tutti sul palmo della mano sinistra.
Da Roma sono arrivati un pullman e dieci auto. «Non vogliamo banche nei nuovi atenei e potremmo opporci alla Gelmini con un referendum». La pratica dell´agire comune, si ascolta. La difesa del pubblico. Dopo vent´anni di riflusso, un isolamento che ha tagliato le gambe alle Pantere, alle moltitudini No global, ora la Generazione Precaria ha trovato il collante naturale con chi li ha preceduti: in nome di una paura comune, la precarietà eterna, gli studenti medi si sono alleati con gli universitari, gli universitari con i ricercatori, tutti con gli operai. A Pisa si studiano azioni comuni con i lavoratori della Piaggio, ad Ancona con quelli della Fincantieri. "Generazione P." è entrata nella società, è bastato un autunno caldo. Gli universitari di Napoli hanno creato il primo centro sociale del movimento, "Ribelle Zero". Le facoltà partoriscono nuove band musicali, i locali di riferimento invitano poeti per serate contro l´oblio. E a Marghera, ecco, il movimento studentesco ha ricucito con i padri: uniti contro la crisi. Già, «dopo questo autunno non si torna più indietro».

Corriere della Sera 23.1.11
Rama: «Non ci fermeremo Vogliamo libere elezioni»
«Siamo contro la violenza, ma la gente è furiosa»
di Paolo Salom


TIRANA — Di fronte alla sede del Partito socialista, un trionfo di rosso che illumina una giornata grigia, nessuna guardia, nessun soldato armato, a differenza dei vicini palazzi del potere, circondati da polizia e uomini in borghese. Edi Rama, 46 anni, è nel suo ufficio — controsoffitto a «vela» , naturalmente rossa — chino sul computer. Non ci si avvede di quanto sia imponente il sindaco di Tirana fino a che non si alza per salutare: potrebbe essere un cestista, con i suoi due metri («Quasi» ). Invece, prima di dedicarsi alla lotta politica («Ai tempi di Hoxha, ero anticomunista, ora guido il gruppo nato dalle ceneri del Partito dei lavoratori contro gli eredi dei "rossi"» ), Edi Rama era, e resta, soprattutto un intellettuale, un pittore, uno scrittore con la passione per le battaglie civili. È vestito di nero, da capo a piedi, cravatta compresa. «Sono in lutto per i tre nostri compagni, uccisi dalla violenza del potere» . Cosa dobbiamo aspettarci? Una rivolta simile a quella tunisina? «L’Albania è una terra di paradossi. Non abbiamo vissuto alcuna tragedia di tipo balcanico, guerre di religione o di etnie. Eppure l’Europa ci ha rifiutato lo status di Paese candidato. Ora siamo dietro persino al Montenegro. Perché? Perché non siamo una democrazia ma un ibrido più vicino alla Tunisia che alla Croazia o alla Slovenia. C’è solo una speranza per evitare un’involuzione autoritaria e le conseguenze che ciò porterebbe: rivedere il voto che nel 2009 è stato scippato alla nostra parte. La radice di questa crisi sta nell’assoluta mancanza di giustizia, di trasparenza» . Per mesi si sono svolte dimostrazioni pacifiche a Tirana. Venerdì la situazione è sembrata sfuggire al controllo. Anche lei ha improvvisamente alzato il tono della polemica contro Berisha... «Noi abbiamo portato la gente in piazza sempre senza scontri. Sia chiaro: io personalmente e l’opposizione tutta siamo contro la violenza. Venerdì i dimostranti sono stati attaccati, come dimostrano le immagini. La polizia ha aperto il fuoco per uccidere. La gente era furiosa. Io avevo percepito la tensione e ho cercato di evitare guai peggiori, rimanendo in disparte per evitare di sovreccitare gli animi. Ho chiesto ai miei collaboratori di riportare tutti alla ragione. Intanto le guardie di Berisha sparavano: di chi è la colpa, allora?» . Cosa chiedete al governo? «Un confronto civile e senza prepotenze. Berisha sostiene che noi abbiamo "tentato un colpo di Stato", che vogliamo "sovvertire l’ordine con la forza". Scherziamo? Ripeto ancora una volta: non credo nella violenza, non è una soluzione accettabile. Ma noi non possiamo trasformarci nello zimbello di questo regime perché siamo pacifici e non facciamo paura. Lo sa che dice di noi Berisha? "Che non abbiamo denti"e, peggio, "che non abbiamo p...". Ma noi non ci arrenderemo fino a che non otterremo quanto è giusto e corretto per l’Albania: nuove e libere elezioni» . Oggi sono in programma i funerali di due delle vittime degli scontri di venerdì. C’è pericolo di nuove violenze? «Le cerimonie non sono a Tirana. Una è a Argirocastro e una a Fier: centri minori, lontani dal potere centrale. Non è nostra intenzione sfidare nessuno. Scontri? Francamente, non dipendono da noi: bisognerebbe chiedere a Berisha. Speriamo almeno che rispetti il lutto» . Se non oggi, avete in programma altre manifestazioni? «Certo. Non abbiamo nessuna intenzione di fermarci» . Berisha ha chiamato «il popolo» a scendere in piazza, mercoledì, in difesa del governo: cosa accadrà? «Nulla: non accetteremo provocazioni. D’altro canto, esattamente come ai tempi di Hoxha, Sali Berisha — che era un suo uomo — sa come mobilitare i "suoi"cittadini: precettandoli a scuola e negli uffici pubblici. Sono cortei di Stato, senza alcun valore» .

La Stampa 23.1.11
Il leader socialista “Sparavano ai civili come fossero animali”
Il sindaco Rama: resteremo non violenti
di Niccolò Zancan


Quella di venerdì era una manifestazione molto più pacifica di altre manifestazioni europee, penso a Roma, Atene, Parigi. Ma solo qui hanno sparato. È diventata un macello a causa di questo potere. Hanno usato armi da fuoco, tirando sulla gente inerme, come se sparassero in un bosco a caccia di animali. L’unica colpa dei manifestanti era quella di essere sostenitori dell’opposizione. Questo è tragico».
Edi Rama, 46 anni, nato a Tirana, sindaco della capitale e artefice del suo rinascimento - secondo molti osservatori - è il leader del partito socialista, eletto con il 93 per cento dei consensi. Figlio di uno scultore, per anni pittore e artista eccentrico a Parigi, è entrato in politica nel 1998 come ministro della Cultura nel governo del premier Fatos Nano. Da allora la sua ascesa è costante. Che cosa sta succedendo in Albania? «Qualcosa di inammissibile in un Paese della Nato, che da vent’anni cerca la via dell’Europa, dopo la caduta di un regime dittatoriale. Oggi qui c’è una sofferenza enorme. E le ragioni sono semplicissime: la libertà di voto è stata violata, come la libertà di comunicazione e concorrenza...». Perché la manifestazione di venerdì è finita nel sangue? «Perché la sede del governo è stata trasformata in una trincea da cui partivano gli spari. C’è un video che lo dimostra inequivocabilmente. Non esiteremo a resistere con la forza dei nostri cuori a questo regime».
Domani che cosa accadrà? «I funerali dei manifestanti uccisi si terranno in aree molto sensibili del Paese. Ma noi stiamo calmi e cerchiamo di calmare la nostra gente, perché per noi la via per il potere è solo quella dell’espressione democratica di una rivolta legittima». Anche il premier Sali Berisha ha organizzato una manifestazione per mercoledì prossimo a Tirana. Che cosa risponde? «Faceva così anche il dittatore Enver Hoxha per celebrare le sue vittorie e i suo trionfi, quando il regime ormai era finito. Facevano così tutti i dittatori comunisti dei Balcani, secondo il vecchio detto: forche, feste, fame». [N.Z.]

Corriere della Sera 23.1.11
«Arriva la modernità. Ma in uno Stato debole, poco onesto»
di  Alessandra Muglia


«L’Albania non è un’altra Tunisia, la violenza esplosa a Tirana sembra il risultato di un feroce scontro di potere tra due blocchi politici» . Giovanni Sergi ha messo per la prima volta piede in Albania nel 1992, dopo la caduta del regime comunista di Hoxha. Da allora non ha più smesso di ritornarvi: la sua curiosità di architetto si è concentrata sul fermento urbanistico apertosi con l’epoca liberista e sugli squilibri generati dallo sviluppo accelerato che ne è seguito (ne scrive in «Tirana, una città emergente. Politiche urbane, piani e progetti» , edito da Coedit e ripubblicato due mesi fa da Harmattan). Ci è ritornato dal 2002 al 2004, come docente di un corso per laureati albanesi cofinanziato dal ministero degli Esteri. E di nuovo l’anno scorso, per tenere un corso di urbanistica all’ «Universiteti Polis» di Tirana, università privata ma riconosciuta dallo Stato, situata nel «Blloku» , il quartiere più alla moda della città. In quella che un tempo era l’area residenziale off limits del partito comunista, intorno all’ex residenza del dittatore Hoxha, oggi è tutto un fiorire di caffè, bar e ristoranti, punti di ritrovo dei giovani bene di Tirana. «I miei allievi appartengono a famiglie benestanti, basti pensare che le rette costano 7 mila euro all’anno — quando lo stipendio medio di un operaio è di 200-250 euro —. Sempre connessi in rete con pc e telefonini, questi giovani sono un campione dell’Albania che cambia. Anche se restano legati alla tradizione più di quanto possa apparire: quando parli con loro ti accorgi che conservano molti elementi di una civiltà arcaica, con il suo sistema di valori basato sulla famiglia allargata, sul clan, dove vige ancora il Kanun, l’antico codice consuetudinario. Cose che rallentano la nascita di un vero stato di diritto. Il Paese infatti è ancora diviso in gruppi-clan con il 65%della popolazione che fa riferimento all’Islam» . Sergi, docente di Urbanistica all’Università Politecnica delle Marche ad Ancona, fatica a vedere nelle violenze esplose l’altro giorno a Tirana una «crisi di sistema» come quella che nel 1997 portò Berisha a dimettersi da presidente, dopo lo scandalo delle «piramidi truffa» che permisero a molti di arricchirsi alle spalle di decine di migliaia di risparmiatori. «A Tirana e dintorni vivono oggi un milione di persone, in piazza ne sono scese 20 mila: uno su 50. In Albania esiste una classe media contenuta in termini numerici e fragile quanto a coscienza dei propri diritti. Pure i miei colleghi tendono a non parlare di politica neanche al bar, per quanto credo siano consapevoli dei limiti del governo. Guardando le immagini delle proteste ho avuto l’impressione che si tratti di uno scontro tra gruppi organizzati che vivono di politica e che cercano di arruolare la parte più indifesa della popolazione, come i giovani di periferia» . Gli esclusi da un benessere oggi — secondo Sergi — ampiamente diffuso. «All’epoca delle piramidi truffa c’era un’Albania ancora povera. Oggi non è più così. Basta guardare la gente in giro: si veste bene, affolla bar e ristoranti, si muove volentieri in taxi» . Lo confermano i dati statistici: «L’Albania è il paese che nel 2009 ha avuto il più alto sviluppo economico nei Balcani occidentali, con il Pil medio pro capite passato in 9 anni da 1.650 a 5.400 dollari e un tasso di disoccupazione fermo al 12,5%» . Per Sergi, quella albanese nonostante la crisi «resta una società pervasa da ottimismo e voglia di fare, tant’è che una parte di coloro che vent’anni fa decisero di emigrare all’estero, ora ritorna» . E quando torna trova un altro Paese, come è successo a lui: «L’anno scorso sono rimasto colpito dal nuovo aeroporto di Tirana e da quell’immensa area produttiva nata appena fuori città: un esempio di sprawl urbano o città diffusa tipico delle grandi aree metropolitane. E’ stupefacente come questo Paese nostro vicino di casa, culturalmente lontano, presenti elementi di vitalità e di modernità: nonostante abbia uno stato debole e poco onesto, pur tra molte contraddizioni, l’Albania è riuscita a trovare la strada dello sviluppo» .

Corriere della Sera 23.1.11
La lezione (scomoda) dei tunisini più laureati, meno occupati
La crisi svela un trend che tocca i giovani dal Nord Africa all’Europa
di Giulio Sapelli


La rivolta tunisina è un fenomeno molto complesso che richiederebbe un’analisi amplissima. Vorrei limitarmi qui a sottolinearne un carattere universale. Essa, infatti, ha in sé il nocciolo di un processo sociale e culturale molto più generale, che va ben oltre il fronte del Nord Africa, che è assai differenziato e variegato. E’ il problema della disoccupazione giovanile. Essa inizia ad assumere, per via della globalizzazione, caratteri di crescente omogeneità in alcuni strategici nessi della costruzione sociale mondiale che si sta evolvendo sotto i nostri occhi. E’ una trasformazione silenziosa che sconvolge molti luoghi comuni e costringe a rivedere certezze che parevano acquisite. Vediamo. La prima è quella per cui la crescita economica e il tasso di uguaglianza dei sistemi sociali hanno come indicatore l’estensione dell’istruzione universitaria. Tale istruzione è comunemente intesa sia come fenomeno di mobilitazione sociale verso l’alto, sia come risorsa occupazionale, che garantisce ai portatori di essa di rafforzare la loro posizione sui mercati del lavoro. Questa asserzione è falsificata dall’analisi dell’andamento occupazionale mondiale: non vi è nessun rapporto aggregato tra aumento della scolarizzazione e aumento dell’occupazione. Quest’ultima, nella rapidità dell’aumento tecnologico in corso, aumenta soprattutto laddove si addensano i mestieri con forte intreccio di manualità e di competenze rare, acquisite tramite la trasmissione dell’esperienza e il contatto tra vecchie e nuove generazioni (artigianato, mestieri industriali e di servizi fortemente non replicabili su scala di massa): esperienza e contatto che sono fondamentalmente estranei a qualsivoglia corso universitario, di base o di specializzazione ch’esso sia. L’istituzionalizzazione della trasmissione del sapere uccide il sapere stesso e disperde in tal modo immensi patrimoni conoscitivi non formalizzati. E questo perché nelle agenzie adibite dal conformismo sociale alla cosiddetta «formazione » , altro non si fa che riprodurre gli occupati nelle agenzie stesse. Del resto, più sono aumentate queste agenzie— prime fra tutte le business school e i master d’ogni genere — più la non occupabilità è aumentata su scala mondiale. Il secondo punto che è stato sollevato grazie, ahimè, alle sofferenze dei giovani tunisini, vittime di una dilagante e oscena indifferenza crescente verso le sofferenze degli ultimi, è che la forma con cui è avvenuta la costruzione dell’istruzione superiore di massa è fondata sul rifiuto del lavoro manuale e dello studio tecnico-scientifico, che richiedono dosi ingenti di sacrificio, di rinuncia alla libertà indiscriminata di disporre del proprio tempo e dei propri impulsi desideranti. Preparare un esame di ingegneria o di chirurgia è un sacrificio immenso rispetto a un esame di comunicazione o di cultural studies. Si conseguono in tal modo due risultati devastanti: i giovani giungono al vertice dell’istruzione formalizzata senza saper far nulla e spesso senza saper nulla (per lo scadimento che in tutto il mondo hanno avuto i curriculum dei docenti); la società vede mancare quella quota di professioni e di saperi che sono indispensabili per far riprodurre la società medesima: dai periti tecnici agli ingegneri, dai matematici ai medici chirurghi, dagli infermieri ai geologi e ai sismologi. In questo modo si raggiunge anche un altro risultato pericolosissimo per la crescita e lo sviluppo: mancano le persone in grado di reindustrializzare le società del prossimo millennio. Perché è questa l’altra visione a cui la rivolta tunisina ci costringe ad accedere: non esiste una correlazione positiva tra la percentuale che i servizi hanno nel Pil e la definizione che grazie a ciò si può dare di una società definendola come una società «avanzata» . Recentemente un mio cortesissimo interlocutore pluriaccademico, in una discussione sulla rivolta tunisina, rivelava il suo stupore per l’insorgenza dei movimenti di massa perché essi avvenivano nella società più «avanzata» del Nord Africa, ossia con una percentuale dei servizi rispetto al Pil del 60%. Dove i servizi, lo sanno tutti coloro che hanno conseguito la terza media, possono essere anche il chioschetto che vende datteri come l’internet cafè…. In questo senso dobbiamo gioire per le parole pronunciate da Jeff Immelt, ex CEO di General Electric, che Obama ha appena nominato a capo del Council on Job and Competitiveness, quando ha affermato a chiare lettere che se si continua a puntare sui servizi non solo gli Usa perderanno in competitività, ma la disuguaglianza continuerà ad aumentare. Giungo così all’ultima questione: la disuguaglianza non è stata affatto diminuita da questa distorta diffusione delle pratiche di istruzione formalizzata negli istituti scolastici di ogni ordine e grado. Gli studi più interessanti a livello internazionale oggi sono quelli che si accentrano sull’eguaglianza e sulla disuguaglianza. Ebbene: non solo quest’ultima è aumentata in ogni dove, salvo in quei paesi ch’erano un tempo poveri ma che ora si sono «agganciati» alla crescita globale, ma il suo dilagare non è stato affatto frenato dall’aumento dell’istruzione universitaria di massa. I giovani che si sono immolati sino a perdere la vita in Tunisia hanno reso evidenti a tutti queste tragiche verità. E’ ora di cambiare. Oggi veramente la campana suona per tutti noi, in tutto il mondo. 

Corriere della Sera 23.1.11
Céline,  la logica del boicottare che dimentica le differenze
di Paolo Lepri


«La letteratura non si censura: questo caso è assurdo, insensato» , ha detto lo scrittore Philippe Sollers dopo la decisione del ministro della cultura francese Frédréric Mitterrand di mandare al macero il volume che celebrava, tra molte altre glorie nazionali, anche Louis-Ferdinand Céline, accogliendo così le proteste del cacciatore di nazisti Serge Klarsfeld. Certo, i libri non si dovrebbero bruciare. Ma c’è da dire che nessuno ha «censurato» niente. Mitterrand si è limitato a ritenere non opportuna, «dopo una matura riflessione» , la scelta di inserire lo scrittore antisemita (autore di un grande capolavoro, Viaggio al termine della notte) tra le personalità cui rendere omaggio nel corso del 2011, da Georges Pompidou a Michel Foucault. Forse è giusto così, in fondo. Non tutti sono uguali, Bagattelle per un massacro, il pamphlet di Céline che incitava a battersi contro il complotto giudaico mondiale, «è un libro schifoso, con buona pace di chi ne apprezza certi passaggi» , ha scritto giustamente Alessandro Piperno. Il fatto che i pamphlet di Céline nulla tolgano a quella che sempre Piperno ha definito «l’esemplare magnificenza» del Viaggio e di Morte a credito non ci deve spingere a dimenticare nulla. È un elementare norma di moralità quando è in gioco il male assoluto. Detto questo, va sottolineato però che anche i Giusti non devono mai correre il rischio di apparire intolleranti o di promuovere campagne di boicottaggio contro le idee quando, come nel caso di Céline, le idee di odio convivono con la indiscussa genialità creativa. Dobbiamo essere capaci di distinguere. «L’arte va riconosciuta anche quando contraddice i nostri valori morali» , ha sostenuto proprio parlando di questa vicenda lo studioso francese Henri Godard. E servono sempre più lezioni di tolleranza. Soprattutto in un mondo in cui i boicottatori sembrano voler imporre la loro perversa ideologia di contrapposizione, in un mondo in cui Vanessa Paradis si rifiuta di fare un concerto in Israele e il regista Ken Loach minaccia gli uomini di cultura che accettano inviti dal governo dello Stato ebraico. Ha ragione Ian McEwan, che non ha mai pensato di rifiutare il Jerusalem Prize «perché una cosa è la società civile, un’altra il suo governo» . Ci piacerebbe che dedicasse il suo premio a tutti i non boicottatori.

Corriere della Sera 23.1.11
Violenza e disturbi mentali, la difficoltà di segnare i confini
di Adriana Bazzi


Gli americani il problema se lo stanno ponendo, ma prima o poi dovremmo pensarci anche noi. Come individuare una persona che soffre di disturbi psichici e, soprattutto, come stabilire la sua potenziale pericolosità per gli altri? Loro si confrontano con molti fatti di cronaca in cui è in gioco il possesso di armi (la strage di Tucson, in Arizona, di alcuni giorni fa è l’ultimo esempio), ma anche la nostra cronaca quotidiana non manca di episodi tragici (il caso della donna filippina massacrata da un pugile a Milano l’agosto scorso). Altra domanda: quanto sono diffusi i disturbi psichici? L’università americana di Harvard ha provato a rispondere con un’indagine, che rappresenta oggi un punto di riferimento (in base ai risultati, il 26 per cento degli americani ne soffrirebbe) ma, secondo alcuni, i ricercatori non hanno ben distinto fra disturbi reattivi a situazioni di stress (per esempio la perdita del lavoro) e altre condizioni patologiche più serie. In Italia è ancora più difficile avere dati epidemiologici di diffusione di queste patologie. Il problema, dunque, è stabilire che cosa si debba davvero intendere per malattia mentale. Gli psichiatri hanno come riferimento il Dsm IV, il manuale dei disturbi psichiatrici che è, attualmente, in fase di revisione (la nuova edizione comparirà nel 2013): gli esperti stanno ora cercando di studiare un punteggio da assegnare in base alla diversa gravità dei sintomi (difficile, perché queste malattie non presentano marker biologici misurabili con test). Rimane, però, il secondo ostacolo: la possibilità di mettere in relazione certi sintomi (a parte forse l’abuso di sostanze) con i comportamenti violenti. Intanto gli psichiatri italiani lanciano un altro allarme: persone, con disturbi noti ai medici, che commettono un crimine, una volta messe in libertà, fanno perdere le loro tracce.

il Fatto 23.1.11
Il cancello della memoria
di Furio Colombo


Se il “giorno della memoria” dedicato alla Shoah (27 gennaio) è inutile, che dite, lo lasciamo perdere? Dopotutto viviamo in un paesaggio di detriti, pirateria, malefatte e vergogne, che non sono solo italiane – come a volte esasperati crediamo – ma rovesciano conseguenze dolorose, o la morte, su esseri umani indifesi, nel mondo povero, ma anche nel cuore del mondo ricco. Nessuno ti dice di voler dimenticare. Piuttosto ti dicono: in un mondo così, a cosa servono le cerimonie. O meglio: altre cerimonie, oltre quelle che celebriamo da sempre, con poca persuasione e molta distrazione in ciò che resta della comune vita pubblica? Forse qualcuno ricorderà che l’istituzione della legge che celebra il “giorno della memoria” è la sola iniziativa che sono riuscito a portare a conclusione in anni di vita parlamentare. Ho scritto e firmato e proposto il brevissimo testo subito dopo essere entrato in Parlamento, nel 1996; ho speso tutti gli anni di una legislatura a cercare l’unanimità per una legge senza carichi finanziari, esclusivamente simbolica; ho dovuto farmi strada fra chi voleva parlare, invece, di gulag, foibe, e coloro che giudicavano la legge inutile. Finalmente, nel 1999, giunto il momento del dibattito e dei discorsi finali, ho potuto dire alla Camera che in ogni seggio di quell’Aula ogni deputato presente (355), nel 1938 aveva votato “sì” senza eccezioni e astensioni quando erano state presentate da Mussolini le leggi razziali.
HO DETTO ai miei colleghi che il nostro voto oggi non poteva cambiare nulla. Ma se avessimo tutti votato “sì”, avremmo almeno lasciato un segno di repulsione per il rito macabro che si era compiuto tra applausi e grida di “viva il Duce” in quella stessa Aula e che aveva fatto dell’Italia uno dei carnefici di migliaia di cittadini ebrei, insieme a milioni di ebrei d’Europa, le vittime, sfregiando per sempre il volto di questo Paese. E così la legge sul “giorno della memoria” è stata votata all’unanimità dalla Camera dei Deputati nel 1999 (solo voto unanime della XIII legislatura) ed è diventato legge della Repubblica il primo luglio 2000, dopo l’approvazione (non unanime) del senato. Poiché il primo “giorno della memoria della Repubblica italiana è stato il 27 gennaio del 2001, in questi giorni si compiono i 10 anni di questa iniziativa. Tenterò, da persona che se ne è assunta la responsabilità, di affrontare le tante perplessità ed obiezioni. Prima vorrei dire le ragioni che hanno reso obbligatorio, per me, scrivere e battermi per quella legge. Il percorso comincia in una classe del liceo D’Azeglio di Torino. I nostri insegnanti erano stati tutti protagonisti della Resistenza, laici, cattolici, comunisti. Edoardo Sanguineti e io, in quella classe, abbiamo organizzato una piccola rivolta quando ci siamo accorti che non veniva mai proposto l’argomento delle leggi razziali fasciste. E abbiamo cominciato a formare un punto di incontro tra ragazzi che volevano sapere e parlare e ragazzi sfuggiti alla deportazione, a volte unici superstiti di una famiglia inghiottita dai campi. Tanti anni dopo mi sono ricordato di quel gruppo, quando la collega della Columbia University, Susan Zuccotti, che stava per pubblicare il suo libro sullo sterminio degli ebrei in Italia (“The Italians and the Holocaust”, Nebraska University Press, 1988), mi ha chiesto di scrivere la prefazione. In quella prefazione (ripresa nella traduzione italiana) ho potuto dire che molti italiani antifascisti, che hanno lasciato il loro nome nella storia della liberazione dal fascismo e dal nazismo hanno avuto e diffuso la persuasione che la Resistenza avesse cancellato le malefiche pagine delle leggi razziali e della loro spesso feroce esecuzione, creando l’immagine di un’Italia vittima, tutta, di dittatura, occupazione e aguzzini tedeschi, che si riscatta con la liberazione. Nasce così la cancellazione della responsabilità italiana nella campagna di distruzione del popolo ebraico che ha portato discriminazione, persecuzione e morte in tutta Europasotto due bandiere, quella tedesca e quella italiana.Resta anzi la legittima domanda, tenuto conto dell’immagine di grande potenza dell’Italia in quegli anni: avrebbe potuto, la Germania, da sola, imporre in tutta Europa la sua politica razziale e omicida? La risposta non è nei tanti italiani, compresi generali e funzionari, che si sono opposti. È nei tanti che, negli uffici, nelle scuole, nelle case, nella vita cittadina, hanno dato una mano per identificare e arrestare e hanno collaborato con la finzione di non vedere e di non sapere. Questa persuasione tragica e vera, la Shoah è un delitto italiano, è all’origine della legge così come è stata scritta. Infatti, nella sua prima versione, il mio testo indicava come “giorno della memoria” quel 16 ottobre del ’43 a Roma: 1017 cittadini romani, dai neonati agli infermi, prelevati nella notte dal Ghetto, cuore della città a meno di mille metri dal Vaticano, quasi tutti sterminati ad Auschwitz. È un delitto atroce, ma anche un delitto perfetto. Gli esecutori sono soldati tedeschi. Strade, indirizzi, nomi, sono a cura della polizia fascista. La città dorme, il Vaticano tace.
Il “giorno della memoria” della legge di cui sto parlando è adesso il 27 gennaio, giorno in cui i soldati russi hanno abbattuto i cancelli di Auschwitz e scoperto per la prima volta l’orrore di un campo di sterminio. Infatti il 27 gennaio è il “giorno della memoria” in molti paesi europei. La data infatti permette di includere, come in un abbraccio della memoria, i perseguitati politici, i militari italiani che non hanno voluto combattere a fianco dei nazisti, gli omosessuali, i rom, anch’essi vittime di persecuzione e sterminio. La domanda più frequente, che viene spesso da persone che non rifiutano la memoria, ma rifiutano il rischio di imposizione, è: “perché una legge?”. E ti raccontano del modo annoiato e automatico con cui certe scuole improvvisano il loro “giorno della memoria”; ti ricordano che tutte le feste statali diventano cerimonie ritualizzate, con molta retorica e nessuna vera partecipazione. Non era meglio lasciare tutto all’iniziativa spontanea? Risponderò che nel Paese meno incline alle celebrazioni per legge, gli Stati Uniti, dove non si sono mai visti carri armati nelle strade per celebrare la loro festa della Repubblica (il famoso 4 luglio) le poche celebrazioni nazionali sono tutte stabilite per legge, (Memorial Day, Labor Day, Indipendence Day e, dal 1968, il Martin Luther King Day).
 RISPONDERÒ che, se in Francia ci fosse un giorno della memoria, sarebbe più difficile in quel Paese dedicare, come è stato fatto, il 2011 allo scrittore antisemita Celine. Risponderò che l’antisemitismo è sempre molto vitale e molto attivo. Lo dimostrano eventi quotidiani, come gli attacchi volgari e stupidi al Diario di Anna Frank, come la recente pubblicazione, in un sito americano, di una lista di ebrei da “tenere d’occhio” negli Usa, nel mondo e anche in Italia; lo dimostra la confusione continua tra la politica di un governo israeliano ed gli ebrei del mondo, lo dimostra il fatto che persino la piccola gerarchia più o meno ex fascista che occupa posti nel Comune di Roma dice e diffonde espressioni di odio antiebraico da Repubblica di Salò.
Una legge non è una diga, è solo una piccola bandiera piantata sulla terra di un passato spaventoso. Non consola. Ma incoraggia (come per fortuna accade) studenti e insegnanti di molte scuole italiane ad essere i nuovi testimoni.

La Stampa 23.1.11
Primo Levi. Il galateo del Lager
In un dialogo del 1983 lo scrittore torna sull’esperienza di deportato “Ad Auschwitz chi sopravviveva finiva con l’imparare le vie traverse”


LA CORRUZIONE «Era dominante. Mentre noi credevamo i tedeschi crudeli ma incorruttibili»
IL FATTORE PESO «Uno esile come me aveva meno bisogno di calorie È stato un vantaggio»
IL CUCCHIAIO, UN CAPITALE «Non era dato, bisognava conquistarselo. Si prestava solo a persone di fiducia»"
ABITI E FACCIA PULITI «In omaggio alla disciplina del campo, ma anche come armatura di vita morale»

BRAVO. «Una delle cose che erano venute fuori nella sua lezione a Magistero era la serie di rituali, comportamenti suggeriti, imposti, decisi in comune che riguardavano... l’avevamo chiamato il “galateo” del campo, grosso modo». LEVI. «Sì, sì. Chiaro, lo dico fin da adesso, può avvenire che mi ripeta, che ripeta cose che compaiono nei miei libri, ma...». BRAVO. «Ma è una cosa che non... non c’era». LEVI. «È un guaio non evitabile. Ma oltre alle regole, come dappertutto, c’era un codice ufficiale, cioè un complesso di precetti e di divieti, imposto dall’autorità tedesca. Ma, frammisto a questo, e sovrapposto a questo, c’era anche un codice di comportamento spontaneo, che ho chiamato galateo, e alcuni precetti e divieti potevano essere elusi, bisognava saperlo, si imparava con l’esperienza, chi sopravviveva alla crisi dell’iniziazione, che era la più grave. Chi sopravviveva ai primi giorni finiva con l’imparare che le vie traverse, le scorciatoie e il modo più giusto per arrivare a farsi riconoscere malato, per esempio, e il fatto che la... la corruzione era dominante in Lager, cosa che aveva molto stupito tutti, perché, noi per lo meno, noi ebrei italiani che avevamo avuto contatto molto tardi con i tedeschi, ci eravamo fatti l’immagine ufficiale dei tedeschi, cioè crudeli ma incorruttibili; invece erano estremamente corruttibili. Lo si imparava più o meno in fretta, con l’esperienza; non solo i tedeschi che erano abbastanza esterni, ed erano delle divinità inaccessibili, ma tutta la gerarchia del campo che discendeva dai tedeschi era corruttibile, anzi, questa parola polacca “proteczia” si imparava subito.
«A parte questo, c’era un complesso di comportamenti che non avevano direttamente a che fare con la sopravvivenza, ma che erano considerati di buona o di cattiva educazione, e uno che ho citato era quello del... quando ti chiedevano in prestito il cucchiaio: in generale era un prestito che si concedeva soltanto a una persona di fiducia, perché era un capitale, valeva una razione di pane, e quindi lo si dava soltanto a una persona di fiducia, oppure che si sorvegliava. Il cucchiaio non veniva dato, non era di dotazione, bisognava conquistarselo, cioè comprarlo all’inizio con pane, era una crudeltà supplementare questa... tra parentesi, alla liberazione del campo abbiamo trovato un magazzino pieno di cucchiai, non c’era ragione di non darli, il nuovo venuto era costretto a lappare la zuppa come un cane, perché il cucchiaio non ce l’aveva e nessuno glielo dava; comunque quando veniva chiesto il cucchiaio in prestito era buona norma leccarlo prima, uno mangiava la sua zuppa, poi lo leccava bene perché fosse pulito [sorride] e solo allora lo dava in prestito al... al postulante, ... e un’altra cosa ancora, che mi viene in mente, era, come dire, la proprietà nel vestirsi, e sembrerà strano dal momento che era quasi impossibile essere vestiti propriamente, ma... come nella vita comune, aveva importanza avere gli abiti, il cappello e le scarpe decenti, dico decenti tra virgolette, perché decenti non erano mai, o per lo meno ci arrivava soltanto chi aveva fatto una straordinaria carriera, ma... in qualche modo questo era, faceva parte della disciplina del campo.
«Ma io tendevo inizialmente a trascurarla, mi sembrava una cosa superflua quella di... questa giacca piena d’unto, piena di macchie di ruggine, doverla spolverare mi sembrava inutile, e invece i compagni più anziani mi han detto: “No, devi farlo, qui si deve avere le scarpe pulite, la giacca pulita, e così via, la faccia pulita, non bisogna sottrarsi al barbiere”. La barba la si faceva soltanto una volta alla settimana, però quella volta lì doveva essere fatta, non soltanto in omaggio alla disciplina del campo, alla regola del campo, ma anche come armatura esterna di vita morale, doveva comparire in qualche modo, un istinto collettivo spingeva a questo, chi si lasciava andare era in pericolo, veniva sempre ultimo». BRAVO. «Lei ha notato rispetto a questa esigenza di dignità, anche verso l’esterno, che ci fosse una possibile differenziazione in relazione alla estrazione di classe, cioè che certi modelli culturali di proprietà, decenza...». LEVI. «Direi proprio di no». BRAVO. «Influissero... no?». LEVI. «Direi di no; direi che del resto la provenienza di classe spariva molto rapidamente, e prevalevano altri fattori. Io ricordo degli intellettuali decadere con estrema rapidità, mentre invece scaricatori di porto o gente abituata al lavoro manuale resisteva meglio. Non è un criterio assoluto, c’erano altri criteri. Uno era quello del peso corporeo: è chiaro che un uomo come me che all’ingresso nel Lager pesava 49 chili perché era costituzionalmente esile, aveva bisogno di meno calorie di un uomo di 80 o 90 chili; e quindi nel mio caso questo è stato un fattore... di sopravvivenza, un fattore... un vantaggio. Molti intellettuali naufragavano, perché si trovavano davanti a un lavoro mai fatto prima, a una necessità di lavorare fisicamente, di provvedere a cose che un uomo dalla vita agiata non fa, a lustrarsi le scarpe, a spazzolarsi il vestito senza spazzola, con le mani, con le unghie, e...». BRAVO. «La manutenzione di se stessi». LEVI. «La manutenzione di se stessi, che spesso viene delegata». BRAVO. «E sì, nelle famiglie, c’era la donna, la moglie, la domestica». LEVI. «Appunto, viene delegata. Qui invece bisognava provvedere. Io stesso mi sono trovato molto in pericolo nei primi giorni, e qui mi ricollego al fattore dell’amicizia; io credo di essere stato salvato da alcune amicizie, anche per un fatto importante per noi italiani, ebrei italiani: la mancata comunicazione. Io l’ho percepita come un ferro rovente, come una tortura, il fatto di trovarsi in un ambiente in cui non si capiva il verbo, la parola e non si riusciva a farsi capire. Trovare un italiano con cui comunicare era una grande fortuna. E eravamo pochi italiani, eravamo un centinaio nel mio Lager su diecimila, l’uno per cento, e degli stranieri pochi parlavano italiano, e di noi italiani quasi nessuno parlava tedesco o polacco e pochi parlavano francese, in sostanza c’era un grave isolamento linguistico. E trovare un buco, un foro, un passaggio che permettesse di valicare questo isolamento linguistico, era un fattore di sopravvivenza. E trovare l’altro capo del filo, una persona amica era... era un salvataggio.
«Ora questo ragazzo, Alberto, di cui io ho spesso parlato nei miei libri, era l’uomo adatto, aveva coraggio da vendere per sé e per gli altri, ed era in grado di somministrare coraggio e mi sono trovato con lui, abbastanza casualmente, senza mai capir bene... io trovavo in lui un salvatore; cosa trovasse lui in me, che lui mi diceva: “Tu sei un uomo fortunato”, non so bene su quale base, ma infatti il destino l’ha poi dimostrato, io sono stato fortunato». © 2011 Giulio Einaudi ed. s.p.a., Torino

il Riformista 23.1.11
Dialogo con un amico sionista
La Giornata della memoria e Israele
di Osvaldo Casotto

qui
http://www.scribd.com/doc/47397531

Repubblica 23.1.11
Ebrei. Storie di un popolo
di Pietro Del Re


Sparpagliati su cinque continenti, da quattromila anni perseguitati e sterminati. Ma dai tempi del capostipite, i discendenti di Abramo non hanno mai smarrito né legge, né lingua, né identità. Per il Giorno della Memoria, lo scrittore Marek Halter, che ha pubblicato un libro illustrato sulla sua gente, spiega il senso del loro esodo infinito: "Un monito per non dimenticare che eravamo schiavi, e per dire che non potremo sentirci liberi finché ci saranno ancora schiavi al mondo"

PARIGI. Sparpagliato su cinque continenti da persecuzioni e genocidi, esiste un popolo che negli ultimi quattromila anni, dai tempi del suo capostipite Abramo, non ha smarrito né la sua Legge né la sua lingua né la sua identità. È il popolo mosaico, semitico, giudaico, ebraico, israelitico o anche israeliano. Troppi aggettivi per chiamare gli ebrei? «No, perché l´ebraismo si definisce anzitutto attraverso la sua storia», risponde lo scrittore Marek Halter, con una voce così bassa che si distingue appena nella chiassosa brasserie di Montparnasse dove ci ha dato appuntamento. «Credo che per essere ebreo basti volerlo diventare. Ora, la Corte suprema di Israele ha detto quasi la stessa cosa, aggiungendo però che è necessario farlo in buona fede. Mi sembra una postilla eccessiva: è già abbastanza coraggioso dire "sono un ebreo". C´è sempre il rischio di ritrovarsi in un campo di concentramento. Nel prossimo, infatti, gli ebrei non provocano solo amore».
Figlio di un tipografo polacco e di una poetessa yiddish, Halter scampò per miracolo alla distruzione del ghetto di Varsavia, e da una vita si batte per la difesa dei più deboli e per il raggiungimento della pace in Medio Oriente. Quando gli chiediamo di spiegarci quanto conta la comunione religiosa per il popolo ebraico, visto che ci sono anche molti ebrei non praticanti, o addirittura senza religione, lo scrittore torna a parlare della sua storia. «È ciò che lo tiene unito più di qualsiasi altra cosa. Ancor più della Torah. Tutti gli ebrei celebrano però due festività. La prima è lo Yom Kippur, il giorno dell´espiazione, del grande perdono. L´altra è la Pesach o la Pasqua, che ricorda l´esodo e la liberazione dall´Egitto. È un monito per non dimenticare che un giorno eravamo schiavi, e per dire che non potremo sentirci liberi finché ci saranno ancora schiavi al mondo».
Queste e altre spiegazioni sull´originalità del popolo ebraico sono racchiuse nella sua ultima fatica: Histoires du peuple juif (Arthaud/Flammarion, 220 pagine, 39 euro), libro riccamente illustrato che ne ripercorre l´odissea attraverso, appunto, le sue "storie". «Che cosa lo rende diverso dagli altri popoli? Il fatto, per esempio, che ebbe l´idea geniale di trasformare la sua storia in religione. Nelle sinagoghe si legge il Cantico dei cantici, che racconta l´amore tra il re Salomone e la bruna regina di Saba. È come se nelle chiese cristiane si leggesse dei legami tra Carlo Magno e le sue amanti». Il libro si apre con le immagini di due coppie di anziani, una accanto all´altra: la prima mostra un bassorilievo sumero del Terzo millennio avanti Cristo; nell´altra c´è una foto scattata negli anni Trenta del Novecento. Le due donne hanno lo stesso sorriso, il medesimo volto allungato; anche i loro mariti sembrano gemelli, per via dello stesso taglio di occhi e dell´identica barba squadrata. La somiglianza è stupefacente. «La fotografia ritrae i miei nonni a Varsavia, quando c´erano nella capitale polacca più di quattrocentomila ebrei che pubblicavano sette quotidiani. L´antico bassorilievo, invece, l´ho scoperto al Louvre, e da quel giorno tutto mi è apparso più chiaro. Capii che noi occidentali giudeo-cristiani non dobbiamo nulla agli egiziani. Diverso è se parliamo dei sumeri. Sono loro che crearono il primo alfabeto cuneiforme, dunque astratto, senza il quale l´uomo non sarebbe riuscito a concepire la più astratta delle invenzioni: un solo unico Dio. Con i geroglifici e i pittogrammi dei Faraoni, che rendevano visibile l´invisibile, il pantheon egizio rimase invece affollato da decine di divinità».
Halter cita anche l´esempio degli ebrei cinesi, giunti attorno al IX secolo nella città di Kaifeng. «Quando si chiede loro "perché siete ebrei?", loro rispondono "perché è la prima religione monoteista del mondo". L´idea di un unico Dio nasce da un bisogno di giustizia. In un universo politeista era più facile comprarsi un idolo. Il ricco aveva perciò un´assicurazione sulla vita eterna maggiore del povero. Con il monoteismo ebraico nasce invece un Dio fatto a nostra immagine e somiglianza, di tutti noi, bianchi, gialli o neri. E con lui per la prima volta appare l´idea di eguaglianza nell´uomo».
Ma non è una sfida troppo ambiziosa quella di voler raccontare un popolo in quattromila anni di storia, o sia pure di storie, per chi storico non è? No, risponde Halter: gli è bastato, dice, comportarsi da narratore, distillando cioè gli avvenimenti e i personaggi più emblematici. «Fece la stessa cosa chi scrisse la Bibbia, che non è un libro di storia, ma piuttosto un libro di memorie. Là dove mi sono concesso qualche libertà è nell´interpretazione di alcuni fatti». Nella quarta di copertina del libro, compaiono gli elogi di due premi Nobel per la Pace, entrambi ebrei, Shimon Peres e Elie Wiesel. Sembra quasi che con loro Marek Halter abbia voluto farsi scudo di eventuali critiche da parte degli storici più ortodossi. «Non ho paura delle critiche. Vede, la cultura ebraica è una cultura di interpretazione. Tra gli ebrei non dovrebbero esserci filosofi, perché il filosofo, come disse Hegel, è colui che reinventa il concetto del mondo. Ora, gli ebrei partono dal presupposto che questa concezione del mondo sia già stata scritta nella Bibbia, una volte per tutte. Quello che si può ancora fare è interpretarla. Il Talmud è un libro d´interpretazione, ed è un libro aperto, al quale chiunque può aggiungere un nuovo capitolo. Conta già ventiquattro volumi, ma potrebbe averne cento o duecento. È per questo che gli ebrei scomunicarono Spinoza, perché non si presentò come interprete, ma come un vero filosofo, che voleva ripensare l´universo. Eppure era un bravo ebreo. Ma un giorno non lo lasciarono entrare in sinagoga. Poiché non vado in sinagoga, è un rischio che io non corro».
E perché due premi Nobel? Perché sono due amici. «Elie Wiesel l´ho conosciuto in Francia, poco dopo il mio arrivo: era orfano, e la sera veniva a mangiare la minestra che preparava mia madre. Shimon Peres è invece l´ultimo dei moicani dei fondatori socialisti dello Stato ebraico, un politico che ha conservato intatti i suoi sogni, o le sue illusioni, con cui preparai gli accordi di Oslo nel 1993. Ma poi Yitzahk Rabin fu assassinato e la situazione precipitò nuovamente nel caos. Se Rabin fosse ancora vivo, non vedremmo oggi Netanyahu confabulare con Abu Mazen, per poi fare il contrario di quello che ha appena promesso».
Halter ricorda infine il viaggio che fece François-René de Chateaubriand in Palestina due secoli fa, raccontato nel suo Itinerario da Parigi e Gerusalemme. Lì, il padre del Romanticismo francese trovò chi dall´antichità era sopravvissuto al sigillo del tempo con le stesse tradizioni, la stessa memoria e la stessa lingua di una volta. «Era un piccolo popolo, rimasto aggrappato a quei luoghi, mentre tutti gli altri, dai sumeri ai babilonesi, dagli egiziani ai greci, erano scomparsi da secoli o millenni. Quando vengono strappati dalla loro patria, i popoli "normali" muoiono come una pianta sradicata. Diverso è per gli ebrei, che se sono costretti a lasciare la loro terra, si portano appresso il loro Libro, e quindi le loro radici». È forse per questo che tutti coloro che hanno cercato di distruggere il popolo ebraico hanno cominciato col bruciare i suoi libri.

La Stampa 23.1.11
Perché si estinsero i Neanderthal


La convinzione che la scomparsa dell’uomo di Neanderthal sia stata dovuta alla sua minore aspettativa di vita a quella del primo uomo moderno è tutta da rivedere. Erik Trinkaus, antropologo dell’Università di Washington, ha esaminato i reperti fossili di entrambe le specie, che hanno convissuto per circa 150.000 mila anni, scoprendo che il rapporto tra gli individui di 20-40 anni e quelli oltre i 40 era identico tra Neanderthal e uomo moderno.

l’Unità 23.1.11
Ecco le teste del vero Modì
A 26 anni dal celebre falso di Livorno una mostra recupera l’autentica bellezza della scultura di Modigliani
di Renato Barilli


Il primo intento della mostra che il Museo d’Arte di Rovereto e Trento, MART, dedica alle sculture di Modigliani (1884-1920), lo spiega bene la direttrice e curatrice dell’esposizione, Gabriella Belli, è di sanare la ferita inflitta, nel 1984, a questa parte della produzione del grande artista da alcuni smaliziati ragazzi di Livorno, pronti a sfruttare un ambiguo dato di cronaca, relativo a uno dei pochi rientri in patria di Modigliani, già dedito alla produzione di opere in pietra. In quel breve soggiorno si sarebbe sbarazzato di alcune statue gettandole in un torrente. Gli ingegnosi ragazzi, armati di un banale attrezzo, avevano scavato nella pietra dei volti del tutto simili a quelli che allora, a Parigi, aveva iniziato a scolpire Modì, simulandone il ritrovamento. Ma dunque, questa la reazione tra il perplesso e l’indignato dell’infinita categoria dei benpensanti, l’arte contemporanea è davvero una truffa, chiunque la può imitare a capriccio? Da qui l’utile ricognizione ad ampio raggio condotta dal MART, da cui risulta quanto tutti già sappiamo: l’idea di andare a sbozzare in materiali duri un’effigie del volto umano, squadrata e massiccia, era già coltivata da molti, prima che Modì entrasse in campo. Aveva iniziato, al solito, Picasso, subito seguito da una schiera di corifei, una lunga lista di nomi che comprende Ossip Zadkine, Henri Laurens, Jacques Lipchitz, con un posto autonomo da riservare a Constantin Brancusi, il più essenziale e concentrato tra tutti. L’intento generale era di rubare il mestiere ai carrozzieri d’auto e di dare ai tratti somatici umani lo stesso rigore di una macchina. Su questa strada erano risultati utili gli apporti della cultura primitiva propria dei paesi africani, con la libertà di modellare i volti spostando liberamente bocche e occhi, dando al tutto una forte sporgenza.
L’AMORE PER L’UMANO
Modì, all’inizio del secondo decennio, si sentiva ormai stanco di limitarsi a stilizzare le figure mantenendole schiacciate sul piano, come volevano i fauves, con tutt’al più qualche timida scheggiatura di sapore cézanniano, e dunque imboccò con piacere quella via risolutamente tridimensionale indicatagli dai compagni di via. Ma si avverte nel suo procedere una grande differenza, rispetto agli altri. Questi seguono il copione dell’incombente meccanomorfismo, e dunque aggrediscono le fisionomie, le piallano, le brutalizzano. Invece il Nostro è pur sempre mosso da un grande amore per le sembianze umane, e in particolare per quelle femminili, e dunque le imposizioni praticate non devono portare a un loro sacrificio, anzi, esaltarne i valori di grazia e di eleganza. In definitiva si tratta di far assumere a un’umanità, in definitiva abbastanza androgina, come delle maschere degne di raffinate cerimonie, come le bautte del carnevale veneziano, che lasciano trasparire qualche elemento della realtà sottostante, ma lo filtrano attraverso un velo nobilitante, il che del resto è quanto più di frequente il nostro artista faceva nei magnifici dipinti.

La Stampa 23.1.11
Malati immaginari Le paure costano quattro miliardi
Si fanno diagnosi con web e dottor House E sono un incubo per medici e conti pubblici
di Maria Corbi


Italiani? Un popolo di ipocondriaci. Malati immaginari che cercano su Internet la causa dei loro doloretti, che affollano le anticamere dei medici di base, in fila alle farmacie carichi di prescrizioni, sempre pronti a trasformare una febbriciattola nell’annuncio della fine. E che per questo costano allo Stato 4 miliardi all’anno, come spiega il senatore Antonio Gentile, Pdl, della commissione finanze di Palazzo Madama. «La metà di questi soldi vengono spesi per risonanze magnetiche, Tac, esami di Ecg inutili mentre l’altra metà viene spesa in visite specialistiche convenzionate».
Come Verdone nel film E tra le patologie più temute ci sono i tumori (38 per cento), le malattie cardiovascolari (34 per cento), le malattie mentali e neurodegenerative (22 per cento). Un problema che causa certamente sofferenza e che annovera tra le sue vittime anche molti nomi noti, a iniziare da Carlo Verdone che proprio in uno dei suoi film più famosi, «Maledetto il giorno che ti ho incontrato», porta sullo schermo una coppia di ipocondriaci (lui e Margherita Buy) destinati a innamorarsi. E la battuta «Copro tutto, fino al delirio schizoide», è ormai diventata un cult tra gli ipocondriaci confessi. E da Wikileaks abbiamo saputo che anche Gheddafi è della partita e che si porta in giro, sempre, un’infermiera oltre a filmare tutti i suoi controlli medici.
Boom di allucinazioni Ma il problema non è solo italiano, visto che negli Stati Uniti l’ipocondria affligge un americano su 20 e costa 150 miliardi di dollari all'economia. E qualche giorno fa i ricercatori dell’Università di Stanford hanno pubblicato l’esempio delle allucinazioni. Su un campione di 13.057 persone, scelto tra Regno Unito, Germania e Italia, rappresentativo di 150 milioni di europei, ben il 16,3 per cento aveva allucinazioni occasionali. «Eppure - scrivono i ricercatori - ancora oggi molti si attardano a fare diagnosi sulla base solo di questo sintomo che può essere patognomonico (indica cioè la certezza della malattia, ndr), ma può anche non significare nulla, specialmente nelle età di transizione».
E nell’era di Internet essere ipocondriaci è sicuramente più facile, visti gli strumenti a disposizione, come l’applicazione per I-phone che regala diagnosi in base ai sintomi che si digitano. Una ricerca ci dice che oltre 16 milioni di italiani cercano informazioni sanitarie su Internet, e molti di loro, e sempre di più, lo fanno in modo compulsivo, convincendosi, alla fine, di essere malatissimi.
E sembra che le serie televisive piene di camici bianchi e ospedali - in testa dottor House, il genio delle diagnosi impossibili - non aiutano a placare l’ansia dei malati immaginari. Secondo uno studio dell’Università del Rhode Island gli appassionati del genere possono mettere in atto comportamenti di eccessiva attenzione per la loro salute.
Ma guai a definire qualcuno «ipocondriaco», tanto che Verdone ha spiegato in un’intervista di non sentirsi affatto tale quanto piuttosto un «cultore della materia»: «Io studio la sera, leggo libri, mi documento su Internet, ascolto specialisti». Tanto, dice, da avere salvato la vita ad almeno cinque persone mandate dal medico «a calci nel sedere». «Non per vantarmi, ma sarei stato un grande medico di famiglia».

La Stampa 23.1.11
Garattini: “Lo spreco più inquietante è per gli antidepressivi”
di Elena Lisa


RICETTE COMPULSIVE «I medici prescrivono esami per tutelarsi da azioni legali»
MULTE ANTI-SPERPERO «Le Asl devono agire "con sanzioni contro chi esagera»

Quanti? Quattro miliardi all’anno. Ma figuriamoci, saranno ben di più». Netto e deciso, Silvio Garattini, fondatore e direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche «Mario Negri» è sicuro: manie e fobie italiane costano un patrimonio al sistema sanitario nazionale e, paradossalmente, peggiorano la salute di chi si ingozza di pillole con mestolate di sciroppo. Partiamo dal principio, professore: cos’è l’ipocondria? «La certezza di avere malattie terribili basando l’auto-diagnosi su sintomi inesistenti: un mal di testa e si crede di avere un’emorragia cerebrale, uno starnuto e si è persuasi del contagio di aviaria». Perciò si corre dal medico? «La paura genera un’ansia incontrollata che si attenua solo con un referto che certifica il buono stato di salute». Ma lastre e tac si eseguono dietro prescrizione, giusto? «L’atteggiamento di chi compila ricette in modo compulsivo ha un nome: si chiama “medicina difensiva”. Oggi le denunce a ospedali e specialisti sono molte, troppe, così i medici, per premunirsi, prescrivono ogni tipo di analisi». Da un lato l’ipocondria e dall’altro la fobia da «azione legale»? «Il surplus di costi inutili, superflui, non è spiegabile solo con le reciproche paure. Allora parliamo di sprechi. Per esempio: servono davvero tutti i tipi di pace maker e i cateteri in circolazione?».
Lei cosa pensa? «Credo che molto si possa e si debba limitare. La strada da percorrere è lunga: i medici devono avere più fiducia nei pazienti, i cittadini aumentare la loro cultura nel campo della salute, e in mezzo dev’esserci più Regione».
In che termini? «Di controllo. Se non si prevedono ammende, il discorso diventa inefficace. Le Asl dovrebbero intervenire, verificare e, nel caso, sanzionare». Chi: le strutture che sprecano e i medici che prescrivono farmaci in quantità? «Perché no? Esistono evidenti differenze regionali: in Campania, Calabria e Lazio si spende il 30 per cento in più rispetto ai costi sanitari pubblici del Nord. Ci fossero più accertamenti ci sarebbero meno sperperi». Come si distingue chi s’inventa un malanno da chi il malessere ce l’ha davvero? «Gli ipocondriaci non si lamentano di un acciacco e basta. Ne hanno più d’uno e li cambiano di continuo. E quando entrano in farmacia sembrano stare nel paese dei balocchi». Qual è la conseguenza dell’abuso? «Le medicine, di base, non sono tossiche, ma in alcuni casi possono diventarlo. Senza contare poi che rendono il fisico meno resistente alle cure quando diventano necessarie. Ha idea di quanto gli italiani spendano al giorno, mutua a parte, per i farmaci?»
Quanto? «Circa 17 milioni per integratori alimentari, antibiotici, blandi sedativi e molto altro». Nel calderone ci sono anche antidepressivi, ansiolitici e psicofarmaci? «È lo spreco più inquietante: scoprire che la maggior parte delle ricette non riguardano patologie reali, disturbi e nevrosi, ma sono state rilasciate per alleggerire le persone da momenti tristi, duri, complicati ma naturali della vita, mi ha fatto capire quanto sia insofferente e spaventata, oggi, la nostra società».

La Stampa 23.1.11
A Milano apre i battenti la banca cinese Icbc Vale quanto il pil italiano
Fornirà servizi come depositi prestiti ai clienti cinesi ed europei


Industrial & commercial bank of China (Icbc), la banca cinese che vale quanto il Pil italiano, ha aperto i battenti a Milano. La Icbc si è presentata con una carta d’identità di tutto rispetto: profitti per 12,4 miliardi di dollari (nella prima metà del 2010), 235 milioni di clienti e oltre 16 mila sportelli sparsi nel mondo. La più grande delle quattro banche commerciali controllate dallo Stato cinese, sull’onda di una strategia indirizzata all’Europa, ha aperto una filiale anche a Milano, in pieno centro, nella galleria Vittorio Emanuele. Altre quattro sono state inaugurate da Icbc sempre nel Vecchio Continente a Parigi, Bruxelles, Amsterdam e Madrid. Per l’inaugurazione è stata celebrata una affollata kermesse, a palazzo Mezzanotte sede della Borsa Italiana, con il contributo della Fondazione Italia-Cina, presieduta da Cesare Romiti.
Alla cerimonia di venerdì hanno partecipato il presidente della Icbc, Jiang Jianqing, il ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani, e il presidente della Fondazione Italia Cina, Cesare Romiti. Per Jiang il futuro è più che promettente se si pensa che «tra Italia e Cina c’è stato un interscambio di 13 miliardi di dollari nel 2003, destinati, come ha detto il premier Wen Jabao, a diventare 80 nel 2015, anno dell’Expo 2015 a Milano». Mentre Bankitalia segnala flussi verso la Cina da circa due miliardi di euro nel 2009 e tra banche cinesi e money transfer sembra in atto un’eterna lotta tra gatto e topo. Con i money transfer chiusi per effetto di operazioni della guardia di finanza sulle linee grigie dell’economia. Infatti le banche raccolgono secondo Bankitalia solo il 10% circa dei flussi.
Oltre alla Cina, Icbc è presente in 28 Paesi del mondo, con 203 sedi. Ha inoltre accordi con 1.453 banche in 132 Paesi e territori. Fuori dalla madrepatria impiega 4.700 dipendenti. In Italia la banca predisporrà servizi finanziari come depositi, prestiti, trade finance e investment banking di clienti cinesi ed europei. Le relazioni economiche e commerciali tra Cina ed Europa hanno sviluppato un forte rapporto nel corso degli ultimi anni, e l’Unione europea è diventata il primo partner commerciale e il più grande mercato d’importazione della tecnologia. Secondo i dati statistici, nei primi dieci mesi del 2010, il volume del commercio bilaterale CinaEuropa ha registrato crescita del 32,9% anno su anno. Sempre più sono le aziende cinesi che stanno investendo in Europa, e molte di loro sono partner a lungo termine di Icbc. [R. E.]

sabato 22 gennaio 2011

l’Unità 22.1.11
Fate guerra alla paura
d Concita De Gregorio


È venuto il momento di togliere gli occhi di dosso da Berlusconi e volgere lo sguardo agli italiani. Ho cercato di dirlo nei giorni scorsi in tv con alterna fortuna: la tv, del resto, è la vera scena del delitto. È il corpo del reato, è lei stessa la pistola fumante. Volendo parlare e non partecipare al crimine bisogna farlo altrove. Lo faccio qui, di nuovo, dunque: da molti giorni da mesi, in varie declinazioni scrivo che il problema dell’Italia da tempo non è più solo Silvio Berlusconi. Il problema dell’Italia sono gli italiani incapaci di comprendere la realtà e di reagire, gli italiani che gli consentono di rappresentarli. Non sarà un processo, non sarà un vizio per quanto efferato a condannarlo. Sarà la rivolta di chi si riprende la delega scrivendoci dentro basta così: dei suoi elettori, dunque, soprattutto. Delle persone per bene capaci di esercitare la ragione che stanno a destra come a sinistra e al centro. Di quei padri tra i suoi elettori che non fanno prostituire le figlie perchè portino a casa i soldi. Di quelle donne, fra le sue elettrici, che pur potendo andare a letto con il professore per passare l’esame e col capufficio per fare carriera non l’hanno fatto né lo farebbero. Non perché non possono, perché non sono state scelte: perché non vogliono. Chissà se è ancora possibile o se è già troppo tardi. Ho visto giorni fa il bellissimo spettacolo di Fabrizio Gifuni su Pasolini. Difficile che arrivi mai in tv. La descrizione del “genocidio culturale” commesso dalla dittatura televisiva e del “mutamento antropologico” che produce sono di precisione millimetrica. È questo il crimine, perfettamente premeditato e congegnato: vent’anni di ipnosi collettiva. Da Drive In a Kalispera passando per anni di milioni di giovani “provinati” in tutta Italia per le Isole e le Case, per diventare Amici o infermierine. Chi ha vent’anni è nato lì dentro. Non è in questione, oggi, la prostituzione consapevole: ciascuno è libero di fare di sé ciò che vuole. Il problema è chi la induce e l’ha indotta in anni di casting ad uso pubblico e privato, di chi la sfrutta la rivendica ergendola a modello di condotta di successo. Abbiamo raccolto quasi trentamila firme in due giorni chiamando all’appello le donne al di là della parte politica. È successa una cosa emblematica, il primo giorno: molte donne celebri lo hanno sottoscritto e hanno richiamato qualche ora dopo, quando i loro nomi erano in rete, per chiedere di essere tolte. Scusandosi, spiegando che non potevano, che chi fa un “lavoro molto esposto” non può firmare, rischia, viene dissuaso. Abbiamo compreso, abbiamo tolto i loro nomi che pure restano nero su bianco nelle adesioni della prima ora. Certo: chi lavora a Mediaset è solo un esempio, c’è ben altro non può firmare un appello libero. L’Italia non è Mediaset però. La paura, l’intimidazione si combattono solo riprendendo in mano la propria libertà. Con dignità e orgoglio, un altro modo non esiste. A destra, a sinistra, al centro.

l’Unità 22.1.11
«Ridiamo dignità al Paese»
Il segretario del Pd Bersani ha scritto il testo della petizione contro il presidente del Consiglio
L’appello «È ora di unire tutti coloro che vogliono cambiare». Obiettivo 10 milioni di adesioni
Una firma per cambiare «Alle elezioni vinciamo noi»
Oggi il segretario Bersani sarà a Torino alla riunione dei Modem di Walter Veltroni. Intanto ha scritto il testo della petizione con la quale intende raccogliere 10 milioni di firme. E dalla Bignardi dice: Vinciamo noi.
di Simone Collini


«Berlusconi dimettiti» in rosso, «la tua firma per cambiare l’Italia» in verde, e in mezzo il testo della petizione che Bersani conta di far sottoscrivere da almeno dieci milioni di italiani. «Il nostro obiettivo è di metterci a disposizione, come Partito democratico, di tutti i cittadini, di tutte le associazioni, di tutte le forze politiche e sociali disponibili a lavorare per un futuro migliore», spiega il leader del Pd, che punta a mettere in campo un ulteriore elemento di pressione che spinga il premier a rassegnare le dimissioni.
Dopo un rapido giro di consultazioni con gli altri dirigenti, Bersani ha scritto il testo da far girare per il paese fino a tutto il mese di febbraio: si apre con un secco «Presidente Berlusconi, lei ha disonorato l'Italia agli occhi del mondo, non ha più la credibilità per chiedere agli italiani un impegno per il cambiamento e con la sua incapacità a governare sta facendo fare al paese solo passi indietro»; e dopo aver richiamato le questioni che un diverso governo dovrebbe affrontare (crescita economica, lavo, fisco, scuola, assetto istituzionale), si chiude con un altrettanto tranchant «è ora di unire tutti coloro che vogliono cambiare, è ora di lavorare tutti insieme per un futuro migliore».
Nelle intenzioni di Bersani, l'iniziativa dovrà essere rivolta non soltanto a militanti e simpatizzanti del Pd, ma dovrà coinvolgere chiunque voglia “aprire una nuova fase”. L'operazione, insomma, dovrebbe non soltanto servire a rilanciare la richiesta di dimissioni del premier, ma potrebbe anche diventare un primo passo concreto verso quel “patto costituente” proposto dal segretario del Pd alle forze di opposizione, di sinistra e di centro. Un “patto” – Bersani se n'è più volte lamentato – troppo spesso letto in chiave politicista e come un accordo tra gruppi dirigenti (ancora ieri Renzi ha detto che Berlusconi si batte “con i voti e non con le spallate o le ammucchiate di Palazzo”) e che invece attraverso la raccolta delle firme potrebbe dimostrare che già vive tra il corpo elettorale. Spiega non a caso Bersani: “Noi abbiamo l'ambi-
zione di fare un'iniziativa capace di ottenere l'adesione dei singoli ma anche dei diversi gruppi organizzati per girare pagina, per cominciare ad affrontare i problemi veri del paese. Noi vogliamo offrire a coloro che hanno a cuore il futuro delle nuove generazioni, ma anche la qualità della vita sociale ed economica di oggi, la possibilità di farlo e di ritrovarsi tutti insieme in una iniziativa politica positiva”. Il Pd in questa operazione, sempre secondo Bersani, dovrà mettere a disposizione la sua forza organizzativa, ma fare anche da elemento unificatore tra quanti decideranno di far fronte comune.
MEGLIO IL VOTO CHE L'IMBARAZZO
Bersani in questi giorni si è più volte sentito con Casini e Fini, e anche la risposta uguale data da Pd e Terzo polo sul federalismo (la proroga non basta) è frutto di questi colloqui. La Lega potrebbe essere messa di fronte al fatto che con questo governo la riforma federalista non vedrà mai la luce ed essere tentata di appoggiare un governo tecnico. Ma nel Pd come nel Terzo polo ormai si parla apertamente anche di voto anticipato. E Bersani dice che se si va a votare »questa volta vinciamo noi». Dice D'Alema: “Siamo pronti a sostenere un governo nuovo che affronti i problemi del paese, ma se questo non sarà possibile meglio le elezioni che questa condizione precaria e imbarazzante”. Anche perché, dice Anna Finocchiaro, “siamo arrivati ad un punto di non ritorno, il grado di discredito raggiunto dal nostro Paese nel mondo per lo squallore che emerge dalle vicende che riguardano il nostro presidente del Consiglio non ha eguali”. E Rosy Bindi, prendendo spunto dallo sfratto delle ragazze che abitano nel residence di via Olgettina “per salvaguardare il decoro e l'immagine dell'immobile”: “Cosa si aspetta a sfrattare Berlusconi per tutelare l'immagine e il decoro delle nostre istituzioni? Le firme che raccoglierà il Pd gli daranno lo sfratto definitivo”.

l’Unità 22.1.11
Costringiamo il premer alle dimissioni
Le opposizioni blocchino ogni atto del governo
di Gavino Angius


La violenza delle parole del Presidente del Consiglio in Tv, le palesi menzogne del suo racconto, insieme alla campagna che i suoi dipendenti su Mediaset, e nel Tg1, hanno scatenato su suo ordine sull’affare Ruby, sono da allarme rosso. Quelle parole hanno raggiunto milioni di persone. Vogliono ingannare il Paese, spaccare l’Italia, non solo sulla persona del Presidente del Consiglio, ma su due questioni decisive sancite dalla Costituzione: l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la separazione dei poteri dello Stato. Questo accade perché non tanto un uomo solo Berlusconi ma un gruppo di potere si considera padrone dello Stato e lo vuole piegare alle proprie ambizioni e ai propri disegni. L’affare Ruby ha rivelato più di ogni altra vicenda l’essenza stessa del cosiddetto “berlusconismo”: un autoritarismo padronale che volge in regime politico autoritario. La Repubblica democratica corre un pericolo serio. Questa vicenda rischia di degenerare in qualcosa di drammatico per il nostro Paese. Non si possono più fare troppi calcoli, in particolare se convenga o meno andare alle elezioni anticipate. La prima cosa da fare è togliere Berlusconi dalla Presidenza del Consiglio. C’è in ballo l’interesse dell’Italia, la salvezza della sua democrazia, il decoro della Repubblica, la dignità della politica, il rispetto delle donne. Questa storia rivela uno stile di vita, una concezione dello Stato, rapporti e relazioni umane che non sono compatibili con un qualsiasi ruolo pubblico intrisa com’è di mercimonio, abuso e violenza. Non era stato Berlusconi qualche giorno fa a dire che era orgoglioso del suo stile di vita? Benissimo, se lo tenga. Ma se fossero di autentico esempio i comportamenti degradanti di cui abbiamo avuto conoscenza ad Arcore viene da fare cattivi pensieri sulla natura umana. Ma per fortuna la natura umana è più ricca di quella che abbiamo visto rappresentata in questi giorni.
Le opposizioni dunque non facciano calcoli. Berlusconi se ne deve andare, lo costringano alle dimissioni. Il modo c’è. Si blocchino in Parlamento gli atti del Governo a cominciare dal federalismo tanto caro alla Lega. Basta una presenza permanente, costante, senza eccezione alcuna dei parlamentari delle opposizioni e la maggioranza crolla. Siano presenti nelle Commissioni e nelle aule del Senato e della Camera. Non diano tregua su nulla, blocchino tutti gli atti dell’esecutivo. Lo mettano in minoranza ad ogni occasione. Si tratta di una scelta politica dura e straordinaria che sottolinea l’eccezionalità del momento e la necessità di farvi ricorso. Occorrerebbe uno scatto di passione civica che è il punto di partenza per ricostruire questo nostro paese, impoverito e immiserito. E dargli obiettivi non contingenti e speranze non effimere.

Repubblica 22.1.11
Bersani: "Ho le carte per fare il premier"
Oggi al Lingotto le cinque proposte di Veltroni "per ridare speranza al Paese"


ROMA Il Lingotto. Gli ospiti internazionali. Gli esterni al Pd. L´obiettivo dell´appuntamento convocato oggi a Torino da Walter Veltroni sembra molto lontano dalla semplice riunione di area. Vuole essere una convention, una kermesse dove tutto il Partito democratico possa ritrovarsi. Questo sulla carta. Poi ci saranno i discorsi. L´ex segretario vuole proporre 5 punti di programma vincolanti. Scelte chiare, nette. O sì o no. Nel frattempo va avanti l´iniziativa di Pier Luigi Bersani per presentare una piattaforma al Paese. Già oggi si capirà se queste due strade possono stare insieme oppure si creerà una frattura nel centrosinistra.
Si parlerà di primarie, per esempio. Quel meccanismo che il segretario vuole aggiustare e l´area di Movimento democratico intende invece istituzionalizzare per legge. Si parlerà, magari nei corridoi, di quello che Bersani ha detto ieri alle "Invasioni barbariche" su la7. «Se si va al voto vinciamo alla grande. Ho l´esperienza giusta per candidarmi a premier. Ma chi mi conosce sa che non metto i miei interessi davanti a quelli generali. Se c´è qualcuno che ha più possibilità di me è scontato che mi faccia da parte». Questo qualcuno non è Vendola. «Non credo sia l´Obama della politica italiana. Magari il Garcia Lorca con un linguaggio immaginifico e a volte barocco che piace. Ma io propongo un altro linguaggio perchè al prossimo giro penso che sia da offrire al Paese qualcuno di cui fidarsi e non qualcuno da cui essere incantato». Lui, Bersani, pensa di scrivere un libro «perché è il tempo che chi ha un´idea per il paese la metta giù».
Bersani prenderà la parola anche al Lingotto. Dove ci saranno anche Enrico Letta, Franceschini, i rottamatori con Civati. Lo slogan della giornata è "Fuori dal Novecento. Giusta, aperta, forte: viva l´Italia". A guidare la scaletta sarà Jean Leonard Touadi, unico deputato di colore del Pd. La diretta va in streamig su movimentodemocratico.org. L´iniziativa, come dice Rosy Bindi, nasce all´insegna dell´unità. Ma le differenze tra la maggioranza e la minoranza interna restano. Veltroni, non a caso, ha parlato di Pd pride. Il fioroniano Gero Grassi chiarisce: «Noi non siamo il Pd di Bersani, noi siamo alternativi a questo vertice». Nelle dichiarazioni della vigilia Veltroni preferisce evitare la polemica. «Torneremo al Lingotto dopo due anni e mezzo per cercare di rilanciare il senso di una speranza collettiva e per dire agli italiani che non è scritto nel nostro destino che l´Italia debba essere un Paese immobile», ha spiegato l´ex leader del Pd in un videomessaggio sul sito di Modem. Evidente il riferimento anche ai fatti di questi giorni e alle difficoltà del premier Silvio Berlusconi. C´è, ha assicurato, «una possibilità alternativa, c´è una speranza razionale che bisogna coltivare. L´Italia può cambiare».
A proposito di cambiamento tra gli ospiti ci saranno anche operai della Fiat che hanno votato sì al referendum. Dopo Veltroni parleranno Gentiloni, Chiamparino, Civati, Salvati e Soru. Prenderanno la parola anche Gary Hart e Anthony Giddens. Chiuderà Fioroni. È attesa la presenza di Piero Fassino, candidato alle primarie per il sindaco della città. A Raffaele Cantone, magistrato anti-camorra, è affidato il messaggio sulla legalità.
(g.d.m.)

Corriere della Sera 22.1.11
Il Pd al Lingotto accantona le divisioni
Da Veltroni tutti i big tranne D’Alema. Ma il partito si spacca sulla riforma della Lega
di Maria Teresa Meli


L’unico dei leader del Partito democratico che non si farà vedere al Lingotto all’iniziativa dei Modem (la minoranza interna) è Massimo D’Alema. Il presidente del Copasir ha altri impegni. E una sua particolare teoria, che ha spiegato l’altro giorno, nella riunione della direzione, ad un gruppetto di veltroniani: «Il Lingotto porta sfiga. Dopo il primo, quello del congresso ds del 2000, è caduto il mio governo. E anche il secondo… L’anno appresso abbiamo perso le elezioni. Io non ci vado, e quindi sarò immune» . Ma D’Alema a parte, è tutto un corri corri di esponenti della maggioranza alla volta del Lingotto per l’iniziativa, intitolata «Viva l’Italia» . Ci andrà il segretario Pier Luigi Bersani, che parlerà nel primo pomeriggio, ci sarà il capogruppo Dario Franceschini. Della partita sarà anche il numero due del Pd Enrico Letta, e il candidato sindaco di Torino Piero Fassino, ovviamente, non mancherà all’appuntamento. Assente più che giustificata Rosy Bindi. La presidente del partito doveva venire, ma oggi sarà ai funerali di Enrico Micheli. Insomma, come sempre accade nel centrosinistra quando c’è aria di crisi politica, le diverse correnti seppelliscono l’ascia di guerra e un clima da volemose bene prende il predominio. Sono poche le voci fuori dal coro. Solo Matteo Renzi e Arturo Parisi tengono desta la polemica, stigmatizzando l’ipotesi evocata da D’Alema e non esclusa da Bersani di un governo d’emergenza. Netto il sindaco di Firenze: «Non si sconfigge Berlusconi con un’ammucchiata, né andando a vedere quello che fa di notte, ma quello che non fa di giorno» . Duro anche Parisi, secondo cui le firme si «raccolgono per andare alle elezioni, non per fare un nuovo governo» . Walter Veltroni, invece, non vuole rompere questo clima di concordia. Ed è contento del fatto che molti esponenti della maggioranza partecipino alla manifestazione del Lingotto: «C’è chi diceva che siamo inessenziali nel partito, evidentemente non è così, visto che vengono quasi tutti» . Gli altri Modem però sono un po’ meno entusiasti di tutte queste presenze e non gradiscono che alla manifestazione prenda la parola il segretario. L’atmosfera da embrassons-nous non piace a molti parlamentari e lascia perplessi gli altri due leader della minoranza, Paolo Gentiloni e Beppe Fioroni, che hanno una linea più dura di Veltroni nei confronti di Bersani. Non fanno salti di gioia neanche i tanti dirigenti dei Modem che ormai si sentono estranei al Pd versione attuale e hanno un piede dentro il partito e l’altro fuori. Ma ormai è andata così: bisogna stringersi a coorte, è la parola d’ordine, perché la situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro e si potrebbe andare alle elezioni o al governo d’emergenza. C’è da scommettere che se non sarà così e se Berlusconi andrà avanti le divisioni nel Partito democratico riemergeranno tutte. E anche adesso restano, seppure sotto traccia. Sul federalismo, per esempio. C’è una parte del Pd che vuole votare contro, il capogruppo Franceschini in testa, perché intende utilizzarlo nella guerra al Cavaliere. Ma Letta e un pezzo dei veltroniani ritengono che occorra raccogliere quella sfida. Oggi però, sul palco del Lingotto, nella kermesse dei Modem che verrà presentata dal deputato nero Jean Léonard Touadi e che verrà trasmessa sul nuovo sito dei Modem, non andranno in scena queste divisioni. Certo, il discorso di Veltroni avrà un’impostazione lontana anni luce da quella che Bersani ha dato al partito, l’intervento di Gentiloni e quello di Fioroni faranno affiorare delle differenze, ma niente polemiche esplicite o attacchi diretti. E del resto differenze ci sono anche all’interno della stessa area dei Modem. Sulle politiche del lavoro e sull’atteggiamento nei confronti della Fiat, per esempio. Sono emerse anche nell’ultima riunione preparatoria del Lingotto. Perché, per dirla con il senatore Roberto Della Seta, «è decisivo recuperare lo spirito originario del Pd, che teneva insieme diversi riformismi e sensibilità e che non era certo un partito neocentrista» . Ma Veltroni sul capitolo delle relazioni industriali e politiche del lavoro intende andare avanti per la sua strada, in linea con le prese di posizione da lui assunte sia su Pomigliano d’Arco che su Mirafiori. L’ex leader, infatti, è convinto che il Pd non possa essere «un partito conservatore» ma debba «lanciare la sfida di un riformismo moderno» . Maria Teresa Meli

il Fatto 22.1.11
“Ci pensa la Cgil”
Camusso: “Sul lavoro serve la rivolta dei giovani ma l’opposizione è troppo distratta”
di Stefano Feltri


“L’opposizione è molto distratta sui temi del lavoro, invece serve una rivolta dei giovani e la Cgil si propone come un punto di riferimento”. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, si accende una sigaretta sotto un disegno originale di Altan con un Cipputi in tuta blu, nel suo ufficio, per parlare non di Fiat o di Fiom ma del “collegato lavoro”. Cioè della legge approvata a novembre che, tra le altre cose, riduce da cinque anni a 60 giorni il tempo per un precario di fare causa al suo ex-datore di lavoro se pensa che il suo contratto fosse irregolare (per esempio se è stato assunto con un contratto a progetto ma poi ha lavorato come un dipendente). L’hanno chiamata legge “ammazza precari”, ad oggi riguarda almeno 100 mila persone, non soltanto i giovani, ma non sembra essere un tema che appassiona la politica. Il Tribunale di Trani, però, ha chiesto alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla legge, denunciando molteplici violazioni della Costituzione.
I precari hanno chiara la scadenza del 23 gennaio, dopo la quale non potranno più impugnare l'interruzione dei loro rapporti di lavoro più vecchi di 60 giorni?
Dopo la grande campagna iniziata nella manifestazione del 27 novembre, nei nostri uffici vertenze sono arrivati in tantissimi, con oltre 7 mila impugnazioni. Anche la Cisl ha fatto campagna per spingere i precari a impugnare i contratti, nonostante avesse applaudito la legge. Ma è successo quello che temevamo.
Cioè?
In molti sono venuti a informarsi e poi sono rimasti nel dubbio, tra far valere un proprio diritto e mettere a rischio la possibilità di un impiego, per quanto precario. La legge sta costringendo centinaia di migliaia di lavoratori a rinunciare ai loro diritti oppure a rivendicarli mettendo a rischio il rapporto di lavoro.
E da lunedì, dopo il grande colpo di spugna, cosa succederà?
Intanto c'è già una prima richiesta di parere alla Consulta. Poi bisogna continuare a informare, perché anche se i precari perdono i diritti a impugnare i contratti pregressi, avranno 60 giorni per fare ricorso sui nuovi rapporti di lavoro. Ed è bene che lo sappiano. Anche perché in Italia c'è l'abitudine di trattare il tema del lavoro come un fatto di cronaca nera, quando si trova il colpevole si cambia argomento. Invece qui c’è una generazione intera che non ha alcuna prospettiva. Basta ricordare che nel “collegato lavoro” si riporta, di fatto, l’obbligo scolastico a 15 anni, che è una scelta singolare nell'economia della conoscenza.
Della “generazione perduta” si è discusso soltanto quando il disagio è diventato protesta di piazza, anche violenta, innescata dalla riforma dell’Università.
È evidente che in questo Paese abbiamo bisogno di un movimento di giovani che si opponga al tacito consenso intorno all'idea che la risposta alla crisi sia una riduzione di diritti di chi ancora li ha.
E la Cgil sarà il catalizzatore di questo movimento?
Ci proveremo. Non è una forma di reclutamento, ma di costruzione dell'iniziativa. Con una scommessa. Togliere ogni alibi al presente, che fino ad ora si è disinteressato del futuro con la scusa che questo non aveva voce e non si manifestava. La grande novità di questi mesi è che il tema del futuro è diventato sempre più evidente, come dimostra la protesta per il disegno di legge Gelmini sull'Università.
Non sarà che Sergio Marchionne ha potuto imporre il suo accordo a Mirafiori anche perché fuori il contesto italiano era degenerato?
È stata accreditata la tesi degli outsider contro insider, padri contro figli. Secondo questo approccio un lavoratore di Mira-fiori è uno che difende la propria posizione senza accorgersi che il resto del mondo è cambiato.
Con una competizione globale non è inevitabile qualche rinuncia ai diritti?
Bisogna intendersi su cosa sono i diritti. Nello Statuto dei lavoratori avevamo tradotto il principio che eri cittadino fuori dalla fabbrica ma anche dentro. Ma quando si comincia a sostenere che i diritti sono un costo, si finisce per dire che un regime autoritario è più economico della democrazia. Anche il diritto alla salute è un costo, ma non vogliamo certo arrivare a considerare legittime le morti bianche, giusto?
E quindi?
Dobbiamo ricostruire un’unità del lavoro. Il tema che dovremmo porre anche a noi stessi, come sindacati, è che non si può pensare che ogni luogo di lavoro possa essere separato dagli altri.
E come si ricostruisce questa unità?
Cominciando dalla riduzione delle tipologie contrattuali e riducendo le disuguaglianze di reddito con una tassazione delle rendite finanziarie da fare subito e una imposta patrimoniale. Si recuperano risorse da usare per i giovani, per esempio estendendo gli ammortizzatori sociali.
Ci sono ricette di politica economica da applicare senza un aumento di spesa pubblica?
La prima cosa da fare sarebbe cancellare il “collegato lavoro”. Poi bisognerebbe usare di più e meglio gli ispettori del lavoro, per dare il segnale che anche durante la crisi le regole devono essere rispettate. Poi c'è il problema degli stage che sono diventati lavoro dipendente, poco qualificato, e non retribuito, spesso senza alcun valore formativo, cosa che è un’ulteriore cattiveria. E i professionisti che approfittano per anni di prati-canti e tirocinanti che lavorano gratis, potrebbero cominciare loro per primi ad applicare i principi della globalizzazione che citano sempre, liberalizzando i propri settori. E proprio su stage e tirocini si concentrerà la nostra iniziativa nei prossimi mesi.
Nel concreto?
Adesso siamo concentrati sullo sciopero dei metalmeccanici del 28 gennaio. Ma da febbraio faremo “marce del lavoro” in tutta Italia, sul territorio, perché per uscire dalla crisi bisogna ripartire dal lavoro, non dimentichiamo che l'occupazione genera crescita. Oltre a sostenere la nostra riforma sugli ammortizzatori sociali. Anche perché a noi certi conti sull'ultima legge di bilancio non ci tornano: siamo sicuri che ci sia davvero il miliardo promesso per la cassa integrazione?
Ma potete farcela da soli o avete bisogno di una sponda, cioè il Partito democratico?
La rappresentanza sociale è importantissima, ma non autosufficiente. L’opposizione continua a essere troppo distratta, intenta molto più a ridisegnare alleanze e schieramenti, fin su base personale, che a proporre un’alternativa. Un’alternativa che parta dal lavoro.

il Fatto 22.1.11
Il grande saccheggio, La denuncia dello storico Bevilacqua
Cultura, un disastro annunciato
di Piero Bevilacqua


La gioventù colta che oggi esce dalle nostre università, che ha in tasca dottorati di ricerca, master, PhD, vive oggi in Italia una vita grama. Essa viene tenuta fuori dalle università, dal Cnr, e dai centri di ricerca privati che in Italia, com’è noto, sono poca cosa. Simili a merce sovrabbondante e inutile i nostri giovani laureati sono lasciati nel buio dei “depositi” per mancanza di mercato. Si attende che da un momento all’altro arrivi lo sviluppo e li metta all’opera. Ma l’idea che oggi bisogna attendere lo sviluppo, la crescita dell’economia, per dare lavoro a queste figure, per valorizzare la loro cultura e le loro competenze, appartiene, con ogni evidenza, all’ambito delle non poche superstizioni che annebbiano la mente dei nostri contemporanei. Al contrario, anche per tali figure, si impone una progettualità politica articolata se non si vuole che un’intera generazione veda del tutto sprecata la sua formazione, le sue competenze , gli sforzi economici delle famiglie e dello Stato, la sua stessa vita.
E QUI UN CETO politico capace di pensare avrebbe materia su cui esercitarsi. Se si riflettesse sulla collocazione che nella geografia economica internazionale, e perfino nell’immaginario, l’Italia ha ormai assunto – come paese della bellezza artistica, del bel paesaggio, della musica, della cultura umanistica – una classe dirigente degna di questo nome investirebbe molto in quest’ambito. E invece, proprio in questa sfera, i segnali, negli ultimi anni, mostrano una persistente bonaccia. Anzi si assiste spesso a una evidente regressione. Ad esempio, si lasciano le soprintendenze sotto organico , non si assumono giovani, si lesinano investimenti, come Salvatore Settis va denunciando solitariamente ormai da anni. Eppure c’è tanto lavoro potenziale in campo artistico e culturale per la nostra gioventù. Anche se alcune occupazioni potrebbero rivelarsi solo temporanee, si garantirebbe un grande impulso alla valorizzazione del nostro patrimonio. Si pensi a quanto utile impiego potrebbero essere destinate l’intelligenza e le competenze dei nostri ragazzi nella catalogazione dei beni artistici e culturali, nei musei, nelle città, nel territorio. Oggi quanti reperti, ammassati nei depositi, attendono di essere catalogati, e potrebbero dar vita a mostre temporanee in giro per l’Italia? Quanta produzione filmica promozionale – ad esempio con la creazione di dvd – si potrebbe realizzare sulle nostre bellezze, artistiche, naturali, paesaggistiche, da far conoscere in giro per il mondo? Anche nel campo della digitalizzazione dei beni documentari e librari si potrebbe fare tanto, visto l’immenso patrimonio archivistico e bibliotecario di cui godiamo. Quante utili risorse finanziarie potrebbero rientrare nel nostro paese grazie alla possibilità di far utilizzare a distanza i nostri preziosi documenti d’archivio, i nostri testi, facendo risparmiare a migliaia di studiosi sparsi per il mondo la spesa e il peso di un viaggio? Ma sono l’università e il mondo della ricerca il luogo centrale per l’occupazione e la valorizzazione della gioventù colta. E qui, davvero l’Italia mostra tutti i drammatici segni di un ventennio di inettitudine del suo ceto politico. E soprattutto indica la sua incapacità di utilizzare le sue stesse risorse intellettuali nella fase della loro maggiore creatività, quando cioè esse sono in grado di fornire i migliori contribuiti al paese che le ha formate. I dati che poco tempo fa ha illustrato Massimo Livi Bacci, non lasciano spazio alle repliche. Nell’ultimo ventennio l’invecchiamento all’interno dell’università italiana è stato impressionante. La percentuale del corpo docente al di sotto dei 45 anni si è dimezzata, passando dal 60% al 32% del totale. Nel frattempo è quasi triplicata quella al di sopra dei 55 anni, passando dal 15 al 41%. Nel 2005, su 60 mila persone, appena 4000 avevano meno di 35 anni, mentre oltre 6000 ne avevano più di 65. In vent’anni la percentuale con meno di 35 anni si è dimezzata, e se ne è formata una pari con oltre 55 anni. A questa drammatica senescenza il governo sta rispondendo da quando è in carica, vale a dire dal 2008, con una politica di annientamento dell’università pubblica. Si tagliano pesantemente, di anno in anno, le dotazioni finanziarie e si concede alle facoltà di assumere un ricercatore ogni 5 docenti che vanno in pensione. Nel giro di 5 o 6 anni molte grandi facoltà, soprattutto umanistiche – quelle da cui sono usciti i nostri maggiori intellettuali, figure fondamentali delle nostre classi dirigenti – saranno prive di docenti, ridotte a dimensioni insignificanti sia sotto il profilo didattico, che scientifico. Il silenzio, o il sommesso brusio, delle forze intellettuali, del ceto politico, del mondo imprenditoriale, dei media, dello stesso corpo accademico a noi appare forse come il segno più inquietante di un paese che ha scelto consapevolmente di mettersi da parte, di stare fuori dalla scena del mondo nel prossimo futuro.
NESSUNO lancia l’allarme sulla distruzione che sta avanzando? Nessuno si chiede dove andremo senza ricerca, impoverendo le nostre università, preparando sempre meno laureati, e sempre meno all’altezza dei bisogni di conoscenza della nostra epoca? Diciamo la verità. Non colpisce tanto il balbettio del ceto politico, qualunque sia la sua collocazione di schieramento. Su di esso abbiamo già detto quanto era sufficiente dire. Ma davvero stupisce il silenzio del mondo delle imprese. O forse è la nostra ingenuità la causa dello stupore, fondato sull’illusione che gli imprenditori italiani abbiano qualche idea sul futuro industriale dell’Italia oltre la scadenza del prossimo mese? Il ridimensionamento delle università nella vita italiana non è certo questione che attiene agli schieramenti politici. Esso corrisponde alla scelta strategica di un ridimensionamento complessivo dell’Italia nel mondo. Senza ricerca scientifica, senza valorizzazione culturale della nostra gioventù, quale può essere l’avvenire economico del nostro paese? Anche a voler ragionare secondo una logica sviluppista – che non ci appartiene e che crediamo ormai senza avvenire – quale posto intende ritagliarsi l’Italia sulla scena economica internazionale? Ci trincereremo nella semplice difesa della nostra industria manifatturiera? Contiamo di vendere scarpe e magliette ai cinesi? O speriamo di fare affari nella speculazione finanziaria internazionale con le nostre banche, mentre l’economia reale si assottiglia? Benché tutto sembra opporsi al buon senso, all’evidenza di un interesse generale che coinvolge le sorti di un intero, grande paese, noi crediamo che oggi la valorizzazione della nostra gioventù studiosa e colta coincida esattamente con una strategia di protagonismo possibile dell’Italia nel mondo. Oltre che di difesa ed elevazione della nostra civiltà. Il nostro paese godrà di maggior benessere e sicurezza al suo interno, potrà affermare la sua visione di società solidale, la sua identità aperta agli altri se alla nostra gioventù sarà data la possibilità di formarsi e di avere un ruolo di primo piano nella ricerca e nell’insegnamento.

Corriere della Sera 22.1.11
Il guru di Cameron cade sulle intercettazioni
Coulson lascia il suo incarico a Downing Street
di Fabio Cavalera


Evviva le dimissioni: la politica britannica non ammette che i sospetti e i gossip possano frenare il lavoro delle istituzioni. Così nel giro di poche ore abbandonano la scena due pezzi da novanta, il laburista Alan Johnson, ex ministro e attuale Cancelliere ombra dell’opposizione, e il conservatore Andy Coulson, stretto collaboratore di David Cameron e capo della comunicazione di Downing Street. Due storie molto diverse ma l’epilogo è lo stesso: meglio andarsene piuttosto che ritrovarsi nell’occhio del ciclone mediatico e giudiziario. Il primo, Alan Johnson, ha preso tutti in contropiede quando nella notte fra giovedì e venerdì si è ritirato. Lo ha fatto perché si è scoperto che sua moglie aveva avuto una relazione con uno dei poliziotti della scorta di Scotland Yard. Questione privatissima. Ma lui ha afferrato carta e penna: pettegolezzi del genere non gli consentono di lavorare come dovrebbe. Più delicata e complicata la seconda vicenda che ha catturato il primo posto fra le notizie di giornata per il calibro della persona coinvolta. È uno scandalo che sfiora Downing Street. Andy Coulson ha una frequentazione strettissima con David Cameron, è lo stratega dell’informazione. Essendo un giornalista affermato e sveglio sa quali sono le note giuste per i quotidiani e le televisioni. Ma è proprio nella sua veste di ex direttore del tabloid domenicale News of the World della scuderia Rupert Murdoch, che si trova in mezzo a una trama di telefonini spiati. La domanda che da tempo gli viene posta è se fosse stato negli anni passati a conoscenza di quelle attività illegali compiute da News of the World per introdursi nella vita privata di parecchi personaggi pubblici e per poi pubblicare scoop sensazionali. Colpa di cronisti spregiudicati e mascalzoni? O una macchina del fango della cui esistenza erano a conoscenza i piani alti del gruppo editoriale? Cominciò nel novembre 2005 quando il tabloid raccontò la ferita al ginocchio del principe William. Poiché lo sapevano solo gli eletti, a Buckingham Palace si interrogarono su come era saltata fuori la soffiata. E così si rivolsero alla polizia per un’inchiesta. Non ci volle tanto per scoprire che i telefonini di William e Harry, oltre che di Carlo, erano controllati dall’investigatore privato Glenn Mulcaire il quale aveva ricevuto l’incarico da Clive Goodman, il «royal correspondent» di News of The World, diretto all’epoca da Andy Coulson. Una volta arrestati i due (Mulcaire e Goodman), si accertò che nel mirino degli spioni c’erano attori, attrici, modelle (Elle Macpherson), principi, calciatori, uomini politici (il sindaco di Londra, Boris Johnson, e Lord Mandelson), poliziotti (il capo di Scotland Yard). Il detective privato era riuscito a bucare i cellulari per captare i messaggini e le conversazioni. Più che giornalismo era spionaggio. Andy Coulson sapeva? Negò ma nel 2007 abbandonò la direzione. Lo portò con sé David Cameron che, vinte le elezioni, gli affidò le comunicazioni di Downing Street. L’inchiesta si era arenata fino a che è risultato necessario riaprirla. E News of the World è tornato in ballo: un vice direttore, Ian Edmondson, nei giorni scorsi è stato sospeso. E la storia si è avvicinata a Andy Coulson. Ieri mattina, pure lui, ha confidato che andare avanti in questo modo, con tanti sospetti attorno, non era possibile e si è arreso. David Cameron lo ha apprezzato per la sua collaborazione ma gli ha fatto gli auguri per il futuro. Benservito. Downing Street vuole stare al riparo dalle prossime puntate dello scandalo.

Corriere della Sera 22.1.11
In Italia mancheranno 20 mila medici
Più pensionati che nuovi ingressi. E il governo vara il Piano sanitario
di Margherita De Bac


ROMA — È un’emorragia inesorabile. Se non verrà tamponata porterà in breve al dissanguamento della sanità pubblica in termini di medici. I dirigenti ospedalieri, i primari e gli aiuti per usare termini più masticati dai cittadini, sono in via di estinzione. Uno dei problemi urgenti da risolvere secondo lo schema di Piano sanitario nazion a l e p e r i l t r i e n n i o 2011-2013 approvato ieri dal Consiglio dei ministri nella sua forma preliminare. Il documento che indica obiettivi e correttivi è all’inizio del cammino. Dovrà essere votato dal Parlamento. Tra i capitoli nevralgici, le risorse umane. Previsioni nere. La stima è che entro il 2015 diciassettemila medici lasceranno ospedali e strutture territoriali per aver raggiunto l’età della pensione. In parte non verranno rimpiazzati per la crisi economica e i tagli del personale. In parte mancheranno i rincalzi. Dovremo anche noi ricorrere all’assunzione di stranieri come Gran Bretagna e Stati Uniti? La crisi italiana si avvertirà in modo sensibile a partire dal 2012, avvio di un «saldo negativo tra pensionamenti e nuove assunzioni» . La forbice tra chi esce e chi entra tenderà ad allargarsi anche per penuria di nuovi professionisti sfornati dalle scuole di specializzazione. Squilibrio ancora più evidente nelle Regioni in deficit che devono gestire rigidi piani di rientro. I tecnici del ministro della Salute, Ferruccio Fazio, propongono correttivi che consistono nell’aumento di risorse finanziarie per la formazione degli specialisti. Bisognerebbe innalzare il numero dei contratti finanziati dallo Stato. Ora sono 5 mila, insufficienti. L’analisi va nel dettaglio. Dal 2012 al 2014 è prevista una carenza di 18 mila medici che diventeranno 22 mila dal 2014 al 2018. Legato a questo il problema degli specializzandi in medicina veterinaria, odontoiatria, farmacia, biologia, chimica, fisica e psicologia che oggi non ricevono borse di studio. Per la loro formazione viene indicata una copertura per 800-1.000 contratti. Per Stefano Biasioli, segretario della Confedir, la confederazione dei dirigenti in pubblica amministrazione, «lo squilibrio tra necessità e programmazione nelle scuole di specializzazione è un fenomeno già presente che si sta aggravando anche perché il numero di posti nelle scuole non viene adattato alle esigenze di mercato» . Alcune specialità sono in uno stato di sofferenza cronica. Anestesia, radiologia, pediatria, nefrologia, geriatria (con la popolazione che invecchia) e tutta la chirurgia. «Si guadagna molto poco agli inizi, si rischia molto. Due ragioni per scegliere altre strade» , testimonia le difficoltà dei colleghi il trapiantologo Antonio Pinna. Il Piano sanitario individua altri ingranaggi da cambiare nella sanità. Occorre riqualificare la rete ospedaliera con la riconversione degli ospedali di piccole dimensioni e la loro trasformazione nei nuovi modelli di offerta territoriali sviluppati dalle Regioni. Va rivista, poi, la rete dei laboratori di analisi, mal distribuiti. Soprattutto in considerazione della sua importanza: il 60-70%delle decisioni cliniche partono da qui. Il Piano si sofferma anche sul tema delle vaccinazioni con particolare attenzione a quella antimorbillo.

Corriere della Sera 22.1.11
Denunce e stipendi bassi Fuga dalla chirurgia
Sguarniti anche i posti da pediatra. «Troppo stress»
di Simona Ravizza


MILANO— Studenti del 6 ° anno di Medicina che per essere motivati a diventare chirurghi vengono invitati in una sala operatoria virtuale del Policlinico di Milano. È la fine degli anni Novanta e, per la prima volta in Italia, Alberto Peracchia e il suo braccio destro Luigi Bonavina avvertono i segnali di disaffezione al bisturi. Sono trascorsi vent’anni e la crisi di vocazioni è esplosa: su 278 borse di studio annuali in Chirurgia generale una su cinque non viene assegnata per mancanza di candidati. È la stima di Jacques Megevand della Società italiana di Chirurgia: «Il troppo stress e le denunce penali in aumento hanno fatto perdere appeal alla figura del chirurgo— dice il medico, docente all’Università di Pavia—. Oltretutto gli stipendi sono rimasti al palo. Come si ricorda spesso in corsia la generazione dei nostri maestri, con la paga di un mese, poteva comprarsi la Cinquecento. Noi a malapena uno scooter» . Ma non è solo questione di numero di aspiranti. È emblematico il caso dei pediatri. All’Università Statale di Milano le 12 borse di studio vanno a ruba. Peccato, però, che le corsie pediatriche sono sempre più sguarnite: mancano almeno 70 pediatri in Lombardia sui 518 al lavoro. «Bisogna aumentare i contratti di specializzazione» , ripete da mesi Gian Filippo Rondanini, primario del reparto Materno infantile dell’ospedale di Vimercate e autore di un sondaggio sui posti scoperti nelle pediatrie lombarde. Non solo: «Turni massacranti, pochi weekend liberi e richieste di risarcimento danni spingono i già pochi neospecializzati a diventare pediatri di famiglia» . È racchiusa in questi due estremi l’emergenza medici in Italia. E il risultato è sempre lo stesso: gli ospedali si svuotano. Le avvisaglie ci sono già persino in città come Milano. Le professioni del chirurgo e del pediatra ospedaliero— per limitarsi solo ai cas i più e c l a t a n t i — perdono attrattività. In più c’è da fare tornare i conti tra le aspirazioni dei camici bianchi, il numero di borse di studio da 30 mila euro l’anno ciascuna che possono avere una copertura economica da parte del ministero dell’Istruzione (ancora poche rispetto al fabbisogno) e le richieste di specialisti avanzate dai singoli ospedali. Una sfida complessa che si intreccia con un altro drammatico problema: l’ondata di pensionamenti prevista nei prossimi 20 anni che rischia di spopolare definitivamente le corsie. Di qui l’allarme che trapela dal Piano sanitario per il 2011-2013 approvato ieri dal Consiglio dei ministri: entro il 2015 17 mila medici lasceranno ospedali e strutture territoriali per andare in pensione, nel 2018 saranno 22 mila. Le previsioni della Fnomceo, la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri guidata da Amedeo Bianco, sono ancora più fosche. Tra medici di famiglia, ospedalieri, pediatri di libera scelta e professionisti della Guardia medica tra cinque anni ci sarà un saldo negativo di 41 mila camici bianchi: dai 294.971 di oggi ai 253.420 del 2015. Per arrivare ai meno 90 mila del 2030 (205.952). «La sfida principale è riuscire a programmare in modo corretto il numero di ingressi a Medicina e nelle Scuole di specializzazione — spiega Amedeo Bianco —. Bisogna, poi, guardare al di là dello spirito corporativo per rispondere alle esigenze dei malati che si manifesteranno nei prossimi anni» . Così la Lombardia, per esempio, inizia già a correre ai ripari. Nelle linee guida per il 2011, appena varate dalla Giunta, sono stati finanziati 6 milioni di euro per aumentare le borse di studio messe a disposizione dal ministero dell’Istruzione. Oltre ai pediatri, servono rinforzi soprattutto per gli anestesisti, i ginecologi, i nefrologi e i gastroenterologi. Sullo sfondo resta il monito di Luigi Bonavina, oggi alla guida della Chirurgia generale dell’Irccs Policlinico San Donato di Milano, ma sempre dello stesso avviso: «Per tenerli a lavorare in ospedale, e soprattutto farli entrare in sala operatoria, i giovani vanno motivati» . Per bloccare l’emorragia in corso è necessario, insomma, anche ridare un nuovo appeal alla figura del medico.

Corriere della Sera 22.1.11
Il procuratore di Firenze: no all’arresto dei clandestini
di Marco Gasperetti


FIRENZE— Nessun obbligo di arresto a Firenze per gli immigrati clandestini come previsto dalla legge Bossi-Fini ma solo una denuncia ed eventualmente una valutazione caso per caso. Lo prevede una circolare firmata dal procuratore della Repubblica di Firenze, Giuseppe Quattrocchi, e inviata ai vertici delle forze dell’ordine provinciali e che sintetizza l’interpretazione che i 31 magistrati della procura fiorentina hanno dato della direttiva europea sull’immigrazione in relazione all’articolo 14 della legge Bossi-Fini che prevede appunto l’obbligatorietà dell’arresto degli immigrati senza regolare permesso di soggiorno. Una decisione simile è stata presa anche a Genova dove un pm, disapplicando la Bossi-Fini, ha ordinato la scarcerazione di un immigrato arrestato nei giorni scorsi per il reato di clandestinità, senza attendere la decisione del giudice per le indagini preliminari. La decisione dei magistrati fiorentini è stata maturata dopo un lungo dibattito tecnico-giuridico e, ovviamente, come fanno sapere i pm, non esprime alcun giudizio sulla normativa italiana, ma di fatto interpreta la direttiva europea come «norma sovraordinante» e dunque prioritaria rispetto a quella nazionale. Altre procure stanno discutendo lo stesso problema e non è escluso che vi siano simili (come a Genova) o diverse interpretazioni. Una sorta di «federalismo giudiziario» , con città dove i clandestini sono automaticamente arrestati e altre no. Almeno sino a marzo quando la Cassazione, che è già stata chiamata a pronunciarsi, darà la sua interpretazione solitamente recepita da tutte le procure. Anche il ministero dell’Interno sta cercando di risolvere il problema con una norma che dovrebbe essere inserita nel disegno di legge sulla sicurezza all’esame del Senato. In attesa della Consulta, a Firenze, dunque i clandestini non finiranno direttamente in carcere ma saranno denunciati e i magistrati valuteranno le loro posizioni caso per caso. La circolare ha suscitato dibattiti e polemiche. Secondo Marco Manneschi, capogruppo in consiglio regionale dell’Idv, la magistratura fiorentina ha risolto le «gravi inadempienze del governo che non ha voluto conformarsi alle direttive europee che non prevedono gli arresti» . Claudio Morganti, europarlamentare leghista, ha invece parlato di «decisione vergognosa» . «Chi viene meno al rispetto della legge Bossi-Fini si rende complice della delinquenza cittadina» , ha detto Morganti.

l’Unità 22.1.11
«In Tunisia inizia un nuovo mondo. Sindacato decisivo»
Lo studioso del Maghreb: «Per la prima volta nel mondo arabo si smatella uno Stato senza blitz esterni. Fondamentale lo sciopero generale»
di Anna Tito


Che si continui a scendere in strada per chiedere le dimissioni del governo, mostrando cartelli, scandendo slogan è del tutto normale in un processo rivoluzionario» esordisce con L’Unità lo storico specialista del Maghreb Benjamin Stora. «Quanto al fatto che alcuni membri abbiano lasciato il governo di unità nazionale, è dovuto alla rapidità con cui si sono svolti gli avvenimenti».
Con queste premesse, non le appare tutta in salita la strada per la democrazia? «Per la prima volta un Paese del mondo arabo si trova a dover fare i conti con tante formazioni, partiti, movimenti repressi per decenni e di cui la maggior parte agiva in clandestinità o in esilio. Ora vanno ‘ricreati’, oltre alla libertà d’informazione e di espressione, anche i partiti politici: prima avevamo il Raggruppamento costituzionale democratico di Ben Ali, che governava, con intorno alcuni ‘pseudo-partiti’ per la facciata, finti, insomma. Adesso inizia un mondo nuovo, grazie a questa rivoluzione popolare e spontanea».
Ora tutto il mondo araba guarda con speranza agli avvenimenti tunisini. Lei quali prospettive intravede per gli altri Paesi?
«In linea di massima direi che, seppure il Libano attraversa una crisi di governo, si tratta dell’ennesima crisi, con cui il Paese convive da sempre. In Marocco, nonostante la povertà, lo scontento, il desiderio di libertà, si riscontra un consenso unanime sulla persona del re, quindi nessuna volontà di rompere questo legame nazionale. Ciò detto, si deve riconoscere che la Tunisia rappresenta per tutti un segnale di speranza, anche perché costituisce il primo esempio, nel mondo arabo, di smantellamento di uno Stato, il che era, sì, avvenuto in Irak, ma per l’intervento esterno. Il successo della rivolta tunisina è stato dato da un elemento essenziale, che manca negli altri Paesi: il potere dell’organizzazione sindacale, la Ugtt, Union Générale des Travailleurs Tunisiens, la più antica e la più influente del Maghreb, creata nel 1924, e che, proclamando lo sciopero generale e con il consenso di tutta la società, ha provocato la caduta del regime».
Per Mohamed El Baradei, Premio Nobel per la Pace ed esponente dell’opposizione, è “inevitabile” un cambiamento di regime anche in Egitto. Condivide?
«Sicuramente. Di tutto il mondo arabo l’Egitto sia il Paese in cui vi sono maggiori probabilità che accada qualcosa, in cui appare più forte la volontà di cambiamento sociale e politico. Intanto perché il Presidente Hosni Mubarak, è ormai al potere da un trentennio, il che implica il mancato rinnovarsi del gioco politico, e come Ben Ali, occupa tutto; la classe media aspira alla democrazia; la povertà continua a crescere; non ultimo, il molto antico movimento religioso e politico dei Fratelli Musulmani, è organizzatissimo, specie sul piano sociale, profondamente radicato a livello popolare, con alcuni rappresentanti in Parlamento, e costituirebbe pertanto un’alternativa concreta al potere attuale. Ma, a differenza della Tunisia, non può contare su un sindacato potente. A mio avviso a transizione in Egitto sarà molto più complicata che in Tunisia, e avverrà forse con un coagulo di tutte le forze, sociali, intellettuali, religiose».
Delle sommosse urbane si sono verificate anche in Algeria, Paese su cui ha scritto moltissime opere. Anche nel 1988 scoppiarono le proteste contro l’inaccessibilità dei generi alimentari di prima necessità, che spianarono la strada al multipartitismo, seppure per pochi anni. Crede che la storia possa ripetersi?
«Lì si riscontra entusiasmo per gli avvenimenti tunisini, ma la popolazione algerina è sfinita dalle tragedie che ha vissuto, come la guerra negli anni ’90 fra lo Stato e gli islamici, che provocò decine e decine di migliaia di vittime; e poi le sommosse del 1988 portarono al multipartitismo all’inizio, ma dopo pochi anni alla guerra. E anche in Algeria manca l’equivalente del sindacato tunisino, in grado di organizzare, di mobilitare su scala nazionale. Le casse dello Stato sono piene, grazie al gas e al petrolio, ma la classe media va impoverendosi sempre di più».
E in Libia nei giorni scorsi centinaia di giovani hanno saccheggiato gli uffici degli imprenditori stranieri costruttori di case. Non lo vede come un segnale?
«Non so. Sappiamo poco o niente di quanto accade nella società libica. Ma per domenica prossima quattro associazioni arabe con sede in Francia hanno indetto una manifestazione a Parigi di solidarietà con i detenuti politici in Libia. Almeno si inizia a parlare della repressione».

Corriere della Sera 22.1.11
Parigi fa marcia indietro: «Niente celebrazioni per l’antisemita Céline»
di Stefano Montefiori


PARIGI— «Dopo una matura riflessione e non in preda all’emozione, ho deciso di non far figurare Céline fra le celebrazioni nazionali» . Con queste parole il ministro della Cultura, Frédéric Mitterrand, ha effettuato ieri pomeriggio una clamorosa marcia indietro, accogliendo le proteste del cacciatore di nazisti Serge Klarsfeld e mandando al macero il volume di 300 pagine — delle quali due dedicate a Céline — che lui stesso aveva firmato e che proprio ieri avrebbe dovuto presentare. Due giorni fa Klarsfeld, a nome dell’ «Associazione dei figli dei deportati ebrei di Francia» , aveva chiesto il ritiro dell’edizione 2011 del «Recueil des Célébrations nationales » , il volume degli Archivi nazionali che da 25 anni raccoglie gli anniversari da onorare nei mesi successivi. Accanto ai profili e all’elenco degli eventi in omaggio a Luigi XIV, Georges Pompidou, Marie Curie, Blaise Cendrars, Michel Foucault e Franz Liszt (tra gli altri), c’era anche il cinquantenario della morte di Céline. Un nome trattato in maniera problematica, naturalmente, distinguendo il grandissimo romanziere dall’uomo che scrisse orrendi pamphlet antisemiti come Bagatelle per un massacro e che durante la Seconda guerra mondiale cercò rifugio nella Germania nazista. «Siamo ormai in grado di riconoscere l’arte anche quando non coincide con i nostri valori morali, o li contraddice» , scrive il professore emerito della Sorbona, Henri Godard, che ha curato le pagine dedicate a Céline. Ma non per tutti è così. La presa di posizione dell’autorevole Klarsfeld — fu lui a trascinare in tribunale il «macellaio di Lione» Klaus Barbie — ha avuto la meglio su quanti sostengono che Céline sia con Proust il più grande romanziere francese del XX secolo, e che come tale vada trattato. «Si può amare Céline senza essere antisemiti, come si può leggere Proust senza essere omosessuali» , si era difeso due anni fa il presidente Nicolas Sarkozy, quando ricevette in regalo per il suo cinquantatreesimo compleanno un autografo originale di Céline, il suo scrittore preferito (assieme ad Albert Cohen). Un conto è apprezzare un libro, un conto è rendere un omaggio all’autore. E su questa differenza ha puntato Klarsfeld. «Provo un grande sollievo— ha commentato in serata —. Mi complimento con Frédéric Mitterrand per avere avuto il coraggio di prendere le distanze da chi, nel suo ministero, aveva inserito Céline nel volume delle celebrazioni» . In realtà Mitterrand era del tutto consapevole della scelta, tanto da avere firmato personalmente la prefazione del «Recueil» . Per questo il suo dietrofront è imbarazzante. Un pasticcio politico-culturale, che ha raccolto immediatamente reazioni negative. «Quale credito potremo ancora dare a qualsiasi decisione del ministro della Cultura, vista la leggerezza con la quale ha in un primo tempo firmato la prefazione del volume sulle celebrazioni per poi rinnegare tutto? — si chiede l’influente critico di Le Monde, Pierre Assouline —. L’ex professore di storia Mitterrand ha scoperto di colpo che Céline era antisemita? Un voltafaccia indegno, ingiustificabile» . «La letteratura non si censura — dice lo scrittore e saggista Philippe Sollers —, questo caso è assurdo, insensato» . Ma un antisemita può venire letto, non celebrato.

Corriere della Sera 22.1.11
Il futuro condiviso o l’incertezza globale
Così tramonta l’idea di un progresso consapevole
di Remo Bodei


Sta drasticamente diminuendo la capacità di pensare a un futuro collettivo, di immaginarlo al di fuori delle proprie aspettative private. A molti, la Storia appare quindi orfana di quella logica intrinseca che si credeva dovesse indirizzarla verso un determinato obiettivo: il progresso, il regno della libertà, o la società senza classi. Tramonta una cultura, che — tra Ottocento e Novecento — aveva indotto miliardi di uomini a ritenere che gli eventi marciassero ineluttabilmente in una certa direzione, annunciata o prevedibile. A lungo, infatti, siamo stati abituati a ritenere che l’intervento umano consapevole fosse in grado di abbreviare il tempo necessario al prodursi dell’inevitabile, di «accelerare le doglie del parto» . Caduta, senza essere stata confutata, l’idea di un’unica Storia orientata, il senso del nostro vivere nel tempo sembra, ora più che mai, disperdersi in una pluralità di storie (con la s minuscola) non coordinate, in destini personali blandamente connessi alle vicende comuni. Ciò comporta un mutamento radicale nella nostra percezione del futuro e ci obbliga a una riflessione ulteriore sugli strumenti razionali per affrontarlo connettendo in maniera diversa le vicende individuali a quelle collettive. Non potendoci più situare all’interno di un’epoca che si rapporta a un passato di tradizioni relativamente salde e ben individuate o a un futuro remoto di aspettative già stabilite, sembra riprodursi un’atmosfera intellettuale simile a quella descritta da Tocqueville nel 1840 per indicare lo stato d’animo prevalente degli americani: «In mezzo a questo continuo fluttuare della sorte, il presente prende corpo, ingigantisce: copre il futuro che si annulla e gli uomini non vogliono pensare che al giorno dopo» . L’avvenire riacquista la sua natura di assoluta contingenza o di luogo di esplicazione di forze che sfuggono al controllo degli uomini (si mostra cioè sostanzialmente improgrammabile o, di nuovo, nelle mani di Dio). Pare così realizzarsi l’affermazione di John Maynard Keynes, secondo cui «l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre» . I contraccolpi di questa situazione sono molteplici e ancora da analizzare a fondo. In termini etico-politici, ne vedo sostanzialmente tre. In primo luogo, le valenze tradizionalmente legate al futuro come tempo dell’attesa, della redenzione e dell’imminenza del Regno di Dio o della Rivoluzione hanno virato di senso. La rappresentazione della propria esistenza come momento preparatorio a un’altra vita, in senso religioso, o come strumento laico di edificazione di un avvenire radioso— che però conosceranno solo i nostri pronipoti — diventa ardua da concepire e da difendere. Molte situazioni della vita delle persone (dolore, malattia, vecchiaia, morte) vengono ora intimamente giudicate irredimibili, perché non possono più essere ritenute seriamente riscattabili né in un al di là religioso, in una condizione di beatitudine celeste, né in un futuro terreno di armonica ricomposizione dei conflitti. La trasformazione «alchemica» del negativo in positivo teorizzata da certe varianti della dialettica e le promesse di risarcimento delle sofferenze patite nel presente per mezzo delle gioie fatte balenare nell’avvenire sembrano essere improvvisamente diventate lettera morta. Ciò produce talvolta una sorta di implosione nell’arco dell’esistenza individuale, sottratta alla speranza ma non all’angoscia, alla rassegnazione o all’indifferenza. Interi blocchi di esperienza e ampie regioni di significato — prima considerati nell’ottica dell’eternità o del futuro remoto — vengono riformulati e trascritti secondo nuovi criteri di rilevanza. Quel che vale per le esperienze «negative» vale anche per quelle «positive» : il desiderio di fruire immediatamente, come doni irripetibili, dell’amore, dell’amicizia, del piacere o del benessere sembra concentrare, in istanti puntuali e discontinui, i «momenti d’essere» di una vita degna di se stessa. La contrazione delle aspettative all’arco della sua sola esistenza fisica immerge il singolo nel tempo irredimibile della caducità, lo costringe a elaborare il lutto causato dal dover trapiantare le radici del proprio io dal solido e immutabile terreno dell’al di là o dai tempi epocali della Storia nel friabile e transeunte suolo del proprio corpo, della propria biografia o dell’entourage delle persone e delle istituzioni a lui più vicine. A questo disagio si reagisce oggi mediante la prevalente strategia di mettere a coltura intensiva il presente, di farlo fruttare rapidamente, senza preoccuparsi di quel che avverrà nell’avvenire non immediato. Ciò comporta, però, la desertificazione del futuro e rischia di creare una mentalità opportunistica e predatoria. In secondo luogo, il tramonto delle grandi attese collettive, che sino a una decina di anni fa (quando il mondo era ancora diviso in due blocchi) orientavano, seppur ideologicamente, miliardi di uomini, porta tendenzialmente a una privatizzazione del futuro stesso e alla fabbricazione di utopie su misura, fatte in casa. Gli ideali di abolizione delle disuguaglianze che colpiscono l’ «intera umanità» o di espansione della libertà al maggior numero di individui, con la parallela promessa di un avvenire aperto all’iniziativa di ciascuno, finiscono — soprattutto in Occidente — per diffondere le frustrazioni. Le società tradizionali possedevano infatti strumenti abbastanza efficaci sia per compensare gli uomini degli eventuali svantaggi della loro condizione, sia per giustificare le gerarchie. L’accettazione dei limiti e delle privazioni della vita trovava il proprio risarcimento nella prospettiva religiosa di una ricompensa in cielo. Le ideologie dominanti facevano sì che di rado venisse in mente ai più sfavoriti di aspirare ai livelli alti della scala sociale. Le società democratico-egualitarie moderne hanno invece aperto una falla nel dispositivo di inibizione delle aspettative, collaudato da millenni. Proclamando solennemente il diritto di tutti gli uomini all’effettiva eguaglianza e all’eliminazione di tutti gli ostacoli che potrebbero frenarla, legittimano le aspirazioni di ciascuno a superare la soglia della propria condizione di partenza per innalzarsi ai vertici della piramide sociale, alle cariche, alla ricchezza o al prestigio. Di fronte al presagibile naufragio dei molti che non riusciranno mai a far collimare i propri ideali con la realtà, tali società hanno dovuto elaborare molteplici tecniche per gestire le frustrazioni che nascono dal fatto che le loro promesse non possono essere per principio esaudite. I progetti di donazione alla Storia di un senso collettivo costituivano, appunto, una delle forme di compensazione e di risarcimento differito per le attese individuali inappagate. Rinviando la realizzazione di una società perfetta alle future generazioni, legittimando il sacrificio delle generazioni presenti e mettendo la ragione al servizio di programmi epocali a lungo termine, riempivano di senso la vita degli individui. Oggi questo transfert, questo meccanismo di dilazione non funziona più. Non si deve certo rimpiangere il passato e ignorare i preponderanti benefici del diffondersi dell’eguaglianza, ma rendersi conto di quali nuovi problemi ponga l’accorciamento dei piani di vita dei singoli e il ridursi della forza di proiezione in avanti delle istituzioni. In terzo e ultimo luogo, giunge a conclusione un ciclo bicentenario di pensiero e di prassi che aveva attribuito alla politica una funzione salvifica, promettendo a popoli o a classi una felicità futura grazie al suo innesto nel corso della Storia. Inserendosi nella corrente degli eventi, cavalcandone la cresta dell’onda, sintonizzandosi su processi già in atto, seguendone la «meccanica razionale» , la politica pensava di fruire dell’energia ascensionale del movimento storico per giungere felicemente alla meta. Oggi anche questa spinta propulsiva è venuta meno, perché non funziona più il dispositivo che la generava.

Corriere della Sera 22.1.11
«In 10 contro gli psichiatri Così partì il movimento gay»
Pezzana: «La Valeri, unica vera icona. Fo omofobo»
di Aldo Cazzullo


«Un omosessuale normale» . È il titolo del nuovo libro di Angelo Pezzana, che Stampa Alternativa pubblica oggi. Tra l’autobiografia e il diario, il fondatore del movimento omosessuale italiano racconta la sua storia e i personaggi che ha conosciuto, da James Baldwin a Platinette, da Rudolf Nureyev a Moira Orfei, da Ettore Sottsass a Roberto Bolle. Gli incontri del passato. «Avvenivano nella clandestinità di strade poco illuminate, giardinetti pubblici, parchi. Ma per anni, soprattutto d’inverno, gli spazi più frequentati sono stati i cinema. Non sarà bene dirlo, ma la verità è che la maggior parte di noi andava al cinema per farsi in loco un bel militare. L’atmosfera, fatta di brusio e nuvole di fumo, di sguardi veloci e gesti solo apparentemente casuali, diffondeva una sorta di elettricità sessuale contagiosa che favoriva ogni genere di contatto. Poco importava quale fosse il film: si pagava il biglietto senza nemmeno guardare i manifesti. Io andavo a sedermi accanto a qualcuno che mi sembrava il tipo giusto, oppure stazionavo in piedi in fondo alla sala fingendo indecisione su dove sistemarmi. Incontrai in un cinema A., uno dei due grandi amori della mia vita. So bene che raccontare queste cose non è considerato elegante. La maggior parte delle persone che le ha vissute preferisce dimenticarle, nasconderle, fingere che non siano mai esistite. Per non dire chi preferisce immaginare gli omosessuali come esteti raffinati, dotati di squisita sensibilità e maestri dell’arredamento, della moda, delle acconciature per signora, geniali ballerini, artisti ricercati. Ma tutti sappiamo che non è così. La diversità, di per sé, non comporta maggiore o minore intelligenza, maggiore o minore stupidità e, appunto, maggiore o minore sensibilità» . Fuori! «Il primo dilemma si presentò quando si trattò di trovare un nome al movimento. Fu "Fuori"la parola che approvammo con convinzione. Alludeva all’"out", parola d’ordine imperativa del movimento americano. Ma doveva rappresentare anche un acrostico: F. u. o. r. i. Per la F, la U e la I non ci furono problemi. La F stava per Fronte, la U per Unitario e la I Italiani. Fu sulla R che si accese la discussione. L’unica proposta sul tavolo era Rivoluzionario, parola che non a tutti sembrava adatta al gruppo di omosessuali borghesi quali eravamo. Ma l’aura che la circondava nella società occidentale del 1971 spazzò via le tenui resistenze. Ripensandoci quarant’anni dopo, non fu poi una scelta sbagliata. Stavamo rivoluzionando, prima di ogni altra cosa, le nostre stesse esistenze. Non eravamo più persone dalla doppia vita o comunque con una vita sessuale inconfessabile. L’inizio della visibilità cominciava da noi stessi, come era giusto che fosse» . Il coming out. «Fu così che un piccolo gruppo di omosessuali, una decina di italiani e altrettanti giunti da mezza Europa, si riunì davanti al Casinò di Sanremo per contestare il primo congresso internazionale di sessuologia, che riuniva il fior fiore degli esponenti reazionari (allora si diceva così) della psichiatria. L’effetto fu un incendio che infiammò l’opinione pubblica. Per la prima volta i giornali rinunciarono ai soliti eufemismi che di eufemico nulla avevano. Niente più "torbido ambiente", "terzo sesso", "invertiti", "balletti verdi", "quelli così"... Di colpo la parola rivendicata, seria, la parola che spaventava veniva pronunciata e scritta: omosessuali» . Pannella. «Rimasi affascinato dal suo carisma. Se nelle formazioni di destra eravamo considerati sporcaccioni, se in quelle di centro dei peccatori, se in quelle di sinistra una sovrastruttura borghese, con Marco e i radicali eravamo delle persone, dei cittadini. Niente di più. Niente di meno» . Franca Valeri. «Che l’Eterno mi perdoni, ma non ci sono Judy Garland o Barbra Streisand che tengano. In Italia l’unica vera e insostituibile icona gay ha un solo nome: Franca Valeri. Quel gesto familiare di riavviarsi una ciocca di capelli, quell’espressione negli occhi, quel tono di voce che milioni di volte gli omosessuali italiani hanno copiato e ripetuto negli ultimi sessant’anni: siamo in debito con lei se nel tempo del moralismo asfissiante, se in una società che o evitava di parlarne o si dava di gomito, è stato possibile fare dell’ironia intelligente e briosa sull’omosessualità. Franca ci prendeva tutti in giro mentre esplodevano gli applausi a scena aperta davanti a quelle rappresentazioni femminili in cui potevamo riconoscerci tutti» . Gianni Vattimo. «Ogni tanto fa parlare le cronache per qualcosa che ha a che vedere con la sua omosessualità. Conoscendo bene il suo percorso, posso testimoniare di come ci si possa inventare una militanza senza che sia mai esistita. Quando nacque il Fuori, il futuro grande filosofo si rifiutò di farne parte temendo che il padrone di casa non avrebbe rinnovato il contratto d’affitto. Omosessuale di corte, accolto con tutti gli onori nella (per lui) spregevole società occidentale... ciò che mi disturba in Vattimo è la sudditanza ai regimi autoritari, una pulsione masochistica che però il professore realizza senza mai correre pericolo. Una sudditanza che apre molte porte, come quella cubana, isola infelice dove gli omosessuali vengono incarcerati e trovano sovente la morte, mentre lui viene accolto da Fidel... Anni fa, incontrandolo per strada gli ingiunsi: "Se mi vedi, per favore, non salutarmi"» . Dario Fo. «Il futuro Nobel era solito attaccare il potere democristiano usando mezzi che suscitavano sì forti risate e il deliquio del pubblico, ma che prendevano in giro uomini come Andreotti, scimmiottato da Fo che si fingeva gobbo, oppure Mariano Rumor, e allora un’orgia di mossettine effeminate e di battutacce sulle inclinazioni sessuali di quell’uomo politico. Era questa la grana "culturale"del grande artista: usava l’omosessualità per sollazzare il pubblico. Razzismo antropologico, omofobia miserabile. Quel suo ghigno, che piaceva tanto a tanti, a me fu odioso» . Aldo Busi. «Lo dico subito: ad Aldo voglio bene. E confesso la mia incertezza prima di scrivere queste righe che certamente lo irriteranno. Ma poiché credo che di bene me ne voglia anche lui, ci provo lo stesso. Conosco Busi da quando nell’ 84 uscì Seminario sulla gioventù. Era nato un nuovo e autentico scrittore. E in più omosessuale. Ma lui, di fronte alla possibilità di essere incorniciato in una qualsiasi categoria che lo costringa a essere qualcosa di riconoscibile, si infuria. Credo che giudichi un insulto dei peggiori essere definito "scrittore omosessuale". Ma prima o poi, se lo vorrà, dovrà fare i conti con la propria identità» . Paolo Poli. «Si esibiva in cabaret semicentrali se non addirittura periferici, registrando sempre il tutto esaurito. Lo amavano i notai, gli avvocati o i commercialisti seduti ai bordi delle prime file, quando svenevole lui scendeva dal palcoscenico per andare a sedersi in braccio a uno di loro, accarezzando come una maliarda qualche testa pelata, qualche guancia appena rasata...» . Come riconoscersi? «"Come fate a riconoscervi tra di voi?". Spesso alcuni amici eterosessuali mi pongono questa domanda. Non ho mai posseduto quel sesto senso che gli americani chiamano gayradar. Da ragazzo credevo ciecamente che gli attori di Hollywood dai plurimatrimoni fossero etero impenitenti. Guai se si fosse saputo che Rock Hudson o Montgomery Clift, James Dean o Tab Hunter appartenevano in realtà all’altra parrocchia. Oggi molto è cambiato e io stesso, con gli anni, una cosa l’ho capita: il nostro sguardo ne ha guadagnato. Può essere contenuto e non far passare nulla negli occhi, può evocare l’antico riflesso timoroso di ricevere un segno di riprovazione o di fastidio. Può, però, anche fulminare e colpire nel segno. Inseguire ed essere accolto. Ricevere una risposta compiaciuta, intimidita o strafottente, grata o dubbiosa. Lo sguardo è un’arma che abbiamo imparato a usare con grande perizia. Tutto ciò per un eterosessuale può sembrare superfluo. Un uomo che voglia avvicinare una donna può ricorrere al tradizionale corteggiamento che a noi manca, perché per millenni abbiamo dovuto vivere in una clandestinità coatta» . Occhiolino. «Come abitudine non ci appartiene» .

Agi 22.1.11
Fiat: Durante (Fiom, dopo sconfitta tornare in fabbrica
(AGI) - Roma, 22 gen. - "Quale sconfitta gratificante, abbiamo perso al referendum e ora dobbiamo ritornare in fabbrica per tutelare i lavoratori, sia quelli che hanno votato No all'accordo separato sia quelli che hanno votato Si' per paura: spero che il gruppo dirigente della Fiom sappia correggere la sua linea e che non si arrivi ad interventi traumatici. Ho fiducia nella Cgil: con Susanna Camusso e' in ottime mani". A parlare e' il segretario nazionale della Fiom, Fausto Durante per il quale la questione prioritaria e' il 'ritorno in fabbrica' e che questo avvenga con una firma tecnica, con una firma con riserva o altro, non importa: "quel che urge - avverte - e' assicurare la tutela sindacale ai lavoratori con i nostri delegati, tutela che si fa stando dentro e non fuori della fabbrica". Una vicenda che ricorda il 1955 quando all'indomani della sconfitta alle elezioni delle commissioni interne alla Fiat, Giuseppe Di Vittorio non solo ammise la sconfitta ("Diciamolo francamente, non ci siamo riusciti") ma affido' la Fiom a Bruno Trentin per 'il ritorno in fabbrica' e Trentin rimise in pista la Fiom. "Le cose andarono cosi' e diedero ragione a Di Vittorio, non c'e' dubbio - rimarca Durante - Mi auguro pero' che ad interventi traumatici analoghi non si arrivi". Eppure c'e' chi ravvede nella Cgil della Camusso una linea assai incerta a differenza della Fiom di Landini. "Linea incerta della Cgil? Velleita' belle e buone! Di assai incerto e' il pulpito da cui viene questa critica, Fausto Bertinotti. Basta vedere i risultati conseguiti sul campo: un partito sparito dal Parlamento (Rifondazione Comunista) nonostante avesse un ministro e alcuni sottosegretari e la Presidenza della Camera nel Governo di centro-sinistra di Romano Prodi". Dopodiche, Durante non si fa alcun scrupolo a dire: "la linea riformista, quella maggioritaria nella Cgil della Camusso, e' in continua crescita nella Fiom, i consensi aumentano: siamo passati dal 18 al 27% dei membri del Comitato Centrale". E aggiunge: "la linea della maggioranza di Landini e di Cremaschi (all'opposizione nella Cgil) ha provocato finora un accordo separato sul contratto nazionale di lavoro, un accordo separato sulla deroga al contratto nazionale stesso e due accordi separati alla Fiat di Pomigliano e Mirafiori. Questa deriva corporativa va fermata". Se si guarda, viceversa, alle altre categorie dell'industria (chimici, tessili, edili etc), si scopre che "tutte riconoscendosi nella linea della Cgil hanno portato a casa il loro contratto nazionale di lavoro: su questo e' bene che il gruppo dirigente della la Fiom si interroghi, ossia sull'efficacia della sua linea". Ma si dice che se alla Fiat l'accordo non e' stato possibile per volere dell'ad Sergio Marchionne e della sua linea autoritaria, anzi saremmo gia' in presenza di un regime autoritario. "Non c'e' nessun regime autoritario imminente che cancelli liberta' e diritti. E non c'e' alcuna svolta autoritaria nel sistema delle imprese: non mi risulta che ci siano imprenditori allineanti o alleati di Marchionne - ribatte deciso Durante - Siamo, questo si', davanti ad un accordo sbagliato e regressivo che intacca consuetudini e diritti affermati non dalla legge ma da una costituzione formale: l'errore sta nella denuncia e basta. Abbiamo perso, bisogna riconoscerlo e rimboccarsi le mani per tornare a fare il nostro mestiere dentro non fuori la fabbrica per tutelare i lavoratori con i nostri delegati". Insomma, il sindacato non puo' abdicare al suo ruolo di contrattare e contrattare fino all'ultimo momento, troppo facile chiamarsi fuori o perseguire altre strade come il ricorso alla magistratura. "Abbiamo l'obbligo di stare il fabbrica - precisa ancora Durante - e di contrattare sempre e comunque tenendo bene a mente ogni volta i rapporti di forza. Il ricorso al giudice del lavoro non deve diventare la linea prevalente cui affidare il futuro della rappresentanza: ricorrervi e' una strada praticabile, per carita', ma non e' l'unica praticabile e se lo dovesse diventare vorrebbe dire abdicare al nostro ruolo di sindacale. Ricorrervi non esclude che noi si faccia, come siamo obbligati, a ricercare soluzioni, mediante la contrattazione, per tornare dentro la fabbrica: cio' la chiede il nostro mestiere". (AGI) Pat