giovedì 27 gennaio 2011

l’Unità 27.1.11
Primarie a Napoli l’ira di Bersani: alt all’assemblea Pd
Parte la corrente dei bersaniani: «Le primarie non funzionano»
di  A. C.


Battesimo ancora rinviato per la corrente dei bersaniani. Tra il voto su Bondi e il caos per il rinvio dell’assemblea di Napoli, ieri la riunione dei cento parlamentari più vicini al leader Pd si è conclusa con un rinvio. Sarà il prossimo appuntamento, il terzo dopo la prima riunione convocata a metà gennaio, a sancire la nascita ufficiale dell’associazione «Per l’Italia». La riunione di ieri, in serata, è stata monopolizzata dal caos delle primarie a Napoli. «È la conferma delle nostre preoccupazioni: con le regole attuali le primarie non funzionano, creano solo problemi», sintetizza l’umore della riunione Oriano Giovanelli, coordinatore dei bersaniani. «Tra incursioni esterne, divisioni tra alleati e dentro il partito, siamo assai lontani dagli obiettivi che ci eravamo proposti». Cambiare dunque. «E noi lo diciamo da tempo...serve almeno un albo degli elettori, non può votare il primo che passa», sottolinea Giovanelli. A febbraio, in un seminario ad hoc sulle primarie lanciato dall’aera Marino, i bersaniani si faranno sentire. Intanto l’associazione prende forma. «Vogliamo rimettere in moto le migliaia di persone che si erano mobilitate per la battaglia congressuale di Bersani», spiega Giovanelli. «La sua sfida per costruire un vero partito si è rivelata più difficile del previsto, e non vogliamo che il Pd soccomba sotto il peso di personalismi ed egoismi». E ancora: «Non si può andare in una situazione in cui il partito parla a 4-5 voci: per fortuna che nell’ultima direzione abbiamo votato, e che la maggioranza attorno al segretario è più ampia di quella del congresso». Nella nuova area il grosso sono ex Ds, compresi i dalemiani. Ma non mancano innesti “esterni” come i popolari Duilio, Oliverio e Fadda, i prodiani Zampa, Santagata e Levi, il bindiano Zaccaria. «Non vogliamo essere una setta e non cerchiamo posti di potere», dice Giovanelli. «Vogliamo dare una mano al segretario». Previsto un radicamento sul territorio della nuova associazione.

il Fatto 27.1.11
Bersani commissaria le primarie e Saviano candida Cantone
Dopo i brogli napoletani annullata l’Assemblea nazionale
di Vincenzo Iurillo


Primarie caos. Sconquasso all’ombra del Vesuvio. Si va verso il superamento dei nomi del vincitore sub judice Andrea Cozzo-lino e del secondo classificato Umberto Ranieri, divisi da un migliaio di preferenze, con il successo di Cozzolino minato da una pioggia di ricorsi che lo accusano di brogli elettorali e inquinamento del voto tramite accordi inconfessabili con il Pdl locale. Si cerca un terzo nome estraneo ai giochi. Una soluzione che prescinda dalle decisioni sulle primarie dei garanti, che ieri alle 19 sono tornati a riunirsi nella sede napoletana del Pd con l’orientamento di cancellare i seggi-scandalo di Miano e Secondigliano, nei quali il delfino di Antonio Bassolino ha scavato il divario decisivo.
COSÌ Pier Luigi Bersani ha deciso di annullare l’assemblea nazionale del Pd convocata presso la Mostra d’Oltremare di Napoli per domani e dopodomani, che avrebbe dovuto essere il trampolino di lancio del vincitore delle consultazioni. Chiedendo “un immediato incontro alla coalizione di centrosinistra che ha organizzato le primarie per dare una risposta politica convincente ai problemi emersi dalla consultazione, al di là delle determinazioni procedurali della Commissione di garanzia". La nota del segretario nazionale dei Democratici delegittima Cozzolino e prende le distanze dalla segreteria napoletana Pd, ritenuta insufficiente a gestire la situazione. Ma nello stesso tempo di fatto commissaria le primarie napoletane e mette un’ipoteca sulle consultazioni in generale. Chiedendo un incontro alla coalizione che ha organizzato le primarie, di fatto tira in ballo anche Nichi Vendola. Un tentativo di inchiodare anche gli alleati alle loro responsabilità. La mossa del segretario del Pd segue di poche ore l’appello di Roberto Saviano che dalle telecamere della web tv di Repubblica ha parlato di delle primarie di Napoli come una "occasione persa", una "brutta figura" con pesanti sospetti di "voto di scambio", che ha solo una soluzione possibile, quella di "rifare le primarie". Saviano è tornato a rilanciare il nome del giudice antimafia Raffaele Cantone: "In queste ore si rimpiange suo nome, sarebbe stata una garanzia contro tutto questo". Interpellato da Il Fatto Quotidiano, l’ex pm della Dda di Napoli si dice “lusingato, ma per quanto mi riguarda non è mia intenzione candidarmi”, precisando di voler tornare a fare il magistrato a Santa Maria Capua Vetere o nel napoletano “non appena si libererà un ruolo adeguato”. Ma in realtà i giochi non sembrano chiusi. D’altra parte, il nome di Cantone era già emerso nei mesi scorsi su proposta di Veltroni. E Migliavacca ricorda di averlo interpellato ufficialmente a nome del Pd, ricevendone un cortese diniego. Eppure il riluttante Cantone continua a essere invocato come il Salvatore della patria. I Modem, da Giuseppe Fioroni, a Paolo Gentiloni, lo lanciano ufficialmente. Ma anche Franceschini questa volta ne sponsorizza la candidatura. Dalla segreteria provinciale di Idv, che non ha partecipato alle primarie, filtra apprezzamento per Cantone: “Lui e Luigi De Magistris – sostiene il coordinatore Nello Formisano – sono gli unici che potrebbero davvero coinvolgere la società civile, farci dimenticare quel che è successo e ripetere il miracolo del primo Bassolino che emerse, e governò bene, dalle rovine di Tangentopoli. Mentre ora bisogna emergere dalle rovine di queste primarie”.
INTANTO , nel pomeriggio di oggi è previsto a Roma un summit tra i responsabili nazionali Enti Locali dei partiti coinvolti nelle primarie: Pd, Sel, Federazione della Sinistra, Verdi. Parteciperanno anche i vertici napoletani. I vendoliani partenopei che pure alle primarie hanno partecipato sembrano consapevoli che la mossa di Bersani forse è l’unica in grado di muovere le acque annerite dai veleni di questi giorni. E se Ranieri, dopo aver accennato alla necessità di “rifare le primarie”, ha comunque sostenuto di volersi fare da parte, Cozzolino invece non molla e continua a chiedere la convalida del proprio successo: “Domenica scorsa più di 44 mila cittadini hanno partecipato liberamente alle primarie e, legittimamente, hanno scelto il loro candidato sindaco. Dobbiamo saper tutelare la volontà espressa da migliaia di napoletani onesti e rispettare l’impegno di centinaia di militanti, senza arrendersi mai a chi tenta di inquinare il voto. Per domani Cozzolino ha convocato un’assemblea dei suoi sostenitori al Palapartenope.

Corriere della Sera 27.1.11
Le ombre che scuotono il Pd di Napoli
di Paolo Franchi


Pier Luigi Bersani esige chiarezza, e ha perfettamente ragione. Ma, per adesso, l’unica cosa chiara è che l’assemblea nazionale del Pd in programma a Napoli domani e dopodomani— l'assemblea in cui il più grande partito di opposizione doveva finalmente parlare del suo programma di governo— su proposta del segretario è stata sospesa, e rinviata a febbraio. Si tratta di una decisione obbligata, per carità, ma non per questo meno agghiacciante.
Quarantaquattromila napoletani tre giorni fa si sono messi in fila per scegliere il candidato sindaco del centrosinistra. Una festa della partecipazione democratica, la prova di orgoglio di un popolo democrat che, per quante delusioni e amarezze gli abbiano riservato Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino, cerca il riscatto per non offrire su un piatto d’argento Napoli alla destra? Sicuramente ci sarà stato anche questo. E magari, chissà, non ci saranno stati nemmeno i brogli, o le pressioni indebite, o le irregolarità denunciate dai concorrenti sconfitti. Ma le accuse, i sospetti, le recriminazioni hanno cominciato ad accavallarsi quando le urne non erano del tutto chiuse: si va dai capibastone davanti ai seggi agli extracomunitari indotti a votare in cambio di cinque euro, passando per la mobilitazione di pezzi di Pdl, sempre a vantaggio di Andrea Cozzolino, bassoliniano da una vita, europarlamentare e titolare di un consistente pacchetto di voti. E continuano ad andare avanti tra ricorsi alla commissione dei garanti da parte degli sconfitti (il più cauto e preoccupato dei quali è non per caso una persona seria come Umberto Ranieri, che pure ha perso per 1.200 voti) e occupazioni della sede del partito da parte dei sostenitori del candidato vittorioso. Così devastanti da mettere il Pd nelle condizioni di dover sospendere la sua assemblea nazionale. Lasciamo pure da parte i moralismi. Basta conoscere appena un poco la storia recente di Napoli per sapere che una lunga stagione politica come quella bassoliniana non si lascia archiviare in modo indolore, con un libro di riflessioni e qualche intervista: ci sono frangenti in cui la lotta politica si fa molto peggio che dura. Ma non è necessario essere degli inguaribili nostalgici del tempo che fu (anche se chi ricorda la sinistra napoletana di Giorgio Amendola e Francesco De Martino, di Gerardo Chiaromonte e di Giorgio Napolitano qualche nostalgia ha il diritto e forse pure il dovere di nutrirla) per annotare che un tempo, quando c’erano partiti veri, il confronto aperto e, perché no, lo scontro feroce avrebbero investito i gruppi dirigenti, i quadri intermedi, i militanti, gli intellettuali, le associazioni più o meno collaterali: ai contendenti non sarebbe neppure saltato per la testa di delegittimarsi reciprocamente sul piano morale prima ancora che su quello politico, e meno ancora di far dilagare tra gli elettori una simile contesa. I vecchi partiti, che erano comunità fondate su valori condivisi, non torneranno. Quelli nuovi, però, rischiano di deflagrare senza essere davvero mai nati. Si era detto e si dice: provvederanno le primarie. Ma nemmeno il loro più fiero avversario sarebbe riuscito a immaginare una così clamorosa, potente, tragicomica dissacrazione di un istituto che si voleva salvifico. Non invidiamo i garanti chiamati a decidere se le consultazioni vadano o no annullate (onestamente, pensiamo proprio di sì). Vedremo che cosa decideranno. Intanto Roberto Saviano riprende una proposta di Walter Veltroni ed esprime la speranza che, in nuove primarie, si candidi Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, l’unico in grado, dice, di parlare alla coalizione e alla città, e di dare una speranza. L’ammirazione e la stima per Cantone sono fuori discussione, la necessità di combattere a viso aperto la camorra pure. Ma l’idea che l’unico modo per venire a capo dei problemi (drammatici) di un grande partito e di una grande città sia fare appello a un magistrato è già la prova di un fallimento (drammatico) della politica.

Corriere della Sera 27.1.11
Il nodo delle primarie. Veltroni tentato dalla corsa
di  Maria Teresa Meli


ROMA — L’unica consolazione, per il Pd, è che c’è chi sta peggio, ossia la maggioranza Per il resto, quella di ieri è stata una giornata da dimenticare. Il voto sulla sfiducia a Bondi, che è andato com’è andato. Il caos di Napoli che ha costretto Pier Luigi Bersani a rinviare l’assemblea nazionale per paura che i tifosi di Cozzolino e Ranieri si accapigliassero durante la riunione. La rottura della tregua fittizia siglata al Lingotto. E come se non bastasse ecco profilarsi una nuova polemica all’interno del Partito Democratico: quella sulle primarie. Il segretario è convinto che dopo quel che è accaduto nel capoluogo partenopeo occorra «fare il tagliando» a questo strumento. «Bisogna riformarle» , ha ribadito ieri nel corso di un veloce scambio di opinioni con alcuni compagni di partito, ricordando che già tempo fa aveva messo in guardia dai rischi che comportano queste consultazioni: «Possono portare elementi di dissociazione dentro il Pd» . Le parole di Bersani sono sembrate un via libera ai tanti contrari alle primarie, che, non a caso, stanno uscendo allo scoperto, a cominciare da Marco Follini che avverte: «Non facciamone un oggetto di culto, evitiamo l’autolesionismo » . L’offensiva anti-primarie preoccupa la minoranza. «Quel che è successo a Napoli— è l’altolà di Walter Veltroni— non deve essere strumentalizzato per cercare di cancellare queste consultazioni» . E Paolo Gentiloni: «Non bisogna mettere sotto accusa le primarie, guai a buttare il bambino con l’acqua sporca» . Nella minoranza il sospetto che si voglia modificare radicalmente questo strumento, vanificandolo, è molto forte. E si attendono le prossime mosse del segretario per capire fin dove la maggioranza voglia spingersi su questo fronte. Sullo sfondo la tensione in realtà mai sopita tra Bersani e Veltroni contribuisce ad alimentare un clima arroventato. Il segretario e i suoi sono convinti che l’ex leader voglia nuovamente buttarsi in pista in prima persona, che aspiri a contendere a Bersani la candidatura alla premiership del centrosinistra. Non a caso, gli uomini più vicini al segretario hanno cominciato a demolire i contenuti della convention del Lingotto. Da tre giorni circola un documento del responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, che ieri è stato pubblicato dal «Foglio» . In quel testo si sostiene che la maggior parte delle tesi programmatiche presentate da Veltroni sono identiche a quelle propugnate dal segretario, quasi una scopiazzatura, quanto alle altre, quelle che non ricalcano il Bersani pensiero, secondo Fassina fanno invece acqua da tutte le parti. Walter Verini, che di Veltroni è il braccio destro e sinistro, respinge ogni accusa e punta l’indice contro i bersaniani che «vogliono allargare il fossato» tra maggioranza eminoranza. Ma la verità è che l’ex leader del Partito democratico sta veramente meditando di scendere in campo e di presentasi contro Bersani alle primarie. La decisione non è ancora maturata definitivamente perché Veltroni non esclude di passare la mano a un volto nuovo, però la tentazione è forte: «Il Lingotto è andato benissimo e grazie a questa nostra iniziativa il Pd è già risalito di due punti in percentuale nei sondaggi» . Su questo punto, però, la minoranza è divisa. Sia Paolo Gentiloni che Ermete Realacci hanno suggerito a Veltroni di soprassedere. Tra gli ex popolari, poi, c’è un certo nervosismo: non era certo per questa ragione, sostengono, che abbiamo promosso l’iniziativa del Lingotto: che senso avrebbero le primarie fra tre ex pci come Bersani, Veltroni e Vendola? Beppe Fioroni, che degli ex ppi della minoranza è il gran capo, ha cercato di rassicurare i suoi: «Avevamo stabilito sin dall’inizio che la partita della premiership non poteva essere giocata in prima persona e non c’è motivo per cambiare idea adesso» .

l’Unità 27.1.11
Le tute blu Cgil nelle piazze per difendere contratto e diritti
Landini: «Saranno grandi giornate, il consenso sarà altissimo»
Sciopero Fiom, oggi Bologna domani il resto d’Italia
Due giorni di scioperi e manifestazioni: oggi a Bologna e in Emilia, domani nel resto del Paese. La Fiom torna in piazza contro gli accordi voluti da Marchionne per governare gli stabilimenti del Lingotto.
di Giuseppe Vespo


Oggi a Bologna e in Emilia Romagna, domani a Milano e nel resto d’Italia: la Fiom torna in piazza con uno sciopero generale di otto ore che punta a bloccare le fabbriche del Paese e quelle del Lingotto in particolare. Obiettivo dichiarato: portare in strada il «no» agli accordi voluti da Sergio Marchionne per governare gli stabilimenti del Lingotto. Dietro lo slogan «Da Pomigliano a Mirafiori... Il Lavoro è un bene comune ... Difendiamo ovunque contratto e diritti» sono programmate 17 manifestazioni regionali e quattro provinciali.
Si parte dall’Emilia, che anticipa la mobilitazione per evitare un ponte troppo lungo agli operai di Modena, dove lunedì si festeggia il patrono San Geminiano. Ad accompagnare il corteo di Bologna ci saranno Maurizio Landini, segretario generale Fiom, e la leader della Cgil, Susanna Camusso. Con loro, e con le tute blu, sfileranno gli studenti, i movimenti, il Pd regionale e locale con il candidato sindaco Virginio Merola, Idv, Sel, le sigle del centrosinistra, e una delegazione di scrittori capitanata da Carlo Lucarelli. Il corteo si snoderà per i viali cittadini, attraverserà via Indipendenza e si riunirà in Piazza Maggiore.
Domani toccherà alle altre regioni. Landini sarà in piazza Duomo a Milano, in compagnia del segretario confederale Cgil Vincenzo Scudiere e di Gad Lerner, don Andrea Gallo e in collegamento video Gino Strada, fondatore di Emergency. Sul palco saliranno anche gli studenti milanesi che hanno solidarizzato con le tute blu Cgil. La mobilitazione lombarda è stata presentata dal segretario regionale Fiom, Mirco Rota, con un presidio e una mini catena di montaggio allestita a due passi dal Duomo dagli operai di alcuni stabilimenti milanesi.
«Il ritorno che abbiamo dalle assemblee e dai delegati ci dice che saranno grandi giornate, che il consenso sarà altissimo», ha commentato ieri Landini da Torino, dove in vista dello sciopero si è tenuta la manifestazione «Grazie Mirafiori». «C’è grande preoccupazione ha aggiunto il sindacalista ma anche l’idea che non si può accettare la cancellazione dei diritti». Con lo sciopero «vogliamo inoltre chiedere a Federmeccanica di non seguire la Fiat». Il riferimento è al tavolo aperto dagli industriali con Fim e Uilm per un contratto specifico dell’auto e all’idea di alternare il contratto nazionale e quello aziendale a seconda delle esigenze dei diversi stabilimenti.
Tra le manifestazioni di domani, quella di Torino, dove interverrà Giorgio Airaudo, segretario nazionale delle tute blu Cgil e responsabile del settore auto. Per il Veneto, a Padova, ci sarà Giorgio Cremaschi, presidente del Comitato centrale Fiom. A Cagliari, Fausto Durante della segreteria nazionale. In Liguria si terranno quattro manifestazioni provinciali, a Genova, Savona, La Spezia e Imperia, in Toscana a Massa con concentramento davanti alla Eaton. Poi Bolzano, Udine, Massa, Perugia, Ancona, Cassino, Termoli, Pomigliano D’Arco, Bari, Melfi, Vibo Valentia e Termini Imerese.

il Fatto 27.1.11
La Fiom cerca di estendere la lotta Fiat
di Salvatore Cannavò


La prova generale sarà oggi a Bologna dove lo sciopero generale dei metalmeccanici indetto dalla Fiom si tiene un giorno prima, per non creare conflitti con la festa del santo patrono di Modena (che è lunedì, giorno in cui sarebbe obbligatorio lavorare scioperando di venerdì). In piazza Maggiore il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, parlerà insieme al segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, in una manifestazione che si annuncia molto partecipata. In Emilia, del resto, c'è il grosso della Fiom, da qui vengono gli ultimi due segretari generali e soprattutto qui c'è quella imprenditoria diffusa che può costituire l'interlocuzione necessaria a un sindacato che alla Fiat rischia di restare fuori dai cancelli e che il triangolo formato da Confindustria da un lato, governo e Fim-Uilm sugli altri, di stritolare.
LO SCIOPERO è stato indetto come un grande “segnale di avvertimento” alle imprese italiane per ribadire che, se la linea seguita sarà quella tracciata dall’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, allora la Fiom darà battaglia. Perché, come ha spiegato Maurizio Landini nel corso di un’assemblea tenuta all'Università Sapienza di Roma, “l’obiettivo della Fiom è durare un giorno in più di Marchionne”. E così mentre si preparano le piazze per il 28, si guarda già al dopo, all'assemblea nazionale dei delegati Fiom prevista per il 3 e 4 febbraio e che servirà non solo a rinsaldare l’orgoglio di organizzazione, ma anche a definire una strategia vincente per riconquistare i diritti sindacali in Fiat e il contratto nazionale nell'intero settore. Per questo si discute già di “scioperi articolati” che facciano “un danno maggiore alla Fiat ma anche alle altre imprese”.
PRIMA, PERÒ, c'è il 28, che deve essere un successo per estendere poi la strategia. Landini parlerà a Milano in piazza del Duomo, provando a ricostruire il clima e la partecipazione degli anni in cui il sindacato faceva davvero paura. La manifestazione di Milano vedrà anche ospiti di eccezione, come don Andrea Gallo, il fondatore di Emergency, Gino Strada, e Gad Lerner.
Altra giornata importante a Cassino (Frosinone) la fabbrica che è il prossimo passo della riorganizzazione Fiat targata Marchionne. Lì si terrà la manifestazione del Lazio e dove confluiranno gli studenti universitari della Sapienza di Roma. Un sodalizio, quello tra operai e studenti, che sta prendendo sempre più corpo in un imprevisto ritorno agli anni Settanta. Con lo sciopero la Fiom punta infatti a rinsaldare i suoi rapporti con altri movimenti sociali per costruire una rete di relazioni che la renda più forte. Va in questo senso la due giorni organizzata sabato e domenica scorsi a Marghera presso lo storico centro sociale Rivolta in cui sono stati stretti i legami con i centri sociali del Nord-est, quelli di Luca Casarini che ormai sempre più spesso si vede a fianco dell'ex segretario Fiom, Gianni Rinaldini. In questa direzione va anche il convegno organizzato sabato 29 gennaio insieme alla rivista MicroMega di Paolo Flores d’Arcais che batte sulla necessità di un’interlocuzione stabile tra “società civile”, sindacati, studenti per riformare dal basso la politica.
Lo sciopero si inserisce poi nel rapporto sempre complesso con la Cgil a cui la Fiom è affiliata. La presenza della Camus-so oggi a Bologna è un segnale forte di unità interna ma restano le divergenze su quasi tutto: la legge o l’accordo sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro, sulla contrattazione e soprattutto sulla prospettiva dello sciopero generale che la Fiom continua a chiedere e la Cgil a non concedere.
LE ALTRE manifestazioni regionali avranno punti di raccolta obbligati e simbolici allo stesso tempo: Pomigliano in Campania, Melfi in Basilicata, Termini Imerese in Sicilia, Mirafiori per il Piemonte. Anche a Torino sarà alta l'attenzione, dopo il risultato del referendum alla Fiat ma anche per le voci che si rincorrono sulla possibile candidatura a sindaco di Giorgio Airaudo, membro della segreteria nazionale. Le pressioni in città sono molto forti, lui è indeciso e una parola chiara sarà pronunciata dopo lo sciopero, forse sabato. Infine, la giornata del 28 avrà anche una versione internazionale, in Polonia. Il sindacato "Agosto 80" dello stabilimento Fiat di Tychy ha convocato un presidio all'ambasciata italiana a Varsavia e chiederà di essere ricevuto dall'ambasciatore italiano per protestare contro Marchionne.

l’Unità 27.1.11
Intervista a Mohamed Adel
«Vogliamo libertà, l’Europa non chiuda gli occhi»
Il leader del movimento egiziano: «L’Occidente non può appoggiare regimi in bancarotta La gente non ne può più, la protesta non si fermerà»
di U.D.G.


Ci siamo liberati della paura. Possono occupare militarmente le piazze, fare arresti di massa, inasprire la censura, ma le manifestazioni di questi giorni sono l’inizio di qualcosa di grande». A sostenerlo è Mohamed Adel, portavoce del Movimento «6 Aprile» protagonista delle manifestazioni di protesta che stanno scuotendo l’Egitto. «All’Europa afferma Adel chiediamo di non chiudere gli occhi di fronte alle rivendicazioni di libertà che uniscono la piazza di Tunisi con quella de Il Cairo. L’errore più grande che l’Europa potrebbe fare è di sostenere ancora regimi, come quello di Hosni Mubarak, che hanno fatto bancarotta».
Per il secondo giorno l’Egitto è teatro di scontri tra la polizia e i manifestanti che hanno accolto l’appello del Movimento «6 Aprile»...
«Stanno facendo di tutto per sradicare la protesta. Gli arresti si contano a centinaia, il regime ha imposto la censura ai social network Twitter e Facebook, in piazza hanno schierato i reparti antisommossa in assetto di guerra. Questa è la democrazia di Hosni Mubarak...Ma non l’avranno vinta, perché la gente non ne può più di una dirigenza che ha pensato solo a perpetuare il proprio potere, che alle istanze di libertà risponde con la più brutale repressione. Ciò che chiediamo è lo scioglimento del Parlamento, la convocazione di elezioni libere, monitorate da osservatori internazionali. Vogliamo il pluralismo nell’informazione, la fine di ogni forma di censura...».
E per quanto riguarda Hosni Mubarak? «Lui rappresenta il passato, il futuro dell’Egitto passa attraverso la sua uscita di scena».
C’è chi sostiene, in Egitto ma anche in Italia il ministro degli Esteri Franco Frattini, che dietro la protesta ci sono gli integralisti islamici...
«È falso. Chi afferma questo sta offrendo un alibi al regime, divenendo complice della repressione in atto. In piazza la gente grida “pane e libertà”, invoca elezioni libere, si batte per la democrazia. Cosa c’entra tutto questo con l’integralismo islamico? Noi siamo convinti che Islam e democrazia non sono inconciliabili. Non solo. Pensiamo anche che il più forte antidoto contro qualsiasi integralismo sia la democrazia. Quella democrazia negata dal regime».
Cosa ha rappresentato per voi la «rivoluzione jasmine» tunisina?
«Uno straordinario esempio di coraggio. Un messaggio di speranza che tutti i popoli arabi devono raccogliere e riportarlo nelle diverse realtà. Il popolo tunisino ha dimostrato che non esistono regimi intoccabili, che libertà, diritti, giustizia sociale sono principi che possono guidare rivolte popolari e dare un futuro degno di essere vissuto ai giovani. Per questo stiamo lottando. Siamo convinti che le manifestazioni di questi giorni siano solo l’inizio di qualcosa di grande. Nell’89 è stato abbattuto il Muro di Berlino. Ora anche noi arabi stiamo cercando di abbattere i nostri “Muri”...».
Cosa chiedete all’Europa?
«Di sostenere la protesta popolare. Di non avallare la repressione. All’Europa, all’Italia chiediamo di non dimenticare che la libertà di manifestare, il diritto di parola, sono principi universali e non esiste che quei principi non debbano valere in Egitto...».
Il Governo egiziano ha deciso di vietare le manifestazioni di piazza. Qual è la vostra risposta?
«Non ci fermeremo. Non ci arrenderemo. Non ci costringeranno al silenzio. La protesta crescerà come rivolta popolare non violenta, come lo è stata la prima Intifada palestinese. Il simbolo è quel ragazzo che ha fermato un carro armato in piazza Tahrin...Sappiamo che il regime sta già orchestrando delle provocazioni, cercherà di far degenerare la protesta. Faranno di tutto per restare al potere. Ciò che vi chiediamo è di aiutarci ad abbatere il Muro».

Repubblica 27.1.11
Grossman "Israele senz’alibi l’Anp vuole la pace"
Lo scrittore parla delle "carte segrete" "Ora Netanyahu faccia ripartire il negoziato"
"Quei documenti dimostrano che un’intesa è stata vicina. Ma Obama deve aiutarci"
"Abu Mazen è stato il leader palestinese più lucido a cui si è trovato di fronte lo Stato ebraico"
intervista di Fabio Scuto


«Il tentativo di danneggiare il presidente palestinese Abu Mazen con i "Palestinian Papers" non è una buona notizia per gli israeliani. I documenti che stanno uscendo fuori in questi giorni dimostrano che i leader di entrambe le parti in quel momento capirono che bisognava fare concessioni se si voleva raggiungere un risultato. C´era e c´è ancora un partner per fare la pace». C´è un filo di delusione nelle parole di David Grossman, lo scrittore israeliano punto di riferimento per una generazione che alla pace in Terrasanta non ha smesso mai di credere. Spesso bersaglio della destra nazionalista per le sue idee, e che ne teme la lucidità del pensiero per la sua capacità di incarnare un sentimento diffuso in tutto Israele.
I documenti segreti rivelati da "Al Jazeera" stanno travolgendo l´Anp.
«Sono documenti molto significativi, dimostrano che, contrariamente a quanto hanno sostenuto i capi del governo israeliano e che sostiene il premier Netanyahu oggi, abbiamo senz´altro un partner fra i palestinesi, che è possibile far partire il negoziato fra le parti e che anche se le rispettive posizioni non sono tanto vicine è possibile un accordo fra Israele e l´Autorità Nazionale Palestinese».
La mole di documenti è cospicua, che sensazione si ricava alla fine? Davvero si è andati vicini all´intesa?
«Sì! Sia da diverse cose che ho sentito nel corso degli anni da politici israeliani, sia dalla letture di questi documenti, di cui non metto in dubbio l´autenticità, risulta che in quegli anni la leadership israeliana e quella palestinese compresero che le due parti avrebbero dovuto fare concessioni penose. Non c´era ancora la disponibilità a percorrere tutta la strada necessaria, a questo non erano ancora maturi. E la prova di tutto ciò è data dal fatto che questi file vengono presentati come una resa o un tradimento da tutte e due le parti. Sia gli estremisti palestinesi, sia quelli israeliani gridano e si allarmano quando vedono ciò che i loro leader stavano facendo; ma è chiaro che questi leader, quando sono arrivati a quelle intese, rappresentavano la maggioranza equilibrata, lucida e pragmatica dei loro due popoli».
Ma adesso l´Anp è scossa e la credibilità di Abu Mazen è messa in pericolo.
«Il tentativo di danneggiare la credibilità di Abu Mazen non è certamente una buona cosa per Israele e non è nemmeno un bene per i palestinesi. Bisogna vedere esattamente chi, fra i palestinesi, è interessato a danneggiarne la credibilità e capire chi è interessato a mettere in pericolo il futuro di questa regione. Le intese che Abu Mazen è stato in grado di raggiungere e il coraggio che ha rivelato non è stato sufficiente per arrivare ad un accordo, ma sufficiente per mettere in moto un processo, e soprattutto i passi compiuti sul terreno anche dal suo premier Salam Fayyad nella costruzione delle infrastrutture, nella lotta al terrorismo, nella formazione di una sola forza di sicurezza al posto di tante milizie, o mafie armate che dir si voglia. Tutto ciò fa di Abu Mazen il leader palestinese più lucido davanti a cui si è trovato di fronte Israele negli ultimi 60 anni».
Queste rivelazioni di Al Jazeera hanno dato il colpo finale al processo di pace?
«In questo momento è pericoloso fare profezie – e non solo per ciò che sta accadendo ora fra i palestinesi, ma anche per ciò che succede in tutti Paesi arabi nella regione, da Beirut al Cairo, alla Tunisia e chi sa ancora dove – c´è una dinamica che potrebbe peggiorare così rapidamente, per cui i problemi fra Israele ed i palestinesi potrebbero non essere più un argomento così centrale».
Perché è stato scelto questo momento per cercare di screditare l´Anp?
«Sappiamo tutti che nella società araba vi sono forze molto potenti e molto estremiste, disposte a fare di tutto per far fallire la pace animate dall´odio per Israele, per tutto ciò che esso rappresenta. Non rivelo nulla di nuovo, basta aprire i giornali a Gaza, in Libano, in Egitto o in Siria. Qui hanno "annusato" la debolezza dell´attuale leadership palestinese, percependo che la maggioranza dei palestinesi ormai dispera della via intrapresa da Abu Mazen, che è una via di dialogo e di lotta non violenta, perché finora non ha portato alcuna ricompensa né speranza».
Se questa leadership palestinese si è dimostrata la più pragmatica perché Netanyahu non sfrutta questo momento?
«Perché nel profondo non crede che Abu Mazen sia in grado di fare le penose concessioni necessarie per arrivare ad una pace veritiera, che non possa rinunciare al diritto al ritorno dei profughi e teme che Hamas si impadronisca del potere. Farà di tutto per non arrivare ad un negoziato di questo genere. Per questo è necessario un "accompagnamento" esterno molto più attento da parte dell´Europa e degli Stati Uniti perché qui – sia chiaro per tutti sono in pericolo anche i loro interessi. Ho notato che nel suo ultimo discorso alla nazione, Obama ha dedicato solo pochi istanti al Medio Oriente. Penso al suo discorso al Cairo, durante il suo primo viaggio da presidente nella regione, allora parlò di interessi americani nella pace in Medio Oriente. Spero solo che ciò non significhi che anch´egli adesso dispera di noi».

l’Unità 27.1.11
L’economia nazista e la Shoah dei disabili
L’altro Olocausto Bambini «con occhi mongolici» uccisi a due anni, iniezioni letali, sterilizzazioni di massa, camere a gas: lo sterminio dei «minorati» nei manicomi tedeschi fu l’inizio dell’abisso dei Lager
di Massimiliano Boschi


Gusci vuoti», «zavorra umana», «vite non degne di essere vissute», sono quelle che il Terzo Reich decise di eliminare a partire dal 1933. Persone che non solo era lecito uccidere, ma addirittura utile. Perché erano un costo per le casse della Germania nazista e perché «inquinavano» la presunta razza ariana. Il retroterra alla giustificazione dell' eliminazione delle «vite indegne» fu garantito dalla macchina propagandistica del Terzo Reich. Vennero affissi migliaia di manifesti rappresentanti l'immagine di un «minorato» assistito da un infermiere. In alto campeggiava una cifra a caratteri cubitali: «60.000 marchi» di seguito la spiegazione: «Ecco cosa costa una persona che soffre di malattie ereditarie alla comunità tedesca».
Per spiegare meglio il concetto arrivarono i libri in cui si sottolineava come «il costo di cura per una persona geneticamente malata è otto volte superiore rispetto a quello di una persona normale. Un bambino “idiota” costa quanto quattro o cinque bambini sani. Il costo per otto anni di istruzione normale è di circa 1.000 marchi. L'istruzione di un bambino sordo costa circa 20.000 marchi. In tutto, il Reich tedesco spende circa 1.2 miliardi di marchi ogni anno per la cura ed il trattamento medico di cittadini con malattie genetiche». Ergo, meglio risolvere il problema alla radice.
Anche il cinema fece la sua parte: in Opfer der Vergangenheit (vittime del passato), vennero alternate le immagini dei sani e giovani «ariani» con i «degenerati» ospiti dei manicomi. Il film venne proiettato in 5.300 sale del Reich. Un altro film del 1941, Ich Klage an (Io accuso) si spinse più in là e provò a mettere in buona luce l'idea dell'eutanasia di Stato che stava dietro al progetto denominato «T4» che prevedeva la soppressione o la sterilizzazione di persone affette da malattie genetiche o da più o meno gravi malformazioni fisiche e mentali. Si calcola che a seguito del progetto T4 vennero uccisi circa 70.000 «malati di mente», migliaia i bambini, probabilmente più di cinquemila. Erwin Polz, Heinz Frank e Horst Schmidt furono solo tre di queste giovani vittime. Sono ricordati ancora oggi perché citati nel libro di Alice Ricciardi von Platen Il nazismo e l'eutanasia dei malati di mente. I primi due furono uccisi a seguito dell'insistenza dei loro genitori: i medici nazisti, infatti, avevano considerato le loro vite degne di essere vissute, almeno per un altro po' di tempo. Ma i loro genitori presentarono apposita istanza per chiedere che i loro figli venissero eliminati. Per il bene del Reich e della razza ariana. Furono accontentati.
Horst Schmidt, due anni , venne, invece, classificato come «soggetto idiota non recuperabile» dal direttore dell'ospedale psichiatrico di Eichberg che così si espresse rivolgendosi all'apposita commissione: «Il bambino ha occhi mongolici, plica mongolica, lingua tozza, orecchie mal modellate, naso schiacciato, zigomi sporgenti, eccessiva lassità delle articolazioni; è psichicamente ritardato, non è in grado di alimentarsi, né di stare seduto o in piedi. Tuttavia è affettuoso». La risposta del responsabile della Commissione non è che la raggelante comunicazione burocratica della condanna a morte di un bimbo di due anni: «Oggetto: trattamento dei bambini idioti. Con riguardo alla Sua comunicazione relativo al bambino Horst Schmidt, nato l'8.10.1942, Le comunico che non vi è più alcun ostacolo al trattamento del bambino in base alle circolari del Signor Ministro degli interni del Reich, relativamente del 18/8/1939 e del 1/7/1940. La prego di voler comunicare a suo tempo, l'esito del trattamento. Heil Hitler».
Solitamente, per procedere all’eliminazione delle giovani vite i medici scioglievano nel tè dei bambini un barbiturico, il luminal, in dosi via via crescenti, fino a che non sopraggiungeva il coma e quindi la morte. Per i soggetti più resistenti, come ha raccontato Robert Jay Lifton nel suo I medici nazisti, si passava alla morfina o alla scopolamina. Per gli adulti, invece, si pensò a qualcosa di più pratico: un'iniezione letale o la camera a gas. Allo scopo erano stati predisposti appositi centri di eliminazione dove un medico provvedeva all'iniezione o, successivamente, ad aprire il rubinetto del gas. Un modello che venne modificato ed esteso ai campi di concentramento, soprattutto nei territori occupati durante la guerra. Dall'eutanasia di Stato che colpiva i malati di mente, si passò al genocidio degli ebrei. I manicomi aprirono la strada ai campi di sterminio, la fine della guerra lasciò in piedi solo i primi.

l’Unità 27.1.11
E se la memoria si trasforma in industria?
di Tobia Zevi


Viviamo un’epoca strana, schizofrenica. Siamo immersi in un flusso costante di informazioni, e sempre meno capaci di formarci un’opinione consapevole. Il numero di libri pubblicati aumenta perennemente, ma la preparazione reale dei più giovani risulta dalle indagini scoraggiante. Questa situazione produce una divaricazione tra cultura «alta» e cultura «bassa», con reciproco scambio di accuse tra «élitisti» e «mediocri».
Cosa c’entra la memoria? A dieci anni dall’istituzione del 27 gennaio, molti risultati sono acquisiti. La sensibilità è maggiore, soprattutto grazie all’impegno straordinario di testimoni e insegnanti. Però. L’ignoranza rimane dilagante, il fenomeno carsico del negazionismo si perpetua (e una legge servirebbe a poco), molte iniziative sono discutibili. Mi chiamano spesso da varie parti d’Italia: «Mi manderesti un ragazzo a testimoniare? Anche un’oretta può andare...». Ma testimoniare cosa?
Al proliferare di manifestazioni di ogni genere si contrappone una ricerca storica sempre più raffinata – valga come esempio Uomini comuni di Cristopher Browning -, più incline a mostrare contraddizioni e specificità. Secondo lo storico David Bidussa il 27 gennaio non si inserisce in un «calendario civile», una serie di momenti cruciali e condivisi della nostra storia. Questa ricorrenza fa piuttosto parte di un «calendario vittimario» (Giovanni De Luna) per sua natura non collettivo.
Il medesimo iato c’è in letteratura. Se Aharon Appelfeld, decano della letteratura israeliana, riteneva impossibile raccontare il lager, Primo Levi fu capace di elevare il campo di sterminio alla forma di scrittura più alta. Una prosa che, confrontandosi con il male assoluto, doveva ricostruire una propria grammatica specifica, descritta magnificamente nei saggi di Pier Vincenzo Mengaldo.
La letteratura della Shoah nasce dunque consapevole della estrema difficoltà teorica e pratica, e il tema rimane attuale grazie a grandi autori come Daniel Mendelsohn. Nel frattempo, però, la Shoah è anche genere letterario. Non è colpa degli scrittori. Ogni autore ha diritto a essere giudicato per la qualità letteraria della sua opera. Ma il fenomeno resta. Ho letto recentemente Blocco 11 di Piero Degli Antoni (Newton Compton, pp. 248, euro 12,90), un thriller ambientato in un lager assai simile ad Auschwitz. Il volume, ben scritto e assai scorrevole, presenta una vicenda chiaramente fittizia: il comandante del campo rinchiude per una notte dieci prigionieri nella lavanderia, chiedendo loro di selezionare chi debba essere fucilato. Attraverso dialoghi serrati e trasformazioni dei personaggi il testo giunge a una conclusione inaspettata, confermandosi avvincente.
Ma perché ambientare questa storia ad Auschwitz, e non, per esempio, in una prigione del Cile di Pinochet? Perché la Shoah tira. E quando la Memoria si trasforma in industria risponde alla sua logica, non all’esigenza fondamentale di conoscere il proprio passato.
Se vogliamo che la Memoria sia un monito per i giovani, che i giovani sappiano pensarsi come potenziali carnefici oltre che come potenziali vittime, occorre tracciare un nuovo percorso di conoscenza. Doloroso. Un sentiero che unisca la raffinata disciplina scientifica della Shoah alla Memoria come genere di consumo culturale e politico. Per garantire il futuro della Memoria.

il Riformista
Shoah e Storia
Il passato che non deve passare
STERMINIO. Il problema di come “insegnare Auschwitz” non può evidentemente risolversi nel “vedere Auschwitz”. Lanzmann dice cAhe quel lager «non si visita, bisogna arrivarci carichi di sapere».
di Andrea Minuz

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Corriere della Sera 27.1.11
Cézanne, il pittore che temeva le donne
«Le grandi bagnanti» sono espressione di uno sforzo tecnico e interiore
di Rachele Ferrario


Paul Cézanne, l’artista intellettuale, l’inventore dell’arte moderna. Con lui la prospettiva rinascimentale, che per secoli ha rappresentato lo spazio come una «scatola» dove ordinare figure e oggetti, non esiste più: la superficie diventa fluida, ricca di energia, di luce, con molti punti di vista e le forme diventano solide, anticonvenzionali. Cézanne educa gli occhi a osservare, contempla il paesaggio con la mente oltre che con la vista per coglierne la natura oggettiva, per ridurre alberi, case, orizzonti a linee che anticipano Picasso e Mondrian. «Tutto in natura si modella secondo la sfera, il cono, il cilindro— scrive l’artista a Émile Bernard nel 1904 —. Bisogna imparare a dipingere sulla base di queste figure semplici, dopo si potrà fare tutto quello che si vorrà» . Quel che Cézanne vuole «l’unica cosa che conti» è esprimere «la propria sensazione» . Quando nel 1906 dipinge Le grandi bagnanti del Philadelphia Museum of Art è ormai nella fase matura, non deve più scontrarsi con i pregiudizi dei contemporanei. La tela, dipinta a olio, è imponente: due metri di altezza per due metri e mezzo di larghezza, è la terza variante del tema su cui Cézanne lavora dal 1895 (dopo quelle della Barnes Collection e della National Gallery di Londra). Insieme con la serie delle vedute della montagna Sainte-Victoire e ai Giocatori di carte, è uno dei capolavori di Cézanne. Il mercante Ambroise Vollard nella biografia sull’artista nel 1914 scrive: «Per le sue composizioni di nudi, Cézanne usava i disegni che aveva fatto agli esordi nell’Atelier Suisse e per il resto ricordava a memoria quanto aveva visto nei musei» . Di questi disegni, mai usati prima, pare che l’artista avesse i cassetti pieni e li usasse per i suoi studi. Ma alla fine della sua carriera il sogno è «avere modelle nude all’aria aperta» , desiderio irrealizzabile «per molte ragioni, tra cui la più importante è che le donne, anche quando sono vestite, lo spaventano» scrive Vollard. Ad eccezione di una domestica, una vecchia con il volto dai tratti irregolari, di cui Cézanne esclama ammirato: «Guarda, non è bella? Si potrebbe dire che è un uomo!» . Quando Vollard scopre che questa volta il pittore cerca una donna che posi nuda per lui resta sorpreso. Ma Cézanne lo rassicura: «Troverò una vecchia cornacchia (une très vieille carne)!» . Poi chiama una modella, ma dopo un solo studio dal vivo la fa rivestire e la dipinge con gli abiti. Come nelle migliori commedie di Balzac. L’aneddoto spiega il pudore dell’uomo e soprattutto svela la sua ossessione per le bagnanti. Il motivo è antico nella storia dell’arte, ma per Cézanne appartiene alla sua natura di artista e alla sua biografia, è il momento clou delle ricerche, ostinate e severe, sulla forma e sul colore. Le bagnanti sono anche il ricordo della gioventù, delle nuotate con Emile Zola e Baille nell’Arc e nella Torse, rievocate nelle lettere, prima delle sofferenze e della solitudine degli anni parigini. Nella capitale, tra il 1861 e il 1881, i suoi contemporanei non ne riconoscono la novità della pittura, che declina i paesaggi di Poussin in masse oblique e scorci prospettici, al limite della regolarità, che supera la lezione impressionista, cercando la struttura delle forme. Solo nel 1884, quando Cézanne torna in Provenza, all’Estaque, gli artisti più giovani notano le sue opere nella bottega di «père» Tanguy a Montmartre e Gauguin e Signac comprano i suoi quadri: quella generazione capisce subìto la novità della sua espressione e Cézanne resterà il punto di partenza per molti artisti delle avanguardie e del 900 europeo. Schizzi, piccole tele, miriadi di disegni, acquerelli, silenzio, dramma e purificazione: tanto c’è voluto prima di raggiungere questa versione, estrema e serena, de Le grandi bagnanti, con cui Cézanne apre la strada al cubismo, mentre Picasso sta pensando alle sue Demoiselles d’Avignon (1907). Gli alberi proseguono inclinati oltre la tela, come la volta di una cattedrale nel cielo inondato di luce brillante. Le quattordici figure sono eleganti e nobili, classiche e primitive, bilanciano il ritmo dell’intera composizione: sono note solitarie aggraziate e disposte armoniosamente l’una accanto all’altra. Una donna nuota e due stanno sull’altra riva del fiume: Cézanne ha voluto accorciare le distanze e mettere un contrappunto all’infinito, mentre per il nudo frontale, solido, appoggiato all’albero, s’è ispirato alla Venere di Milo, come dimostra un disegno preparatorio. Il gruppo centrale evoca un picnic — la pittura è scarna e come incompiuta— e alcune figure rimandano al dipinto di Domenichino alla Galleria Borghese, La caccia di Diana. «Leggere la natura è vederla attraverso il velo dell’interpretazione» con macchie di colore in armonia, «non esiste la linea, non esiste il modellato, esistono solo i contrasti» , in una parola la «sensazione cromatica» confida Cézanne all’amico Bernard. Così ne Le grandi bagnanti usa toni semplici e equilibrati: verdi, ocra, l’azzurro— che raccomanda di usare intorno ai bordi per dare più spessore atmosferico— acceso da piccoli tocchi di vermiglio. Tutto tende alla trasparenza e alla delicatezza dell’acquerello mentre la tela bianca, che l’artista lascia intravedere, accentua la freschezza della pittura: l’ultimo segreto con cui Cézanne si fa antesignano del moderno. «Ero il pittore della vostra generazione più che della mia» confida a due giovani artisti. Conscio d’essere un precursore.

il Riformista
Céline e la lingua bastarda di un antisemita da leggere
ORRORI. Ha attraversato quelli del Novecento e ne è rimasto invischiato. Ma davvero è stato un carnefice?
di Filippo La Porta

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il Fatto 27.1.11
Medici dell’anima?
Disavventure sul lettino dello strizza
Si discute se escludere il narcisismo dalle patologie psichiche (troppo diffuso per essere a-normale): ma il guaio è districarsi tra mille scuole analitiche
di Elisabetta Ambrosi


Il libro di Elisabetta Ambrosi sottotitolato “Malefatte degli psicoanalisti”. Un sincero appello ai dottori e ai pazienti della psicanalisi moderna. L’autrice ci introduce con pudore nella sua vita privata, a volte lasciando intuire, a volte raccontandosi senza riserve.

Il narcisismo non è più una malattia. La notizia arriva dagli Stati Uniti, dove gli esperti che stanno lavorando alla nuova edizione del Dsm, il manuale per diagnosticare i disturbi mentali ad uso degli psichiatri, stanno discutendo se declassarlo. Il motivo? Troppo diffuso per essere considerato patologico, “a-normale”, appunto. Più che un disturbo di personalità, è un disturbo della società, come aveva capito nel lontano 1979 il pessimista Christopher Lasch, nel suo La cultura del narcisismo.
 Tutti colpevoli, nessun colpevole. Può forse rallegrarsene il premier, i cui comportamenti, dopo il caso Ruby, sono stati descritti sotto il segno della psicopatologia. Un narcisista esibizionista o, meglio, un “narcinista”, narciso e cinico, come lo ha definito Massimo Recalcati sul «Fatto». Tanto che qualcuno ha fatto notare che, oltre al medico e al confessore, avrebbe urgente bisogno di uno psicoanalista. A stendersi sul lettino però non dovrebbe essere solo Berlusconi. Perché, a ben guardare, il premier incarna nevrosi molto moderne. La “sregolazione pulsionale”, l’incapacità di tenere insieme legge e desiderio, la sostituzione del desiderio con il godimento sono patologie di oggi, che affondano le loro radici nella rivoluzione del soggetto di matrice sessantottina. Magari mal interpretata. Ma che comunque ha condotto a una società di uomini e donne, dotati sì di fallo, ma “senza inconscio”, secondo la suggestiva immagine che ne ha dato Recalcati. Uomini che, nella loro adesione all’imperativo del godimento, sessuale o consumi-sta, finiscono dritti dritti nella braccia delle pulsioni di morte.
E DUNQUE , come ha ammesso perfino Giuseppe De Rita, direttore del Censis, le categorie della sociologia non bastano più per spiegare sia la società che la politica. Bisogna tornare a quelle della psicoanalisi. Già, ma di quale psicoanalisi? Perché se è legittimo l’allarme sui fragili elettori-consumatori, lo è pure quello sugli psicoanalisti. Quale terapia potrà davvero curare la perversione ipermoderna del godimento, l’unica vera odierna legge ad personam? E soprattutto: la psicoanalisi funziona ancora nell’epoca della morte del Padre, e della Legge? In Francia, il dibattito è acceso, come testimonia la mole di pubblicazioni – la più discussa quella di Michel Onfray contro Freud (Crépuscule d’une idole). Da noi invece, di psicoanalisi non si parla più. È come se gli specialisti si fossero ritirati sull’Aventino della psiche, lasciando la discussione su malattie e terapie al salotto televisivo dei vari Crepet.
Rispetto della privacy e divieto di fare diagnosi in pubblico, si difendono. Ma non sarà anche che i nostri strizzacervelli, di fronte alle nuove patologie striscianti, quelle sotto il segno dell’ambiguità, come le ha definite la psicoanalista Simona Argentieri, non sono stati capaci di aggiornarsi? D’altro canto, non solo l’efficacia delle teorie, ma anche le competenze dei singoli analisti sono sottoposte a ben pochi controlli. Una volta entrati sotto il cappello di una scuola accreditata del ministero, raramente devono preoccuparsi di qualcosa, perché quando l’analisi fallisce, ammesso che il paziente se ne accorga, il danno è indimostrabile e non risarcibile . Così, tornando all’ipotetico paziente narciso, è meglio avvisarlo del fatto che, qualora decidesse di entrare in analisi, rischierebbe di incappare in due analisti opposti. Se in cura da un freudiano doc, potrebbe trovarsi di fronte una terapia troppo simile al vecchio, e gratuito, catechismo. Un setting obbligatorio di molte sedute a settimana, in studi bui dove analiste severe (e un po’ frigide) invitano il paziente ad un duro lavoro in vista della guarigione morale. Nella quale il sesso ha perso il suo peso originario, sostituito com’è dall’analisi del transfert con l’analista-madre, che farà di tutto per renderlo dipendente da lei.
IL RISULTATO ? Una conversione poco autentica, che finita l’analisi mostrerà le corde. Oppure l’adozione di una doppia verità, ligio a Freud dentro, vanesio pansessualista fuori. Un esito peggiore, però, si avrebbe nel caso di un incontro tra un narciso e un lacaniano. Il linguaggio oscuro, esoterico, in cui si spiega che il desiderio è sempre “altro”, non “possesso”, ma “vuoto”, rischia di avere un effetto paradossale: convincere il fragile sé alla ricerca del godimento della giustezza del suo passare da un fiore all’altro, senza una definitiva scelta mortifera, proprio come insegnava il Maestro. Che malignamente Corinne Maier, nel pamphlet Buongiorno lettino, descrive come “un dandy collezionista, amante delle belle macchine e delle donne. Seduttore (nonostante le sue orecchie smisurate), incapace di rispettare l’autorità, intrattabile e arrogante; apolitico, ma con tendenze conservatrici”.
Due modelli, il disincarnato freudiano assertivo e regolatore, e il lacaniano dissipato, molto simili persino alla nostra politica. L’uno al centrosinistra che, come ha scritto Ida Dominijanni, “occupa il campo della Legge svuotandolo della sua forza simbolica”; l’altro al centrodestra, “che occupa il campo del desiderio svuotandolo della sua forza creati-va”.
Se esistono analisti capaci di curare il nostro nar-cinismo, allora, battano un colpo, intervengano nel dibattito. Raccontando cos’è la psicoanalisi e perché serve ancora, quali sono i suoi strumenti e le sue idee forti, in un’epoca di passioni deboli e organi sessuali troppo sviluppati. In questo caso siamo disposti a stenderci sul lettino, assieme al Caimano. Purché, per favore, ci aiutino a trovare il desiderio. Nel pubblico e nel privato.

Repubblica 27.1.11
Scoperta la proteina che incolla la memoria
Potrà essere usata anche per far svanire quelli sgraditi, bloccando i recettori di Igf-II subito dopo una scena traumatica
di Elena Dusi


Cristina Alberini, neurologa alla Mount Sinai School of Medicine di New York
È una sostanza naturale, se viene iniettata nel cervello è in grado di fissare ogni dettaglio dell´esperienza I ricercatori americani, guidati da una scienziata italiana, convinti che potrebbe essere impiegata sull´uomo

L´elisir della lunga memoria è una proteina che si trova nel cervello: si chiama Igf-II e funziona come chiodi e martello, che fissano nella testa un ricordo per non farlo staccare più. A provarlo per il momento sono stati alcuni ratti in laboratorio, che non hanno dimenticato neanche un dettaglio del percorso più adatto per evitare le piccole scosse elettriche piazzate come trabocchetto dai ricercatori.
Igf-II è la sigla di "fattore di crescita insulino-simile II". Si tratta di una proteina prodotta in molti tessuti del corpo che all´interno del cervello si concentra nell´area dell´ippocampo, non a caso considerato la "centrale di formazione e smistamento" dei ricordi. Non stupisce nemmeno che la produzione di Igf-II sia massima nei primi anni di vita per declinare gradualmente con l´età.
Se per i roditori dell´esperimento raccontato oggi su Nature si è scelto di iniettare Igf-II direttamente nell´ippocampo, somministrare la proteina agli uomini non sarebbe così complicato. Basterebbe infatti una normale iniezione o addirittura uno spray nasale. Il fattore di crescita è infatti una delle rare molecole capaci di oltrepassare la severissima barriera di protezione che avvolge il cervello e lo ripara dall´ingresso di sostanze pericolose. Fra gli scrupoli dei ricercatori c´è piuttosto quello di non intaccare un meccanismo estremamente raffinato come quello che regola la formazione o l´eliminazione dei ricordi: tasti profondi della nostra personalità.
Gli scienziati, guidati dall´italiana Cristina Alberini della Mount Sinai School of Medicine di New York, vogliono prima di tutto capire nei dettagli quella complicata fase dell´apprendimento che porta alla formazione dei ricordi indelebili. Si tratta di un processo che dura due o tre giorni dal momento in cui l´esperienza viene registrata, sia essa un evento che ci accade, la lettura di un libro, l´ascolto di una canzone o, come nel caso delle piccole cavie, il fastidio di una scossa elettrica.
Durante il processo di formazione dei ricordi, i neuroni formano fra loro nuove connessioni. In una seconda fase, varie sostanze chimiche rafforzano e consolidano questi legami. È qui che i ricercatori hanno individuato in Igf-II una delle "colle" più potenti. Il cervello la produce in maniera del tutto naturale soprattutto nell´intervallo tra le 20 e le 36 ore dopo l´esperienza da immagazzinare, a dimostrazione che il consolidamento dei ricordi è un fenomeno più lungo e complesso del previsto. Questo processo, fra l´altro, si ripete ogni volta che richiamiamo alla mente un ricordo: come se dopo aver ripescato una scatola dallo scaffale dovessimo sempre compiere un altro sforzo per rimetterlo al posto giusto.
«È la prima volta scrivono i ricercatori di Nature che riusciamo a potenziare in maniera così netta la memoria, usando una sostanza prodotta naturalmente dal nostro organismo, in grado di oltrepassare la barriera fra sangue e cervello e quindi utilizzabile nella pratica clinica». Nel mirino degli scienziati ci sono soprattutto malattia di Alzheimer e le varie demenze senili che rischiano di minare le facoltà mentali di un´umanità sempre più anziana.
Ma oltre a fissare i ricordi utili, la scoperta potrà essere usata anche per far svanire quelli sgraditi, bloccando i recettori di Igf-II subito dopo aver vissuto una scena traumatica. Fino a ieri gli studi di neurobiologia si erano concentrati su questo secondo obiettivo. Ma è evidente quale sarebbe l´appeal di mercato di una pillola capace di potenziare la memoria. Un´indagine condotta due anni fa da Nature tra i suoi lettori rivelò che una persona su cinque, sia pur perfettamente sana, aveva assunto uno dei farmaci usati per combattere i sintomi dell´Alzheimer come "benzina" per migliorare le proprie capacità cognitive.

Repubblica 27.1.11
"Utile per la cura dell´Alzheimer ma nei sani arma a doppio taglio"


Vent´anni a tu per tu con la memoria e lo studio dei suoi meccanismi cerebrali. Cristina Alberini, laureata a Pavia, lavora da un paio di decenni negli Stati Uniti e oggi dirige il laboratorio di Neurologia dell´apprendimento e della memoria alla Mount Sinai School of Medicine di New York.
Ricordare tutto sarebbe poi così vantaggioso?
«Prima di pensare a Igf-II come a un´arma per potenziare la memoria bisogna verificare che non ci siano effetti collaterali. E anche in quel caso, sarebbe uno strumento da usare con cautela. Ricordare troppo ha infatti i suoi svantaggi. Igf-II tra l´altro funziona solo in determinate finestre temporali: andrebbe somministrato immediatamente dopo l´apprendimento».
Come scegliere i ricordi? Non si rischia di memorizzare troppi particolari irrilevanti?
«Sì, e sovraccaricare il cervello di ricordi rallenta la formazione di nuove memorie. Mi piace pensare il nostro studio non tanto per potenziare le facoltà delle persone normali, ma per ottenere informazioni per curare i pazienti affetti dall´Alzheimer e da tutta quella galassia di malattie che compromettono la capacità di ricordare».
(e.d.)

mercoledì 26 gennaio 2011

l’Unità 26.1.11
Primo Levi «Dal fascismo ad Auschwitz c’è una linea diretta»
L’intervista ritrovata. Il grande scrittore in una conversazione inedita del 1973 con un giovane studente. «Oggi “Se questo è un uomo” lo riscriverei completamente, per mettere in luce le responsabilità italiane nella Shoah»
di Marco Pennacini


La politica:
«Il mio libro? Oggi verrebbe fuori una cosa completamente diversa: metterei in risalto il suo valore politico...»
Nel campo:
«Immagazzinavamo tutto voracemente, ci interrogavamo a vicenda per sapere ciascuno la storia degli altri»
Invenzioni tricolori:
«Lo sterminio industriale è tedesco. Ma la violenza a scopo politico in questo secolo è un’invenzione italiana»
I giovani:
«Queste cose vengono sentite come arcaiche, come i garibaldini, come la rivoluzione francese, qualcosa di molto lontano...»

Primo Levi, come mai ha voluto scrivere «Se questo è un uomo»? «Perché ero appena ritornato dalla prigionia, e avevo un tremendo bisogno di raccontare queste cose, un bisogno che diventava ossessione.(...) Nel lager cercavo di immagazzinare tutto, di mettere tutto in una specie di tasca».
Allora vedevi già con un occhio più distaccato quel che ti succedeva... «No, non era possibile. Nel lager c’era il problema di sopravvivere. Sì, avevo una vaga idea di sopravvivere per scrivere, questo sì, mi ricordo di averlo detto a qualcuno. Addirittura quando ero in laboratorio e avevo una matita e un quaderno ho scritto qualche pagina». Che poi hai perso...
«L’ho persa, l’ho scritta così, per l’urgenza di scrivere, sapendo benissimo che poi l’avrei persa». Certo.
«Ma era molto importante per me allora la possibilità di diventare un testimone, lo sentivo già allora. Non solo io, ma un po’ tutti, tutti quelli con cui si parlava dicevano: “È importante sopravvivere per poterlo raccontare perché il mondo le sappia queste cose”. Avevamo piena consapevolezza: però non è che questo ci permettesse di fare gli esploratori del lager. Non era possibile, c’erano questioni immediate, come quello di trovare un pezzo di pane, di proteggersi, di aver salva la vita. Quindi io e altri immagazzinavamo tutto voracemente, tutte le esperienze. Anzi, ci interrogavamo a vicenda per sapere ciascuno la storia degli altri. Ed effettivamente cadevano su un terreno buono, perché queste cose sono indimenticabili. Io ancora adesso mi ricordo le facce di gente vista trent’anni fa».
Le facce?
«Le facce. Tanto che quando mi è successo, come mi è successo, di ritrovarne qualcuno, l’ho subito riconosciuto, e lui me. Ho riconosciuto, ho ritrovato Pikolo, quello del canto di Ulisse... Jean...»
E questa discussione su Ulisse, si è svolta veramente?
«Non c’è niente di inventato nel libro. Non c’è nulla di inventato. non una parola.(...) L’unica autocritica che potrei fare è quella che non ho messo in luce abbastanza questa validità politica del libro».
Parli di “Se questo è un uomo”?
«Se non lo avessi scritto allora lo scriverei adesso». Ma lo scriveresti con le stesse intenzioni?
«No».
Come un documento?
«No: lo scriverei, in primo luogo, con lo stile di un uomo che ha trent’anni di più, e trent’anni di più vogliono dire molta esperienza in più e molta vitalità in meno. Quindi non so cosa verrebbe fuori: verrebbe fuori una cosa completamente diversa. Soprattutto però lo scriverei oggi con riferimento preciso al fascismo di oggi che nel libro non c’è. Quando ho scritto Se questo è un uomo il fascismo era finito, non c’era più, era chiaro come il sole che non c’era. Era finito di fatto, era stato sepolto, come partito politico non c’era né in Italia né in Germania. Ma se lo scrivessi oggi... userei il mio libro come uno strumento». Lo strumentalizzeresti, diciamo... «Sì, già lo userei come strumento. Lo faccio quando vengono i ragazzi a parlarmi. Tendo a mettere in chiaro che c’è una linea diretta che parte dalle stragi di Torino del ’22, Brandimarte (capo delle squadre d’azione fascista: è lui a guidare la strage che a Torino, il 18 dicembre del 1922, porta alla morte di 14 antifascisti e alla distruzione della Camera del Lavoro. Nel novembre del 1971, al funerale, un reparto di 27 bersaglieri del 22 ̊ reggimento fanteria della divisione Cremona, al comando di un ufficiale, rende gli onori militari alla sua salma, ndr), e finisce ad Auschwitz. C’è una continuità abbastanza evidente».
Sì, c’è una continuità, ma hai detto che lo sterminio riguardava i tedeschi, no? «Stiamo parlando di qualcosa che è stato inventato in Italia e perfezionata in Germania»
Ah! è stata inventata in Italia...
«Le prime stragi fasciste sono italiane... sono torinesi». Pensavo che... «Lo sterminio industriale è tedesco. Ma la violenza a scopo politico in questo secolo è un’invenzione italiana».
Ho capito.
«Il fascismo è un brevetto italiano, eh!» Purtroppo... «Torinese, voglio dire. Insomma la strage del ’22.... Era una caccia, una caccia per le strade. Non so se hai letto qualcosa in proposito...». Sì, qualcosa...
«Brandimarte (...), è morto nel suo letto (...). È stato assolto per insufficienza di prove». Sì, ma c’è tanta gente ancora che gira...
«Sì, veterani».
Sì,sì.
«Federali. Capi di gabinetto, capi giunta, Almirante: appunto, se scrivessi oggi, metterei più in chiaro questa cosa (...). Quando ho scritto Se questo è un uomo ero convinto che meritasse la pena di documentare certe cose perché erano finite. Adesso non sono più finite, bisogna parlarne di nuovo».
Allora diciamo che lo scriveresti sotto un profilo meno scientifico, più... «No, penso che non toglierei niente, però aggiungerei molto».
Ah! capisco, e perché non lo fai?
«Perché non si può scrivere due volte lo stesso libro. (...)Come ti dicevo prima, che c’è una linea diretta fra Brandimarte e Auschwitz. Questa linea non finisce ad Auschwitz, continua in Grecia, è continuata in Algeria con i francesi. È continuata in Unione Sovietica, puoi dire di no?» (...)
A proposito di “Se questo è un uomo” e di “La tregua”: credi che servano, diciamo, per educare ad una certa coscienza? «Dipende dall’insegnante. Il fatto stesso che venga scelto quel testo, testimonia che l’insegnante ha delle buone intenzioni, cosa poi ne nasca non so dirtelo. Ho l’impressione che in generale perché vengono molti ragazzi qui, o mi telefonano per avere delle informazioni che queste cose vengono sentite, appunto, come passato remoto, una cosa un capitolo arcaico, come i garibaldini insomma, come la rivoluzione francese, una cosa molto, molto lontana. Infatti è abbastanza lontana nel tempo, ma... solo nel tempo è lontana»... (...)
Con che spirito l’hai scritta “La tregua”? «Ho scritto La tregua nel ‘61-‘62 quando era appena crollato il mito della Russia monolitica, della Russia paese del socialismo, della Russia perfetta, paradiso secondo i comunisti e inferno secondo gli americani, o secondo i nostri democristiani. Erano due visioni talmente manichee, talmente assurde, sia l’una sia l’altra, che mi sembrava molto importante raccontarla così come io l’avevo vista».

l’Unità 26.1.11
Manifesti, firme e programma Il Pd si prepara alla battaglia finale
«Berlusconi dimettiti»: le firme presentate l’8 marzo. Bersani vuole un Pd «credibile e disciplinato» e a Napoli lancerà il programma. Ma Veltroni è «preoccupato» per quanto emerso sulle primarie nella città partenopea.
di Simone Collini
Una nuova campagna di affissione («Berlusconi dimettiti») e dieci milioni di firme da presentare l’8 marzo, rifiutare ogni trattativa privata con la Lega sul federalismo, rafforzare l’asse con Udc e Fli in Parlamento e presentare all’Assemblea nazionale di questo fine settimana un vero e proprio programma di governo da discutere poi con le altre forze di opposizione. Bersani ha riunito al quartier generale del Pd i membri della segreteria e i segretari regionali per spiegare come si muoverà il partito in questa delicata fase. «Dobbiamo avere tutti la consapevolezza che ci troviamo in un passaggio cruciale, perché siamo di fronte al discredito del paese ma anche alla paralisi del governo, all’abbandono dell’Italia, dei problemi e dei bisogni dei cittadini». L’obiettivo è «aprire una fase nuova», nel caso anche passando per nuove elezioni.
Per questo all’Assemblea nazionale di Napoli si discuterà sì come previsto da mesi di sicurezza, politiche sociali, sanità e Mezzogiorno, ma Bersani chiudendo la due giorni riprenderà anche le proposte programmatiche approvate alle assemblee di Roma e Varese e illustrerà quello che dovrà essere il programma di governo del Pd. E per questo nei prossimi giorni ci sarà un notevole sforzo organizzativo per raccogliere le firme contro un premier che «ha disonorato l’Italia, non ha più credibilità e ha smesso di governare», come si legge sui manifesti con cui il Pd tappezzerà i muri delle principali città italiane. Firme che potranno essere raccolte da ogni singolo cittadino (scaricando i moduli dal sito del Pd o ritirandoli ai Circoli, per poi rispedirli alle sedi locali o a quella nazionale) perché, secondo
quanto raccontato dai segretari regionali, la domanda sul territorio è molto alta. E con i leader locali Bersani ha ragionato anche sull’ipotesi di consegnare simbolicamente le firme il giorno della Festa della donna.
I vertici del Pd sanno che la battaglia non sarà breve e non si fanno molte illusioni sulla possibilità di dare oggi con la mozione di sfiducia a Bondi una spallata al governo: troppe le assenze nell’opposizione, anche perché diversi deputati del Terzo polo sono volati a Strasburgo per votare al Consiglio d’Europa una risoluzione contro le persecuzioni dei cristiani. Ma se il partito si muoverà come si deve, è stato il ragionamento di Bersani, Berlusconi sarà sempre più isolato e in difficoltà, e la Lega capirà che «il federalismo lo può fare solo con noi, ragionando sulle nostre proposte». Ma, appunto, c’è una precondizione da rispettare: «Il Pd deve emergere come una forza solida, credibile, responsabile, disciplinata. Questo è il ruolo che dobbiamo avere».
NUOVA FASE
Parole non casuali, anche alla luce della polemica sulle irregolarità alle primarie di Napoli: così, mentre si veniva a sapere di una certa «preoccupazione» di Veltroni per quanto emerso, Bersani ha affidato al responsabile Enti locali Zoggia e al segretario del Pd campano Amendola il compito di diffondere una nota per dire: «Fermiamo le polemiche e facciamo lavorare sui ricorsi gli organismi competenti». Così come non a caso, con i suoi, Bersani ha anche affrontato il tema della comunicazione sui media. Il segretario del Pd vorrebbe dare anche visivamente il senso di un partito credibile e che lavora al ricambio generazionale, ma si sta rendendo conto di quanto sia «complicato» far andare su giornali e tv le nuove leve. Più di un segretario regionale ha osservato che c’è un problema non di linea ma di rappresentazione della linea, che ai talk-show vengono invitati sempre gli stessi o, se vengono chiamati dei giovani dirigenti, lo si fa perché sono quelli che criticano il partito. Bersani ha assicurato che lavorerà perché la situazione cambi. E già scaldano i motori i giovani responsabili della Giustizia (Orlando), della Cultura (Orfini) e dell’Organizzazione (Stumpo).
BERSANIANI DOC
Così come si preparano a giocare un diverso ruolo all’interno del partito il centinaio di deputati, senatori e dirigenti che hanno deciso di dar vita a una sorta di corrente del segretario. «Quelli che hanno sostenuto Bersani al congresso sono gli unici che non si incontrano per discutere tra loro», dice uno dei promotori dell’iniziativa facendo riferimento ai Modem di Veltroni, all’associazione 360 di Letta, all’Area dem di Franceschini e via dicendo. Ne faranno parte il coordinatore della segreteria Migliavacca, il tesoriere Misiani, il presidente del forum Pubblica amministrazione Giovanelli e un centinaio di altri parlamentari. Oggi l’incontro per battezzare la nuova area organizzata. Il nome: «Per l’Italia».
 

La Stampa 26.1.11
Le armi a doppio taglio del Pd
di Luca Ricolfi


Da qualche giorno si torna a parlare di Walter Veltroni. C’è chi dice che la grande adunata di sabato scorso al Lingotto, con il tentativo di resuscitare lo spirito del «suo» Pd, sia il prologo di un’autocandidatura di Veltroni a guidare il centrosinistra, e forse un futuro governo in caso di vittoria elettorale. C’è chi dice che Veltroni stia per fare quello che Nenni fece nel 1976, allorché lanciò Craxi contro il segretario del Psi di allora, Francesco De Martino, spodestato nella «notte del Midas» (l’albergo nel quale i socialisti tenevano il loro Comitato centrale). Oggi la storia starebbe per ripetersi, con Veltroni che spodesta Bersani lanciando un giovane (Renzi, sindaco di Firenze) o un «non vecchio» (Zingaretti, presidente della Provincia di Roma).
C’ è chi pensa che Veltroni sia semplicemente tornato a fare politica, riproponendo le sue idee di tre anni fa: riformismo radicale e vocazione maggioritaria. E c’è, infine, chi pensa che Veltroni sia l’unico leader riformista capace di far sognare il popolo di sinistra, sottraendolo all’attrazione fatale dell’altro sognatore, l’amatissimo ma assai poco riformista Nichi Vendola.
Ho letto attentamente il lungo intervento di sabato al Lingotto e, confesso, mi sono ritrovato abbastanza nel commento di Pierluigi Bersani: «Nemmeno un Nobel riuscirebbe a trovare la differenza tra di noi». A dispetto di quanto affermano gli analisti più raffinati, che definiscono «introverso» il Pd di Bersani, e «estroverso» quello di Veltroni (così Roberto D’Alimonte sul «Sole 24 Ore»), a me i due Pd paiono molto simili. Il fatto stesso che, per cogliere le differenze, si debbano evocare categorie psicologiche, come l’estroversione e l’introversione, ma soprattutto il fatto che il destinatario della presunta critica (Bersani) si complimenti con chi la formula (Veltroni), ci rivela più di qualsiasi analisi politica: il Pd di Bersani e quello di Veltroni si somigliano come due gocce d’acqua, e si somigliano per la semplice ragione che sono entrambi vecchi. Due organismi vecchi e stanchi, appesantiti da un linguaggio che non se ne vuole andare, un linguaggio ormai logoro, fatto di formule generiche e messaggi in codice, così in codice che i due contendenti possono persino sembrare d’accordo su tutto. Lo sono davvero? In un certo senso sì. Perché già solo il fatto di non darsi battaglia in campo aperto, dicendo in modo chiaro su che cosa non sono d’accordo, non fa che rafforzare nell’opinione pubblica l’impressione che il Pd non abbia nulla di veramente nuovo da dire.
Ma c’è anche un altro elemento di somiglianza, e di vecchiaia: proprio gli argomenti di cui si discute con più passione, come le primarie o la moralità del premier, hanno un inconfondibile sapore di strumentalità e di muffa. Di primarie, nonostante le accuse ricorrenti di brogli e voti pilotati (come in questi giorni a Napoli), si parla essenzialmente per trovare il modo di bloccare Nichi Vendola, che rischia di vincerle sia contro Bersani sia contro Veltroni. Quanto alla moralità del premier, né Veltroni né Bersani si mostrano capaci di resistere alla madre di tutte le tentazioni per un uomo politico: usare i guai extra-politici dell’avversario per «infilzarlo» politicamente, come ha mestamente rilevato Pierluigi Battista sul «Corriere della Sera». Ancora una volta, l’elettorato progressista deve amaramente constatare che il maggior partito della sinistra non è in grado di battere politicamente Berlusconi, e perciò ci prova con le armi di sempre: magistratura e scandali. Senza avvedersi che, su questo, l’elettorato è molto più avanti, molto più laico e maturo, del ceto politico. Contrariamente a quanto pensano gli osservatori stranieri, l’elettorato italiano non è indifferente agli scandali, ma semplicemente evita di politicizzarli oltre un certo limite. L’ultimo sondaggio di Renato Mannheimer lo certifica nel modo più clamoroso: il prestigio del premier è in calo, il numero di elettori che vorrebbero Berlusconi sempre in sella è diminuito, ma il consenso al suo partito, il Pdl, è addirittura cresciuto. Mentre il consenso al Pd non solo non è aumentato, ma sembra in ulteriore flessione. Come se gli elettori, a differenza dei media, fossero molto restii a mescolare morale e politica.
Accecati dal disprezzo per Berlusconi, i dirigenti della sinistra non sembrano rendersi conto che la loro scelta di cavalcare gli scandali sessuali per disarcionare il capo del governo è un’arma a doppio taglio. Non solo perché indirettamente rivela che essi non hanno molti altri argomenti da spendere, ma perché proprio la politicizzazione delle vicende private del premier può portare voti al suo partito, come Bossi - con il suo innato fiuto politico - ebbe immediatamente ad avvertire. Capisco che chi non è abituato ad entrare nella testa degli altri stenti a farsene una ragione, ma bisognerà pur rendersi conto, prima o poi, che quando il dispiegamento di mezzi («l’ingente mole di strumenti di indagine», come l’ha definita il cardinal Bagnasco) supera una certa soglia, e l’uso politico della morale diventa troppo spregiudicato, nel pubblico scattano reazioni diverse da quelle ordinarie. Se la magistratura avesse operato con mezzi più sobri, e i suoi avversari non avessero preteso di incassare subito il dividendo politico dello scandalo, lasciando che il Cavaliere consumasse da sé la propria parabola, oggi probabilmente l’opposizione sarebbe più forte. Avendo invece deciso di cavalcare un’azione giudiziaria già di per sé fuori misura, l’opposizione ha scatenato anche la reazione opposta: quella di chi vede Berlusconi come vittima, o semplicemente pensa che i giudici abbiano esagerato, e che quel che è toccato a Berlusconi potrebbe capitare a chiunque. Un’osservazione che Gianni Agnelli ebbe occasione di fare ai tempi dello scandalo Lewinsky, quando così ebbe ad esprimersi sul malcapitato Bill Clinton: «Un Presidente venuto dal nulla, che si è fatto da solo e che finisce maciullato nei verbali. Come capiterebbe a chiunque, intendiamoci, se le sue cose intime finissero squadernate, sezionate e amplificate da inquisitori, giornali, televisioni e Internet».
E un segnale che qualcosa del genere stia succedendo nel pubblico, lo rivelano - di nuovo - proprio i dati dell’ultimo sondaggio di Mannheimer. Da cui risulta che, contrariamente a quanto si poteva supporre, l’elettorato di centrodestra non si sta rifugiando nei partiti alleati, esenti dagli scandali (Lega Nord e Futuro e libertà), ma semmai sta rientrando nel Pdl, quasi a serrare le file. Un altro capolavoro degli strateghi del Pd.

l’Unità 26.1.11
Il papa, Bagnasco e i temi bioetici
Ma l’obiettivo della Chiesa non è Berlusconi
di Maurizio Mori


In pieno Rubigate, Benedetto XVI è andato alla questura di Roma (20 gennaio), una visita programmata da tempo e ha parlato sulla moralità come fondamento del diritto. Molta stampa italiana vi ha letto un’esplicita condanna della condotta di Berlusconi. Repubblica: «Ruby: la condanna del Vaticano»; Corriere: «Il Vaticano chiede più moralità». Analoga sorte per la consueta prolusione del cardinal Bagnasco alla Cei del 24 gennaio.
Non basta un cenno a più moralità per schierare la chiesa contro Berlusconi. Nel discorso di Benedetto XVI il richiamo a maggiore moralità non riguarda Berlusconi, ma la lotta al relativismo che pretende di confinare la religione e la morale nell’ambito privato emarginandola dalla vita pubblica. Andrebbe invece riconosciuto che la persona è stata da Dio “progettata” per cui dall’analisi della sua interiorità scaturiscono i valori non-negoziabili che vanno recuperati. Prima del Concilio il diritto naturale veniva tratto dall’ordine cosmico, ora dall’interiorità personale.
Anche per Bagnasco l’obiettivo è il «falso concetto di autonomia» e la richiesta di «ormeggi oggettivi» senza i quali si cade nella situazione attuale «di reciproca delegittimazione» e di calo della «sobrietà». Va invece ascoltato il paese sui temi «dell’etica della vita, della famiglia» e del lavoro, ed evitato il “moralismo” di comodo di chi oggi grida allo scandalo per certe condotte private dopo aver inneggiato per anni al libertinismo (aborto, Dico, ecc.).
Con questa equidistanza la chiesa (ufficiale) riconferma il sostegno politico dato a Berlusconi in cambio di leggi ispirate ai valori non-negoziabili. La condotta privata del premier (se confermata: cosa non facile) è deprecabile ma frutto del relativismo che il governo dice di voler combattere. In assenza di alternative migliori, con realismo macchiavellico, la chiesa (ufficiale) si astiene dal giudizio: altro che condanna o di spallata!
È vero che per chiudere l’era Berlusconi ci vuole l’apporto di tutti, senza troppe sottigliezze. Ma arruolare la chiesa (ufficiale) non solo comporta una forzatura interpretativa dei testi, ma è un errore culturale perché così facendo si continua ad attribuirle una “autorevolezza morale” che da tempo è svanita. Bisogna riconoscere che la pretesa della chiesa (ufficiale) di imporre per legge i valori non-negoziabili si coniuga con un macchiavellismo astuto generando una miscela fonte della tragedia italiana e che spiana la via all’ormai quasi-ventennio berlusconiano. La ricostruzione morale e materiale che ci aspetta (speriamo presto!) deve guardare all’etica laica, non continuare ad invocare illusori valori non negoziabili validi solo a parole.

il Fatto 26.1.11
L’Egitto contro la sfinge Mubarak e il regime ha paura della fine
Migliaia in piazza: guerriglia e morti. Proteste anche in Libano
di Roberta Zunini


Il giorno della collera” egiziano si è chiuso con un agente morto calpestato dalla folla, due manifestanti uccisi a Suez e seicento arrestati. Ma la rabbia degli egiziani contro la trentennale dittatura di Hosni Mubarak, non potrà venire bloccata dalle manette. Perché si tratta di una rabbia antica, compressa, che ha trovato un modo nuovo di montare: il tam tam su internet e twitter. Sistemi tanto efficaci per contattarsi quanto sfuggenti per chi voglia sorvegliare il dissenso. Attraverso le pagine di facebook, gli indirizzi web che rimpiazzano quelli chiusi dalla polizia postale e i messaggi twitter, i giovani oppositori si scambiano informazioni sul quando, come e dove si terranno le manifestazioni. 
TEMPI E LUOGHI che possono cambiare d’improvviso, grazie alla velocità con cui vengono trasmesse le indicazioni. Una rabbia vecchia, raccontata in un modo nuovo, in grado di portare tanta gente in piazza. Questo è ciò che conta: la folla che manifesta   per le vie delle città principali, come si è visto in Tunisia e ieri, in Egitto. L'intellettuale egiziano Al Aswani, all'indomani della rivolta tunisina aveva detto al Fatto che anche l'Egitto stava per esplodere. A due settimane da quelle parole, ecco le prove tecniche di ribellione alla satrapia Mubarak. Quella di ieri, al Cairo e nelle maggiori città egiziane, è stata la prima manifestazione collettiva, unitaria di tutti gli egiziani contro l'ex dittatore. Non è però tutto qui. Gli egiziani ieri hanno dato vita alla prima manifestazione preventiva della storia contemporanea mediorientale: gli slogan   più rabbiosi sono stati contro Gamal, il figlio di Mubarak, designato dal padre a succedergli il prossimo anno.
CON LA SUA FAMIGLIA,
Gamal intanto sarebbe fuggito a Londra. I giovani non sopportano la sua vita dorata e corrotta . Mentre loro sono costretti ad affrontare qualsiasi sopruso per sopravvivere. Il tasso di disoccupazione è molto alto, per giunta su una popolazione di 84 milioni di persone, la metà costituita da giovani con meno di 30 anni. Mubarak e il figlio sono stati avvisati. E non solo dai 200mila manifestanti   che hanno resistito ai lacrimo-geni, agli idranti e alle manganellate furiose della polizia, lanciando pietre e moniti contro la nomenclatura. Dietro la folla ci sono anche i militari egiziani che non vedono di buon occhio la candidatura di Gamal alla successione. Se vogliamo trovare una falla alla liberazione attraverso internet, alle chiamate “alle armi” attraverso i social network, questa è la strumentalizzazione fatta da poteri forti, quanto pericolosi, che compaiono sotto mentite spoglie. Come tuttavia è stato dimostrato in Tunisia, dove ieri due persone si sono date fuoco, la folla   non è più così ingenua. Se non ottiene ciò per cui è scesa nelle strade e per cui è disposta a morire, non si ritira.
A TUNISI CI SONO STATI altri scontri. Questa volta tra l'ala dura dei manifestanti e chi invece accetta il nuovo governo. Il rischio di guerra civile è sempre presente in queste fasi di transizione. Lo racconta anche l'attuale crisi libanese. Con la caduta del governo di Saad Hariri dovuta al ritiro dei ministri di Hezbollah e la nomina di un premier sciita, il clima a Beirut si è fatto incandescente.


La Stampa 26.1.11
Le crepe di un fragile equilibrio
di Lucia Annunziata


Il primo febbraio del 1979 l’ayatollah Khomeini ritornava in Iran, il 26 marzo dello stesso anno il presidente egiziano Anwar al Sadat firmava a Washington gli accordi di pace con Israele.
Il mondo occidentale risolveva un problema e ne acquistava un altro; trovava un nemico e guadagnava un amico. Per capire l’importanza dell’Egitto occorre tenere in mente quella data che segna anche il delinearsi del nuovo turbolento Medio Oriente in cui ancora viviamo. Da allora il mondo - e il nostro in particolare- si regge su questo precario bilanciamento fra un mondo musulmano con governi a ispirazione religiosa e governi moderati.
L’Egitto è da allora il perno di un incerto equilibrio fra queste due realtà; un Paese sostenuto e strapagato, per questo suo ruolo, da tutte le democrazie occidentali, in primis gli Stati Uniti che al Cairo dedicano il loro secondo contributo in aiuti internazionali (dopo quello a Israele) anche per il ruolo che il Paese gioca nella lotta al terrorismo musulmano. L’Egitto stesso vive immobilizzato da questo precario equilibrio fra stato di polizia e patria del radicalismo dei Fratelli Musulmani. Immobile al punto che il presidente Hosni Mubarak è ormai chiamato il Faraone. Immobile, fino a ieri.
Ieri infatti è successo qualcosa che gli egiziani e il resto del mondo non vedevano da tempo: grandi manifestazioni che hanno riempito le strade del Cairo, di Alessandria di tante altre città del Delta. In nome della Tunisia, rendendo visibile e fattibile l’ipotesi di un contagio della rivolta democratica a tutti i Paesi del Nord Africa. Con la differenza che si diceva: se l’Egitto esce dal suo immobilismo la crisi che si apre ha esiti imprevedibili, e soprattutto incalcolabili nel loro impatto.
Quello che si capisce dalle mobilitazioni di ieri ci parla innanzitutto di veri nuovi segnali che arrivano dalla società cairota. Intanto, si segnala la dimensione delle manifestazioni. Bisogna riandare indietro alle proteste contro la guerra con l’Iraq, e, prima ancora, ai moti per il pane degli Anni 70, per trovare qualcosa di simile. A differenza con il passato, però, quella di ieri è una ribellione non nata e nemmeno approvata (almeno ufficialmente) dal movimento dei Fratelli Musulmani. Al contrario, i vari appuntamenti sono nati dalla parte più moderna dell’inquietudine che attraversa l’Egitto, i giovani del gruppo del 6 Aprile, i giovani che hanno lavorato in questi anni coordinandosi tra le mille repressioni della polizia, su Internet. Le stesse parole d’ordine gridate ieri invocavano infatti democrazia senza riferimenti a nessuna piattaforma religiosa. La durata e la diffusione delle manifestazioni è il segno migliore di quanto sentita sia questa richiesta.
Ma segnali diversi sono arrivati, rispetto al passato, anche dal governo. Significativo è che nelle piazze contro i manifestanti non sia stato inviato l’esercito, ma la polizia; e che, nonostante la risposta dello Stato, tutto sommato la repressione sia stata di mano leggera - al punto che molti osservatori pensano che il governo abbia in fondo lasciato la protesta esprimersi.
Non sono segnali da poco. L’esercito in Egitto, come in quasi tutti i Paesi arabi «moderati» ha in mano la vera sorte dei governi. Di certo in Egitto è la forza decisiva in questo lungo autunno del Faraone Mubarak.
Ugualmente attendista è apparso ieri l’altro grande protagonista della vita sociale egiziana, che, come si diceva, non si sta schierando per ora con la protesta, ma neanche contro: nelle file dei manifestanti non c’erano così ieri le bandiere dei Fratelli Musulmani, ma molti dei suoi militanti hanno partecipato.
Tutto dunque fa pensare che si sia aperta una nuova pagina per l’Egitto. Una svolta negli eventi che forse nessuno prevedeva e che di sicuro nessuno sa che cosa inneschi.

Corriere della Sera 26.1.11
Febbre difficile da abbassare, regione a rischio
di Antonio Ferrari


E'una febbre contagiosa, assai difficile da contenere e abbassare, e che colpisce gran parte della sponda sud del Mediterraneo. Tutto è cominciato all'inizio dell'anno in Egitto, e tutto sta tornando al punto d'origine, dopo aver coinvolto Algeria, Tunisia, Albania e Libano. Sicuramente è stata la rivolta tunisina ad aver convinto anche i meno impegnati ad osare, visto che laggiù la reazione del popolo ha provocato la caduta del governo e la fuga del presidente-imperatore Ben Ali. Ma tutto, come s'è detto, era cominciato ad Alessandria d'Egitto, e attorno alle Piramidi si è tornati. Ora assistiamo a qualcosa che pareva inimmaginabile soltanto pochi mesi fa. Decine di migliaia di persone che scendono in piazza senza paura per urlare la loro rabbia nei confronti di un regime che sembra privo del paracadute necessario per proteggersi da un'onda che potrebbe rivelarsi pericolosa. Alcuni già la ritengono fatale, ma forse è eccessivo spingersi verso previsioni avventate. Certo quel che accade in Egitto non è lontanamente paragonabile a quanto è accaduto in Tunisia. Nel piccolo paese che fu di Ben Ali la rivolta (che non si è ancora conclusa) avrà conseguenze importanti ma limitate. Se dovesse sfaldarsi il potere egiziano (c'è davvero da augurarsi che non accada) sarebbe una vera catastrofe sia per il paese, che è il più importante del mondo arabo, sia per l'intera regione. Che si allarga a tutto il Medio oriente. La folla di oltre trentamila persone che ha lanciato la sua sfida nella grande piazza del Museo è un brusco segnale per la stabilità del regime. Mai i contestatori avevano osato tanto. In generale le proteste si accendevano e si spegnevano in zone limitate. Adesso la rabbia colpisce il cuore del potere. «Gamal, di’ a tuo padre che ti odiamo» , è lo slogan-rasoiata della gente che il regime teme di più. Perché Gamal è il figlio del presidente Hosni Mubarak ed è il candidato più accreditato a succedergli nelle elezioni presidenziali di quest'anno. Le voci che si rincorrono non escludono che il delfino in questo momento si trovi lontano dal Cairo, ma si tratta di voci appunto ed è bene evitare speculazioni perché Gamal è spesso all'estero, magari a un vertice internazionale. Non è escluso che vada a Davos. Ma ci sono altri due problemi a rendere ancor più amaro questo inizio d'anno per il presidente Mubarak, che è al timone dell'Egitto da 30 anni: uno riguarda l'uomo che ha incoraggiato la gente a scendere in piazza, Mohammed El Baradei, che ben oltre il ruolo avuto all'agenzia nucleare è riuscito a conquistare grandissima popolarità nel paese. Il secondo problema arriva da Alessandria, la storica città infinitamente più piccola del Cairo dove tutto è cominciato con la strage dei cristiani-copti, la notte di Capodanno, all'uscita dalla chiesa dei due Santi. La strage, sicuramente pianificata da estremisti sunniti legati ad Al Qaeda, aveva un obiettivo: quello di creare un conflitto tra musulmani e copti. Ma il piano non è riuscito, anche se ieri le manifestazioni più dure contro il regime di Mubarak si sono svolte proprio ad Alessandria. Il paradosso è questo. Mentre i fratelli musulmani, al Cairo, parevano defilati, ad Alessandria erano in prima fila. Il perché? Presto detto. Alle precedenti elezioni gli eletti indipendenti legati ai «fratelli» erano ottantotto, alle ultime elezioni zero. Certo, l'instabilità dell'Egitto fa tremare i palestinesi, colpiti dalle rivelazioni sull'Anp, che sperano sempre nell'intervento di Mubarak. E fa tremare il Libano, dove il rischio di guerra civile è altissimo dopo la nomina del neopremier Najib Mikati, sostenuto da Hezbollah. Il leader druso Walid Jumblatt sembra l'immagine della fragilità libanese: dei suoi 11 deputati, 6 hanno votato per Mikati, 5 per lo sconfitto Hariri.
 
l’Unità 26.1.11
La campana della Tunisia suona per tutti. Anche per noi
Un giovane disoccupato di Milano e un giovane tunisino hanno molti punti in comune. Entrambi conoscono le cause del loro malessere. E sanno che il futuro dipende dalla qualità dei loro governi
di Pino Arlacchi


Non sono pochi gli inganni messi a nudo dalla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia. I giovani dimostranti non hanno solo rovesciato una delle tante autocrazie corrotte del mondo arabo. Hanno anche finito di distruggere il mantra neocon sulla necessitàdi esportare la democrazia fuori dall’Occidente.
Non c’è alcun bisogno di esportarla, la democrazia. L’Occidente non ne ha il monopolio. La democrazia è un bene universale, di cui possono farsi carico tutte le società civili del pianeta, se messe in condizione di esprimersi. Sono solo l’ignoranza e il pregiudizio di molti commentatori che li portano a sorprendersi oggi di fronte alla sollevazione filodemocratica di masse arabe, africane e islamiche ritenute finora poco sensibili ai valori dell’autogoverno. Non c’è molto di cui sorprendersi, in verità. La globalizzazione ha scavato sotto la superficie, livellando il terreno di gioco, diffondendo aspirazioni, sentimenti e malesseri dello stesso tenore in ogni angolo del pianeta. Al di sopra e al di là delle differenze di nazione, etnia e religione.
Un’altra mistificazione svelata dalla rivolta dei giovani nordafricani è quella che esista una alterità irriducibile tra le diverse sponde del Mediterraneo. Alterità che impone all’Europa di attuare politiche di vicinato completamente divergenti. Da venti e più anni l’Unione europea pratica una strategia schizofrenica, che consiste nel sostenere ad Est di se stessa le forze che si battono per la democratizzazione, e nella sua sponda Sud le autocrazie. Un po’ per il solito accodamento agli americani, un po’ per opportunismo petrolifero, un po’ per contrastare il fondamentalismo religioso, dopo la caduta del comunismo ci si è adagiati su una politica di buoni rapporti con qualunque tirannia nordafricana o araba, purché laica e attiva contro il cosiddetto terrorismo.
Quelle tirannie adesso tremano di fronte all’immenso malcontento che si è accumulato sotto i loro talloni. Malcontento generato non dalla propaganda di Al Qaeda ma dal loro malgoverno e dalla loro corruzione, cui si è aggiunta di recente la tempesta delle crisi finanziarie globali. I vari Mubarak, Ben Ali e soci non sanno come fronteggiare le conseguenze di tutto ciò. La recessione ha abbassato il tenore di vita dei più poveri e dei più giovani. Categorie spesso coincidenti, e che in vari paesi rappresentano oltre metà della popolazione. Quanto accade nel Sud è solo una variante
“hard” di ciò che succede qui da noi. La matrice è la medesima. Basta volerla riconoscere e non farsi distrarre dai conflitti di religione più o meno inventati, e dall ́isteria antiterroristica e antislamica fomentata dai venditori di paura e di armi. La globalizzazione economica e il fanatismo neo-liberale hanno partorito crisi finanziarie che hanno gettato nella povertà milioni di persone. Nello stesso tempo, la globalizzazione dell’informazione e della cultura ha messo nelle mani di queste stesse persone nuovi e potenti strumenti di emancipazione.
Un giovane disoccupato e incazzato di Milano ha più punti in comune di quanto si pensi con un giovane di Tunisi. Quest’ultimo è certamente più povero e talvolta anche affamato. Ma non c’è più tra i due quell’abisso di istruzione e di accesso all’informazione che esisteva fino a qualche decennio fa. Può anche essere che sulle cose serie il tunisino sia addirittura più informato del suo coetaneo italiano, perché ha a disposizione Al Jazeera, che è meglio della Rai e della tv commerciale italiana.
È per queste ragioni che i due giovani hanno idee simili su chi e cosa ritenere responsabili del disastro in cui si sono venuti a trovare. Il tunisino protesta contro una cricca di governo che ha distrutto il suo futuro, e che di fronte alla stretta prodotta dall’ultima crisi ha pensato a se stessa fregandosene del suo Paese e imboscando il proprio bottino all’estero. L’italiano ha le idee un po’ meno chiare, perché è cresciuto nel vuoto berlusconiano dell’etica pubblica, e non deve fronteggiare la polizia violenta e la galera di un regime dispotico. Ma capisce che ad essere in pericolo sono i suoi diritti fondamentali, e che il governo delle Mare, Maristelle, Ruby e canotte padane non gli porterà nulla di buono.
Entrambi i giovani sanno che le cause del peggioramento delle loro vite sono dovute a forze molto grandi, che non possono essere contrastate dai miserabili personaggi che incarnano le loro massime autorità. E altri giovani, in molte altre parti del mondo, sentono lo stesso. Sono convinti che il loro futuro dipende dalla qualità dei loro governi. La democrazia è solo il primo passo. Ci vuole anche la capacità di essere all’altezza di quanto succede. La campana non sta suonando solo per Tunisi, ma per tutti noi.

Corriere della Sera 26.1.11
Legge Bossi-Fini Milano ricorre alla Corte europea
di Luigi Ferrarella


MILANO— Il tribunale di Milano manda la legge Bossi-Fini alla Corte di giustizia dell’Unione europea: gli articoli che puniscono con pene da 1 a 5 anni lo straniero irregolare che resti in Italia nonostante un provvedimento di espulsione e un ordine di allontanamento del questore, per la prima sezione penale del tribunale svuotano la direttiva europea 2008/115/CE perché aggirano «le condizioni tassative in presenza delle quali gli Stati possono lecitamente privare della propria libertà personale lo straniero sotto rimpatrio» , e che «lo Stato è libero di derogare solo in senso più favorevole allo straniero, e mai più sfavorevole» . Con la legge Bossi-Fini, invece, lo straniero può essere arrestato e condannato al carcere «in conseguenza della pura e semplice inosservanza, da parte dello straniero, dell'ordine di allontanamento emanato da un'autorità amministrativa nella procedura di rimpatrio» . Ma così finisce «per eludere completamente le garanzie imposte dalla direttiva europea, consentendo in pratica che lo straniero possa essere privato della propria libertà personale in forza di un titolo formalmente distinto dal "trattenimento", per periodi in ipotesi più lunghi di quelli massimi consentiti dalla direttiva (18 mesi), e a condizioni diverse da quelle tassativamente prescritte» . Giudici di Torino e pm di Firenze nei giorni scorsi avevano direttamente disapplicato la legge italiana per contrasto con la direttiva europea. Ma questa strada pare piuttosto ardita al tribunale milanese, «dal momento che tale valutazione di incompatibilità non discende tout court dal dato letterale della direttiva, bensì da un'argomentazione che fa leva sul principio dell'effetto utile (tutela della libertà personale dello straniero) perseguito dalla direttiva» . Perciò il tribunale preferisce sospendere il processo a un senegalese e spedire gli atti alla Corte di giustizia dell’Unione europea, affinché chiarisca se sia corretta questa interpretazione della direttiva.

il Fatto 26.1.11
No al reato di negazionismo
di Massimo Fini


Si è svolto ieri a Roma un importante Convegno dal titolo “La Shoah e la sua negazione. Il futuro della memoria in Italia” cui hanno partecipato, oltre ai più importanti esponenti della comunità ebraica italiana, il ministro Angelino Alfano, Pier Ferdinando Casini, Benedetto Della Vedova e altri politici.
DURANTE il Convegno è rispuntata fuori una ricorrente proposta del presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici: rendere il negazionismo un reato. Cioè chi, a parole o negli scritti, nega o ridimensiona l'Olocausto va in galera. Argomenta Pacifici: “Distinguiamo fra diritto di opinione e negazionismo.   Affermare in una casa privata che l'Olocausto non sia mai avvenuto può essere un gesto stupido, immensamente riprovevole e simile a chi sostiene che la Terra è piatta. Ma credo non si possa più concedere il diritto di alzarsi in piedi in un'aula parlamentare, in un'università, in un luogo pubblico in cui si formano le coscienze e dire che la Shoah è stata un'invenzione. La legge riguarderebbe questo ambito”.
Ringraziamo Pacifici perché ci concede almeno di dire in casa nostra quel che pensiamo. Ancora un passo e si arriverebbe al reato di "puro pensiero" ipotizzato da Orwell nel suo 1984: certe cose non solo non si possono dire, ma nemmeno pensare   .
Non capisco come Pacifici e coloro che seguono la sua linea non si rendano conto che la legge che propongono è una norma liberticida, totalitaria, in tutto e per tutto degna proprio di quello Stato fascista che emanò le   ripugnanti leggi razziali. In una democrazia, se vuole esser tale, tutte le opinioni, anche quelle che paiono più aberranti al senso comune, devono avere diritto di cittadinanza. È il prezzo che la democrazia paga a se stessa. Ciò che la distingue da uno Stato totalitario o quantomeno autoritario.
Intaccare, anche con le migliori intenzioni, un principio come quello della libertà di espressione oltre che ingiusto è estremamente pericoloso   . Perché si sa da dove si inizia, ma non si sa mai dove si può andare a finire. Si comincia con cose apparentemente indiscutibili, perché condivise ampiamente dalla communis opinio, e si finisce col mandare gli ebrei nelle camere a gas. Inoltre – ma questo è solo un argomento a latere – una legge come quella proposta da Riccardo Pacifici sarebbe controproducente, perché finirebbe per fare dei "negazionisti" dei martiri e dare loro una rilevanza e un'importanza che attualmente non hanno. 
DI QUESTI pericoli sembra rendersi conto Tobia Zevi, il nipote di Tullia, che propone una soluzione diversa. “Forse sarebbe più utile immaginare sanzioni amministrative che vietino di assumere posizioni negazioniste nell'esercizio dell'insegnamento nelle scuole o nelle università”. Insomma agli storici che hanno idee negazioniste   dovrebbe essere impedito di insegnare e quelli che già lo fanno, come il professor Claudio Moffa dell'Università di Teramo, dovrebbero essere esulati come lo furono i tredici docenti che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Al giovane Tobia Zevi sfugge, credo in totale buona fede, che i "provvedimenti amministrativi" da lui proposti ledono un altro diritto fondamentale: quello alla ricerca. Premesso che, per   quel che mi riguarda, non ha nessuna importanza se gli ebrei sterminati furono quattro milioni invece che sei, uno studioso ha diritto di fare anche, e forse soprattutto, ricerche che vadano contro la communis opinio per gli stessi motivi per cui ogni cittadino ha diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero come recita la Costituzione all'articolo 21.
PACIFICI quando dice che le posizioni negazioniste sono simili a quelle di “chi sostiene che la Terra è piatta”, non si rende conto che Galileo, ai tempi suoi, era un "negazionista", perché negava ciò in cui allora tutti, o quasi, credevano: che la Terra fosse piatta e che fosse il sole a girarle attorno. Non voglio, con ciò, paragonare un genio come Galileo ai cialtroni negazionisti. Ma il principio è lo stesso. E la memoria dovrebbe servire non   solo a ricordare lo sterminio degli ebrei, ma a evitare di ripetere, in un contesto diverso e mutato, oltre agli orrori, anche gli stessi errori del passato.

Corriere della Sera 26.1.11
Le scuse per la Shoah fanno insospettire il cacciatore di nazisti
La mossa delle Ferrovie francesi e gli appalti
di Stefano Montefiori


«Mi inchino davanti alle vittime, ai sopravvissuti e alla sofferenza, che purtroppo vive ancora» , dice commosso Guillaume Pépy, presidente della Sncf, le ferrovie francesi. Alle sue spalle la stazione merci abbandonata di Bobigny, dalla quale partirono i carri bestiame con 22.407 ebrei diretti ai lager nazisti. Accanto a Pépy c’è Simone Veil, 83 anni: qui, una mattina dell’aprile 1944, la bambina che diventerà poi presidente del Parlamento europeo salì sul convoglio 71 diretto ad Auschwitz, assieme alla sorella e alla madre, che non farà mai ritorno. Il presidente della società chiede scusa per le azioni della Sncf dell’epoca: sui suoi treni oltre 70 mila ebrei francesi vennero portati a morire in Germania. A Bobigny nascerà un memoriale in ricordo delle vittime del nazismo. Ma Pépy ha fatto bene a chiedere scusa? E, soprattutto, sincero? Negli Stati Uniti, Sncf sta cercando di vincere la gara di appalto per i treni ad alta velocità della tratta Tampa-Orlando, in Florida, e alcuni sopravvissuti americani dell’Olocausto protestano ricordando il coinvolgimento della società nella deportazione degli ebrei. A rischio ci sono un contratto di due miliardi di euro in Florida, e un altro ancora più importante — oltre 30 miliardi di euro — per congiungere con i Tgv francesi Los Angeles e San Francisco, in California. Rosette Goldstein, figlia di un ebreo che nel 1944 venne portato alla morte su un treno Sncf, guida l’indignazione di quanti non vogliono che «i dollari delle nostre tasse finiscano per pagare una società che collaborò con i nazisti» . Per questo le scuse rischiano di suonare strumentali. A dicembre la Deutsche Bahn, rivale di Sncf per i contratti americani, ha annunciato la donazione di cinque milioni di dollari ai superstiti della Shoah, e il presidente di Sncf è volato negli Stati Uniti per presentare il sito Internet con il quale la società francese cerca di limitare la portata delle accuse. Nel 2005 furono le ferrovie olandesi, Nederlandse Spoorwegen, a chiedere perdono per il loro coinvolgimento nei treni della morte. E nei mesi scorsi di nuovo la Deutsche Bahn ha dovuto affrontare l’opposizione dei superstiti polacchi, quando ha annunciato di volere unire con i suoi convogli Berlino alla città termale polacca di Kolobrzeg. In difesa della Sncf, e indirettamente della Francia macchiata dal periodo collaborazionista, si è schierato ieri Serge Klarsfeld, il cacciatore di nazisti francese: «La Sncf ha agito perché costretta dall’occupante nazista, i treni della morte sono una vergogna essenzialmente tedesca. Sono contrario a un pentimento generale che diluisce le responsabilità, quando quelle dei tedeschi e dei collaborazionisti Pétain, Laval, Bousquet, Papon e Leguay sono ben identificate» . Secondo Klarsfeld, la Sncf si sta mostrando troppo ligia: «Dopo la guerra la Reichsbahn ha cambiato il nome in Deutsche Bahn, e questo è bastato per molto tempo. E invece di occuparci della Sncf, dovremmo pensare allora alla Siemens, che ha fatto lavorare nel sistema concentrazionario tedesco decine di migliaia di prigionieri» . Con tanti miliardi in gioco, la memoria può insospettire quanto l’oblio.

Corriere della Sera 26.1.11
Boris Pahor: «Non dimenticate gli orrori del fascismo»
di Marisa Fumagalli


LUBIANA (Slovenia) — «Quando cesserò di indignarmi, sarà l’inizio della mia vecchiaia. Così, diceva Gide, vero?» . Sorride, Nicole Michelangeli, ambasciatrice di Francia in Slovenia, mentre il suo discorso rivolto a Boris Pahor («La vostra vita è segnata dal coraggio, dalla perseveranza, dalla ribellione contro ogni totalitarismo» ) si avvia alla conclusione. Poi, lo scrittore triestino di lingua slovena, 97 anni, applaudito da amici e giornalisti, prende la parola. Ed è un fiume in piena. Tra passato e presente, senza perdere un colpo. Al collo, la medaglia di Commendatore delle Arti e delle Lettere: è l’ultima onorificenza accordatagli dal ministro della Cultura francese, dopo che lo stesso ministero l’ha nominato Ufficiale del medesimo Ordine e dopo che il presidente della Repubblica, nel 2007, gli attribuì la Legion d’Onore. Ma Pahor, che vanta altre decorazioni (manca quella italiana, da lui rifiutata ritenendo «parziale» la motivazione indicata dalla municipalità di Trieste), non si considera un uomo-monumento. Ha la scorza del combattente. Sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti (esperienza raccontata in Necropoli, il suo libro più famoso), guarito dalla tubercolosi («Con le cure de medici francesi» ), ha trascorso la sua seconda vita, lunga ormai, insegnando letteratura italiana e scrivendo in lingua slovena. Quasi una contraddizione. «Non è così — fa notare —. Certo, fui costretto a imparare l’italiano quando i fascisti estirparono la nostra cultura. Lo fecero con repressioni feroci. Ma debbo ammettere che, pur nella costrizione, la vostra letteratura mi ha dato molto» . E cita Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi, Elio Vittorini di Conversazione in Sicilia, gli autori del neorealismo. Il punto dolente, invece, riguarda la politica. «Non mi rassegno alla rimozione dei crimini fascisti che viene sistematicamente perseguita da ogni parte, destra e sinistra italiane — afferma —. Come se il nazismo avesse automaticamente assorbito le malefatte di Mussolini» . «Ci fu la tragica vicenda della foibe, ma non furono meno orrendi i campi di concentramento italiani ai danni degli sloveni» , aggiunge. Boris Pahor incontra spesso gli studenti; a loro racconta la sua Storia. «Storia vera» , dice. E, volutamente, scrive i romanzi nella sua lingua madre. Ribellione, testimonianza. Prima del congedo, rivela al «Corriere» un piccolo segreto: «Una settimana fa, per i vent’anni dell’indipendenza slovena, il presidente Danilo Turk si è recato a Roma dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Anch’io ero stato invitato. Ho preferito addurre una scusa. Con le mie parole, avrei potuto creare qualche imbarazzo nel corso di una visita cordiale» .

Repubblica 26.1.11
Ricordare stanca
Bidussa: La giornata della memoria è in affanno, cambiamola
di Simonetta Fiori


"La commemorazione ufficiale dell´Olocausto ormai è diventato solo un esercizio mnemonico. Manca la presa di coscienza"
Lo storico sociale dell´Istituto Cervi s´interroga su quanto sia ancora adeguata la ricorrenza del 27 gennaio
"Il bilancio dell´iniziativa non è da considerare negativo Ha avuto il merito di estendere enormemente la sensibilità sulla Shoah ma non basta più"
"Non siamo stati capaci di costruire una storia narrata popolare. La nostra è una storiografia litigiosa che ha ceduto al modello della tv"

La giornata della memoria, il 27 gennaio, compie dieci anni. E se indiscusso appare il successo dell´iniziativa sul piano delle celebrazioni e della produzione editoriale, ci si comincia a interrogare sull´efficacia su un anniversario sempre più schiacciato sul «marketing memoriale». Un consumo veloce e rassicurante. Una storia usa-e-getta piegata a un utilizzo autoassolutorio piuttosto che un´indagine perturbante dentro l´orrore che ancora ci appartiene. Un martirologio che rischia di rimanere muto sulle inquietudini del presente.
Dall´Istituto Cervi, officina di ricerca e di ripensamenti, parte una riflessione che non vuole certo demolire una data significativa ma pone alcuni interrogativi su una cerimonia appannata dalla ritualità. «C´è una stanchezza della memoria», dice David Bidussa, storico sociale delle idee e membro del consiglio scientifico del Cervi nonché direttore della Biblioteca della Fondazione Feltrinelli. «E come altre scadenze del calendario pubblico, il 27 gennaio si mostra in affanno».
Perché?
«Aver memoria non significa soltanto ascoltare una testimonianza o vedere immagini mostruose. Significa rielaborare tutto questo dentro di sé, assumendolo nei propri codici culturali. La consapevolezza del passato dovrebbe agire nel presente».
E invece?
«La memoria rischia di diventare come l´enciclopedia: la consulti solo per sapere cos´è successo e poi la metti via, come fosse un lemma o un tomo ingombrante. Esercizio mnemonico più che acquisizione della coscienza. Una memoria dal fiato corto».
Questo è diventato il 27 gennaio?
«Non voglio liquidare la ricorrenza con un bilancio negativo: ha il merito di aver esteso enormemente la sensibilità sulla Shoah. Ma è rimasta una ricorrenza estranea alla nostra storia nazionale. Il 27 gennaio è la data dell´apertura dei cancelli di Auschwitz: una data del calendario civile europeo trasferita nel calendario nazionale. Abbiamo rinunciato ad affiancarle un´altra ricorrenza che riguardasse più direttamente la storia italiana. In Francia, ad esempio, esiste la data del 16 luglio, che ricorda la razzia di 13 mila ebrei rinchiusi nel Velo d´Hiver a Parigi. Una data riferita a qualcosa che è accaduto altrove rischia di diventare una "non data". È come se avessimo voluto fare di questa ricorrenza un´occasione di riflessione metafisica, togliendole storia».
Un modo per assolverci da qualsiasi responsabilità?
«Non basta osservare l´orrore, per rifiutarlo. Bisogna capire come funzionava la sua potente macchina, e com´è stata raccontata più tardi dai suoi artefici. In Uomini comuni Christopher Browning ci introduce alla violenza introiettata da persone normali (non criminali delle SS) le quali hanno spiegato le loro efferatezze con l´argomento che allora apparivano necessarie e giuste, addirittura "consolanti per la coscienza". Quegli uomini non erano nati violenti: lo sono diventati. Le loro testimonianze ci dicono molto di più di quel che ci raccontano i crimini commessi».
Sta dicendo che è prevalsa finora una memoria rassicurante.
«Temo che il meccanismo attivato dal 27 gennaio consista nell´osservare con raccapriccio ciò che allora accade, rallegrandoci in fondo che oggi quella tragedia non stia accadendo a noi. Invece io propongo un´altra prospettiva: mentre qualcuno attraversava l´orrore, c´erano milioni di persone che voltavano altrove lo sguardo. Ora, in forma certamente meno estrema e meno drammatica, alcune scene si vanno ripetendo nella nostra civiltà. Non ci accorgiamo della crudeltà che accompagna le espulsioni o le vite violente nelle periferie: c´è un lato brutale nella nostra quotidianità che abbiamo deciso di espellere dallo sguardo».
La nostra indifferenza paragonata all´indifferenza di 70 anni fa?
«La macchina della persecuzione era caratterizzata da una ripetitività travestita da segni rassicuranti: "prepara la valigia" si diceva all´ebreo da deportare, un invito banale che dissimulava la tragedia. Vorrei che oggi riflettessimo di più sull´ambiguità di quei gesti che siamo abituati a pensare come rassicuranti».
L´"abuso della memoria", per usare una formula di Todorov, porta molti studiosi a invocare più storia e meno memoria.
«Io non porrei limiti alla memoria, ma nel maneggiare i materiali occorrono maggior tenacia e minor fretta. La storia filtrata dai media tende sempre più alla banalizzazione. Per leggere un documento servono molte cose: interpretazione, educazione allo sguardo, conoscenza del suo uso nel tempo. Credere che un documento parli da solo è la via più diretta per capire poco. La foto del bambino di Varsavia con le mani alzate è esemplare: Fréderic Rousseau ci ha spiegato che una foto da noi guardata dalla parte della vittima nasce come documento del buon lavoro dei carnefici. Un serio esercizio storico a cui in molti hanno rinunciato».
È critico verso i suoi colleghi?
«Gli storici hanno un´enorme responsabilità. Non siamo stati in grado di costruire una storia narrata, anche problematica, che fosse popolare. Inoltre la nostra è una storiografia molto litigiosa, e anche presuntuosa, che è andata perdendo in questi anni la sfida con le altre discipline. In molti hanno ceduto al modello televisivo, nell´illusione di disintegrare precedenti miti: il risultato è che ne hanno costruito di nuovi, e non sono più in grado di dominarli. Prevale una narrazione mediatica che ormai appartiene alla postmemoria, ossia a una rivisitazione fantasiosa della storia. È una sostanziale abdicazione al mestiere».
A dispetto della sacralità della memoria, lei sostiene, oggi prevale il consumo.
«Si mangiano velocemente le storie. E si consumano i materiali. Occorrerebbe anche uscire da quello che Giovanni De Luna ha definito sul Venerdì un calendario vittimario: non siamo più in grado di ragionare se non in veste di vittime. I testimoni devono continuare a parlare, ma noi abbiamo il dovere di rielaborare le loro voci anche per misurarci con il presente. Perché da quella storia non siamo fuori, e con il suo codice di violenza occorre ancora fare i conti».

Repubblica 26.1.11
Guerra aperta agli intellettuali. La lunga notte dell’Ungheria
di Andrea Tarquini


Dopo la legge-bavaglio sulla stampa, a Budapest sono cominciate le epurazioni nelle istituzioni culturali Un mix di populismo contro lo "spreco di denaro pubblico" e di campagna contro "ebrei e omosessuali"

Gàspàr Miklòs Tàmàs, grande intellettuale dai tempi del dissenso, è stato il primo sulla lista nera dei licenziati dall´Accademia delle scienze. Solo un appello di duemila filosofi di tutto il mondo ha spinto il potere ungherese a sospendere il provvedimento. Ròbert Alfoeldi, direttore del prestigioso Teatro nazionale, è stato licenziato su due piedi e insultato dagli estremisti come «traditore, ebreo, omosessuale». Il grande pianista di fama mondiale Andràs Schiff, diffamato con insulti antisemiti da un editorialista amico del premier, non vuole più suonare in patria. Musei, gallerie, teatri dell´Opera hanno già cambiato titolare o stanno per cambiarlo d´autorità. Gli epigoni di Gyorgy Lukàcs - Michael Vajda, Agnes Heller, Sàndor Radnòti - sono accusati di aver speso troppo per gli studi filosofici, e per l´inchiesta vengono a volte convocati in commissariato. A Budapest, presidente di turno della Ue, la legge-bavaglio non è stata che un inizio. Regna un clima di Grande Epurazione, caccia alle streghe contro l´intelligentsija.
«C´è puzza di barbarie», ci dice Gàspàr Miklòs Tàmàs, «la Storia si ripete». «L´appello internazionale ha sospeso il licenziamento mio e di alcuni miei colleghi dall´Accademia, ma vogliono ridurre l´intelligentsija al silenzio». Nel mirino sono ora anche istituti indipendenti: quelli sulla storia della rivoluzione del 1956, di storia politica e di ricerca di scienze sociali. «Clima pesante, sono cambiati i persecutori ma i perseguitati sono gli stessi che negli anni ‘70 e ‘80. Il linguaggio contro l´intelligentsija ricorda le parole di Goebbels contro la "belva intellettuale"». Su internet, le e-mail di minacce arrivano a migliaia. Condivide l´allarme il decano della letteratura Gyorgy Konrad: evoca un «nuovo tipo di dittatura». «L´Europa deve far sentire la sua voce severa», dice disperato, «la tirannia nasce sempre dal sonno degli altri».
Il governo vuole una cultura nazionale: patriottismo magiaro e cristianesimo, guai a chi non si adegua. Alfoeldi è stato cacciato per aver accettato di concedere in uso il Teatro nazionale al party diplomatico per la festa nazionale romena. Impossibile: il potere ricorda "la vergogna del Trianon", i territori passati alla Romania dopo la fine della Prima guerra mondiale. Pressioni, rinuncia al party, poi la cacciata e le accuse di tradimento. «I media governativi sparano su di noi ogni giorno in prima pagina, seducono l´opinione pubblica parlando di soldi dei contribuenti sprecati dagli intellettuali per inutili traduzioni rivedute e corrette di Platone», dice ancora Gàspàr Tàmàs Miklòs. «Come ogni regime autoritario, vogliono ridurre ogni rischio di resistenza futura». Riemerge, nota triste Konrad, «la differenza storica tra Polonia e Cecoslovacchia, che tra il ‘39 e il ‘45 combatterono dalla parte giusta, e l´Ungheria, alleato dell´Asse Roma-Berlino».

Corriere della Sera 26.1.11
Ma io, filosemita, celebro Céline
«La Francia sbaglia a cancellare l’omaggio, era l’occasione per analizzarlo»
di Guido Ceronetti


D eploro fortemente che uno scrittore come Céline sia stato tolto dal calendario delle celebrazioni per il 2011 in Francia. Un ministro della Cultura, in qualsiasi governo francese, ha sufficiente autorità per resistere ad ogni gruppo privato di pressione, sia pure benemerito, come in questo caso. Céline non è un piccolo pesce; è uno dei massimi scrittori e testimoni del secolo. Il suo cinquantenario (morì nel 1961, a Meudon, in banlieue) non sarà ugualmente dimenticato. Si capisce: la Shoah è una ferita della storia dell’uomo che il tempo non può né deve sanare, e il grido di Rachele in Ramah seguita a irrorarla di lutto. Ma la paranoia antisemita di uno scrittore che non ha versato sangue di deportati va vista come una anomalia della psiche, un’ombra del Fato, il possesso di un demone incubo. Va analizzata come malattia e non elevata a colpa. «Ha una pallottola in testa» lo giustificava Lucette. Lui, l’episodio della Grande Guerra che l’aveva fatto congedare e medagliare in fretta, non l’aveva mai taciuto: l’agitava sempre, il suo congedo di invalido permanente per il settantacinque per cento: ma sopratutto a renderlo furiosamente antisemita era stata l’ossessione che gli ebrei — tutti, in massa, banchieri o straccioni — spingessero ad una nuova spaventosa guerra con la povera Germania, che fino a Hitler non pensava minimamente a difendersene. Nel Trentasette pubblicò il suo manufatto di deliri, Bagatelles pour un massacre, pestando perché la Francia non perdesse tempo a disfarsi dei suoi ebrei, a scrostarli dai muri, a cacciarli via «che non se ne parlasse più» : una scrittura così potente come la sua attirò come miele gli antidreyfusardi, senza guadagnargli le simpatie dei nazisti; per la Gestapo, Céline era più pazzo che utile. Anche come antisemita Céline fu un isolato: i comunisti lo esecrarono dopo Mea culpa, agli antisemiti bisognosi di «razzismo scientifico» o religioso, di motivazioni monotone e piatte, quel Vajont di metafore forsennate, che finivano in pura autodistruzione spense presto il favore iniziale; inoltre, incontenibile, sotto l’occhio dei tedeschi occupanti che rigettavano e temevano il suo zelo pacifista, picchiava pubblicamente anche contro la connerie aryenne (che renderei come fessaggine, stronzaggine ariana). Non furono le sciagurate metafore celiniane dei tre saggi antisemiti a riempire i treni dei deportati da sterminare: chi li avrà mai letti tra i burocrati di Vichy? In una guerra simile contro l’essenza umana (altro che «banalità del male» !) furono senza numero i paradossi tragici. Céline nel Semmelwei, nel Voyage, in Mort à crédit, nei suoi romanzi stilisticamente ultraviolenti del dopoguerra, nei suoi viaggi al seguito del governo collaborazionista in fuga a Sigmaringen, spinse fino all’indicibile l’espressione letteraria della pietà umana; fu un moderno, e rimane, incarnatore di Buddha, un angelo pieno di cicatrici, che sfoga una pena scespiriana. Aggiungi il suo lavoro fino all’ultimo giorno di strenuo medico dei poveri, che quasi mai si faceva pagare. Lucette, a Meudon, mi mostrò la poltrona dove Céline passava la notte di insonne a vita. Il paesaggio, dalla vetrata, erano le officine della Renault-Billancourt, una fumante galera umana, non scorgevi un albero. Di là gli cadevano gocce fisse di delirio, da scavare una pietra, sul cranio della pallottola di guerra, Erinne dettatrici di insulti feroci di satirico, di maniaco di persecuzione (motivato), di aperture denunciatrici di verità crudeli, di amore per la bellezza, di sorriso in travaglio. L’insonnia, alleata del Contrasto, violenta di chiaroscuro, è «madre di tutto» . Il secolo XX ci ha lasciato tre libri, generati direttamente da una interminabile sequela di calvari umani che ha appestato e stravolto la totalità del pianeta abitato o inabitato — e i tre grandi libri mi sono indicati essere i racconti e i diari ultimi di Kafka, i racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, e il Voyage au bout de la nuit di Céline. Comparando l’antisemitismo ormai sciolto negli acidi del Tempo di Céline, e il disastro filosofico di Martin Heidegger quando fu pervaso, tra 1933 e 1935, per vanità universitaria, per credulità da debilità mentale (quantunque giovane), di zelo filonazista nascostamente antisemita— mi sarebbe più facile, dovessi fare il minosse e pronunciarmi su entrambi, mandare semiassolto (o del tutto) Céline, astenendomi dall’incolpare Heidegger esclusivamente per motivi di prescrizione. Un pensatore non aveva nessun diritto di degradarsi a quel modo. Il discorso di rettorato del filosofo di Friburgo è peggio, è più mendace, più corruttore, di Bagatelles pour un massacre. Tuttavia, se di valori si parla, Heidegger è Heidegger. Se di gloria letteraria si parla, Céline, riplasmatore del linguaggio, petite musique, affrescatore e medico delle miserie umane, è Céline. Ingiusto e ridicolo, cancellarlo dalle celebrazioni del 2011. Era un’occasione per comprendere, riscoprire, analizzare. L’odio, Spinoza dixit, non può mai essere buono.

Corriere della Sera 26.1.11
Ma dove è finito quel tormento delle donne perdute?
di Silvia Avallone


Le donne «perdute» della letteratura — da Sonja di «Delitto e Castigo» alla signora Bovary, dalla ninfa di Nabokov alla Karenina— possiedono una monumentale grandezza.
La prostituta interpretata da Anna Magnani in «Mamma Roma» è una donna dalla personalità grandiosa; la Saraghina di Fellini è una «creatura» poetica. Se provo a guardare Ruby, Nadia Macrì o Nicole Minetti mi chiedo perché non riesco a dare loro lo spessore che spetta alle protagoniste di una storia da raccontare. Per costruire un personaggio, infatti, e per sviluppare una trama delle sue azioni, occorre lavorare su una coscienza — non dico tragica, ma quantomeno problematica e presente a se stessa. Lolita, traviata dal patrigno senza opporre resistenza, per quanto maliziosa e disinibita, scoppia in lacrime riconoscendo la propria solitudine. Anche Ruby prova a recitare questa parte, confessandosi a Signorini in un programma televisivo; ci racconta di essere fuggita da una famiglia disastrata e da un’infanzia costellata di violenze come in un libro di Dickens. Eppure, osservando con attenzione come si muove, come si atteggia davanti alle telecamere, potrebbe interpretare qualsiasi ruolo eccetto quello della povera sprovveduta. Chi è veramente? Non c’è verso di saperlo perché non lo sa lei stessa. Questa adolescente che dal Marocco seguiva i varietà italiani e sognava un futuro sgargiante in tv sembra aver totalmente sostituito la realtà con il reality show. La sua è un’identità fluida, cangiante, dove non c’è più confine tra verità e menzogna: sincera perché falsa e falsa perché sincera. A una griffe, a una fugace apparizione televisiva, a qualche migliaio di euro che piove in una notte, a una reggia di lusso e a un festino con l’uomo potente: a questo si limita la capacità di sognare e desiderare delle ragazze di Arcore. La storia, non solo quella letteraria o cinematografica, è affollata di donne che hanno sacrificato la loro bellezza e i loro anni migliori per un miraggio, ma nelle loro scelte è sempre trapelato il retrogusto amaro di un dramma. Il tono di voce di Nicole Minetti, mentre avverte l’amica che «ne vedrà d’ogni» , è divertito, leggero. Il suo linguaggio è quello di chi gioca alla vita e non di chi la sta vivendo. È pacifico spogliarsi, travestirsi. È una strada ovvia, che porta lontano; a meno che tu non sia così folle da ridurti a faticare otto ore per pochi euro. E se invece fosse lì, in quelle otto ore, la strada per costruirsi un’identità propria? Ma questa è la legge che vale fuori e non dentro la reality-fiction, dove lo scandalo promuove vite parallele e le lancia nel firmamento dei programmi in prima serata o addirittura in quello della politica. Come si fa a dire di no? Ammiccano queste ragazze. Madame Bovary, Anna Karenina, Lolita devono la loro grandezza anche alla sfida contro il conformismo della propria epoca, incarnano la forza della trasgressione. Le ragazze di Arcore sono invece in perfetta consonanza con lo spirito dei nostri tempi. Perciò non riesco a immaginarmi il loro futuro, e il nostro, altrimenti che in una pagina bianca.

Corriere della Sera 26.1.11
E la rivolta di Galileo scongelò il cosmo dai rigori di Tolomeo
L’alba di una nuova visione del mondo
di Sandro Modeo


A l momento di scrivere il Sidereus Nuncius (prima edizione marzo 1610), Galileo ha quasi cinquant’anni. Come ricorda lo storico delle idee Andrea Battistini, lo scienziato — che fino a quel momento ha pubblicato solo studi minori e specialistici— teme di non poter esprimere in pieno la propria vocazione e di non poter comunicare i risultati delle proprie scoperte. Schiacciato dalle continue richieste dei committenti della Serenissima (deve occuparsi di macchine idrauliche, trapani per le viti, bussole e orologi), sente la vita sfuggirgli: quella routine alienante (il «servizio cotidiano» e la «servitù meretricia» ) gli lascia poche energie residue per dedicarsi ai «grandi e oltremodo mirabili» spettacoli del cosmo. Scrivere il Nuncius, dunque, è il tentativo disperato (e riuscito) di ribellarsi a quella costrizione al silenzio; anche se il libro conserva tracce della sua gestazione inquieta, perché in molti punti lo scienziato evoca «l’angustia del tempo» per giustificare osservazioni a suo dire incomplete. Frutto di 55 notti trascorse al cannocchiale (strumento rivoluzionario arrivato dall’Olanda), il Nuncius è anzitutto una fitta successione di scoperte fattuali: sulla superficie della luna (che si rivela «disuguale, scabra, piena di cavità e sporgenze» e «variata da macchie, come occhi cerulei d’una coda di pavone» ); sulla grandezza variabile degli astri (che «in mezzo alle tenebre» «sono visti chiomati» , mentre la luce diurna rade loro «i crini» e li ridimensiona); sulla Via Lattea, che si spalanca per la prima volta come «una congerie di innumerevoli stelle, disseminate a mucchi» , proprio col suo «candore latteo come di nube albeggiante» ; e sui satelliti di Giove, studiati nei loro più minuti movimenti. Il tutto con l’aiuto di numerosi, fondamentali disegni esplicativi. Ma tali scoperte — enunciate, per inciso, in un latino insieme esatto e visionario, come se Galileo stesse già modulando l’ineguagliabile italiano del Saggiatore e del Dialogo — sono sconvolgenti per le loro implicazioni concettuali e cognitive, per lo shock che comportano a livello di visione del mondo. I pochi estratti appena citati sono sufficienti a dimostrare come Galileo — al momento del Nuncius già copernicano da sette anni— non si limiti a demolire la fissità congelata del cosmo aristotelico tolemaico e il connesso, rassicurante meccano astrologico. Come non si limiti, cioè, a rivelare un universo metamorfico, discontinuo, infinito, dove nulla è centro e tutto è periferia; ma tolga anche all’assetto cosmico la sua eleganza stilizzata, perché è vero (come scriverà nel Saggiatore) che il linguaggio della natura ha per caratteri «triangoli, cerchi ed altre figure geometriche» , ma tali caratteri sono avvolti da una materia fisico-biologica molto più ribelle e instabile di quanto sembri (come dimostrano proprio le scabrosità lunari). Ed è vero che la vita si regge su leggi e simmetrie, ma entro un costante agguato caotico. Oltre che diffidenze e calunnie (sia da parte di accademici che di ecclesiastici, in primis gli scienziati famuli della corte medicea, in cui Galileo sta per trasferirsi), il successo del Nuncius innesca anche un certo immaginario fantascientifico, per esempio sulla pluralità dei mondi abitati. Oggi, un simile slittamento è ancora più naturale, perché gli eredi del cannocchiale galileiano (i potenti telescopi, da Hubble in poi) ci permettono di scrutare l’universo sempre più lontano e — per quanto possa sembrare paradossale— sempre più indietro nel tempo. Quando infatti osserviamo stelle e galassie remote, non le vediamo come sono ora, ma come erano milioni o miliardi di anni fa. La spiegazione di questa vertigine— abbozzata da Poe nel poema Eureka ma di fatto formulata da Einstein — dipende dalla luce, la cui propagazione non è istantanea: anche se velocissima per i nostri parametri (300 mila km al secondo), la luce impiega del tempo a trasmetterci le immagini degli oggetti da cui proviene. Se volessimo vedere le galassie come sono ora, dovremmo dunque trovarci nel futuro. Ma anche questo nuovo «annuncio sidereo» , per quanto frastornante, è destinato a essere superato — o integrato — dai successivi. Ogni acquisizione, nella scienza, è sempre la penultima.

Corriere della Sera 26.1.11
Uguali nella libertà: la ricetta di Locke contro ogni tirannia
L’individuo al centro della vita politica
di Dino Cofrancesco


«U om di multiforme ingegno» , John Locke ha toccato pressoché tutti gli ambiti delle scienze umane: dall’etica e dalla teologia morale (Epistola sulla tolleranza, 1689) alla filosofia e all’epistemologia (Saggio sull’intelletto umano, 1690), dalla filosofia politica e dal diritto pubblico (Due trattati sul governo, 1690) alla pedagogia (Pensieri sull’educazione, 1693), dalla filosofia della religione (Saggi sulla ragionevolezza del cristianesimo, 1695-1697) alla dottrina delle Costituzioni: La Costituzione della Carolina e l’Antica Costituzione inglese, ora in appendice al solido saggio di Franco Manti, Locke e il costituzionalismo. Pochi filosofi del passato hanno goduto di una stima intellettuale pari alla sua e pochi hanno influenzato, come lui, le istituzioni sorte dalle «rivoluzione atlantiche» : l’inglese, l’americana, la francese. «John Locke— ha scritto Robert A. Goldwin— è stato chiamato il filosofo dell’America, il nostro re nel solo modo in cui un filosofo è stato re di una grande nazione» . Certo Locke è, soprattutto, il padre nobile dell’empirismo, il critico della metafisica e delle idee innate. Nella sintesi di Carlo Cattaneo, «Cartesio aveva negato all’intelletto la potenza di generare le idee, queste stavano già nascoste nell’intelletto, l’uomo le portava seco nascendo. E allora era surto Locke e aveva detto: "Non v’è bisogno di idee innate; datemi il mondo e l’intelletto, datemi i sensi e la riflessione; e io vi darò tutte le idee". Non è vero che Locke fosse sensista. Partiva dai sensi; traeva la verità dai sensi, ma colla forza della riflessione. Di Locke si può ben dire che aveva il genio del suo popolo, il genio britannico, la riflessione applicata alla pratica del mondo» . Un rilievo che sarebbe piaciuto a Nicola Matteucci, che non vedeva nella politica di Locke «una semplice estensione scolastica della sua filosofia, un suo semplice capitolo» , ma al contrario faceva della teoria empirica della conoscenza un derivato del liberalismo politico, che esige «definizioni chiare e prove empiriche» per salvaguardare lo spazio politico «dall’innatismo o dal fanatismo degli ideologi» . A rileggere il Secondo trattato sul governo si ha la sensazione che sia stato scritto ieri, tanto il suo stile, la sua filosofia del diritto e la sua etica politica ci sembrano le basi imprescindibili della «libertà dei moderni» . A suo fondamento sta un diritto naturale che non è più, come l’antico, espressione di un ordine cosmico, oggettivo, cui l’uomo deve conformarsi — e quindi fonte più di doveri che di diritti —, ma diventa la coscienza di ciò che la ragione prescrive in vista dell’autoconservazione dell’individuo, impensabile senza vita, proprietà e libertà. «La libertà naturale dell’uomo consiste nell’esser libero da ogni potere superiore sulla terra e nel non sottostare alla volontà o all’autorità legislativa di alcuno, e nel non avere per norma che la legge di natura. La libertà dell’uomo in società consiste nel non sottostare ad altro potere legislativo che a quello stabilito per consenso nello Stato» . Il fascino della pagina lockiana sta, forse, in un individualismo assoluto, che non diventa mai aristocratico, e in una idea forte di democrazia, per la quale sarebbe impensabile il sacrificio dei diritti soggettivi sull’altare del «bene comune» . Se nell’Europa continentale l’eguaglianza è un «progetto» che giustifica l’abbattimento delle torri dei potenti, nella filosofia di Locke essa è una «condizione» iscritta in una natura che «non fa distinzione fra uomo e uomo» . Si è eguali perché si hanno diritti che nessun potere può sottrarci e, pertanto, si è eguali «prima» di entrare nella società civile e si rimane eguali solo se i governi si limitano a proteggere quel che ci appartiene. Nel Secondo trattato aleggia l’ombra di un «populismo individualistico» ben diverso dal «populismo organicistico» del vecchio continente. Che cosa, si chiede Locke, «vale meglio per l’umanità: che il popolo sia sempre esposto all’incontrollata volontà della tirannide o che i governanti possano talvolta vedersi opporre resistenza quando abusano del potere e lo adoperano per la rovina e non per la salvaguardia della proprietà dei sudditi?» . Quindi il «populismo individualistico» non è la ribellione al governo per quello che non ci ha dato (come pane e lavoro), ma per quello che ci ha tolto (come proprietà e libertà).

La Stampa Tuttoscienze 26.1.11
Misteri L’archeoacustca
“La magia di Stonehenge è nella sua musica segreta”
Un cerchio di suoni accompagnava i riti: “La prova in un test”
di Cinzia Di Cianni


Alla scoperta della dimensione sonora. Nella preistoria e nell’antichità prevaleva su quella visiva, ma oggi l’abbiamo perduta
A CHICHÉN ITZÀ Ogni parola sussurrata nel centro dell’arena produce nove echi distinti
Alcune frequenze favoriscono la trance tipica dei riti arcaici

Icona Stonehenge rappresenta uno dei luoghi da sempre più misteriosi e più studiati Ora gli ingegneri acustici tentano di svelare uno dei suoi tanti segreti
In un'alba nebbiosa del maggio 2009 due uomini si aggiravano tra i megaliti di Stonehenge, facendo scoppiare dei palloncini e registrando i suoni con un microfono al centro del cerchio. Non erano seguaci di culti pagani, ma ingegneri acustici: Bruno Fazenda dell'Università di Salford e Rupert Till dell'Università di Huddersfield. Lo scopo era misurare la «risposta all'impulso», una sorta di impronta acustica del sito. L'accurata levigatura e curvatura delle superfici interne dei blocchi suggerisce che, probabilmente, gli antichi costruttori sapevano come ottenere effetti molto suggestivi.
Poiché in 4 mila anni Stonehenge ha subito varie manomissioni e molti megaliti sono stati rimossi o giacciono a terra, i ricercatori inglesi sono andati anche a Maryhill, nello Stato di Washington, dove un cimitero militare ospita una versione in cemento di quella che doveva essere la struttura originaria dei sito inglese. I dati sembrano confermare che nel «magico» cerchio ogni parola poteva essere udita distintamente da ogni punto periferico. «Ovviamente a Maryhill è in gioco una maggiore energia acustica, perché lo spazio è chiuso da più superfici e quindi ne “scappa” fuori una minore quantità - commenta Renato Spagnolo dell'Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica di Torino -. Per la stessa ragione il tempo di riverberazione medio risulta più lungo, circa 1,1 secondi, vale a dire quello che caratterizza una sala conferenze ben progettata, mentre sarebbe troppo breve per una buona resa musicale».
La ricerca, presentata da Trevor Cox, che insegna ingegneria acustica a Salford, ha dato visibilità all'archeoacustica, una disciplina che sta conquistando autorevolezza un po’ alla volta. Studiosi «di frontiera», come Paul Devereux, David Lubman o il musicologo italiano Walter Maioli, si occupano da tempo della dimensione sonora del mondo antico. E le scoperte si susseguono, partendo da una considerazione che non è affatto ovvia: solo da pochi secoli la visione ha preso il sopravvento sugli altri sensi, mentre in passato l'udito era fondamentale, in un mondo più silenzioso e pericoloso di quello attuale. Ogni rumore poteva celare una minaccia. Ma gli stessi suoni della natura, oltre che la parola, il canto e la musica avevano anche significati sacri o magici, perché si riteneva che permettessero una comunicazione con la sfera divina e con i regni dei morti. I ricercatori dell’archeoacustica sostengono quindi che grotte affrescate, ipogei, edifici e luoghi sacri venissero realizzati ponendo grande attenzione agli effetti sonori o «aurali».
Al momento gli studi più approfonditi sono quelli condotti sugli anfiteatri greci e romani: gli ingegneri conoscevano bene i principi fisici e nel tempo riuscirono a migliorare il rendimento acustico, utilizzando materiali compatti, aumentando l'altezza del palcoscenico, modificando l'angolazione e la disposizione delle gradinate e distribuendo tra queste vasi di bronzo con funzione di risonatori. L’opera di riferimento, a partire dal I secolo a. C., fu il «De Architectura» di Vitruvio.
Un alone di mistero, invece, circonda le anomalie acustiche nel sito Maya di Chichén Itzá, in Messico, costruito tra l'XI e il XIII secolo. Le parole sussurrate a un'estremità del più vasto dei campi per il gioco della palla, lungo 166 metri e largo 68, sono udibili dalla parte opposta grazie a fenomeni di focalizzazione e concentrazione del suono noti come «whispering galleries». Inoltre, ogni suono prodotto nel centro dell'area crea nove echi distinti. Non solo. C’è anche la performance della piramide a gradoni di Quetzalcoatl, nota come El Castillo. Le guide che accompagnano i turisti si esibiscono spesso in un piccolo show: un battito di mani, rimbalzando sui gradoni, si trasforma come per magia nel cinguettio del Quetzal, l'uccello sacro oggi quasi estinto.
Anche a Malta si sono registrati fenomeni sorprendenti: l'Ipogeo di Hal Saflieni, straordinario complesso di grotte e camere rituali scavate tra il 3600 e il 2500 a.C., presenta un'acustica eccezionale. «E' come stare dentro una gigantesca campana - commenta Linda Eneix, della Old Temples Study Foundation -. Il suono penetra nelle ossa, non solo nelle orecchie». Ma le analisi più impressionanti, forse, restano quelle del gruppo «Princeton Engineering Anomalies Research», diretto dal fisico Robert Jahn: negli Anni 90 ha condotto vari test in siti megalitici risalenti a 5 mila anni fa, come Wayland's Smithy e Cairn Euny nel Regno Unito o Newgrange e Cairns in Irlanda: gli ambienti, sebbene di struttura diversa, mostrano una buona risonanza a una frequenza media di 110-112 Hz, frequenza che è presente nella gamma vocale umana, soprattutto nei toni gravi dei baritoni.
Basandosi su queste e altre ricerche, lo psichiatra Ian A. Cook dell' Università di California a Los Angeles ha condotto uno studio su 30 volontari e ha dimostrato che i suoni di frequenza 110 Hz modificano l'attività cerebrale, «silenziando» la regione temporale sinistra e causando «asimmetrie operative» nella corteccia prefrontale, dovute a una predominanza dell'emisfero destro. Il risultato è che i centri del linguaggio vengono depotenziati, mentre sono favoriti i processi emozionali. E' probabile, quindi, che in molte strutture cerimoniali la salmodia o il canto risuonassero con un'eco profonda, che induceva lo stato di trance e favoriva il passaggio a dimensioni «altre». Ma c’è chi è risalito ancora più indietro: Igor Reznikoff, dell'Università di Parigi X, ha studiato l'acustica di alcune grotte francesi affrescate nel Paleolitico, come quelle di Niaux, Arcy-sur-Cure e Rouffignac. Ha concluso che le pitture rupestri venivano realizzate proprio sulle pareti e sulle volte che restituivano i suoni con maggiore efficacia. Bastavano pochi rumori o un grido per far «rivivere» le scene di caccia raffigurate sulla roccia, trasformando quelle cavità in sale cinematografiche della preistoria.