martedì 25 gennaio 2011

L'Osservatore Romano 23.1.11
Senza verità la politica è culto dei demoni
di Joseph Ratzinger

Nell'autunno del 1962 Joseph Ratzinger tenne una conferenza alla settimana della Salzburger Hochschule. Un breve estratto ne venne pubblicato nella rivista dei laureati cattolici "Der katholische Gedanke" (19, 1963, pp. 1-9) e una parte più vasta era stata già stampata in precedenza in "Studium Generale" (14, 1961, pp. 664-682). I due articoli vennero poi rielaborati nel volume Die Einheit der Nationen (1971), tradotto in Italia nel 1973 e ora riedito a cura del nostro direttore: L'unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa (Brescia, Morcelliana, 2009, pagine 120). Qui sotto pubblichiamo uno stralcio dell'ultimo capitolo del volume, l'introduzione del curatore e la recensione del libro scritta da uno dei maggiori studiosi di patristica e di storia del cristianesimo.

Come presso Origene, anche presso Agostino il punto di aggancio per la teologia della realtà politica risulta da una necessità della polemica. La caduta di Roma nell'anno 410 per opera di Alarico aveva chiamato in campo di nuovo la reazione pagana: dove sono mai le tombe degli Apostoli? si gridava. Essi manifestamente non erano stati in grado di difendere Roma, la città che era rimasta invitta finché si era affidata alla tutela dei suoi dèi patri. La sconfitta di Roma dimostrò con evidenza palmare che il Dio creatore, che la fede cristiana adorava, non si prendeva cura delle vicende politiche; questo Dio poteva essere competente per la beatitudine dell'uomo nell'aldilà; che non fosse competente per l'ambito della realtà politica, l'avevano appena mostrato efficacemente gli eventi. La politica aveva manifestamente la propria struttura di leggi, che non concerneva il Dio sommo, doveva quindi avere anche la propria religione politica. Ciò cui la massa aspirava, piuttosto per una sensibilità generale, voglio dire che, accanto alla religione elevata si dovesse dare anche una religione delle cose terrene, e specialmente di quelle politiche, era cosa che si poteva motivare pure più profondamente ancora partendo dalle convinzioni filosofiche dell'antichità. Bastava solo ricordarsi dello assioma del pensiero platonico formulato da Apuleio: "Tra Dio e l'uomo non v'è nessuna possibilità di contatto". Il platonismo era convinto nel senso più profondo della distanza infinita tra Dio e mondo, tra spirito e materia; che Dio si occupasse direttamente delle cose del mondo, doveva apparirgli del tutto impossibile. Il servizio divino per il mondo era curato da esseri intermedi, da forze di natura diversa, a cui ci si doveva attenere, quando si trattava delle cose di questo mondo. In questa accentuazione eccessiva della trascendenza di Dio, che significava segregarlo dal mondo, escluderlo dai concreti processi di vita d'esso, Agostino scorgeva a ragione il nucleo vero e proprio della resistenza contro la rivendicazione di totalità da parte della fede cristiana, che non poteva mai tollerare un'emarginazione della realtà politica dall'ordine dell'unico Dio. Alla reazione pagana che tendeva a una restaurazione del rango religioso della pòlis e in tal modo a relegare la religione cristiana dell'aldilà nell'ambito puramente privato, egli contrappose anzitutto due precisazioni fondamentali. La religione politica non ha alcuna verità. Essa poggia su una canonizzazione della consuetudine contro la verità. Questa rinuncia alla verità, anzi lo stare contro la verità per amore della consuetudine, è stata persino ammessa apertamente dai rappresentanti della religione romana - Scevola, Varrone, Seneca. Ci si assoggetta a pagare la tradizione con quanto si oppone alla verità. Il riguardo alla pòlis e al suo bene giustifica l'attentato contro la verità. Ciò vuol dire: il bene dello Stato, che si crede legato al persistere e sopravvivere delle sue antiche forme, viene posto al di sopra del valore della verità. Qui Agostino vede scoppiare in tutta la sua asprezza il contrasto vero e proprio: secondo la concezione romana la religione è una istituzione dello Stato, quindi una sua funzione, e come tale subordinata a esso. Non è un assoluto il quale sia indipendente dagli interessi dei gruppi che la rappresentano, ma è un valore strumentale rispetto allo "Stato" assoluto. Secondo la concezione cristiana, per contro, nella religione non si tratta di consuetudine ma di verità, che è assoluta, che quindi non viene istituita dallo Stato, ma ha istituito per se stessa una nuova comunità, la qua- le abbraccia tutti quanti vivono della verità di Dio. Partendo di qui, Agostino ha concepito la fede cristiana come liberazione: liberazione per la verità dalla costrizione della consuetudine. La religione politica dei Romani non ha alcuna verità, ma al di sopra di essa esiste una verità, e tale verità è che l'asservimento dell'uomo a consuetudini ostili alla verità lo pone in balìa delle potenze antidivine, che la fede cristiana nomina demoni. Perciò il servizio agli idoli ora non è, invero, solo uno stolto affaccendarsi senza oggetto, ma, consegnando l'uomo in balìa della negazione della verità, diviene servigio ai demoni: dietro gli dèi irreali sta il potere sommamente reale del demone e dietro la schiavitù alla consuetudine v'è il servaggio agli ordini degli spiriti malvagi. In ciò sta la vera profondità a cui scende la liberazione cristiana e la libertà conquistata in essa: liberando dalla consuetudine affranca da un potere, che l'uomo ha egli stesso dapprima creato, ma che di gran lunga si è levato al di sopra del suo capo e ora è signore su di lui; è divenuto un potere oggettivo, indipendente da lui, breccia d'invasione da parte della potenza del male come tale, che lo sopraffà, cioè dei "demoni". La liberazione dalla consuetudine per attingere la verità è emancipazione dalla potestà dei demoni che stanno dietro la consuetudine. In ciò il sacrificio di Cristo e dei cristiani ora diviene veramente comprensibile come "redenzione", cioè liberazione: elimina il culto politico opposto alla verità e al posto di esso, che è culto dei demoni, mette l'unico universale servizio alla verità, che è libertà. In ciò, il processo di pensiero di Agostino s'incontra con quello di Origene. Come questi aveva inteso l'assolutezza religiosa dell'elemento nazionale quale opera degli angeli demoniaci delle genti e l'unità sovranazionale dei cristiani come liberazione dalla prigionia contro il fattore etnico, così anche Agostino riporta la realtà politica nel senso antico, cioè la divinizzazione della pòlis, alla categoria del demoniaco e nel cristianesimo vede il superamento del potere demoniaco della politica, che aveva oppresso la verità. Anche per lui gli dèi dei pagani non sono vuote illusioni, ma la maschera fantastica, dietro la quale si celano potestà e dominazioni, che precludono all'uomo l'accesso ai valori assoluti, rinserrandolo nel relativo. E anch'egli nell'elemento politico scorge il dominio vero e proprio di queste potenze. È vero che Agostino ha riconosciuto il suo valore di verità all'idea di Evemero che tutti gli dèi siano stati in origine una volta uomini, cioè che ogni religione (dei pagani) poggi su una iperbolizzazione di sé da parte dell'uomo, ma ha visto al tempo stesso che l'enigma delle religioni pagane, con questa ammissione, non è affatto risolto. Le potenze, che apparentemente l'uomo fa scaturire e proietta da se stesso, presto si dimostrano oggettive ipostasi di potere, "demoni", che esercitano su di lui una signoria sommamente reale. Da esse può liberare solo Colui che ha potere su tutte le potestà: Dio medesimo. Se qui, a conclusione, ci chiediamo quale sia la risultanza complessiva dell'indagine, dobbiamo constatare che anche Agostino non ha tentato di elaborare qualcosa da intendere come la costituzione di un mondo fattosi cristiano. La sua civitas Dei non è una comunità puramente ideale di tutti gli uomini che credono in Dio, ma non ha neppure la minima comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo costituito cristianamente, bensì è un'entità sacramentale-escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo futuro. Quanto sia precaria la causa di un cristiano, glielo aveva mostrato l'anno 410, in cui veramente non erano stati solo i pagani a invocare gli antichi dèi di Roma. Così per lui lo Stato, pure in tutta la reale o apparente cristianizzazione, rimase "Stato terreno" e la Chiesa comunità di stranieri, che accetta e usa le realtà terrene, ma non è a casa propria in esse. Certo, la convivenza delle due comunità era divenuta più pacifica di quanto fosse ai tempi di Origene; Agostino non parlò più della cospirazione contro lo Stato "scitico"; ma ritenne giusto che i cristiani, membri della patria eterna, prestassero servizio in Babilonia come funzionari, anzi come imperatori. Mentre dunque in Origene non si vede bene come questo mondo possa proseguire, ma si percepisce soltanto il mandato di tendere allo sbocco escatologico, Agostino mette in conto una permanenza della situazione attuale, che ritiene tanto giusta per quest'età del mondo, da desiderare un rinnovamento dell'Impero romano. Ma rimane fedele al pensiero escatologico in quanto reputa tutto questo mondo un'entità provvisoria e non cerca perciò di conferirgli una costituzione cristiana, ma lascia che esso sia mondo, che deve tendere lottando a conseguire il proprio relativo ordinamento. In tal misura anche il suo cristianesimo, fattosi in modo consapevole legale, rimane, in un senso ultimo, "rivoluzionario", poiché non può considerarsi identico ad alcuno Stato, ma è invece una forza che relativizza tutte le realtà immanenti al mondo, indicando e rinviando all'unico Dio assoluto e all'unico mediatore tra Dio e l'uomo: Gesù Cristo.

l’Unità 25.1.11
Un’altra storia italiana è possibile
E adesso tocca alla piazza


Sabato a Milano donne e uomini con una sciarpa bianca in segno di lutto contro lo squallore di una classe dirigente senza più etica e regole

Dopo la rivolta del web, le oltre 40mila adesioni arrivate sul sito dell’Unità, adesso è la volta della piazza. L’appuntamento è fissato a Milano per sabato prossimo, alle 15, in piazza della Scala. Scrivono le promotrici dell’iniziativa: «Le moltissime adesioni che continuano ad arrivare all'appello “Mobilitiamoci per ridare dignità all’Italia”, sottoscritto da donne e uomini, partito da Milano e dalla Lombardia, insieme alla richiesta arrivata spontaneamente da centinaia di donne di una presa di parola pubblica, ci hanno indotto a lanciare la proposta di una manifestazione a Milano. Con un simbolo da condividere: una sciarpa bianca del lutto per lo stato in cui versa il Paese.
Uno slogan: Un'altra storia italiana è possibile.
Ci saremo con le nostre facce. Appuntandoci sulla giacca una fotocopia della nostra carta di identità con Piccoletta di Beatrice Alemagna der, cosa riuscita in pieno.
Sarebbe bene analizzare il triste episodio del così detto Bunga Bunga come un ennesimo comportamento, da parte del nostro premier, da antistatista. Negli ultimi anni ad essere danneggiata e stata la NOSTRA DEMOCRAZIA e non la sua vita privata. Ma certo, lui se ne infischia della DEMOCRAZIA, è scomodo essere considerati tutti uguali verso lo Stato
su scritto chi siamo: cassaintegrate, commesse, ricercatrici precarie, artiste, studentesse, registe, operaie e giornaliste, per dire la forza che rappresentiamo, a dispetto dell'immagine di una rappresentazione che non ci corrisponde. Perché vogliamo che la risposta a tutto questo fosse politica molto prima che giudiziaria. Quel che accade del nostro Paese offende le donne, ma anche gli uomini, che non si riconoscono nella miseria della rappresentazione di una sessualità rapace e seriale, nello squallore di una classe dirigente che ha fatto dell’eversione di ogni regola e del sovvertimento di qualunque verità il suo tratto distintivo». Le mail di adesione vanno inviate a: manifestazione29gennaio@gmail.com
Tra le prime firme pervenute: Ileana Alesso; Paola Bentivegna; Ivana Brunato; Iaia Caputo; Adriana Cavicchioli; Arianna Censi; Fulvia Colombini; Marina Cosi; Ilaria Cova; Chiara Cremonesi; Marilisa D’Amico; Ada Lucia De Cesaris; Piera Landoni; Elena Lattuada; Paola Lovati; Marina Piazza; Patrizia Quartieri. Seguono decine di altre.

l’Unità 25.1.11
Bersani incassa il successo
Prodi: ha vinto la democrazia
Bersani incassa il bel successo del Pd alle primarie e dice: ora uniti per vincere. Prodi: ha vinto la democrazia. Vendola apprezza la partecipazione e aggiunge: non pretendo che vincano sempre quelli che piacciono a me.
di A.Bo.


Per il Pd è un bel successo. E il segretario Pier Luigi Bersani lo incassa con soddisfazione. Evitato il rischio di un bis di Milano con la vittoria del candidato di Vendola si è complimentato al telefono con Virginio Merola e i segretari regionale Bonaccini e cittadino Donini per complimentarsi (la stessa cosa ha fatto a Napoli). «Ora dobbiamo lavorare per l’unità ha detto il leader Pd e costruire una proposta vincente e un clima favorevole per battere il centrodestra». Invito subito raccolto da Bonaccini, che parla di Merola come «candidatura ancora più forte. Ora definiamo il progetto di governo per la città». E anche da Donini, secondo cui «il Pd ha vinto, voluto, difeso e valorizzato questo strumento. L’ho detto: non c'era niente di più civico che far scegliere il candidato sindaco ai cittadini».
Soddisfatto anche Romano Prodi: «Ha vinto la democrazia», ha commentato l’alta affluenza 28.400 persone, 3.000 in più rispetto al 2008 alle primarie che a Bologna hanno visto l’ampia affermazione dell’ex assessore Pd Virginio Merola con il 58% (16mila preferenze). La soddisfazione è palpabile, sotto le Due Torri. «È la dimostrazione gongola il Professore che, quando la competizione è libera e vera e si dà alla gente la possibilità di essere coinvolta nelle scelte, la risposta è positiva».
VERSO LE ELEZIONI
Ora si guarda al 15 maggio, data probabile delle amministrative, con più serenità. L’obiettivo è vincere al primo turno, contando magari nella divisione tra la coppia Pdl-Lega che presenterà il candidato a inizio marzo e, al momento, è in alto mare - e il costituendo Terzo Polo, che punta forte sulla disponibilità di Stefano Aldrovandi (ex Fondazione Del Monte, ex Hera) di vestire i panni di un novello Guazzaloca. Un primo passo, intanto, è stato fatto. Fondamentali in chiave-affluenza anche gli altri due concorrenti: Amelia Frascaroli, sostenuta da Sel, Verdi e Federazione della Sinistra, che ha ottenuto 10.500 preferenze (pari al 36% circa), facendo il pieno nei quartieri del centro storico, e Benedetto Zacchiroli, fermo poco sotto i 1.600 voti (5,6%). Non è da sottovalutare, poi, il richiamo della petizione per chiedere le dimissioni di Berlusconi, che ha ottenuto in un solo giorno oltre 20mila sottoscrizioni. Non a caso, infatti, Merola ha coniato lo slogan «ricomincio da tre», promettendo il coinvolgimento degli altri due ormai ex avversari, anche se non necessariamente nella giunta. Importante, in questo senso, la dichiarazione di Nichi Vendola, che era venuto a Bologna, alcune settimane fa, per sostenere la Frascaroli, che al Tg3 ha dichiarato: «Non ho la presunzione che debbano vincere ovunque quelli che vorrei io, e credo che questo possa tranquillizzare il Pd. Viva le primarie, non si deve aver paura, non ci sono esiti scontati». Esultano anche i dipietristi: «Bologna oggi rappresenta il punto da dove la vera politica dei cittadini può ripartire dice Silvana Mura, parlamentare e segretaria regionale dell’Idv non si può perdere questa chance che gli elettori di Centrosinistra hanno voluto accordare».

Repubblica 25.1.11
Bersani esulta: "Il partito c´è e vince" E spunta il lodo per bloccare Veltroni
Già all´assemblea di venerdì a Napoli il leader accennerà ai ritocchi per le primarie
Il segretario: se servono primarie di coalizione il Pd deve presentare un solo candidato
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Visto che affluenza? Il Pd c´è, a dispetto di chi sostiene che sia irrilevante. E ha tutti candidati all´altezza». Pier Luigi Bersani si gode la sua rivincita su Nichi Vendola, su chi lo aveva messo in croce dopo la debàcle alle primarie di Milano. «Quello è stato un caso a sé- dice facendo un passo indietro -. Stefano Boeri era un´ottima scelta. Ma partì tardi. Pisapia comunque non fu la vittoria di Nichi. Era una candidatura lanciata da mesi, che ha fatto breccia anche nei moderati». Oggi però è il momento di guardare avanti e nell´analisi del segretario si coglie anche un riferimento alla competizione nazionale. Dove il concorrente del Pd dev´essere uno solo, non c´è spazio per altri. Appare lampante il messaggio a Walter Veltroni.
Bersani tira fuori il jolly parlando del voto a Napoli. «Io continuo a difendere le primarie. Sono uno straordinario strumento di partecipazione e con le regole giuste ti danno una marcia in più. Noi a Bologna e Napoli adesso partiamo prima degli altri che non hanno ancora un nome. Però...» Ecco il punto. «Il meccanismo ha bisogno di correzioni se non vogliamo rompere il giocattolo. Napoli in questo senso è una cartina di tornasole». Nella città campana si è data la priorità alle primarie e ci si è "dimenticati" della coalizione. È il metodo che Bersani contesta a Vendola, strenuo difensore delle primarie a tutti i costi. «Con il risultato - osserva il leader del Pd - che alcuni partiti del centrosinistra sono stati tenuti fuori». L´Italia dei Valori, per esempio. Che oggi chiede a Cozzolino di ritirarsi, altrimenti si presenterà con un proprio candidato per il comune. Ma quello che non va è soprattutto la gara a tre dentro lo stesso partito. Il Pd ha schierato Cozzolino, Ranieri e Oddati. «A Napoli però si svolgevano primarie di coalizione, non c´eravamo solo noi. Ed è sbagliato - osserva Bersani - che il Pd si presenti con tanti candidati diversi. In una competizione dentro un´alleanza è bene che il partito si presenti nella maniera più unitaria possibile, dev´esserci una sintesi».
Questo è il punto delicato in vista di una possibile sfida nazionale. Il ritorno di Veltroni sulla scena e la sua possibile aspirazione a candidarsi per la premiership si scontrano con questa analisi di Bersani. Siamo perciò di fronte a una prima risposta, indiretta, alla manifestazione del Lingotto. Se il Pd farà delle primarie con altri partiti per costruire una coalizione il candidato dev´essere uno solo. Ossia il segretario in carica. È per ora una partita aperta, ma un accenno alla situazione napoletana e quindi alle regole da correggere Bersani lo farà all´assemblea nazionale che si tiene proprio a Napoli venedì e sabato. In quell´occasione il nodo dei ricorsi sarà già sciolto perché il candidato va festeggiato in pompa magna e lanciato dal partito tutto. Bersani lo ha spiegato ieri ai due dirigenti provinciali Nicola Tremante e Massimiliano Manfredi durante la telefonata con cui si è felicitato per la grande partecipazione.
Bersani è abbastanza tranquillo rispetto alle sfide esterne e interne alla sua leadership. Il Pd ha commissionato una serie di sondaggi tra la base sul candidato più affidabile in caso di primarie. Il segretario vince sia su Vendola che su Veltroni. Ma nella gara per il candidato premier del centrosinistra siamo ancora alla fase di riscaldamento.

l’Unità 25.1.11
«La lezione di Bologna serve a tutto il Pd per battere Berlusconi»
Il vincitore «Ora tutti uniti per conquistare il Comune al primo turno Frascaroli e Zacchiroli li vorrei in squadra. Il mio esempio? Chiamparino»
di Andrea Bonzi


A Bersani voglio dire: il Pd bolognese c’è, conta su di noi. Fai come noi e vedrai che cambieremo l’Italia». La sua prima battaglia Virginio Merola l’ha vinta, e bene. Nella notte tra domenica e ieri, l’ex assessore della giunta Cofferati è stato eletto candidato sindaco del Centrosinistra sotto le Due Torri. Una sfida dominata nettamente: delle oltre 28.000 preferenze espresse dai cittadini, Merola ne ha raccolte 16.000, pari a oltre il 58%. E ora fa appello a tutte le forze della coalizione «per vincere, quando si voterà a maggio, già al primo turno». Merola, in un momento in cui le primarie vengono messe in dicussione, che valore ha l’exploit di partecipazione dei cittadini? Se a Bologna offri un’occasione di democrazia, i cittadini non la perdono. Sto leggendo il libro di Luca Ricolfi, “Perché siamo antipatici”, in cui si sostiene che la sinistra viene sconfitta se si presenta con la puzza sotto il naso. Ecco, penso invece che serva umiltà. Quanto ha pesato secondo lei il clima generato dalla raccolta firme per mandare a casa Berlusconi? Può aver inciso, Bologna capisce bene ciò che sta succedendo al Paese e non può accettarlo. Ma credo anche che sia stata una reazione agli uccelli del malaugurio, che avevano pronosticato un flop per queste primarie. Quali sono le prossime mosse? Innanzitutto mi prenderò una settimana di riposo, per raccogliere le idee dopo questo periodo intenso. Intendo confermare Maurizio Cevenini come presidente del Comitato elettorale, se vorrà. E ovviamente tenere conto delle proposte di Amelia Frascaroli e Benedetto Zacchiroli (gli sfidanti, ndr). Poi ridefinirò la macchina per la campagna elettorale, già divisa in gruppi tematici: intendo definire il programma con tutte le 28mila persone che si sono recate alle urne. Se le amministrative saranno il 15 maggio, come sembra, la strada è ancora lunga. Giovedì, poi, parteciperò alla manifestazione della Fiom contro la Fiat e l’accordo di Mirafiori (in Emilia-Romagna si sciopera il 27, non il 28 come nel resto d’Italia, ndr).
Parliamo dei suoi concorrenti: insieme hanno totalizzato 12.000 preferenze, di cui oltre 10mila della Frascaroli. Lei ha detto più volte di voler “ripartire da tre”, ma le piacerebbe averli a fianco in un’ipotetica giunta? Il risultato di Amelia è importante. A me piacerebbe averli entrambi in squadra, ma devo anche dire che il sindaco è indipendente e nomina lui gli assessori: faremmo un torto a loro se oggi dessimo loro il posto.
È un errore annunciare la giunta in campagna elettorale. E poi, nessuno di noi si è candidato per fare l’assessore. Rispettiamoli.
Lei ha fatto l’assessore all’Urbanistica con Sergio Cofferati. Cosa si porterà dietro di quel periodo che, nel bene e nel male, ha diviso Bologna?
Credo che quella giunta abbia seminato molto. Uno degli errori di quella esperienza ma non è colpa di Cofferati è che l’esposizione dell’ex segretario Cgil ha messo in ombra quanto fatto in quegli anni. Ritengo che Cofferati sia un grande uomo politico, forse sovradimensionato per il ruolo di sindaco. Da lui ho imparato che “partecipare è decidere”. Ha qualche ricetta particolare per governare?
Non bisogna aver paura dell’impopolarità, quando si sostengono le proprie tesi. Con queste primarie, credo che ci siamo già lasciati dietro un po’ di passato, e ora possiamo guadagnare tanto futuro. Bologna avrà il rango che merita, e lo faremo insieme ai cittadini. Voglio dimostrare che cambiare è possibile.
È possibile cambiare anche il Pd?
Io credo che i cambiamenti fatti dal segretario Raffaele Donini sotto le Due Torri abbiano avuto forte consenso: penso alle primarie, all’autonomia dei circoli. Qui c’è un candidato che non è stato deciso da quattro persone in una stanza. Non è poco.
C’è qualche altro primo cittadino a cui si ispira?
Stimo Chiamparino. Tutti dicevano che era un funzionario di partito, ma credo che abbia fatto buone cose a Torino. Poi vorrei citare Andrea Tolomelli, sindaco di Argelato (Bologna), 30 anni, che ha vinto le primarie contro tutti e ora fa il sindaco molto bene.
È pensabile una lista civica del sindaco? Se all'interno del Centrosinistra nascerà una lista civica che sostiene il sindaco ben venga, ma non ci sarà una lista civica del sindaco. Io credo che serva un progetto civico, anche se viene da un sindaco orgoglioso della sua tessera di partito. Bersani l’ha contattata?
Ci siamo sentiti nella tarda mattinata, è stata una chiamata molto affettuosa. Nel Centrodestra il candidato non c’è ancora. Ma intanto c’è la disponibilità di Stefano Aldrovandi, che si presenta con un profilo civico ma che pare sensibile alle sirene di Pdl e Lega. Che ne pensa?
È un bene per Bologna se si forma un Terzo Polo, credibile e autonomo, rigorosamente alternativo a Pdl e Lega Nord, che sono impresentabili. Servono proposte per migliorare la città. Poi, deciderà lui il da farsi: non posso certo fare un appello a non candidarsi.

La Stampa 25.1.11
Intervista
“Il Pd va da solo perché ha paura della sinistra”
Ferrero: con il veto colpiscono noi ma il vero obiettivo è bloccare Airaudo
di Maurizio Tropeano


Provano a colpire la Federazione della Sinistra ma il vero obiettivo del Pd è quello di impedire la candidatura di Giorgio Airaudo. Paolo Ferrero, segretario nazionale del Prc, non ha dubbi nell’analizzare la decisione della segreteria provinciale democratica di non allearsi mai con i comunisti. L’ex ministro non nomina mai il segretario regionale della Fiom, ma quando parla di «un candidato della sinistra che sia espressione diretta del no operaio alla Mirafiori» è chiaro che traccia il profilo del sindacalista che i mass media hanno identificato come l’anti-Marchionne. Se questo è il ragionamento, allora è chiaro che «la decisione arrogante del Pd è dettata dalla paura di perdere le primarie all’interno del centrosinistra».
A dire il vero la segreteria Pd non ha posto veti sui nomi, ma ha chiuso le porte ai partiti che in questi tre anni sono stati all’opposizione della giunta Chiamparino. Secondo lei non è una scelta coerente?
«E allora perché ci hanno invitato e abbiamo partecipato a quattro riunioni di coalizione? La verità è che hanno paura. Paura di una sinistra che all’interno dell’alleanza possa dare voce e forza ai lavoratori che hanno votato no. Un’opposizione che, come ha dimostrato l’alta partecipazione popolare alla fiaccolata, è in grado di raccogliere un ampio consenso in città».
Ma alla fine a Mirafiori i no hanno perso. Come può pensare che la sconfitta in fabbrica diventi vittoria alle comunali?
«Perché anche i lavoratori che hanno votato sì, lo hanno fatto perché sottoposti a un ricatto, nonostante in gran parte abbiano condiviso le ragioni del No. Il voto del referendum ha reso forte una radicalità, una richiesta di alternativa che trova spazio anche in alcune aree del Pd. E le primarie sono fatte apposta per valutare il consenso tra i candidati, ma anche la bontà dei progetti. Il nostro è valido: forse il Pd ha paura che il suo non lo sia».
L’assessore al Bilancio, Gianguido Passoni, esponente di un’area a sinistra del Pd, ha deciso di candidarsi preoccupato che la valenza politica nazionale di una candidatura Airaudo releghi in secondo piano i progetti per la città, consegnando così Torino alla destra. È così?
«Con tutto il rispetto per Passoni, la sua candidatura avrebbe un impatto diverso rispetto all’altra ipotesi, che permetterebbe di ricostruire un rapporto profondo tra i lavoratori e la politica. Un percorso molto importante per la sinistra e vincente a Torino».
In questa visione la città sarebbe sacrificata ad un progetto politico nazionale. È così?
«Noi non facciamo giochi romani. Il problema è del Pd. Abbiamo partecipato alle primarie di Bologna e Napoli nonostante fossimo all’opposizione. A Torino questo non succede e allora è chiaro che il Pd ha paura di perdere».
Sinistra e Libertà ha definito «unilaterale» la scelta del Pd. Che cosa vi aspettate dagli uomini di Vendola?
«Di non farsi mettere i piedi in testa dai democratici di Torino. La decisione non solo è unilaterale, ma è anche un errore politico che danneggia e divide l’opposizione proprio quando il comportamento di Berlusconi richiederebbe la massima unità».
E se il veto venisse confermato?
«Chiederemo a tutti quelli che hanno condiviso le ragioni del No di sostenere una candidatura che le rappresenta. Da parte nostra non ci faremo arroccare e dunque lavoreremo per trovare un candidato da sostenere alle primarie del centrosinistra».

l’Unità 25.1.11
La sfida Pd: oltre il Novecento ma anche oltre Marchionne
L’immagine dopo il Lingotto è quella di un partito più unito. Ma la priorità adesso è aiutare il paese a uscire dalla crisi economica e politica: non certo superare un improbabile esame di liberalismo
di Alfredo D’Attorre


La cultura del prendere o lasciare
Altrove nel mondo la politica si riappropria del suo ruolo, esattamente ciò che non accade in Italia e che consente a Marchionne di imporre il suo prendere o lasciare agli operai di Mirafiori: un atteggiamento impensabile in Occidente

L’iniziativa organizzata al Lingotto da Movimento democratico è stata senz’altro un momento positivo per il Partito Democratico. Lo è stata per l’ispirazione unitaria del dibattito e perché, sul piano politico, si è registrata la sostanziale adesione di quest’area, dopo l’astensione dal voto in Direzione, alla linea di lavorare a una convergenza larga delle forze di opposizione sulla base di alcune priorità fondamentali per il Paese. L’appuntamento si presentava poi con l’ambizione di incalzare la maggioranza interna del partito con proposte programmatiche innovative e con un impianto culturale più avanzato. Sarebbe sbagliato sottovalutare questa sfida, non tanto per un rispetto formale del ruolo della minoranza, ma perché è indubbio che il Pd abbia un bisogno vitale di analisi e di idee nuove , che gli consentano di interpretare più a fondo il mutato spirito dei tempi, in Italia e nel mondo, dopo lo spartiacque della crisi economica globale. Proprio per questo e perché nessuna delle culture politiche del Pd può ritenersi autosufficiente rispetto a questo compito, non c’è da rallegrarsi del fatto che, a mio avviso, da questo punto di vista il Lingotto non abbia segnato un passo in avanti.
Per la verità, già il titolo scelto, «Fuori dal Novecento», suscitava qualche perplessità. Questo messaggio appare fuorviante riguardo al tema cruciale: la discontinuità di cui oggi il Pd ha bisogno per leggere il mutamento dei tempi è quella rispetto alle sue culture politiche fondatrici o rispetto all’egemonia che ha esercitato anche nel campo progressista il lungo ciclo del neo-liberismo? Il “riformismo liberale” evocato a Torino si può accontentare di essere oltre il Novecento o non deve piuttosto dimostrare di essere oltre il cono d’ombra di quella forma di liberalismo anti-politico che ha imperato fino alla crisi economica?
Sotto questo profilo, è mancata nel Lingotto Due la riflessione sul perché il profilo del partito uscito dal Lingotto Uno sia andato rapidamente in crisi. Ciò è accaduto non semplicemente perché il Pd perso le elezioni nel 2008, ma perché quella chiave di lettura della società italiana non si è rivelata in grado di comprendere il cambio di fase che si stava producendo, proprio mentre la spregiudicatezza politico-culturale di Tremonti riposizionava il centro-destra dalla rivoluzione liberale all’anti-mercatismo.
Oggi il Pd deve rispondere all’esigenza, emersa dopo la crisi, di un nuovo ruolo dei poteri pubblici, per combattere il livello insostenibile raggiunto dalle disuguaglianza sociali e per promuovere la crescita, e lo deve fare senza tornare a uno statalismo d’antan, peraltro incompatibile con la dimensione del debito pubblico.
Immaginare invece che la priorità per il Pd sia superarare un esame di liberalismo, accettando ad esempio la cosiddetta sfida di Marchionne, significa essere dalla parte del cambiamento o piuttosto non cogliere come sia cambiato il mondo dal 2007 a oggi? Un mondo in cui perfino i governi di indirizzo conservatore non concepiscono più la globalizzazione come un’onda fatta solo di opportunità da cavalcare, ma tornano a fare politica industriale, attivano le leve dello Stato per difendere i lavoratori nazionali, ristabiliscono misure di programmazione economica.
In altre parole, altrove nel mondo la politica si riappropria del suo ruolo, esattamente ciò che non accade in Italia e che consente a Marchionne di imporre il suo prendere o lasciare agli operai di Mirafiori con un’assenza di confronto sulle prospettive industriali impensabile in qualsiasi altro angolo dell’Occidente. Certo, ciò avviene anzitutto per l’inazione e l’irresponsabilità del governo. Ma probabilmente anche il Pd è chiamato a riflettere più a fondo su come rischi di confondere il proprio tasso di riformismo con l’accettazione di una subalternità della politica, che rappresenta la vera eredità culturale non del liberalismo in quanto tale, ma del neo-liberismo travolto dalla crisi.

l’Unità 25.1.11
Il contratto e la lezione di Trentin
di Marco Simoni


Forse il principale punto di riferimento politico condiviso da tutto il centrosinistra degli ultimi quindici anni è rappresentato dagli accordi del 1992/1993. Come tutti i totem viene evocato a caso, spesso a sproposito, e senza aver timore di dimostrare una totale ignoranza dei suoi contenuti e dei suoi effetti. Facendo questo, si smarrisce la principale lezione di quegli accordi: la capacità di una generazione di politici e sindacalisti di sfidare i luoghi comuni, sfidare la coazione a ripetere che contagia spesso anche le menti più brillanti, e fare qualcosa di nuovo, assumendosi grandi rischi. Trentin si dimise un attimo dopo aver firmato il primo di quegli accordi, perché riteneva di essere andato un passo oltre il mandato ricevuto, e pertanto riteneva necessario discutere la decisione con tutta l’organizzazione che l’aveva eletto, che decise di confermargli la fiducia. Quell’accordo, e gli altri che seguirono, colsero tutti di sorpresa osservatori nazionali e studiosi internazionali perché l’Italia era la patria dei sindacati divisi politicamente, sindacati la cui strategia nazionale dipendeva spesso dalle decisioni delle segreterie di partiti in competizione tra di loro. Per seguire quella lezione, dunque, non si deve rimanere ostaggio del contenuto di quegli accordi, ma riflettere sui loro risultati, e decidere cosa fare ora che viviamo un nuovo momento di crisi.
Tra le altre cose, quegli accordi stabilivano due livelli di negoziazione, nazionale e aziendale, con l’idea che la contrattazione aziendale potesse far recuperare ai lavoratori una parte degli aumenti salariali che il contratto nazionale, livellato sulle aziende meno produttive per evitare aumenti salariali eccessivi, non avrebbe consentito. Dal 1993 ad oggi, tuttavia, il numero di accordi raggiunti a livello di impresa è diminuito anziché aumentare. Negli anni ’90 il 43% delle imprese con più di 20 addetti aveva un accordo aziendale. Negli anni 2000 il loro numero è calato al 30%, quasi tutto concentrato nelle grandi aziende. Allo stesso tempo, dall’inizio degli anni ’90 a oggi la proporzione dei lavoratori sindacalizzati nel settore privato si è dimezzata: dimezzata, era il 40% circa, ed è oggi al 19%. Questi due dati dovrebbero portare a riflettere maggiormente sul fatto che il contratto nazionale, come tra l’altro era avvenuto negli anni ’50, è stato principalmente uno strumento utile agli imprenditori per contenere il costo del lavoro in maniera orizzontale, indipendentemente dal contributo dato ai lavoratori, e indipendentemente dai successi o insuccessi della azienda. Inoltre, una mancata presenza del sindacato nella contrattazione aziendale può aver fatto affievolire, agli occhi di molti, il senso di una appartenenza.

l’Unità 25.1.11
Intervista a Rosy Bindi
«La Chiesa è stata chiara. Adesso spetta a noi mandarlo subito a casa»
La presidente del Pd: «Alla politica il compito di trarre le conseguenze. I cattolici non possono ignorarlo. Una la strada: Berlusconi deve dimettersi»
di Maria Zegarelli


La Chiesa ha fatto il suo compito perché, rispettosa della distinzione delle due comunità, quella ecclesiale e quella civile, ha usato parole molto chiare, che non si prestano a interpretazioni». Per Rosy Bindi, presidente del Pd, però, adesso spetta alla politica trarre le conseguenze nelle sedi istituzionali. E c’è un solo modo: Berlusconi si deve dimettere.
Presidente, lei si dice rasserenata. Era preoccupata, come cattolica, dal silenzio della Chiesa sullo scandalo sessuale che ha investito il premier?
«La Chiesa ieri ha svolto in maniera ineccepibile il suo ruolo: richiamare ai valori, al rispetto delle istituzioni, di un popolo e delle esigenze educative per i giovani».
Ma ci sono stati nelle parole del cardinal Bagnasco riferimenti precisi al rispetto dell’articolo 54 della Costituzione sulla sobrietà e l’onorabilità di chi ricopre un mandato politico.
«Non solo ha richiamato la Costituzione, ma ha anche definito “offeso” il comune senso morale del Paese». Secondo il sottosegretario Mantovano e il Pdl chi si aspettava rimproveri al premier è rimasto deluso.
«Sono meravigliata da queste dichiarazioni perché mi chiedo cosa doveva dire di più il cardinal Bagnasco. Queste dichiarazioni denotano anche la loro capacità di comprensione delle parole e dimostrano la loro abitudine a strumentalizzare la Chiesa che esercita la sua profezia e la sua funzione educativa. Adesso tocca ai cittadini, soprattutto a chi si professa cattolico capire le parole della Chiesa e agire di conseguenza». Bindi, Berlusconi è convinto che il Ruby-gate non cambierà né le sue sorti né quelle del governo. Lei crede che gli elettori cattolici avranno un moto di sollevazione dopo la condanna esplicita della Chiesa di certi comportamenti?
«Penso che gli elettori cattolici abbiano già ampiamente manifestato nei giorni scorsi la loro indignazione, come hanno dimostrato anche molte delle interviste agli esponenti delle associazioni cattoliche che l’Unità ha ospitato. Se la Chiesa ha usato parole così chiare è anche perché ha voluto dare un segnale a chi ha reso esplicito il proprio disorientamento. Il cardinal Bagnasco con le sue parole ha segnato un punto di resistenza culturale e valoriale nei cittadini e questo è il ruolo della Chiesa. Non spetta certo alla Chiesa chiedere le dimissioni di Berlusconi».
Bagnasco invita in maniera esplicita a chiarire le vicende giudiziarie nelle sedi appropriate. Un messaggio al premier?
«Sono parole molto raffinate che contengono al tempo stesso indicazioni precise e grande rispetto per le sfere di competenza di Stato e Chiesa. Solo Mantovano e qualcun altro esponente di maggioranza mostrano di non capire il messaggio». Dopo questa presa di posizione, dopo le parole di Confindustria, il Cavaliere sembra sempre più solo. Ma basterà secondo lei per segnare un punto di svolta in questa fase di stallo politico? «Non lo so, perché non credo che Berlusconi sia disposto a fare un passo indietro. Le parole della Chiesa però mi rendono serena perché servono a orientare le coscienze. Spetta a noi, adesso, non abbassare il livello di guardia, la situazione è drammatica e il limite è stato passato. Guardi, non c’entrano più neanche le questioni giudiziarie, dal momento che l’attacco alle istituzioni è senza precedenti. Spetta a noi, attraverso la società, con la raccolta delle firme, e attraverso le istituzioni, tenere un comportamento degno della gravità del momento. Non si può passare ad un altro punto dell’ordine del giorno».
Nei giorni scorsi c’è chi ha invitato a fermare le ostilità e pensare ai problemi del Paese. Lo ritiene possibile? «È troppo tardi, siamo fuori tempo massimo. Dobbiamo uscire da questa vergogna, questa è la priorità. Noi dell’opposizione non dobbiamo dare tregua nel Paese e in Parlamento a Berlusconi fino a quando non si dimette. Se ci saranno le condizioni per fare un governo di transizione noi del Pd ci siamo, altrimenti si vada al voto. Di sicuro non appoggeremo mai un governo con la stessa maggioranza e un premier diverso. Casini deve capire che per mandare a casa Berlusconi deve accettare la proposta che gli ha fatto Bersani: un dialogo e un confronto con i progressisti e i moderati di questo Paese».

Corriere della Sera 25.1.1
Sanzione morale che non rompe l’alleanza politica
di Massimo Franco


Forse, la considerazione più amara riguarda il presagio di sconfitta che accompagna tutti i protagonisti. Dire, come fa il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, che comunque vada a finire «nessuno ricaverà motivo per rallegrarsi né per ritenersi vincitore» mostra una consapevolezza acuta dei rischi che si corrono. Per Berlusconi, c’è quello di sopravvivere malamente ad un’inchiesta che sfigura il suo profilo. Per gli avversari e per la Procura di Milano, di essere associati ad una «logica conflittuale» che nega l’equilibrio fra istituzioni.
La relazione di ieri ad Ancona è stata la prima analisi ufficiale dei vertici dell’episcopato cattolico dopo l’ennesimo scandalo sulla vita intima del premier. E riflette non solo la posizione dei vescovi ma del Papa, incontrato da Bagnasco sabato scorso. Conferma la volontà di sottolineare in modo esplicito «il disagio morale» provocato dalle notizie di «comportamenti contrari al pubblico decoro» ; e di «stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza» . Insomma, pur senza essere citato Berlusconi viene evocato e criticato. Ma il presidente della Cei è attento a non oltrepassare i limiti della sua competenza. E dunque evita di offrire sponde all’opposizione. È l’Italia intera ad essere additata con preoccupazione e quasi angoscia: la stessa del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Bagnasco cita la «disciplina e l’onore» che l’articolo 54 della Costituzione richiede a chi ha funzioni pubbliche. Ma allude anche all’ «ingente mole di strumenti di indagine» usati dai magistrati; e «qualcuno si chiede» , aggiunge, «a che cosa sia dovuta» . È un tentativo di tenere conto di ogni aspetto della vicenda: incluse le perplessità sui metodi della magistratura. La Cei vuole star fuori dalla mischia. Osserva con preoccupazione poteri che da anni si guardano con diffidenza e «si tendono tranelli» . È l’Italia dell’impasto micidiale fra debolezza etica e fibrillazione politica. Su questo, le parole di Bagnasco vanno oltre il turbamento espresso nei giorni scorsi dal presidente della Repubblica. Fotografano una società destinata ad essere segnata da ferite profonde; sballottata da conflitti che ripropongono all’infinito il passaggio da una situazione abnorme all’altra. Per questo c’è un invito a «fermarsi tutti, e in tempo» ; e si chiede che venga fatta rapidamente chiarezza «nelle sedi appropriate» . Affiora il timore di una sfasatura fra la nazione ed i suoi rappresentanti. E la cautela delle reazioni lascia capire che le parole sono andate a segno. Bagnasco non poteva parlare diversamente, viste le pressioni provenienti dal mondo cattolico. Ma non ha avanzato richieste «politiche» , né offerto pretesti per utilizzare le ultime due pagine delle quattordici della «prolusione» : quelle riferibili all’inchiesta sulla ragazza marocchina, per la quale Berlusconi è stato indagato. Da ieri, però, palazzo Chigi sa che la Cei continua a considerare il centrodestra come principale interlocutore istituzionale; ma anche che da quel fronte il premier non può più aspettarsi comprensione o silenzi indulgenti quando si tratta di comportamenti ritenuti discutibili sul piano morale. Non più. Massimo Franco

l’Unità 25.1.11
Ruby e l’universo nascosto delle violenze sui minori
Nelle parole e nei comportamenti della giovane i meccanismi tipici di chi ha subito abusi sessuali: l’oscillazione tra parlare a tacere, il ruolo di vittima. E, in questo caso, la figura del “papi-padrone”
Le piccole vittime imparano che l’unico modo per essere apprezzate è l’attivazione della risorsa sessuale
di Claudio Foti psicoterapeuta


Claudio Foti, psicologo e psicoterapeuta, dirige da sedici anni il centro Hansel e Gretel specializzato nell’ascolto e nella cura di giovani che hanno subito violenze. Chi volesse maggiori informazioni sul centro può visitare il sito all’indirizzo: www.cshg.it

Ne ho ascoltate tante tutte diverse, ma anche simili come Karima Mahroug, meglio conosciuta come Ruby. Nell’intervista a Signorini, nella trasmissione Kalispera la ragazza esalta le capacità di ascolto di un Silvio Berlusconi, fiabesco e deamicisiano, «interessato dice Karima ad ascoltarmi a differenza di tutti gli psicologi che
ho avuto che sono pagati a farlo». Non posseggo certo questa empatia assoluta ma ho cercato di comprendere, con quella di cui sono capace, le più varie vicende esistenziali e mentali di queste adolescenti abusate sessualmente nell’infanzia, la loro oscillazione tra il parlare e il tacere, tra il tentare di sottrarsi al proprio passato e il rimettersi nella situazione di essere nuovamente “vittimizzate”, tra il rivelare e il difendere i loro abusanti, quelli di un tempo e quelli attuali. Nella parte iniziale della sua intervista prima della sua recita pietrificata (dal ricatto?) Karima manifesta una qualche mobilità del viso e del cuore, riuscendo a sfiorare con un autentico contatto la sofferenza dell’abuso sessuale subito ai nove anni «da zii miei». Ci sono frammenti di schiettezza, aspetti di credibilità psicologica che emergono nel discorso iniziale, pur ipercontrollato e iperfiltrato, di Karima: «Mia madre m’ha detto: “devi stare zitta, tanto non sei più vergine, tuo padre ammazza te... Ho scelto di non parlare... avrei rovinato la famiglia, si sarebbero divorziati, avremmo dovuto tornare in Marocco». L’incesto nasce in effetti dalla rottura del rapporto di sostegno e fiducia tra madre e figlia. Ne conseguono: un orizzonte di minaccia mortifera («tuo padre ammazza te»), l’imposizione e la congiura del silenzio («devi stare zitta!»), la sanzione materna di una diversità irriducibile e stigmatizzante con le coetanee (“tanto non sei più vergine ...”).
Emerge il riferimento insistente di Karima ripreso avidamente da Signorini ad una “vita parallela” di fantasia, per abbellire la sua situazione deprivata ed umiliata. Compare il bisogno della bambina e della ragazza abusata di presentarsi agli altri, inventando romanzi familiari di genitori amorevoli e perfetti. Ecco suggerisce il copione Mediaset dell’intervista la ragione per cui Karima/Ruby potrebbe aver mentito nelle intercettazioni, infangando quel sant’uomo di Berlusconi: potrebbe aver costruito una “vita parallela” per farsi bella agli occhi delle coetanee... Peccato da quel che si può ipotizzare dalle intercettazioni delle telefonate di Karima che non ci sia affatto in queste ultime alcuna presentazione da parte di Ruby di una vita parallela per farsi bella, non compaia alcun romanzo familiare ma al contrario la descrizione di una realtà squallida e pesante, nella quale la ragazza non esce certo con un’immagine vincente e luminosa (quale compiacimento narcisistico può derivare per fare un solo esempio da un confronto con Noemi Letizia, che sembra descritto da Karima, nelle intercettazioni, in questi termini: Noemi Letizia del premier sarebbe «la pupilla, io sono il culo»?).
Quello che si può ricavare, piuttosto, dall’ascolto di alcuni lucidi passaggi iniziali di Karima è che da bambina la vita parallela di fantasia consisteva per lei nel tentare di convincere gli altri del fatto di avere un «genitore perfetto che non voleva altro» che il suo bene. Il romanzo familiare si esprimeva in questi termini: «Io ho un padre meraviglioso che mi tratta come un dio». In realtà il padre le imponeva con la violenza di non andare a scuola, le gettava addosso l’olio bollente, le riempiva di botte, la sottoponeva ad un ricatto di fronte al quale la ragazza oggi ricorda: «Ho scelto di non parlare ... sono stata con quel silenzio a sopportare il tutto».
Certo, Karima le dimensioni del ricatto e della sottomissione nella propria infanzia e nella propria preadolescenza le ha conosciute pesantemente e c’è abituata. E ha finito per ricercarle nell’adolescenza. Dunque, dal padre padrone al papi padrone?
Di fronte a prolungate esperienze infantili, dove l’accettazione amorevole e la protezione sono radicalmente mancate, la piccola vittima impara che l’unico modo per essere apprezzata, per contare qualcosa ed avere briciole di potere è l’attivazione della risorsa sessuale. Chi non ha conosciuto nell’infanzia il rispetto della propria persona e dei propri sentimenti, chi da bambino/a è stato usato e non ha trovato tutela (e, successivamente, non ha acquisito una profonda consapevolezza di quanto patito, dando comprensione e solidarietà alla propria esperienza infantile), rischia di rimettersi in situazioni di umiliazione, strumentalizzazione, di violenza.
Ciò che colpisce nell’ascolto, nella comprensione e nella cura dei soggetti traumatizzati è la “coazione a ripetere” (Freud), la tendenza delle vittime a rivittimizzarsi, a rimettere in scena nel corso della loro esistenza le situazioni traumatiche, nelle quali sono stati costretti a subire violenza e a vivere l’impotenza. È impressionante per esempio la tendenza inconscia di una bambina maltrattata a un padre violento a scegliere, una volta diventata adulta, partner con caratteristiche autoritarie e distruttive. Da alcune ricerche si ricava che più del 60% delle prostitute sono state sessualmente abusate nell’infanzia. Attraverso il commercio del loro corpo continuano a rivittimizzarsi con l’illusione di avere finalmente rovesciato i ruoli di potere: se un tempo da bambine venivano soggiogate psicologicamente e sfruttate sessualmente, oggi pensano di riuscire a dominare il cliente, ricavando soldi o gioielli, dimenticando che in realtà continuano a rimettere in scena l’antico abuso della propria sessualità, della propria intimità e del proprio Sé (Alice Miller).
Dunque, come si può scartare l’ipotesi che Karima abbia subito un trauma e tenda a ripeterlo, che continui a scegliere di non parlare di fronte al peso di un ricatto più grosso di lei, che continui con il suo silenzio a “sopportare il tutto” e a garantire ieri come oggi un sistema si potere?
«Un genitore perfetto che non vuole altro che il mio bene...», «Un padre meraviglioso che mi tratta come un dio». Ma non è questa la fantasia consolatoria, la rappresentazione del papi-premier che tende a fornire Karima nella seconda parte della sua intervista, quando Berlusconi viene presentato come il genitore che ogni ragazza sofferente vorrebbe incontrare, come figura capace di un pieno risarcimento narcisistico, come la personificazione assoluta dell’amore disinteressato, “assolutissimamente” estraneo a qualsiasi “tornaconto” sessuale nei suoi confronti?
E non compaiono in questa seconda parte dell’intervista da un lato la fascinazione, l’idealizzazione e dall’altro in forme implicite, ma massicce la sofferta tensione e la diffusa paura con cui le vittime descrivono spesso i loro abusanti?
Dalla parte delle vittime. Anche quando le vittime sono ambivalenti o collusive con i loro abusanti di ieri o di oggi. Karima è una ragazza che merita comprensione e rispetto. È una ragazza che mostra schegge di una sensibilità ancora accesa, quando parla del suo desiderio di tornare piccola per «essere di nuovo in braccio alla madre e non avere preoccupazioni di niente» o si commuove pensando all’accettazione che sta vivendo da parte del suo nuovo fidanzato, contattando così per contrasto la prolungata sofferenza del non essere stata accettata, dell’essere stata dimenticata o dell’essere stata usata nel corso della propria vita.
Viviamo in un regime basato sulla manipolazione mediatica e sulla cultura del narcisismo e della perversione. Auguro ai nostri figli che, un giorno non lontano, questo regime possa venir meno. Auguro a Ruby di tornare ad essere Karima. Le auguro, con il crollo di un sistema che l’ha catturata e da cui s’è fatta catturare, di recuperare pienamente la propria storia, la propria dignità, la propria verità, che oggi non può che ammutolire. Le auguro di poter scoprire profondamente la propria bellezza interiore, potenzialmente più arricchente di quella esteriore.

l’Unità 25.1.11
Il rapporto Istat sui dati demografici del nostro paese nel 2010
Sale l’aspettativa di vita ma le nascite tornano al livello di 6 anni fa
Non si muore e non si nasce più Italia, una mamma su 5 è straniera
Il rapporto Istat sui dati demografici dell’anno scorso racconta un paese dove si vive più a lungo ma calano le nascite, tornate a livello del 2005: il 18% delle mamme è straniera. Il calo colpisce soprattutto il Sud.
di Gioia Salvatori


L’Italia? Un Paese di anziani che invecchieranno soli. Che la Penisola non sia luogo per bebè si sapeva, ieri le stime Istat sui principali indicatori demografici 2010, hanno aggiunto al quadro che ritrae un paese vecchio e con più nascite al Nord che al Sud, una buona e una cattiva notizia. La buona, sempre che piaccia invecchiare in un Paese di anziani, è che l’aspettativa di vita è aumentata; la cattiva è che le nascite, dopo quattro anni di crescita, nel 2010 hanno subìto uno stop, con 12.200 nati in meno sono tornate ai livelli del 2005 anno in cui nacquero 554mila bimbi (nel 2010 ne sono nati 557mila). Gli italiani, o meglio coloro che risiedono nella Penisola siano essi indigeni o stranieri regolari, però, non diminuiscono. Questo perché i morti sono stati, nel 2010, ancor meno dei nati, tanto che l’aspettativa di vita per un bimbo nato nel 2010 è di 79,1 anni se è maschio e di 84,3 anni se è femmina (aumentata, rispetto al 2009, di circa due mesi e mezzo per le donne e di quasi quattro mesi per gli uomini). Così il Belpaese dove non si nasce e dove si muore ancor meno, conta orma 60 milioni e 600mila ‘inquilini’ di cui 4 milioni e mezzo di stranieri. Per lo più siamo gente coi capelli grigi in testa: in media non si diventa mamme prima dei 31 anni e tre mesi e gli ultracentenari negli ultimi 10 anni si sono addirittura triplicati passando dai 5.400 del 2001 ai 16mila del 2011. Una speranza di ‘ringiovanirsi’, viene dalle donne straniere: senza di loro nel 2010 in Italia sarebbero nati 104mila bimbi in meno (il 18 per cento del totale).
Ma quali sono le regioni che invecchiano di più e quelle dove ci sono più culle?Ancora una volta, seguendo il trend del 2009 e in barba a tradizioni culturali ormai buone da raccontare, il Nord ha sorpassato il Sud: i figli nascono dove si possono mantenere, dove le donne lavorano, dove gli immigrati sono meglio inseriti nel tessuto sociale; le patrie dei baby boomers sono le province di Trento e Bolzano (1,59 e 1, 57 figli per donna rispetto alla media nazionale di 1,29). La regione che più è invecchiata, nel 2010, è stata la Liguria (-6 su mille il saldo tra nati e morti) mentre l’isola felice è la provincia autonoma di Bolzano dove c’è il più alto tasso di natalità d’Italia (10, 4 nati ogni mille abitanti mentre la media nazionale è di 9,2) e maggiore longevità. Nel capoluogo dell’Alto Adige, infatti, l’aspettativa di vita, per gli uomini, è la più alta in Italia (80,2 anni) e per le donne è seconda solo alle Marche che sono la regione dove il gentil sesso campa di più (fino a 85 anni e mezzo la media del 2010). E se sono tre regioni del Nord, Lombardia Emila e Veneto, a tirare la volata delle nascite con una media di figli per donna superiore a quella nazionale e con un nato su quattro da madre straniera, sono tre regioni del centro-Sud le uniche dove nel 2010 sono nati più bimbi rispetto al 2009: Lazio, Abruzzo, Molise. Un dato che non deve ingannare, però, il calo delle nascite colpisce soprattutto il Sud e il rapporto assoluto mamme-figli vede ultima la Sardegna (1,13 figli per donna), penultimo il Molise (1,16), terzultima la Basilicata (1,19). Pezzi di cuore, i figli, certo, sempre che il portafogli supporti l’emozione.

La Stampa 25.1.11
Demografia. Il rapporto Istat
L’Italia sta perdendo le mamme
Calano ancora le nascite: la popolazione aumenta grazie agli immigrati e ai loro figli
di Raffaello Masci


Anziani Gli over sessantacinquenni sono ormai un quinto del Paese Gli ultracentenari sono triplicati

Che eravamo un Paese di vecchi si sapeva da tempo. La novità è che siamo un Paese di vecchissimi, con gli ultracentenari triplicati in 10 anni. E siamo anche un Paese sempre più popolato (60 milioni e 600 mila abitanti) da stranieri (più 328 mila rispetto all’anno scorso) che da italiani ( meno 67 mila). Insomma, gli immigrati regolari (e poi ci sono tutti gli altri) sono 4 milioni e mezzo, di questi solo i romeni sono un milione e gli albanesi un ulteriore mezzo milione, seguiti da marocchini, filippini, cinesi e via elencando. Sempre di più e sempre più prolifici. Che ci piaccia o no, beninteso.
La rilevazione Istat degli indicatori demografici 2010 questo dice. Quanto al futuro (anche qui, che ci piaccia o meno) i cittadini tricolore saranno sempre meno e quelli di altre provenienze sempre di più. E questo per due fattori precisi e concomitanti: il primo è che le donne italiane continuano a fare pochissimi figli, in media 1,4 a donna (nel 2009 eravamo a 1,41, nel 2008 1,42), mentre quelle straniere ne fanno 2,3. Il secondo fattore è l’aumento dei vecchi che postula una domanda sempre crescente di badanti. Gli ultrasessantacinquenni sono oltre un quinto della popolazione (20,3%) e negli ultimi 10 anni sono aumentati di 180 mila unità l’anno (1,8 milioni in totale).
Nello stesso periodo - tanto per fare un paragone - gli under 14 sono cresciuti di appena 348 mila unità in totale portando la quota al 14,3%. Non solo: si vive molto, ma molto di più. L’aspettativa di vita per un uomo è oltre i 79 anni, e per una donna di oltre 84, con una presenza sempre crescente di ultracentenari, che hanno sfondato quota 16 mila e sono triplicati in 10 anni.
Questa è l’Italia della demografia. Ma con differenze enormi da un’area all’altra del Paese che inducono ad una lettura anche politica di queste rilevazioni statistiche. Per esempio: è vero che di figli se ne fanno pochi, ma le grandi madri mediterranee non sono più le Filumene Marturano di Napoli e del Sud, quanto, semmai, le signore dabbene del Nord. Se il tasso di fecondità è - si diceva - dell’1,4, a superare questa soglia ci sono le donne del Trentino con l’1,58, quelle della Val d’Aosta con l’1,54, della Lombardia con l’1,48, dell’Emilia con l’1,46 e del Friuli con l’1,43. In sostanza: i figli si fanno non dove c’è - retoricamente - «una maggiore apertura alla vita», ma dove i servizi sociali sono più efficienti e le donne si sentono più sostenute e dove si aprono maggiori possibilità di lavoro.
Nel 2010 sono nati 557 mila bambini, 12.200 in meno rispetto all’anno precedente. Una tendenza che fa dire all’Istat che «sembra essersi conclusa per le italiane la fase di recupero cui si era assistito nello scorso decennio». Per avere un numero di nascite inferiore a quello del 2010 occorre tornare al 2005, quando furono 554 mila. La riduzione nel 2010 rispetto al 2009 (-2,1%) risulta generalizzata su scala territoriale e in questo quadro si fa sempre più importante il contributo alla natalità delle straniere: si stima, infatti, che quest’anno oltre 104 mila nascite (18,8% del totale) siano attribuibili a madri straniere (erano 35 mila nel 2000, pari al 6,4% e 103 mila nel 2008 pari al 18,1%), di cui il 4,8% con partner italiano.
Non solo. Le regioni più sviluppate sono anche quelle che riescono a garantire migliori condizioni di vita per gli anziani, tant’è che tra quelle in cui si è più longevi continuano ad apparire il Trentino, la Toscana, il Veneto, la Lombardia.
L’Istat rileva anche un altro fattore di disagio nel Mezzogiorno, semmai ce ne fosse bisogno: è ricominciata la migrazione interna verso il Nord, con un travaso di quasi il 2 per mille della popolazione da Sud verso il Centro e il Nord. Ancora una volta ad esercitare una particolare attrazione sono il Trentino - che si configura come una California d’Italia - e l’Emilia, insieme al Veneto che ha la fama di essere la regione più ostile nei confronti di chi viene da fuori, ma che risulta - invece - tra le aree dove l’integrazione è più riuscita.

l’Unità 25.1.11
Il 75% dei chirurghi violerebbe la legge: «Serve il consenso»
Il sondaggio: l’81% vuole un biotestamento condiviso. «Ci ascoltino»
Alimentazione artificiale, lo stop dei medici al governo
È l’esito della consultazione del Collegio Italiano Chirurghi tra gli associati. Per il 70% le Dat devono essere vincolanti. il presidente Forestieri: «Se il governo insisterà nella guerra ideologica creerà lacerazioni».
di Federica Fantozzi


Nutrizione e idratazione artificiale sono trattamenti medici e come tali devono essere esplicitamente autorizzati per il 73% dei chirurghi. E di fronte a pazienti che invece prima di perdere coscienza abbiano detto no, il 75% ha dichiarato che non somministrerebbe tali trattamenti anche se fosse la legge a imporli.
Tre medici su quattro, dunque, sarebbero «pronti all’obiezione di coscienza» sul biotestamento se il governo varasse un testo «non condiviso». Una sconfessione piena della linea seguita finora dalla maggioranza, sull’onda del caso di Eluana Englaro, nel ddl che a febbraio approderà a Montecitorio.
È l’esito del sondaggio promosso dal Collegio Italiano dei Chirurghi (CIC), che riunisce 63 associazioni ognuna con un numero di aderenti tra 400 a 5mila. Il questionario è stato inviato solo ai presidenti e membri dei consigli direttivi: su un migliaio, le risposte sono state 750.
Pietro Forestieri, chirurgo oncologico e geriatrico dell’Università Federico II di Napoli, nonché presidente del CIC, ritiene il campione indicativo degli orientamenti della categoria. «È un campione rilevante dal punto di vista qualitativo ma anche quantitativo. Di solito a questo tipo di consultazioni risponde il 10%, ma questo argomento ci tocca davvero». E nel merito «non sono emersi dubbi».
NO A GUERRE IDEOLOGICHE
Per l'81% dei chirurghi una legge sul testamento biologico è indispensabile, e per il 70% quanto stabilito dal paziente nelle dat (dichiarazioni anticipate di volontà) deve essere vincolante e non solo orientativo. Per il 97% vanno interrotti trattamenti che non daranno beneficio alla salute del malato. Per il 92% bisogna tenere conto della volontà del paziente purché certa e documentata. Se qualcuno smette di nutrirsi, al medico tocca informare sulle conseguenze senza «assumere iniziative costrittive nè collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale».
Spiega Forestieri: «Noi dissentiamo dall’uso politico e strumentale del biotestamento. Spiace vedere una legge fatta solo per far litigare Fini e Casini. Se il governo insiste su questa strada, perseguendo una guerra ideologica, produrrà grosse lacerazioni per casi che riguardano lo 0,05% degli italiani. A noi interessa arrivare a un vero testamento biologico su linee condivise».
Il chirurgo, che ha già spiegato le proprie tesi al sottosegretario Roccella, è molto chiaro: «Noi medici abbiamo un solo faro: la professione». Il no di tre quarti dei medici ad alimentare un paziente in stato vegetativo nonostante la legge lo imponga, significa che sareste pronti all’obiezione di coscienza? «Ma certo è la risposta È in discussione l’impianto della nostra professione. Il codice penale prevede che a legittimare il mio intervento chirurgico sia il consenso informato del paziente. È l’unica cosa che separa il mio bisturi da un colpo all’addome. Del resto, non si può imporre la trasfusione di sangue a un Testimone di Geova. E una donna ha potuto rifiutare l’amputazione del piede, pur con conseguenze fatali».
RISPETTO PER ENGLARO
Forestieri è molto critico anche sull’iniziativa di rendere il 9 febbraio, data della morte di Eluana al termine di una lunga battaglia giuridica (vinta), «giornata nazionale degli stati vegetativi»: «Una scelta semplicemente vergognosa, di violenza e volgarità inaudite».

l’Unità 25.1.11
Reato di clandestinità: la solita ottusa pratica Le Procure intervengono


La Procura di    Firenze ci mette una pezza, come si suol dire. La direttiva europea 115/2008, che doveva essere recepita dal nostro paese entro il 24 dicembre 2010, disciplina le procedure di rimpatrio degli stranieri irregolarmente presenti sul territorio degli stati membri. Questa direttiva è in netto contrasto con la legge Bossi-Fini, soprattutto nella parte riguardante il “reato di clandestinità”, che obbliga le nostre forze di polizia ad arrestare coloro che, privi di un regolare permesso di soggiorno, non ottemperino all’ordine di espulsione. L’Italia è stata inadempiente, non avendo apportato le necessarie modifiche al Testo Unico, ma la direttiva europea potrà essere fatta valere lo stesso davanti ai giudici italiani. Il problema però rimane, nonostante la circolare diramata dal capo della Polizia a questori e prefetti in cui si chiede l’applicazione dei punti fondamentali della direttiva europea. E così, a livello locale, c’è chi ha pensato di intervenire autonomamente. Il Procuratore di Firenze Giuseppe Quattrocchi qualche giorno fa ha inviato ai magistrati e alle forze di polizia, una circolare in cui viene descritta la procedura da seguire: niente più arresti indiscriminati di stranieri trovati senza titolo di soggiorno, bensì una semplice denuncia all’autorità giudiziaria, che avrà il compito di valutare, caso per caso, la necessità della misura detentiva. Anche il Procuratore capo di Genova, Vincenzo Scolastico, sembra orientato nella medesima direzione. Gli stranieri (e gli istituti penitenziari) delle due città, sentitamente ringraziano. Ne risulta ulteriormente confermata l’ottusità della norma sulla clandestinità: iniqua e, oltretutto, inapplicabile.

l’Unità 25.1.11
A Tunisi tra i ragazzi della rivoluzione: vogliamo la libertà
In piazza della kasbah in migliaia sotto il palazzo del governo di unità Non ci sono bandiere di partito ma la gente porta le foto dei nuovi martiri
di Gabriele Del Grande


Peggio della dittatura c'è solo la morte. Ma quella l'abbiamo già conosciuta e non ci fa più paura, adesso vogliamo la libertà, non possiamo accettare di essere governati dai complici di chi ha assassinato i martiri della nostra rivoluzione». Salim stringe tra le mani un pannello di legno su cui è incollata la foto del suo vicino di casa, Walid El Griri, 18 anni appena compiuti, morto ammazzato con un proiettile sparato in faccia dalla polizia il 9 gennaio. L'agita in aria come se fosse la bandiera del Paese che verrà. Intorno a lui migliaia di persone presidiano la piazza della kasbah, dove si trova il palazzo del primo ministro. Il portone d'ingresso è letteralmente murato. Migliaia di persone stazionano di fronte a uno sparuto gruppo di militari. Nessuna tensione. L'esercito è con il popolo. I militari si scambiano pacche sulle spalle con i manifestanti. La tensione è con il primo ministro del governo transitorio, Ghannouchi. É là dentro, barricato in qualche ufficio. Ed è lui oggi l'uomo più odiato da questa piazza straordinariamente euforica.
Non hanno bandiere di partito, c'è solo la bandiera rossa della Tunisia e le foto di quei martiri. Prima su tutte quella di Mohamed Bouazizi, il venditore ambulante di Sidi Bouzid, che con il proprio suicidio ha innescato le rivolte nel paese. Poi quella di Hicham Nimuni, freddato dalla polizia a Tadamun, periferia di Tunisi, mentre rientrava dal lavoro. E poi c'è la piccola Iqin Garmaz. Nella foto sorride, è una bambina di sei mesi. A portare in giro il suo poster è il vicino di casa, che ripete con le lacrime agli occhi e un filo di voce la stessa storia a tutti quelli che incontra. La gente deve sapere. La piccola è stata uccisa da un lacrimogeno sparato dentro un hammam a Kasserine nei giorni dell'inferno. Sono loro, i morti di Thala, di Sidi Bouzid, di Kasserine, di Tunisi, i martiri della nuova Tunisia. Le cifre ufficiali parlano di 78 vittime, ma forse sono molti di più. Sono tutti ragazzi e per la maggior parte poveri. Ed è sul loro sangue che si va costruendo il mito di un nuovo corso.
In nome del loro sangue versato, sono partiti in migliaia da ogni regione del paese, da Binzerte a Ben Guerdane per raggiungere la capitale e presidiare la sede del governo fino al momento in cui il primo ministro Ghannouchi darà le dimissioni. Nessuno è pronto concedere degli sconti. Dalla notte dell’altro ieri, in piena violazione del coprifuoco che scatta alle 20,00, la piazza del governo è riscaldata dai cori dei manifestanti. «La Tunisia è libera, fuori il partito di Ben Ali»!
La cosa straordinaria è la spontaneità di tutto questo. In piazza non sventolano bandiere di partito, ma soltanto la bandiera tunisina. E nessuno si sente rappresentato né dal partito del vecchio regime, né tantomeno dai gruppuscoli dell'opposizione. «È tutto un teatro! Vogliamo una democrazia reale! Vogliamo che sia il popolo a scegliere da chi essere governato, basta con questa mafia!».
E allora la piazza diventa un'esperienza iniziatica. Dove un'intera generazione arrivata nella capitale da ogni angolo del Paese tocca con mano la propria forza rivoluzionaria attraverso racconti epici finora circolati solo sulla rete. Loro che hanno liberato il Paese dai fantasmi del passato, adesso in qualche modo stanno liberando anche l'immaginario del futuro. Nel senso che quella gioventù che fino a ieri sapeva sognare soltanto l'evasione, la fuga, l'altrove, anche a rischio della propria vita su una barca diretta a Lampedusa, è la stessa gioventù che oggi vuole esserci per scrivere questa pagina di storia. E c'è addirittura chi ha lasciato l'Europa per tornare qui a lottare.
Nidham per esempio è tornato da Parigi. Ha 24 anni e prima di prendere l'aereo si è consultato con la famiglia: «Ho chiesto a mio padre, e lui mi ha incoraggiato. Era troppo importante per me. Stiamo facendo una rivoluzione. Siamo un modello per tutti i paesi arabi e per tutto il mondo, sono fiero di essere tunisino». La stessa fierezza è scritta sui muri imbrattati di slogan scritti con la vernice spray. «Enfin libre», finalmente liberi. In piazza del governo c'è tutto un muro su cui i ragazzi hanno incollato i manifesti di carta che hanno portato oggi in piazza. Le parole più ricorrenti sono hurrya, libertà, thaura, rivoluzione e shuhada, martiti. Poi c'è uno striscione appeso alle grate delle finestre del primo piano del palazzo del governo, con su scritto in arabo «Noi non ci arrendiamo. O vinciamo o moriamo». Tunisi oggi come non mai sembra crederci davvero.
«Andremo avanti fino a quando questo governo non cadrà. Vogliamo un vero cambiamento non un lavoro a metà», scandisce con passione il professor Adil, insegnante delle scuole superiori sceso in piazza con i suoi studenti. Perché oggi dovevano riprendere i corsi, ma il sindacato dei professori ha proclamato una giornata di sciopero, andando contro gli appelli alla responsabilità che erano arrivati dal mondo politico. Gli insegnanti sono pronti a recuperare alla fine dell'anno le ore perse – mi dicono dal sindacato – ma adesso la priorità è che i complici del regime escano dal governo. «Sono personaggi sporchi dice Salma, una studentessa liceale di Tunisi, mentre un elicottero dell'esercito ci sorvola e se ne devono andare. La gente si è svegliata, non possono trattarci da ignoranti».
Proprio così il popolo si è risvegliato.
E adesso tutti chiedono a gran voce una «democrazia reale».

il Riformista 25.1.11
Il premier alle corde nella Tunisi ribelle che dorme in piazza
di Cristiano Tinazzi

qui
http://www.scribd.com/doc/47517378

il Riformsta 25.1.11
Oggi protesta al Cairo
«Ma la rivoluzione sarebbe devastante»
di Azzurra Meringolo

qui
http://www.scribd.com/doc/47517378

il Fatto 25.1.11
Tirana aspetta il prossimo round
Nella capitale albanese l’opposizione prepara nuove manifestazioni contro Berisha
di Giampiero Gramaglia


Tirana. Leonardo è un uomo non più giovane, ancora attivo, capelli bianchi e occhiali, l’aria un po’ da zio: forse, non un mite; certo, non un violento. Venerdì era in piazza a Tirana, a manifestare davanti alla sede del governo: “Eravamo tutta gente comune – racconta -, persone qualunque, non c’erano i leader politici: protestavamo contro la corruzione, ma il clima era tranquillo... Poi ho sentito gli spari: pensavo fossero a salve, invece erano pallottole vere: hanno fatto tre morti, c’erano dei feriti”. Ieri, Tirana era tesa, ma tranquilla: una pioggia battente, l’aria tagliente, il cielo basso che toccava terra a un giro d’orizzonte ravvicinatissimo, tutto avrebbe indotto la gente della capitale a starsene ben riparata, al caldo, anche se la manifestazione, inizialmente prevista per lunedì, non fosse stata rinviata a venerdì.
E, ALLORA, ci saranno i politici, in primo piano il leader socialista, Eli Rama, sindaco di Tirana, che oggi ha lanciato un appello all’Italia, all’Ue e alla comunità internazionale perché mostrino interesse e condannino la “violenza di Stato”: “I contestatori arrestati sono stati malmenati e non hanno potuto ricevere visite in carcere”. Sabato sarà il premier Sali Berisha a mobilitare i suoi sostenitori : “Non tollereremo altre violenze”, dice. E, dopo il video dell’agente che spara, ne spunta uno contrapposto di un facinoroso armato.
Ovunque in città, anche sui luoghi della sommossa, il traffico è normale, magari un po’ intasato causa maltempo. Poliziotti in giro pochi, comunque non più del solito: la città non vive uno stato d’assedio. Ma la gente non parla d’altro. E le opinioni sono vivaci. E diversissime. All’Università, gli studenti avanzano dubbi di natura diversa su tutto quanto è successo: loro in piazza non c’erano e qualcuno pare disilluso al limite del qualunquismo da vent’anni, i suoi vent’anni, di alternanza nella corruzione. C’è chi dubita della vicenda di bustarelle all’origine della manifestazione di venerdì – una messinscena?; c’è chi rimprovera a Rama di avere organizzato la protesta, ma di non averla poi guidata; c’è chi parla di provocazione dei contestatori nei confronti delle forze dell’ordine; c’è chi denuncia una trappola delle Guardia repubblicana, i pretoriano del premier, nei confronti dei manifestanti. Sospetti, non fatti. Chiacchiere, non certezze.
E venerdì, e sabato, che cosa succederà? Più che di paura, l’attesa si carica di scetticismo: “In Albania, è facile fare scendere la gente in piazza”, dice un giovane, che si ricorda di avere già partecipato, sulle spalle del padre, quand’era piccino, ai cortei contro il regime comunista. “Noi albanesi – prosegue -, appena possiamo , protestiamo, contro Berisha e poi contro i socialisti e poi di nuovo contro Berisha”. Ma, alla fine, “le proteste non lasciano il segno: al potere, ci sono sempre gli stessi, sempre corrotti”.
SE I RAGAZZI sono confusi, pronti a scornarsi tra di loro, un’insegnante ha le idee chiare. Denuncia l’eclissi dello stato di diritto dietro la decisione del governo di non fare rispettare l’ordine emanato dalla magistratura di arresto dei responsabili degli spari di venerdì, sei elementi della Guardia repubblicana: “È un colpo di mano – dice -, un colpo di Stato”. E lamenta la disattenzione, o il disinteresse, delle organizzazioni internazionali.
Che di Albania e di albanesi, in realtà, si occupano: con dichiarazioni, ma anche nei tribunali. E, ieri, c’è stato un consulto di ambasciatori a Tirana. Berisha, giovedì, sarà a Strasburgo, al Consiglio d’Europa: andrà a difendere il premier kosovaro Hashim Thaci dalle accuse di traffico d’organi, davanti alla Corte dei diritti dell’uomo. Rispetto alla violenza assassina di venerdì, il clima di questo lunedì sembra più essere quello di una guerra di parole, come se dietro le quinte si stia negoziando una via d’uscita da questo intreccio di tensioni e rivendicazioni, che nasce dalle elezioni politiche contestate del 2009, ma che in realtà attraversano tutta la storia dell’Albania repubblicana post-comunista.

Corriere della Sera 25.1.11
Appello a Italia e Ue dai socialisti albanesi
«Non legittimate la violenza di Stato»
di P. Sa.


Governo e opposizione si preparano alla doppia sfida in piazza, venerdì e sabato, dissentendo su tutto tranne che sul ruolo dell’Europa e, in particolare, di un Paese vicino, anzi «fratello» : l’Italia. Il primo a invocare un maggior coinvolgimento di Bruxelles e Roma nella grave crisi in atto in Albania è Edi Rama, sindaco socialista di Tirana e leader del movimento che chiede nuove elezioni con una «spallata del popolo» . «L’Italia e l’Europa non devono tollerare in Albania una realtà inaccettabile per il mondo democratico e devono condannare la violenza di Stato che uccide gente innocente» , è l’appello di Rama. «L’Ue non può accettare che in Albania accadano cose che non tollererebbe negli Stati membri» . Dall’altra parte della barricata, il ministro della Difesa Arben Imami, ricevendo il Corriere, assicura «che a Tirana non c’è un problema sicurezza: il Paese ha stabilità sociale ed economica » . Italia ed Europa? «Ci consultiamo quotidianamente — risponde Imami —. Siamo un Paese della Nato: le nostre istituzioni sono salde e operano nel quadro della legalità, c’è libertà di parola e dimovimento. È possibile, accade da mesi, dimostrare contro l’esecutivo. Certo, se si prende d’assalto il palazzo del governo... Non sarebbe permesso nemmeno a Roma» . Il ministro della Difesa assicura che l’esercito rimarrà nelle caserme, venerdì («non siamo in allarme» , dice) e difende l’operato della polizia: «Siamo addolorati per le vittime degli scontri del 21 gennaio, è stato un tragico episodio. Ma isolato. Certo, ci sono mancanze da parte delle autorità di pubblica sicurezza, che cercheremo di colmare: ecco, l’Italia potrebbe aiutarci, con la sua esperienza, i suoi mezzi. Un aiuto gradito» . Il ministro degli Esteri Franco Frattini, ieri, ha confermato che l’Italia è «dalla parte dell’Albania perché entri in Europa» . Il capo della Farnesina ha ribadito che le elezioni del 2009 «sono state democratiche» e invitato «le parti politiche ad abbassare i toni» . Lievi condanne, intanto, sono state emesse dal Tribunale di Tirana nei confronti dei 113 manifestanti arrestati dopo gli scontri.

Corriere della Sera 21.1.11
Perché l’Albania non è la Tunisia
di Francesco Daveri


Mentre il leader dell’opposizione Edi Rama lanciava un appello all’Italia e alla Ue perché condannassero il governo di Tirana per l’uccisione di tre manifestanti, Palazzo Chigi faceva uscire un comunicato: «L’Italia condanna ogni tipo di violenza e si appella all’opposizione e al governo di Tirana affinché risolvano in maniera pacifica e attraverso le istituzioni e il dialogo politico le differenze esistenti» . È evidente che l’appello di Rama non è stato accolto. Ma non si tratta solo di una posizione equilibrata. Implicitamente si avvertono tutte le parti che nuove eventuali violenze— del tutto possibili data l’attuale situazione di muro contro muro— sarebbero viste con sfavore sia da Roma sia da Bruxelles. Offrire un’apertura al governo di Tirana in carica però continuando ad ancorare il Paese all’Europa è oggi la scelta migliore. L’Albania non è la Tunisia. Il presidente tunisino Ben Ali era al potere dal 1987, grazie a (formali) rielezioni periodiche. A Tirana il primo ministro Sali Berisha è al potere dal 2005 ed è stato rieletto nel 2009. Anche se con voti risicati e accuse di brogli. Ma se Berisha è un uomo politico navigato e discusso, anche il leader dell’opposizione e del Partito Socialista Edi Rama non è— o almeno non è solo — un artista stravagante. È un politico di lungo corso, sindaco di Tirana dal 2000. Un politico che si è guadagnato la sua popolarità trasformando la grigia Tirana di Enver Hoxha in una città piena di giovani e di pub, ma che ha anche lui un pedigree politico macchiato da ripetute accuse di corruzione e di abusi nel rilascio di permessi edilizi. In Albania non c’è nessun cavaliere bianco che libererà il Paese dall’oppressione. Non c’è il cavaliere bianco e— per fortuna e per merito degli albanesi — non c’è più il regime oppressivo del passato. Bisogna poi ricordare che in Albania convivono un 70 per cento di musulmani moderati con un 20 per cento di ortodossi e un 10 per cento di cattolici. Ma i vari gruppi religiosi non hanno mai cominciato a spararsi addosso come nell’ex Jugoslavia e l’elemento religioso non è stato finora sfruttato da nessuna parte politica. Quello albanese è anzi un caso di convivenza e tolleranza religiosa che sarebbe da preservare per il futuro dell’Europa. E poi c'è l’economia. L’Albania è un Paese povero che vuole crescere in fretta. Tuttavia molto meglio che ciò accada nella cornice delle sfide poste dalla possibile ammissione del Paese nell’Unione Europea. Si pensi solo all’agricoltura che rappresenta ancora un quinto del Pil, ma i prodotti albanesi non riescono ad arrivare sui banconi dei supermercati italiani. E questo a causa di una produttività ancora adesso ostacolata da gravi controversie giuridiche nell’allocazione dei diritti di proprietà, da problemi logistici e di certificazione della qualità delle merci. Nodi che l’ancoraggio potenziale a Bruxelles aiuterebbe a sciogliere. Senza dimenticare che dal 15 dicembre l’abolizione del regime di visti Schengen di breve durata vale anche per l’Albania: gli albanesi non hanno più bisogno del visto per viaggiare nella Ue. Ed è chiaro che, di fronte a una carneficina, l’Italia — che già ospita più di mezzo milione di immigrati albanesi— si troverebbe a subire una pressione immigratoria di non poco conto, pagando il prezzo più alto per la degenerazione della situazione nel Paese delle Aquile.

Corriere della Sera 25.1.11
Gli Usa nel 2008: i palestinesi trasferiamoli sulle Ande
di  F. Bat.


Un bel giorno del 2008, ormai esasperata da un’introvabile soluzione, la segretaria di Stato americana Condoleezza Rice propose di dare uno Stato ai palestinesi, sì, ma non in Palestina: lo individuò fra la pampa e le Ande. «Magari— disse— potrebbero trovare Paesi che contribuiscono in natura, tipo Cile, Argentina...» . L’unica rivelazione nuova, l’ultima, è forse la più stravagante. Perché di segreto, nelle altre carte segrete, c’è ben poco. Un po’ come Wikileaks: cose risapute che, adesso, fa impressione leggere. I Palestinian Papers, 1.600 documenti che Al Jazeera e The Guardian hanno cominciato a pubblicare domenica sera, coprono il periodo 1999-2010 e più che un botto giornalistico sono una botta politica su Abu Mazen e sullo staff negoziale dell’Anp. Vi si racconta come Nasser Youssef, dell’Autorità palestinese, s’accordò col ministro della Difesa israeliano, Shaul Mofaz, per ammazzare i capi di Hamas a Gaza. C’è scritto che i palestinesi di Ramallah mollarono sul diritto al ritorno di 5 milioni di rifugiati— «condizione essenziale!» , hanno sempre detto —, accettando che Israele ne lasciasse rientrare solo 100mila in dieci anni. Si rivela che l’Anp era pronta a rinunciare a un bel pezzo di Gerusalemme Est, zone ebraiche e quartiere armeno compresi, in cambio del controllo su Maale Adumim, Ariel e altre aree contese. Viene svelato che addirittura s’era disponibili a una «soluzione creativa» per la Moschea di Al Aqsa, terzo luogo sacro all’Islam. E poi le trattative per liberare Gilad Shalit, le richieste agl’israeliani d’usare il pugno di ferro nella Striscia... Carte vere, forse. Carte note: quel che ne esce è il racconto d’una «cricca di traditori pronti a svendere la causa del nostro popolo» (Hamas), d’una «dirigenza poco affidabile con la quale sono possibili solo accordi ad interim» (Avigdor Lieberman, ministro israeliano) o d’ «un gruppo che si conferma il miglior amico d’Israele» (come la vede alla Knesset l’opposizione Kadima). Le rivelazioni usciranno in tre altre puntate, ma il logorio di nervi è già evidente. «Una vergogna» , le bolla Abu Mazen. L’ufficio di corrispondenza palestinese di Al Jazeera, un ottavo piano, ieri è stato preso d’assalto da 250 sostenitori del Fatah, in fiamme bandiere con la Stella di David e la scritta «Al Jazeera uguale a Israele» . Tre i capi storici dell’Anp impallinati dai Palestinian Papers, tutte «colombe» : l’ex premier Abu Ala, già beccato a vendere cemento agl’israeliani per costruire il Muro, qui sorpreso in una confidenza («fossi del Kadima, voterei per te» ) con l’allora ministra israeliana Tzipi Livni che perorava le bombe su Gaza; Saeb Erekat, l’eterno (dal 1991) negoziatore palestinese al quale la tv qatariota ha fatto un’imboscata, invitandolo in studio a commentare i documenti; Yasser Abed Rabbo, il più furioso («è un attacco deciso dall’emiro del Qatar, noto amico d’Israele» ). L’indiziato della fuga di notizie è Mohammed Dahlan, arafattiano che qualche settimana fa è stato accusato da Abu Mazen d’ordire un golpe. La credibilità di Abu Mazen &C. è in bilico, il regolamento di conti è solo iniziato: «Ma noi siamo stati eletti dal popolo— avverte Rabbo— e non ci facciamo cacciare così. Questa non è la Tunisia» .

Corriere della Sera 25.1.11
Prima e dopo la Shoah: tutte le responsabilità italiane
di Frediano Sessi


Alcuni storici sostengono oggi la necessità di riscrivere la storia della persecuzione e dello sterminio degli ebrei d’Europa in modo «integrato» , mettendo insieme documenti d’archivio di parte nazista e fascista, che rendano conto dei fatti prodotti dagli esecutori e dai loro apparati militari e civili, e la voce delle vittime, non solo sulla base delle testimonianze postbelliche (deposizioni nei tribunali, interviste, memorie ecc.); ma soprattutto utilizzando diari, lettere, annotazioni scritte durante lo svolgersi degli avvenimenti. Così ha fatto recentemente Saul Friedländer (con il suo Gli anni dello sterminio, Garzanti 2009), restituendo al lettore uno sguardo sulla storia più coinvolto, perché dentro le parole, le paure, i drammi e la vita in generale di chi non poteva prevedere forse nemmeno il domani. Ed è certo questo un modo di fare la storia che si oppone a coloro che vorrebbero riscrivere la vicenda del nazismo e del fascismo dando voce solo ai persecutori (siano essi semplici soldati SS o ufficiali e alti gerarchi). Così accade che lo spazio aperto per questa storia vista e ricostruita con gli occhi e la voce delle vittime sia ancora molto ampio, per qualità dei racconti e delle ricostruzioni, ma soprattutto per la possibilità offerta al lettore di cogliere appieno il «sentimento» degli accadimenti, nella loro profonda e articolata complessità. Mario Avagliano e Marco Palmieri, con il nuovo libro Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia. Diari e lettere 1938-1945 (Einaudi, pagine 388, € 15) si collocano in questo solco della ricerca. Non solo: il loro libro estende il «dovere della memoria» a tutto il periodo della persecuzione, dalle leggi razziste del 1938 alla liberazione dei lager e al ritorno dei deportati del 1945. La caduta nel cosiddetto «cono d’ombra della Shoah» dell’Italia viene riportata alla fase della persecuzione dei diritti (quando nel 1938 gli ebrei italiani persero la loro cittadinanza e le possibilità di vivere in patria come italiani), in stretta continuità con quella, seguita all’ 8 settembre del 1943, della persecuzione delle vite. Un continuum storico che accusa il fascismo non solo nella sua espressione rinata sotto la forma della Repubblica sociale italiana. Le lettere, i diari, le annotazioni private, scritti per lasciare una traccia degli avvenimenti (ai famigliari dispersi, agli amici) e del proprio passaggio in terra (per quegli ebrei con destinazione Auschwitz posti di fronte a una deportazione che si preannunciava fin da subito foriera di una grave minaccia alla vita) rendono con forza, evocativa ed emotiva, il trascorrere dei minuti e dei giorni di quei terribili anni. E si coglie sia l’illusione di un possibile cambiamento (per coloro che videro nelle leggi razziste del 1938 un accanimento che sperarono non avesse un seguito concreto e tanto meno drammatico), sia il dramma di una lacerazione con la comunità di una patria che non riconosceva più i suoi figli di «razza ebraica» ; sia la disperazione di chi, pur nella scelta della Resistenza, si percepiva diviso, non più capace di progetti per il futuro, anche quando la morte non spaventava e prevaleva il coraggio della gioia. I documenti «privati» pubblicati da Avagliano e Palmieri, in gran parte per la prima volta, o recuperando testi per lo più introvabili e dispersi, ci propongono un autoritratto della vita degli ebrei sotto il fascismo a tinte forti. Suddivisi in capitoli a carattere tematico o cronologico, consentono anche di ripercorrere in modo agevole e puntuale l’intera storia della persecuzione antiebraica in Italia tra il 1938 e il 1945; e rimandano il lettore, direttamente, senza mezze misure alle colpe del fascismo italiano, a partire dalla campagna di propaganda antisemita, fino alla caccia all’uomo, che fece seguito all’istituzione dei campi di internamento fascisti, e alla collaborazione diretta con i nazisti negli arresti e nelle deportazioni. Tra gli altri capitoli, quello riferito agli ebrei nella Resistenza, insieme a quello della partenza verso i lager e al difficile ritorno alla vita, ci sembrano fortemente carichi di suggestioni e di riflessioni con richiami all’attualità. Molto utile l’introduzione storica che traccia, riferendosi a una ampia bibliografia, una sintesi dei maggiori avvenimenti che portarono il fascismo a collaborare allo sterminio nazista.

Corriere della Sera 25.1.11
Nell’inferno di Auschwitz c’è un bambino che disegna
di Cesare Segre


Un tredicenne che si trova gettato nella bocca dell’inferno, solo e senza istruzioni. È un tema adatto a uno scrittore dell’orrore dalla fantasia perversa. Ma è esattamente la sorte toccata a Thomas Geve, un bambino ebreo di Stettino deportato ad Auschwitz nel 1943. Thomas era vissuto con la mamma e i nonni, esercitando gli unici mestieri possibili per un ebreo come lui, il giardiniere e il becchino. Il padre, espatriato a Londra, faceva vani tentativi per richiamare a sé i suoi cari. Ad Auschwitz, Thomas fu deportato con la madre, che resistette pochi mesi al lavoro forzato. In base alle norme vigenti nel Lager, tutti i bambini inferiori ai quattordici anni (e tutti i vecchi) venivano mandati direttamente alle camere a gas. Thomas, sottratto al forno crematorio perché giudicato robusto, costituì dunque un’eccezione. E a quest’eccezione allude il terribile titolo dell’opera di Thomas Geve (Qui non ci sono bambini. Un’infanzia ad Auschwitz, traduzione di Margherita Botto, Einaudi, pp. 186, e 24). Libro straordinario perché sulla sua esperienza di bambino c’informa, soprattutto, con i disegni. Infatti, dopo la liberazione da parte degli alleati (Thomas era finito a Buchenwald, in seguito all’evacuazione di Auschwitz), nei quindici giorni di convalescenza Thomas si procurò carta, matite colorate e acquerelli, e gettò giù in fretta settantanove disegni, con spiegazioni in tedesco che documentano con esattezza architettura e organizzazione del Lager, ma anche il funzionamento interno, i tipi di lavoro, i regolamenti disciplinari, i problemi igienici, l’alimentazione. Tutto questo per comunicare al padre, poi finalmente raggiunto, come aveva passato i due anni di prigionia. I disegni di Thomas trovarono scarso interesse, e solo quarant’anni dopo, depositati allo Yad Vashem di Gerusalemme, città nella quale Thomas abita dal 1950, hanno cominciato a circolare con una mostra itinerante e poi in pubblicazioni parziali. Questa è la prima completa. Sarebbe frivolo affrontare questi disegni come opere d’arte. Ben più importante notarvi i segni di una dura esperienza, l’attenzione alle misure, agli spazi, alle prospettive di un mondo artificiale e perverso che il ragazzo viene a conoscere e cerca di memorizzare. Le baracche realizzano e contengono i mezzi per una tortura implacabile; il filo spinato è reclusione e insieme assassinio; le fognature propongono sogni di evasione; gli orari sono un cilicio per il tempo, e le annotazioni non attenuano nulla: «Nel reparto di chirurgia i detenuti venivano semplicemente legati e poi operati senza anestesia. Da quel luogo uscivano grida barbare» . C’è persino lo schema delle camere a gas. Ma Thomas ha un orizzonte morale maturo: sente pietà per i deportati zingari, capisce la vergogna delle prostitute al servizio del comando militare, non certo dei detenuti, fa amicizia con qualche altro ragazzo, ma spesso li vede morire; le canzoni dei deportati lo commuovono sempre più intensamente. Date le misure ristrette delle illustrazioni, i personaggi di Thomas sono tutti omini, ma non sfuggono all’occhio attento né i lavori inutili, né la caccia ai pidocchi, né gli espedienti per trovare un tozzo di pane in più, né le bastonature o le impiccagioni. Sullo sfondo i canti dei deportati, e le marce militari degli aguzzini. Gli omini di Geve ricordano a volte, certo per caso, Klee. E alla fine le sorprendenti qualità artistiche di Thomas non possono più essere taciute. Se ossessionano le file di vagoni e di baracche che Thomas rappresenta, altre volte sintetizza in pochi riquadri minacciosi i temi di questa sopravvivenza disperata, oppure costruisce figure a schema circolare che rispecchiano la coerenza criminale del disegno realizzato con il Lager. Memoria e giudizio vengono a coincidere.

Corriere della Sera 25.1.11
Se i figli sono vittime della furia dei genitori
di Isabella Bossi Fedrigotti


P roprio mentre è stata emessa la sentenza per il bambino genovese ammazzato di botte un anno fa dal convivente della madre— rea, a quanto pare, di avergli ha dato manforte— già le cronache dei giornali stanno raccontando una nuova storia di violenza contro i piccolissimi, quella della neonata di San Felice Circeo mandata in coma, a forza di botte, ancora non si sa bene se dal papà o dalla mamma. E se si dovesse fare anche solo una brevissima ricerca d’archivio si scoprirebbe che i casi di bambini di pochi mesi o pochi anni percossi e malmenati, a volte anche a morte, sono spaventosamente frequenti. Nessuna zona geografica è risparmiata e nessun ambiente, e se non è la mamma stessa che alza le mani su di loro è il papà oppure il nuovo fidanzato della mamma: una storia che si ripete, sempre uguale, storia di follia, di crudeltà, quando non di vendetta. Certo, il pianto dei bambini, quel pianto che non si spiega e che non smette, i capricci insistenti, il non voler mangiare o non voler dormire possono far perdere i nervi, lo si capisce. E poi ci sono le frustrazioni di un padre o di una madre, i loro fallimenti, le depressioni o le umiliazioni incassati fuori casa che potrebbero indurli a prendersela, in casa e a parole, con qualcuno che non reagisca. Anche questo si può capire. Ma non si capisce, non si capirà mai, perché è il più inspiegabile dei delitti, come un papà e, a maggior ragione una mamma, possano scatenare la loro furia, la loro forza addosso a un piccolissimo bambino, riempire di lividi la sua pelle morbida, mordere le sue membra tenere, sbattere contro il muro la sua testa delicata che andrebbe soltanto carezzata, prenderlo a pugni o a calci: perché sono questi i trattamenti che certi genitori, non necessariamente drogati o ubriachi, in qualche caso riservano ai loro figli neonati. Verrebbe da dire loro: ma perché li mettete al mondo? Che bisogno c’era di un bambino in una coppia — chiamarla famiglia, termine che dà l’idea di rifugio e protezione, sembrerebbe già troppo — la quale, per infinite ragioni, non ha posto né pazienza né cuore per un bambino? Lasciate perdere, li si vorrebbe pregare, lasciateli a qualcun altro questi figli che non sopportate, che devono aver paura di voi come del peggior nemico, che per voi sono simili al cagnolino di casa da menare di brutto quando fa pipì in salotto: non troppo di brutto, però, perché si sa che potrebbe rivoltarsi e mordere; e anche il gatto picchiato si rifarebbe con grandi unghiate, mentre il neonato, se ha scelto male i suoi genitori, è destinato a subire fino alla fine.

Repubblica 25.1.11
Con Lerner si parlerà dei pazienti matti
La tv civile di Paolini svela "gli uomini inutili" vittime dei nazisti
di Mariella Tanzarella


Marco Paolini colpisce ancora. Dritto al cuore, e allo stomaco, con una delle sue pièce intrise di umanità e di sgomento. Ausmerzen - Vite indegne di essere vissute, in onda su La 7 domani alle 21.10, alla vigilia del Giorno della Memoria che ricorda le vittime dell´Olocausto, è un monologo di Paolini e un dibattito condotto da Gad Lerner, ispirati a un tema tragico, riportato alla ribalta dalla macabra scoperta di una fossa comune nei pressi di un ospedale psichiatrico in Austria: «La teoria dell´eugenetica portò, tra i molti crimini nazisti, anche al massacro di pazienti psichiatrici, considerati "inutili" e "indegni"», spiega Paolini.
L´attore e drammaturgo veneto con l´aiuto del fratello Mario, da anni pedagogista per disabili, e di un primario tedesco ha svolto ricerche in un ex-manicomio in Germania e ha ricostruito una storia dolorosa e inquietante, che mostra come sia tragicamente facile partire da piccole "concessioni", piccole deroghe alla coscienza e al senso di umanità, e scivolare nell´orrore: «La cosa atroce è che in questo caso, e forse in molti altri, a uccidere non erano militari, ma medici. Quelli cui veniva affidata la cura delle persone», spiega. Il monologo che ne deriva viene recitato, ripreso e trasmesso in diretta da una sede non casuale, l´ex-ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, oggi trasformato dalla cooperativa Olinda in sede di iniziative culturali e di aggregazione sociale, con teatro, musica, ristorante, proiezioni e incontri. «Andremo in onda dalla sala che un tempo ospitava l´obitorio dell´ospedale», specifica Paolini.
Gad Lerner, che introduce lo spettacolo e poi approfondisce il tema con vari ospiti, sottolinea l´efficacia dell´approccio scelto: «È importante verificare e capire come, in periodi di crisi economica, possa diventare normale considerare alcuni individui "superflui". Ho invitato a partecipare molti insegnanti di sostegno della scuola pubblica, che parleranno di questa mentalità, di chi dice dei loro assistiti che "costano troppo", "è inutile spendere per loro", eccetera». Al dibattito partecipano, inoltre, ex-degenti del Pini, psichiatri, Michael von Cranach, il primario tedesco che ha contribuito a scovare testimonianze e documenti. «È un onore per me lavorare con Paolini», continua Lerner. «E mi fa piacere constatare che La 7 abbia sempre picchi di ascolto con le scelte di qualità». Al Pini i milanesi potranno assistere allo spettacolo mercoledì e alle prove, in programma stasera, prenotandosi su www.marcopaolini.info, mentre la diretta si può seguire anche sul sito di La 7.

Terra 25.1.11
Biotestamento, i chirurghi italiani affossano la legge
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/47517351