domenica 30 gennaio 2011

Repubblica 30.1.11
L´intervista
D´Alema: ora basta andiamo alle urne un´alleanza costituente può salvare il Paese
di Massimo Giannini


La legittimazione maggioritaria usata contro il principio di legalità: è questo il vero atto eversivo
Una consultazione potrebbe chiedere agli italiani di scegliere tra parlamentarismo e presidenzialismo
Siamo in una crisi democratica gravissima. Le oppo- sizioni mettano da parte politicismi e interessi personali

ROMA - «Il Paese attraversa una crisi democratica gravissima. Se Berlusconi non si dimette, l´unico modo di evitare l´impasse e il caos politico-istituzionale è andare alle elezioni anticipate. Chiedendo agli elettori di promuovere quel governo di responsabilità nazionale che è necessario al Paese, per uscire da una crisi così profonda. Lancio un appello alle forze politiche di questo potenziale schieramento: uniamoci, tutti insieme, per superare il berlusconismo». Massimo D´Alema rompe gli indugi. Di fronte alla "notte della Repubblica" in pieno corso, il presidente del Copasir apre per la prima volta al voto anticipato, e invita tutti, dal Terzo Polo all´Idv alla sinistra radicale, ad allearsi con il Pd in una sorta di "Union sacrè" elettorale.
Presidente D´Alema, siamo al punto di non ritorno: il Quirinale lancia un serio altolà contro la degenerazione politica, tanto da far ipotizzare ad alcuni ministri un ricorso all´articolo 88 della Costituzione, e quindi lo scioglimento delle Camere. Lei che ne pensa?
«Mi lasci essere prudente su iniziative che vengono attribuite al Capo dello Stato. Ma il solo fatto che circolino ipotesi di questo tipo dimostra quanto sia drammatica la situazione in cui ci troviamo. Ormai siamo in piena emergenza democratica. Non voglio parlare dello scenario morale, che pure è uno dei lasciti più devastanti del berlusconismo come disgregazione dei valori condivisi. Mi riferisco alla crisi politica e istituzionale, al conflitto tra i poteri dello Stato innescati da un premier che rifiuta la legge. Questo è il vero fatto eversivo: la legittimazione maggioritaria che si erge contro il principio di legalità. Una situazione insostenibile, che ci ha portato alla paralisi totale delle istituzioni, e persino all´idea pericolosa di fare appello alla piazza contro i magistrati, di cui stavolta tutto si può dire fuorché non abbiano agito sulla base di un´ipotesi accusatoria fondata. La vera anomalia è nel fatto che in tutti i paesi del mondo un leader nelle condizioni di Berlusconi si sarebbe dimesso già da tempo, o sarebbe stato già "dimesso" dal suo partito».
Qui non succede. Il premier si dichiara innocente, e dice che ad andarsene deve essere Fini, invischiato nella vicenda della casa di Montecarlo. Chi ha ragione?
«Trovo paradossale questa campagna contro Fini. Ciò che gli si imputa non ha alcuna rilevanza pubblica e non c´entra nulla con il modo con cui presiede la Camera dei deputati. In realtà le istituzioni sono state trasformate in un campo di battaglia e davvero non vedo, nella maggioranza, senso dello Stato».
Ma è con questa realtà che dovete fare i conti. Come se ne esce?
«Noi abbiamo dato la nostra disponibilità a lanciare una fase costituente con le forze che ci stanno, per aprire una crisi e proporre un governo alternativo. Ma a questo punto, se Berlusconi non prende atto dell´insostenibilità della sua posizione di premier, l´unica soluzione è quella delle elezioni anticipate».
Non avete più paura del voto?
«Non abbiamo mai avuto paura. Era doveroso esperire tutti i tentativi per impedire una fine traumatica della legislatura. Ma ora anche questa fase si sta consumando. Quando Bossi ripete che è ancora possibile fare il federalismo - al di là del merito assai discutibile dei decreti in esame, definiti con sconcertante solennità "federalismo" - esprime una pia illusione: non si accorge che proprio la paralisi creata da Berlusconi è il principale ostacolo per raggiungere lo scopo? Ora vedo che Casini parla di larghe intese come in Germania. E´ bello questo riferimento, salvo che al posto della signora Merkel noi abbiamo il presidente Berlusconi, che non è esattamente la stessa cosa. In ogni caso, Casini aggiunge che se le larghe intese non fossero possibili, bisognerebbe andare alle elezioni anticipate. Lo giudico un fatto positivo, che rafforza il mio appello sul voto e sul governo di responsabilità nazionale. Non c´è altra strada. L´idea di ricomporre un centrodestra "europeo", rispettoso dei magistrati e dell´etica pubblica, non è più all´ordine del giorno. In quella metà campo c´è solo un blocco di potere, creato da Berlusconi, e una minoranza fanatica che lo segue sempre e comunque».
"Minoranza", dice lei? L´hanno votato milioni di italiani.
«Le confermo: minoranza. Oggi Pdl e Lega, insieme, sono al 40%. Le forze dell´opposizione rappresentano il restante 60%, cioè la maggioranza degli italiani».
Ma non rappresentano un´alternativa credibile, e dunque votabile. Lo dicono tutti i sondaggi.
«Questo è il punto. L´opposizione appare debole perché finora non ha saputo delineare un progetto alternativo, né contrastare il ricatto del premier che afferra il Paese per la gola e gli dice: o me o il nulla, non esiste alternativa possibile. Per questo propongo di rompere lo schema. Di fronte al conflitto istituzionale permanente e alla paralisi politica, le opposizioni sono chiamate a una forte assunzione di responsabilità. Qui c´è una vera e propria emergenza democratica. Se ne esce solo con un progetto di tipo costituente, che fa coincidere la conclusione del ciclo berlusconiano con la fine di una certa fase del bipolarismo e raduna il vasto schieramento di forze che si oppongono a Berlusconi: presentiamoci agli elettori e chiediamogli di sostenere un governo costituente che abbia tre obiettivi di fondo».
Ce li riassuma. Primo obiettivo?
«Primo obiettivo. Sciogliere il nodo della forma politico-istituzionale del bipolarismo italiano. Siamo in un sistema plebiscitario e populista, costruito intorno a Berlusconi. Dobbiamo finalmente costruire un bipolarismo democratico. Occorre stabilire un nuovo equilibrio. Quale forma di governo vogliamo? Non demonizzo l´ipotesi presidenzialista, sul modello francese. L´importante è ridefinire in un quadro organico il sistema delle garanzie, dei contrappesi, dei conflitti di interesse, dell´informazione. E a tutto questo occorre collegare un modello di legge elettorale coerente, che ci consenta di salvare il bipolarismo, ma rifondandolo su basi nuove. La scelta del modello istituzionale si potrebbe persino affidare ai cittadini. Si potrebbe pensare ad un referendum popolare di indirizzo, per far cominciare davvero la Seconda Repubblica, chiedendo agli italiani di esprimersi: repubblica presidenziale o repubblica parlamentare?».
Gli altri due obiettivi?
«Il secondo è un grande patto sociale per la crescita. Lo sperimentammo sull´euro, e fu il vero successo degli Anni Novanta. Oggi ce n´è altrettanto bisogno. Ma non può essere affidato solo alle parti sociali, nè può essere pagato solo da una delle parti. E questo mi sembra il vero limite dell´accordo Fiat: la modernizzazione solo sulle spalle degli operai. Il nuovo patto deve contenere un´impronta liberale, ma temperata da una forte carica di giustizia sociale e di lotta alle disuguaglianze. Il terzo obiettivo è il funzionamento dello Stato. Lo stesso federalismo, se non è collegato a una vera riforma della Pubblica Amministrazione (e quella di Brunetta non lo è) si riduce a semplice redistribuzione del potere tra le elite».
Ma perché questa idea del governo dell´emergenza dovrebbe funzionare ora, visto che se ne discutete inutilmente da mesi?
«Perché la situazione precipita. La crisi politico-istituzionale, l´accavallarsi delle vicende giudiziarie, la guerra tra i poteri dello Stato. Cos´altro deve succedere, per convincerci della necessità di una svolta?».
Chi è il candidato premier di questo Cln che si presenta alle elezioni anticipate? È vero che lei punta su Casini, per chiudere l´accordo con il Terzo Polo?
«Non punto su nessuno e non spetta a me questa indicazione. Se questa riflessione sarà condivisa, sarà il mio partito con il suo segretario e i suoi organismi dirigenti a compiere le scelte necessarie».
La scelta può cadere anche su un «papa straniero», tipo Draghi o Monti?
«Mi creda, questa è una partita troppo importante per essere giocata nel solito toto-nomi. L´importante è avere chiara la portata della posta in gioco».
Il Pdl è in pieno disfacimento, ma anche il Pd non sta messo bene. Che mi dice del disastro delle primarie a Napoli?
«Intanto a Napoli spero che venga accolto l´appello di Bersani a trovare una soluzione unitaria. Più in generale, mi auguro che questa vicenda ci aiuti a fare una discussione serena e non ideologica. L´ho detto un migliaio di volte, guadagnandomi sul campo l´accusa di "nemico del popolo": ci sarà pure un motivo se gli americani, che le primarie le hanno inventate, hanno un sistema che assicura il voto solo agli iscritti al partito, e non al primo che passa. Se avessimo adottato questo sistema anche noi, oggi sapremmo chi ha votato a Napoli, e non ci troveremmo in questo caos. La democrazia è fatta di regole, altrimenti è pura demagogia. Io non sono contro le primarie. Anzi, le voglio salvare. Ma per salvarle, so che dobbiamo regolarle in un altro modo».
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 30.1.11
Quante sono le divisioni del capo dello stato
di Eugenio Scalfari


Siate buoni! Lo dice un uomo anziano che fabbrica ciambelle col buco e ne diffonde il consumo e poi - non so perché - chiude con questa esortazione il suo messaggio pubblicitario. Ma le sue ciambelle sono fatte con ottima farina. Qui, nella ciambella Italia, è l´ottima farina che manca, la nostra è una farina piena di vermi e di impurità ed è la materia prima che fa difetto.
Perciò l´esortazione ad esser buoni, che la più alta autorità dello Stato non cessa di lanciare alle forze politiche e alle istituzioni imbarbarite, cade in un vuoto dove s´incrociano grida, insulti, delegittimazioni e malcostume diffuso in tutti i livelli.
Si accumulano indizi e prove di gravi reati, ma non è neppure questo l´aspetto che desta maggiore sgomento: i reati, veri o presunti, hanno i loro luoghi per essere accertati ed eventualmente puniti; ma è l´indecente spettacolo dei comportamenti viziosi e della paralisi istituzionale che ne consegue a gettare il Paese nello sgomento. L´articolo 54 della nostra Costituzione esorta ed anzi impone al titolare di quella istituzione di comportarsi con decoro, ma non era mai accaduto nella nostra storia di centocinquanta anni che l´onore e il decoro istituzionale fossero violati fino a tal punto.
C´è un solo luogo pubblico, un solo Palazzo, che non è stato lambito da quest´ondata di disistima ed è il Quirinale, la presidenza della Repubblica.
Si dice che il Capo dello Stato, al di là delle esortazioni, dell´esempio e dei pressanti consigli, non abbia altri strumenti per intervenire e ci si domanda sconfortati: di quante divisioni dispone Giorgio Napolitano? E´ un potere armato o disarmato? E´ soltanto una voce che grida nel deserto e altro non può fare?
In realtà il Presidente non è soltanto una voce e una presenza vigilante ma non operativa. A parte il potere di promulgare le leggi o di rinviarle al Parlamento, che non può essere reiterato, il Presidente dispone di altri due strumenti previsti dalla Costituzione.
Il primo riguarda la formazione del governo, il secondo lo scioglimento anticipato delle Camere. Si tratta di strumenti estremamente incisivi, che vanno dunque usati con la massima ponderazione, ma che costituiscono una riserva preziosa quando le strutture istituzionali rischiano di decomporsi in un generale marasma.
Questo rischio sta incombendo sulla nostra democrazia, sicché i due strumenti che abbiamo sopra indicati vanno esaminati con attenzione e se del caso utilizzati dal Capo dello Stato che ne ha la titolarità.
* * *
La formazione del governo. La Costituzione stabilisce che «il presidente della Repubblica, sentiti i presidenti delle Camere e i rappresentanti dei gruppi parlamentari, nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri». L´articolo successivo prescrive che «il governo entro quindici giorni dal suo insediamento si presenta in Parlamento per ottenere la fiducia».
Questa procedura è chiarissima né si presta ad equivoci. Il Capo dello Stato «nomina» il presidente del Consiglio e le opinioni espresse dai presidenti delle Camere e dei gruppi parlamentari non vincolano il Capo dello Stato ma contribuiscono a renderlo compiutamente informato sugli orientamenti del Parlamento.
Su questa procedura costituzionale si è sovrapposta la prassi dell´incarico esplorativo. Sulla base di questa prassi il Capo dello Stato anziché nominare, incarica una personalità da lui scelta per accertare preliminarmente l´esistenza di una maggioranza parlamentare disposta a dare la fiducia all´incaricato. Se l´accertamento dà esito positivo, l´incaricato scioglie la riserva e il Capo dello Stato lo nomina; se l´accertamento è negativo al Capo dello Stato non resta altra soluzione che lo scioglimento delle Camere.
Questa prassi tuttavia non è affatto vincolante poiché non prevista in Costituzione. Il governo Pella per esempio fu «nominato» da Luigi Einaudi senza l´accordo della Dc di cui Pella era peraltro autorevole membro. Quando si presentò alle Camere la fiducia comunque la ottenne senza averne avuto la certezza preliminare. Le cose andarono in modo non identico ma analogo quando Gronchi nominò Tambroni a capo del governo.
Ci sono situazioni nelle quali la maggioranza esistente è soltanto formale e posticcia e può modificarsi di fronte all´iniziativa del Capo dello Stato il quale, se si rende conto di questa possibilità, può tenerne conto operando di conseguenza. Non si tratta di una forzatura interpretativa ma dello scrupoloso rispetto di quanto stabilisce la Costituzione.
Noi pensiamo che la situazione attuale potrebbe esser risolta, nel caso in cui l´attuale governo fosse sfiduciato o decidesse di dimettersi, direttamente con la nomina d´un nuovo presidente del Consiglio e senza bisogno d´un incarico preliminare.
* * *
Il secondo strumento riguarda lo scioglimento delle Camere in anticipo con la loro naturale scadenza. Esso può essere deciso dal Capo dello Stato senza bisogno che il governo in carica glielo chieda. La Costituzione infatti non prevede questa richiesta.
Naturalmente il Capo dello Stato deve avere una valida ragione per metter fine anticipatamente alla legislatura. Quando per esempio una Camera sia guidata da una maggioranza diversa da quella esistente nell´altra Camera, oppure quando il governo in carica non sia più in grado di governare; oppure per altre ragioni ancora, come accadde quando il Senato fu sciolto anticipatamente per due volte con l´obiettivo di far coincidere nella stessa data la scadenza delle due Camere, che all´epoca avevano una durata diversa.
Il marasma attuale e le reciproche delegittimazioni che si lanciano le più alte cariche istituzionali potrebbe ampiamente giustificare uno scioglimento delle Camere ancorché in presenza di un governo non sfiduciato.
Siamo arrivati al punto che il partito di maggioranza chiede le dimissioni del presidente della Camera, il quale a sua volta chiede le dimissioni del presidente del Consiglio; quest´ultimo insulta quasi quotidianamente la Corte costituzionale e - da quando ha ricevuto mandato di comparizione per essere interrogato per gravi reati - estende l´insulto alla Procura di Milano definendola (anche qui quotidianamente e pubblicamente) sovversiva ed eversiva e rifiutando di presentarsi al suo cospetto per essere interrogato. Come tutto ciò non bastasse, il partito finiano denuncia al Tribunale dei ministri il ministro degli Esteri per abuso d´ufficio, il Pd e l´Udc deplorano il presidente del Senato, i rappresentanti della Lega e del Pdl disertano le riunioni del Copasir (Comitato di controllo parlamentare dei servizi di sicurezza) che ha chiamato a deporre il presidente del Consiglio o in sua vece il sottosegretario Gianni Letta.
Infine si fa strada una singolarissima prassi da parte di Berlusconi d´intervenire telefonicamente nelle trasmissioni televisive per insultare i conduttori e gli ospiti delle medesime, imitato dal direttore generale della Rai, Masi, che interrompe in diretta Annozero dando vita ad una rissa verbale con Santoro davanti a sette milioni di telespettatori.
Se in queste condizioni Giorgio Napolitano decidesse di sciogliere il Parlamento e rimettere il giudizio su quanto avviene al popolo sovrano, credo che nessuno potrebbe formulare nei suoi confronti la menoma critica: farebbe il suo dovere rispettando in pieno la lettera e lo spirito della Carta costituzionale.

Corriere della Sera 30.1.11
Veltroni convince i finiani: sì a una manifestazione nazionale
di  Alessandro Trocino


ROMA— Mobilitazione nelle piazze, discussioni e litigi dentro casa. Il Partito democratico prova a chiamare alla riscossa gli italiani, lanciando raccolte di firme e manifestazioni, ma sconta ancora gli effetti delle primarie napoletane, che hanno scosso il partito tra accuse di brogli e irregolarità. E intanto si apre anche un altro fronte polemico interno, con il Movimento democratico (Modem), attivissimo: da una parte Walter Veltroni gioca in solitaria e invita l’opposizione a scendere in tutte le piazze d’Italia; dall’altra Beppe Fioroni chiede a sorpresa le dimissioni di Gianfranco Fini, insieme a quelle di Silvio Berlusconi. — non c’è pace nel Pd napoletano. Il vincitore delle primarie, Andrea Cozzolino, non ha alcuna intenzione di fare il passo indietro che gli è stato chiesto dal partito. Ma anche lo sconfitto, Umberto Ranieri, contesta la linea della segreteria, a partire dalla decisione di commissariare il partito, inviando Andrea Orlando: «Mi auguro che non sia una ritorsione per la limpidezza con la quale Nicola Tremante, segretario uscente, ha parlato di come sono andate le cose» . Da Tremante erano arrivate le accuse più forti di brogli. Per Ranieri la sua sconfitta è figlia di un «sistema di potere che ha prodotto uno sconcio per scongiurare la svolta» . E la decisione di commissariare è «politicamente avventata, improvvida, sbagliata e incomprensibile» . Parole alle quali replica Enrico Letta: «Cozzolino sbaglia, serve generosità» . Insomma, faccia un passo indietro, di modo che si possa trovare una personalità autorevole, magari quel Raffaele Cantone invocato da Roberto Saviano e Walter Veltroni. E proprio quest’ultimo ieri su Repubblica ha lanciato un’iniziativa forte, chiedendo all’opposizione di scendere in piazza lo stesso giorno in tutti gli ottomila Comuni italiani per «uscire da questo immobilismo malato, da questa rissosità inconcludente» . Iniziativa che va a sovrapporsi a quella del partito, che ha cominciato la raccolta firme per raggiungere quota 10 milioni entro l’ 8 marzo. Nessuna reazione ufficiale della segreteria all’uscita di Veltroni, ma a Largo del Nazareno non si nasconde una certa irritazione: «Vanno bene tutte le iniziative, ma sia chiaro che il Pd nelle piazze c’è già» . A dar manforte a Veltroni ci sono i senatori democratici Roberto Della Seta e Francesco Ferrante: «Veltroni ha ragione, l’Italia sana si ribelli pacificamente allo spettacolo vomitevole del crepuscolo berlusconiano» . E con l’ex segretario si schiera anche FareFuturo, la rivista finiana che si dice d’accordo «con l’idea di una manifestazione» . Ma c’è un altro elemento di frizione nel Pd ed è l’iniziativa di Fioroni (anche lui nel Modem di Veltroni), che chiede sia a Berlusconi sia a Fini di «fare un passo indietro per il bene dell’Italia» . E non importa che il Pd possa allearsi con il Terzo Polo, come aggiunge Enrico Gasbarra: «Dobbiamo avere il coraggio di andare oltre le convenienze politiche per sostenere il Paese sull’esempio dei padri costituenti» . Ma Bersani non ci sta ad attaccare Fini e fa sapere che bisogna «concentrare tutte le energie sul premier e il suo governo che paralizza il Paese» .

Repubblica 30.1.11
Parla lo storico Gilles Kepel, specialista di Islam
"Una rivoluzione inevitabile la gente non sopporta più i despoti e gli estremisti"
di Pietro Del Re


Mubarak non è in grado di risolvere i problemi interni e ha fatto perdere al Paese il ruolo di potenza che aveva una volta in quella parte di mondo
Dalla Tunisia all´Egitto le società arabe hanno dimostrato il desiderio di voler rientrare a far parte della Storia universale

«Erano inevitabili i moti di Tunisi e del Cairo? Sì, perché le società arabe non ne possono più di sentirsi prigioniere in un vicolo cieco dove ognuno è oppresso o dal despota locale o dal mullah estremista». Gilles Kepel, specialista di Islam e direttore della cattedra "Moyen-Orient Méditerranée" all´Institut d´études politiques di Parigi non sembra pessimista su quanto sta accadendo in Tunisia e in Egitto. «Sono società che hanno dimostrato il desiderio di voler rientrare a far parte della Storia universale, da cui sono state scansate o dal dittatore di turno o dalla Jihad».
Professor Kepel, in poche ore le piazze hanno cambiato la storia araba. Ma quali sono adesso gli esiti possibili degli sconvolgimenti in corso?
«Mubarak era diventato un problema per una parte dell´establishment egiziano, perché non è stato in grado di risolvere i problemi interni e perché ha fatto perdere all´Egitto il ruolo di prestigio e di potenza che aveva una volta in quella parte di mondo. Il Libano, per esempio, è oggi un scacchiere dove intervengono Ankara e Teheran, ma dove il Cairo è totalmente assente».
Come valuta la nomina di Omar Suleiman a vicepresidente egiziano?
«Credo che da anni Suleiman sia il vero padrone dell´Egitto, così me in Algeria il capo dei servizi, Taoufik, sia a capo del paese. Suleiman negozierà adesso con le diverse forze dell´opposizione e con gli Stati Uniti. Quando lo incontrai un anno fa mi disse che era determinato a impedire con ogni mezzo che i Fratelli musulmani prendano il potere in Egitto».
E le sembra ancora possibile?
«A differenza di quanto è accaduto in Tunisia, dove sono stati duramente repressi, e dove c´è una classe media liberale e culturalmente franco-araba, in Egitto i Fratelli musulmani sono oggi la forza politica dominante nel paese. Inoltre, in Egitto, la classe media non mantiene legami con la massa composta da 80 milioni di egiziani, e la sua capacitò di influenzarla è praticamente nulla».
E quindi?
«Quindi il generale Suleiman sarà costretto a trovare un´equazione politica che permetta la transizione verso il futuro. Mi sembra più un facitore di re, che lui stesso un potenziale re».
Le sembra esagerato chi parla di un ‘89 arabo, collegando i moti egiziani e tunisini al cataclisma epocale della rivoluzione francese?
«Da diversi decenni la situazione in Medio Oriente è stata bloccata attorno a tre assi: israelo-palestinese, i paesi del Golfo e il Pakistan-Afghanistan. Quello che sta succedendo adesso, rispecchia invece un´influenza che proviene da Ovest. Ovvero dal Maghreb e dalla Tunisia, paese questo che è il più vicino alla cultura europea. "Ben Ali dégage" (Ban Ali vattene) è stato ripreso anche in Egitto con "Mubarak dégage", in un paese dove quasi più nessuno parla francese. È qualcosa di sicuramente simbolico che gli slogan degli insorti siano stati pronunciati nella lingua della rivoluzione francese».
Come valuta le rivelazioni di WikiLeaks secondo cui da tre anni gli Stati Uniti appoggerebbero la rivolta egiziana?
«Non mi stupisce».
E ora quali sono le altre dittature a rischio?
«Nello Yemen si percepiscono diversi segnali di fragilità. Se, come sembra, il sistema Mubarak dovesse scomparire, si produrrebbe sicuramente un effetto tsunami».
Nel saggio Jihad lei interpretava la radicalizzazione del mondo arabo come un segno di declino e non di maggiore potenza. In che chiave si possono leggere le violente proteste di oggi?
«La voglia di alcuni popoli di rientrare nella Storia contemporanea».

il Fatto 30.1.11
Kifaya: Basta, il grido che unisce l'opposizione
Una galassia di movimenti che ora può superare le faide interne


Kifaya in arabo significa “basta”. Basta Mubarak, basta corruzione, basta rincari del pane, basta disoccupazione, basta omicidi di giovani che denunciano la corruzione della polizia. Come Khaled Said, un giovane di 28 anni, massacrato a morte nel giugno scorso, dopo aver caricato su internet un video in cui una squadra di agenti di poliziotti si spartisce una partita di droga, dopo una retata. La foto con il volto sfigurato di Khaled, a 6 mesi dalla sua morte, è l'immagine simbolo della rivoluzione egiziana. Viene alzata dalla folla, al grido di Kifaya! È brandita da tutti i membri dei gruppi, partiti e movimenti di opposizione che dal 25 gennaio sono scesi nelle strade delle città egiziane, a partire dal gruppo dal movimento per il cambiamento democratico. È uno dei principali gruppi di opposizione, meglio conosciuto come movimento kifaya per l'appunto, nato nel 2004. Tra i   suoi fondatori, il più noto a livello internazionale è sicuramente l'intellettuale - scrittore Ala Al Aswani. Ieri la sua assistente Dalia El Sayegh ci ha spiegato quanto sia difficile contattare Aswani perché partecipa a tutte le manifestazioni al Cairo: “E nelle zone delle manifestazioni spesso non c'è segnale”. Kifaya e soprattutto il movimento 6 aprile sono i più seguiti dai giovani, perché fin dalla loro nascita hanno utilizzato internet come strumento principale di organizzazione e diffusione delle proprie istanze.
Il “6 aprile” è nato su Facebook nel 2008 in occasione di uno sciopero. Ha una storia fatta da ragazzi che hanno frequentato l'università, che credono nella laicità dello Stato e nella democrazia. Inizialmente si erano conosciuti virtualmente, attraverso il social network, poi si sono incontrati per la prima volta nella sede del partito El-Ghad. Dietro questo movimento c'è la volontà ferrea di un giovane ingegnere civile che lavora per   un'impresa di costruzioni: è noto come Maher. Pur essendo già militante di El-Ghad, Maher riteneva che i metodi di lotta utilizzati dai partiti fossero inefficaci. Si concentrò su Facebook per sfuggire alle infiltrazioni della polizia postale che fino ad allora aveva infiltrato solo i singoli blogger e le comunicazioni via   mail. Nel 2006 il blogger Mohammed El Sharqawi fu incarcerato e sodomizzato per aver partecipato alle proteste. Altri sono ancora in prigione.
I vecchi partiti non sono seguiti dai giovani e molta parte della popolazione li sente lontani, anche perché al loro interno nascono continuamente fazioni e faide. El-Ghad fu fondato da Ayman Nur, che ha passato ben 3 anni in carcere. Ora ha ripreso le redini del partito ed è sceso in piazza. L'altro partito è il Wafd, l'unico d'opposizione legale e per questo guardato con sospetto. Le speranze della comunità internazionale sono riposte nel-l’Associazione nazionale per il cambiamento (Nac) fondato dal Nobel El Baradei: movimento trasversale che comprende altri leader di partiti liberali, attivisti e intellettuali, la maggior parte laici. (R. Z.)

La Stampa 30.1.11
L’esercito non spara “Vogliamo proteggervi”
La polizia sparisce dalle strade e la gente offre il tè ai militari sui carri armati
dio Paolo Mastrolilli


La polizia è sparita dalle strade del Cairo, dopo la battaglia del venerdì di preghiera. In giro sono rimaste solo decine di camionette bruciate, più i cecchini che sparano e uccidono dai tetti del ministero dell’Interno. La capitale è in mano all’esercito che ha schierato i carri armati, ma lascia che la gente salga sulle torrette per farsi fotografare con i soldati.
Da questo, dal comportamento dei militari, dipenderà il futuro di un Paese finito al bivio tra la democrazia e la carneficina.
Alle nove di mattina piazza Tahrir è già piena di dimostranti, ma pare una festa di paese più che una rivoluzione. È sabato, giorno di vacanza, e persino le famiglie con mogli e bambini sono venute a vedere il campo di battaglia. Ahmed Ibrahim sta seduto sopra la corazza di un carro armato e chiacchiera amabilmente col pilota. In mano tiene il tricolore egiziano: il nero che simboleggia la repressione, il rosso che è il sangue della rivolta, e il bianco che è la luce del nuovo inizio.
Ma perché i soldati sono amici e i poliziotti nemici? Ahmed estrae dalla giacca una foto che spiega tutto: lui in divisa dentro un cingolato. «Pure io - dice - ho fatto il militare. Loro sono come noi, gente del popolo che difende la nazione dalle minacce esterne. I poliziotti, invece, sono gli aguzzini del regime che ci opprime». Il pilota del carro sorride e annuisce: «Anche lui - giura Ahmed - odiaMubarak».
È così in tutta la piazza. La gente va col telefonino a riprendere le immagini della sede del partito di Mubarak, ancora fumante per l’incendio della notte prima. Davanti c’è una camionetta carbonizzata della polizia. Dentro si vedono ancora pagnotte bruciate dalle fiamme: gli agenti antisommossa, evidentemente, si erano attrezzati per resistere a lungo. Invece sono fuggiti. Omar scatta foto e sospira: «Mi dispiace tanta violenza, però oggi sento come un senso di liberazione. L’unica paura è che Mubarak abbia ritirato apposta la polizia: così comincerà l’anarchia. In periferia è già iniziata, girano le bande. I criminali si metteranno a saccheggiare i negozi e la gente finirà per pregare che il Presidente riporti l’ordine».
Un ufficiale si sgola col megafono: spiega che l’esercito e il popolo sono una cosa sola, ma il popolo non deve esagerare: «Fate quello che credete ora, ma quando alle 6 del pomeriggio comincia il coprifuoco, tutti a casa». Sta in piedi sopra un M60, vecchio carro armato americano della serie ispirata al generale Patton. Fino a una dozzina di anni fa li aveva in dotazione anche l’esercito italiano, di stanza dalle parti di Aviano per prevenire l’ipotetica invasione sovietica dal Carso. Sono carri buoni per combattere nel deserto, perché hanno la pancia alta, ma meno agili in città.
Sulla torretta, oltre al cannone da 105, montano mitragliatrici Springfield calibro 12,7. Una raffica di queste armi, semmai i soldati cominciassero a usarle, non uccide un uomo: lo taglia a metà. Altro imbarazzo per Washington, che regala un paio di miliardi di dollari all’anno all’Egitto, che poi li investe in carri armati e lacrimogeni americani.
Comincia a girare la voce che Mubarak ha davvero licenziato il governo, e ha scelto Omar Suleiman come vice presidente e Ahmed Shafiq come nuovo premier. È la prima volta che nomina un vice, e qualche analista azzarda che potrebbe essere l’inizio della transizione, visto che la moglie e il figlio Gamal sono già all’estero. Azza Hassen, un’avvocatessa che sta seduta davanti alla sede dell’Ordine, non abbocca: «State scherzando? Suleiman è il capo dell’intelligence da vent’anni, mentre Shafiq viene dall’aviazione militare come Mubarak. Questo vi pare il cambiamento? Queste sono le riforme? Vi dico io come finisce: la gente non smetterà di protestare fino a quando Mubarak non andrà via».
La tensione torna a salire verso le 5 del pomeriggio, quando la folla inizia a marciare sul palazzo della televisione di Stato. «Imbroglia la gente - dice un manifestante - dobbiamo chiuderla». Una colonna di 15 carri armati, in pratica un’intera compagnia, si schiera a difesa dell’edificio. Dal fondo del viale sul Nilo si sentono urla sempre più forti. Avanza una folla che tiene sollevato qualcosa che assomiglia a un uomo, avvolto in una bandiera egiziana. Dal drappo cola il sangue. Poco lontano i cecchini della polizia rimasti a guardia del ministero dell’Interno hanno cominciato a sparare contro i manifestanti che si avvicinavano.
Ci sono almeno cinque morti e la gente adesso porta il primo cadavere in processione per mostrarlo ai soldati. Le grida della protesta salgono, scuotono l’aria. Un ufficiale scende dal carro e ferma la sua faccia a due centimetri da quella di una leader dei manifestanti che gli urla contro. Le Springfield sulle torrette si abbassano ad alzo zero. L’ufficiale grida: «Il popolo e l’esercito sono una cosa sola. Siamo qui per proteggervi, non costringeteci a fare altro». Il corteo funebre continua la processione verso piazza Tahrir, i carri armati davanti al palazzo della tv rialzano le bocche da fuoco.
Qualcuno si avvicina per mettere un fiore dentro i lancia fumogeni dei cingolati, e qualche altro offre il tè ai soldati. Il canto del muezzin richiama alla preghiera, che comincia proprio sotto i carri armati: si stendono in terra le bandiere egiziane per chinarsi verso la Mecca. Arriva un’auto con a bordo un padre, Mohammed Shafi, e le sue tre figlie: la più piccola ha quattro anni e la più grande sette. Hanno tutte in mano una bandiera. Le prende una per una e con l’aiuto dei soldati le fa salire sopra un M60. Loro sventolano orgogliose il tricolore, i militari sorridono e il papà riprende la scena col cellulare. Ma perché? «E’ un momento storico - dice -, Mubarak sta per andare e io voglio che loro lo ricordino».
Può darsi, ma intanto dalla periferia arrivano voci di vigilantes armati alla buona, che pattugliano le strade contro le bande di saccheggiatori. La mossa di far uscire i soldati dalle caserme ha abbassato un po’ la tensione al centro, ma domani si torna a lavorare, anche se la tv ha annunciato che la Borsa resterà chiusa. Cosa faranno allora i soldati, durante il coprifuoco? E se domani la gente tornerà in piazza, lasceranno poggiare i fiori sui carri armati?

La Stampa 30.1.11
Al Cairo Obama punta sui generali
Washington incalza il raiss: “Rimescolare le carte non basta, ci vogliono riforme concrete”
di Maurizio Molinari


L’amministrazione Obama guarda alle forze armate egiziane come garanti della transizione verso le elezioni presidenziali di settembre. L’interlocutore privilegiato è il generale Sami Hafez Enan, capo di Stato Maggiore, che fino a venerdì mattina era al Pentagono per discutere con il parigrado americano Mike Mullen gli scenari strategici in Africa e Medio Oriente. Appena le proteste di piazza sono lievitate Hafez Enan è tornato in gran fretta in patria e il generale James Cartwright, vice di Mullen, ammette che «nei corridoi» sono avvenute «conversazioni» sui disordini.
Il paludato linguaggio del Pentagono cela il fatto che le forze egiziane sono considerate una garanzia di stabilità da Washington. Un veterano del Medio Oriente come Edward Djerejian, già ambasciatore in Siria e Israele, lo riassume così: «I militari hanno rovesciato la monarchia nel 1952, espresso tutti i presidenti da allora, riscattato l’onore nazionale con la guerra del 1973, non sono considerati corrotti e guidano il più potente esercito arabo nella nazione-perno della pace con Israele, che è anche titolare del Canale di Suez attraverso cui passa una buona parte del greggio per l’Occidente». Le immagini dei manifestanti che abbracciano i militari hanno rafforzato la convinzione americana che siano i generali a poter evitare l’incubo dello «scenario iraniano» che Martin Indyk, ex consigliere di Bill Clinton sul Medio Oriente, riassume con queste parole: «L’America deve fare attenzione a non commettere gli errori che nel 1979 spinsero le piazze iraniane ad esserci ostili, ne stiamo ancora pagando il prezzo».
Scongiurarlo significa spingere i militari egiziani a non sparare sui manifestanti, diventando piuttosto un pungolo per indurre Mubarak alle riforme, cominciando con garantire elezioni davvero libere. E’ questo il motivo che ha portato il presidente Barack Obama a minacciare l’interruzione degli aiuti annuali all’Egitto - 1,3 miliardi di dollari - se dovesse scattare la repressione: la maggioranza di tali fondi va infatti, dal 1978, ai militari che li hanno usati per costruire un esercito di tipo occidentale, con aerei e navi americane, addestrando una forza di 468 mila uomini che ne fa il decimo esercito al mondo. In concreto ciò significa che la Casa Bianca mette i generali davanti a un bivio: sparare sulla gente significa rinunciare ai fondi, con in più il rischio di far scivolare la rivolta nelle mani dei Fratelli Musulmani rimasti finora alla finestra.
L’esercito d’altra parte può essere tentato di cercare una rivincita su Mubarak, che ha sempre cercato di ridurne l’influenza con decisioni simili a quella presa nel 1989 quando defenestrò il ministro della Difesa Abdel Halim Abu Ghazala - un popolare eroe di guerra - per sostituirlo con il meno amato Hussein Tantawi. Se da un lato Washington guarda ai militari dall’altro preme su Mubarak affinché eviti la repressione. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Philip Crowley, gli manda a dire che «non basta rimescolare le carte» con il rimpasto di governo e «l’impegno alle riforme deve essere seguito da fatti concreti» mentre David Axelrod, guru politico della Casa Bianca, svela che «da due anni Obama preme su Mubarak per una svolta» facendo capire che la pazienza è finita. La designazione di Omar Suleiman come vicepresidente sembra premiare gli sforzi americani in atto perché lo zar dell’intelligence è un apprezzato interlocutore dei generali guidati da Hafez Enan: potrebbe essere un patto fra i due ad allontanare lo spettro di un collasso nazionale.
A confermare che da tempo Washington puntava ad un’accelerazione democratica c’è il dispaccio diplomatico redatto il 30 dicembre 2008 da Margaret Scobey, ambasciatrice al Cairo, a Hillary Clinton e reso pubblico da Wikileaks. Nel testo Scobey scrive «dobbiamo sostenere le riforme in Egitto» affermando di essere a conoscenza di «un piano segreto dei gruppi di opposizione per un cambio di regime prima delle presidenziali». Il memo fu mandato a Hillary in vista della partenza per New York di almeno un dissidente egiziano del gruppo «6 Aprile», che riuscì a lasciare Il Cairo sfuggendo ai controlli grazie agli americani.

La Stampa 30.1.11
Con gli arabi ad Auschwitz per capire
Cento politici e intellettuali visiteranno il campo: è la prima volta
di Abrahm B. Yehoshua


I primi sionisti non volevano espellere i palestinesi, ma furono visti come invasori
Molti in Medio Oriente avevano salutato l’Olocausto perché colpiva i loro nemici

Martedì prossimo, primo febbraio, una delegazione di un centinaio di personalità politiche e intellettuali provenienti da tutto il mondo arabo e musulmano, guidata dal presidente del Senegal e patrocinata dall’Unesco e dalla municipalità di Parigi, si recherà ad Auschwitz, in Polonia. Saranno accompagnati da un altro centinaio di personalità politiche, religiose e intellettuali cristiane, musulmane ed ebraiche di tutta Europa. Non è la prima volta che arabi musulmani visitano un campo di sterminio.
Ritengo però che una delegazione di tale livello e portata non si sia ancora vista, e questo non solo è un risultato molto positivo per l’Unesco e per la città di Parigi, che cercano di contrastare le ventate di antisemitismo e di anti-islamismo che soffiano sull’Europa, ma è anche un segnale della volontà di governi e di organizzazioni arabe e musulmane, nonché di intellettuali e di esponenti religiosi, di combattere il fenomeno della negazione della Shoah.
Il sionismo nasce come movimento nazionale politico alla fine del XIX secolo, 50 anni prima dell’Olocausto. E benché io non creda che i suoi ideologi fossero in grado di predire il terribile sterminio del popolo ebraico avvenuto a metà del ventesimo secolo, i più acuti tra loro (in gran parte scrittori e intellettuali) avvertirono che l’ostilità di stampo nazionalista che si andava diffondendo in Europa nei confronti degli ebrei avrebbe potuto rivelarsi ancora più grave e pericolosa di quella tradizionale di matrice religiosa. Così, anziché rimuginare su cosa fare perché il mondo si mostrasse più tollerante alla presenza ebraica, scelsero di operare un cambiamento di identità negli ebrei e, in primis, di instillare nelle loro coscienze la necessità di possedere un territorio definito. Non più una patria virtuale radicata nell’immaginario che gli ebrei serbavano in cuore spostandosi da una nazione all’altra come chi cambia albergo, ma una patria reale, dove potessero esercitare una loro sovranità e fossero responsabili del proprio destino.
Ma l’idea di raggrupparsi in un territorio definito era concepibile per gli ebrei unicamente in un luogo, nella loro patria storica e mai dimenticata menzionata anche nelle preghiere: la Terra d’Israele, chiamata però Palestina dal resto del mondo e dai suoi abitanti dell’epoca.
La stragrande maggioranza del mondo arabo, e in primo luogo i palestinesi, respinse categoricamente questa ipotesi ed è chiaro che chiunque altro al posto loro avrebbe fatto lo stesso. «Adesso vi siete ricordati di avere bisogno di uno Stato?», obiettarono, «avete cominciato ad abbandonare la Terra d’Israele 2500 anni fa. Già in epoca romana metà del popolo ebraico era disperso in tutto l’Impero. Dopo la distruzione del tempio, nel primo secolo d.C., ve ne siete andati definitivamente e benché nei duemila anni trascorsi abbiate avuto molte opportunità di farvi ritorno, non le avete sfruttate. Vi siete stabiliti ovunque nel mondo, persino nei Paesi intorno alla Palestina, solo qui non siete venuti. E adesso volete prendervela?».
In un primo momento i palestinesi pensarono che si trattasse di un nuovo tentativo di conquista coloniale da parte di europei. Tanto più che, come molti altri, ritenevano gli ebrei una collettività religiosa, e non nazionale. Ben presto, però, si resero conto che quella trasmigrazione, avvenuta in un primo tempo col patrocinio dell’impero ottomano e poi con quello britannico, aveva lo scopo di creare uno Stato sovrano che col tempo li avrebbe trasformati, nel migliore dei casi, in una minoranza o, nel peggiore, in una comunità priva di diritti che avrebbe potuto essere espulsa dal Paese.
Nel 1917, all’epoca della Dichiarazione Balfour con la quale la Gran Bretagna prometteva agli ebrei un focolare nazionale in Israele, il numero dei sionisti in Palestina non superava le 50 mila, rispetto a 550 mila palestinesi (cifre dell’Enciclopedia ebraica). In altre parole, questi ultimi erano 11 volte numericamente superiori. Ma i palestinesi sapevano che dietro a quei 50 mila c’era un intero popolo di 15 milioni di individui e, anche se solo una parte di essi si fosse trasferita in un futuro Stato ebraico, sarebbero diventati un’insignificante minoranza. Così, fin dall’inizio, sostenuti dal mondo arabo, si imbarcarono in una lotta senza quartiere contro il sionismo.
I palestinesi possedevano a quel tempo una distinta e autonoma coscienza nazionale? A mio modesto parere, è irrilevante nel contesto della controversia morale che li vede opposti agli ebrei. Anche se la Palestina era soltanto una regione della Siria, o del grande mondo arabo, nessuno aveva il diritto di trasformare i suoi cittadini in una minoranza. La terra appartiene a chi vi risiede, è un principio universale inequivocabile e legittimo. Anche se all’inizio del ventesimo secolo la maggior parte del mondo non era ancora organizzata in Stati nazionali la terra appartiene a chi vi abita in quanto parte dell’identità umana, individuale e collettiva.
È vero che gli ebrei che cominciavano a trasferirsi a poco a poco in Israele non avevano intenzione di espellere i palestinesi. Volevano unicamente fondare uno Stato che garantisse loro una struttura indipendente entro la quale decidere del proprio destino e soprattutto gestire la propria difesa. Credevano inoltre che un Paese abitato da milioni di ebrei potesse garantire piena parità di diritti alle minoranze. E infatti, negli Anni 30, con l’intensificarsi delle persecuzioni antisemite in Germania e in altri Paesi europei, 350 mila ebrei riuscirono a trasferirsi in Israele, scampando allo sterminio.
Ma anche se gli arabi palestinesi furono costretti ad ammettere in seguito che il sionismo contro cui avevano combattuto ancor prima della seconda guerra mondiale aveva salvato dalla morte centinaia di migliaia di ebrei, impossibilitati a trovare rifugio negli Usa che avevano chiuso le porte dopo la crisi del 1929, non si rassegnarono al fatto che tale salvataggio fosse avvenuto a loro spese, con una lenta ma costante erosione dei loro territori da parte di stranieri.
Non so se durante la seconda guerra mondiale, e anche dopo, gli arabi abbiano compreso appieno la portata e le dimensioni dell’eccidio del popolo ebraico. A volte ho l’impressione che gli ebrei stessi, ancora oggi, non siano del tutto consapevoli della gravità della tragedia abbattutasi su di loro, come non lo erano delle avvisaglie che la annunciavano e che avrebbero dovuto riconoscere. Lo sterminio degli ebrei non avvenne per un desiderio di occupazione territoriale e nemmeno per osteggiare una diversa religione. E sicuramente non per motivi economici o ideologici. I nazisti sterminarono gli ebrei semplicemente perché volevano sterminarli. E questo è ciò che rende una simile barbarie unica nella storia. Lo sterminio degli ebrei in un primo tempo avvenne persino contro gli interessi dei loro stessi aggressori e trovò sostegno psicologico e talvolta concreto in molte nazioni occupate dalla Germania nazista.
Io non so cosa gli arabi abbiano provato nell’apprendere della Shoah in Europa. Di certo i loro sentimenti furono contrastanti e complessi. Da un lato sbigottimento per l’odio profondo mostrato contro gli ebrei in Europa giacché, anche se nel mondo arabo sussistevano qua e là ostilità e diffidenze nei confronti degli ebrei dovute a motivi religiosi, mai tali sentimenti si erano avvicinati ai livelli di antisemitismo cristiano e laico dell’Europa. Probabilmente, però, è naturale supporre che gli arabi, e in particolare i palestinesi, avessero anche provato soddisfazione nel constatare che la fonte della forza ebraica che li minacciava, soprattutto su un piano demografico, fosse stata colpita e si fosse ridotta di molto. Se non che gli europei, indipendentemente dalla loro appartenenza al blocco comunista o a quello occidentale, sconvolti dalle atrocità naziste, si resero conto che non solo per gli ebrei, ma anche per loro stessi e per il futuro dell’umanità, dovevano fare qualcosa di drastico per combatterel’antisemitismo che cominciava a compromettere l’integrità del loro stesso essere. Perciò, con un’iniziativa rara ed eccezionale, nel 1947, due anni dopo la fine del conflitto e già al culmine della Guerra Fredda, il blocco comunista e quello occidentale si unirono per aiutare gli ebrei a normalizzare la propria esistenza in uno Stato che occupasse una parte (e sottolineo: una parte) delle terre palestinesi.
Il grido di protesta, di rabbia e di offesa del mondo arabo è comprensibile dal loro punto di vista: «Voi europei, che non solo ci avete oppresso nei nostri Paesi e continuate a farlo nei vostri ma avete anche commesso crimini orribili e gravi contro gli ebrei, vi aspettate che noi arabi, estranei ai vostri crimini, paghiamo per le vostre colpe con la nostra terra?». Secondo la loro logica, dunque, la decisione di cercare di distruggere lo Stato ebraico ancor prima che nascesse, era naturale e giustificata.

La Stampa 30.1.11
Céline contro Céline
di Lorenzo Mondo


aretta, negli ambienti culturali francesi, per la riproposizione del caso Céline a cinquant’anni dalla morte. Lo scrittore «maledetto» compariva nel calendario delle celebrazioni previste in Francia per il 2011, insieme ai titolari di altri eventi, come Luigi XIV e Pompidou, Marie Curie e Franz Liszt.
L’elenco era così variegato da risultare assolutamente neutro e da rendere inoffensiva l’inclusione di Céline. Ma le proteste del cacciatore di nazisti Serge Klarsfeld, in rappresentanza dell’«Associazione dei figli di deportati ebrei», ha indotto il ministro della Cultura Frédéric Mitterrand a cassare il suo nome, avviando al macero il volume già stampato per le commemorazioni. Quasi una damnatio memoriae inflitta all’autore del delirante pamphlet antisemita Bagatelle per un massacro , imputato tra l’altro di collaborazionismo con il governo Pétain. Si dà tuttavia il caso che egli sia considerato uno dei più importanti scrittori, non solo francesi, del secolo scorso.
Ferve dunque la polemica tra chi difende le ragioni di una memoria inespiabile e quelle, che sembrerebbero minime e oziose, della letteratura, da riservare a critici e filologi. In realtà, non è soltanto questione di bello scrivere. Nei suoi romanzi, a partire dal Viaggio al termine della notte , Céline ha denunciato con vertiginoso furore l’insensatezza della guerra, le brutture del colonialismo, l’appagato egoismo dei benpensanti (suscitando non a caso l’entusiasmo di un Bernanos). E nella trilogia dell’esilio a Sigmaringen, nel castello degli Hohenzollern dove si era rifugiato, ha rappresentato come nessun altro, con inarrivabile ironia, la miseria morale dei reduci di Vichy, presi nella tenaglia delle avanzanti truppe alleate, in un’aria di apocalittica resa dei conti. Dimentichiamo pure il fatto che non si sia macchiato di sangue e che abbia cercato un silenzioso riscatto prodigandosi dopo la guerra, come medico dei poveri, nel sobborgo di Meudon.
Atteniamoci soltanto ai suoi libri, ai due diversi Céline che in essi si manifestano e nei quali prevale di gran lunga il suo volto migliore. Non sarà l’esclusione dalla carta di futili annali, dettata da postumi rancori, ad attenuare la forza della sua scrittura e delle sue verità. Si è persa semplicemente l’occasione, penetrando nel torbido impasto del cuore umano, di contrapporre Céline a Céline, di concedergli uno scampolo di quella pietà che egli seppe esercitare sotto il velame della negazione e dell’ira.

La Stampa Tuttolibri 30.1.11
Céline L’epistolario con la segretaria rischiara le traversie dello scrittore
“Ho un solo scopo: essere sgradevole”
di Felice Piemontese


«Il mio unico e preciso obiettivo è quello di riuscire massimamente sgradevole… a tutti quelli a cui posso pensare… o che siano semplicemente sfiorati dal mio pensiero». Così scriveva Louis-Ferdinand Céline in una lettera del 1937, di poco successiva, cioè, a quello che è con ogni probabilità il suo capolavoro assoluto, Morte a credito . E, si potrebbe commentare, non si può dire che non ci sia riuscito, ad essere sgradevole, e si tratta evidentemente di un eufemismo.
La lettera, con un centinaio di altre, è una scelta di quelle indirizzate, in più di venticinque anni, a Marie Canavaggia, una donna per molti aspetti straordinaria, che andrebbe meglio conosciuta. Di origine corsa, figlia di un magistrato, è nota come la «segretaria» di Céline. Ma fu molto di più, sia per lui che in assoluto. Traduceva benissimo dall’inglese e dall’italiano (Moravia ad esempio), si occupava di editing , come si direbbe oggi, ed ebbe intensi rapporti letterari con un altro personaggio notevole, l'italo-francese Gian Dauli, scrittore apprezzatissimo negli Anni Trenta e oggi quasi dimenticato, tra i primi ammiratori di Céline, di cui fece tradurre quasi subito in italiano il Voyage au bout de la nuit .
Per quel che riguarda Céline, la Canavaggia si occupava di tutte le incombenze letterarie, oltremodo gravose dato il personaggio e il suo rapporto ossessivo con la scrittura: rileggeva i manoscritti, diceva la sua opinione sulle infinite modifiche a cui venivano sottoposti, li faceva dattilografare, teneva i rapporti con gli editori (sempre burrascosi). E quando le sciagurate posizioni antisemite di Céline lo costrinsero all'esilio e alla prigione - e ci fu il rischio tutt’altro che remoto di una condanna a morte - lo sostenne e non gli fece mai mancare la propria indefettibile solidarietà, aiutandolo a riemergere dall’abisso in cui era precipitato.
Le lettere ora pubblicate in italiano - un quinto circa dell'intero epistolario con la Canavaggia - consentono di seguire dal vivo, per così dire, le traversie dello scrittore, soprattutto nella fase, durissima, dell'esilio danese, dopo la folle cavalcata (con la moglie Lucette e il gatto Bébert) nella Germania in fiamme, distrutta dai bombardamenti e dall'avanzata delle truppe alleate. Vicende note, che del resto hanno fornito a Céline la materia per i grandi romanzi degli ultimi anni, ma che si ripercorrono con interesse particolare attraverso una scrittura che non aveva nessuna pretesa di letterarietà, ma che reca pur sempre tracce evidenti di quell’inventiva, di quella genialità, di quel gusto dell'iperbole e dell'eccesso che rendono unica, e immediatamente riconoscibile, la prosa céliniana.
Naturalmente la Canavaggia era anche romanticamente e pudicamente innamorata dello scrittore. Che la maltratta con affettuosa durezza per le «ridicole balordaggini» sentimentali alle quale talvolta si lascia andare. Troppo impegnato com’era a inveire contro il mondo, contro i «persecutori», a lamentarsi della salute malferma, a seguire con ansia la propria vicenda giudiziaria, e soprattutto a portare avanti la sua impresa letteraria («non è facile dissuadermi dal rivoluzionare la letteratura francese»).
"L’autore del «Voyage» impegnato a inve

Repubblica 30.1.11
Kafka. Lettere alla sorella
di Andrea Tarquini


Di tutta la famiglia, Ottla era la persona più importante per l´autore de "La metamorfosi". Martire volontaria ad Auschwitz per non abbandonare dei bambini ebrei al loro destino, la più giovane dei fratelli era quella che Franz definisce "grande, matura, forte", quella che lo fa sentire "completamente diverso, rispetto a come sono davanti agli altri". Come testimonia un epistolario dello scrittore che ora sta per andare all´asta in Germania
La pensa in ogni suo viaggio, le scrive cartoline dalla Slesia, da Versailles, dal lago di Garda

Ottla fu la sorella più giovane, e la sua preferita. Per nessun´altra persona al mondo Franz Kafka provò tanto affetto e confidenza. Le scriveva da ogni suo viaggio, e chiudendosi come giovani complici nel bagno di casa, nel bel centro borghese di Praga, Franz e Ottla adolescenti e poi giovani passavano ore a scambiarsi confidenze. Un mondo di sentimenti, un altro volto dell´autore de Il processo e La metamorfosi, un mondo che ci viene tramandato da documenti straordinari. Sono centoundici lettere che Franz scrisse a Ottla per anni e anni, dall´inizio del secolo fino alla sua morte. Testimonianze eccezionali, tutte vergate da Franz con la stilografica. Gli eredi di Ottla conservarono per decenni quel carteggio, lo hanno fatto custodire a Oxford dalla Bodleian Library, e ora vogliono venderlo. In aprile andrà all´asta, e nessuna istituzione culturale europea sembra avere in tasca i soldi, da cinquecento a ottocentomila euro, per assicurarselo: con ogni probabilità, quel pezzo pregiato del patrimonio culturale del Vecchio continente finirà in mano a qualche ricco collezionista privato, lontano ore e ore di aereo da Praga o dalla Mitteleuropa. Contro questa ipotesi, per conservare l´accesso del pubblico mondiale al patrimonio dell´epistolario, i maggiori istituti di ricerca letteraria e archivi tedeschi hanno lanciato un appello per una grande colletta, in modo che l´asta sia vinta da un´istituzione pubblica.
Una storia affascinante ma triste, insomma: parlando di Kafka non potrebbe essere altrimenti. Per anni e anni, dalla più acerba gioventù fino alla morte nel 1924, Franz ebbe in Ottla la confidente preferita. Lui vedeva in lei, e glielo scrisse in tante lettere, il meglio dei temperamenti dei genitori: «Testardaggine e sensibilità, senso della giustizia, inquietudine, autoconsapevolezza della forza d´animo di noi Kafka». Lei, la più giovane, appariva sempre «grande, matura e forte» al fratello di nove anni più vecchio. Lui la adorava per la capacità di replicare con fermezza al padre, «a casa dove dimorano i giganti», la vedeva «senza detrimento per il mio affetto verso gli altri fratelli» come «di gran lunga la più cara». Franz scriveva a Ottla da ogni dove, da Weimar, da Versailles o dal Lago di Garda. Lui morì nel 1924, Ottla finì deportata dai nazisti ad Auschwitz-Birkenau. Nel 1943, Ottla si trasferì prima nel campo di Theresienstadt e a ottobre si unì volontariamente a un convoglio di bambini diretto ad Auschwitz, dove morì. Dopo la disfatta hitleriana nel 1945, i discendenti di Ottla ritrovarono quelle lettere, nel caos postbellico di Praga. Decisero di non rinunciare alla memoria. Conservarono alla meglio, ma accumulate in disordine in un cassettone, quelle 45 lettere, 32 cartoline postali e 34 cartoline illustrate fitte di saluti affettuosi e racconti buttati giù a penna. Dopo la fine della guerra fredda, le spedirono a Oxford per farle custodire.
Pagine straordinarie, rivelatrici. Nelle righe scritte con amore nel suo tedesco raffinato e letterario, Franz rivela di sentirsi, nel rapporto con Ottla, «una persona completamente diversa, rispetto a come sono davanti agli altri». Scrive affettuoso delle sue emozioni nei viaggi. Da Kratzau, dove «nel ristorante dell´albergo "Al destriero" ho assaggiato un ottimo vitello con frutti di bosco, innaffiato da buon sidro, poi la cameriera si è seduta accanto a me, abbiamo parlato delle onde del mare e dell´amore, poi ci siamo separati, tristi». O dalla Slesia, da cui Franz inviò a Ottla una spiritosa cartolina-fumetto intitolata «vedute della mia vita quotidiana qui», con disegni ironici a illustrare notti insonni, tavolate, incontri con gente del posto. Sotto c´è scritto: «E tu come stai? Natale si avvicina e porta gioia, t´interrogherò su come avrai vissuto il prossimo Natale». O ancora da Versailles, accennando a favole e sogni con appunti su una cartolina che illustra il giardino della reggia. O da Weimar, una cartolina che riproduce la casa di Goethe, con confessioni di tristezza.
Angoscia e gioia, incertezze e sollievi, confessati alla sorella più amata in quelle centoundici lettere e cartoline. È una delle raccolte più ampie dei manoscritti privati di Kafka quella che i discendenti di Ottla hanno saputo salvare e difendere dall´usura del tempo e dalle insidie della storia. E che ora - patrimonio pubblico della memoria del continente e del mondo - rischia di cadere nelle mani di qualche ricco privato.

Repubblica 30.1.11
La strategia dell'insetto
di Massimo Rizzante


Rileggendo le Lettere di Franz Kafka ai suoi amici, ai suoi genitori, alle sue donne, alla sorella Ottla, ci si rende conto di come la discrezione, il pudore e la volontà di restare dietro le quinte alimentino la tonalità maggiore dell´epistolario, cioè il suo stile pieno di humour, di sfumature malinconiche e bizzarre, di distacco carico di comprensione per gli elementi apparentemente più infimi delle cose. Nelle Lettere una solitudine inseparabile dalla costruzione dell´opera getta continuamente ponti levatoi verso la vita degli altri per poi, come nel caso di Felice e di Milena, le due donne con cui Kafka pensava di sposarsi, ritirarli. Ogni lettera sembra un tentativo di uscire dal castello dei propri fantasmi per partecipare alla guerra dei fantasmi altrui, per poi sottrarsi allo scontro decisivo.
Nelle Lettere troviamo spesso la metafora della guerra. A Max Brod, Kafka, già molto malato, scrive: «Sì, è credibile che la tubercolosi venga arginata, tutte le malattie finiscono con il venir arginate. Lo stesso avviene nelle guerre, ciascuna è portata a termine e nessuna finisce». Non si tratta di viltà o di disperazione. Che senso ha disperarsi se nessuna guerra, come nessuna malattia, finisce, ma può essere solo «portata a termine»? Lo stesso si potrebbe dire delle altre guerre che Kafka condusse nel corso della sua esistenza: la guerra con il padre, la guerra con il mondo femminile, la guerra con la letteratura… Tutte queste guerre l´autore de Il processo le arginò e le portò a termine grazie a un´ostinata strategia difensiva. Adorno affermò una volta che Kafka non predicava l´umiltà, bensì «l´astuzia». Kafka non era, come il suo grande amico Max Brod sosteneva, «un santo del nostro tempo». La sua modestia «soprannaturale» non gli ha impedito di frequentare i bordelli e di scoprire nella sua opera la sessualità, occultata per tutto il Diciannovesimo secolo, come parte integrante, perfino banale dell´esistenza. La sua umiltà era un´astuzia per disertare il mondo al fine di meglio esplorarlo.
Da qui si comprende la tonalità maggiore delle Lettere, quel suo distacco pieno di humour. Ma allo stesso tempo ci suggerisce la distanza che separa la biografia dall´opera: l´immaginario erotico che produce il coito tra K. e Frieda su un pavimento coperto di sporcizie e pozze di birra del Castello non traspare nelle lettere alle sue amate. Per entrare nell´opera, Kafka ha bisogno della sottrazione finale, di ritirarsi dalla guerra dei fantasmi altrui, di sollevare tutti i ponti levatoi che le Lettere hanno gettato. Nel racconto Una vecchia pagina, un calzolaio, che ha il suo laboratorio nella piazza dove si trova il palazzo dell´Imperatore, assiste all´arrivo di un popolo barbaro, dalla lingua incomprensibile, che depreda tutto. Egli guarda un macellaio che per salvarsi dai barbari porta nel suo negozio un bue vivo. E che cosa fa? «Mi ammucchiai addosso tutti i miei vestiti, le coperte e i guanciali pur di non sentire i muggiti di quel bue che i nomadi assalivano da ogni parte per strappargli coi denti brandelli di carne viva». Nell´Altro processo, Canetti, si domanda: «Si può dire davvero che il narratore si sottrasse all´intollerabile?». Il calzolaio, di fronte all´orrore, si stende al suolo e cerca di sparire, desidera farsi invisibile, diminuire il suo peso.
Nell´opera di Kafka, l´uomo si trasforma a volte in un piccolo animale che non riesce neppure a sollevarsi dal suolo. Kafka conosceva bene ciò che egli stesso ha definito una volta, in una lettera a Felice, «l´angoscia della posizione eretta», che è a fondamento di ogni potere dell´uomo sugli altri uomini. Non dobbiamo andare troppo fieri della nostra posizione eretta, scrive Kafka a Felice. Ma, per cercare di sottrarsi ai diktat di ogni potere, foss´anche quello dell´amata, e per vincere la sua guerra con la letteratura, Franz Kafka si è trasformato in qualcosa di ancora più insignificante, senza peso, in un insetto.

venerdì 28 gennaio 2011

l’Unità 28.1.11
Veltroni torna all’attacco: il problema non sono le primarie ma le correnti e le clientele
I parlamentari vicini al segretario: se vogliamo salvarle, necessarie modifiche sul modello Usa
Il caso Napoli infiamma il Pd Bersani: «Candidato unitario»
Il leader del Pd chiede a tutti i candidati «un atto di generosità» per arrivare poi a «un nome che unisca». Per l’ex segretario i vertici del partito avrebbero dovuto lavorare meglio sulla candidatura di Cantone
di Simone Collini


L’Assemblea nazionale del Pd non è solo slittata, non si farà più a Napoli: troppe tensioni, soprattutto ora che Bersani ha chiesto a tutti i candidati delle primarie di fare un passo indietro «Chiedo un atto di generosità per la ricerca di una candidatura comune, serve un nome che unisca tutti in una battaglia vincente» e ha deciso di commissariare fino alle elezioni amministrative il partito partenopeo (da Roma partirà il responsabile Giustizia Andrea Orlando). Ma quanto avvenuto nella città partenopea sta provocando altre ripercussioni anche a livello nazionale, sia nel Pd che nei rapporti tra le forze di centrosinistra. E non bastano a sciogliere i nodi le frenetiche telefonate di Bersani, Bassolino, D’Alema e di altri dirigenti nazionali e locali. Per non parlare della fumata nera con cui si chiude il vertice alla sede del Pd tra i responsabili degli Enti locali dei partiti che hanno organizzato le primarie: Sinistra e libertà che diserta l’incontro e dice che «il problema è il Pd napoletano» e che ora si sta provando a «delegittimare le primarie», mentre Di Pietro oggi a Napoli lancerà De Magistris. «Il fatto è che ognuno sta utilizzando questa vicenda per giocare una sua partita», sospirano al Nazareno alla fine di un’altra giornata difficile, in cui basta poco per acuire sospetti e dissidi che ultimamente sembravano, se non superati, quanto meno attenuati.
IPOTESI DI MODIFICHE PER LE PRIMARIE
Si comincia in mattinata con la riunione dei parlamentari e dirigenti Pd che stanno dando vita a una sorta di corrente del segretario («Per l’Italia»). Incontro breve ma che è bastato per fare il punto non solo sulle primarie di Napoli, ma sullo strumento in generale. L’opinione prevalente emersa è che se lo si vuole salvaguardare c’è bisogno di apportare modifiche. A cominciare dall’obbligo di iscriversi ad un albo degli elettori prima del giorno del voto ai gazebo (come negli Stati uniti), e dalla necessità di introdurre un meccanismo che consenta di vincere soltanto a chi abbia ottenuto una maggioranza davvero ampia (come avviene per l’elezione del segretario nazionale, e non come è avvenuto a Napoli dove tra il primo e il secondo c’è stato uno scarto di un migliaio di voti). Un seminario del Pd ad hoc sarà organizzato a febbraio.
Alla riunione non hanno partecipato i parlamentari vicini a Rosy Bindi e a Enrico Letta, che pure hanno sostenuto Bersani al congresso. Nessuno contesta la nascita di una nuova area organizzata all’interno del partito, (anche perché a Letta fa capo l’associazione “360” e a Bindi “Democratici davvero”). Ma se al presidente del partito non è sembrata una buona idea rinunciare all’Assemblea di Napoli, al vicesegretario non ha fatto piacere la stroncatura del responsabile Economia Stefano Fassina alle proposte lanciate al Lingotto da Walter Veltroni. E se il veltroniano Tonini parla di «caricatura sgradevole», anche per i lettiani il rischio è che il Pd appaia all’inseguimento della Fiom, con cui Fassina ieri ha sfilato a Bologna.
LE PREOCCUPAZIONI DI VELTRONI
Quanto all’ex segretario, che già aveva espresso «preoccupazione»quando la segreteria chiedeva di non alimentare le polemiche e di lasciar lavorare gli organismi di controllo, con i suoi non ha nascosto di essere deluso per come da tempo è stata gestita la vicenda (si sarebbe potuto ottenere la candidatura di Raffaele Cantone, è il ragionamento, se i vertici del partito ci avessero lavorato meglio) e di temere per quello che considera non un semplice «strumento», ma una delle «ragion d’essere» del Pd: «Il problema non sono le primarie ma i fenomeni di clientelismo, il sistema correntizio che è il contrario di un partito aperto come deve invece essere il Pd». E anche l’ipotesi di un albo a cui sia necessario iscriversi precedentemente per poi poter partecipare, vede contrario Veltroni proprio perché rischia di essere un meccanismo troppo vicino all’iscrizione e contrastante con l’idea di partito aperto.

Corriere della Sera 28.1.11
Bersani commissaria i democratici a Napoli. Una settimana cruciale
«Ora un candidato comune per il sindaco» . I veltroniani: ma le primarie vanno difese
di Monica Guerzoni


Primarie, indietro tutta. Per placare la tempesta di Napoli che fa ballare la barca democratica, il timoniere Pier Luigi Bersani commissaria il Pd nella regione sconvolta dai brogli ai gazebo e lancia un appello a tutte le anime del partito. «Chiedo un atto di generosità per la ricerca di una candidatura comune» , è lo stop di Bersani ai duellanti, il vincitore Andrea Cozzolino e lo sconfitto (con onore) Umberto Ranieri. Il quale ha già preso distanze dalla mischia. Ma il clima è pessimo. I veltroniani si schierano in difesa delle primarie, i bersaniani guardano con sospetto alle mosse di Veltroni, e i popolari incassano come uno schiaffo la decisione di affidare ad Andrea Orlando, «un altro ex ds» , la gestione della federazione fino alle amministrative. «Nicola Tremante era l’unico segretario ex ppi della Campania — lamenta Beppe Fioroni —. Condivido il giudizio lusinghiero di Roberto Saviano, purtroppo però l’hanno commissariato» . Se Bersani ha scelto Orlando, responsabile Giustizia, è per portare a Napoli un «elemento di novità» e per monitorare una situazione politica che il segretario riconosce «difficile» . Enrico Letta descrive un Pd che ha «perso la testa tra assedi, occupazioni, intimidazioni» , e invita tutti a riflettere per «non consegnare Napoli a Berlusconi» . Bersani non vede altra via d’uscita che non sia un volto nuovo, non bruciato dalla guerra tra fazioni. Dopo i brogli, le denunce e l’annullamento dell’assemblea programmatica prevista per oggi, l’aria nel capoluogo non sembra propizia alle discese in campo. Lucia Annunziata si è tirata fuori, mentre continua a girare il nome del procuratore di Nola, Paolo Mancuso. E c’è persino chi confida nell’entrata in gioco di Saviano... La Commissione di garanzia è al lavoro, ma non basta. «Azzerare tutto» è la formula della segreteria, per nulla insensibile al ruolo svolto proprio da Saviano. L’autore di Gomorra ha rilanciato il magistrato Raffaele Cantone, la cui candidatura era stata proposta all’Eliseo da Walter Veltroni, il 26 novembre. Ma la doppia investitura rischia di mettere a disagio Bersani. «La proposta di Saviano è la migliore» , apre Pina Picierno, vicina a Franceschini. Il magistrato anticamorra ha detto «no grazie» , però i veltroniani non disperano. Ma ora il Pd ha problemi più urgenti. Come dice il responsabile Enti locali Davide Zoggia, urge «trovare una soluzione che metta in sicurezza il centrosinistra» . Ci ha provato il tavolo nazionale della coalizione, e l’esito del primo incontro è una plateale spaccatura. Pd, Federazione della sinistra e Verdi sono per il «superamento» delle primarie, mentre il partito di Vendola (Sel) e i Socialisti chiedono di non rinunciare al voto degli elettori. Il tavolo è stato aggiornato a martedì, quando la riunione durerà a oltranza fino a una decisione. Trovare un accordo non sarà facile. «Se il Pd non è in grado di svolgere primarie regolari farebbe bene a dichiarare fallimento e portare i libri in tribunale» , attacca Mario Barbi, che era al Lingotto. Bersani è deciso a «riformare le primarie» . E i veltroniani sono pronti alle barricate. «Se le stoppi fai danno — avverte Fioroni — e lasci una prateria ad altri» . Walter Verini invita a tutelare il «dna» del Pd: «La malattia è il correntismo esasperato, le primarie sono il termometro che misura la febbre» . Altro che tregua dopo il Lingotto, la tensione è di nuovo altissima. Matteo Orfini critica Veltroni per aver parlato in tv dei cinesi in fila («alle sue primarie c’erano i filippini...» ) e si augura che il caos di Napoli «serva a riflettere su uno strumento che si è rivelato dannoso» , come lui stesso aveva avvertito. Sullo sfondo, lo spauracchio di un Veltroni che starebbe meditando di scendere in campo contro Bersani. I suoi smentiscono con forza, ma Orfini ironizza: «Se Veltroni si vuole candidare a premier può farlo anche senza primarie. Lo conosciamo bene, non c’è bisogno che ci mandi il curriculum...» .

l’Unità 28.1.11
Donne, ora si va in piazza
Oltre 60mila firme all’appello on line dell’Unità

Domani a Milano con una sciarpa bianca Il 13 febbraio mobilitazioni in tutta Italia

Superato il giro di boa delle 60mila firme in una settimana su Unita.it, le “madri, nonne, figlie, nipoti” chiamate a raccolta da Concita De Gregorio su queste pagine scendono in strada a manifestare. L'appuntamento è per domani, sabato 29 gennaio alle 15, in piazza della Scala, a Milano. Un assaggio di quella che sarà la mobilitazione nazionale il 13 febbraio, "Se non ora quando", a cui l'Unità aderisce con il direttore Concita De Gregorio. Una mobilitazione, quella di Milano, per ridare dignità all'Italia, come scrivono le promotrici: «Con un simbolo da condividere: una sciarpa bianca del lutto per lo stato in cui versa il Paese. E uno slogan: ‘Un'altra storia italiana è possibile’. Ci saremo con le nostre facce. Appuntandoci sulla giacca una fotocopia della nostra carta di identità con su scritto chi siamo: cassaintegrate, commesse, ricercatrici precarie, artiste, studentesse, registe, operaie e giornaliste». Un appuntamento che anticipa, dunque, la grande giornata di mobilitazione indetta per il 13 febbraio in tutte le grandi città italiane. «Il modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato – scrivono le promotrici – legittima comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni. Chi vuole continuare a tacere lo faccia assumendosene la pesante responsabilità. Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignità e diciamo agli uomini: se non ora, quando?» All'appello si può aderire inviando una mail a mobilitazione. nazionale.donne@gmail.com. Tra le firmatarie: il segretario della Cgil Camusso, le parlamentari Turco, Bongiorno e Perina.

l’Unità 28.1.11
A Bologna migliaia di lavoratori alla manifestazione dei metalmeccanici della Cgil
Fischi durante l’intervento della segretaria generale, oggi si fermano le fabbriche italiane
Fiom: ora lo sciopero generale Ma Camusso non ne parla
Almeno 30mila persone ieri in piazza a Bologna per il primo sciopero regionale della Fiom. Lavoro e diritti tornano al centro della scena e conquistano la città. Ovazioni per Landini, qualche fischio alla Camusso.
di Claudio Visani


La classe operaia non è morta. Gli operai esistono, e tornano a farsi sentire nelle piazze. Sono tanti: 30, forse 40 mila in Piazza Maggiore a Bologna, per questo primo sciopero regionale anticipato in Emilia-Romagna. E con loro ci sono anche studenti, intellettuali, scrittori, politici, tanti cittadini. Il lavoro e i diritti conquistano la città, che parteggia per le tute blu e diffida di Marchionne, del Governo del «bunga bunga» che vuole togliere ancora a chi fatica di più e meno ha. La protesta conquista anche i cuori, perchè «senza cuore saremmo solo macchine», dice un cartello. E chiama a gran voce una protesta più grande: lo sciopero generale «per battere Confindustria, cambiare la politica e il governo del Paese», come invoca il segretario nazionale della Fiom, Maurizio Landini, al termine del suo appassionato e applauditissimo comizio; «sciopero generale subito» come urlano alcune centinaia di studenti, precari e giovani dei centri sociali che hanno conquistato il centro della piazza e che contestano per tutta la durata del suo intervento, anche se in modo soft, la segretaria della Cgil, Susanna Camusso, che di sciopero generale non parla. Una scena che ricorda quella della manifestazione del 16 ottobre scorso a Roma, quando un gruppo di manifestanti tirò per la giacchetta dello sciopero generale l'ex segretario, Guglielmo Epifani.
Camusso deve alzare il tono della voce. Dal palco attacca Federmeccanica, Fiat, Confindustria e il Governo. «Non è la Fiom che tiene lontani gli investimenti stranieri dall'Italia, bensì l'immagine che il Governo sta dando dell'Italia all'estero. Se il nostro Presidente del Consiglio la smettesse di essere lo zimbello del mondo, forse le cose andrebbero diversamente». Alla Fiat dice che «non si può governare una fabbrica come se fosse una caserma». E avverte Federmeccanica e Confindustria che «se inseguiranno quel modello, la Cgil sarà al fianco dei lavoratori e della Fiom», perchè «lo sciopero dei metalmeccanici, cominciato da Bologna, vuole affermare proprio il nostro no al modello Fiat, a chi vuole cancellare il contratto nazionale e peggiorare le condizioni di lavoro». E conclude annunciando «una grande campagna per la democrazia e la dignità del lavoro», perchè «un Paese che non ha dignità e non rispetta la democrazia non rispetta nessuno di noi»; perchè «i lavoratori devono avere il diritto di scegliere a quale sindacato iscriversi e di eleggere i loro rappresentanti».
Ma slogan e fischi non si fermano, e diverse persone lasciano la piazza prima della fine del comizio. La reazione degli altri 30-40mila è comunque freddina, con pochi applausi. Quando scende dal palco, ai cronisti che le chiedono un commento, Camusso non risponde. «Basta, ho già parlato». E il suo staff si limita a dire che «a contestare erano solo una trentina». Pure Landini ridimensiona, non vuol sentire parlare di contestazione a Susanna Camusso: «Ho sentito una richiesta forte di
sciopero generale, non altre cose. Ho visto invece nella piazza un consenso generale all'iniziativa di oggi e alla manifestazione. Questa a me pare la notizia vera, non trasformiamo qualche fischio nella notizia».
Poi aggiunge: «Il tema c'è, mi pare che abbia un consenso ampio. Anch'io penso che sia necessario, e che ci si arriverà. Ma non si decide qui, in una manifestazione. La discussione è aperta, il direttivo della Cgil è già convocato». «Lo strumento di per sé – continua Landini non è in grado di cambiare le cose, ma dà un messaggio forte e chiaro, unifica le persone. Dice a Confindustria che se mantiene queste posizioni si aprirà una fase di conflitto più esteso. E serve a contrastare un Governo che sul lavoro, soprattutto col ministro Sacconi, sta facendo danni senza precedenti».
È stata, in ogni caso, una grande manifestazione. Il lungo corteo per i viali e le vie del centro. La piazza strapiena. Davanti al palco, gli striscioni delle fabbriche emiliano-romagnole della Fiat: Ferrari, Maserati, Magneti Marelli, Cnh. Sul palco un grande striscione: «Il lavoro è un bene comune». E gli annunci che parlano di adesioni allo sciopero dell'80, 90, 100% nelle fabbriche. Uno sciopero «sbagliato, tutto politico» per Cisl, Uil e Sacconi.

Repubblica 28.1.11
Eric Hobsbawm
"La fine del comunismo ha permesso a Marx di diventare un bestseller"


L´intervista/ Il grande storico inglese ha scalato le classifiche grazie al suo ultimo saggio sul filosofo tedesco
"Grazie al crollo dell´Urss è stato possibile rileggere i suoi testi e capirne l´attualità"
"L´idea di dover affrontare le diseguaglianze sociali resta fondamentale"

LONDRA. Eric Hobsbawm ha 93 anni e, oggi, è diventato un autore di bestseller. Grazie al suo ultimo saggio su Marx, How to change the world: tales of Marx and Marxism, come cambiare il mondo. Ristudiando Marx. La lezione del celebre storico, appassionato di jazz, ha scalato le classifiche inglesi. Una sorpresa anche per lui che da anni vive ad Hampstead, a breve distanza dalla brughiera che confina con il cimitero di Highgate dove è sepolto Marx.
Nel primo capitolo del suo libro scrive che Marx è «ancora un grande pensatore del nostro tempo». E che, paradossalmente, «sono stati i capitalisti a riscoprirlo e non i socialisti».
«Ci sono due ragioni che spiegano la sua importanza. Innanzitutto la fine del marxismo ufficiale dell´Unione Sovietica ha liberato Marx dall´identificazione con il leninismo e con i regimi leninisti. In questo modo è stato possibile recuperare il suo pensiero e quel che aveva da dire riguardo al mondo. Ma, soprattutto, il capitalismo globalizzato che si è sviluppato dagli anni 1990 era quello descritto da Marx nel Manifesto. Lo si è capito nella crisi del 1998: anno durissimo per l´economia globale nonché 150esimo anniversario di questo piccolo e sorprendente opuscolo. Ma, appunto, questa volta furono i capitalisti e non i socialisti a riscoprirlo. Forse i socialisti erano troppo imbarazzati per celebrare questo anniversario».
Quando ha capito che Marx era tornato?
«Fui contattato dal direttore della rivista che United Airlines pubblica per i suoi passeggeri, che sono quasi tutti uomini d´affari americani. Avevo scritto un articolo sul Manifesto: mi chiesero di poterlo pubblicare, erano interessati al dibattito. Qualche tempo dopo George Soros mi chiese che cosa pensavo di Marx. Lì per lì diedi una risposta ambigua. "Quell´uomo – disse Soros – scoprì 150 anni fa qualcosa sul capitalismo di cui dobbiamo tener conto oggi". Non c´è dubbio che Marx sia tornato al centro della scena».
Ci sono anche altri segnali?
«Ci sono anche quelli più frivoli, simboli di una moda. C´è stato un sondaggio della Bbc che l´ha eletto come il filosofo più grande. O il fatto che se digitate il suo nome su Google, tra gli intellettuali è superato soltanto da Darwin ed Einstein, ma viene prima di Adam Smith e Freud».
Nel libro cita il modello di un "capitalismo dal volto umano" che esisteva prima degli anni Reagan-Thatcher. Oggi c´è ancora?
«Queste tesi fanno parte della tradizione di molti paesi capitalisti, dalle socialdemocrazie riformiste alle dottrine sociali cristiane. I profitti economici devono essere uniti a misure che assicurino il benessere della popolazione, non fosse altro che per evitare pericoli sociali e politici creati da squilibri eccessivi. Queste idee nacquero come reazione allo sviluppo dei partiti laburisti e socialisti alla fine del diciannovesimo secolo e ancora adesso, per fortuna, distinguono l´Europa occidentale dagli Stati Uniti».
Quali sono i paesi in cui resistono?
«I paesi più piccoli che sono riusciti a crearsi nicchie relativamente sicure nell´economia globale possono combinare lo sviluppo delle imprese private con i servizi pubblici: penso all´Austria e alla Norvegia. Questi sistemi servono a ridistribuire il reddito sociale e per questo sono cuscinetti indispensabili».
Qual è stato l´effetto più evidente della globalizzazione?
«Ha privato gli Stati delle risorse per la distribuzione del benessere pubblico, a causa della de-industrializzazione e dello spostamento dell´economia mondiale verso l´Oriente. Fino al crollo del 2008 questo processo è stato accelerato e non governato. Con un indebolimento sistematico delle istituzioni pubbliche a spese di uno straordinario arricchimento privato».
Che cosa serve adesso?
«Intanto la modifica di alcuni rapporti. L´ostilità del neo-liberismo ai sindacati, incoraggiata da politiche sindacali miopi, è stato un elemento del disastro. Così il capitalismo dal volto umano è possibile, ma solo se i governi e i ricchi cominciano a preoccuparsi del problema».
Tra le sue suggestioni c´è quella di cominciare a «prendere Marx seriamente». Ma sostiene anche la necessità di "ricalibrarlo". Cosa significa?
«L´analisi fondamentale dello sviluppo storico fatta da Marx resta valida. Ma, quella che egli chiamava "la società borghese", non era e non poteva essere la fine del capitalismo. Era una fase temporanea, come lo sono state altre. Quello che resta vero è che si creano profonde ineguaglianze sociali e morali. Il socialismo, come lo intendeva Marx, e ancora di più il comunismo si sono dimostrati fallimentari. Eppure torna attuale la necessità di risolvere i problemi con azioni pianificate dai governi e dalle autorità pubbliche».
Ma l´idea di Stato, oggi, è completamente cambiata.
«Infatti. Per questo penso ad azioni di autorità globali sovranazionali. Può essere difficile da immaginare se non considerando accordi tra super Stati politicamente decisivi ma non si può lasciare tutto il potere alla finanza privata. I problemi sono evidenti a tutti, Marx ci ha offerto un metodo: il pubblico deve poter governare il cambiamento, le disuguaglianze devono essere ridotte dallo Stato».
Quali sono i problemi principali?
«La crescita della popolazione e della produzione. Badate: non sono problemi in sé, ma lo diventano per il catastrofico impatto che in queste condizioni hanno sull´ambiente. In più se il centro di gravità del mondo si sposta dai vecchi imperi industriali a quelli emergenti si creano nuove instabilità e pericoli».
Di che tipo?
«Le vecchie economie occidentali ora in declino perdono il loro livello di vita e quelle emergenti sognano di raggiungere i livelli di vita dell´Occidente. Questo provoca una doppia pressione: su chi sta vedendo tramontare il suo status e su chi fa di tutto per accrescerlo. È questo che sta mettendo in crisi l´idea di sviluppo».
Ma come si può essere marxisti oggi?
«Non possiamo ritornare all´Ottocento, è evidente. Non possiamo mettere a rischio, neppure per un momento, il progresso intellettuale e le conquiste, politiche, sociali e di libertà, ottenute negli ultimi due secoli dagli uomini e dalle donne. Ma dobbiamo cercare un nuovo equilibrio tra pubblico e privato, tra l´idea di sviluppo e la sua sostenibilità in questo nostro mondo. Per questo nostro mondo».

l’Unità 28.1.11
E oggi la protesta arriva in tutte le piazze d’Italia Landini sarà a Milano
Sono previste 21 manifestazioni. A Torino comizio conclusivo di Airaudo, a Termini Imerese di Masini. A Milano due cortei, si collega Gino Strada. Attesi migliaia di lavoratori, studenti, esponenti politici e dei movimenti.
di Laura Matteucci


E oggi sciopera il resto d’Italia. Per la giornata di protesta dei metalmeccanici della Cgil sono previste 17 manifestazioni regionali e 4 provinciali, con la partecipazione di molti esponenti Pd, Sel, Prc, del Popolo Viola, oltre che di studenti e movimenti. Lo sciopero è stato indetto contro la Fiat come anche contro Federmeccanica che, come dice il leader della Fiom Maurizio Landini, «con le sue proposte sta inseguendo il Lingotto su una strada che è un danno per i lavoratori ma anche per il sistema delle imprese».
LA MAPPA
E Landini oggi sarà a Milano per il comizio conclusivo in piazza Duomo. Due i cortei: il primo parte da Porta Venezia alle 9,30, attesi anche Gad Lerner, il leader di Emergency Gino Strada in collegamento telefonico e don Andrea Gallo. Il secondo è quello organizzato dal Coordinamento dei collettivi studenteschi e partirà alle 9,30 da Largo Cairoli. A Cassino, sempre alle 9,30, concentramento davanti alla Stazione. Un corteo raggiungerà piazza Alcide De Gasperi. A Torino confluiranno 35 pull-
man: il corteo partirà da Porta Susa intorno alle 9 diretto a piazza Castello. Interviene Giorgio Airaudo, segretario nazionale Fiom-Cgil responsabile del settore auto. Giorgio Cremaschi, presidente del Comitato centrale Fiom, sarà invece a Padova, dalle 9 in piazzale della Stazione. Manifestazione regionale a Pomigliano D’Arco (Napoli), con concentramento alle 10 alla rotonda Alfa Romeo (zona industriale). Comizio conclusivo in piazza Primavera nel corso del quale prenderà la parola Francesca Re David, responsabile dell’organizzazione Fiom-Cgil. A Termini Imerese (Palermo), dove ha sede lo stabilimento auto che Fiat intende chiudere a fine anno, conclusioni di Enzo Masini, coordinatore nazionale auto della Fiom. Manifestazione regionale anche a Melfi dove si trova il più grande stabilimento Fiat del sud.
Manifestazioni anche a Bolzano, Udine, Genova, Savona, La Spezia, Imperia. Manifestazione regionale a Massa, con concentramento alle 9,30 davanti allo stabilimento della Eaton: la multinazionale statunitense proprietaria, attiva nel campo della componentistica auto, ne ha minacciato la chiusura. E altre a Perugia, ad Ancona, a Lanciano (Chieti), a Termoli, ove ha sede uno stabilimento del gruppo Fiat, a Bari, a Vibo Marina (Vibo Valentia). Infine, il corteo di Cagliari (concentramento in piazza Garibaldi alle 9) sarà diretto a piazza del Carmine, per il comizio conclusivo nel corso del quale per la Fiom prenderà la parola Fausto Durante.

l’Unità 28.1.11
Intervista a Abdel Galil Mustafa
«È l’Intifada della rabbia. Contro Mubarak i giovani senza un futuro»
Il braccio destro dell’ex direttore dell’Aiea: «Contro il regime è sceso in campo l’intero Paese Il raìs deve dimettersi, vogliamo libere elezioni»
di U. D. G.


Questa sollevazione non avrà termine fino a quando Hosni Mubarak e il figlio Gamal non annunceranno che rinunciano alla candidatura alle prossime elezioni presidenziali», previste per settembre. A parlare è Abdel Galil Mustafa, portavoce dell’uomo che in molti, dentro e fuori l’Egitto, considerano l’alternativa laica e progressista al regime del «Faraone»: Mohammed El Baradei, l’ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), premio Nobel per la pace e fondatore dell’Assemblea nazionale per il cambiamento. Mustafa si dice convinto che l«'Intifada della collera sarà un punto di svolta nella storia del popolo egiziano perché vi partecipano tutte le componenti della società e tutte le forze politiche». Mustafa è in contatto continuo con El Baradei: «Lui dice Mustafa è una risorsa per l’Egitto. Un leader che può unire ciò che il regime ha diviso, dando una speranza di futuro al popolo egiziano» «Siamo noi aggiunge ad aver per primi appoggiato le richieste dei giovani in piazza. Con loro chiediamo lo scioglimento delle due Camere e dei consigli locali, la formazione di un governo di salvezza nazionale,, la fine dello stato di emergenza, la liberazione di tutti i detenuti politici, in primis di quelli arrestati nei giorni scorsi».
L’Egitto si infiamma. Cosa rappresentano le manifestazioni di questi giorni? «Rappresentano uno spartiacque, un punto di non ritorno e, al contempo per usare una frase cara a Barack Obama, un possibile, concreto, straordinario “Nuovo Inizio” per l’Egitto. La forza della protesta sta nel fatto che a prendervi parte non è un segmento della società egiziana ma tutte le sue componenti. Mubarak si illude se pensa di poter fermare con i blindati il corso della Storia. Oggi il rais ha contro i giovani che sono il futuro del Paese». C’è il rischio che la protesta possa degenerare?
«La nostra intende essere una rivolta democratica, popolare, non violenta. Chi punta allo scontro fa il gioco di un potere che ha governato per trent’anni con le leggi di emergenza, militarizzando la politica, occupando le istituzioni. Questa non è stabilità, è tenere un Paese in ostaggio. Noi vogliamo uscire da questo tunnel, e per questo occorre che la transizione sia pacifica».
Perché ciò possa accadere, cosa chiedete al presidente Mubarak? «Di fare un passo indietro e uscire di scena. La sollevazione non avrà termine fino a quando Mubarak e il figlio Gamal non annunceranno che rinunciano alla candidatura alle prossime elezioni (previste per settembre, ndr)».
Anche in Egitto si respira il «profumo di gelsomini» di Tunisi? «Ciò che si respira è il profumo della libertà. Un profumo inebriante che non conosce confini. Oggi l’Egitto ha bisogno di voltare pagine, e per farlo occorre responsabilizzare le sue energie migliori, per dar vita a un governo di unità nazionale che conduca il Paese sulla strada della democrazia, della giustizia sociale, della tolleranza». Una strada da percorrere anche con i Fratelli Musulmani?
«Con tutti coloro che accettano le regole del dialogo, del pluralismo, e che intendono partecipare alla costruzione di un “Nuovo Egitto”. Non saremo noi a costruire nuovi steccati».
Lei è il più stretto collaboratore di Mohammec El Baradei. C’è chi vede in lui l’anti-Mubarak... «El Baradei è un uomo che ascolta, che lavora per unire, fuori da qualsiasi logica di fazione. Crede nelle regole democratiche e per questo si è rifiutato di partecipare a elezioni farsa come quelle del novembre-dicembre scorsi. Se il popolo lo chiederà, è pronto ad assumersi le sue responsabilità. Ma oggi non è questa la priorità. Oggi occorre rafforzare ed estendere l’Intifada della collera. E la giornata di domani (oggi, ndr) sarà decisiva».
Cosa si sente di chiedere all’Europa?
«Di non parteggiare per il vecchio regime e comprendere che la stabilità non si garantisce con i carri armati, e che l’antidoto migliore contro ogni estremismo è la democrazia»

La Stampa 28.1.11
Intervista
“I leader li decide il popolo No alle auto-investiture”
Ayman Nour: Mubarak ceda, rischia un bagno di sangue
di Pao. Ma.


«La rivoluzione è cominciata: al regime resta solo da decidere se sarà pacifica o sanguinosa». Ayman Nour non ha ancora perso la voglia di sfidare Mubarak. Nel 2005 il leader del partito El Ghad, il domani, divenne un’icona della libertà, dopo il suo arresto. La pressione internazionale obbligò il governo egiziano a rilasciarlo e lui si candidò alle presidenziali, prendendo il 7% dei voti secondo le stime ufficiali, e il 13% secondo gli osservatori indipendenti. Poco dopo, il 24 dicembre 2005, venne condannato a cinque anni di prigione. Adesso Nour è uscito e si ritrova in mezzo alla rivolta dei giovani: «È una svolta. Non era mai successo prima che la gente comune, i ragazzi, riuscissero a mobilitare tante persone attraverso Internet. È una nuova generazione, molto delusa, che si affaccia sulla scena: il regime non può più fare finta di niente». Oggi, giorno della preghiera, sono previste manifestazioni in tutto il Paese: lei parteciperà? «Certo, sarò in piazza con i ragazzi».
Che cosa volete? «Lo avete sentito dagli slogan: la caduta di Mubarak». Il regime potrebbe fare concessioni per risolvere la crisi? «Sì: annullare le leggi speciali, combattere la corruzione, indire elezioni libere per il Parlamento e la presidenza, e garantire che Mubarak non deciderà il suo successore».
E se il regime non vi ascoltasse? «La reazione dei giovani diventerebbe inevitabile. L’ora del cambiamento è arrivata. Può realizzarsi in maniera pacifica, se il governo capirà la situazione e si comporterà con saggezza. Altrimenti avverrà in un altro modo».
Prevede violenze? «Le temo, non posso escluderle». Cosa succederà dopo le proteste in programma oggi? «Dipende dalla risposta del regime. Se continuerà a puntare sulla repressione, tutto diventa possibile. Magari domani la protesta si fermerà, ma prima o poi riprenderà con maggior forza, perché ormai la valanga ha iniziato a rotolare». È vero che i partiti di opposizione non hanno avuto un ruolo nell’organizzazione? «Sì, è stata la reazione spontanea di una giovane generazione esausta. Perciò è un fenomeno potente e inarrestabile». Alcuni analisti temono che i Fratelli Musulmani, o comunque l’estremismo islamico, si impadroniscano della protesta per conquistare il Paese. «La forza dei Fratelli Musulmani è stata esagerata dal regime, per terrorizzare l’Occidente e ottenere il suo appoggio col ricatto dell’estremismo islamico. Non è così, questi giovani sono laici e non permetteranno la nascita di uno stato confessionale». Mohamed El Baradei è tornato in Egitto, dicendosi pronto a guidare il Paese: lo sosterrà? «Chiunque rientra in Egitto per favorire la democrazia è benvenuto. Però attenzione: stiamo parlando, appunto, di democrazia. La leadership la decide il popolo con le libere elezioni, non le autoinvestiture». Se ci saranno, lei si candiderà alle prossime presidenziali? «Certo».

Repubblica 28.1.11
Padroni intraprendenti e operai sfruttati i due volti delle nostre Chinatown


Nell´89 a Prato i cinesi censiti erano 38. Oggi, ufficialmente sono 14mila ma nella realtà è probabile che il numero oscilli sui trentamila. Sulla "Chinatown toscana i numeri si rincorrono: 40, 50, 60mila. In ogni caso, sui circa 200mila che la diaspora cinese conta in Italia (la quinta etnia nel Paese), la comunità del triangolo produttivo Prato-Firenze-Pistoia è certamente tra le più importanti ed è, per densità, una delle maggiori in Europa.
L´immigrazione dalla Cina è un fenomeno maturato negli ultimi 25-30 anni, con un andamento e con connotati socio-antropologici che si sono via via modificati, in un rapporto molto sensibile con la madrepatria, paese che a cavallo del millennio è balzato dall´arretratezza economica ai vertici della classifica mondiale.
Sulle "Chinatown" italiane si è scritto molto. Via Sarpi a Milano, l´Esquilino con piazza Vittorio a Roma, l´area vesuviana a Napoli sono alcune delle aree a maggiore concentrazione. Di queste, e delle altre comunità, si è sempre immaginata un´organizzazione gerarchica. Una cupola riconosciuta, capace di tirare le fila all´interno del "fortino" etnico. Nella realtà, a parte le vicende di alcuni boss scoperchiate dalla magistratura, la struttura sociale è perlopiù una galassia di "padroni" che sfruttano lavoratori zagong, operai senza prospettiva di miglioramento. E poi imprenditori passati dal lavoro "massimamente flessibile" per società italiane a una propria filiera produttiva e in continua, spietata, competizione tra loro.
Un´analisi interessante è quella contenuta in "Ombre cinesi?", un saggio di Angela Ceccagno, Renzo Rastrelli e Alessandro Salvati (Carocci editore, 2008). Tra i molti aspetti presi in esame, c´è quello dell´organizzazione cinese che gestisce l´arrivo dei connazionali in Italia. Un´attività "di servizio" che si muove in quel territorio paludoso a metà strada tra il traffiking (reato contro i diritti fondamentali degli esseri umani) e lo smuggling (favoreggiamento di ingressi e transiti illegali nel Paese). La conclusione a cui sembrano arrivare gli studiosi è che si tratti soprattutto di smuggling.
(l. c.)

l’Unità 28.1.11
Marco Paolini e l’orrore della brava gente
L’evento Le centinaia di migliaia di disabili e malati di mente uccisi dai medici e dagli psichiatri del Terzo Reich. La banalità del male, le teorie pseudoscientifiche, le prove tecniche per i lager. Un brano dal monologo «Ausmerzen»
di Marco Paolini


Questi sono gli anni in cui stanno scomparendo i testimoni e abbiamo il dovere di continuare a raccontare la loro storia, le loro
storie. La drammatica vicenda portata in scena mercoledì sera da Marco Paolini a La7 con lo spettacolo «Ausmerzen» è stata resa nota grazie soprattutto al lavoro di medici psichiatri che hanno aperto le cartelle cliniche e gli archivi di luoghi di cura che durante il nazismo divennero luoghi di morte. «Stermini minori» forse rispetto ai luoghi della tradizionale memoria dell’Olocausto, ma soprattutto stermini per lungo tempo celati e rimossi. Non sono molti quelli che questa vicenda hanno studiato e divulgato; in Italia oltre alla psichiatria democratica, che vi ha dedicato approfonditi spazi di riflessione,alcuni studiosi appassionati. Il racconto di Paolini è stato scritto in collaborazione con uno di essi, Giovanni de Martis, e con l’associazione da lui presieduta Olokaustos, e con il fratello Mario Paolini, pedagogista che da anni si occupa di disabilità e formazione di operatori. È un racconto che vuole accompagnare il pubblico in un dialogo di conoscenza, di domande che si aprono, di dubbi scomodi.
«Nel territorio del Reich, tra il 1939 e il 1945 centinaia di migliaia di persone disabili e malati di mente, sono state uccise da medici e persone impiegate in servizi che dovevano essere di cura: chi dice 200.000, chi di più. Cittadini tedeschi: prima degli ebrei, prima degli zingari, prima degli omosessuali, prima dei comunisti: prima di tutti, furono passati per il camino i propri figli mal riusciti, in un mescolio di ragioni razziali pseudoscientifiche ed economiche, non apertamente dette ma sapientemente indotte per cui ciò che accadde per mano di pochi, accadde sotto gli occhi di tutti.
Questa storia non ha testimoni che l’hanno raccontata. I sommersi e i salvati non hanno avuto parola e per molto tempo non hanno avuto rivolte parole, perché erano «meno», perché alla domanda di Primo Levi «se questo è un uomo» ai protagonisti di questa storia una risposta era stata data molti anni prima, nel 1920, con un libro intitolato Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens (Il permesso di annientare vite indegne di vita).
È una storia che è stata schiacciata dai grandi numeri. Per anni è stata tenuta nascosta, la sua conoscenza e divulgazione sono state scientemente rimosse. Da chi? Perché? Come è potuto succedere che medici, infermieri, personale di cura, abbiano compiuto misfatti «di una tale insensibilità, cattiveria e sfrenata brama di uccidere e nello stesso tempo organizzato tutto in modo neutrale e burocratico, al punto che nessuno riesce a leggere queste cose senza un profondo senso di vergogna?», si chiede Alexander Mitscherlich in Medicina Disumana.
Come nelle moderne strategie per nascondere i profitti, si creavano comitati e società inesistenti. L’inganno delle parole. Il sistema di sterminio si fondava sulla collaborazione: il dipartimento facilitava la collaborazione dell'amministrazione pubblica, incluso il servizio sanitario, la cancelleria personale del Führer reclutava i medici, le infermiere e il personale per le uccisioni effettive; mentre i burocrati e i medici lavoravano affinché i genitori dessero il loro consenso.
Pochi uomini in tutto, in poco tempo, in poche parole. Tra il 1939 e il 1941 sono più di 70.000 le persone disabili e malate di mente uccise e tra loro oltre 5.000 bambini. Nel 1941 il programma ufficialmente cessa, per proseguire in modo meno eclatante ma paradossalmente per noi in modo molto più inquietante, all’interno di molte cliniche e ospedali psichiatrici in tutta la nazione, fino a dopo la fine della guerra
Questa è una storia sulla “banalità del male” che molti hanno sentito, moltissimi ignorano, pochi conoscono».

Repubblica 28.1.11
I bambini in pillole
I farmaci prescritti ai piccoli di età compresa tra zero e quattro anni sono aumentati del 29%. E l´eccesso di cura diventa una patologia
di Michele Bocci

Otto bambini su dieci hanno ricevuto almeno una prescrizione all´anno
"Bisognerebbe intervenire sullo stile di vita dei piccoli, come l´alimentazione"

La prima volta è successo a settembre, con l´inizio della scuola materna. A Pietro, 5 anni, è venuta la febbre con mal di gola e placche e il pediatra gli ha dato l´antibiotico. Quattro settimane dopo la guarigione, è arrivato il mal di orecchie. Questa volta ci ha pensato la mamma. Aveva ancora mezza scatola di amoxicillina in casa, ha visto il figlio con la febbre alta e ha rotto gli indugi. E Pietro, che vive a Firenze, ha fatto di nuovo l´antibiotico. Poi, prima di Natale, è stata la volta di un´influenza che ha coinvolto i polmoni spingendo il medico alla cautela: altra prescrizione, altro "derivato" della penicillina. Quattro mesi, tre antibiotici. E durante e dopo mucolitici, farmaci contro la febbre, integratori per rinforzare il sistema immunitario.
I bambini italiani prendono un sacco di medicine, con o senza la ricetta del pediatra. Soprattutto ne prendono di più di un tempo. Aumenta il consumo e aumenta il consumo scorretto, di chi usa un farmaco purchessia alla ricerca della guarigione immediata: magari sbagliando principio attivo e senza rispettare i tempi della cura.
Nel nostro paese, dice il rapporto Osmed sull´uso dei farmaci, tra il 2004 e il 2009 il numero medio di dosi giornaliere di medicinali rimborsabili (cioè di classe A) assunte tra 0 e 4 anni è aumentato del 29% e tra 5 e 14 anni del 19%. Soprattutto il primo dei due dati è molto alto. Nello stesso periodo nessun´altra classe di età ha avuto un incremento percentuale maggiore, anche se ovviamente quando si considerano gli anziani i numeri assoluti sono enormemente superiori, e trascinano la crescita media di consumo e spesa farmaceutica. C´è però un dato su cui i più giovani sono a livello dei più vecchi anche in termini assoluti: le ricette. Si calcola che nel 2004, 7 bambini da 0 a 4 anni su 10 ricevessero almeno la prescrizione di un farmaco all´anno, nel 2009 si passa a 8 su 10 (da 6 a 7 su 10 per la classe di età superiore). «Del resto le famiglie tollerano sempre meno i sintomi, che ci vengono descritti sempre come abnormi, e non vedono l´ora di rimandare il figlio a scuola. Con lui a casa sballa l´organizzazione familiare. Così molti malati non hanno tempo di guarire». A parlare è Paolo Sarti, il pediatra di Pietro (un nome inventato) e di decine di altri bambini come lui, che ha scritto per Giunti "Neonati maleducati - imparare ad essere genitori e riconoscere i propri errori".
La situazione è seria, anche se da noi non si toccano i livelli degli Usa dove, secondo una ricerca pubblicata dal Wall Street Journal, un quarto dei giovani prenderebbe medicine per problemi cronici. «L´aumento di consumo può essere anche dovuto allo spostamento in classe A di farmaci che un tempo non erano rimborsati, come gli antistaminici», tranquillizza Maurizio Bonati che dirige il laboratorio per la salute materno infantile del Mario Negri di Milano. «Certo i fenomeni preoccupanti ci sono, come l´uso di antidepressivi. In Italia stimiamo che li prendano almeno 30mia adolescenti». E i prodotti da banco o non rimborsabili? «È presumibile che questi medicinali segnino una crescita anche più accentuata ma è difficile calcolarla perché la spesa è a carico delle famiglie».
Le medicine che si comprano senza ricetta, come i mucolitici o certi antinfiammatori e antipiretici, sono al centro della partita dell´inappropriatezza, cioè dell´uso di prodotti che non servono per un determinato caso e addirittura potrebbero essere dannosi. Insieme a queste ci sono gli antibiotici (per cui è necessaria la prescrizione) spesso usati anche quando non si è certi dell´origine batterica del problema. Sul punto dell´appropriatezza e sull´aumento dei consumi la Fimp, federazione italiana dei pediatri e, l´Aifa, agenzia per il farmaco, stanno per avviare una campagna informativa con l´obiettivo di ridurre l´uso delle medicine e spingere medici e famiglie a scegliere le molecole giuste. «Stiamo notando un abuso di farmaci - dice Giuseppe Mele, responsabile nazionale Fimp - C´è una richiesta esagerata da parte delle famiglie e invece bisognerebbe intervenire di più sullo stile di vita dei bambini, ad esempio sull´alimentazione da 0 a 3 anni, fondamentale per lo sviluppo successivo. Il farmaco va dato esclusivamente quando serve, bisogna creare cure sempre più personalizzate: è inutile far prendere a un bambino una pasticca per 7 giorni perché va bene a un altro, quando nel suo caso basta una terapia di 3». Per raggiungere questi obiettivi una maggiore presenza dei pediatri con le famiglie non guasterebbe. «Ma noi ci siamo, al di là della visita domiciliare che ormai è una questione risolta dal nostro contratto: si fa solo se il medico ritiene che serva - dice sempre Mele - I nostri ambulatori sono tutti di alto livello, in grado di fare diagnosi con strumenti come il tampone faringeo, l´esame dell´emocromo o delle urine».
Secondo Bonati oltre alle campagne di informazione bisognerebbe fare qualcos´altro. «Siamo il paese con più antibiotici, e non solo, autorizzati. Abbiamo addirittura 29 cefalosporine. L´Aifa dovrebbe pensare soprattutto a ridurre il numero dei farmaci in commercio. E magari realizzare un prontuario nazionale di quelli pediatrici: l´Italia è tra i pochi a non averlo. Così si ridurrebbero consumi e inappropriatezza». Il Mario Negri ha tenuto sotto controllo per anni le prescrizioni dei pediatri. Sono circa 650 i farmaci usati da questi professionisti. «Abbiamo presentato uno studio in cui si dimostra che al medico basterebbe una borsa con 20 principi attivi - prosegue Bonati - per curare il 95% dei bambini suoi pazienti». Quali sono i medicinali usati di più? «Intanto un antibiotico, l´amoxicillina con clavulanico, ma anche il beclometasone, che sarebbe un antiasmatico che si prescrive per fare l´aerosol contro raffreddore e naso che cola. Poi abbiamo le cefalosporine e altri antibiotici come la claritromicina». Non ritiene che in Italia ci siano troppi principi attivi la professoressa Adriana Ceci, componente del comitato pediatrico dell´Emea (agenzia europea del farmaco) e docente a Bari. «La situazione non è dissimile da quella di altri paesi. Le differenze che c´erano tra i mercati si sono molto attenuate. Certo, ad esempio in Olanda c´è un picco di utilizzo di ormoni per le bambine perché si inizia a dare la pillola presto, mentre in Italia lo vediamo tra i bambini piccoli perché si prescrive molto il cortisone per problemi respiratori e comunque banali».
La professoressa Ceci ha fatto una classificazione dei farmaci pediatrici: i principi attivi in fascia A sono 248, per 1.727 prodotti commercializzati. «Oggi - spiega - è imposto che si scriva nel foglio illustrativo se quel medicinale è pediatrico. Il fatto che venga ricordato sulla confezione non significa niente». Il particolare non è irrilevante. Secondo la stessa Aifa, l´80% e il 60% dei farmaci usati rispettivamente sui neonati e sui bambini più grandi sono off label. «Vuol dire - spiega Ettore Napoleone, responsabile del settore farmaci per la Fimp - che magari si è fatto un dosaggio ad hoc, ma non sono stati controllati i loro risultati sui più piccoli». Per questo l´Aifa promuove la ricerca nel settore. Nel 2010 sono partite in Italia 70 sperimentazioni (su 3mila in tutta Europa) per chiarire come funzionano certi medicinali dal punto di vista pediatrico. «È giusto fare questi lavori solo se servono davvero - ammonisce Bonati - Smettiamo di controllare l´efficacia degli antibatterici sull´otite, è già stato fatto decine di volte. I soldi vanno spesi per ricerche utili». Così che Pietro con tutti quegli antibiotici guarisca davvero.

Repubblica 28.1.11
Il paziente spesso si considera un consumatore. E viene assecondato
Le responsabilità di medici e genitori
di Chiara Saraceno


Vi è certamente una grande responsabilità dei genitori nell´uso eccessivo di medicinali da parte dei bambini. L´ansia di fronte ad una febbre molto alta, o che non passa in fretta, ad un intestino che fa i capricci, ad una tosse persistente che scuote il corpo del bambino e non lo fa dormire – sono fenomeni ben noti a qualsiasi genitore, che spingono ad andare dal pediatra per chiedere "qualcosa" che "risolva". Mettiamoci anche le difficoltà organizzative che la malattia di un bambino può comportare per madri che lavorano e non hanno reti di sostegno su cui contare, mentre hanno datori di lavoro e colleghi pronti a indicarle come lavative, sempre assenti.
Un rischio che i loro compagni, padri dei loro figli, raramente sono disposti a condividere, lasciandole sole a barcamenarsi tra richieste diverse e terribili sensi di colpa. Tuttavia, è proprio solo colpa dei genitori, delle mamme? Non credo. Una enorme responsabilità è anche dei medici di base, non solo dei pediatri, nel nostro paese. È noto che sono i professionisti di cui gli italiani si dichiarano più soddisfatti. Molti medici di base e pediatri sicuramente si meritano questo giudizio positivo per la loro competenza e attenzione.
Ma non dobbiamo ignorare il fatto che una parte della soddisfazione dipende dal fatto che, più che un rapporto fiduciario, molti pazienti hanno nei confronti del medico di base un rapporto da consumatori.
Sono contenti perché i medici di base sono sempre pronti a far fare loro tutti gli esami di laboratorio che richiedono, a prescrivere loro tutte le medicine di cui ritengono di aver bisogno, molto spesso senza neppure parlare direttamente con loro, ma per mediazione della loro segretaria. Solo in Italia, che io sappia, è possibile recarsi in un ambulatorio e chiedere alla segretaria la prescrizione di medicine senza passare dal medico. Non solo quando esse sono state prescritte da un medico specialista, ma devono essere convalidate, o meglio trascritte sul ricettario del medico di base (pratica già di per sé assurda), ma anche in seguito ad auto-prescrizione.
Il rapporto fiduciario tra medico e paziente si è rovesciato nella attribuzione di fiducia alla capacità auto o anche etero (quando lo si fa per un familiare) diagnostica dei pazienti. Se i medici resistessero di più alle richieste irragionevoli dei pazienti, dedicando un po´ di tempo a spiegare e ascoltare, forse anche questo atteggiamento da consumatori verrebbe contenuto. I pediatri probabilmente lo fanno in media di più dei medici di base, proprio perché hanno a che fare con bambini, più vulnerabili, ed anche perché più spesso si pongono in un´ottica pedagogica nei confronti dei genitori. Tuttavia si trovano a fronteggiare domande e attese che sono state plasmate non solo dall´ansia e preoccupazione, ma dall´atteggiamento di consumo nei confronti della medicina e delle medicine di cui parlavo sopra.
E spesso cedono, per quieto vivere ed anche per non correre il rischio di denunce in caso di evoluzione negativa della malattia. Anche il tipo di confezioni in cui vengono venduti gli antibiotici e le medicine, specie di fascia A, andrebbe modificato per evitare sprechi e abusi. La tentazione di utilizzare un medicinale "avanzato" per una malattia apparentemente simile non ci sarebbe se, come avviene in alcuni paesi, il farmacista consegna la dose esatta di medicinale, in una confezione personalizzata con il nome del paziente e del medico che la ha prescritta. Ci perderebbero le case farmaceutiche, ma ci guadagnerebbero la salute, l´ambiente, e i bilanci pubblico e familiare. In Italia si consumano molti medicinali, ma se ne gettano anche tanti perché scaduti.

Corriere della Sera 28.1.11
Nel libro per le omelie anche un testo di Vendola
di Angela Frenda


MILANO— È accanto a Madre Teresa di Calcutta, al cardinale Van Thuan e a Charles de Foucauld, come testimone della quaresima nel Sussidio liturgico-pastorale edito dai Paolini e diretto ai sacerdoti, cioè uno strumento per preparare le omelie del tempo liturgico penitenziale. Ma Nichi Vendola questa notizia l’ha appresa soltanto ieri, uscito da una riunione a Bruxelles. Ed è stato subito entusiasta: «Che abbiano scelto il mio pezzo su Don Tonino Bello mi ha molto commosso. Non ne sapevo nulla. D’altronde io amo la Chiesa quando sa accogliere. Quando sa annunciare. Quando è crocevia di salvezza» . Non nasconde, il presidente della Regione Puglia e leader di Sel, di poter essere un personaggio «scomodo» per una parte della Chiesa. Ma rilancia con orgoglio: «So bene che nella Chiesa ci sono coloro che pensano che la mia vita sia incompatibile con la fede. Il mio peccato è di non essere un’ipocrita. Sono pronto a una discussione vera anche sui temi dell’omosessualità. Non mi sono mai nascosto. Perché la cosa che più ho aborrito è l’ipocrisia» . A scegliere il suo pezzo è stato don Giuseppe Turani, parroco di Monte Marenzo, in provincia di Lecco, che ha curato anche l’introduzione dell’opuscolo di 155 pagine. E che ieri, interpellato, mostrando preoccupazione soprattutto per eventuali strumentalizzazioni sulla sua scelta, ha spiegato: «Ho voluto pubblicare la lettera di Vendola perché parla del vescovo Tonino Bello. E credo sia un segnale positivo presentare questo personaggio attraverso una persona che è impegnata in politica. Persona, Vendola, che io so molto religiosa e in gamba. E che io stimo da tempo» . La lettera del presidente della Regione Puglia (pubblicata sulla Gazzetta per il Mezzogiorno del 19 aprile 2010) è idealmente indirizzata a don Tonino Bello, mitico vescovo del Sud da molti ritenuto un santo, scomparso nell’aprile ’ 93, ed inserita nella meditazione per la prima domenica di Quaresima. Scrive Vendola: «Oggi vincono e convincono quelli che non hanno tempo per occuparsi di vittime, di poveri, di esuberi, di quelle pietre di scarto che nel Vangelo saranno pietre angolari dell’edificio della salvezza. Quelli che girano lo sguardo dall’altra parte, quelli che fingono di non vedere l’orrore, quelli che sono gli eroi di cartapesta del nostro immaginario e della nostra etica. Oggi gli afflitti vengono ulteriormente afflitti e i consolati ulteriormente consolati...» . Il governatore della Puglia riflette anche, nella sua lettera, su quella Chiesa che «spesso pare più vocata all’autodifesa che non all’annuncio» . Ad accompagnare la lettera del governatore pugliese, però, è stato inserito dai Paolini anche un boxino legato al tema del perdono dei peccatori, e che è intitolato «La sapienza dei padri» in cui si narra di Bessarione, grande monaco vissuto nel IV secolo. «Capitato in una chiesa durante la predica— scrive la rivista dei Paolini — gli toccò sentire il presbitero scacciare un peccatore, giudicato indegno di stare tra la gente per bene. Bessarione non mosse ciglio, si alzò e uscì con lui dicendo: anch’io sono un peccatore» .

L'Osservatore Romano 28.1.11
La teologia secondo san Tommaso d'Aquino In adorazione discorrendo sull'essere
di Inos Biffi

Nelle attuali ricerche o, come si dice, nel dialogo sul monoteismo - riguardo al quale la fede cattolica professa l'esistenza di un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo - è diffusa la discussione sull'essenza di Dio e sulla possibilità di nominarlo e quindi sul valore dei nomi che vengano attribuiti. Quanto alla denominazione di Dio: parrebbe che nessun nome gli convenga e che nessuna idea ci si possa fare di lui, a motivo della sua trascendenza assolutamente inarrivabile e inattingibile e quindi inconcepibile dalla conoscenza umana, pena la sua riduzione ai confini e quindi ai limiti umani. Ed è come dire che di Dio non si può avere nessun concetto e che ogni concetto a suo riguardo sia destinato a essere equivoco: di Dio non si può parlare, ma solo tacere. Ma, se questo fosse vero, la conseguenza sarebbe un'assoluta teoria dell'ateismo, nel senso che qualsiasi tentativo di raggiungere Dio sarebbe destinato al fallimento, e la stessa Rivelazione risulterebbe vana e impossibile, per l'impotenza e l'improprietà di ogni concetto o "immagine" a riferirsi a Dio. San Tommaso ha riflettuto acutamente e ampiamente sui "Nomi di Dio", sia nel Commento al De divinis nominibus dello Pseudodionigi - uno dei testi più luminosi e vibranti dell'Angelico - sia in altre sue opere, tra cui la vasta e analitica questione 13 della Summa theologiae. In queste ultime possiamo notare come programmatica, l'affermazione: "Noi possiamo denominare Dio a partire dalle creature, ma non in modo tale che il nome che lo significa (nomen significans ipsum) esprima la sua essenza così com'essa è (exprimat divinam essentiam secundum quod est)" (Summa theologiae, i, 13, 1, c.). Noi diciamo che "Dio non ha nome o sta al di sopra di qualsivoglia nome dal momento che la sua essenza oltrepassa ciò che di Dio possiamo comprendere con l'intelletto o significare con la voce" (Ea ratione dicitur Deus non habere nomen, vel essere supra nominationem, quia essentia eius et supra id quod de Deo intelligimus et voce significamus, ibidem, 1m). Non ci è noto il modo di essere di Dio, ma solo il suo riflettersi in modo imperfetto nelle creature: "Così com'è, il nostro intelletto, in questa vita, non lo conosce" (intellectus noster non cognoscit eum ut est, secundum hanc vitam, ibidem, 2m). Infatti, "in questa vita noi lo conosciamo secondo quello che di lui si trova rappresentato nelle perfezioni delle creature" (ibidem, c.). L'affermazione è ripetuta: nessun nome è in grado di esprimere perfettamente quello che Dio è (quod est Deus perfecte): "Qualsiasi nome lo significa in modo imperfetto, così come in modo imperfetto egli si trova rappresentato nelle creature" (unumquodque [nomen] imperfecte eum significat, sicut et creaturae imperfecte eum repraesentant, ibidem, 2, 1m). In altre parole, bisogna distinguere tra "perfezioni significate" (perfectiones ipsae significatae) e "modo di significare" (modus significandi, ibidem, 3, c.). Quanto alle "perfezioni" significate alcuni nomi convengono a Dio in senso proprio, anzi, valgono primariamente per lui - come i nomi indicanti vita, bontà, sapienza, e così via; quanto invece al "modo di significare" non gli convengono in senso proprio: noi conosciamo solo il modo con cui tali perfezioni si ritrovano e si predicano nelle creature, mentre ignoriamo "come" esse si trovino in Dio, come siano in lui la vita, la bontà, la sapienza. In conclusione: noi non siamo in grado di oltrepassare lo schermo, il prisma creaturale per collocarci all'interno di Dio, evadendo lo spazio del mondo creato. D'altronde in san Tommaso sono chiare due convinzioni. La prima convinzione è che "di Dio non possiamo sapere quello che è, ma quello che non è; non siamo in grado di riflettere su come Dio sia, ma piuttosto su come non sia" (De Deo scire non possumus quid sit, sed quid non sit; non possumus considerare de Deo quomodo sit, sed potius quomodo non sit, Summa theologiae, i, 3, introduzione). Dio - ed è il pensiero di Agostino nel De verbis Domini (38, 2, 3) - "non può essere alla portata del nostro intelletto, ma il modo più perfetto di conoscerlo nello stato presente sta nel conoscere che egli è superiore a tutto ciò che il nostro intelletto è capace di concepire, per cui ci uniamo a lui come a uno sconosciuto" (Ipse non potest esse pervius intellectui nostro; sed in hoc eum perfectissime cognoscimus in statu viae quod scimus eum esse super omne id quod intellectus noster concipere potest; et sic ei quasi ignoto conjungimur, In iv Sententiarum, 49, 2, 1, 3m). Anche se la Rivelazione ci ha fatto senza dubbio conoscere Dio più pienamente (plenius), manifestandoci perfezioni e proprietà ignote alla "ragione naturale" (ratio naturalis) - si pensi al suo essere uno e trino. Con tutto questo, la seconda convinzione di san Tommaso è che l'impossibilità di conoscere Dio univocamente, cioè nella sua essenza, non rende equivoco il nostro parlare di lui, ma lo rende analogico, inadeguato sì, ma vero e provveduto di sen- so (analogice, et non equivoce pure, neque univoce, Summa theologiae, i, 13, 5, c). Lo pensano alcuni filosofi che, dopo aver sostenuto vanamente che il Dottor Angelico includeva Dio nell'àmbito degli enti, adesso fraintendono la dottrina sull'assoluta trascendenza divina, giungendo a concepire l'ineffabilità di Dio come una equivocità e a parlare di non-Essere di Dio. Senza dire che una logica alternativa alla conoscenza analogica dovrebbe essere un completo silenzio su Dio, o una teologia totalmente "negativa". Che Tommaso rifiuta per affermare che "Dio si onora sì con il silenzio, non perché non si dica o non si conosca nulla di lui, ma perché, qualsiasi cosa impariamo o conosciamo di lui, ci rendiamo conto che la nostra intellezione ha fallito" (Deus honoratur silentio, non quod nihil de ipso dicatur vel inquiratur, sed quia quidquid de ipso discamus vel inquiramus, intelligimus nos ab eius comprehensione defecisse, Super Boetium de Trinitate, 2, 1, 6m): Dio sta sempre, inarrivabilmente, di là; imprendibile e impercorribile. È la prospettiva anselmiana: Dio è il sempre "Oltre", Colui che non è disposto nella serie, neppure come il primo e il più alto, perché sta nella inconcepibilità (quo magis cogitari nequit). La teologia di Tommaso nasce dall'incessante e gioioso desiderio di comprendere Dio: desiderio che tiene vigile e impegnata la ricerca, che la nutre di speranza, in attesa della visione. Un ultimo rilievo sul Nome divino che ha incantato l'Angelico, quello di Essere. In Dio - egli ripete - l'essenza e l'essere coincidono; "la sua essenza è il suo essere (essentia eius est suum esse)", e questo significa che egli è l'Atto puro e Perfezione illimite. Lasciando trasparire una profonda, anche se come sempre contenuta, emozione, Tommaso definirà la coincidenza tra l'essere e l'essenza di Dio una "Verità sublime" (Haec sublimis veritas, Summa contra Gentiles, i, 22, n. 10), ampiamente dimostrata con la ragione e insieme rivelata a Mosè, il quale la imparò da Dio, quando alla sua domanda si sentì rispondere che il suo nome è "Colui che è". Qualcuno confonde il puro Essere di Dio con la staticità o una distaccata mancanza di sentimenti, per cui sente il bisogno di definirlo come essenzialmente relativo alla creatura, dotato a sua volta di mobili sentimenti, in tal modo concependo Dio a immagine dell'uomo. È vero invece che, se Dio è l'Essere, non lo è nel modo in cui noi abbiamo l'esperienza dell'essere: egli non "è", come "siamo" noi, bensì è in modo tutto proprio, che lui solo conosce e che a noi sfugge, legati tuttora come siamo alle insuperabili restrizioni di creature. Ma ciò non produce tristezza o risentimento; al contrario genera stupore e incontenibile ammirazione, o una specie di confusione che si risolve in adorazione, che diventa sconfinata e si confonde al pensiero che Dio in ogni istante, dal nostro intimo, ci comunica il dono dell'essere che ci fa esistere. Non è necessario aggiungere la preghiera alla teologia o anche alla filosofia dell'essere: esse sono oranti per natura loro.