lunedì 24 gennaio 2011

l’Unità 24.1.11
Primarie, boom di voti
La forza delle primarie è il futuro del centrosinistra
Settantamila che si mettono in fila per scegliere esercitano un “potere democratico”. Vincono i candidati Pd, per Vendola una battuta d’arresto
di Pietro Spataro


Nessuno ci avrebbe    scommesso un euro. Ma anche questa volta, a sorpresa, il popolo del centrosinistra si dimostra più maturo di quello che a volte pensano i suoi leader. Nonostante tutto. Nonostante le polemiche e le divisioni che serpeggiano nel Pd. Nonostante che il clima che si respira a Bologna come a Napoli non sia dei più sereni. E nonostante, soprattutto, il vento di sfiducia che le vicende del “premier-bunga bunga”stanno
facendo soffiare sul Paese. Il primo fermo immagine di questa fredda domenica di gennaio è questo: quasi settantamila persone si mettono in fila per scegliere il loro candidato sindaco, accettano la sfida di non delegare a nessuno un loro diritto. E’ una bella immagine pulita. Quella che è sfilata ieri, sotto le Due Torri o in Piazza Plebiscito, è davvero un'altra Italia rispetto a quella che viene rappresentata nelle cene hard di Arcore o viene raccontata nei tg del padrone. E' un'Italia diversa, che esercita liberamente un “potere democratico”. Dovrebbe essere un motivo di orgoglio in questo Paese ferito nella propria reputazione. Per Bologna il voto ha un di più che sta nel risultato finale. Il Pd riesce a evitare, grazie a un gruppo dirigente giovane e determinato, di fare il bis di Milano e di consegnare la vittoria al candidato vendoliano. Virginio Merola, scelto dal Pd, assessore con Cofferati e uomo dal solido curriculum di amministratore, riesce a farcela, secondo gli exit poll, con un vantaggio di quasi nove punti su Amelia Frascaroli. Ora dovrà avere il coraggio, come ha promesso di fare, di andare alle elezioni coinvolgendo gli altri due candidati. A Napoli, invece, un voto frammentato tra tre candidati del Pd alla fine costringe a un testa a testa tra Umberto Ranieri e Andrea Cozzolino che però distanziano Libero Mancuso, il candidato sponsorizzato da Vendola. E’ un buon motivo, questo, per evitare in futuro divisioni così assurde dentro un partito e difficilmente comprensibili per l’elettore. Si può dire comunque che dalle urne di ieri la forza di Nichi Vendola subisce una battuta d’arresto e questo può forse favorire un confronto meno viziato tra Sinistra e Libertà e il Pd.
Siamo qui, comunque: in un’altra bella giornata di buona politica. E proprio per questo quei 70 mila che tra Bologna e Napoli sono andati a fare il loro dovere civico lanciano due messaggi chiari. Il primo dice che ormai le primarie fanno parte della costituzione materiale del centrosinistra, sono lo strumento con cui si esercita la democrazia e che regola il rapporto tra leader e popolo. Non si può tornare indietro, non è consentito a nessuno. Certo, si devono correggere gli errori (e qualcuno ce n'è, come dimostrano le polemiche a Napoli sull'”inquinamento” del voto in alcuni quartieri), stabilire regole migliori e garanzie per tutti. Ma quel diritto di scegliere candidati e leader è ormai entrato nella vita del centrosinistra.
Il secondo messaggio, non nuovo ma ripetuto ieri con vigore, dice che se i leader del Pd e del centrosinistra perdessero un po' più di tempo a stare in mezzo alla loro gente, se si accorgessero di quanta energia c'è alla periferia e di quanta voglia di combattere per il cambiamento, se avessero il coraggio di dare voce a chi in mezzo a quella gente, con fatica e intelligenza, lavora ogni giorno (e tanti di loro sono giovani), forse le cose andrebbero in un altro modo e la credibilità di una alternativa a Berlusconi sarebbe sicuramente più convincente e più robusta. Ci vuole un po' di umiltà, ci vuole il coraggio di mettere da parte carriere e destini personali. Ma non c'è dubbio che è l'unica strada per dare un futuro a quell'Italia diversa e quindi a tutta l'Italia.

Corriere della Sera 24.1.11
Pd, rivincita su Vendola a Bologna e Napoli
Bologna e Napoli alle primarie I democratici battono i vendoliani
Merola sconfigge la Frascaroli. E Mancuso parla di brogli in Campania
di  F. Alb.


Vince Merola. Stravince lo strumento delle primarie. L’ex assessore della giunta Cofferati, Virginio Merola, 55 anni, sarà il candidato sindaco per il Pd alle prossime elezioni amministrative di Bologna, l’uomo al quale i Democratici chiederanno di far dimenticare la disgraziata parentesi Delbono, costretto alle dimissioni un anno fa dallo scandalo del «Cinzia gate» che ha portato al commissariamento della città. Merola, nato nel Casertano, cresciuto nel quartiere bolognese del Pilastro, l’esordio in politica nel gruppo del Manifesto e poi nel Pci, è stato presidente di quartiere sotto le Due Torri prima di divenire assessore all’urbanistica di Cofferati. Vittoria schiacciante la sua (58,3%): «L’inverno del nostro scontento è finito» ha detto, tra l’esultanza dei suoi sostenitori. Alle sue spalle, nettamente staccata (36%), Amelia Frascaroli, 56 anni, la «cattolica rossa» , ulivista, dossettiana e senza tessera pd, sostenuta da Flavia Prodi e da Vendola. Mai entrato in partita, invece, Benedetto Zacchiroli, 38 anni, ex collaboratore di Cofferati, che di recente si è definito «teologo e gay» . Top secret il voto di Romano Prodi, rientrato in anticipo dalla Cina per partecipare alla consultazione: «Non chiedetemi cosa voto, non lo dicevo nemmeno quando ero candidato io...» . Esame superato anche per le primarie, messe di recente in discussione, perché ritenute obsolete e troppo difficili da gestire, dai vertici del Pd romano, ancora traumatizzati dal caso di Milano con la vittoria di Pisapia. Lo strumento di selezione interna voluto da Prodi e Parisi ieri sera ha superato trionfalmente il test dell’affluenza. Sono stati 28.390 i bolognesi che si sono recati negli oltre 50 seggi allestiti in città. Una cifra del tutto inaspettata (gli stessi Democratici bolognesi puntavano a quota 15 mila votanti): numeri che superano l’affluenza registrata nel 2009 (25 mila) quando a vincere le primarie fu Flavio Delbono. «Una grande risposta democratica, sono mesi che aspettavo questo risultato» ha esultato il segretario provinciale del Pd, Raffaele Donini, rivendicando «la coerenza» del partito. Primarie in salute anche a Napoli, dove si è arrivati a oltre 40 mila votanti, più di quelli che nel 2006 si recarono alle urne per le primarie che incoronarono Prodi (furono 35 mila). Giochi ancora aperti invece tra i candidati. L’europarlamentare pd Andrea Cozzolino, bassoliniano, ha battuto a sorpresa il candidato sostenuto dalla segreteria, Umberto Ranieri, con circa mille voti di scarto. Terzo l'ex magistrato Libero Mancuso, in corsa per il partito di Nichi Vendola, che ha denunciato brogli.

Repubblica 24.1.11
La coscienza dell’Italia
di Carlo Galli


Perché "vergogna" è la prima reazione al nuovo scandalo Berlusconi? Vergogna di chi, di che cosa? Provare a rispondere a queste domande – tentativo doveroso, perché interpellano radicalmente la nostra coscienza civile e morale – ci porta alla radice dell´apparato categoriale della moderna politica democratica. In questo caso vergogna è il sentimento di umiliazione che nasce nei cittadini per alcuni comportamenti – non necessariamente per i reati, che devono ancora esser provati – del capo del governo.
I cittadini (alcuni, forse non tutti: ma questo è un diverso lato della questione) si sentono umiliati per fatti che non li riguardano direttamente e che nondimeno li toccano da vicino, intimamente. Quei comportamenti hanno a che fare con l´umiliazione di donne giovani e avvenenti (anche in questo caso, lasciamo impregiudicata la questione del reato specifico che si configurerebbe se fra di esse fosse stata coinvolta una minorenne), sistematicamente utilizzate, col loro consenso, come figuranti lascive in quadretti erotici, in tableaux vivants da Antico regime o da belle époque per quanto riguarda i riferimenti storici, ma soprattutto a favolosi e remoti (almeno si supponeva) sultanati orientali. E hanno a che fare anche con l´umiliazione di chi le umilia, di chi utilizzandole come giocattoli animati ne nega la qualità di persone, di chi abbassandole si abbassa.
Nell´umiliazione di quelle donne, e simultaneamente del loro padrone, vediamo in realtà umiliati i due beni più preziosi che la modernità politica - quella che ancora ci parla attraverso la Costituzione - ci ha consegnato: l´uguale dignità delle persone, di tutte; e la configurazione e la destinazione umanistica del potere, di ogni potere. Come il potere giudiziario non può comminare punizioni crudeli e inusuali, come il potere economico non può ridurre in schiavitù i più deboli, così il potere politico non può utilizzare le persone, divertirsi a consumarne corpi e anime.
Si dirà - è stato detto - che la prostituzione è sempre esistita, e che un po´ d´allegria non guasta; che, soprattutto atti sessuali fra adulti consenzienti, consumati nel privato - a prescindere da eventuali reati -, non devono interessare nessuno. E che il potere politico non c´entra nulla.
E invece - una volta resi pubblici perché la magistratura ha legittimamente indagato a partire da notizie di reato - quegli atti interessano e umiliano, non tanto per umana empatia, né per fame di gossip, ma perché sono intrinsecamente politici. Perché coinvolgono tutti e ciascuno; perché ferendo alcuni feriscono la dignità uguale e comune dei cittadini; perché trascinano tutti nella stessa vergogna; perché quello spettacolo ha noi tutti come destinatari, parla a noi e parla di noi - e anche perché si riflette, come un gioco di specchi, in mille stanze del potere, in mille alcove, al centro e alla periferia del Paese - . Ciò è tanto più vero nel caso di Berlusconi - che ha fatto di sé, del proprio corpo e della propria ricchezza personale, l´icona e il simbolo della politica, facendo coincidere il Tutto, l´Italia, con se stesso e con la propria privata dismisura -; ma sarebbe vero in generale per ogni primo ministro, presidente di partito e parlamentare (che rappresenta tutta la nazione) che si comportasse allo stesso modo.
È l´immagine universale dell´uomo (e della donna) a essere in gioco; e, insieme, l´immagine del potere politico, della forza che regola il nostro vivere civile. Se il portatore di quella forza è capace di umiliare, di non vedere l´umanità delle persone, di non relazionarsi agli altri con il doveroso rispetto - non importa se nel pubblico o nel privato, orizzonti e dimensioni che in determinate posizioni di potere sfumano l´uno nell´altro -, siamo umiliati tutti. Siamo in pericolo tutti.
La coscienza letteraria potrebbe vedere nell´intera vicenda la topica del Drago e delle fanciulle; la coscienza religiosa potrebbe scorgervi il volto benevolo e il potere corruttore dell´Anticristo; la coscienza di classe potrebbe individuarvi la potenza onnivora - veramente biopolitica - del capitale su corpi e menti reificate; la coscienza femminile potrebbe riconoscervi la quintessenza del potere maschile diffuso in tutta la società, che si concentra in una sola persona e nelle sue pratiche di dominio; la coscienza cinica potrebbe leggervi l´eterna storia del sesso e del potere, e chiedersi chi sottomette chi, se l´uomo le donne o le donne l´uomo - e concludere che non vi è nulla di straordinario o di allarmante nell´intera vicenda -. La coscienza civile, la coscienza moderna, si avvede - dopo lo sbalordimento iniziale - che una soglia è stata superata, e paventa in quella servitù volontaria, e in chi la incoraggia e la sollecita (e in chi, servizievole, la organizza), la negazione stessa, in radice, della democrazia. E spera che l´Italia si interroghi presto su se stessa e sulla propria sorte.

Repubblica 24.1.11
Riparte la mobilitazione contro i tagli alla cultura
di Anna Bandettini


ROMA - «Sette giorni di mobilitazione» a partire da oggi per convincere il Parlamento «a fermare la devastazione che si sta compiendo ai danni dell´intero comparto culturale italiano». È l´annuncio di una battaglia durissima quello sottoscritto da oltre cinquanta sigle del mondo dello Spettacolo, della Cultura e dell´informazione (dall´Anec, Associazione nazionale autori cinematografici, a Movem09, Movimento emergenza Cultura-Spettacolo-Lavoro) che si aggiunge a proteste e iniziative (scioperi alla Scala, al Massimo di Palermo...) organizzate in tutta Italia contro il ministro Bondi che «non ha tutelato il suo ministero», dicono i lavoratori, e contro il governo che ha tagliato fondi alla Cultura (quasi 100 milioni di euro tolti al ministero dei Beni Culturali, 400 milioni in meno allo Spettacolo dal 2005 e il Fondo unico per lo spettacolo, Fus, ridotto per il 2011 a 258 milioni di euro). Su questi temi è stata organizzata oggi a Roma una assemblea del movimento "Tutti a casa", lo stesso delle proteste al festival capitolino del cinema, mentre il "Tavolo del Capranichetta" (si va da Agis a Federculture) sta organizzando una manifestazione per i primi di febbraio. Nei teatri di tutta Italia ogni sera prima dello spettacolo viene letto al pubblico un comunicato sulla paralisi dell´intero settore se non arriveranno i contributi «impedendoci così di produrre spettacoli e progetti futuri», come denunciano i 12 teatri dell´Emilia Romagna (Ert). La richiesta è chiara: reintegro dei fondi con il Milleproproghe in discussione in Senato. Da Genova, l´assessore comunale alla Cultura Andrea Ranieri propone di sbloccare 217 milioni di euro di contributi Enpals in avanzo e di destinarli a teatri lirici e di prosa.

l’Unità 24.1.11
La carovana della libertà. Dalla provincia partiti in migliaia anche a piedi: obiettivo la capitale
Raduno sotto gli uffici del primo ministro del governo di transizione, nonostante il coprifuoco
Giovani in marcia su Tunisi: via i ministri legati a Ben Ali
Sono giunti nella capitale da tutta la Tunisia per dire il loro «no» a un Governo dominato da «ministri-baroni» legati al vecchio regime. Sono i ragazzi della «rivoluzione jasmine»...In centinaia sfidano il coprifuoco.
di U.D.G.


Hanno occupato il centro della capitale. Con la loro determinazione, con il coraggio di chi sa che il futuro gli appartiene. Sono i giovani protagonisti della «rivoluzione jasmine». «Noi non abbiamo niente, ma sono venuto fin qui a prendermi almeno la dignità. Questa è la nostra rivoluzione». dice Jawar, diciotto anni. Jawar è di un villaggio della regione di Sidi Bouzid, è arrivato in mattinata a Tunisi dopo quasi ventiquattro ore di cammino, letteralmente. Perché la prima parte dei circa trecento chilometri percorsi, l'ha fatta a piedi. Poi passaggi in auto, in camion, sui mezzi di fortuna di quella «Carovana della libertà» che ha portato la voce della provincia tunisina sotto la finestra del primo ministro per chiedere la dissoluzione del governo».
«IL FUTURO È NOSTRO»
Jawar è coetaneo del primo martire di questa rivolta, Mohamed Bouzizi, il giovane ambulante che si è dato fuoco lo scorso 17 dicembre proprio a Sidi Bouzid scatenando la rabbia capace di abbattere muri che resistevano da decenni. Non si accontentano della cacciata del satrapo (Ben Ali). Arrivati nel centro di Tunisi intorno alle 7.30, i manifestanti sono risaliti per viale Habib Bourguiba, arteria centrale e simbolica della città dove si svolgono quotidianamente manifestazioni, prima di accamparsi per un sit-in di fronte al ministero degli Interni, dove hanno dispiegato un enorme ritratto di Mohammed Bouazizi. I giovani della «Carovana della libertà» chiedono un ricambio, vero, radicale. Con i loro corpi e la loro voce gridano: la pazienza è finita. E dunque via dal Governo, fuori dai palazzi del potere, i «vecchi» sodali del presidente scappato dal Paese con una tonnellata e mezza di oro. Via i ministri-baroni. «È in corso una contestazione e manifestarla è un diritto che rispettiamo senza dubbio ma si tratta di alcune migliaia di persone che esprimono la posizione di una parte del Paese e non di tutto il popolo tunisino. Esiste una maggioranza silenziosa che vuole la transizione. Bisogna capire che altrimenti il pericolo è la dittatura», ribatte il ministro tunisino del Pdp, Najib Chebbi. Ma i giovani della rivoluzione dei gelsomini non hanno sfidato il regime, rischiato la vita, e in molti l’hanno persa, per poi avallare una operazione trasformista. I loro slogan, i cartelli che inalberano parlano chiaro: ciò che chiedono è la dissoluzione del governo ritenuto ancora troppo legato al vecchio regime.
ARRESTI ECCELLENTI
Un regime che continua a perdere pezzi. Larbi Nasra, proprietario della tv privata tunisina Hannibal, è stato arrestato per «alto tradimento e complotto contro la sicurezza dello Stato». L'accusa è di aver cercato di favorire il ritorno del presidente deposto Ben Ali. Lo riporta l'agenzia ufficiale tunisina TAP. Nasra, ha detto una fonte autorizzata citato dall'agenzia TAP, è stato accusato in particolare di aver utilizzato la sua tv per incitare «alla disobbedienza» e per diffondere «false informazione», con lo scopo di creare un «vuoto costituzionale» e di sabotare «la stabilità del paese». Queste azioni, ha proseguito la fonte, erano volte «a favorire il ritorno dell'ex dittatore Zine El Abidine Ben Ali». Le autorità tunisine hanno ordinato gli arresti domiciliari per due fedelissimi del deposto prsidente. Sempre secondo l'agenzia Tap, si tratta di Abdelaziz bin Dhia, ex ministro e consigliere del presidente e di Abdullah Qallal, ex ministro dell'Interno e presidente del Senato. Ma ai protagonisti della «rivoluzione jasmine» non basta. Centinaia di loro, sfidando il coprifuoco, hanno manifestato l’intenzione di trascorre la notte davanti agli uffici del primo ministro. «Gli abitanti di Tunisi non permetteranno che ci accada nulla dice ,Jawar sono qui anche loro, ci hanno portato cibo. Io rimango qui e non ho paura. Non so cosa succederà, ma voglio solo non sentirmi più così... schiacciato». «Non intendiamo lasciare la piazza prima che il governo non sia sgombrato», gli fa eco Mizar, uno studente di Tunisi originario di Sidi Bouzid. La sfida continua.

l’Unità 24.1.11
Nessuna illusione: l’era dei dittatori non è ancora finita
La Tunisia contagerà il Medio Oriente? Difficile. La verità è che è l’Occidente a volere che da quelle parti non cambi nulla
di Robert Fisk


La fine dell’epoca dei dittatori nel mondo arabo? Certo in tutto il Medio Oriente sceicchi, emiri, re, compreso il vecchissimo re dell’Arabia Saudita e il giovane monarca giordano, e presidenti quello egiziano alquanto anziano e quello siriano piuttosto giovane hanno un po’ di tremarella perché non si aspettavano quanto è accaduto in Tunisia. Manifestazioni di protesta per il costo dei prodotti alimentari ci sono state anche in Algeria e ad Amman. Per non parlare dei violenti scontri e dei morti in Tunisia, il cui despota si è rifugiato a Riyadh, la stessa città nella quale a suo tempo trovò accoglienza un uomo di nome Idi Amin.
E invece può accadere nella Tunisia turistica e vacanziera, può accadere dappertutto, non credete? La Tunisia era lodata dall’Occidente per la sua stabilità quando era al potere Zine el-Abidine Ben Ali. Francesi, tedeschi e inglesi, dispiace dirlo, hanno sempre considerao il dittatore “amico” dell’Europa civile e uomo in grado di tenere a bada tutti quei fondamentalisti islamici.
I tunisini non dimenticheranno mai questa piccola storia anche se ci piacerebbe che la dimenticassero. Gli arabi erano soliti dire che due terzi della popolazione tunisina sette milioni su deici, praticamente tutta la popolazione adulta lavorava in un modo o nell’altro per la polizia segreta di Ben Ali. È ovvio che anche loro sono scesi in piazza per protestare contro l’uomo che fino a pochi giorni fa amavamo. Ma non fatevi illusioni. È pur vero che i giovani tunisini hanno usato Internet per organizzare la protesta è avvenuto anche in Algeria e che le strade si sono riempite di giovani e giovanissimi (nati negli anni 80 e 90 e privi di prospettive di lavoro dopo l’università).
Ma il governo di “unità” nazionale è guidato da Mohamed Ghannouchi, satrapo di Ben Ali per quasi venti anni, un uomo disposto a curare i nostri interessi piuttosto che quelli della sua gente.
Infatti temo che si ripeterà la vecchia storia di sempre. Sì, ci piacerebbe la democrazia in Tunisia ma che non sia troppa, per favore. Ricordate quanto volevamo la democrazia in Algeria negli anni ’90? Poi quando si profilò il pericolo che gli islamisti vincessero al secondo turno delle elezioni, fummo lesti ad appoggiare il governo militare che sospese le elezioni, mise al bando il partito islamista e iniziò una guerra civile che fece 150.000 vittime.
No, nel mondo arabo vogliamo legge, ordine e stabilità. È quello che vogliamo anche nel corrotto Egitto di Hosni Mubarak. Ed è quello che otterremo.
La verità ovviamente è che il mondo arabo è così inefficiente, sclerotico, corrotto, umiliato e spietato non dimenticate che Ben Ali appena qualche giorno fa definiva “terroristi” i dimostranti e talmente incapace di progressi sociali o politici che la probabilità che dal caos mediorientale possano emergere democrazie funzionanti è pari a zero.
Compito dei potentati arabi sarà quello di sempre: “gestire” la loro gente, controllarla, tenere ben fermo il coperchio sulla pentola, amare l’Occidente e odiare l’Iran.
Cosa faceva Hillary Clinton mentre la Tunisia era in fiamme? Era impegnata a dire ai corrotti principi del Golfo che dovevano appoggiare le sanzioni contro l’Iran, opporsi alla Repubblica islamica e prepararsi a un altro conflitto contro uno Stato musulmano.
Il mondo musulmano quanto meno quella parte compresa tra l’India e il Mediterraneo non è solamente un disastro. È molto di più. L’Iraq ha una specie di governo succube dell’Iran, Hamid Karzai altro non è che il sindaco di Kabul, il Pakistan è sull’orlo della catastrofe, in Egitto si sono appena celebrate le ennesime elezioni farsa. E il Libano... bè, il povero vecchio Libano non ha nemmeno un governo. Il Sudan del Sud sempre che il referendum non sia stato truccato è una piccola fiamma di speranza, ma è meglio non scommetterci.
Per noi occidentali il problema è sempre il medesimo. Non facciamo che ripetere a cantilena la parola “democrazia” e ci dichiariamo favorevoli a libere elezioni a condizione che gli arabi votino come vogliamo noi. In Algeria 20 anni fa non lo hanno fatto. In “Palestina” non lo hanno fatto. E in Libano, a seguito del cosiddetto accordo di Doha, non lo hanno fatto. E allora li puniamo, li minacciamo e li mettiamo sull’avviso riguardo all’Iran e ci aspettiamo che tengano la bocca chiusa mentre Israele ruba ai palestinesi altra terra per consegnarla ai coloni israeliani in Cisgiordania.
Viene quasi da ridere a pensare che i disordini in Tunisia siano stati scatenati dal furto di alcuni prodotti agricoli da parte della polizia ai danni di un ex studente, che poi si è suicidato a Tunisi. Immancabile la visita in ospedale di Ben Ali al giovane ormai morente al solo scopo di tentare di placare la rabbia della gente.
Per anni quest’uomo sinistro non ha fatto che parlare di “graduale liberalizzazione” del Paese. Ma tutti i dittatori sanno benissimo che se allentano la presa, se tolgono le catene al popolo, rischiano grosso.
E gli arabi si sono comportati di conseguenza. Ben Ali era appena fuggito dal Paese che i giornali arabi, da sempre impegnati a leccargli i piedi e a baciargli le pantofole in cambio di un po’ di denaro, si sono gettati addosso all’ex dittatore. Di rado le parole del poeta libanese Khalil Gibran sono sembrate più dolorosamente intonate alla realtà: «abbiate pietà del Paese che accoglie con le fanfare il nuovo governante e lo saluta con grida e urli quando se ne va, per accoglierne un altro ancora con le solite fanfare». Forse si parla di Mohammed Ghannouchi?
Ovviamente ora tutti abbassano i prezzi o promettono di farlo. L’olio e il pane sono prodotti di prima necessità. E quindi il loro prezzo diminuirà in Tunisia, Algeria ed Egitto. Ma perché prima il prezzo era così alto?
L’Algeria dovrebbe essere ricca come l’Arabia Saudita possiede riserve di petrolio e gas e invece ha uno dei tassi di disoccupazione più elevati del Medio Oriente, non ha un sistema di welfare, non ha pensioni, niente per la gente perche’ i generali hanno messo al sicuro la ricchezza del Paese nei forzieri delle banche svizzere.
E non parliamo poi della brutalità della polizia. La tortura andrà avanti come sempre. E noi avremo buoni rapporti con i dittatori. Continueremo ad armare i loro eserciti e a dire loro che debbono fare la pace con Israele. E loro faranno quello che vogliamo.
Ben Ali se l’è data a gambe. Ora si cerca per la Tunisia un dittatore più presentabile. E si continuerà a sentire il crepitio delle armi da fuoco come in Tunisia fino al ritorno della stabilità.
No, diciamolo francamente, non credo che sia finita l’epoca dei dittatori arabi. Staremo a vedere.

Repubblica 24.1.11
In Egitto sono i blogger la miccia della rivolta
La democrazia del web così i blogger in Egitto sconfiggono la censura
Slogan e proteste, la politica si fa su Internet
di Bernardo Valli


Nella Rete l´opposizione lancia idee, inventa iniziative, stila annunci
Tra i più famosi "navigatori" si contano dal premio Nobel El Baradei ai Fratelli musulmani

MI PIACE guardare il Nilo, nella luce del mite inverno levantino, e immaginare le vivaci, inafferrabili conversazioni, fitte come folate di vento infiltratesi tra i lussuosi, prepotenti grattacieli spuntati sulle due sponde del fiume. Hai l´impressione di sentire il fruscio della democrazia. Quello che immagino è infatti un dibattito democratico.
Quello che immagino è infatti un dibattito democratico, appassionato, ininterrotto, non udibile, che l´autoritaria oligarchia dominante non può mettere a tacere del tutto. Sulla terra dei faraoni, blog, Facebook, Twitter, insomma tutte le forme di comunicazione offerte dal web consentono agli internauti di beffarsi dell´imponente apparato di repressione, e di promuovere dialoghi e progetti senza curarsi troppo della censura.
I mukhabarates, gli uomini dei servizi segreti, numerosi come le formiche, annaspano nello spazio informatico, cercano di acciuffare il vuoto nell´invisibile dimensione creatasi tra la diga di Assuan, le tombe di Luxor e la piramidi di Ghiza. La loro secolare esperienza di segugi serve a poco. I sovversivi sono diluiti nell´atmosfera. Certo, il potere potrebbe oscurare la Grande rete mondiale entro i confini nazionali, ma cosi facendo ucciderebbe il progresso elettronico, giusto vanto della sofisticata società che si sovrappone alla povertà ancestrale. Modernità e arretratezza convivono quasi ovunque, come convivono ricchezza e miseria. Qui la miscela è particolarmente densa e bollente. Un giorno potrebbe rivelarsi esplosiva; e quel discorso silenzioso, che scivola tra i grandi alberghi sul Nilo, potrebbe essere il detonatore. Non sono in pochi a sperarlo o a temerlo. I giovani internauti sono diciassette milioni. Facebook è praticata da dieci milioni. Twitter ha più utilizzatori che in qualsiasi altro paese arabo.
È difficile trascurare il fatto che la ribalta dell´invisibile, dirompente attività del XXI secolo, consentito dallo spazio informatico, sia un paese ricco di vestigia plurimillenarie. Ma è tempo di abbordare la cronaca, e di lasciar riposare la fantasia. L´Egitto dibatte gli avvenimenti tunisini e quindi il dopo Mubarak su Internet. In una società dove l´opposizione ha margini di manovra limitati e la stampa è sotto stretta sorveglianza, anche se si consente libertà impensabili in tanti altri paesi arabi, è Internet che inventa la democrazia. E´ nel suo ambito che si progetta di conquistarla e che già la si pratica con la libertà d´espressione. Si lanciano idee, si stilano annunci, si inventano slogan, si promuovono iniziative. I ministri e gli esponenti del business, integrati nel partito dominante del presidente (il Partito nazional democratico), hanno probabilmente ragione quando dicono che non ha senso parlare di un contagio tunisino. A chi chiede, con apprensione o speranza, se dopo la Tunisia sarà la volta dell´Egitto, rispondono che è impossibile. Non ha senso porsi l´interrogativo trattandosi di due realtà diverse. Non hanno torto.
Ma i piccoli partiti d´opposizione, inascoltati, emarginati e non sempre affidabili, hanno tuttavia intensificato i contatti. Si consultano. Sono entrati in agitazione anzitutto i movimenti estranei al quadro istituzionale. Grazie a Internet si sarebbe formato persino un "parlamento popolare", forse più ideale che reale, da contrapporre a quello ufficiale, in pratica occupato dal partito del presidente. Sul web non si perde tempo. Si ha fretta. Per domani, martedì, è stata programmata una manifestazione. In un primo tempo doveva svolgersi nel cuore della capitale, sulla piazza del Museo, a due passi dal Nilo. Sarebbe stato tuttavia troppo facile per la polizia disperdere, reprimere o addirittura impedire l´appuntamento. E´ dunque nei quartieri più popolari che dovrebbero tenersi piccole riunioni (cento al Cairo e una ventina ad Alessandria). Insomma tanti comizi mobili, dispersi in più punti delle due metropoli. Le informazioni sono state diffuse via Internet e sulla partecipazione dei partiti e movimenti regna ancora l´incertezza. Altrettanto incerta è l´origine del progetto, ritenuto fuori legge dallo stato d´urgenza, in vigore dal 1981, quando fu assassinato Sadat. L´idea di una manifestazione sarebbe nata ancor prima degli avvenimenti tunisini. Questi ultimi hanno stretto i tempi.
Il mondo egiziano di Internet è ricco di personaggi. Il più noto è Mohamed el Baradei, premio Nobel per la pace ed ex direttore dell´Agenzia internazionale per l´energia. Su facebook Baradei chiede una transizione pacifica del potere, a suo avviso il solo modo per evitare una ripetizione dei fatti tunisini in Egitto. Una riforma costituzionale gli consentirebbe di partecipare, anche se con scarse possibilità di successo (dice di avere raccolto un milione di consensi), alle elezioni presidenziali di fine d´anno. Quando si esaurirà il mandato di Hosni Mubarak, al potere da tre decenni.
L´appuntamento è carico di rischi, per un potere che trae le origini dal colpo di Stato militare del 1952, quando re Faruk fu mandato in esilio e si concluse la monarchia egiziana. Nonostante gli eventi traumatici, la morte improvvisa di Nasser, quattro anni dopo l´umiliante disfatta del´67, nella terza guerra con Israele, e l´assassinio di Sadat nell´81, le successioni si sono svolte senza strappi apparenti. E sempre nell´ambito militare.
Adesso, a 82 anni, e con una salute malferma, Mubarak potrebbe anche ripresentarsi per un ulteriore mandato di sei anni. Oppure, come si pensa, potrebbe proporre, vale a dire tentare di imporre, il figlio Gamal di 47 anni. Il quale non sarebbe però gradito all´esercito. Perché non è un militare (il padre gli ha dato responsabilità nel partito) e non sarebbe quindi nella tradizione. Inoltre Hosni Mubarak è un presidente che non ha mai suscitato grandi entusiasmi, e che ha favorito la famiglia. Non sarebbero quindi in molti a vedere di buon occhio una sua riconferma, malato com´è, o una successione in favore del figlio. Questi sono aspetti che fanno pensare alla vicenda tunisina. Ma la grande differenza è che, al contrario di quello tunisino, l´esercito egiziano ha un peso determinante. E ha ben altre dimensioni.
Nel mondo di Internet il problema della successione è trattato con insistenza. E´ visto come un momento cruciale, di possibili grandi svolte. Anche prima della scadenza. Come la scrittrice Nawal el Shadawi, molti sono coscienti che gran parte degli ottanta milioni di egiziani «non ha né potere, né educazione, né è organizzata». E che bisogna quindi cambiare il sistema educativo (in Tunisia era di gran lunga migliore) e la mentalità della gente, incline ad accodarsi ai movimenti religiosi. I Fratelli Musulmani sono molto attivi nell´assistenza sanitaria e sociale. Questi mutamenti rientrano negli obiettivi dichiarati di quella che viene chiamata la "democrazia Internet", alla quale partecipano, con posizioni politiche diverse, avvocati, giornalisti, ingegneri, medici, studenti. Tutti ansiosi di discutere e progettare l´avvenire dell´Egitto.
Gamal Eid, ex avvocato e un tempo impegnato nell´Human Rights Watch, è un blogger popolare e non nasconde i pericoli che incorre quando critica il regime. Se i giornalisti vanno raramente in prigione, i blogger sono condannati con facilità. Per avere mancato di rispetto al presidente in una poesia uno di loro è stato condannato a tre anni. Anche i Fratelli Musulmani, in cui militano non pochi professionisti, sia pure in correnti diverse, radicali o riformiste, hanno creato un´ampia galassia di siti. Mahmud Abdel Monem, trent´anni, ha conquistato una grande popolarità raccontando nel suo blog le torture subite nei sei mesi di prigione passati insieme ad altri millecinquecento Fratelli Musulmani. Ha poi preso le distanze dalla confraternita e adesso si ispira, come molti giovani religiosi, al partito turco islamico (AKP). Tra i blogger più popolari c´è anche una donna, Esraa Abdel Fata Ahmed, che coordina una rete di siti Web.

Repubblica 24.1.11
Israele-Anp, ecco le carte segrete "Enormi concessioni su Gerusalemme"
I palestinesi erano pronti ad accettare quasi tutte le colonie
Centinaia di documenti svelano il contenuto dei colloqui, alla presenza dei mediatori Usa. Ma l´accordo non fu raggiunto
di Fabio Scuto


GERUSALEMME - Il loro nome in codice è Palestinian Papers e rappresentano la più grande fuga di documenti confidenziali nella storia del conflitto mediorientale. Rivelano che in questi ultimi dieci anni i negoziatori palestinesi segretamente avevano deciso di accettare l´annessione israeliana di quasi tutti gli insediamenti che accerchiano Gerusalemme, la sovranità di parte della Città vecchia, e molte altre concessioni - come il ritorno solo per un numero simbolico di profughi - che saranno un elemento chiave nel determinare un atteggiamento freddo da parte degli altri Paesi mediorientali, se non addirittura di ostilità. I Palestinian Papers sono 1.600 documenti confidenziali, redatti da funzionari palestinesi, americani e britannici; quelli emersi ieri notte sono relativi al periodo 2008-2010, cioè alle trattative avviate subito dopo la Conferenza di Annapolis voluta da Bush.
I documenti confidenziali palestinesi, che coprono più di un decennio di negoziati con Israele e Stati Uniti, sono stati ottenuti da Al Jazeera e Guardian e forniscono un quadro straordinario e vivido della disintegrazione del processo di pace che è adesso sotto gli occhi di tutti. I capitoli principali in cui è possibile suddividerli sono diversi: 1) le "concessioni riservate" offerte dai negoziatori palestinesi - allora il governo era guidato da Abu Ala, poi estromesso dal presidente Abu Mazen - anche sulla questione altamente sensibile come il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. 2) come i leader israeliani hanno privatamente chiesto che una parte dei cittadini arabi venisse trasferita nel nuovo Stato palestinese. 3) il livello "intimo" di cooperazione tra le forze di sicurezza israeliane e l´Autorità palestinese. 4) il ruolo centrale dei servizi segreti britannici nella redazione di un piano segreto per schiacciare Hamas nei Territori palestinesi. 5) come l´Anp e il suo presidente furono preventivamente avvertiti dagli israeliani che si preparava una vasta offensiva contro la Striscia di Gaza, l´Operazione Cast Lead, che costerà la vita a 1.400 palestinesi, tra la fine del 2008 e il gennaio 2009.
Il senso che si ricava dai Palestinian Papers è di una chiusura netta - nel 2008 e nel 2009 - del governo israeliano allora guidato dal premier Olmert e da Tzipi Livni, alle concessioni del capo negoziatore palestinese Saeb Erekat. L´impressione generale che emerge è la debolezza e la disperazione crescente dei dirigenti dell´Anp, nella incapacità di bloccare la crescita degli insediamenti israeliani nelle terre oggetto di negoziato, e il timore di perdere credibilità davanti ai loro rivali di Hamas. Le carte rivelano anche la fiducia incrollabile dei negoziatori israeliani nell´atteggiamento passivo della diplomazia Usa.
Certo da anni i negoziatori palestinesi e israeliani sottolineano che qualsiasi posizione nell´ambito delle trattative è soggetta al principio che «nulla è concordato finché tutto è concordato» e quindi non è valida senza un accordo globale. Ma i leader dell´Anp sono adesso sono messi certamente in imbarazzo dalle rivelazioni sulle concessioni che erano pronti a fare. Concessioni su cui Hamas non tarderà a farsi sentire, cercando di cavalcare la protesta.

La Stampa 24.1.11
I giorni bui di un Israele nazionalista
di Abraham Yehoshua


È passato molto tempo da che ho scritto un articolo su ciò che accade in Israele. Mi sono chiesto se questo fosse dovuto alla recente uscita del mio ultimo romanzo: gli ultimi ritocchi alle bozze, l'invio delle prime copie agli amici e, naturalmente, l'emozione e l'attesa delle reazioni forse mi hanno distratto dai recenti avvenimenti del mio Paese. Ma dopo un esame di coscienza ho capito che questi non sono che pretesti. La vera ragione del mio silenzio è lo sconcerto che provo dinanzi alla diffusione di nuovi, sconosciuti e gravi fenomeni di sciovinismo nazionalista e di allarmante estremismo religioso in una società della quale credevo di conoscere, nel bene e nel male, tutti i codici.
In effetti i rappresentanti della mia generazione (e non importa se di sinistra o della destra moderata) che hanno accompagnato da vicino la crescita dello stato ebraico a partire dalla fine degli Anni 40, che per più di sessant'anni hanno partecipato attivamente alle lotte, interne ed esterne, per la sua esistenza e alla formulazione di convenzioni e di norme che ne regolano l'identità, rimangono sbigottiti e confusi dinanzi alla ventata di nazionalismo che cerca di minare quelle stesse norme. Un nazionalismo radicale che attinge da due fonti all'apparenza contraddittorie: da un lato i recessi oscuri della religione ebraica che, accanto a valori di carità e di amore per l'uomo, presenta anche aspetti di evidente razzismo. Dall'altro (sorprendentemente di origine secolare) il vecchio totalitarismo sovietico importato da Lieberman e dal suo partito.
Vero, in tutto il mondo il fondamentalismo religioso e il nazionalismo sono fenomeni in crescita. Rimaniamo sorpresi nel riscontrare queste tendenze in Ungheria, in Olanda, e persino qua e là nelle nazioni scandinave. Anche la nuova destra americana infrange regole ritenute intoccabili dalla vecchia. Ma tutti questi Paesi possiedono una solida identità nazionale e non devono fare i conti con nemici esterni. In Israele, invece, l'identità nazionale è ancora agli inizi. Ci sono abissali differenze tra laici e religiosi, una grande eterogeneità di gruppi di ebrei di provenienze e culture diverse, e una cospicua minoranza di arabi israeliani che rappresenta circa il venti per cento della popolazione. Tutto questo rende complicato mantenere un fondamentale senso di solidarietà sociale, fragile e incline a essere influenzato.
Assistiamo dunque a uno strano paradosso. Nell' opinione pubblica israeliana si rinsalda la convinzione generale che il consenso, in linea di principio, alla creazione di uno Stato palestinese sia la soluzione al conflitto con i palestinesi (anche se per molti questo consenso si accompagna alla pessimistica sensazione, giustificata o no, che la creazione di uno Stato palestinese avverrà in un futuro molto lontano). Persino l'ultra nazionalista ministro degli esteri Lieberman è teoricamente d'accordo con questo principio. Ma quanto più i toni del dibattito sulla creazione di questo stato si smorzano, e le reali differenze politiche sul tema scompaiono, tanto più in Israele si risveglia un'impetuosa ondata nazionalista che tende a ledere inviolabili diritti civili e a pretendere strambe dichiarazioni di fedeltà alla patria, pena la revoca della cittadinanza. Così, a momenti, sembra che l'energia che in passato era diretta verso nemici esterni sia ora convogliata verso «nemici interni», considerati dalla destra nazionalista sostenitori delle forti critiche verso Israele da parte dell'Europa. Critiche che arrivano a toccare livelli assurdi, quali la delegittimazione dello Stato ebraico, per esempio. E i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani sulla violazione dei diritti dei palestinesi nei territori, o sul comportamento brutale di alcuni soldati che violano il codice morale militare, sono visti da una parte dell'opinione pubblica israeliana quasi alla stregua di un tradimento, quando invece, per molti anni, uno dei punti di forza di Israele è stato quello di concedere piena libertà di espressione ad autocritiche ideologiche pertinenti, e alla possibilità di affrontarle pubblicamente, nel bene e nel male, senza attribuirle a fonti straniere ostili che la alimentano.
E cosa fa la sinistra? Anziché essere un po' più attiva sulla scena politica o ideologica si occupa di cultura. Non c'è mai stato in Israele un periodo di fioritura culturale come quello attuale. Con una popolazione di meno di sette milioni di abitanti il paese sforna decine di produzioni teatrali di tutti i generi, le sue straordinarie compagnie di ballo ottengono riconoscimenti in tutto il mondo, l'industria cinematografica è dinamica e originale, l'opera lirica è attiva e vivace, musicisti di talento riempiono le sale da concerto e numerosi libri, di narrativa e saggistica, sono tradotti in lingue straniere.
Ma sul piano politico l'attività della sinistra è limitata e debole. A eccezione di qualche sporadica manifestazione i partiti progressisti sono più che altro occupati in litigi e scissioni. Qualche loro rappresentante sostiene addirittura la coalizione Netanyahu - Lieberman mentre circoli ultra-liberali non fanno distinzione tra la tutela degli importanti diritti degli arabi israeliani e l'automatica difesa di infiltrati illegali africani. La sinistra ha da tempo perso contatto con i ceti popolari e appare debole, lamentosa e confusa.
La recente spaccatura del Labour e le dimissioni di Ehud Barak da presidente del partito potrebbero essere un'occasione di ripresa dell'ala socialdemocratica. Oppure no. I restanti otto membri del partito alla Knesset potrebbero anche mettersi a litigare su chi sarà il prossimo presidente. Triste.

l’Unità 24.1.11
Conversando con Gianfranco Maris Presidente della Fondazione della memoria
«Nell’inferno di Mauthausen dove per ogni pidocchio erano cinque bastonate...»
di Oreste Pivetta


Gianfranco Maris, a novant’anni è un uomo dal bel portamento, forte, il viso pronto ad aprirsi in un largo sorriso. Con me ricorda alcuni momenti del suo passato, un passato di tante esperienze, che conserva qualcosa al centro di imprescindibile, per lui e per noi, e che si riassume in un nome: Mauthausen. A Mauthausen Maris rimase dal 5 agosto 1944, dopo mesi tra i campi di Fossoli e di Bolzano. Ci rimase fino alla liberazione, quando arrivarono gli americani, il 5 maggio 1945.
Mauthausen era un campo di lavoro, dove venivano raccolti soprattutto prigionieri di guerra e politici, poi arrivarono ebrei in gran numero, da Auschwitz, Gross-Rosen, Bergen Belsen, Buchenwald, Dora-Mittelbau. Mauthausen non era una macchina da sterminio, malgrado disponesse della sua camera a gas. Tuttavia a Mauthausen morirono due terzi degli internati, per fame, freddo, fatiche a lavorare nelle gallerie, a caricare e scaricare pietre, per le punizioni, per il sadismo delle punizioni. Come quando, una sera, tra Natale e Capodanno, al controllo dei pidocchi, a Maris ne trovarono cinque addosso, tra le pieghe degli stracci che indossava. Ogni pidocchio cinque bastonate: «Mi imposi di rimanere immobile: volevo che il kapò colpisse quel residuo di parti molli rimaste sul mio sedere. Se mi fossi mosso per ripararmi, mi avrebbe colpito sulle reni e il giorno dopo avrei pisciato sangue e il giorno dopo ancora sarei morto». Dopo le botte gli comandarono di attraversare il campo nella neve nudo, per lavarsi sotto una doccia d’acqua gelida. I suoi abiti finirono a disinfettarsi sul tetto della baracca nella neve. La mattina dopo lo costrinsero, dopo un’altra doccia gelida, ad arrampicarsi fino al tetto, per riprendersi quei vestiti. Li indossò così, di ghiaccio, e andò con la sua squadra a lavorare. A Mauthausen quanti non potevano lavorare, quanti non riuscivano più a lavorare per lo sfinimento, venivano eliminati, gasati, fucilati, impiccati. Anche con le punture che i bravi medici nazisti praticavano al cuore delle loro vittime: «Pensavamo che iniettassero benzina».
Come si poteva resistere a Mauthausen?
«Come ce l’ho fatta? Perché ero robusto. Per la mia fortuna: una mattina mi svegliai sentendo una fitta alla spalla, un italiano del campo, tisiologo al Niguarda, diagnosticò una pleurite. Era aprile e veniva il caldo. Mi fosse successo a dicembre, sarei morto. In generale credo che resistesse chi manteneva piena coscienza della propria condizione, chi considerava Mauthausen una tappa della sua battaglia contro i nazisti».
Come arrivò il giovanissimo Gianfranco Maris all’antifascismo? «La famiglia non mi spinse. Mio padre era un fonditore di ghisa, aveva una piccola officina. Mia madre apparteneva a una famiglia mantovana benestante, accanita lettrice: da lei mi venne la passione per la lettura. Non erano fascisti, ma non si erano neppure impegnati contro il fascismo. Severissimi, rigorosi, di spirito calvinista. Mi feci le mie adunate da balilla, controvoglia. Poi accadde che in seconda liceo, a diciassette anni, un compagno mi facesse conoscere il fratello, più anziano, che cominciò a imprestarmi dei libri, sui quali vedevo sempre stampigliato un timbrino con la scritta in tondo: Ventotene. Venni a sapere che lui era stato un confinato politico. Grazie a lui incontrai altri antifascisti, molti avevano subìto la stessa condanna, molti erano militanti clandestini del Partito Comunista. Tra loro conobbi Elio Vittorini e Albe Steiner. Aderii anch’io al Partito Comunista. Era il ‘38 e considero quel passo ancora con grande orgoglio. Potrei ricordare altri episodi, che orientarono il mio cammino. Ricordo quando uno dei professori ci salutò, dicendoci che non ci saremmo più rivisti. Era ebreo. Allo stesso modo non vidi più molti compagni. Ricordo quando
una sera, attraversando il mio quartiere, a Porta Venezia, vidi un vecchio ubriaco che orinava contro un muro. Aveva scelto il muro sbagliato: quello di una sede fascista. Uscirono una decina di energumeni che cominciarono a malmenarlo. Mi intromisi per difenderlo: fui picchiato anch’io, fui interrogato dal loro capo, inutilmente cercai di spiegare che il mio era stato solo un intervento in difesa di un poveraccio. Finii in commissariato e per fortuna trovai un commissario intelligente, che la mattina mi lasciò andare. Ma da quel momento fui il bersaglio dei fascisti di corso Buenos Aires. Anche per questo quasi con sollievo partii militare, dopo un anno di università».
E venne la guerra.
«Venne la guerra, dopo l’addestramento partii per i Balcani, sottotenente di fanteria. Venne anche l’8 settembre e mi trovavo nella zona di Bromoravizze in Croazia. Come capitò a tanti altri, dopo l’armistizio, mi ritrovai anch’io con i miei soldati senza saper che fare. Ci mettemmo in marcia verso l’Italia, centinaia di chilometri a piedi, con poche gallette in tasca. Tra Fiume e Trieste quasi tutti sparirono: verso ignota destinazione. Io e pochi altri fummo individuato dalle SS, catturati, caricati su un vagone e spediti in Polonia. In Polonia ci comunicarono che era stato ricostruito l’esercito italiano, quello repubblichino, e ci spiegarono che chi avesse voluto aderire, avrebbe avuto la libertà di tornare. Risposi che ero pronto, dopo aver sussurrato ad un orecchio ad un compagno come veramente la pensassi. Dopo altre settimane di attesa, la partenza. Quando fummo alle porte di Bologna, di notte, me la svignai. Riuscii a raggiungere Milano, lì trovai i vecchi amici e cominciai a darmi da fare per organizzare la Resistenza. Una spiata mi tradì. Mi beccarono a Lecco con un sacco di armi in spalla, insieme con un compagno, Abele Saba. Fui rinchiuso a Bergamo. Tanto per cambiare fui per giorni massacrato di botte. Poi fui condannato a morte. Così arrivai al campo di Fossoli. Preparammo una fuga. Fascisti e tedeschi vennero a saperlo e subito presero il nostro capo, Leopoldo Gasparotto. Lo vedemmo uscire. Poi vedemmo tornare su un carro una cassetta nera, dalla quale colava sangue. Rinunciammo e fu per molti la fucilazione, per altri come noi la deportazione a Mauthausen. Partimmo dal Binario 21 della Stazione Centrale. Quando arrivammo, separarono i giovani e sani dai più anziani o dai malati. Ci spogliarono, ci rasarono, ci lasciarono nudi inquadrati di fronte alle baracche, ma ci diedero un berretto: mutzen ab, mutzen auf, su il berretto giù il berretto. Lì nudi, con il berretto... Volevano annientarci anche nello spirito».

Corriere della Sera 24.1.11
La memoria è giustizia
di Ferruccio De Bortoli


V iviamo schiacciati in un disperato presente e a volte ci assale un senso di vuoto che mette in forse anche la nostra incerta identità italiana. Se è consentito per un attimo evadere dalla stretta e pruriginosa attualità, senza che questo appaia una forma di disimpegno morale, vorremmo cogliere l’occasione della prossima giornata della memoria, 27 gennaio, il ricordo dell’immane tragedia della Shoah, per parlare un po’ di noi stessi e discutere di quello che stiamo diventando: un Paese smarrito che fatica a ritrovare radici comuni e si appresta a celebrare distrattamente i 150 anni di un’Unità che molti mostrano di disprezzare. Noto una certa stanchezza, nell’approssimarsi di una ricorrenza (il 27 gennaio del ’ 45 venne liberato il campo di Auschwitz), peraltro istituita con una legge dello Stato soltanto undici anni fa. Avverto un pericoloso scivolamento nella retorica o nella ritualità dei ricordi. Anna Foa, sul Sole 24 Ore di ieri, giustamente ci metteva in guardia dall’ipertrofia della memoria, che rischia di far perdere l’indispensabile nesso fra funzione conoscitiva (sapere perché non accada più) e funzione etica (cittadini consapevoli dei valori universali e, dunque, migliori). Non mancano, e sono numerose, le eccezioni positive, soprattutto nel mondo della scuola, ma ciò non è sufficiente a dissipare la sensazione di un progressivo distacco dagli avvenimenti, la cui comprensione profonda è indispensabile alla nostra formazione culturale e civile. Avvenimenti che tendono ad allontanarsi, e non solo per effetto del tempo che passa, dal nostro orizzonte identitario, come accade per il Risorgimento o per la Resistenza, di cui la nostra Costituzione è figlia. I negazionisti o i mistificatori abbondano in Rete. Ma dobbiamo temere anche gli indifferenti, e non sono pochi, davanti ai quali le testimonianze dell’esistenza di un male assoluto scorrono come le immagini di una qualsiasi fiction: sembrano non penetrare le coscienze e non muovere alcuna forma di commozione. Svaniscono un attimo dopo essere state viste, nel trionfo di una memoria digitale tanto abbondante quanto fredda. Un bel libro di Frediano Sessi, intervistato sabato da Giovanni Tesio sulla Stampa, e di Carlo Saletti (Visitare Auschwitz, Marsilio) ci insegna a capire come l’universo concentrazionario e di morte fosse il risultato di una mente umana del tutto normale, purtroppo, e non folle o eccezionalmente malata. E che il valore della memoria si affievolisce presto nella banalità e nell’irrilevanza se non c’è insegnamento e riflessione sul presente. «Un’oretta e mezzo di genocidi, guerra, scheletri, morti ammazzati, follia omicida e se non c’è traffico alle undici saremo a Firenze» , scriveva provocatoriamente Andrea Bajani, a proposito di un certo frettoloso turismo della memoria.
Probabilmente abbiamo commesso molti errori di comunicazione, non lo escludo. Vi è forse una certa sovrabbondanza di materiali, non didatticamente ordinati (l’ipertrofia di cui parla la Foa), ma sarebbe assai grave se la società italiana perdesse progressivamente la consapevolezza della propria storia e il ricordo di tanti sacrifici, di tante ingiustizie, del disegno lucido, concepito nella patria della filosofia, del diritto moderno e della musica, di cancellazione di un intero popolo dalla terra. Questo è il senso dell’unicità della Shoah. Nell’indifferenza etica crescono i pregiudizi, nell’ignoranza si cementano gli odi e i sospetti; nella perdita dei valori della cittadinanza, scritti mirabilmente nella nostra Costituzione, fermentano i germi di nuove violenze; le comunità regrediscono a forme tribali. Segni di questa involuzione li troviamo in molti Paesi europei, anzi a dire la verità il nostro appare meno toccato da forme di estremismo quando non di razzismo. Nell’Est liberato dall’oppressione sovietica e accolto, fin troppo generosamente, dall’Unione europea, emergono fenomeni assai più preoccupanti. Ma sbaglieremmo se ci considerassimo totalmente immuni, se coltivassimo, come è scritto nella bella prefazione di Michele Sarfatti al libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia, Einaudi) l’idea, sbagliata, che tutto sommato l’Italia, dopo le leggi razziali del 1938, abbia recitato un ruolo parziale, secondario o addirittura controvoglia, nella grande tragedia della Shoah. «La verità— si legge— è che l’Italia e gli italiani intrapresero autonomamente la persecuzione degli ebrei e la portarono avanti con sistematicità, determinazione ed efficacia. E se il tributo di vite umane tra la fine del ’ 43 e la primavera del ’ 45 fa parte della storia più generale della Shoah, la persecuzione subita dagli ebrei tra il ’ 38 e il ’ 43… resta una macchia specifica sulla coscienza e sulla storia italiana, su cui troppo spesso e troppo a lungo si è preferito soprassedere» . Ma ugualmente ancora poco conosciuto è il grande e generoso contributo di solidarietà agli ebrei che venne da tanti semplici cittadini i quali rischiarono la loro vita per dare assistenza e rifugio ai perseguitati. Uno straordinario capitolo di storia italiana. «Abbiamo sempre avuto dove dormire la notte e la fame brutta non abbiamo mai sofferta» , si legge in una lettera scritta da Cesare Zarfati poco prima di essere deportato. Migliaia di ebrei salvati, da famiglie umili, cittadini anche poveri e poco istruiti, ma consapevoli dei valori universali, che oggi stentiamo a difendere, e per nulla intimoriti da fascisti e nazisti. Quanti oggi avrebbero quel coraggio? Una resistenza civile diffusa, cui diede un contributo prezioso la Chiesa, di cui essere fieri. La memoria è giustizia ed esercizio di etica civile. Quotidiano.

Corriere della Sera 24.1.11
Il negazionismo un reato penale? Le comunità ebraiche si dividono
Pacifici: servono sanzioni. Fiano: può ledere la libertà d’opinione
di  Paolo Conti


Varare o no una legge che trasformi in vero e proprio reato penale il negazionismo dell’Olocausto del popolo ebraico? L’ebraismo italiano è animato da orientamenti diversi. E si capirà bene oggi pomeriggio, lunedì 24 gennaio, nella sala del Capranichetta in piazza Montecitorio. Il convegno, legato all’imminente Giornata della Memoria del 27 gennaio, pone il problema già nel titolo: «La Shoah e la sua negazione -Il futuro della memoria in Italia» . A organizzarlo è l’Associazione di cultura ebraica «Hans Jonas» , il grande filosofo tedesco di origine ebraica, allievo di Martin Heidegger, scomparso novantenne a New York nel 1993. Non sarà un convegno rituale: parteciperanno il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, Pierferdinando Casini, leader dell’Udc, Benedetto della Vedova del Fli, Emanuele Fiano del Pd, nonché ex presidente della comunità ebraica milanese. Ma soprattutto parleranno Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma e dunque rappresentante della massima parte degli ebrei italiani e convinto sostenitore della legge, così come parleranno Saul Meghnagi e Tobia Zevi (il quale ha deciso di partecipare a questo appuntamento, da lui in parte organizzato, nonostante la scomparsa della nonna Tullia, proprio per onorarne concretamente l’impegno civile) che esprimono posizioni molto diverse, sulla linea di Fiano. Il negazionismo, in Italia e in Europa, non è certo un fenomeno isolato. Claudio Moffa, docente all’università di Teramo nella facoltà di Scienze Politiche, il 25 settembre 2010 ha sostenuto: «Non c’è alcun documento di Hitler che dicesse di sterminare tutti gli ebrei» . Famoso, in campo internazionale, il caso dello storico britannico David Irving, arrestato nel 2006 in Austria proprio per negazionismo. Dice Pacifici: «Distinguiamo tra diritto all’opinione e negazionismo. Affermare in una casa privata che l’Olocausto non sia avvenuto può essere un gesto stupido, immensamente riprovevole e simile a chi sostiene che la Terra è piatta. Ma credo non si possa più concedere il diritto a chiunque di alzarsi in un’aula parlamentare, in un’università, in un luogo pubblico in cui si formano le coscienze e dire che la Shoah sia stata un’invenzione. La legge riguarderebbe quest’ambito. Esiste poi una legge-quadro europea sul negazionismo che i paesi membri devono ratificare e l’Italia arriverà dopo Germania, Francia, Belgio, Romania. Non possiamo tirarci indietro: qui è nato il fascismo, che ispirò Hitler, e qui sono state firmate anche le leggi razziali italiane. Questione che richiede ancora una assunzione di responsabilità da parte di chi materialmente le applicò qui in Italia» . Ribatte Tobia Zevi, esponente di punta dei giovani ebrei italiani e dell’associazione «Hans Jonas» : «La Giornata della Memoria ha ottenuto risultati importanti sul piano della sensibilizzazione ma ha anche mostrato limiti evidenti. Rimangono enormi sacche di ignoranza, c’è il rischio che i vari eventi assumano una dimensione rituale e un po’ stanca. Il fenomeno estremo del negazionismo, certamente minoritario, ha un andamento carsico, sembra sempre essere scomparso per poi riapparire da qualche parte con una certa vitalità. La comunità scientifica ha manifestato forti perplessità sull’ipotesi di introdurre in Italia il reato di negazionismo, e queste obiezioni mi paiono convincenti. Forse sarebbe più utile immaginare una modalità di sanzioni amministrative che vieti di assumere posizioni negazioniste nell’esercizio dell’insegnamento, nelle scuole o nelle università. Perché non bisogna dimenticare che il negazionismo è qualcosa di odioso e vergognoso» Aggiunge Emanuele Fiano: «Il negazionismo è una cosa disgustosa, difficile immaginare qualcosa di più riprovevole sul piano morale. La diagnosi di Pacifici, dunque, è giusta, ma la cura che propone è sbagliata per due ragioni. In primo luogo perché si rischia di intaccare una sfera, quella della libertà di opinione, che è sempre rischioso toccare. Inoltre perché rischieremmo di trovarci, come già è accaduto in vari paesi, in lunghi dibattiti processuali, che diventano un palcoscenico per personaggi scientificamente screditati, e che non è detto che si risolvano in una condanna finale» . Conclude Saul Meghnagi, direttore scientifico della «Hans Jonas» : «Bisogna tenere presente la differenza tra storia e memoria. Fare storia significa ricostruire i fatti per come sono accaduti, riaggiornando la versione ogni volta che è possibile attraverso nuovi documenti e nuovi studi. Fare memoria significa costruire un sentimento collettivo, una coscienza comune, ed è un lavoro che richiede un tempo assai più lungo, per cui una legge sul negazionismo serve a poco» .

Corriere della Sera 24.1.11
Le imprese socializzate nella repubblica fascista
risponde Sergio Romano


Oramai, ogni giorno, tutti i politici dicono che accettare le condizioni imposte da Marchionne richiede di applicare come contrappeso la partecipazione agli utili e alla gestione dell’azienda da parte dei lavoratori. Nessun ha però l’onestà intellettuale di ricordare che tale proposta è stata un’idea di Benito Mussolini che la realizzò con la legge sulla socializzazione delle imprese nel 1944. Non le sembra abbastanza ipocrita?
Alessandro Mezzano

Caro Mezzano, L a socializzazione delle imprese fu uno dei punti della Carta di Verona, il documento approvato dal nuovo partito fascista durante il congresso che si aprì il 14 novembre 1943, due mesi dopo la creazione della Repubblica Sociale Italiana. Nelle intenzioni di coloro che vi parteciparono, il Congresso doveva essere un ritorno alle origini e dimostrare al mondo che il fascismo non aveva dimenticato la sua anima sociale. L’applicazione venne due mesi dopo con la legge del 12 gennaio 1944. Fu decisa la socializzazione di tutte le imprese con un capitale superiore a un milione e un numero di dipendenti superiore a cinquanta. Nelle imprese private «la partecipazione del personale sarebbe stata assicurata da un consiglio di gestione con funzioni consultive consistente in un tecnico, un impiegato e un operaio. Nelle imprese di Stato metà del consiglio di amministrazione sarebbe stato composto dal personale. In tutte le imprese, pubbliche e private, il profitto netto risultante dai bilanci, dopo la deduzione degli utili dei proprietari, dei fondi di riserva e dei dividendi degli azionisti, sarebbe stato diviso tra i dipendenti in proporzione ai loro salari» . La descrizione è tratta da un rapporto dell’ambasciatore tedesco Rudolf Rahn a Berlino citato da Indro Montanelli nel volume della Storia d’Italia dedicato a «L’Italia della guerra civile» . Sembra che Rahn e i comandi tedeschi fossero piuttosto preoccupati. Temevano che questa riorganizzazione socialista dell’economia avrebbe messo a soqquadro l’intero sistema industriale italiano e pregiudicato le forniture destinate alla Germania. Ma Hitler, a quanto pare, reagì assai diversamente e rispose a Rahn, secondo Montanelli, che «il Duce può agire in questo campo come stima conveniente, anche se non è prevedibile che le misure avranno un gran successo» . Aveva ragione. I maggiori industriali, come Vittorio Valletta, finsero di accogliere la legge come la promessa di una migliore «convivenza fra capitale e lavoro» , ma sapevano che il vero problema del momento non era rappresentato dalle velleità socialiste di un regime agonizzante. Occorreva sopravvivere fino all’arrivo degli Alleati e soprattutto evitare che i tedeschi in fuga distruggessero gli impianti industriali. Ecco perché è molto difficile, caro Mezzano, considerare la legge fascista sulla socializzazione delle imprese come un utile precedente per affrontare il problema della produttività in un mondo globalizzato.

Corriere della Sera 24.1.11
Caravaggio, storia di un amore perduto
Nei «Musici» ritrasse se stesso e i suoi amici mentre cantano la loro vita
di Pierluigi Panza


È un metro quadrato. Un metro quadrato esatto. E in questo spazio il «valenthissimo pittore» lombardo ha dipinto uno dei più affascinanti quadri dedicati alla musica e all’amicizia, attraverso un gioco di specchi che coinvolge l’osservatore. I Musici o Concerto di giovani (nell’Ottocento il suo titolo era Amore e Armonia o Concerto Bacchico) è la prima opera che Caravaggio dipinse a Roma per il cardinal Del Monte, e fu uno dei primi quadri dipinti dal vero, utilizzando specchi per ritrarre le figure. È al Metropolitan di New York dal 1953, ovvero dall’anno successivo in cui il conoscitore Carrit scoprì quest’olio su tela in una casa della campagna inglese e Denis Mahon l’attribuì a Caravaggio, riconoscendo in esso l’opera che il Baglione, nel 1642, aveva chiamato Musica di giovani ritratti al naturale (a quel tempo il quadro era a Parigi nelle mani del cardinal Richelieu). Quando se ne era andato dalla bottega di Giuseppe Cesari, Michelangelo Merisi da Caravaggio (nato a Milano e battezzato a San Giovanni in Brolo) lo aveva fatto per cambiar modo di dipingere. Voleva ritrarre scene dalla realtà: gli amici, le baracche al mausoleo d’Augusto, i festini, il carnavale, il gioco dei dadi. La sua vita indipendente, insomma, che pagava al caro prezzo di non avere una casa, salvo «il comodo di una stanzetta» in San Salvatore in Campo. Così fino al settembre del 1595, quando il cardinal Del Monte, che dal ’ 72 aveva preso «honorata dimora» in Palazzo Madama, lo aggiunse al suo servizio tra staffieri, ferraioli, musici e dipintori. E poiché il cardinale si dilettava a «suonar di chitarriglia» cantando alla spagnola, Caravaggio ritrasse quattro efebici amici intenti a una sonata da camera. I quattro sono ritratti dal vero ma vestono all’antica; indossano ampi camiciotti, mollemente cadenti lungo le loro carni bianche. Il liutista porta un manto di broccato rubino, come il colore delle sue labbra carnose: lui e il suonatore di cornetto, sul fondo della tela, guardano fuori dalla scena, quindi ci osservano facendoci entrare dentro il quadro. Mentre il liutista e gli altri due sono probabili amici di Caravaggio, il cornettista è il pittore stesso, che si ritrae nella scena. Il suo volto, infatti, è molto simile a quello del Bacchino malato o del Fanciullo morso dal ramarro (dove si è ritratto), una tela, quest’ultima, che vendette a 15 giuli per cenare una settimana all’hosteria del Turco. La musica per il liuto era scritta su intavolature che riportavano il numero di capotasto da premere, e ciò rendeva facile e diffusa l’esecuzione nel Cinquecento. Ma questo suonatore di liuto non sta solo accordando lo strumento (senza corde perché si sono perdute nei secoli): ha le labbra socchiuse e sta intonando un lamento pastorale di perduto amore. E sta lacrimando perché l’occhio, che è la fonte cristallina degli umori, deve far capire lo stato d’animo dell’individuo. Il Frommel, nel 1996 identificò il liutista con il diciottenne pittore siciliano Mario Minniti amante e sodale in languori di Caravaggio. Mario è descritto come ragazzo dal viso incantevole, da giacinto. La partitura che il primo personaggio a destra sta leggendo non si può identificare. Ma è un lamento pastorale. Ha accanto un violino e, per quanto non se ne veda il viso, sembra un doppione del Fanciullo che monda il pomo. Potrebbe essere il castrato spagnolo Pedro Montoya, un cantore della Sistina frequentato da Caravaggio. Ma anche uno come Horazio, suo amicone di accademie e bordelli che passava tempo a costruire balestre, girava con dadi e compassi, e bravo nel combattere le febbri con gli estratti dai fiori, come lo stesso cardinal Del Monte, che diceva d’aver l’estratto «per portare la vita quarant’anni indietro» . Il quarto personaggio è dipinto come un amorino, come Cupido, anche se nel corso dei secoli le ali erano state coperte dalle ridipinture. È quello che rivela la chiave pagana del quadro. Non guarda fuori dal quadro, non bada a noi, e non sa resistere a piluccare l’uva come un amico furtivo. L’uva poteva avere due significati. In quanto frutto poteva essere Cristo, il fructus per eccellenza (la Canestra è Cristo come frutto), che offre il suo sangue per noi. Ma anche— come la quadreria del cardinale rivelava e come nell’Iconologia di Cesare Ripa— il simbolo di Bacco, ovvero di un Cristo-Dioniso, amore come ebrezza, un connubio pagano noto nel Cinquecento. L’amico che pilucca l’uva simboleggia l’ebbrezza dell’amore che, come la musica, conduce al perdersi nelle passioni. Dal vero può ricordare l’amico di bisboccia Onorio, architettore e discendente da nota famiglia, assai irascibile e sempre pronto alla spada. Onorio aveva viaggiato a lungo conquistando donne di strada e d’hostaria, furtive amanti «rubate» agli amici. Le cronache e i tribunali dicono che «la testa gli fumava» e girava a cercar donne e a «intonare libelli licenziosi» . Caravaggio prese a modelli i suoi amici. Li mise davanti allo specchio. Iniziò a dipingerli nell’atto di prepararsi a recitare un dramma di amore perduto. Perché perduto? Forse perché l’amico nelle vesti di amorino ruba l’uva, cioè l’amore, proprio al liutista, che infatti intona malinconico il suo canto d’amore perduto. Se fosse così, questa storia di amicizia sarebbe anche una storia di tradimenti. Di certo si erano «rubati» tra loro quella zingara detta l’ «egittiana» , la cui aria esotica era per tutti loro promessa sicura di erotismo e di magia. Caravaggio li dipinse allo specchio e loro, come in uno specchio, ci guardano. La loro eternità, immortalità, è data dal gioco di sguardi che s’instaura con noi. Credo che gli artisti, talvolta, abbiano cercato di raggiungere l’eternità facendo guardare se stessi al di fuori dei loro quadri. Caravaggio, come Velasquez, Parmigianino, Le Sueur, Van Eyck e altri che si sono immortalati hanno cercato di continuare a vivere guardando i vivi che si sarebbero fermati ad osservare la loro opera. E in questo gioco di specchi risiede l’eterna metaforica verità dell’arte.

La Stampa 24.1.11
Non solo arabeschi nei dipinti dell’Islam
Milano A Palazzo Reale la preziosa raccolta dello sceicco al-Sabah
di Guido Curto


Quando si parla di arte islamica subito ci vengono in mente gli arabeschi. Stilizzazioni elegantissime di elementi vegetali che diventano pura astrazione. Quasi che la religione islamica fosse radicalmente iconoclasta e vietasse qualsiasi forma di figurazione. A sfatare questo luogo comune è la mostra dedicata all'Arte della civiltà islamica, scenograficamente allestita nelle sale di Palazzo Reale.

Una rassegna di 350 pezzi selezionati tra le oltre 30 mila opere della Collezione al-Sabah: un corpus straordinario di piccoli e grandi capolavori raccolti dal 1975 ad oggi dello sceicco kuwaitiano Nasser Sabah Ahmed alSabah e da sua moglie.
Il percorso espositivo è scandito in due parti. Prima si procede cronologicamente, ripercorrendo lo sviluppo della civiltà islamica dal VII secolo al XVIII. Dagli esordi in Arabia, seguiti dalla veloce, e anche violenta, espansione dall'Occidente di allora, la Spagna, fino al medio ed estremo Oriente. La seconda sezione documenta tematiche trasversali a tutta l'arte islamica. La calligrafia anzitutto, forma artistica privilegiata da una religione che combatte l’idolatria e che è tutta incentrata sulla parola di Maometto. Tra tanti esempi, si veda il foglio in pergamena con una frase del Corano scritta in stile epigrafico kufico, reperto del IX secolo proveniente da Kairouan. Quasi coevo è lo sviluppo di motivi geometrici e degli arabeschi ideati come astrazione di elementi fitomorfi e zoomorfi, come la scatola cilindrica di avorio scolpito con la raffigurazione di unicorni, uccelli e piante, un capolavoro d'inizio XI secolo proveniente dalla Spagna, e nella brocca di vetro decorata con girali spiraliformi (Iran, X secolo). Il percorso si chiude con una sezione di arte figurativa e con le sale riservate ai gioielli, gran finale di tutta la mostra. Qui ammiriamo pugnali di giada incastonati con rubini, pezzi in cristallo di rocca, tra cui un set di pedine per il gioco degli scacchi, bracciali d'oro diamanti e pietre preziose, una collana con pendente di diamanti e un gigantesco grano di smeraldo (India, Deccan, fine XVIII secolo)
Osservando le opere e leggendo le didascalie redatte con chiarezza dal curatore della rassegna Giovanni Curatola, scopriamo una civiltà che produce non solo i tappeti sontuosi - in mostra uno immenso proveniente dall' Iran che ha le forme stilizzate di un giardino quadripartito - ma anche splendidi libri miniati, il Corano ovviamente, e, a dispetto dell’aniconismo, splendide pagine miniate dal naturalismo vivace. In particolare quelle prodotte nell'India islamica e in Persia. Si veda una raffigurazione del Khamsa di Nizami che illustra il viaggio a Gerusalemme di Maometto, opera iranica del XVI secolo. Senza tralasciare gli elementi di architettura in terracotta smaltata, i capitelli marmorei, i piatti e le coppe in ceramica dipinta, brocche di bronzo, vasi di vetro smaltato a disegni sfavillanti colori, tessuti di seta, lastre tombali con eleganti iscrizioni.
ARTE DELLA CIVILTÀ ISLAMICA. LA COLLEZIONE AL-SABAH, KUWAIT, MILANO, PALAZZO REALE, FINO AL 30 GENNAIO


Il Sole 24 Ore Domenica 23.1.11
Storia e dispute
Ipazia profuma di mistica cosmica
di Franco Cardini


Non è certo un male che si torni a parlare di Ipazia, la bella e giovane filosofa e scienziata alessandrina uccisa ai primi del V secolo da una banda di fanatici cristiani. Se davvero il mandante fu il vescovo Cirillo, la cosa non è priva di rilievo e fonte di imbarazzo: Cirillo d'Alessandria è dottore della Chiesa e, soprattutto, è stato canonizzato.
Una donna giovane, bella, colta, intelligente fatta ammazzare è un tema troppo conturbante, troppo ghiotto, perché non vi si siano buttati sopra in tanti. A cominciare da Diderot e da Voltaire. Negli ultimi mesi, un film di Amenabar, Agorà, ha fatto discutere perché è sembrato che vi si adombrasse, con una certa superficialità, la tesi di Ipazia donna "moderna' avant la lettre, una specie di anticipatrice di Galileo e dell'illuminismo, vittima dell'eterno fanatismo fondamentalista.
Sull'argomento, che ha visto uscire parecchi saggi e anche un romanzo firmato da Maria Moneti Codignola, è fresco di stampa, il libro di Silvia Ronchey, bizantinista dell'Università di Siena e scrittrice di molti best seller.
Ipazia traccia un ampio e seducente quadro della vita culturale alessandrina ed ellenistico-romana del V secolo, ribadendo una volta di più che non si trattò per nulla di un secolo di "decadenza' e che non è affatto vero che il cristianesimo fu uno dei fattori determinanti di quella decadenza e di quella caduta, entrambi mai verificatesi.
Silvia Ronchey queste cose le dice da studiosa, senza l'aria di scoprir nulla di nuovo ma con la serena semplicità di una specialista che ha riconsiderato le fonti del Caso‑Ipazia e che intende esporlo inserendolo in un vivo contesto di fatti e d'idee.
Nell'Alessandria del V secolo la vita intellettuale, politica e religiosa era vivissima. E vero che qualche decennio prima i cristiani ispirati dal vescovo Teofilo erano riusciti a distruggere un museo‑biblioteca‑santuario come il Serapeion, ma i termini della contesa non erano affatto quelli dello scontro tra un paganesimo colto e lungimirante e un cristianesimo rozzo, ignorante e fanatico. Al contrario, esisteva un comune ambiente culturale nel quale si muovevano cristiani e pagani convivendo e discutendo, senz'ombra di odio o di pregiudizio, anzi con la consapevolezza che le loro differenti opzioni religiose appartenevano a una medesima civiltà, ch'essi condividevano. Accanto a esso v'era anche il cristianesimo duro e intransigente che si appoggiava a frequenti incursioni di monaci squadristi che provenivano dal deserto, nonostante le leggi teodosiane vietassero loro di dimorare in città. Ed esisteva una numerosa, ricca, colta, influente comunità ebraica, forse ben più dei pagani la vera concorrente del cristianesimo.
Silvia Ronchey inquadra il suo studio sulla personalità di Ipazia in questo contesto d'incontri e di tensioni. La scienziata‑filosofa finì col collocarsi obiettivamente al centro d'un gioco arduo e complesso, coprotagonisti del quale erano due suoi amici, allievi ed estimatori, il proconsole Oreste e un altro giovane esponente della Chiesa, Sinesio di Cirene, e un avversario, il vescovo Cirillo, ben deciso a ostacolare la convivenza tra religioni e visioni del mondo diverse nel nome della purezza della fede.
La Ronchey è convinta che Cirillo sia stato il mandante dell'assassinio di Ipazia e lo dimostra attraverso un'attenta escussione delle fonti. Non che ciò sgombri il campo a tutti i dubbi: del resto, molte sono le cose nella storia che tecnicamente è impossibile provare. Ma non è questo, a mio avviso, l'aspetto più interessante del libro: che invece ha soprattutto due meriti precipui.
Primo: traccia un profilo originale e interessante della "fortuna" culturale e letterale di Ipazia, chiedendosi anche perché il suo assassinio non sia annoverato fra le colpe di cui la Chiesa dovrebbe "chiedere scusa". Ipazia fa parte integrante d'una linea culturale limpida e robusta, che coinvolge cristiani e pagani e che giunge fino a Fozio, a Psello e, nel Quattrocento, a Gemisto Pletone.
Secondo: sottolinea che solo un gravissimo equivoco ha potuto fare di Ipazia una precorritrice del razionalismo moderno. Essa era una rappresentante del pensiero neoplatonico, con tutta la sua carica di misticismo cosmico. La sua contesa con Cirillo era quella tra due differenti visioni sacrali dell'universo e la vita, non la polemica tra un fanatico religioso e una scienziata illuminista. L'insistenza su questo dato non è merito dappoco, in quanto si oppone a tutte le anacronistiche rivisitazioni che d'Ipazia si sono ultimamente presentate e ricolloca la filosofa di Alessandria nel contesto storico che le compete.
Ipazia, la vera storia, Silvia Ronchey Rizzoli, Milano pagg. 318 t 19,00

Il Sole 24 Ore Domenica 23.1.11
Neuroscienze
Il cervello non ama i suoni stridenti
La musica è universale, ma il suo linguaggio no. Perché ci sono forme e tonalità che troviamo gradevoli e altre no?
di Arnaldo Benini


All'inizio del secolo scorso Arnold Schönberg era certo che da li a cinquanta anni la sua musica sarebbe stata fischiettata per le strade. Anche la musica di Beethoven, diceva, non fu capita tino al successo di Freude schöner Götterfunken. Scönberg è morto quasi sessanta anni fa e la musica dodecafonica sua e di Theodor Adorno, quella concreta di Karlheinz Stockhausen, i collage di rumori di Pierre Henri, le composizioni di Alban Berg, di Pierre Boulez non trovano accesso alla cultura di massa. Se si suona quella musica, hanno scritto i musicologi Christoph Drösser e Alex Ross, le sale si svuotano. Famoso, in Germania, è uno sketch su un pubblico allibito e disposto ad accettare, senza capirci nulla, qualsiasi non senso gli propini un musicista (www.hapekerlinghurz.de). La musica dodecafonica è nata contemporaneamente all'arte non figurativa, che, in tutte le sue espressioni ‑ anche quelle più sperimentali ‑ ha avuto successo dl critica, di pubblico e di mercato. Il critico musicale del «New Yorker» Alex Ross fa l'errore di credere che ciò dipenda dal non aver riservato all'inizio della nuova musica sale per i suoi concerti, analoghi al musei d'arte moderna. E lecito pensare che quelle sale sarebbero rimaste deserte. Thomas Mann registrava nel diario la musica che ascoltava. Egli lesse molto e parlò a lungo di musica dodecafonica con Strindberg e con Adorno durante il lavoro al Doktor Faustus, e non è inverosimile che l'abbia ascoltata. Di essa nel diario, accanto ai ricorrenti Verdi, Puccini, Mahler, Brahms, Bizet, e altri non si fa cenno. Nel 1954 la radio di Stoccarda trasmise, con un suo commento, la musica che più amava: di Wagner, Debussy, Schubert, Schumann, Beethoven.
I musicisti moderni esprimono la loro intuizione e il loro stato d'animo con suoni che la maggior parte dei cervelli percepisce con fastidio. Questo è uno dei dilemmi che la musica pone al biologo, oltre a quello se essa sia un adattamento evolutivo e un obiettivo della selezione naturale, come il linguaggio, o non piuttosto una tecnologia e una peculiarità incidentali del sistema nervoso, come pensava William James. Il libro di Anniruddh D. Patel, dell'Istituto di Neuroscienze di San Diego in California, è frutto di competenza musicale, linguistica e neuroscientifica e di ricerche interdisciplinari in ambito neuropsicologico, psicolinguistico, di etnologia musicale e di visualizzazione delle aree cerebrali. L'universalità della musica, e la specializzazione del cervello per certi suoi aspetti, non provano che le capacità musicali siano state un obiettivo diretto della selezione naturale, tanto più che la mente ‑ dice Patel ‑ non sembra essere stata particolarmente foggiata per la cognizione musicale. La musica non è un fronzolo dell'esistenza, perché essa appartiene a quelle cose inventate o scoperte dall'uomo per cambiare la vita (il fuoco, i numeri, il gioco degli scacchi, eccetera) delle quali non può fare a meno. La musica (come qualunque esperienza percettiva e mentale) ha la capacità di cambiare l'intima struttura del cervello, allargando certe aree o specializzandole per particolari conoscenze musicali, come le melodie. Le modificazioni del cervello possono avere aspetti inattesi. Una melodia può provocare particolari forme di attacchi epilettici in chi l'ascolta o la suona, un semplice rumore mai. La musica senza sintassi non è riconosciuta e anticipata nelle aree della percezione musicale che suscitano le successioni di emozioni e sentimenti della musica tradizionale. La musica senza sintassi, dopo quasi un secolo dai suoi inizi, non ha accesso alle strutture cerebrali dei centri musicali per la caratteristica che Adorno da lei pretende, vale a dire che non si appelli al "Lustprinzip", al principio del desiderio di emozioni e di piaceri delle forme melodiche. La musica è universale, anche se il suo linguaggio non lo è: la nostra scala di toni è altrettanto innaturale quanto quella della musica indiana e asiatica, che alle nostre orecchie suona, dicono i tedeschi, schräg, cioè sbilenca, come la nostra alle loro orecchie. Patel si sofferma sul condizionamento che la musica dell'ambiente in cui si nasce esercita non solo sull'artista ma anche sugli unici animali capaci di qualcosa che si avvicini alla musica, che sono gli uccellie le balene. Negli animali esistono prove sperimentali ditali condizionamenti.
I 12 filosofi, psicologi e sociologi autori del libro curato da M. Nudds e C. O'Callaghan si occupano delle caratteristiche spaziali e psicologiche del suono, del suono del linguaggio e della musica. Anche un semplice rumore può essere ricco di informazioni, Roger Scruton sostiene che un suono musicale non è una proprietà della sua sorgente, ma un evento oggetto di attenzione estetica perché ascoltare musica non significa ascoltare i suoni come tali. Andy Hamilton nega tale dissociazione. Pur senza riferimenti a dati sperimentali, i contributi di vari autori alla fenomenologia della percezione del silenzio, diversa dalla sordità come la visione del buio è diversa dalla cecità, sono quanto di più interessante su questo tema si sia letto negli ultimi anni. A conferma dell'esperienza con la IX sinfonia di Mahler nell'agosto scorso a Lucerna: i quasi due minuti di silenzio che Claudio Abbado ha aggiunto al finale tragico erano espressivi quanto la musica.

Music, Language And The Brain, Anniruddh D. Putel, Oxford University Press Oxford New York et al. 2008
Sounds and Perception. New Philosoohical Essays, Matthew Nudds, Casey o'Callaghan (Curat.) Oxford University Press Oxford New York et al. 2009

L'Osservatore Romano 23.1.11
Senza verità la politica è culto dei demoni
di Joseph Ratzinger

Nell'autunno del 1962 Joseph Ratzinger tenne una conferenza alla settimana della Salzburger Hochschule. Un breve estratto ne venne pubblicato nella rivista dei laureati cattolici "Der katholische Gedanke" (19, 1963, pp. 1-9) e una parte più vasta era stata già stampata in precedenza in "Studium Generale" (14, 1961, pp. 664-682). I due articoli vennero poi rielaborati nel volume Die Einheit der Nationen (1971), tradotto in Italia nel 1973 e ora riedito a cura del nostro direttore: L'unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa (Brescia, Morcelliana, 2009, pagine 120). Qui sotto pubblichiamo uno stralcio dell'ultimo capitolo del volume, l'introduzione del curatore e la recensione del libro scritta da uno dei maggiori studiosi di patristica e di storia del cristianesimo.

Come presso Origene, anche presso Agostino il punto di aggancio per la teologia della realtà politica risulta da una necessità della polemica. La caduta di Roma nell'anno 410 per opera di Alarico aveva chiamato in campo di nuovo la reazione pagana: dove sono mai le tombe degli Apostoli? si gridava. Essi manifestamente non erano stati in grado di difendere Roma, la città che era rimasta invitta finché si era affidata alla tutela dei suoi dèi patri. La sconfitta di Roma dimostrò con evidenza palmare che il Dio creatore, che la fede cristiana adorava, non si prendeva cura delle vicende politiche; questo Dio poteva essere competente per la beatitudine dell'uomo nell'aldilà; che non fosse competente per l'ambito della realtà politica, l'avevano appena mostrato efficacemente gli eventi. La politica aveva manifestamente la propria struttura di leggi, che non concerneva il Dio sommo, doveva quindi avere anche la propria religione politica. Ciò cui la massa aspirava, piuttosto per una sensibilità generale, voglio dire che, accanto alla religione elevata si dovesse dare anche una religione delle cose terrene, e specialmente di quelle politiche, era cosa che si poteva motivare pure più profondamente ancora partendo dalle convinzioni filosofiche dell'antichità. Bastava solo ricordarsi dello assioma del pensiero platonico formulato da Apuleio: "Tra Dio e l'uomo non v'è nessuna possibilità di contatto". Il platonismo era convinto nel senso più profondo della distanza infinita tra Dio e mondo, tra spirito e materia; che Dio si occupasse direttamente delle cose del mondo, doveva apparirgli del tutto impossibile. Il servizio divino per il mondo era curato da esseri intermedi, da forze di natura diversa, a cui ci si doveva attenere, quando si trattava delle cose di questo mondo. In questa accentuazione eccessiva della trascendenza di Dio, che significava segregarlo dal mondo, escluderlo dai concreti processi di vita d'esso, Agostino scorgeva a ragione il nucleo vero e proprio della resistenza contro la rivendicazione di totalità da parte della fede cristiana, che non poteva mai tollerare un'emarginazione della realtà politica dall'ordine dell'unico Dio. Alla reazione pagana che tendeva a una restaurazione del rango religioso della pòlis e in tal modo a relegare la religione cristiana dell'aldilà nell'ambito puramente privato, egli contrappose anzitutto due precisazioni fondamentali. La religione politica non ha alcuna verità. Essa poggia su una canonizzazione della consuetudine contro la verità. Questa rinuncia alla verità, anzi lo stare contro la verità per amore della consuetudine, è stata persino ammessa apertamente dai rappresentanti della religione romana - Scevola, Varrone, Seneca. Ci si assoggetta a pagare la tradizione con quanto si oppone alla verità. Il riguardo alla pòlis e al suo bene giustifica l'attentato contro la verità. Ciò vuol dire: il bene dello Stato, che si crede legato al persistere e sopravvivere delle sue antiche forme, viene posto al di sopra del valore della verità. Qui Agostino vede scoppiare in tutta la sua asprezza il contrasto vero e proprio: secondo la concezione romana la religione è una istituzione dello Stato, quindi una sua funzione, e come tale subordinata a esso. Non è un assoluto il quale sia indipendente dagli interessi dei gruppi che la rappresentano, ma è un valore strumentale rispetto allo "Stato" assoluto. Secondo la concezione cristiana, per contro, nella religione non si tratta di consuetudine ma di verità, che è assoluta, che quindi non viene istituita dallo Stato, ma ha istituito per se stessa una nuova comunità, la qua- le abbraccia tutti quanti vivono della verità di Dio. Partendo di qui, Agostino ha concepito la fede cristiana come liberazione: liberazione per la verità dalla costrizione della consuetudine. La religione politica dei Romani non ha alcuna verità, ma al di sopra di essa esiste una verità, e tale verità è che l'asservimento dell'uomo a consuetudini ostili alla verità lo pone in balìa delle potenze antidivine, che la fede cristiana nomina demoni. Perciò il servizio agli idoli ora non è, invero, solo uno stolto affaccendarsi senza oggetto, ma, consegnando l'uomo in balìa della negazione della verità, diviene servigio ai demoni: dietro gli dèi irreali sta il potere sommamente reale del demone e dietro la schiavitù alla consuetudine v'è il servaggio agli ordini degli spiriti malvagi. In ciò sta la vera profondità a cui scende la liberazione cristiana e la libertà conquistata in essa: liberando dalla consuetudine affranca da un potere, che l'uomo ha egli stesso dapprima creato, ma che di gran lunga si è levato al di sopra del suo capo e ora è signore su di lui; è divenuto un potere oggettivo, indipendente da lui, breccia d'invasione da parte della potenza del male come tale, che lo sopraffà, cioè dei "demoni". La liberazione dalla consuetudine per attingere la verità è emancipazione dalla potestà dei demoni che stanno dietro la consuetudine. In ciò il sacrificio di Cristo e dei cristiani ora diviene veramente comprensibile come "redenzione", cioè liberazione: elimina il culto politico opposto alla verità e al posto di esso, che è culto dei demoni, mette l'unico universale servizio alla verità, che è libertà. In ciò, il processo di pensiero di Agostino s'incontra con quello di Origene. Come questi aveva inteso l'assolutezza religiosa dell'elemento nazionale quale opera degli angeli demoniaci delle genti e l'unità sovranazionale dei cristiani come liberazione dalla prigionia contro il fattore etnico, così anche Agostino riporta la realtà politica nel senso antico, cioè la divinizzazione della pòlis, alla categoria del demoniaco e nel cristianesimo vede il superamento del potere demoniaco della politica, che aveva oppresso la verità. Anche per lui gli dèi dei pagani non sono vuote illusioni, ma la maschera fantastica, dietro la quale si celano potestà e dominazioni, che precludono all'uomo l'accesso ai valori assoluti, rinserrandolo nel relativo. E anch'egli nell'elemento politico scorge il dominio vero e proprio di queste potenze. È vero che Agostino ha riconosciuto il suo valore di verità all'idea di Evemero che tutti gli dèi siano stati in origine una volta uomini, cioè che ogni religione (dei pagani) poggi su una iperbolizzazione di sé da parte dell'uomo, ma ha visto al tempo stesso che l'enigma delle religioni pagane, con questa ammissione, non è affatto risolto. Le potenze, che apparentemente l'uomo fa scaturire e proietta da se stesso, presto si dimostrano oggettive ipostasi di potere, "demoni", che esercitano su di lui una signoria sommamente reale. Da esse può liberare solo Colui che ha potere su tutte le potestà: Dio medesimo. Se qui, a conclusione, ci chiediamo quale sia la risultanza complessiva dell'indagine, dobbiamo constatare che anche Agostino non ha tentato di elaborare qualcosa da intendere come la costituzione di un mondo fattosi cristiano. La sua civitas Dei non è una comunità puramente ideale di tutti gli uomini che credono in Dio, ma non ha neppure la minima comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo costituito cristianamente, bensì è un'entità sacramentale-escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo futuro. Quanto sia precaria la causa di un cristiano, glielo aveva mostrato l'anno 410, in cui veramente non erano stati solo i pagani a invocare gli antichi dèi di Roma. Così per lui lo Stato, pure in tutta la reale o apparente cristianizzazione, rimase "Stato terreno" e la Chiesa comunità di stranieri, che accetta e usa le realtà terrene, ma non è a casa propria in esse. Certo, la convivenza delle due comunità era divenuta più pacifica di quanto fosse ai tempi di Origene; Agostino non parlò più della cospirazione contro lo Stato "scitico"; ma ritenne giusto che i cristiani, membri della patria eterna, prestassero servizio in Babilonia come funzionari, anzi come imperatori. Mentre dunque in Origene non si vede bene come questo mondo possa proseguire, ma si percepisce soltanto il mandato di tendere allo sbocco escatologico, Agostino mette in conto una permanenza della situazione attuale, che ritiene tanto giusta per quest'età del mondo, da desiderare un rinnovamento dell'Impero romano. Ma rimane fedele al pensiero escatologico in quanto reputa tutto questo mondo un'entità provvisoria e non cerca perciò di conferirgli una costituzione cristiana, ma lascia che esso sia mondo, che deve tendere lottando a conseguire il proprio relativo ordinamento. In tal misura anche il suo cristianesimo, fattosi in modo consapevole legale, rimane, in un senso ultimo, "rivoluzionario", poiché non può considerarsi identico ad alcuno Stato, ma è invece una forza che relativizza tutte le realtà immanenti al mondo, indicando e rinviando all'unico Dio assoluto e all'unico mediatore tra Dio e l'uomo: Gesù Cristo.

domenica 23 gennaio 2011

l’Unità 23.1.11
La rivolta delle donne, 35mila firme


Sul sito dell’Unità continuano ad arrivare risposte alla sollecitazione del giornale. L’Italia si indigna
C’è un’Italia che non si piega, che non si rassegna, che guarda oltre la decadenza che alberga nel breve tratto tra Palazzo Grazioli e Palazzo Chigi con dependance ad Arcore. All’invito dell’Unità rivolto alle donne che non ci stanno ad essere omologate alle donne di Arcore, a dire no, si sono unite firme illustri non catalogabili come destra o come sinistra (anche se moltissime di sinistra). Ogni giorno. E in pochi giorni la rivolta delle donne, come l’abbiamo chiamata ha portato fino a ieri
sera a 35mila firme. Abbiamo sollevato un nervo scoperto. Il nervo scoperto di tutte quelle persone che non vogliono continuare ad assistere immote al disfacimento totale di questo Paese nelle mani del drago, così come lo ha definito la moglie prima di avviare la separazione, Veronica Lario, che quasi due anni fa lanciò un messaggio di allarme a tutto il Paese, di un problema che non era solo il suo, ma che l’evidenza dei fatti odierni testimonia essere il nostro, di tutti noi. Dimostriamo che c’è un’altra Italia, certifichiamolo con le nostre firme, in prima persona. Questo stanno facendo e hanno fatto le migliaia di donne che hanno lasciato il loro nome e cognome sul sito dell’Unità (www. unita.it) e di tutte le altre che decideranno di farlo. In alto le risposte di donne conosciute sul perché hanno firmato l’appello e su cos’altro si deve fare.

l’Unità 23.1.11
Veltroni rilancia quaranta mesi dopo il «battesimo». Bersani «non vede distanze con Walter»
«Italia sull’orlo del precipizio: subito un nuovo governo, e se non fosse possibile al voto per vincere»
Al Lingotto il Pd ritrova l’unità «Così torneremo a vincere»
In un momento «drammatico per il Paese», dal Lingotto riparte un Pd «più unito», con proposte dei Modem che la maggioranza condivide. Con la voglia di parlare ad un vasto elettorato e diventare forza di governo.
di Maria Zegarelli


È il giorno del ritorno di Walter Veltroni, di nuovo qui al Lingotto di Torino dove tutto iniziò quel giugno del 2007, ma nulla è più come allora. Allora delineò il profilo del partito democratico e lanciò la sua candidatura alle primarie, oggi ri-
lancia il progetto del Pd da leader della minoranza interna e l'appuntamento, che rischiava di essere un punto di rottura, diventa l'occasione di una ritrovata unità del partito nell'obiettivo di mandare a casa Silvio Berlusconi. Anche a costo di nuove elezioni che nel Pd nessuno vuole davvero. Concorde l'analisi di Veltroni e del segretario Pier Luigi Bersani sul punto: l'Italia è sull'orlo del precipizio, un momento «drammatico», lo definisce il leader Pd, per i colpi di coda di un premier che vede il suo tramonto e lo combatte con tutto il suo potere mediatico, economico e politico a costo di mettere a rischio le stesse istituzioni che rappresenta. Piena la sala Gialla del Lingotto, piena quella Azzurra aperta per contenere le migliaia di persone arrivate già dalle prime ore del mattino. Applauso convinto quando Veltroni dice «basta sentirsi ex di qualcosa», chiudiamo con il Novecento, entriamo nel nuovo Millennio e accettiamo la sfida della modernità, dell'innovazione, «superiamo i conservatorismi di destra e di sinistra». Veltroni sceglie la linea del dialogo e della proposta, Bersani la coglie, alla fine della giornata i commenti sono unanimi: un passo in avanti di tutto il partito.
Ma i distinguo restano e aspettano la prova dei fatti per capire se davvero il Pd può vincere la sua sfida. Bersani nota: «Sulla proposta politica non c'è lontananza, il partito è pronto alla battaglia che il paese ci chiede». Ed eccola la battaglia: «Un nuovo governo, non un ribaltone, che comprenda tutte le forze parlamentari, con un premier che sappia garantire un clima istituzionale nuovo», ma se questa strada non fosse percorribile, dice l'ex segretario, e se la prospettiva dovesse restare «la livida prosecuzione di un governo al tempo stesso inesistente e pericoloso, con un ulteriore imbarbarimento della situazione nazionale», allora «le opposizioni, unite, dovrebbero chiedere le elezioni». «Noi siamo pronti – assicura Bersani – e in quel caso vinceremo». Già, a patto di dirci «la verità – incalza Veltroni -, oggi gli italiani non credono ancora che da noi e più in generale dal centrosinistra, possa giungere la risposta ai loro problemi». Dunque bisogna proporre «un progetto coraggioso di cambiamento e una proposta di governo autorevole» per riconquistare «menti e cuori» degli italiani per tornare ad essere «il primo partito del paese». Tre le condizioni per farcela: non opporre al populismo di destra un populismo di sinistra; affrancarsi dall'illusione della coazione “a ripetere la fatica di Sisifo di costruire schieramenti eterogenei” ed avere il coraggio dell' innovazione. Veltroni lancia l'Agenda Italia 2020, “facciamo come la Germania” un pacchetto “di riforme chiare e precise” per far si che in un decennio si dimezzi il debito pubblico (portandolo all'80%), cresca la produttività e si consenta il risanamento finanziario, in «un contesto di maggiore giustizia sociale e di sostenibilità ambientale». Riduzione della spesa corrente, carriere e stipendi legati al risultato – anche per Marchionne -; valorizzazione del patrimonio pubblico; detassazione degli stipendi delle donne, delle partite Iva e individuazione di una no tax area per le famiglie. Rilancia un sistema forte di flexicurity, nuove relazioni sindacali e ridefinizione delle regole di rappresentanza, più contrattazione collettiva e partecipazione dei lavoratori alla vita dell'azienda. Paolo Gentiloni lo definisce il Manifesto del partito democratico, «il Lingotto, la nostra Pontida».
«Non dobbiamo essere come Ulisse, che ha nostalgia della propria terra – esorta Veltroni -, ma come Abramo, aperto alla speranza di terre nuove e cieli nuovi» e non rinunciare alla vocazione maggioritaria. «Non ho mai avuto dubbi – replica Bersani sull'esigenza di un autonomo profilo del Pd , ma dentro un meccanismo gravitazionale, un partito che ha un progetto ed è attrattivo in diverse direzioni». Ma la riscossa democratica ha bisogno di molti attori, da qui l'appello del segretario alle «élite del paese», intellettuali, economiche, imprenditoriali: «Chi sta zitto oggi non so come potrà parlare domani».

l’Unità 23.1.11
Ruby compatta il Pd
Una tregua al Lingotto ma le differenze restano
Col premier-gate e le intercettazioni si ricuce lo strappo del Movimento democratico: restano le distanze con la direzione, ma Bersani e Veltroni si lanciano segnali di pace e apprezzano le loro reciproche disponibilità
di Simone Collini


Bersani e Veltroni ne hanno discusso quando è iniziato a trapelare il contenuto delle intercettazioni sulle notti del premier: con la possibilità che si vada ad elezioni anticipate, l'unità del partito non va messa in discussione. E così la giornata del Lingotto 2 si chiude senza le tensioni e le polemiche registrate alla Direzione del Pd di due settimane fa. Ma le distanze tra la segreteria e la minoranza di Movimento democratico restano. Così come fanno un certo effetto gli applausi tiepidi con cui questa platea ragionevolmente composta da militanti e simpatizzanti del Pd saluta il segretario al suo arrivo, o gli risponde quando parla al microfono. E anche gli interventi dell'ex e dell'attuale leader del Pd, al di là dei reciproci apprezzamenti («il bell'intervento di Walter», dice Bersani, «ho apprezzato la disponibilità e l'apertura del segretario», dice Veltroni), in più passaggi sono rivelatori del fatto che quella siglata nel Pd potrebbe essere soltanto una tregua.
Veltroni, al di là delle proposte programmatiche su cui centra il suo intervento, non risparmia una critica a chi a lungo «non noi – precisa riferendosi a Movimento democratico – ma nel nostro partito ha pensato che potesse essere una tradizionale strategia delle alleanze a sopperire al nostro calo di consensi: oggi è chiaro a tutti che non è così». Quando interviene poco dopo, Bersani assicura che ascolterà ogni contributo, ma che sarà poi lui a dare la linea: «Avrò un dialogo amichevole con tutti perché so che il mio compito, in quanto segretario, è garantire dignità politica ad ogni posizione nel partito e poi costruire una direzione di marcia univoca. È il mio compito – ripete – è faticoso e bello». Veltroni torna a sottolineare
che «senza la vocazione maggioritaria e senza il bipolarismo il Pd non sarebbe se stesso» e che sarà solo «la forza delle nostre proposte, del nostro programma, ad attrarre chi diventerà nostro alleato»: «Non saremo noi a rincorrere chi magari, poi, alla fine, ci direbbe no». Non parole generiche ma una critica che nei giorni scorsi la minoranza ha esplicitamente rivolto alla segreteria. Bersani disinnesca la minaccia di frizioni dicendo che non vede «lontananze politiche e politiche e programmatiche», anche perché lo stesso Veltroni in un passaggio aveva detto che non bisogna compiere l'errore del '94, quando una divisione nel fronte progressista aprì la strada al ciclo berlusconiano. Però mette i puntini “i”, precisando: «Io non ho mai avuto un dubbio sul compito del Pd, sul suo autonomo profilo. Nella mia testa non c'è mai stata l'idea di una divisione dei compiti», ovvero di rappresentare l'elettorato di sinistra lasciando all'Udc quello di parlare alle fasce di elettori di centro. «Il Pd è ineludibile, indispensabile, ma non voglio che questo appaia come esclusiva. Questo significa che noi dobbiamo essere capaci di ragionare e di fare una proposta per noi ma non solo per noi».
E ancora: Veltroni non fa neanche un accenno alla campagna di mobilitazione lanciata in questi giorni dal segretario, la raccolta di dieci milioni di firme per chiedere a Berlusconi di presentare le dimissioni. E Bersani, al di là di generici apprezzamenti, non entra nel merito delle proposte avanzate dall'ex segretario, rimandando la discussione all'Assemblea nazionale che si terrà a Napoli il prossimo fine settimana.
E potrebbe essere proprio l'appuntamento di venerdì e sabato il terreno in cui sperimentare se quella siglata al Lingotto sarà una tregua solida. Anche perché qualche esponente di Movimento democratico già anticipa che vuole vedere se le «aperture» mostrate ieri dal segretario avranno o meno delle conseguenze concrete sul piano programmatico.

Repubblica 23.1.11
Ritorna in scena il Partito Democratico
di Eugenio Scalfari


È MOLTO difficile in queste settimane di tensione politica, giudiziaria, mediatica, che ci sia in Italia un evento tale da esimerci dallo scandalo Berlusconi. Se ne è dovuto occupare, nel linguaggio appropriato che è quello della più alta istituzione dello Stato, il nostro Presidente della Repubblica e se ne è dovuto occupare addirittura il Papa. E ovviamente se ne occupano i giornali per soddisfare il legittimo diritto dei loro lettori ad essere informati.
Ieri Ezio Mauro ha indicato ancora una volta la linea del nostro giornale: a noi non interessano i comportamenti privati delle persone che rientrano nell´ambito della loro libera scelta; a noi interessano i comportamenti non saltuari ma ripetuti fino a esser diventati uno stile di vita d´un uomo pubblico, anzi del più importante degli uomini pubblici, che sono inevitabilmente di (cattivo) esempio all´insieme dei cittadini e che contrastano con l´articolo 54 della Costituzione secondo il quale il rappresentante di un´istituzione deve tenere alto il decoro dell´ente che rappresenta.
Voglio qui citare le parole con le quali Walter Veltroni ha aperto ieri il suo discorso al Lingotto di Torino, dedicate proprio a questo tema, perché in quelle parole ci riconosciamo interamente: «Un uomo di governo che minaccia i giudici che lo indagano: sono le agghiaccianti parole pronunciate da Berlusconi nell´ultimo suo messaggio televisivo».
«Ciò che dava più dolore – ha aggiunto Veltroni – è che quella espressione minacciosa sulla "punizione" dei magistrati veniva pronunciata davanti alla bandiera tricolore. Nessuno può dimenticare che per difendere l´onore di quella bandiera e di questa nazione molti magistrati hanno dato la vita. La situazione in cui l´Italia si trova è davvero grave e pericolosa. Il presidente del Consiglio è accusato non di comportamenti ma di gravi reati. Egli sostiene per l´ennesima volta che solo di fandonie e di complotti si tratta. Ma non lo deve dire in Tv facendosi scudo del suo ruolo e utilizzando il suo impero mediatico. Deve dirlo ai magistrati, come ogni cittadino».
Ho citato Veltroni perché l´evento sul quale mi sembra doveroso oggi riflettere e commentare è il suo discorso, la risposta di Bersani, l´ingresso – finalmente – del Partito democratico in un´arena politica dove finora era mancata la presenza della maggiore forza d´opposizione. Quest´assenza suscitava sconcerto e turbamento, molti davano per liquidato il riformismo democratico italiano e il vuoto che a causa di quell´assenza si stava creando rendeva ancor più difficile lo sblocco d´una situazione sempre più insostenibile.
Ieri questo vuoto è stato colmato o almeno sono state poste le premesse perché lo sia. Con lucidità di pensiero e con fermezza d´intenti. La maggior forza d´opposizione è finalmente entrata in campo con un obiettivo e un programma. Ora il quadro è finalmente completo ed è questo che dobbiamo esaminare: la sua efficacia, la sua capacità di modificare gli equilibri e di sanare gli squilibri, l´accoglienza che potrà ricevere da un Paese turbato, insicuro, arrabbiato.
* * *
Una prima osservazione riguarda la riapparizione di Veltroni sulla scena politica dopo due anni dal Congresso del 2008 e un anno dalle dimissioni da segretario del partito.
Ha parlato da leader, con la passione e l´eloquenza d´un leader ed anche con il senso di unità e di generosità che un leader deve avere, il desiderio di fare squadra, di rilanciare una scommessa all´insegna del cambiamento. «Dobbiamo uscire dal Novecento», ha detto e ripetuto più volte e più volte ha cercato di scrollare di dosso il fin qui diffuso rimprovero che veniva mosso al Pd e a tutta la sinistra, d´essere paradossalmente diventato una forza conservatrice anziché innovativa.
«Non ci potrà mai essere una forza più radicale della nostra» ha detto «perché più radicale del nostro riformismo non ci sarà nulla e nessuno». E citando Mark Twain: «Tra vent´anni sarete più delusi per le cose che non avrete fatto che per quelle che avrete fatto. Quindi mollate le cime. Allontanatevi dal porto sicuro. Prendete i venti con le vostre vele. Esplorate. Scoprite. Sognate».
La platea del Lingotto e probabilmente i democratici militanti e i tanti diventati indifferenti o addirittura ostili per delusione subita, è questo che aspettavano: non di perenne attracco ai porti dove impera il politichese, la conservazione dell´esistente, le rivalità tra capi e capetti, tra galli e galletti, ma il coraggio di fronte alle novità e la capacità di affrontare il mare aperto.
Bersani è un uomo concreto. D´Alema un politico fine. Franceschini un combattente esperto. Enrico Letta un abile diplomatico. All´interno di un recinto. Veltroni ha anche lui queste qualità insieme ai difetti che in tutti rappresentano l´altra faccia dei punti di forza; ma possiede un "in più" che nessuno degli altri ha: è capace di evocare un sogno. Non il sogno dell´utopia, ma quello che emerge dalla realtà.
Si discute spesso del carisma e della sua definizione. Spesso il carisma sconfina nel populismo ed è quello di Berlusconi. Ma ci fu il carisma di De Gasperi, che certo non era un populista, e quello di Berlinguer, quello di Ugo La Malfa, quello di Craxi, quello di Pertini. C´è stato uno specialissimo carisma di Ciampi e quello di Romano Prodi e quello, impalpabile perché volutamente privo d´ogni retorica, di Giorgio Napolitano.
Ebbene, c´è anche un carisma di Veltroni: il realismo che evoca il sogno di un´Italia nuova e di una nuova frontiera. Veltroni ha ricordato nel suo discorso Roosevelt e Luther King e la nuova frontiera kennedyana. Potrà funzionare oppure no il suo carisma, ma nel Pd oggi è il solo che possieda quel requisito e se non lo saprà usare la responsabilità sarà soltanto sua.
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Le sue proposte politiche, economiche, sociali, sono state "offerte" come suggerimenti al gruppo dirigente e agli organi del partito, dei quali si è ben guardato dal mettere in discussione il ruolo. Ma erano suggerimenti così precisi e circostanziati, così "oltre" il politichese corrente da costituire un programma e una strategia.
A partire dall´Europa, che non deve e non può diventare uno Stato, ma deve però esprimere un governo che guidi l´economia del continente e un Parlamento che sia eletto direttamente da tutti i cittadini dell´Unione.
E poi: una politica economica che abbia come obiettivo la crescita, la cultura, la ricerca; una politica finanziaria volta alla riduzione del debito pubblico; un patto con i ceti abbienti per farli contribuire al finanziamento necessario a ridurre il debito con un prelievo patrimoniale diluito in tre anni così come fu fatto nel 1998 con la tassa per l´ingresso nell´euro; una politica dei redditi in favore delle donne, delle famiglie, dei giovani, dei lavoratori, delle partite Iva, delle imprese, ottenuta con sgravi concretamente indicati; il federalismo visto come autonomia delle comunità. «L´Italia – ha detto con molta efficacia – è la comunità delle comunità, un Paese molteplice, la cui molteplicità può essere una grande ricchezza o una grande sventura ma che comunque non potrà mai esser cancellata perché è iscritta da secoli nella nostra storia».
Ha detto anche parole molto chiare sul caso Marchionne, l´altro evento che ha fatto irruzione nella nostra immobile economia. Un´irruzione positiva secondo Veltroni, che ora però dovrà dimostrare la sua capacità di vincere la sfida del mercato con nuovi modelli di auto, nuovi investimenti, un piano industriale adeguato associando però i lavoratori al controllo e alla partecipazione nell´azienda agli utili ed anche al capitale e assicurando la rappresentanza di tutti i lavoratori senza discriminazioni.
Infine la lotta alla mafia e alla corruzione, indicando anche qui gli strumenti concreti per renderla efficace.
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C´è stata, nel discorso di Veltroni, anche un´apertura a Vendola, un invito a collaborare e a non chiudersi nei veti, nel massimalismo e nell´utopia. In realtà quell´apertura è stata possibile perché Veltroni – così penso io – è il solo nel Pd che possa ridimensionare Vendola. Anche il governatore con l´orecchino è portatore d´un sogno. Se si confronta soltanto col politichese, il sogno di Vendola vince anche se isolerebbe la sinistra in una presenza puramente testimoniale. Ma se il sogno vendoliano e la sua "narrazione poetica" si confronta con un sogno che emerge dalla realtà, allora l´orecchino non basta a fare la differenza anche se può dare un contributo ad un riformismo "ben temperato".
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La risposta di Bersani è stata una presa d´atto all´interno della cornice indicata da Veltroni. Una presa d´atto coraggiosa e costruttiva, l´invito a fare squadra e a vitalizzare le strutture del partito, rinnovandole se necessario, spronando i democratici alla battaglia.
Bersani ha un suo modo di parlare paesano e colloquiale. Dopo il discorso di Veltroni così teso e intenso, faceva uno strano effetto, di quelli che spesso Crozza provoca quando lo imita a "Ballarò". Uno strano effetto ma molto positivo, di chi ricorda che un partito è comunque lo strumento di filtraggio sia della realtà sociale sia del sogno d´una nuova frontiera. Ma su questo non c´era contrasto con Veltroni, che aveva concluso il suo discorso con l´elogio della politica, quella praticata con la maiuscola, come il solo strumento che consenta la realizzazione del bene comune.
Oppure del male comune, come quello in cui il Paese è sprofondato e dal quale deve riemergere se vuole ancora avere un futuro.

l’Unità 23.1.11
Ruby, gli adulti e quelle cicatrici che ti condizionano la vita
Le violenze sui minori lasciano segni profondi nell’anima e nei comportamenti futuri. Purtroppo c’è sempre chi se ne approfitta. Indispensabile rivolgersi a un centro specializzato di terapia
di Luigi Cancrini


Chi lavora con i minori abusati sa che la rivelazione dell’abuso è difficile e dolorosa. E, soprattutto, ha conseguenze laceranti per chi la compie. Si scontra con l’incredulità e il fastidio di quelli a cui si tenta di raccontare e apre contraddizioni insanabili fra gli adulti che si occupano del minore alienandogli, a volta per sempre, l’affetto degli adulti di cui ha più bisogno. Lo espone alla curiosità professionale dei periti e all’aggressività senza limiti degli avvocati nel corso dei processi in cui quella che viene esposta è prima di tutto una vergogna che ricade su di loro oltre che sulla loro famiglia: continuamente creando la possibilità di una ritrattazione che può fermare il processo ma non il disprezzo che ancora più pesantemente ricadrà su chi la mette in opera.
LA VITA DEI MINORI ABUSATI
I minori abusati e non curati al tempo in cui l’abuso fu perpetrato, vanno incontro regolarmente a problemi gravi nel corso della loro vita adulta. I comportamenti sessualizzati e, un po’ più avanti, la promiscuità sessuale sono segni tipici della disarmonia che accompagna il loro sviluppo, tossicodipendenza e prostituzione sono complicanze frequenti di questa disarmonia. Quella che si sviluppa nel tempo, infatti, è una tendenza forte a muoversi in modi che sono insieme trasgressivi e autopunitivi: dando spazio in modo più o meno disordinato alla rabbia per quello che hanno subito e al senso di colpa che comunque a quelle esperienze “vergognose” si lega.
RUBY
La storia di Ruby così come emerge dalle cronache e dalle sua stessa testimonianza è, da questo punto di vista, una storia tremendamente banale. L’abuso a nove anni da parte degli zii, il silenzio della famiglia, le fughe da casa e dalle Comunità, l’utilizzo disinvolto del proprio corpo (“ero il suo culo” dirà parlando di Berlusconi) per avere di volta in volta soldi e un po’ di affetto, affetto e un po’ di soldi, l’alternarsi di comportamenti trasgressivi e autopunitivi. Fino al momento in cui le sembra possibile, finalmente, avere una quantità di soldi, di ammirazione e d’importanza su cui poche delle persone come lei possono contare: l’incontro con “papi”, l’uomo anziano accecato dalla paura di essere vecchio fino al punto da prendere sul serio le manifestazioni di affetto di una ragazzina e indementito dal narcisismo fino al punto da credere di essere davvero, per lei, un benefattore.
L’UTILIZZATORE FINALE
È in questo contesto che si sviluppa l’incontro di Ruby con “papi” a cui viene presentata da due dei fedeli servitori di quest’ultimo: il giocatore d’azzardo e il manager senza scrupoli di ragazze e ragazzi che ostentano il loro corpo sulla linea grigia che così spesso divide il mondo dello spettacolo minore da quello della prostituzione. Fidati, ambedue, perché da lui generosamente retribuiti con soldi o incarichi prestigiosi. Ma imprudenti stavolta per eccesso d’avidità perché la minore età di Ruby dovrebbe essere nota a loro prima che a lui e perché se lei, come è possibile, gli piacerà, il rischio che si corre è davvero alto: una persona che soffre di una dipendenza da sesso non può più distinguere, nel momento dell’eccitazione, il lecito dall’illecito.
IL DOPO
L’incontro fra due avidità non è un incontro fra due persone. È un incontro che si nutre all’inizio di un entusiasmo un po’ forzato e che si scioglie poi nella soda caustica della necessità di negarlo. L’incontro (sessuale) non è mai avvenuto, dirà lui che altrimenti dovrebbe dimettersi e accettare il trasferimento da Arcore (o da Palazzo Chigi) a San Vittore e lo stesso un po’ più tardi dirà lei che accuratamente, tuttavia, dissemina in varie conversazioni le prove del rischio che lui correrebbe minacciandola o facendola passare per pazza (precedente illustre è quello di Mussolini con Ida Dalser). Reso più duro, lui, dalla conoscenza ormai non più evitabile del disprezzo, degli imbrogli, del fastidio e dell’umorismo di cui le sue battute da scemo del villaggio, le sue “canzoni” e le sue debolezze lo rendono oggetto anche fra quelli che le coltivano e le favoriscono (o le sfruttano) e resa più dura, lei, dalla verifica non certo inaspettata dell’aridità desolante di un uomo che fa sesso con il tuo corpo ma a cui nulla importa della persona che c’è dentro. Come al tempo dei tuoi nove anni.
RIFLESSIONE PSICHIATRICA
Poiché è questo il mio mestiere, quella che non posso esimermi dal fare è una riflessione sulla patologia da cui tutto questo proviene e che tutto questo ulteriormente amplifica. Sui meccanismi difensivi tutti centrati sulla negazione collusivamente utilizzati da due persone unitamente che li muovono. Avesse il coraggio splendido di altri che lo hanno fatto, mi piacerebbe poter dire a Silvio: dimettiti e inizia un lavoro di terapia. Con il coinvolgimento e l’aiuto, magari, di Veronica. Avesse la forza di capire che è per il suo bene e per la sua vita, mi piacerebbe poter dire a Ruby: rivolgiti ai terapeuti di un centro come il Tiama di Milano e l’Hansel e Gretel di Torino cercando una cura, lì, per l’antica ferita che ancora ti condiziona. Un consiglio di cui so, tuttavia, che difficilmente verrà accettato perché la forza della negazione è molto superiore, ancora, a quella della ragione e del bisogno di ritrovare un equilibrio sano. Un consiglio, tuttavia, da cui non posso esimermi nel momento in cui penso al vuoto e all’infelicità profonda e negata che la clinica mi ha insegnato a intravedere dietro le maschere comportamentali degli abusati e dei loro carnefici. Iniziali e finali.

Corriere della Sera 23.1.11
Il «sexgate» non toglie voti al centrodestra
Pdl stabile sul 30%. Ma un italiano su due pensa che Berlusconi debba dimettersi
di Renato Mannhemer


L o scandalo del «sexgate» che ha coinvolto Silvio Berlusconi occupa da giorni le prime pagine dei giornali. Alla televisione si sono ogni giorno succeduti i talk show sull’argomento. Tutti discutono sull’ondata di accuse infamanti che è stata riversata, a torto o a ragione, contro il presidente del Consiglio. Tanto che in molti ne hanno chiesto le dimissioni o, comunque, l’immediata disponibilità — da lui per altro sin qui rifiutata— a presentarsi davanti ai magistrati. Si tratta di uno degli episodi di più violenta messa in discussione della credibilità del Cavaliere. Ciononostante, la distribuzione delle intenzioni di voto non ha subito, in questo stesso periodo, alcun mutamento particolarmente significativo. Il Popolo della Libertà rimane stabile attorno al 30 per cento (con una variazione minima, addirittura di lieve crescita, rispetto alla settimana scorsa). Anche la Lega appare assestata tra il 10 e l’ 11 per cento, analogamente a quanto rilevato negli ultimi mesi. Ci si può domandare il perché di questa apparentemente incomprensibile stabilità, malgrado la tempesta mediatica in corso. Il fatto è spiegabile da una pluralità di motivazioni, tra le quali due appaiono prevalenti. Per un verso, gli elettori di centrodestra appaiono in larga misura già assuefatti alle notizie sullo stile di vita del premier. Il suo interesse per le giovani donne era già emerso, seppure con minore clamore e in assenza dell’interesse della magistratura, mesi fa, anche allora senza effetti rilevanti sulle intenzioni di voto. D’altro canto, soprattutto, i medesimi elettori — anche quelli potenzialmente più mobili e collocati al centro dello schieramento politico— non vedono alternative praticabili alla loro opzione precedente e finiscono, più o meno volentieri, con il confermare la loro fiducia al Cavaliere o, meglio, al Pdl, guardando magari ad altri leader al suo interno. Senza che l’opposizione o il terzo polo riescano a persuaderli. È questo il motivo per cui anche l’elettorato cattolico — che pure dovrebbe essere più sensibile agli ultimi avvenimenti— non appare avere mutato più di tanto le proprie preferenze. Insomma, per una serie di motivi (tra i quali la difficoltà a comunicare proposte chiare e persuasive e la scarsa presa mediatica della leadership), l’opposizione — e il Partito democratico in particolare, come ha bene dimostrato Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore di ieri — non riesce ad accreditarsi come una proposta credibile e attraente. Tanto che malgrado le difficoltà in cui si trova — o si dovrebbe trovare — la maggioranza, il partito di Pier Luigi Bersani, rimane debole e oscilla tra il 24 e il 25 per cento a seconda dei sondaggi. La fragilità del consenso elettorale del Pd lascia spazio specialmente alla crescita della formazione di Nichi Vendola che supera nettamente il 7 per cento, ma continua ad attrarre solo una porzione minoritaria dell’elettorato di sinistra. E, come si è detto, anche il terzo polo stenta sin qui a conquistare la fiducia degli indecisi. I quali, però, crescono in numero, superando il 40 per cento. Segno dell’estendersi della perplessità e, in certi casi, del disorientamento, sia pure in assenza di mutamenti significativi nelle intenzioni di voto. La similitudine del panorama odierno delle opinioni politiche degli italiani rispetto ai mesi passati è confermata anche dalla distribuzione degli orientamenti sull’ipotesi di dimissioni del premier. La quota di quanti auspicano questa scelta si è accresciuta nell’ultimo anno, ma, nella sostanza, si ripropone lo scenario consueto: un Paese spaccato a metà tra chi ritiene che le dimissioni siano indispensabili (49 per cento) e chi, solo un po’ meno, (45 per cento) manifesta la posizione opposta. Come è ovvio, i diversi pareri sono motivati soprattutto dalla posizione politica (anche se si registra qualche eccezione: il 13 per cento degli elettori leghisti invita Berlusconi a dimettersi e, sull’altro fronte, il 18 per cento dei votanti per il Pd suggerisce che continui a svolgere le sue funzioni). Il fatto che la maggioranza opti per l’abbandono della carica è determinato dalla posizione prevalentemente antiberlusconiana dell’elettorato di centro e del Futuro e libertà in particolare. Tutto (quasi) come al solito. L’effetto principale degli avvenimenti di questi giorni è dunque per ora solo questo: un ulteriore distacco dalla politica e un accrescimento dell’indecisione e della tentazione di astenersi.

Repubblica 23.1.11
Rabbia, sogni e fantasia a Marghera va in scena la Woodstock dei movimenti
Dagli studenti ai No Dal Molin, tutti i volti della protesta
In migliaia alla due giorni di dibattiti. "Dopo la rivolta d´autunno non si torna indietro"
di Corrado Zunino


ROMA - In un centro sociale ai confini del petrolchimico di Marghera si scopre che la grande protesta italiana, innervata nel caldo autunno del 2010, non si è spenta in questo gennaio in cui gli operai hanno incassato l´onorevole sconfitta di Mirafiori e gli universitari inghiottito la legge Gelmini che riforma gli atenei pubblici. Attorno a questi due protagonisti della scena pubblica - i sindacalisti e gli operai della Fiom da una parte, gli studenti medi e universitari insieme ai ricercatori dall´altra - si sono dati appuntamento al Rivolta Pvc i movimenti sociali del paese. "Uniti contro la crisi", è il cartello comune. Ieri e oggi: due giorni di racconti e progetti, parole e cene collettive.
Sono venuti ai confini del petrolchimico di Venezia i comitati vicentini in conflitto con il progetto di una base Nato nel quartiere Dal Molin, dietro la basilica palladiana. Un viaggio più lungo lo hanno affrontato "quelli" dei rifiuti campani. Vivono intorno alle discariche di Chiaiano, Marano, Terzigno e sono contro, violentemente contro, gli inceneritori «che producono diossina». Da Roma periferia sono saliti gli occupanti di Action, loro prendono case vuote per darle agli sfrattati. Ci sono i lavoratori dello spettacolo. Gli Zero punto Tre che hanno appena occupato il Teatro Metropolitan nel centro della capitale, cinema d´essai vicino alla chiusura, ed esponenti del movimento Centoautori. Monopolizzò l´attenzione all´ultimo Festival di Roma.
Ai tre workshop di Marghera si sono iscritti in milleseicento. Al centro sociale Rivolta, nato nel ´93 sotto la guida del disobbediente Luca Casarini, trasformato nel tempo in un bunker tecnologico con una mensa da duemila posti, si ascolta l´economista Guido Viale parlare «dell´irrealizzabile modello Marchionne». E il segretario Fiom Maurizio Landini chiamare i precari di tutta Italia: «Venerdì prossimo sciopereremo in venti città, studenti e ricercatori affiancateci, costruiremo una primavera di resistenza». In serata si vede Fausto Bertinotti. Non c´è Nichi Vendola, verso il quale si sono avvicinati diversi vecchi "no global", alcuni "indisponibili" di questa stagione. La Sala Open Space è dedicata al lavoro, la Nite Park al collasso ecologico, ma è nella Sala Hangar che vecchie parole trovano stili da ultima generazione. Seggiole in circolo, si ascolta Naam, studentessa italo-inglese. Racconta l´assalto alla limousine di Carlo e Camilla nel cuore di Londra e rivela: «Il movimento italiano ci ha offerto ispirazione quotidiana, lo abbiamo studiato su Internet scoprendo i book-block e le prese dei monumenti. Come voi, abbiamo perso: le tasse universitarie sono salite a novemila sterline. Ma non ci scoraggiamo, siamo parte di un movimento di ribellione europeo, Grecia, Francia, Albania, un movimento mondiale, Algeria, Tunisia». Gli appunti del suo discorso stanno tutti sul palmo della mano sinistra.
Da Roma sono arrivati un pullman e dieci auto. «Non vogliamo banche nei nuovi atenei e potremmo opporci alla Gelmini con un referendum». La pratica dell´agire comune, si ascolta. La difesa del pubblico. Dopo vent´anni di riflusso, un isolamento che ha tagliato le gambe alle Pantere, alle moltitudini No global, ora la Generazione Precaria ha trovato il collante naturale con chi li ha preceduti: in nome di una paura comune, la precarietà eterna, gli studenti medi si sono alleati con gli universitari, gli universitari con i ricercatori, tutti con gli operai. A Pisa si studiano azioni comuni con i lavoratori della Piaggio, ad Ancona con quelli della Fincantieri. "Generazione P." è entrata nella società, è bastato un autunno caldo. Gli universitari di Napoli hanno creato il primo centro sociale del movimento, "Ribelle Zero". Le facoltà partoriscono nuove band musicali, i locali di riferimento invitano poeti per serate contro l´oblio. E a Marghera, ecco, il movimento studentesco ha ricucito con i padri: uniti contro la crisi. Già, «dopo questo autunno non si torna più indietro».

Corriere della Sera 23.1.11
Rama: «Non ci fermeremo Vogliamo libere elezioni»
«Siamo contro la violenza, ma la gente è furiosa»
di Paolo Salom


TIRANA — Di fronte alla sede del Partito socialista, un trionfo di rosso che illumina una giornata grigia, nessuna guardia, nessun soldato armato, a differenza dei vicini palazzi del potere, circondati da polizia e uomini in borghese. Edi Rama, 46 anni, è nel suo ufficio — controsoffitto a «vela» , naturalmente rossa — chino sul computer. Non ci si avvede di quanto sia imponente il sindaco di Tirana fino a che non si alza per salutare: potrebbe essere un cestista, con i suoi due metri («Quasi» ). Invece, prima di dedicarsi alla lotta politica («Ai tempi di Hoxha, ero anticomunista, ora guido il gruppo nato dalle ceneri del Partito dei lavoratori contro gli eredi dei "rossi"» ), Edi Rama era, e resta, soprattutto un intellettuale, un pittore, uno scrittore con la passione per le battaglie civili. È vestito di nero, da capo a piedi, cravatta compresa. «Sono in lutto per i tre nostri compagni, uccisi dalla violenza del potere» . Cosa dobbiamo aspettarci? Una rivolta simile a quella tunisina? «L’Albania è una terra di paradossi. Non abbiamo vissuto alcuna tragedia di tipo balcanico, guerre di religione o di etnie. Eppure l’Europa ci ha rifiutato lo status di Paese candidato. Ora siamo dietro persino al Montenegro. Perché? Perché non siamo una democrazia ma un ibrido più vicino alla Tunisia che alla Croazia o alla Slovenia. C’è solo una speranza per evitare un’involuzione autoritaria e le conseguenze che ciò porterebbe: rivedere il voto che nel 2009 è stato scippato alla nostra parte. La radice di questa crisi sta nell’assoluta mancanza di giustizia, di trasparenza» . Per mesi si sono svolte dimostrazioni pacifiche a Tirana. Venerdì la situazione è sembrata sfuggire al controllo. Anche lei ha improvvisamente alzato il tono della polemica contro Berisha... «Noi abbiamo portato la gente in piazza sempre senza scontri. Sia chiaro: io personalmente e l’opposizione tutta siamo contro la violenza. Venerdì i dimostranti sono stati attaccati, come dimostrano le immagini. La polizia ha aperto il fuoco per uccidere. La gente era furiosa. Io avevo percepito la tensione e ho cercato di evitare guai peggiori, rimanendo in disparte per evitare di sovreccitare gli animi. Ho chiesto ai miei collaboratori di riportare tutti alla ragione. Intanto le guardie di Berisha sparavano: di chi è la colpa, allora?» . Cosa chiedete al governo? «Un confronto civile e senza prepotenze. Berisha sostiene che noi abbiamo "tentato un colpo di Stato", che vogliamo "sovvertire l’ordine con la forza". Scherziamo? Ripeto ancora una volta: non credo nella violenza, non è una soluzione accettabile. Ma noi non possiamo trasformarci nello zimbello di questo regime perché siamo pacifici e non facciamo paura. Lo sa che dice di noi Berisha? "Che non abbiamo denti"e, peggio, "che non abbiamo p...". Ma noi non ci arrenderemo fino a che non otterremo quanto è giusto e corretto per l’Albania: nuove e libere elezioni» . Oggi sono in programma i funerali di due delle vittime degli scontri di venerdì. C’è pericolo di nuove violenze? «Le cerimonie non sono a Tirana. Una è a Argirocastro e una a Fier: centri minori, lontani dal potere centrale. Non è nostra intenzione sfidare nessuno. Scontri? Francamente, non dipendono da noi: bisognerebbe chiedere a Berisha. Speriamo almeno che rispetti il lutto» . Se non oggi, avete in programma altre manifestazioni? «Certo. Non abbiamo nessuna intenzione di fermarci» . Berisha ha chiamato «il popolo» a scendere in piazza, mercoledì, in difesa del governo: cosa accadrà? «Nulla: non accetteremo provocazioni. D’altro canto, esattamente come ai tempi di Hoxha, Sali Berisha — che era un suo uomo — sa come mobilitare i "suoi"cittadini: precettandoli a scuola e negli uffici pubblici. Sono cortei di Stato, senza alcun valore» .

La Stampa 23.1.11
Il leader socialista “Sparavano ai civili come fossero animali”
Il sindaco Rama: resteremo non violenti
di Niccolò Zancan


Quella di venerdì era una manifestazione molto più pacifica di altre manifestazioni europee, penso a Roma, Atene, Parigi. Ma solo qui hanno sparato. È diventata un macello a causa di questo potere. Hanno usato armi da fuoco, tirando sulla gente inerme, come se sparassero in un bosco a caccia di animali. L’unica colpa dei manifestanti era quella di essere sostenitori dell’opposizione. Questo è tragico».
Edi Rama, 46 anni, nato a Tirana, sindaco della capitale e artefice del suo rinascimento - secondo molti osservatori - è il leader del partito socialista, eletto con il 93 per cento dei consensi. Figlio di uno scultore, per anni pittore e artista eccentrico a Parigi, è entrato in politica nel 1998 come ministro della Cultura nel governo del premier Fatos Nano. Da allora la sua ascesa è costante. Che cosa sta succedendo in Albania? «Qualcosa di inammissibile in un Paese della Nato, che da vent’anni cerca la via dell’Europa, dopo la caduta di un regime dittatoriale. Oggi qui c’è una sofferenza enorme. E le ragioni sono semplicissime: la libertà di voto è stata violata, come la libertà di comunicazione e concorrenza...». Perché la manifestazione di venerdì è finita nel sangue? «Perché la sede del governo è stata trasformata in una trincea da cui partivano gli spari. C’è un video che lo dimostra inequivocabilmente. Non esiteremo a resistere con la forza dei nostri cuori a questo regime».
Domani che cosa accadrà? «I funerali dei manifestanti uccisi si terranno in aree molto sensibili del Paese. Ma noi stiamo calmi e cerchiamo di calmare la nostra gente, perché per noi la via per il potere è solo quella dell’espressione democratica di una rivolta legittima». Anche il premier Sali Berisha ha organizzato una manifestazione per mercoledì prossimo a Tirana. Che cosa risponde? «Faceva così anche il dittatore Enver Hoxha per celebrare le sue vittorie e i suo trionfi, quando il regime ormai era finito. Facevano così tutti i dittatori comunisti dei Balcani, secondo il vecchio detto: forche, feste, fame». [N.Z.]

Corriere della Sera 23.1.11
«Arriva la modernità. Ma in uno Stato debole, poco onesto»
di  Alessandra Muglia


«L’Albania non è un’altra Tunisia, la violenza esplosa a Tirana sembra il risultato di un feroce scontro di potere tra due blocchi politici» . Giovanni Sergi ha messo per la prima volta piede in Albania nel 1992, dopo la caduta del regime comunista di Hoxha. Da allora non ha più smesso di ritornarvi: la sua curiosità di architetto si è concentrata sul fermento urbanistico apertosi con l’epoca liberista e sugli squilibri generati dallo sviluppo accelerato che ne è seguito (ne scrive in «Tirana, una città emergente. Politiche urbane, piani e progetti» , edito da Coedit e ripubblicato due mesi fa da Harmattan). Ci è ritornato dal 2002 al 2004, come docente di un corso per laureati albanesi cofinanziato dal ministero degli Esteri. E di nuovo l’anno scorso, per tenere un corso di urbanistica all’ «Universiteti Polis» di Tirana, università privata ma riconosciuta dallo Stato, situata nel «Blloku» , il quartiere più alla moda della città. In quella che un tempo era l’area residenziale off limits del partito comunista, intorno all’ex residenza del dittatore Hoxha, oggi è tutto un fiorire di caffè, bar e ristoranti, punti di ritrovo dei giovani bene di Tirana. «I miei allievi appartengono a famiglie benestanti, basti pensare che le rette costano 7 mila euro all’anno — quando lo stipendio medio di un operaio è di 200-250 euro —. Sempre connessi in rete con pc e telefonini, questi giovani sono un campione dell’Albania che cambia. Anche se restano legati alla tradizione più di quanto possa apparire: quando parli con loro ti accorgi che conservano molti elementi di una civiltà arcaica, con il suo sistema di valori basato sulla famiglia allargata, sul clan, dove vige ancora il Kanun, l’antico codice consuetudinario. Cose che rallentano la nascita di un vero stato di diritto. Il Paese infatti è ancora diviso in gruppi-clan con il 65%della popolazione che fa riferimento all’Islam» . Sergi, docente di Urbanistica all’Università Politecnica delle Marche ad Ancona, fatica a vedere nelle violenze esplose l’altro giorno a Tirana una «crisi di sistema» come quella che nel 1997 portò Berisha a dimettersi da presidente, dopo lo scandalo delle «piramidi truffa» che permisero a molti di arricchirsi alle spalle di decine di migliaia di risparmiatori. «A Tirana e dintorni vivono oggi un milione di persone, in piazza ne sono scese 20 mila: uno su 50. In Albania esiste una classe media contenuta in termini numerici e fragile quanto a coscienza dei propri diritti. Pure i miei colleghi tendono a non parlare di politica neanche al bar, per quanto credo siano consapevoli dei limiti del governo. Guardando le immagini delle proteste ho avuto l’impressione che si tratti di uno scontro tra gruppi organizzati che vivono di politica e che cercano di arruolare la parte più indifesa della popolazione, come i giovani di periferia» . Gli esclusi da un benessere oggi — secondo Sergi — ampiamente diffuso. «All’epoca delle piramidi truffa c’era un’Albania ancora povera. Oggi non è più così. Basta guardare la gente in giro: si veste bene, affolla bar e ristoranti, si muove volentieri in taxi» . Lo confermano i dati statistici: «L’Albania è il paese che nel 2009 ha avuto il più alto sviluppo economico nei Balcani occidentali, con il Pil medio pro capite passato in 9 anni da 1.650 a 5.400 dollari e un tasso di disoccupazione fermo al 12,5%» . Per Sergi, quella albanese nonostante la crisi «resta una società pervasa da ottimismo e voglia di fare, tant’è che una parte di coloro che vent’anni fa decisero di emigrare all’estero, ora ritorna» . E quando torna trova un altro Paese, come è successo a lui: «L’anno scorso sono rimasto colpito dal nuovo aeroporto di Tirana e da quell’immensa area produttiva nata appena fuori città: un esempio di sprawl urbano o città diffusa tipico delle grandi aree metropolitane. E’ stupefacente come questo Paese nostro vicino di casa, culturalmente lontano, presenti elementi di vitalità e di modernità: nonostante abbia uno stato debole e poco onesto, pur tra molte contraddizioni, l’Albania è riuscita a trovare la strada dello sviluppo» .

Corriere della Sera 23.1.11
La lezione (scomoda) dei tunisini più laureati, meno occupati
La crisi svela un trend che tocca i giovani dal Nord Africa all’Europa
di Giulio Sapelli


La rivolta tunisina è un fenomeno molto complesso che richiederebbe un’analisi amplissima. Vorrei limitarmi qui a sottolinearne un carattere universale. Essa, infatti, ha in sé il nocciolo di un processo sociale e culturale molto più generale, che va ben oltre il fronte del Nord Africa, che è assai differenziato e variegato. E’ il problema della disoccupazione giovanile. Essa inizia ad assumere, per via della globalizzazione, caratteri di crescente omogeneità in alcuni strategici nessi della costruzione sociale mondiale che si sta evolvendo sotto i nostri occhi. E’ una trasformazione silenziosa che sconvolge molti luoghi comuni e costringe a rivedere certezze che parevano acquisite. Vediamo. La prima è quella per cui la crescita economica e il tasso di uguaglianza dei sistemi sociali hanno come indicatore l’estensione dell’istruzione universitaria. Tale istruzione è comunemente intesa sia come fenomeno di mobilitazione sociale verso l’alto, sia come risorsa occupazionale, che garantisce ai portatori di essa di rafforzare la loro posizione sui mercati del lavoro. Questa asserzione è falsificata dall’analisi dell’andamento occupazionale mondiale: non vi è nessun rapporto aggregato tra aumento della scolarizzazione e aumento dell’occupazione. Quest’ultima, nella rapidità dell’aumento tecnologico in corso, aumenta soprattutto laddove si addensano i mestieri con forte intreccio di manualità e di competenze rare, acquisite tramite la trasmissione dell’esperienza e il contatto tra vecchie e nuove generazioni (artigianato, mestieri industriali e di servizi fortemente non replicabili su scala di massa): esperienza e contatto che sono fondamentalmente estranei a qualsivoglia corso universitario, di base o di specializzazione ch’esso sia. L’istituzionalizzazione della trasmissione del sapere uccide il sapere stesso e disperde in tal modo immensi patrimoni conoscitivi non formalizzati. E questo perché nelle agenzie adibite dal conformismo sociale alla cosiddetta «formazione » , altro non si fa che riprodurre gli occupati nelle agenzie stesse. Del resto, più sono aumentate queste agenzie— prime fra tutte le business school e i master d’ogni genere — più la non occupabilità è aumentata su scala mondiale. Il secondo punto che è stato sollevato grazie, ahimè, alle sofferenze dei giovani tunisini, vittime di una dilagante e oscena indifferenza crescente verso le sofferenze degli ultimi, è che la forma con cui è avvenuta la costruzione dell’istruzione superiore di massa è fondata sul rifiuto del lavoro manuale e dello studio tecnico-scientifico, che richiedono dosi ingenti di sacrificio, di rinuncia alla libertà indiscriminata di disporre del proprio tempo e dei propri impulsi desideranti. Preparare un esame di ingegneria o di chirurgia è un sacrificio immenso rispetto a un esame di comunicazione o di cultural studies. Si conseguono in tal modo due risultati devastanti: i giovani giungono al vertice dell’istruzione formalizzata senza saper far nulla e spesso senza saper nulla (per lo scadimento che in tutto il mondo hanno avuto i curriculum dei docenti); la società vede mancare quella quota di professioni e di saperi che sono indispensabili per far riprodurre la società medesima: dai periti tecnici agli ingegneri, dai matematici ai medici chirurghi, dagli infermieri ai geologi e ai sismologi. In questo modo si raggiunge anche un altro risultato pericolosissimo per la crescita e lo sviluppo: mancano le persone in grado di reindustrializzare le società del prossimo millennio. Perché è questa l’altra visione a cui la rivolta tunisina ci costringe ad accedere: non esiste una correlazione positiva tra la percentuale che i servizi hanno nel Pil e la definizione che grazie a ciò si può dare di una società definendola come una società «avanzata» . Recentemente un mio cortesissimo interlocutore pluriaccademico, in una discussione sulla rivolta tunisina, rivelava il suo stupore per l’insorgenza dei movimenti di massa perché essi avvenivano nella società più «avanzata» del Nord Africa, ossia con una percentuale dei servizi rispetto al Pil del 60%. Dove i servizi, lo sanno tutti coloro che hanno conseguito la terza media, possono essere anche il chioschetto che vende datteri come l’internet cafè…. In questo senso dobbiamo gioire per le parole pronunciate da Jeff Immelt, ex CEO di General Electric, che Obama ha appena nominato a capo del Council on Job and Competitiveness, quando ha affermato a chiare lettere che se si continua a puntare sui servizi non solo gli Usa perderanno in competitività, ma la disuguaglianza continuerà ad aumentare. Giungo così all’ultima questione: la disuguaglianza non è stata affatto diminuita da questa distorta diffusione delle pratiche di istruzione formalizzata negli istituti scolastici di ogni ordine e grado. Gli studi più interessanti a livello internazionale oggi sono quelli che si accentrano sull’eguaglianza e sulla disuguaglianza. Ebbene: non solo quest’ultima è aumentata in ogni dove, salvo in quei paesi ch’erano un tempo poveri ma che ora si sono «agganciati» alla crescita globale, ma il suo dilagare non è stato affatto frenato dall’aumento dell’istruzione universitaria di massa. I giovani che si sono immolati sino a perdere la vita in Tunisia hanno reso evidenti a tutti queste tragiche verità. E’ ora di cambiare. Oggi veramente la campana suona per tutti noi, in tutto il mondo. 

Corriere della Sera 23.1.11
Céline,  la logica del boicottare che dimentica le differenze
di Paolo Lepri


«La letteratura non si censura: questo caso è assurdo, insensato» , ha detto lo scrittore Philippe Sollers dopo la decisione del ministro della cultura francese Frédréric Mitterrand di mandare al macero il volume che celebrava, tra molte altre glorie nazionali, anche Louis-Ferdinand Céline, accogliendo così le proteste del cacciatore di nazisti Serge Klarsfeld. Certo, i libri non si dovrebbero bruciare. Ma c’è da dire che nessuno ha «censurato» niente. Mitterrand si è limitato a ritenere non opportuna, «dopo una matura riflessione» , la scelta di inserire lo scrittore antisemita (autore di un grande capolavoro, Viaggio al termine della notte) tra le personalità cui rendere omaggio nel corso del 2011, da Georges Pompidou a Michel Foucault. Forse è giusto così, in fondo. Non tutti sono uguali, Bagattelle per un massacro, il pamphlet di Céline che incitava a battersi contro il complotto giudaico mondiale, «è un libro schifoso, con buona pace di chi ne apprezza certi passaggi» , ha scritto giustamente Alessandro Piperno. Il fatto che i pamphlet di Céline nulla tolgano a quella che sempre Piperno ha definito «l’esemplare magnificenza» del Viaggio e di Morte a credito non ci deve spingere a dimenticare nulla. È un elementare norma di moralità quando è in gioco il male assoluto. Detto questo, va sottolineato però che anche i Giusti non devono mai correre il rischio di apparire intolleranti o di promuovere campagne di boicottaggio contro le idee quando, come nel caso di Céline, le idee di odio convivono con la indiscussa genialità creativa. Dobbiamo essere capaci di distinguere. «L’arte va riconosciuta anche quando contraddice i nostri valori morali» , ha sostenuto proprio parlando di questa vicenda lo studioso francese Henri Godard. E servono sempre più lezioni di tolleranza. Soprattutto in un mondo in cui i boicottatori sembrano voler imporre la loro perversa ideologia di contrapposizione, in un mondo in cui Vanessa Paradis si rifiuta di fare un concerto in Israele e il regista Ken Loach minaccia gli uomini di cultura che accettano inviti dal governo dello Stato ebraico. Ha ragione Ian McEwan, che non ha mai pensato di rifiutare il Jerusalem Prize «perché una cosa è la società civile, un’altra il suo governo» . Ci piacerebbe che dedicasse il suo premio a tutti i non boicottatori.

Corriere della Sera 23.1.11
Violenza e disturbi mentali, la difficoltà di segnare i confini
di Adriana Bazzi


Gli americani il problema se lo stanno ponendo, ma prima o poi dovremmo pensarci anche noi. Come individuare una persona che soffre di disturbi psichici e, soprattutto, come stabilire la sua potenziale pericolosità per gli altri? Loro si confrontano con molti fatti di cronaca in cui è in gioco il possesso di armi (la strage di Tucson, in Arizona, di alcuni giorni fa è l’ultimo esempio), ma anche la nostra cronaca quotidiana non manca di episodi tragici (il caso della donna filippina massacrata da un pugile a Milano l’agosto scorso). Altra domanda: quanto sono diffusi i disturbi psichici? L’università americana di Harvard ha provato a rispondere con un’indagine, che rappresenta oggi un punto di riferimento (in base ai risultati, il 26 per cento degli americani ne soffrirebbe) ma, secondo alcuni, i ricercatori non hanno ben distinto fra disturbi reattivi a situazioni di stress (per esempio la perdita del lavoro) e altre condizioni patologiche più serie. In Italia è ancora più difficile avere dati epidemiologici di diffusione di queste patologie. Il problema, dunque, è stabilire che cosa si debba davvero intendere per malattia mentale. Gli psichiatri hanno come riferimento il Dsm IV, il manuale dei disturbi psichiatrici che è, attualmente, in fase di revisione (la nuova edizione comparirà nel 2013): gli esperti stanno ora cercando di studiare un punteggio da assegnare in base alla diversa gravità dei sintomi (difficile, perché queste malattie non presentano marker biologici misurabili con test). Rimane, però, il secondo ostacolo: la possibilità di mettere in relazione certi sintomi (a parte forse l’abuso di sostanze) con i comportamenti violenti. Intanto gli psichiatri italiani lanciano un altro allarme: persone, con disturbi noti ai medici, che commettono un crimine, una volta messe in libertà, fanno perdere le loro tracce.

il Fatto 23.1.11
Il cancello della memoria
di Furio Colombo


Se il “giorno della memoria” dedicato alla Shoah (27 gennaio) è inutile, che dite, lo lasciamo perdere? Dopotutto viviamo in un paesaggio di detriti, pirateria, malefatte e vergogne, che non sono solo italiane – come a volte esasperati crediamo – ma rovesciano conseguenze dolorose, o la morte, su esseri umani indifesi, nel mondo povero, ma anche nel cuore del mondo ricco. Nessuno ti dice di voler dimenticare. Piuttosto ti dicono: in un mondo così, a cosa servono le cerimonie. O meglio: altre cerimonie, oltre quelle che celebriamo da sempre, con poca persuasione e molta distrazione in ciò che resta della comune vita pubblica? Forse qualcuno ricorderà che l’istituzione della legge che celebra il “giorno della memoria” è la sola iniziativa che sono riuscito a portare a conclusione in anni di vita parlamentare. Ho scritto e firmato e proposto il brevissimo testo subito dopo essere entrato in Parlamento, nel 1996; ho speso tutti gli anni di una legislatura a cercare l’unanimità per una legge senza carichi finanziari, esclusivamente simbolica; ho dovuto farmi strada fra chi voleva parlare, invece, di gulag, foibe, e coloro che giudicavano la legge inutile. Finalmente, nel 1999, giunto il momento del dibattito e dei discorsi finali, ho potuto dire alla Camera che in ogni seggio di quell’Aula ogni deputato presente (355), nel 1938 aveva votato “sì” senza eccezioni e astensioni quando erano state presentate da Mussolini le leggi razziali.
HO DETTO ai miei colleghi che il nostro voto oggi non poteva cambiare nulla. Ma se avessimo tutti votato “sì”, avremmo almeno lasciato un segno di repulsione per il rito macabro che si era compiuto tra applausi e grida di “viva il Duce” in quella stessa Aula e che aveva fatto dell’Italia uno dei carnefici di migliaia di cittadini ebrei, insieme a milioni di ebrei d’Europa, le vittime, sfregiando per sempre il volto di questo Paese. E così la legge sul “giorno della memoria” è stata votata all’unanimità dalla Camera dei Deputati nel 1999 (solo voto unanime della XIII legislatura) ed è diventato legge della Repubblica il primo luglio 2000, dopo l’approvazione (non unanime) del senato. Poiché il primo “giorno della memoria della Repubblica italiana è stato il 27 gennaio del 2001, in questi giorni si compiono i 10 anni di questa iniziativa. Tenterò, da persona che se ne è assunta la responsabilità, di affrontare le tante perplessità ed obiezioni. Prima vorrei dire le ragioni che hanno reso obbligatorio, per me, scrivere e battermi per quella legge. Il percorso comincia in una classe del liceo D’Azeglio di Torino. I nostri insegnanti erano stati tutti protagonisti della Resistenza, laici, cattolici, comunisti. Edoardo Sanguineti e io, in quella classe, abbiamo organizzato una piccola rivolta quando ci siamo accorti che non veniva mai proposto l’argomento delle leggi razziali fasciste. E abbiamo cominciato a formare un punto di incontro tra ragazzi che volevano sapere e parlare e ragazzi sfuggiti alla deportazione, a volte unici superstiti di una famiglia inghiottita dai campi. Tanti anni dopo mi sono ricordato di quel gruppo, quando la collega della Columbia University, Susan Zuccotti, che stava per pubblicare il suo libro sullo sterminio degli ebrei in Italia (“The Italians and the Holocaust”, Nebraska University Press, 1988), mi ha chiesto di scrivere la prefazione. In quella prefazione (ripresa nella traduzione italiana) ho potuto dire che molti italiani antifascisti, che hanno lasciato il loro nome nella storia della liberazione dal fascismo e dal nazismo hanno avuto e diffuso la persuasione che la Resistenza avesse cancellato le malefiche pagine delle leggi razziali e della loro spesso feroce esecuzione, creando l’immagine di un’Italia vittima, tutta, di dittatura, occupazione e aguzzini tedeschi, che si riscatta con la liberazione. Nasce così la cancellazione della responsabilità italiana nella campagna di distruzione del popolo ebraico che ha portato discriminazione, persecuzione e morte in tutta Europasotto due bandiere, quella tedesca e quella italiana.Resta anzi la legittima domanda, tenuto conto dell’immagine di grande potenza dell’Italia in quegli anni: avrebbe potuto, la Germania, da sola, imporre in tutta Europa la sua politica razziale e omicida? La risposta non è nei tanti italiani, compresi generali e funzionari, che si sono opposti. È nei tanti che, negli uffici, nelle scuole, nelle case, nella vita cittadina, hanno dato una mano per identificare e arrestare e hanno collaborato con la finzione di non vedere e di non sapere. Questa persuasione tragica e vera, la Shoah è un delitto italiano, è all’origine della legge così come è stata scritta. Infatti, nella sua prima versione, il mio testo indicava come “giorno della memoria” quel 16 ottobre del ’43 a Roma: 1017 cittadini romani, dai neonati agli infermi, prelevati nella notte dal Ghetto, cuore della città a meno di mille metri dal Vaticano, quasi tutti sterminati ad Auschwitz. È un delitto atroce, ma anche un delitto perfetto. Gli esecutori sono soldati tedeschi. Strade, indirizzi, nomi, sono a cura della polizia fascista. La città dorme, il Vaticano tace.
Il “giorno della memoria” della legge di cui sto parlando è adesso il 27 gennaio, giorno in cui i soldati russi hanno abbattuto i cancelli di Auschwitz e scoperto per la prima volta l’orrore di un campo di sterminio. Infatti il 27 gennaio è il “giorno della memoria” in molti paesi europei. La data infatti permette di includere, come in un abbraccio della memoria, i perseguitati politici, i militari italiani che non hanno voluto combattere a fianco dei nazisti, gli omosessuali, i rom, anch’essi vittime di persecuzione e sterminio. La domanda più frequente, che viene spesso da persone che non rifiutano la memoria, ma rifiutano il rischio di imposizione, è: “perché una legge?”. E ti raccontano del modo annoiato e automatico con cui certe scuole improvvisano il loro “giorno della memoria”; ti ricordano che tutte le feste statali diventano cerimonie ritualizzate, con molta retorica e nessuna vera partecipazione. Non era meglio lasciare tutto all’iniziativa spontanea? Risponderò che nel Paese meno incline alle celebrazioni per legge, gli Stati Uniti, dove non si sono mai visti carri armati nelle strade per celebrare la loro festa della Repubblica (il famoso 4 luglio) le poche celebrazioni nazionali sono tutte stabilite per legge, (Memorial Day, Labor Day, Indipendence Day e, dal 1968, il Martin Luther King Day).
 RISPONDERÒ che, se in Francia ci fosse un giorno della memoria, sarebbe più difficile in quel Paese dedicare, come è stato fatto, il 2011 allo scrittore antisemita Celine. Risponderò che l’antisemitismo è sempre molto vitale e molto attivo. Lo dimostrano eventi quotidiani, come gli attacchi volgari e stupidi al Diario di Anna Frank, come la recente pubblicazione, in un sito americano, di una lista di ebrei da “tenere d’occhio” negli Usa, nel mondo e anche in Italia; lo dimostra la confusione continua tra la politica di un governo israeliano ed gli ebrei del mondo, lo dimostra il fatto che persino la piccola gerarchia più o meno ex fascista che occupa posti nel Comune di Roma dice e diffonde espressioni di odio antiebraico da Repubblica di Salò.
Una legge non è una diga, è solo una piccola bandiera piantata sulla terra di un passato spaventoso. Non consola. Ma incoraggia (come per fortuna accade) studenti e insegnanti di molte scuole italiane ad essere i nuovi testimoni.

La Stampa 23.1.11
Primo Levi. Il galateo del Lager
In un dialogo del 1983 lo scrittore torna sull’esperienza di deportato “Ad Auschwitz chi sopravviveva finiva con l’imparare le vie traverse”


LA CORRUZIONE «Era dominante. Mentre noi credevamo i tedeschi crudeli ma incorruttibili»
IL FATTORE PESO «Uno esile come me aveva meno bisogno di calorie È stato un vantaggio»
IL CUCCHIAIO, UN CAPITALE «Non era dato, bisognava conquistarselo. Si prestava solo a persone di fiducia»"
ABITI E FACCIA PULITI «In omaggio alla disciplina del campo, ma anche come armatura di vita morale»

BRAVO. «Una delle cose che erano venute fuori nella sua lezione a Magistero era la serie di rituali, comportamenti suggeriti, imposti, decisi in comune che riguardavano... l’avevamo chiamato il “galateo” del campo, grosso modo». LEVI. «Sì, sì. Chiaro, lo dico fin da adesso, può avvenire che mi ripeta, che ripeta cose che compaiono nei miei libri, ma...». BRAVO. «Ma è una cosa che non... non c’era». LEVI. «È un guaio non evitabile. Ma oltre alle regole, come dappertutto, c’era un codice ufficiale, cioè un complesso di precetti e di divieti, imposto dall’autorità tedesca. Ma, frammisto a questo, e sovrapposto a questo, c’era anche un codice di comportamento spontaneo, che ho chiamato galateo, e alcuni precetti e divieti potevano essere elusi, bisognava saperlo, si imparava con l’esperienza, chi sopravviveva alla crisi dell’iniziazione, che era la più grave. Chi sopravviveva ai primi giorni finiva con l’imparare che le vie traverse, le scorciatoie e il modo più giusto per arrivare a farsi riconoscere malato, per esempio, e il fatto che la... la corruzione era dominante in Lager, cosa che aveva molto stupito tutti, perché, noi per lo meno, noi ebrei italiani che avevamo avuto contatto molto tardi con i tedeschi, ci eravamo fatti l’immagine ufficiale dei tedeschi, cioè crudeli ma incorruttibili; invece erano estremamente corruttibili. Lo si imparava più o meno in fretta, con l’esperienza; non solo i tedeschi che erano abbastanza esterni, ed erano delle divinità inaccessibili, ma tutta la gerarchia del campo che discendeva dai tedeschi era corruttibile, anzi, questa parola polacca “proteczia” si imparava subito.
«A parte questo, c’era un complesso di comportamenti che non avevano direttamente a che fare con la sopravvivenza, ma che erano considerati di buona o di cattiva educazione, e uno che ho citato era quello del... quando ti chiedevano in prestito il cucchiaio: in generale era un prestito che si concedeva soltanto a una persona di fiducia, perché era un capitale, valeva una razione di pane, e quindi lo si dava soltanto a una persona di fiducia, oppure che si sorvegliava. Il cucchiaio non veniva dato, non era di dotazione, bisognava conquistarselo, cioè comprarlo all’inizio con pane, era una crudeltà supplementare questa... tra parentesi, alla liberazione del campo abbiamo trovato un magazzino pieno di cucchiai, non c’era ragione di non darli, il nuovo venuto era costretto a lappare la zuppa come un cane, perché il cucchiaio non ce l’aveva e nessuno glielo dava; comunque quando veniva chiesto il cucchiaio in prestito era buona norma leccarlo prima, uno mangiava la sua zuppa, poi lo leccava bene perché fosse pulito [sorride] e solo allora lo dava in prestito al... al postulante, ... e un’altra cosa ancora, che mi viene in mente, era, come dire, la proprietà nel vestirsi, e sembrerà strano dal momento che era quasi impossibile essere vestiti propriamente, ma... come nella vita comune, aveva importanza avere gli abiti, il cappello e le scarpe decenti, dico decenti tra virgolette, perché decenti non erano mai, o per lo meno ci arrivava soltanto chi aveva fatto una straordinaria carriera, ma... in qualche modo questo era, faceva parte della disciplina del campo.
«Ma io tendevo inizialmente a trascurarla, mi sembrava una cosa superflua quella di... questa giacca piena d’unto, piena di macchie di ruggine, doverla spolverare mi sembrava inutile, e invece i compagni più anziani mi han detto: “No, devi farlo, qui si deve avere le scarpe pulite, la giacca pulita, e così via, la faccia pulita, non bisogna sottrarsi al barbiere”. La barba la si faceva soltanto una volta alla settimana, però quella volta lì doveva essere fatta, non soltanto in omaggio alla disciplina del campo, alla regola del campo, ma anche come armatura esterna di vita morale, doveva comparire in qualche modo, un istinto collettivo spingeva a questo, chi si lasciava andare era in pericolo, veniva sempre ultimo». BRAVO. «Lei ha notato rispetto a questa esigenza di dignità, anche verso l’esterno, che ci fosse una possibile differenziazione in relazione alla estrazione di classe, cioè che certi modelli culturali di proprietà, decenza...». LEVI. «Direi proprio di no». BRAVO. «Influissero... no?». LEVI. «Direi di no; direi che del resto la provenienza di classe spariva molto rapidamente, e prevalevano altri fattori. Io ricordo degli intellettuali decadere con estrema rapidità, mentre invece scaricatori di porto o gente abituata al lavoro manuale resisteva meglio. Non è un criterio assoluto, c’erano altri criteri. Uno era quello del peso corporeo: è chiaro che un uomo come me che all’ingresso nel Lager pesava 49 chili perché era costituzionalmente esile, aveva bisogno di meno calorie di un uomo di 80 o 90 chili; e quindi nel mio caso questo è stato un fattore... di sopravvivenza, un fattore... un vantaggio. Molti intellettuali naufragavano, perché si trovavano davanti a un lavoro mai fatto prima, a una necessità di lavorare fisicamente, di provvedere a cose che un uomo dalla vita agiata non fa, a lustrarsi le scarpe, a spazzolarsi il vestito senza spazzola, con le mani, con le unghie, e...». BRAVO. «La manutenzione di se stessi». LEVI. «La manutenzione di se stessi, che spesso viene delegata». BRAVO. «E sì, nelle famiglie, c’era la donna, la moglie, la domestica». LEVI. «Appunto, viene delegata. Qui invece bisognava provvedere. Io stesso mi sono trovato molto in pericolo nei primi giorni, e qui mi ricollego al fattore dell’amicizia; io credo di essere stato salvato da alcune amicizie, anche per un fatto importante per noi italiani, ebrei italiani: la mancata comunicazione. Io l’ho percepita come un ferro rovente, come una tortura, il fatto di trovarsi in un ambiente in cui non si capiva il verbo, la parola e non si riusciva a farsi capire. Trovare un italiano con cui comunicare era una grande fortuna. E eravamo pochi italiani, eravamo un centinaio nel mio Lager su diecimila, l’uno per cento, e degli stranieri pochi parlavano italiano, e di noi italiani quasi nessuno parlava tedesco o polacco e pochi parlavano francese, in sostanza c’era un grave isolamento linguistico. E trovare un buco, un foro, un passaggio che permettesse di valicare questo isolamento linguistico, era un fattore di sopravvivenza. E trovare l’altro capo del filo, una persona amica era... era un salvataggio.
«Ora questo ragazzo, Alberto, di cui io ho spesso parlato nei miei libri, era l’uomo adatto, aveva coraggio da vendere per sé e per gli altri, ed era in grado di somministrare coraggio e mi sono trovato con lui, abbastanza casualmente, senza mai capir bene... io trovavo in lui un salvatore; cosa trovasse lui in me, che lui mi diceva: “Tu sei un uomo fortunato”, non so bene su quale base, ma infatti il destino l’ha poi dimostrato, io sono stato fortunato». © 2011 Giulio Einaudi ed. s.p.a., Torino

il Riformista 23.1.11
Dialogo con un amico sionista
La Giornata della memoria e Israele
di Osvaldo Casotto

qui
http://www.scribd.com/doc/47397531

Repubblica 23.1.11
Ebrei. Storie di un popolo
di Pietro Del Re


Sparpagliati su cinque continenti, da quattromila anni perseguitati e sterminati. Ma dai tempi del capostipite, i discendenti di Abramo non hanno mai smarrito né legge, né lingua, né identità. Per il Giorno della Memoria, lo scrittore Marek Halter, che ha pubblicato un libro illustrato sulla sua gente, spiega il senso del loro esodo infinito: "Un monito per non dimenticare che eravamo schiavi, e per dire che non potremo sentirci liberi finché ci saranno ancora schiavi al mondo"

PARIGI. Sparpagliato su cinque continenti da persecuzioni e genocidi, esiste un popolo che negli ultimi quattromila anni, dai tempi del suo capostipite Abramo, non ha smarrito né la sua Legge né la sua lingua né la sua identità. È il popolo mosaico, semitico, giudaico, ebraico, israelitico o anche israeliano. Troppi aggettivi per chiamare gli ebrei? «No, perché l´ebraismo si definisce anzitutto attraverso la sua storia», risponde lo scrittore Marek Halter, con una voce così bassa che si distingue appena nella chiassosa brasserie di Montparnasse dove ci ha dato appuntamento. «Credo che per essere ebreo basti volerlo diventare. Ora, la Corte suprema di Israele ha detto quasi la stessa cosa, aggiungendo però che è necessario farlo in buona fede. Mi sembra una postilla eccessiva: è già abbastanza coraggioso dire "sono un ebreo". C´è sempre il rischio di ritrovarsi in un campo di concentramento. Nel prossimo, infatti, gli ebrei non provocano solo amore».
Figlio di un tipografo polacco e di una poetessa yiddish, Halter scampò per miracolo alla distruzione del ghetto di Varsavia, e da una vita si batte per la difesa dei più deboli e per il raggiungimento della pace in Medio Oriente. Quando gli chiediamo di spiegarci quanto conta la comunione religiosa per il popolo ebraico, visto che ci sono anche molti ebrei non praticanti, o addirittura senza religione, lo scrittore torna a parlare della sua storia. «È ciò che lo tiene unito più di qualsiasi altra cosa. Ancor più della Torah. Tutti gli ebrei celebrano però due festività. La prima è lo Yom Kippur, il giorno dell´espiazione, del grande perdono. L´altra è la Pesach o la Pasqua, che ricorda l´esodo e la liberazione dall´Egitto. È un monito per non dimenticare che un giorno eravamo schiavi, e per dire che non potremo sentirci liberi finché ci saranno ancora schiavi al mondo».
Queste e altre spiegazioni sull´originalità del popolo ebraico sono racchiuse nella sua ultima fatica: Histoires du peuple juif (Arthaud/Flammarion, 220 pagine, 39 euro), libro riccamente illustrato che ne ripercorre l´odissea attraverso, appunto, le sue "storie". «Che cosa lo rende diverso dagli altri popoli? Il fatto, per esempio, che ebbe l´idea geniale di trasformare la sua storia in religione. Nelle sinagoghe si legge il Cantico dei cantici, che racconta l´amore tra il re Salomone e la bruna regina di Saba. È come se nelle chiese cristiane si leggesse dei legami tra Carlo Magno e le sue amanti». Il libro si apre con le immagini di due coppie di anziani, una accanto all´altra: la prima mostra un bassorilievo sumero del Terzo millennio avanti Cristo; nell´altra c´è una foto scattata negli anni Trenta del Novecento. Le due donne hanno lo stesso sorriso, il medesimo volto allungato; anche i loro mariti sembrano gemelli, per via dello stesso taglio di occhi e dell´identica barba squadrata. La somiglianza è stupefacente. «La fotografia ritrae i miei nonni a Varsavia, quando c´erano nella capitale polacca più di quattrocentomila ebrei che pubblicavano sette quotidiani. L´antico bassorilievo, invece, l´ho scoperto al Louvre, e da quel giorno tutto mi è apparso più chiaro. Capii che noi occidentali giudeo-cristiani non dobbiamo nulla agli egiziani. Diverso è se parliamo dei sumeri. Sono loro che crearono il primo alfabeto cuneiforme, dunque astratto, senza il quale l´uomo non sarebbe riuscito a concepire la più astratta delle invenzioni: un solo unico Dio. Con i geroglifici e i pittogrammi dei Faraoni, che rendevano visibile l´invisibile, il pantheon egizio rimase invece affollato da decine di divinità».
Halter cita anche l´esempio degli ebrei cinesi, giunti attorno al IX secolo nella città di Kaifeng. «Quando si chiede loro "perché siete ebrei?", loro rispondono "perché è la prima religione monoteista del mondo". L´idea di un unico Dio nasce da un bisogno di giustizia. In un universo politeista era più facile comprarsi un idolo. Il ricco aveva perciò un´assicurazione sulla vita eterna maggiore del povero. Con il monoteismo ebraico nasce invece un Dio fatto a nostra immagine e somiglianza, di tutti noi, bianchi, gialli o neri. E con lui per la prima volta appare l´idea di eguaglianza nell´uomo».
Ma non è una sfida troppo ambiziosa quella di voler raccontare un popolo in quattromila anni di storia, o sia pure di storie, per chi storico non è? No, risponde Halter: gli è bastato, dice, comportarsi da narratore, distillando cioè gli avvenimenti e i personaggi più emblematici. «Fece la stessa cosa chi scrisse la Bibbia, che non è un libro di storia, ma piuttosto un libro di memorie. Là dove mi sono concesso qualche libertà è nell´interpretazione di alcuni fatti». Nella quarta di copertina del libro, compaiono gli elogi di due premi Nobel per la Pace, entrambi ebrei, Shimon Peres e Elie Wiesel. Sembra quasi che con loro Marek Halter abbia voluto farsi scudo di eventuali critiche da parte degli storici più ortodossi. «Non ho paura delle critiche. Vede, la cultura ebraica è una cultura di interpretazione. Tra gli ebrei non dovrebbero esserci filosofi, perché il filosofo, come disse Hegel, è colui che reinventa il concetto del mondo. Ora, gli ebrei partono dal presupposto che questa concezione del mondo sia già stata scritta nella Bibbia, una volte per tutte. Quello che si può ancora fare è interpretarla. Il Talmud è un libro d´interpretazione, ed è un libro aperto, al quale chiunque può aggiungere un nuovo capitolo. Conta già ventiquattro volumi, ma potrebbe averne cento o duecento. È per questo che gli ebrei scomunicarono Spinoza, perché non si presentò come interprete, ma come un vero filosofo, che voleva ripensare l´universo. Eppure era un bravo ebreo. Ma un giorno non lo lasciarono entrare in sinagoga. Poiché non vado in sinagoga, è un rischio che io non corro».
E perché due premi Nobel? Perché sono due amici. «Elie Wiesel l´ho conosciuto in Francia, poco dopo il mio arrivo: era orfano, e la sera veniva a mangiare la minestra che preparava mia madre. Shimon Peres è invece l´ultimo dei moicani dei fondatori socialisti dello Stato ebraico, un politico che ha conservato intatti i suoi sogni, o le sue illusioni, con cui preparai gli accordi di Oslo nel 1993. Ma poi Yitzahk Rabin fu assassinato e la situazione precipitò nuovamente nel caos. Se Rabin fosse ancora vivo, non vedremmo oggi Netanyahu confabulare con Abu Mazen, per poi fare il contrario di quello che ha appena promesso».
Halter ricorda infine il viaggio che fece François-René de Chateaubriand in Palestina due secoli fa, raccontato nel suo Itinerario da Parigi e Gerusalemme. Lì, il padre del Romanticismo francese trovò chi dall´antichità era sopravvissuto al sigillo del tempo con le stesse tradizioni, la stessa memoria e la stessa lingua di una volta. «Era un piccolo popolo, rimasto aggrappato a quei luoghi, mentre tutti gli altri, dai sumeri ai babilonesi, dagli egiziani ai greci, erano scomparsi da secoli o millenni. Quando vengono strappati dalla loro patria, i popoli "normali" muoiono come una pianta sradicata. Diverso è per gli ebrei, che se sono costretti a lasciare la loro terra, si portano appresso il loro Libro, e quindi le loro radici». È forse per questo che tutti coloro che hanno cercato di distruggere il popolo ebraico hanno cominciato col bruciare i suoi libri.

La Stampa 23.1.11
Perché si estinsero i Neanderthal


La convinzione che la scomparsa dell’uomo di Neanderthal sia stata dovuta alla sua minore aspettativa di vita a quella del primo uomo moderno è tutta da rivedere. Erik Trinkaus, antropologo dell’Università di Washington, ha esaminato i reperti fossili di entrambe le specie, che hanno convissuto per circa 150.000 mila anni, scoprendo che il rapporto tra gli individui di 20-40 anni e quelli oltre i 40 era identico tra Neanderthal e uomo moderno.

l’Unità 23.1.11
Ecco le teste del vero Modì
A 26 anni dal celebre falso di Livorno una mostra recupera l’autentica bellezza della scultura di Modigliani
di Renato Barilli


Il primo intento della mostra che il Museo d’Arte di Rovereto e Trento, MART, dedica alle sculture di Modigliani (1884-1920), lo spiega bene la direttrice e curatrice dell’esposizione, Gabriella Belli, è di sanare la ferita inflitta, nel 1984, a questa parte della produzione del grande artista da alcuni smaliziati ragazzi di Livorno, pronti a sfruttare un ambiguo dato di cronaca, relativo a uno dei pochi rientri in patria di Modigliani, già dedito alla produzione di opere in pietra. In quel breve soggiorno si sarebbe sbarazzato di alcune statue gettandole in un torrente. Gli ingegnosi ragazzi, armati di un banale attrezzo, avevano scavato nella pietra dei volti del tutto simili a quelli che allora, a Parigi, aveva iniziato a scolpire Modì, simulandone il ritrovamento. Ma dunque, questa la reazione tra il perplesso e l’indignato dell’infinita categoria dei benpensanti, l’arte contemporanea è davvero una truffa, chiunque la può imitare a capriccio? Da qui l’utile ricognizione ad ampio raggio condotta dal MART, da cui risulta quanto tutti già sappiamo: l’idea di andare a sbozzare in materiali duri un’effigie del volto umano, squadrata e massiccia, era già coltivata da molti, prima che Modì entrasse in campo. Aveva iniziato, al solito, Picasso, subito seguito da una schiera di corifei, una lunga lista di nomi che comprende Ossip Zadkine, Henri Laurens, Jacques Lipchitz, con un posto autonomo da riservare a Constantin Brancusi, il più essenziale e concentrato tra tutti. L’intento generale era di rubare il mestiere ai carrozzieri d’auto e di dare ai tratti somatici umani lo stesso rigore di una macchina. Su questa strada erano risultati utili gli apporti della cultura primitiva propria dei paesi africani, con la libertà di modellare i volti spostando liberamente bocche e occhi, dando al tutto una forte sporgenza.
L’AMORE PER L’UMANO
Modì, all’inizio del secondo decennio, si sentiva ormai stanco di limitarsi a stilizzare le figure mantenendole schiacciate sul piano, come volevano i fauves, con tutt’al più qualche timida scheggiatura di sapore cézanniano, e dunque imboccò con piacere quella via risolutamente tridimensionale indicatagli dai compagni di via. Ma si avverte nel suo procedere una grande differenza, rispetto agli altri. Questi seguono il copione dell’incombente meccanomorfismo, e dunque aggrediscono le fisionomie, le piallano, le brutalizzano. Invece il Nostro è pur sempre mosso da un grande amore per le sembianze umane, e in particolare per quelle femminili, e dunque le imposizioni praticate non devono portare a un loro sacrificio, anzi, esaltarne i valori di grazia e di eleganza. In definitiva si tratta di far assumere a un’umanità, in definitiva abbastanza androgina, come delle maschere degne di raffinate cerimonie, come le bautte del carnevale veneziano, che lasciano trasparire qualche elemento della realtà sottostante, ma lo filtrano attraverso un velo nobilitante, il che del resto è quanto più di frequente il nostro artista faceva nei magnifici dipinti.

La Stampa 23.1.11
Malati immaginari Le paure costano quattro miliardi
Si fanno diagnosi con web e dottor House E sono un incubo per medici e conti pubblici
di Maria Corbi


Italiani? Un popolo di ipocondriaci. Malati immaginari che cercano su Internet la causa dei loro doloretti, che affollano le anticamere dei medici di base, in fila alle farmacie carichi di prescrizioni, sempre pronti a trasformare una febbriciattola nell’annuncio della fine. E che per questo costano allo Stato 4 miliardi all’anno, come spiega il senatore Antonio Gentile, Pdl, della commissione finanze di Palazzo Madama. «La metà di questi soldi vengono spesi per risonanze magnetiche, Tac, esami di Ecg inutili mentre l’altra metà viene spesa in visite specialistiche convenzionate».
Come Verdone nel film E tra le patologie più temute ci sono i tumori (38 per cento), le malattie cardiovascolari (34 per cento), le malattie mentali e neurodegenerative (22 per cento). Un problema che causa certamente sofferenza e che annovera tra le sue vittime anche molti nomi noti, a iniziare da Carlo Verdone che proprio in uno dei suoi film più famosi, «Maledetto il giorno che ti ho incontrato», porta sullo schermo una coppia di ipocondriaci (lui e Margherita Buy) destinati a innamorarsi. E la battuta «Copro tutto, fino al delirio schizoide», è ormai diventata un cult tra gli ipocondriaci confessi. E da Wikileaks abbiamo saputo che anche Gheddafi è della partita e che si porta in giro, sempre, un’infermiera oltre a filmare tutti i suoi controlli medici.
Boom di allucinazioni Ma il problema non è solo italiano, visto che negli Stati Uniti l’ipocondria affligge un americano su 20 e costa 150 miliardi di dollari all'economia. E qualche giorno fa i ricercatori dell’Università di Stanford hanno pubblicato l’esempio delle allucinazioni. Su un campione di 13.057 persone, scelto tra Regno Unito, Germania e Italia, rappresentativo di 150 milioni di europei, ben il 16,3 per cento aveva allucinazioni occasionali. «Eppure - scrivono i ricercatori - ancora oggi molti si attardano a fare diagnosi sulla base solo di questo sintomo che può essere patognomonico (indica cioè la certezza della malattia, ndr), ma può anche non significare nulla, specialmente nelle età di transizione».
E nell’era di Internet essere ipocondriaci è sicuramente più facile, visti gli strumenti a disposizione, come l’applicazione per I-phone che regala diagnosi in base ai sintomi che si digitano. Una ricerca ci dice che oltre 16 milioni di italiani cercano informazioni sanitarie su Internet, e molti di loro, e sempre di più, lo fanno in modo compulsivo, convincendosi, alla fine, di essere malatissimi.
E sembra che le serie televisive piene di camici bianchi e ospedali - in testa dottor House, il genio delle diagnosi impossibili - non aiutano a placare l’ansia dei malati immaginari. Secondo uno studio dell’Università del Rhode Island gli appassionati del genere possono mettere in atto comportamenti di eccessiva attenzione per la loro salute.
Ma guai a definire qualcuno «ipocondriaco», tanto che Verdone ha spiegato in un’intervista di non sentirsi affatto tale quanto piuttosto un «cultore della materia»: «Io studio la sera, leggo libri, mi documento su Internet, ascolto specialisti». Tanto, dice, da avere salvato la vita ad almeno cinque persone mandate dal medico «a calci nel sedere». «Non per vantarmi, ma sarei stato un grande medico di famiglia».

La Stampa 23.1.11
Garattini: “Lo spreco più inquietante è per gli antidepressivi”
di Elena Lisa


RICETTE COMPULSIVE «I medici prescrivono esami per tutelarsi da azioni legali»
MULTE ANTI-SPERPERO «Le Asl devono agire "con sanzioni contro chi esagera»

Quanti? Quattro miliardi all’anno. Ma figuriamoci, saranno ben di più». Netto e deciso, Silvio Garattini, fondatore e direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche «Mario Negri» è sicuro: manie e fobie italiane costano un patrimonio al sistema sanitario nazionale e, paradossalmente, peggiorano la salute di chi si ingozza di pillole con mestolate di sciroppo. Partiamo dal principio, professore: cos’è l’ipocondria? «La certezza di avere malattie terribili basando l’auto-diagnosi su sintomi inesistenti: un mal di testa e si crede di avere un’emorragia cerebrale, uno starnuto e si è persuasi del contagio di aviaria». Perciò si corre dal medico? «La paura genera un’ansia incontrollata che si attenua solo con un referto che certifica il buono stato di salute». Ma lastre e tac si eseguono dietro prescrizione, giusto? «L’atteggiamento di chi compila ricette in modo compulsivo ha un nome: si chiama “medicina difensiva”. Oggi le denunce a ospedali e specialisti sono molte, troppe, così i medici, per premunirsi, prescrivono ogni tipo di analisi». Da un lato l’ipocondria e dall’altro la fobia da «azione legale»? «Il surplus di costi inutili, superflui, non è spiegabile solo con le reciproche paure. Allora parliamo di sprechi. Per esempio: servono davvero tutti i tipi di pace maker e i cateteri in circolazione?».
Lei cosa pensa? «Credo che molto si possa e si debba limitare. La strada da percorrere è lunga: i medici devono avere più fiducia nei pazienti, i cittadini aumentare la loro cultura nel campo della salute, e in mezzo dev’esserci più Regione».
In che termini? «Di controllo. Se non si prevedono ammende, il discorso diventa inefficace. Le Asl dovrebbero intervenire, verificare e, nel caso, sanzionare». Chi: le strutture che sprecano e i medici che prescrivono farmaci in quantità? «Perché no? Esistono evidenti differenze regionali: in Campania, Calabria e Lazio si spende il 30 per cento in più rispetto ai costi sanitari pubblici del Nord. Ci fossero più accertamenti ci sarebbero meno sperperi». Come si distingue chi s’inventa un malanno da chi il malessere ce l’ha davvero? «Gli ipocondriaci non si lamentano di un acciacco e basta. Ne hanno più d’uno e li cambiano di continuo. E quando entrano in farmacia sembrano stare nel paese dei balocchi». Qual è la conseguenza dell’abuso? «Le medicine, di base, non sono tossiche, ma in alcuni casi possono diventarlo. Senza contare poi che rendono il fisico meno resistente alle cure quando diventano necessarie. Ha idea di quanto gli italiani spendano al giorno, mutua a parte, per i farmaci?»
Quanto? «Circa 17 milioni per integratori alimentari, antibiotici, blandi sedativi e molto altro». Nel calderone ci sono anche antidepressivi, ansiolitici e psicofarmaci? «È lo spreco più inquietante: scoprire che la maggior parte delle ricette non riguardano patologie reali, disturbi e nevrosi, ma sono state rilasciate per alleggerire le persone da momenti tristi, duri, complicati ma naturali della vita, mi ha fatto capire quanto sia insofferente e spaventata, oggi, la nostra società».

La Stampa 23.1.11
A Milano apre i battenti la banca cinese Icbc Vale quanto il pil italiano
Fornirà servizi come depositi prestiti ai clienti cinesi ed europei


Industrial & commercial bank of China (Icbc), la banca cinese che vale quanto il Pil italiano, ha aperto i battenti a Milano. La Icbc si è presentata con una carta d’identità di tutto rispetto: profitti per 12,4 miliardi di dollari (nella prima metà del 2010), 235 milioni di clienti e oltre 16 mila sportelli sparsi nel mondo. La più grande delle quattro banche commerciali controllate dallo Stato cinese, sull’onda di una strategia indirizzata all’Europa, ha aperto una filiale anche a Milano, in pieno centro, nella galleria Vittorio Emanuele. Altre quattro sono state inaugurate da Icbc sempre nel Vecchio Continente a Parigi, Bruxelles, Amsterdam e Madrid. Per l’inaugurazione è stata celebrata una affollata kermesse, a palazzo Mezzanotte sede della Borsa Italiana, con il contributo della Fondazione Italia-Cina, presieduta da Cesare Romiti.
Alla cerimonia di venerdì hanno partecipato il presidente della Icbc, Jiang Jianqing, il ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani, e il presidente della Fondazione Italia Cina, Cesare Romiti. Per Jiang il futuro è più che promettente se si pensa che «tra Italia e Cina c’è stato un interscambio di 13 miliardi di dollari nel 2003, destinati, come ha detto il premier Wen Jabao, a diventare 80 nel 2015, anno dell’Expo 2015 a Milano». Mentre Bankitalia segnala flussi verso la Cina da circa due miliardi di euro nel 2009 e tra banche cinesi e money transfer sembra in atto un’eterna lotta tra gatto e topo. Con i money transfer chiusi per effetto di operazioni della guardia di finanza sulle linee grigie dell’economia. Infatti le banche raccolgono secondo Bankitalia solo il 10% circa dei flussi.
Oltre alla Cina, Icbc è presente in 28 Paesi del mondo, con 203 sedi. Ha inoltre accordi con 1.453 banche in 132 Paesi e territori. Fuori dalla madrepatria impiega 4.700 dipendenti. In Italia la banca predisporrà servizi finanziari come depositi, prestiti, trade finance e investment banking di clienti cinesi ed europei. Le relazioni economiche e commerciali tra Cina ed Europa hanno sviluppato un forte rapporto nel corso degli ultimi anni, e l’Unione europea è diventata il primo partner commerciale e il più grande mercato d’importazione della tecnologia. Secondo i dati statistici, nei primi dieci mesi del 2010, il volume del commercio bilaterale CinaEuropa ha registrato crescita del 32,9% anno su anno. Sempre più sono le aziende cinesi che stanno investendo in Europa, e molte di loro sono partner a lungo termine di Icbc. [R. E.]