lunedì 31 gennaio 2011

La Stampa 31.1.11
La crisi del regime Mubarak (e quella dei nostri politologi)
di Marta Dassù


La crisi dell'Egitto è, per i politologi, l'equivalente di ciò che il crollo di Lehman Brothers è stato per gli economisti. Nessuno l'aveva prevista, in un ambiente che vive di previsioni (sbagliate) sui «dieci scenari da evitare nel 2011». Naturalmente si dirà che non è così, perché in un numero speciale della rivista del Centro di Informazione sul Nulla, la successione a Hosni Mubarak era stata segnalata come una tappa critica. Ma la verità è esattamente questa: anche i politologi, come gli economisti, fanno una enorme fatica a immaginare i tempi e i modi in cui si manifesterà una crisi. Non è una novità, certo. Pochissimi avevano previsto il crollo dell’Urss. La cosa mi è tornata in mente quando Barack Obama ha evocato, nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione, lo choc dello Sputnik. Per essere onesti, non mi è sembrata una grande trovata: mezzo secolo dopo, la sindrome Sputnik evoca soprattutto la fragilità dell’Urss, più che la solidità dell’America. In ogni caso, dal lancio dello Sputnik fino al crollo del Muro di Berlino, ben poche analisi avevano anticipato lo scenario dell’implosione del sistema sovietico. Anche il 1979 iraniano non era stato previsto da molti; soprattutto, non era stato previsto che le proteste del partito comunista e dell’élite borghese-intellettuale dell’Iran, combinate con la rabbia degli emarginati, producessero il trionfo degli ayatollah. Oggi, il precedente iraniano viene applicato all'Egitto; la previsione dominante, infatti, è che il crollo del regime di Mubarak preparerà l'avvento delle forze islamiche, travestite da Fratelli musulmani. Ma possiamo davvero leggere il futuro del maggiore Paese del mondo arabo con la testa rivolta al precedente persiano?
Questo è un altro bel guaio, in effetti: la tentazione, nelle analisi di politica internazionale, è sempre di ragionare sulla base della crisi precedente. La guerra in Iraq è stata gestita con in mano il manuale dell’intervento in Kosovo del 1999, cosa che certo non è stata di aiuto. La strategia di uscita dall’Afghanistan tiene conto del precedente iracheno, sebbene l'Afghanistan sia un teatro molto diverso dall’Iraq. E così via, con una coazione a ripetere che è l'altra faccia della medaglia della scarsa capacità di prevedere.
Si potrebbe obiettare, a questa visione pessimistica, che qualcuno che sa prevedere c'è, ma non ce ne accorgiamo: qualche professore che non viene invitato a Davos, qualche specialista che non pubblica mai sul Financial Times. E' vero. E qui si torna al famoso dibattito nato di fronte agli errori di valutazione compiuti sull’Iraq: esiste davvero la voglia di ascoltare una expertise che non confermi le scelte politiche? C'è anche il caso dei «dissidenti», i quali credono per definizione nel crollo del regime che li opprime. Peccato che venga data loro ragione solo quando il famoso crollo si verifica davvero. Fino a quando un regime viene sostenuto per ragioni di realpolitik - e nel caso dell’Egitto le ragioni erano e rimangono decisamente importanti: il Paese centrale del mondo arabo, in pace con Israele e alleato degli Stati Uniti - i dissidenti sono soprattutto gente scomoda.
Conclusione? Nello stesso modo in cui la crisi finanziaria del 2008 ha generato un dibattito fra gli economisti, la crisi mediorientale del 2011 dovrebbe generare una riflessione fra i politologi. E' indubbio che il problema del cambiamento politico e sociale sia in ogni caso difficile da leggere e da interpretare. Ma questa scarsa capacità di prevedere ha molto a che fare, io credo, con la nostra abitudine a studiare i regimi, più che i Paesi. Se decidessimo che anche i Paesi contano - la gente, non solo i potenti - le nostre analisi sarebbero migliori, probabilmente. E con loro, anche scelte di politica estera per troppi anni rivolte a sostenere regimi amici, ma nemici della loro gente.

Repubblica 31.1.11
Così i giovani egiziani stanno costruendo una nuova Primavera
Lo scrittore Al Aswany in piazza con gli studenti
di Alaa Al Aswany


Abbiamo una grande forza: il nostro coraggio, la nostra fede nella libertà
I protagonisti della rivolta sono per lo più universitari senza alcuna speranza di un futuro
Il regime ha tolto tutto ai cittadini senza coprire in alcun modo le loro necessità giornaliere

E´ stata per me una giornata indimenticabile. Martedì scorso, al Cairo, mi sono unito ai manifestanti, a una folla di centinaia di migliaia di egiziani provenienti da tutto il Paese, che hanno invaso le strade della capitale chiedendo la libertà, e affrontando impavidi la temibile violenza della polizia. Il regime dispone di un apparato di sicurezza di un milione e cinquecentomila uomini, e investe enormi somme per addestrarli a un solo ed unico compito: quello di reprimere la popolazione egiziana.
Mi sono trovato tra centinaia di migliaia di giovani, accomunati solo da un incredibile coraggio e dalla determinazione a ottenere un cambio di regime. Sono per lo più studenti universitari senza alcuna speranza di un futuro, consapevoli di non poter trovare un lavoro né formarsi una famiglia, motivati da un´ira indomabile, da un profondo sdegno di fronte all´ingiustizia.
Non cesserò mai di ammirare questi rivoluzionari che in ogni loro parola rivelano un´acuta coscienza politica, un desiderio di libertà che sfida la morte. Mi hanno chiesto di pronunciare un breve discorso. Benché avessi parlato in pubblico centinaia di volte, qui tutto era diverso: mi trovavo davanti a 30.000 manifestanti poco disponibili a sentir parlare di compromessi, che non cessavano di interrompermi gridando: «Abbasso Hosni Mubarak!» o «Il popolo dice: fuori il regime!»
Dichiarai che ero fiero di quanto erano riusciti a ottenere, ponendo fine a un regime repressivo dopo aver affrontato senza timore i colpi e le minacce di arresto; si erano dimostrati più forti di un apparato poliziesco che pure dispone dei mezzi repressivi più feroci del mondo. Ma noi, ho aggiunto, abbiamo una forza più grande: il nostro coraggio, la nostra fede nella libertà. La folla ha risposto gridando all´unisono: «Andremo fino in fondo!»
Ero in compagnia di un amico, un giornalista spagnolo che era stato per molti anni nell´Europa dell´Est. Da testimone dei movimenti di liberazione di quei Paesi, ha aggiunto: «So per esperienza che quando si è in tanti a scendere in piazza, e con tanta determinazione, il cambio di regime è solo questione di tempo.»
Perché questa rivolta degli egiziani? La risposta sta nella natura del regime. Si sono visti governi dispotici che hanno privato un popolo della libertà, offrendogli però in cambio un´esistenza tutelata; e governi democratici incapaci di eliminare la povertà, che però non hanno privato la popolazione della sua libertà e dignità. Mentre il regime egiziano ha tolto tutto ai suoi cittadini, compresa la libertà e la dignità, senza coprire in alcun modo le loro necessità quotidiane. Le centinaia di migliaia di manifestanti che hanno invaso le strade del Cairo sono solo una rappresentanza dei milioni di egiziani privati dei propri diritti.
In Egitto gli appelli pubblici alle riforme hanno preceduto di molto la sollevazione in Tunisia, ma certo gli eventi di quest´ultimo Paese hanno costituito un detonatore. La gente si è resa chiaramente conto che alla lunga nessun apparato di sicurezza basta a proteggere un dittatore. Noi egiziani eravamo anche più motivati dei tunisini, dato che nel nostro Paese la popolazione indigente è più numerosa, e il regime repressivo è al potere ormai da troppo tempo. Se a un dato momento la paura ha indotto Ben Ali a fuggire da Tunisi, la stessa cosa avrebbe potuto accadere da noi. Sulle piazze del Cairo si è sentito riecheggiare, in francese, lo stesso slogan coniato dai tunisini: «Dégage, Mubarak». E la rivolta si sta estendendo ad altri Stati arabi, quali lo Yemen.
Ormai le autorità si rendono conto che le loro tattiche non possono fermare le proteste. Le manifestazioni sono state organizzate tramite Facebook, che si è rivelato una fonte di informazioni affidabile e indipendente. Quando lo Stato ha tentato di bloccarla, i blogger hanno dato prova di grande inventiva per eludere i controlli. E oltre tutto, la violenza dei servizi di sicurezza può trasformarsi in un boomerang: a Suez la popolazione è insorta contro la polizia che aveva sparato sui manifestanti. La storia dimostra che a un dato momento, gli stessi agenti rifiutano di eseguire l´ordine di uccidere i loro concittadini.
Sono molti i comuni cittadini che oggi sfidano i poliziotti. Un giovane manifestante mi ha raccontato che martedì scorso, alle quattro del mattino, fuggendo dalla polizia, era entrato in una casa e aveva suonato a caso alla porta di un appartamento. Gli aveva aperto un uomo sulla sessantina, visibilmente impaurito. Al giovane che lo pregava di nasconderlo aveva chiesto un documento d´identità; e subito lo aveva fatto entrare, svegliando una delle sue tre figlie perché gli preparasse qualcosa da mangiare. Dopo di che si erano messi a tavola insieme, mangiando, bevendo tè e chiacchierando come vecchi amici.
Al mattino, passato il pericolo per il giovane manifestante, l´ospite lo ha accompagnato fin sulla strada e ha fermato un taxi, offrendogli anche un po´ di denaro. Il giovane ha rifiutato ringraziando, ma l´anziano, abbracciandolo, gli ha detto: «Sono io che devo ringraziarti per aver difeso me, le mie figlie e tutto il nostro popolo».
Ecco com´è iniziata la primavera egiziana. Domani assisteremo a una vera battaglia.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)


La Stampa 31.1.11
Sciogliere le Camere? Costituzionalisti divisi
Il precedente siglato da Scalfaro. Rodotà: la tensione salirebbe
di Antonella Rampino

Ma nella notte che la Repubblica sta attraversando, può essere una soluzione lo scioglimento delle Camere da parte di Giorgio Napolitano, esercitando quel potere esclusivo che la Costituzione gli riserva all’articolo 88? Oscar Luigi Scalfaro lo fece, nel 1994, e nacque il Berlusconi I. Il precedente risale ai tempi di Tangentopoli - una crisi più volte paragonata per violenza a questa - quando il governo «tecnico» di Carlo Azeglio Ciampi aveva esaurito la sua missione di tirar l’Italia fuori da quel maremoto politico. Un precedente valido per l’oggi, dice il professor Paolo Armaroli, studioso dei sistemi costituzionali e del loro equilibrio. «Siamo in uno scontro istituzionale senza precedenti, con il premier contro il presidente della Camera, il presidente della Camera contro il premier e contro il presidente del Senato e il ministro degli Esteri. E il Parlamento che non è in condizione di legiferare». Una situazione d’emergenza, contro la quale nulla potrebbe anche il parere negativo dei presidenti di Camera e Senato, «la Iotti disse più volte a Scalfaro che era contraria, ma Scalfaro sciolse le Camere ugualmente», ricorda Armaroli. Eppure, «proprio per la presenza di una conflittualità altissima e, mi lasci dire, indecente, il ricorso all’articolo 88 può portare la tensione oltre il livello di guardia: la maggioranza già grida al colpo di Stato per molto meno che non le elezioni anticipate», dice invece il giurista Stefano Rodotà, che in un tempo lontano fu anche parlamentare della sinistra indipendente. E secondo il quale il precedente del ’94 non vale, «poiché Ciampi disse esplicitamente che non voleva più andare avanti, che riteneva esaurito il proprio compito essendo anche stata varata la nuova legge elettorale, il Mattarellum».
Il nodo del contendere è poi quel che l’articolo 88 della Costituzione non dice: il provvedimento va controfirmato dal presidente del Consiglio. «Non si può esercitare il potere previsto dall’articolo 88 senza la controfirma del presidente del Consiglio, oltre al fatto che nella prassi italiana per lo scioglimento è sempre stata chiara la mancata maggioranza in Parlamento», dice lapidario l’ex presidente della Consulta Valerio Onida. «E’ il presidente del Consiglio che per quello che ha fatto e detto, e non in forza di giudizi morali o di accuse giudiziarie, dovrebbe dimettersi, e invece non lo fa». Ma di fronte a questo, a suo avviso, non c’è che una strada: «Deve essere la sua stessa maggioranza a togliergli il sostegno in Parlamento». La via politica, prima ancora che costituzionale, anche se Napolitano può certo brandire l’articolo 88 per ulteriore «moral suasion», come di fatto sta già accadendo nei colloqui riservati. «Indubbiamente la prassi vuole che vi sia accordo tra le forze politiche, e non esistono solo quelle di maggioranza, per l’esercizio del potere di scioglimento», dice invece il costituzionalista Giorgio Rebuffa, che fu uno dei protagonisti della stagione dei professori di centrodestra, «ma questa è per l’Italia una situazione del tutto eccezionale, e nella quale è lampante l’impossibilità del capo del governo a governare, e del Parlamento a legiferare. Una situazione pericolosa per la sicurezza nazionale, come mi pare dica anche il presidente del Copasir». Poi il professor Rebuffa racconta una storia. «Era il 1963, e si scoprì che - forse - il ministro della Difesa britannico, tal Profumo, aveva una relazione intima con una elegante signora, non certo una prostituta, che precedentemente era stata - forse - legata a un addetto della marina sovietica. Ebbene, il premier Macmillan cacciò immediatamente il ministro, per evitare che a dover dare le dimissioni dovesse essere tutto il governo». L’apologo sul famoso «scandalo Profumo» rende bene il precipizio nel quale si trova la dignità delle istituzioni italiane, e soprattutto, aggiunge Rebuffa, «l’articolo 88 è stato scritto per proteggere il sistema parlamentare, dà al Presidente della Repubblica anche quella responsabilità». Altrimenti, aggiunge funesto, «per debolezza e pavidità le istituzioni italiane potrebbero anche finire come la Germania del maresciallo Hindenburg...».

l'Unità 31.1.11
Pannella, non lo fare
Berlusconi lo corteggia


È stato «un colloquio utile e costruttivo. Concordo con l’amico e leader radicale Marco Pannella che ha definito così il nostro incontro di ieri. Abbiamo parlato di riforme condivisibili, a cominciare dalla giustizia». Lo ha
detto Berlusconi. Ma l’allargamento ai radicali della maggioranza è utopico.

Repubblica 31.1.11
L'etica relativa di un Paese indulgente
di Ilvo Diamanti


Il berlusconismo è insofferenza alle regole. E non finirà con l´uscita di scena di Berlusconi
La popolarità del premier resta bassa ma una parte della società "ammira" il suo libertinaggio

È probabile che i recenti scandali abbiano eroso ulteriormente la popolarità di Berlusconi. Che, dopo la scorsa estate, si era già sensibilmente ridimensionata. Non più del 35-36% degli italiani, infatti, valuta il suo operato con un voto uguale o superiore a 6.
Cioè: la sufficienza. Tuttavia, non bisogna pensare che i nuovi scandali producano effetti immediati e visibili anche sul piano del consenso elettorale. In primo luogo perché parte dei consensi perduti dal Pdl vengono drenati dalla Lega. (E occorrerebbe un´opposizione davvero competitiva.) Poi, perché sarebbe errato pensare che Berlusconi abbia costruito il proprio consenso su valori specifici e "originali", imposti da lui. In parte è vero il contrario. Berlusconi ha, semmai, intercettato un sentimento comune che gli pre-esisteva. Attraverso l´azione personale e mediatica. Da un lato, ha riprodotto la passione degli italiani per "l´arte di arrangiarsi". Il distintivo nazionale, insieme all´attaccamento alla famiglia (come dimostrano le indagini condotte da Demos e liMes, negli ultimi vent´anni). Berlusconi lo ha esibito con orgoglio. L´uomo dei fatti, che si è fatto da sé. Imprenditore ingegnoso, riluttante alle regole e a chi le impone. Lo Stato, il pubblico, la sinistra, i comunisti. Sinonimi.
D´altra parte, Berlusconi ha captato il relativismo etico diffuso nella società. Esisteva già prima - e da molto tempo. Lui si è dedicato, con impegno e passione, a praticarlo. In modo aperto e palese. Senza vergognarsene. In passato, gli uomini politici coltivavano i loro vizi privati nell´ombra. Nel retroscena. Lui no. Ne ha fatto sfoggio. Nelle sue ville e nelle sue residenze si è sempre assistito a un viavai di ragazze e di persone appariscenti. A feste rutilanti. Non propriamente coerenti con l´immagine pubblica di un uomo di Stato. Difficile, peraltro, invocare il diritto alla privacy, visto che il Premier ha trasformato le sue residenze "private" in luoghi di rappresentanza "pubblica" e ufficiale. Dove si svolgono incontri e attività di governo. Dove vengono ricevuti Presidenti, sovrani e leader di altri Paesi. Difficile, anche perché Berlusconi ha costruito il consenso sul privato esibito in pubblico.
Tuttavia, le avventure "private" del Premier non hanno traumatizzato gli italiani. Non tutti, almeno. Utilizzando alcune indagini dell´Atlante Politico condotte fra novembre e dicembre, abbiamo costruito una mappa delle opinioni degli italiani verso gli atteggiamenti e gli stili di vita del Premier. Ne abbiamo ricavato 5 tipi. Due dei quali decisamente negativi. A) Gli "indignati": ritengono offensivi gli atteggiamenti di Berlusconi (verso la famiglia, le donne e gli omosessuali). Costituiscono il 22% degli italiani (intervistati). B) Largamente "critici" si dicono, inoltre, il 32% dei cittadini. C) All´opposto, troviamo un gruppo di "ultrà" del Premier. I "tifosi", limitati al 5%, sono schierati - senza se e senza ma - accanto a lui. Qualunque cosa egli dica o faccia. D) Accanto ai tifosi incontriamo una componente ampia e significativa, pari al 16%, di "ammiratori". Anch´essi sostengono il Premier e ne approvano le parole e le opere. Il privato del Premier - in particolare - non li sconcerta. Essi, anzi, lo approvano, anche se con qualche - lieve - distinguo. Come i "tifosi", non credono fino in fondo a queste notizie. Pensano a un complotto dei magistrati e dei comunisti. Dei magistrati comunisti.
Tra queste posizioni antagoniste, galleggia una porzione ampia della popolazione. E) Un italiano su quattro, infatti, si dimostra "indulgente". Giudica, cioè, i comportamenti e gli atteggiamenti di Berlusconi "discutibili ma non gravi". Li disapprova senza condannarli. Anche sotto il profilo etico, quindi, Berlusconi divide gli italiani a metà. O forse è vero il contrario: Berlusconi ha captato e riprodotto le divisioni (e le debolezze) "etiche" degli italiani. Pubbliche e private. Che fanno guardare con indulgenza e perfino aperta approvazione le storie di donne e donnine, ragazze e ragazzine in cui è coinvolto, di continuo, il Premier.
Va detto che gli orientamenti complici e comprensivi riflettono le divisioni politiche. Per cui crescono sensibilmente nel passaggio da sinistra a destra. Ma sono, comunque, diffusi anche tra gli elettori di opposizione. Visto che il 17% degli elettori del Pd si mostra "indulgente" verso il Premier e un ulteriore 7% esprime "ammirazione" per le gesta del Premier. Orientamenti ancor più condivisi nella base dell´Udc. D´altronde, neppure l´identità cattolica scava una distanza etica profonda rispetto a questi atteggiamenti. Il 28% dei cattolici praticanti, infatti, si dichiara indulgente verso i comportamenti del Premier, il 22% li approva senza riserve. E la quota delle ragazze più giovani (18-29 anni) che ritiene offensivo l´atteggiamento di Berlusconi verso le donne è ridotta: poco più di un terzo. Appaiono, cioè, molto più indulgenti rispetto ai "giovani" uomini.
Ripetiamo: si tratta di una mappa ricostruita in base a sondaggi condotti un paio di mesi fa. Prima delle recenti inchieste e intercettazioni, legate all´accusa di sfruttamento della prostituzione minorile. Mi sembra possibile e, anzi, probabile, che gli ultimi eventi abbiano peggiorato l´immagine del Premier e della sua coalizione. Tuttavia, gli scandali inseguono Berlusconi ormai da quasi due anni. E la vicenda di Ruby Rubacuori è esplosa più di tre mesi fa. Inoltre, l´informazione su questi fatti è filtrata e rielaborata dai media pubblici e privati più popolari in modo spesso reticente. Peraltro, come abbiamo già detto, è da mesi che la popolarità del Premier è bassa. Espressa da poco più di un terzo degli elettori. E quindi da una quota di persone inferiore a coloro che dimostrano indulgenza oppure ammirazione nei confronti delle sue "imprese" con le donne.
Ciò conferma che Berlusconi, in una certa misura, abbia intercettato una corrente d´opinione di lungo periodo. Un relativismo etico, che riguarda la concezione della donna e del suo ruolo. Nella società, nella famiglia, nelle relazioni di genere. Insieme a un sentimento omofobo, mai dissimulato. Oltre a una diffidenza radicata verso le istituzioni e le regole pubbliche. Berlusconi non ha "inventato" questi atteggiamenti e questi modelli etici, trasferendoli agli italiani attraverso i media. Li ha, invece, "rappresentati" (cioè: ha dato loro rappresentanza e rappresentazione). E li ha, inoltre, amplificati. Legittimati. Imposti come modelli (e consumi) di successo. Liberarsi di Berlusconi, per questo, non basterà a liberarci dal berlusconismo. Perché è un´anomalia che abita in noi, nella nostra storia e nella nostra società. "Curarlo" non sarà facile. Dovremo curare anche noi stessi.

Repubblica 31.1.11
Le donne dicono basta Se non ora, quando?
di Michela Marzano


Bella immagine dell´Italia! Per chi sembrava ossessionato dall´idea che ci si poteva fare all´estero del nostro Paese, accusando alcuni intellettuali di "tradire l´Italia" con i propri libri e i propri articoli, il risultato è eccellente.
Perché ovunque, ormai, non si parla d´altro che delle serate "bunga-bunga" del nostro premier. Di Ruby e di Iris. Di seni e di raccomandazioni. Di prostitute minorenni "ricoperte d´oro" per tenere la bocca chiusa… Bella immagine della donna. Ma anche dell´Italia, che per anni ha chiuso gli occhi di fronte al baratro in cui le donne stavano precipitando. Perché ormai non si tratta nemmeno più della semplice trasformazione della donna in un corpo-immagine, ma della sua progressiva e inevitabile riduzione ad un corpo "usa e getta". Ormai ci siamo. Di nuovo impigliati nelle patetiche reti degli Arcana Imperii: segreti, corruzione, orge. Forse è per questo che non si può più restare zitti, e che nei prossimi giorni ci saranno numerosi appuntamenti per dire "basta". Basta, lo diranno tra gli altri Eco, Saviano e Zagrebelsky il 5 febbraio a Milano, durante la manifestazione organizzata da Libertà e Giustizia. Basta, lo ripeterà il giorno dopo il Popolo Viola. Basta, lo dirà la Procura di Milano, lo scandiranno tantissime donne, in tutte le città italiane, il 13 febbraio… Il re è ormai nudo. Se non scendiamo in piazza ora per difendere dignità, uguaglianza e rispetto, quando?
Negli ultimi anni, sembra di aver assistito ad un film X senza fine. Un interminabile film pornografico in cui tutto si riduce a "ripetizione", "performance" e "accumulazione". In cui uomini e donne sono perfettamente complementari: attività e passività; potere e disponibilità. In cui si moltiplicano le scene dove "i maschi si accaniscono su un pezzo di carne femminile", per usare le parole di John B. Root, il celebre produttore francese di film X, quando descrive la propria "opera". In cui "una vale l´altra", l´una "scaccia" l´altra, e nessuna, in fondo, conta granché. Perché sono solo gingilli intercambiabili. E quando qualcuna non serve più, c´è subito una new entry. Peccato, però, che non si tratti di una semplice fiction. Peccato che sia la fotografia, questa volta non ritoccata dal nostro premier, dell´Italia di oggi…
Ed è inutile che qualche moralista da strapazzo commenti cinicamente che tutto ciò non è altro che il risultato della liberazione sessuale, la conseguenza inevitabile dell´io sono mia. Perché quando le donne si sono battute per rivendicare la libertà di disposizione del proprio corpo, lo scopo era quello di riappropriarsi del proprio destino, di diventare attrici della propria vita, di evitare che altri decidessero al posto loro come vivere, cosa fare, come comportarsi. Ma affinché la libertà non resti solo un valore astratto e non si trasformi, col tempo, in una nuova forma di "servitù volontaria", come spiegava già nel XVI secolo il filosofo francese Etienne de La Boétie, è necessario organizzare le condizioni adatte al suo esercizio, prima tra le quali l´uguaglianza. Se le donne non hanno gli stessi diritti che hanno gli uomini e se non hanno la possibilità materiale di farli valere, automaticamente non possono essere libere di scegliere ciò che vogliono o di realizzare ciò che desiderano. Che libertà esiste allora in un paese che tratta le donne come merce, che le umilia quando si ribellano, che le "ricopre d´oro" quando si prostituiscono ancora minorenni perché tacciano?
Dal "sii bella e stai zitta" siamo arrivati al "venditi e taci": dimenticati di essere una persona, spogliati, fammi gioire ed io farò di te una donna ricca e famosa! Se fai la brava, potresti anche ottenere un seggio in parlamento… Non c´è bisogno di essere filosofi per rendersi conto del ricatto. Per capire quanto disprezzo circonda oggi la donna. Come se, nonostante tutte le battaglie fatte nel corso degli anni Sessanta e Settanta per garantire alla donna uguaglianza e dignità, per liberarla dal giogo millenario della sottomissione e dell´inferiorità, la donna non potesse essere altro che un oggetto di cui l´uomo deve poter disporre a piacimento. "Tutto" è semplice. "Tutto" va da sé. Inutile perdere tempo con ridicole manfrine…
Quello che ognuno di noi fa nella propria camera da letto, col proprio uomo o con la propria donna, non riguarda nessuno. Ma quando la sessualità diventa una tangente, quando si utilizza il proprio potere per fare della donna un giocattolo, quando si pensa di farla franca perché in fondo le donne non contano niente… allora è in atto un processo di disintegrazione della società. Perché, per parafrasare Albert Camus, il valore di una società dipende anche da come vengono trattate le donne. Dall´immagine che se ne ha. Dal margine di manovra di cui dispongono. Come giudicare allora un paese in cui, trattando la donna come una semplice merce, vengono umiliare tutte coloro che si battono quotidianamente per difendere la propria dignità, per acquisire le competenze necessarie per ottenere posti di responsabilità, per mostrare che sono efficienti e affidabili? "Più è disperata meglio è, per lui", avrebbe detto Nicole Minetti, oggi indagata con il premier per induzione alla pornografia. Bella lezione di civiltà per le nostre giovani!
Ma ormai il tempo del silenzio è finito. Perché le donne che si indignano sono sempre più numerose e vogliono farlo sapere. E molte si stanno mobilizzando per la manifestazione del 13 febbraio in tutte le città italiane. Le organizzatrici hanno d´altronde ragione: se non ora, quando? Nonostante le intimidazioni. Nonostante le derisioni. "È tutta colpa della gnocca", sproloquiava Il Giornale qualche mese fa. "Scusi in che senso?" chiedevo a Feltri recentemente durante una puntata dell´Infedele. Ma l´Italia di oggi è ancora questo. Cambiare le carte in tavola. Far passare gli aguzzini per le vittime. Colpevolizzare di nuovo, e sempre, le donne. Dopo aver rubato loro l´anima. Dopo averle ridotte a "corpi usa e getta". Allora sì, è il momento di reagire e di trasformare l´indignazione in azione. Se non ora, quando?

Repubblica 31.1.11
Tute blu, orari e contratti a confronto Fiat e Chrysler "sognano" la Germania
Tra le differenze che caratterizzano le tre aziende, un diverso concetto di diritto di sciopero
Tutti i dati della ricerca realizzata dall´associazione "Lavoro e welfare"
di Paolo Griseri


TORINO - Hans, John e Francesco indossano la tuta blu da trent´anni. Producono automobili a Wolfsburg, quartier generale della Volkswagen, Detroit, dove ha sede la Chrysler, e a Mirafiori, cuore del sistema Fiat. Hanno contratti molto diversi tra loro. Francesco teme di fare la fine di John e spera di vivere un giorno come Hans. Hans si difende dall´incubo di finire come gli altri due. John considera Francesco un privilegiato e spera che perda un po´ di salario per poter trasferire in America il denaro sufficiente a pagargli il dentista nei prossimi anni. Il sugo della storiella è che Hans, John e Francesco non si incontrano mai e per questo si fanno la guerra.
Il confronto tra i contratti di Fiat, Chrysler e Volkswagen è stato promosso dall´associazione «Lavoro e Welfare» presieduta dall´ex ministro del lavoro, Cesare Damiano. I risultati della ricerca vengono presentati oggi pomeriggio alle 18 nei locali della sede nazionale del Pd a Roma. Lo storico Giuseppe Berta ha analizzato il contratto di Detroit, Piero Pessa ha studiato l´accordo di Mirafiori mentre Francescantonio Garippo, del consiglio di fabbrica di Wolfsburg, illustra il contratto Volkswagen.
John ha perso molto con la crisi Chrysler di due anni fa. Ciononostante John fa più pause di Francesco: in Chrysler ci si ferma 5 minuti ogni ora lavorata. Questo significa che John si ferma 40 minuti perché lavora 8 ore. Francesco, che ne lavora solo 7,30 (perché ha la mezz´ora di mensa retribuita) si ferma 30 minuti mentre se fosse a Detroit avrebbe diritto a 37,5 minuti. Hans si ferma più di tutti: perché ai 35 minuti di pausa pagata ne aggiunge 20 di pausa non retribuita. Se vogliamo aggiungere ai 30 minuti di pausa di Francesco la mezz´ora della mensa, l´italiano si ferma un´ora, il tedesco un´ora e 5 minuti e il povero John è ultimo con 40 minuti. Dagli studi comparativi dei ricercatori è chiaro che per Francesco l´America è in Germania. Dove il sindacato è forte. La settimana lavorativa di Hans dipende dalla produzione: può essere di 25 ore o di 33 (per chi è stato assunto dopo il 2005, di 35). Il salario è sempre uguale: «Questo - spiega Garippo - è il motivo per cui le aziende non riducono la produzione in Germania trasferendola altrove. Perché anche se la produzione scende i salari vanno pagati lo stesso». Ogni ora di straordinario viene contrattata con il consiglio di fabbrica. A Mirafiori invece la settimana lavorativa è di 40 ore ma l´azienda può ordinare 120 ore annue di straordinario senza trattative.
Un altro punto che divide le tre tute blu è il diritto di sciopero. John non ce l´ha: fino al 2015 non se ne parla. Francesco può scioperare solo su materie non regolate dal contratto di lavoro (che è molto dettagliato). Hans lo sciopero lo può fare se il 75 per cento degli iscritti al suo sindacato lo approva. A Wolfsburg la Ig metall rappresenta il 96 per cento dei dipendenti. Ma spesso rappresenta solo la metà dei lavoratori: così una minoranza può votare lo sciopero. Per 52 giorni dall´inizio di una vertenza non si potrebbe scioperare. Ma le aziende tollerano fermate spontanee.
Ovviamente anche sul salario le differenze sono enormi. John porta a casa 1.300 euro ma deve pagarsi la pensione e l´assistenza sanitaria. Francesco ha una busta paga netta di 1.200 euro ma sta meglio di John perché ha la mutua e la pensione. Hans guarda tutti dall´alto: con una settimana di notte e un figlio porta a casa 3.700 euro lordi, 2.500 netti. Un ultimo particolare: l´azienda di Hans contende a Toyota e Gm la leadership mondiale.

La Stampa 31.1.11
Ebrei e palestinesi, la pace può nascere dalle tragedie
Per anni lo scontro ha portato a negare la Shoah o a minimizzare la Nakbah Ci sarà un futuro solo con l’accettazione della storia e dei due Stati in Palestina
di Abraham B. Yehoshua


FATTORI INDIVISIBILI L’Olocausto è stato possibile perché non c’era Israele Senza, potrebbe ripetersi
DESTINI COMUNI La «catastrofe» palestinese è dolorosa, anche se non è comparabile alla Shoah
SACRIFICI DA CONDIVIDERE Non è ammissibile che un popolo ritrovi la propria patria a spese di un altro
DIVISIONE INEVITABILE Creare due Stati darebbe ai palestinesi autorità morale I vantaggi sarebbero enormi


Nakbah Nakbah è la parola usata nel mondo arabo per indicare l’esodo forzato della popolazione araba dalla Palestina dopo la proclamazione dello Stato di Israele nel 1948. Significa «catastrofe». I profughi della Nakbah sono calcolati in 750 mila circa: i loro discendenti sono oltre 4 milioni. Il giorno della Nakbah viene celebrato il 15 maggio. Un campo profughi palestinese nel 1948
Shoah Il termine ebraico Shoah significa «disastro, desolazione, catastrofe». Viene comunemente usato per indicare lo sterminio degli ebrei che vivevano in Europa prima della Seconda guerra mondiale da parte della Germania nazista. Le stime degli ebrei uccisi variano da un minimo di 5 a un massimo di 7 milioni. Prima della guerra vivevano in Europa circa 11 milioni di ebrei. Immagine simbolo delle deportazioni degli ebrei

Commemorazione della Shoah: lo sterminio degli ebrei in Europa è uno dei fattori decisivi per la nascita di Israele, per questo settori del mondo arabo continuano a negarlo

Israele, il giovane Stato ebraico fondato nel 1948, trasse dalla Shoah una forte spinta per la propria esistenza. Gli arabi, con loro sorpresa, si resero conto che il terribile sterminio aveva rafforzato gli ebrei sopravvissuti riunitisi in Palestina anziché indebolirli. E questi ultimi, ora che avevano l’opportunità di impugnare le armi per difendersi, compresero quale terribile prezzo paga un popolo senza patria e privo di sovranità e respinsero l’attacco arabo con fermezza, spirito di solidarietà e di sacrificio, annettendo anche parti della Palestina non destinate a loro secondo il piano di spartizione delle Nazioni Unite.
L’incredulità e la delusione degli arabi dinanzi alla sconfitta fece scaturire, come meccanismo di difesa, tre reazioni complesse verso la Shoah. Ciascuna, a modo suo, problematica.
Innanzi tutto crebbero l’ostilità e la rabbia nei confronti degli europei e della civiltà occidentale in generale, colpevoli di aver dato una mano a fondare uno Stato ebraico e di continuare a sostenerlo espiando così i propri peccati a spese delle sofferenze del popolo palestinese, che non aveva nessuna colpa di ciò che era successo durante la Shoah. Da questi sentimenti scaturì un'aspirazione a minimizzare la gravità degli orrori della Shoah fino a negarla del tutto. Gli arabi cominciarono a biasimare gli europei per essersi affrettati ad aiutare gli ebrei a fondare uno Stato, nonostante gli orrori della Shoah non fossero tanto terribili come le sue vittime sostenevano e, a loro dire, fossero stati distorti ed esagerati per ottenere compassione e risarcimenti.
E sempre da quei sentimenti scaturì un terzo fenomeno, anch’esso problematico: se infatti l’Olocausto non era stato tanto terribile come asserivano gli ebrei, ecco che la guerra (Nakbah) da loro sostenuta contro i palestinesi nel 1948 non era meno grave della Shoah. Quindi era giunto il momento di dimenticare le vittime ebree e di rivolgere l’attenzione verso quelle palestinesi, di cui ci si doveva preoccupare e che si doveva risarcire.
Questi tre approcci si fusero in un unico atteggiamento di rancore, di rabbia e di patetica volontà di scoprire distorsioni storiche nella Shoah che impedì agli arabi, e in particolar modo ai palestinesi, di elaborare correttamente quella tragedia includendola nel quadro della loro storia nazionale e, di conseguenza, di instaurare un dialogo più costruttivo e positivo con l’Europa e di ricevere da essa i risarcimenti a loro dovuti. Una visita simbolica di leader politici e religiosi e di intellettuali arabi musulmani sponsorizzata dagli europei nel più agghiacciante dei campi di sterminio come quella prevista questa settimana potrebbe quindi essere l'inizio di un dialogo positivo, correggere un poco le distorsioni e dare al mondo arabo e ai palestinesi la possibilità di comprendere il loro ruolo morale verso gli ebrei di Israele, ottenendo in cambio il riconoscimento e la stima che meritano.
Non ha infatti alcun senso sminuire gli innegabili orrori dell’Olocausto. E anche se la sconfitta dei palestinesi nel 1948 è dolorosa, sia in termini di perdita di territorio che in quelli di profughi fuggiti o espulsi dalle loro case, non è nondimeno paragonabile alla Shoah. Le due tragedie appartengono a categorie completamente differenti. Occorre inoltre puntualizzare che non si può ascrivere il fenomeno dell’antisemitismo alla sola Europa, sebbene in Europa esso abbia trovato la sua espressione più violenta e brutale. Il problema ebraico è un problema del mondo intero e gli arabi, in quanto parte del mondo, possono partecipare alla rinascita di questo popolo e al suo processo di normalizzazione.
Ma in cosa consiste, in sintesi, il problema del popolo ebraico? Nel fatto che la componente territoriale della sua identità nazionale non è sussistita per migliaia di anni, trasformandosi così in un simbolo immaginario. Questo, tuttavia, senza che gli ebrei rinunciassero a rivendicare una propria identità nazionale. La mancanza di un'effettiva presenza su un territorio definito è quindi ciò che ha esposto questo popolo a ripetuti rischi esistenziali di cui la Shoah, avvenuta nel XX secolo e durante la quale per cinque, infernali anni un terzo del popolo ebraico è stato decimato, si è rivelato essere il più terribile.
Ma un insediamento degli ebrei in un luogo diverso da Israele sarebbe inconcepibile. È questa infatti l'unica patria connaturata nel loro immaginario storico e in grado di trasformarsi in reale. I palestinesi avrebbero potuto aiutare il popolo ebraico a rinascere in una parte di essa, con l’assistenza dell’Europa e del mondo arabo, correggendo così l’indole di questa stirpe dispersa fra le nazioni. Ma ciò sarebbe stato possibile solo a condizione che non fossero stati privati a loro volta della terra d'origine. Non è difatti ammissibile che un popolo possa ritrovare la propria patria a spese di un altro che la perde. La spartizione della Palestina in due Stati sovrani non è perciò solo una necessità politica e l'unico modo per instaurare la pace in Medio Oriente, ma anche un imperativo morale categorico che la comunità internazionale deve garantire con tutta la sua forza militare e politica, senza compromessi.
Vero, affinché questa spartizione avvenga i palestinesi dovranno sacrificare una parte del loro territorio. In cambio di questa concessione, però, otterranno non solo la gratitudine della comunità internazionale e di Israele, ma anche generose ricompense. Così, invece di negare invano la Shoah e di continuare a combattere contro lo Stato ebraico, il riconoscimento di questa tragedia darà ai palestinesi e al mondo arabo autorità morale nei confronti degli ebrei, nemici in passato e, auspicabilmente, buoni vicini in futuro.
La proposta della Lega dei Paesi arabi e musulmani di una pace comprensiva con Israele dopo la creazione di uno Stato palestinese e la commovente visita di personalità arabe di alto rango al campo di sterminio di Auschwitz fanno sperare agli ebrei che il processo di normalizzazione nella loro madrepatria storica possa essere completato con successo. Al tempo stesso un simile evento darà loro anchemodo di provare di avere interiorizzato la terribile lezione della Shoah e di sapere rispettare non solo il proprio rinnovato vincolo con la madrepatria, ma anche quello che i palestinesi hanno con la loro, in parte sacrificata. ( 2 - Fine. La prima parte è stata pubblicata ieri)

La Stampa 31.1.11
Asdia, il colosso che cambia
La Cina inventa la città più grande del mondo
La megalopoli avrà 42 milioni di abitanti e avrà una superficie vasta come due Piemonti Un’operazione gigantesca per unire nove centri
di Marco Neirotti


L’OBIETTIVO Semplificare i servizi migliorare la qualità della vita e ottimizzare le industrie"
I TRASPORTI Ventinove linee ferroviarie ad alta velocità e collegamento con Hong Kong"
250 miliardi di euro il preventivo dei costi per realizzare il progetto della megalopoli"
6 anni la durata dei lavori per le infrastrutture che uniscono nove città già esistenti"

A sentir loro, gli urbanisti cinesi, attraverso un progetto dalle ambizioni indubbie, hanno trovato un sistema per semplificare ogni genere di servizi, ridurne i costi, e soprattutto «migliorare la qualità della vita» dei cittadini. E’ un’idea semplice da pensare un po’ più complessa da realizzare: si prendono nove città sparse su un territorio di oltre quarantamila chilometri quadrati, la più piccina con un milione e mezzo di abitanti, la più grandicella quasi dodici, le si unisce con una ragnatela di seimila chilometri di ferrovia e si ottiene un’unica bella metropoli grande quasi due volte il Piemonte e con 42 milioni di persone che ci vivono, destinate ovviamente ad aumentare.
La megalopoli, secondo quanto scrive il «Telegraph», sorgerà nel bacino meridionale del Fiume delle Perle, dove sorgono, a nord, la colossale Guangzhou (11 milioni e settecentomila residenti), le medie Foshan e Dongguan. A ovest Zhaoquing, a est Huizhou, a sud Jlangmen, Zhongshan, Shenzen e la derelitta Zhuhai (un milione e mezzo di cittadini). Diventeranno isole di terraferma d’un unico arcipelago, ciascuna con la prospettiva di estendersi a «avvicinarsi alle altre».
Lo scherzetto dovrebbe costare tra infrastrutture, progetti correlati, revisioni di trasporti e servizi l’equivalente di circa 250 miliardi di euro. Nel giro sei anni dovrebbero andare a compimento lavori legati ai trasporti, all’energia elettrica, alla distribuzione dell’acqua, alle telecomunicazioni. Una megalopoli direttamente collegata, via treno, al centro di Hong Kong.
«Libertà» è la parola chiave di Ma Xiangming, progettista capo al Rural Guangdong e Urban Planning Institute: «L’integrazione fra i centri, fino a divenire una sola grande area urbana, porterà a un costante e progressivo accrescersi della libertà negli spostamenti, la libertà di tutti nell’utilizzare i vari servizi, in primo luogo quelli sanitari».
Xiamgming non ha ancora pensato un nome per la sua creatura: «Non è una situazione come Londra o Tokyo, qui non c’è una città cuore della megalopoli e quindi non possiamo utilizzare il nome di una di quelle già esistenti». Ma questo è un dettaglio da vedersi poi. Chiave del successo sarà secondo lui «la diffusione dell’industria e dell’occupazione in modo più uniforme in tutta la regione, l’equità con cui saranno distribuiti i servizi pubblici».
Si prevedono ventinove linee ferroviarie per seimila chilometri, ad alta velocità così da «spostarsi da un centro all’altro in un’ora». E non solo: prezzi del carburante unificati, scelta via Internet dei servizi, per esempio in quale ospedale della nuova città farsi ricoverare. Una città-primato, giacché oggi la megalopoli più grande è Tokyo con 34 milioni di abitanti, seguita da Seul e Delhi.
Da affrontare restano problemi come l’inquinamento, soprattutto in un’area dalla crescente industrializzazione come è questa. Ma sull’altro piatto della bilancia già si è posata la prospettiva di un continuo «aumento di competitività nella produzione. Lo stesso che si perseguirà con altri progetti di ingigantimento totale delle metropoli già immense accanto a «piccoli grappoli urbani» con appena una decina o una ventina di milioni di cittadini.

La Stampa 31.1.11
L’urbanista: “Sogno impossibile da realizzare”
di Flavia Amabile


Una megalopoli da 42 milioni di abitanti? La città più grande al mondo? Inimmaginabile, ma se proprio i cinesi intendono realizzarla stiano attenti a non centralizzare nulla. Questo è l’unico consiglio che riesce a dare Italo Insolera, architetto e urbanista con decenni di esperienza nello sviluppo di una metropoli, come quella di Roma. Sarà in realtà un’unione di nove città che si trovano nella regione del Delta del Fiume delle Perle. «Oltre una certa dimensione - infinitamente più piccola di quella di cui si parla nel progetto cinese - si preferisce usare il termine metropoli con più centri. Una città unica di queste dimensioni è impossibile da realizzare».
Qual è questo limite? «Intorno ai 3-4 milioni, ma probabilmente bisogna intendersi anche su che cosa si intende per città». Questa sarà una megalopoli e i cinesi, pur avendo parzialmente smentito la notizia, sembrano crederci davvero. «Superare il tetto dei 4 milioni significa andare incontro a notevoli difficoltà di gestione». I piani prevedono circa 150 progetti diversi per unire i servizi di trasporto, energia, telecomunicazione e acqua. «Quello che si è capito nel gestire metropoli come Roma o altre grandi città italiane sono i problemi legati ad un’amministrazione centralizzata. Roma non funziona come potrebbe perché è il Comune ad accentrare poteri e soldi dell’intera gestione dei servizi. Non è il modello che garantisce efficienza e rapidità di decisione».
Quale modello funziona meglio? «Quello di Parigi, ad esempio, dove gli arrondissement sono nati sulla base di un progetto ideato e realizzato prima che arrivassero case e persone. Quando sono stati abitati sono arrivati anche poteri e soldi per poter amministrare, non come accade nelle circoscrizioni romane che spesso hanno una funzione del tutto accessoria. Più o meno lo stesso tipo di organizzazione esiste a Londra». La futura megalopoli cinese sarà un sistema integrato dove chiunque potrà liberamente usufruire di trasporti o servizi sanitari. «Quando le dimensioni sono troppo estese per ottenere risultati vincenti, non vedo altra strada se non la divisione e la distribuzione in tutto il territorio dei centri dove le decisioni vengono prese e realizzate».

Repubblica Firenze 29.1.11
"Liceo solo per fiorentini da tre generazioni" la lezione shock nel Giorno della Memoria
di Maria Cristina Carratù

FIRENZE - «Cari ragazzi, chi di voi non è di Firenze da settembre dovrà lasciare questa scuola, e anche questa città. Ordine del Ministero della pubblica istruzione...». Scene da un mondo che si vorrebbe aver lasciato per sempre alle spalle, e invece è sembrato ripresentarsi in un´aula del liceo artistico di Porta Romana. Dietro la cattedra l´insegnante di Lettere, Marzia Gentilini, dall´altra parte la sua classe, formata da ragazzi fiorentini ma anche stranieri, e di altre regioni d´Italia. «Era il giorno della Memoria» racconta l´insegnante, «e ho voluto far sperimentare ai ragazzi di oggi cosa hanno provato i loro coetanei di settant´anni fa all´entrata in vigore delle leggi razziali». Un modo per uscire dalla retorica del ricordo, e restituire il senso di una esperienza viva al posto della comoda ritualità delle celebrazioni. Anche a costo di essere brutale. «Appena entrata in classe» racconta Gentilini, «ho fatto finta di leggere una circolare del Ministero. Entro il 15 aprile, ho spiegato, dovete portare il certificato di nascita e di residenza, vostro, dei vostri genitori e anche dei vostri nonni. Perché chi non è nato qui, da settembre non potrà più frequentare qui le scuole. E vale anche per noi docenti: io, per esempio, dovrò tornare in Emilia Romagna».
Difficile, dice l´insegnante, descrivere le reazioni dei ragazzi, passati dall´incredulità allo sgomento, alla disperazione, alla rabbia: «Ma allora, prof, io devo tornare in Cina?» si lamentava un alunno con gli occhi lucidi, «e io in Eritrea, dove non conosco nessuno?» piangeva un altro, e lo stesso dicevano un albanese, e un ragazzo di Napoli, uno che aveva il nonno piemontese e uno con la nonna della Calabria. «Possibile, e dove dovremmo andare?», «E perché la tv non ne ha parlato? E Internet?». Lo sgomento non era solo dei diretti interessati, ma anche dei compagni "salvati" dalla circolare, incapaci di rassegnarsi di dover perdere degli amici per una ragione tanto assurda come l´essere nati in un posto invece che in un altro: «Assurda, ma la stessa delle leggi razziali del ‘38» ricorda Gentilini. «Mio nonno è di Napoli, ti ospito a casa mia» si è offerto un ragazzo. La simulazione è durata mezz´ora, poi l´insegnante ha gettato la maschera: «Calma ragazzi, è tutto inventato. Ma attenti, perché in Italia, non molti anni fa, è andata proprio così». Tensione sciolta, lacrime asciugate. Ma le coscienze, ora, non sono più le stesse: «Qualche genitore mi ha chiamato per chiedermi spiegazioni» spiega la prof, «ma la maggior parte mi ha ringraziato». «Quell´insegnante ha avuto un´idea geniale» si congratula l´assessore alla Pubblica istruzione Rosa Maria De Giorgi, «mi piacerebbe incontrarla. La Giornata della Memoria non sia mai un appuntamento rituale che si ferma alla pagina di un libro».

domenica 30 gennaio 2011

Repubblica 30.1.11
L´intervista
D´Alema: ora basta andiamo alle urne un´alleanza costituente può salvare il Paese
di Massimo Giannini


La legittimazione maggioritaria usata contro il principio di legalità: è questo il vero atto eversivo
Una consultazione potrebbe chiedere agli italiani di scegliere tra parlamentarismo e presidenzialismo
Siamo in una crisi democratica gravissima. Le oppo- sizioni mettano da parte politicismi e interessi personali

ROMA - «Il Paese attraversa una crisi democratica gravissima. Se Berlusconi non si dimette, l´unico modo di evitare l´impasse e il caos politico-istituzionale è andare alle elezioni anticipate. Chiedendo agli elettori di promuovere quel governo di responsabilità nazionale che è necessario al Paese, per uscire da una crisi così profonda. Lancio un appello alle forze politiche di questo potenziale schieramento: uniamoci, tutti insieme, per superare il berlusconismo». Massimo D´Alema rompe gli indugi. Di fronte alla "notte della Repubblica" in pieno corso, il presidente del Copasir apre per la prima volta al voto anticipato, e invita tutti, dal Terzo Polo all´Idv alla sinistra radicale, ad allearsi con il Pd in una sorta di "Union sacrè" elettorale.
Presidente D´Alema, siamo al punto di non ritorno: il Quirinale lancia un serio altolà contro la degenerazione politica, tanto da far ipotizzare ad alcuni ministri un ricorso all´articolo 88 della Costituzione, e quindi lo scioglimento delle Camere. Lei che ne pensa?
«Mi lasci essere prudente su iniziative che vengono attribuite al Capo dello Stato. Ma il solo fatto che circolino ipotesi di questo tipo dimostra quanto sia drammatica la situazione in cui ci troviamo. Ormai siamo in piena emergenza democratica. Non voglio parlare dello scenario morale, che pure è uno dei lasciti più devastanti del berlusconismo come disgregazione dei valori condivisi. Mi riferisco alla crisi politica e istituzionale, al conflitto tra i poteri dello Stato innescati da un premier che rifiuta la legge. Questo è il vero fatto eversivo: la legittimazione maggioritaria che si erge contro il principio di legalità. Una situazione insostenibile, che ci ha portato alla paralisi totale delle istituzioni, e persino all´idea pericolosa di fare appello alla piazza contro i magistrati, di cui stavolta tutto si può dire fuorché non abbiano agito sulla base di un´ipotesi accusatoria fondata. La vera anomalia è nel fatto che in tutti i paesi del mondo un leader nelle condizioni di Berlusconi si sarebbe dimesso già da tempo, o sarebbe stato già "dimesso" dal suo partito».
Qui non succede. Il premier si dichiara innocente, e dice che ad andarsene deve essere Fini, invischiato nella vicenda della casa di Montecarlo. Chi ha ragione?
«Trovo paradossale questa campagna contro Fini. Ciò che gli si imputa non ha alcuna rilevanza pubblica e non c´entra nulla con il modo con cui presiede la Camera dei deputati. In realtà le istituzioni sono state trasformate in un campo di battaglia e davvero non vedo, nella maggioranza, senso dello Stato».
Ma è con questa realtà che dovete fare i conti. Come se ne esce?
«Noi abbiamo dato la nostra disponibilità a lanciare una fase costituente con le forze che ci stanno, per aprire una crisi e proporre un governo alternativo. Ma a questo punto, se Berlusconi non prende atto dell´insostenibilità della sua posizione di premier, l´unica soluzione è quella delle elezioni anticipate».
Non avete più paura del voto?
«Non abbiamo mai avuto paura. Era doveroso esperire tutti i tentativi per impedire una fine traumatica della legislatura. Ma ora anche questa fase si sta consumando. Quando Bossi ripete che è ancora possibile fare il federalismo - al di là del merito assai discutibile dei decreti in esame, definiti con sconcertante solennità "federalismo" - esprime una pia illusione: non si accorge che proprio la paralisi creata da Berlusconi è il principale ostacolo per raggiungere lo scopo? Ora vedo che Casini parla di larghe intese come in Germania. E´ bello questo riferimento, salvo che al posto della signora Merkel noi abbiamo il presidente Berlusconi, che non è esattamente la stessa cosa. In ogni caso, Casini aggiunge che se le larghe intese non fossero possibili, bisognerebbe andare alle elezioni anticipate. Lo giudico un fatto positivo, che rafforza il mio appello sul voto e sul governo di responsabilità nazionale. Non c´è altra strada. L´idea di ricomporre un centrodestra "europeo", rispettoso dei magistrati e dell´etica pubblica, non è più all´ordine del giorno. In quella metà campo c´è solo un blocco di potere, creato da Berlusconi, e una minoranza fanatica che lo segue sempre e comunque».
"Minoranza", dice lei? L´hanno votato milioni di italiani.
«Le confermo: minoranza. Oggi Pdl e Lega, insieme, sono al 40%. Le forze dell´opposizione rappresentano il restante 60%, cioè la maggioranza degli italiani».
Ma non rappresentano un´alternativa credibile, e dunque votabile. Lo dicono tutti i sondaggi.
«Questo è il punto. L´opposizione appare debole perché finora non ha saputo delineare un progetto alternativo, né contrastare il ricatto del premier che afferra il Paese per la gola e gli dice: o me o il nulla, non esiste alternativa possibile. Per questo propongo di rompere lo schema. Di fronte al conflitto istituzionale permanente e alla paralisi politica, le opposizioni sono chiamate a una forte assunzione di responsabilità. Qui c´è una vera e propria emergenza democratica. Se ne esce solo con un progetto di tipo costituente, che fa coincidere la conclusione del ciclo berlusconiano con la fine di una certa fase del bipolarismo e raduna il vasto schieramento di forze che si oppongono a Berlusconi: presentiamoci agli elettori e chiediamogli di sostenere un governo costituente che abbia tre obiettivi di fondo».
Ce li riassuma. Primo obiettivo?
«Primo obiettivo. Sciogliere il nodo della forma politico-istituzionale del bipolarismo italiano. Siamo in un sistema plebiscitario e populista, costruito intorno a Berlusconi. Dobbiamo finalmente costruire un bipolarismo democratico. Occorre stabilire un nuovo equilibrio. Quale forma di governo vogliamo? Non demonizzo l´ipotesi presidenzialista, sul modello francese. L´importante è ridefinire in un quadro organico il sistema delle garanzie, dei contrappesi, dei conflitti di interesse, dell´informazione. E a tutto questo occorre collegare un modello di legge elettorale coerente, che ci consenta di salvare il bipolarismo, ma rifondandolo su basi nuove. La scelta del modello istituzionale si potrebbe persino affidare ai cittadini. Si potrebbe pensare ad un referendum popolare di indirizzo, per far cominciare davvero la Seconda Repubblica, chiedendo agli italiani di esprimersi: repubblica presidenziale o repubblica parlamentare?».
Gli altri due obiettivi?
«Il secondo è un grande patto sociale per la crescita. Lo sperimentammo sull´euro, e fu il vero successo degli Anni Novanta. Oggi ce n´è altrettanto bisogno. Ma non può essere affidato solo alle parti sociali, nè può essere pagato solo da una delle parti. E questo mi sembra il vero limite dell´accordo Fiat: la modernizzazione solo sulle spalle degli operai. Il nuovo patto deve contenere un´impronta liberale, ma temperata da una forte carica di giustizia sociale e di lotta alle disuguaglianze. Il terzo obiettivo è il funzionamento dello Stato. Lo stesso federalismo, se non è collegato a una vera riforma della Pubblica Amministrazione (e quella di Brunetta non lo è) si riduce a semplice redistribuzione del potere tra le elite».
Ma perché questa idea del governo dell´emergenza dovrebbe funzionare ora, visto che se ne discutete inutilmente da mesi?
«Perché la situazione precipita. La crisi politico-istituzionale, l´accavallarsi delle vicende giudiziarie, la guerra tra i poteri dello Stato. Cos´altro deve succedere, per convincerci della necessità di una svolta?».
Chi è il candidato premier di questo Cln che si presenta alle elezioni anticipate? È vero che lei punta su Casini, per chiudere l´accordo con il Terzo Polo?
«Non punto su nessuno e non spetta a me questa indicazione. Se questa riflessione sarà condivisa, sarà il mio partito con il suo segretario e i suoi organismi dirigenti a compiere le scelte necessarie».
La scelta può cadere anche su un «papa straniero», tipo Draghi o Monti?
«Mi creda, questa è una partita troppo importante per essere giocata nel solito toto-nomi. L´importante è avere chiara la portata della posta in gioco».
Il Pdl è in pieno disfacimento, ma anche il Pd non sta messo bene. Che mi dice del disastro delle primarie a Napoli?
«Intanto a Napoli spero che venga accolto l´appello di Bersani a trovare una soluzione unitaria. Più in generale, mi auguro che questa vicenda ci aiuti a fare una discussione serena e non ideologica. L´ho detto un migliaio di volte, guadagnandomi sul campo l´accusa di "nemico del popolo": ci sarà pure un motivo se gli americani, che le primarie le hanno inventate, hanno un sistema che assicura il voto solo agli iscritti al partito, e non al primo che passa. Se avessimo adottato questo sistema anche noi, oggi sapremmo chi ha votato a Napoli, e non ci troveremmo in questo caos. La democrazia è fatta di regole, altrimenti è pura demagogia. Io non sono contro le primarie. Anzi, le voglio salvare. Ma per salvarle, so che dobbiamo regolarle in un altro modo».
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 30.1.11
Quante sono le divisioni del capo dello stato
di Eugenio Scalfari


Siate buoni! Lo dice un uomo anziano che fabbrica ciambelle col buco e ne diffonde il consumo e poi - non so perché - chiude con questa esortazione il suo messaggio pubblicitario. Ma le sue ciambelle sono fatte con ottima farina. Qui, nella ciambella Italia, è l´ottima farina che manca, la nostra è una farina piena di vermi e di impurità ed è la materia prima che fa difetto.
Perciò l´esortazione ad esser buoni, che la più alta autorità dello Stato non cessa di lanciare alle forze politiche e alle istituzioni imbarbarite, cade in un vuoto dove s´incrociano grida, insulti, delegittimazioni e malcostume diffuso in tutti i livelli.
Si accumulano indizi e prove di gravi reati, ma non è neppure questo l´aspetto che desta maggiore sgomento: i reati, veri o presunti, hanno i loro luoghi per essere accertati ed eventualmente puniti; ma è l´indecente spettacolo dei comportamenti viziosi e della paralisi istituzionale che ne consegue a gettare il Paese nello sgomento. L´articolo 54 della nostra Costituzione esorta ed anzi impone al titolare di quella istituzione di comportarsi con decoro, ma non era mai accaduto nella nostra storia di centocinquanta anni che l´onore e il decoro istituzionale fossero violati fino a tal punto.
C´è un solo luogo pubblico, un solo Palazzo, che non è stato lambito da quest´ondata di disistima ed è il Quirinale, la presidenza della Repubblica.
Si dice che il Capo dello Stato, al di là delle esortazioni, dell´esempio e dei pressanti consigli, non abbia altri strumenti per intervenire e ci si domanda sconfortati: di quante divisioni dispone Giorgio Napolitano? E´ un potere armato o disarmato? E´ soltanto una voce che grida nel deserto e altro non può fare?
In realtà il Presidente non è soltanto una voce e una presenza vigilante ma non operativa. A parte il potere di promulgare le leggi o di rinviarle al Parlamento, che non può essere reiterato, il Presidente dispone di altri due strumenti previsti dalla Costituzione.
Il primo riguarda la formazione del governo, il secondo lo scioglimento anticipato delle Camere. Si tratta di strumenti estremamente incisivi, che vanno dunque usati con la massima ponderazione, ma che costituiscono una riserva preziosa quando le strutture istituzionali rischiano di decomporsi in un generale marasma.
Questo rischio sta incombendo sulla nostra democrazia, sicché i due strumenti che abbiamo sopra indicati vanno esaminati con attenzione e se del caso utilizzati dal Capo dello Stato che ne ha la titolarità.
* * *
La formazione del governo. La Costituzione stabilisce che «il presidente della Repubblica, sentiti i presidenti delle Camere e i rappresentanti dei gruppi parlamentari, nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri». L´articolo successivo prescrive che «il governo entro quindici giorni dal suo insediamento si presenta in Parlamento per ottenere la fiducia».
Questa procedura è chiarissima né si presta ad equivoci. Il Capo dello Stato «nomina» il presidente del Consiglio e le opinioni espresse dai presidenti delle Camere e dei gruppi parlamentari non vincolano il Capo dello Stato ma contribuiscono a renderlo compiutamente informato sugli orientamenti del Parlamento.
Su questa procedura costituzionale si è sovrapposta la prassi dell´incarico esplorativo. Sulla base di questa prassi il Capo dello Stato anziché nominare, incarica una personalità da lui scelta per accertare preliminarmente l´esistenza di una maggioranza parlamentare disposta a dare la fiducia all´incaricato. Se l´accertamento dà esito positivo, l´incaricato scioglie la riserva e il Capo dello Stato lo nomina; se l´accertamento è negativo al Capo dello Stato non resta altra soluzione che lo scioglimento delle Camere.
Questa prassi tuttavia non è affatto vincolante poiché non prevista in Costituzione. Il governo Pella per esempio fu «nominato» da Luigi Einaudi senza l´accordo della Dc di cui Pella era peraltro autorevole membro. Quando si presentò alle Camere la fiducia comunque la ottenne senza averne avuto la certezza preliminare. Le cose andarono in modo non identico ma analogo quando Gronchi nominò Tambroni a capo del governo.
Ci sono situazioni nelle quali la maggioranza esistente è soltanto formale e posticcia e può modificarsi di fronte all´iniziativa del Capo dello Stato il quale, se si rende conto di questa possibilità, può tenerne conto operando di conseguenza. Non si tratta di una forzatura interpretativa ma dello scrupoloso rispetto di quanto stabilisce la Costituzione.
Noi pensiamo che la situazione attuale potrebbe esser risolta, nel caso in cui l´attuale governo fosse sfiduciato o decidesse di dimettersi, direttamente con la nomina d´un nuovo presidente del Consiglio e senza bisogno d´un incarico preliminare.
* * *
Il secondo strumento riguarda lo scioglimento delle Camere in anticipo con la loro naturale scadenza. Esso può essere deciso dal Capo dello Stato senza bisogno che il governo in carica glielo chieda. La Costituzione infatti non prevede questa richiesta.
Naturalmente il Capo dello Stato deve avere una valida ragione per metter fine anticipatamente alla legislatura. Quando per esempio una Camera sia guidata da una maggioranza diversa da quella esistente nell´altra Camera, oppure quando il governo in carica non sia più in grado di governare; oppure per altre ragioni ancora, come accadde quando il Senato fu sciolto anticipatamente per due volte con l´obiettivo di far coincidere nella stessa data la scadenza delle due Camere, che all´epoca avevano una durata diversa.
Il marasma attuale e le reciproche delegittimazioni che si lanciano le più alte cariche istituzionali potrebbe ampiamente giustificare uno scioglimento delle Camere ancorché in presenza di un governo non sfiduciato.
Siamo arrivati al punto che il partito di maggioranza chiede le dimissioni del presidente della Camera, il quale a sua volta chiede le dimissioni del presidente del Consiglio; quest´ultimo insulta quasi quotidianamente la Corte costituzionale e - da quando ha ricevuto mandato di comparizione per essere interrogato per gravi reati - estende l´insulto alla Procura di Milano definendola (anche qui quotidianamente e pubblicamente) sovversiva ed eversiva e rifiutando di presentarsi al suo cospetto per essere interrogato. Come tutto ciò non bastasse, il partito finiano denuncia al Tribunale dei ministri il ministro degli Esteri per abuso d´ufficio, il Pd e l´Udc deplorano il presidente del Senato, i rappresentanti della Lega e del Pdl disertano le riunioni del Copasir (Comitato di controllo parlamentare dei servizi di sicurezza) che ha chiamato a deporre il presidente del Consiglio o in sua vece il sottosegretario Gianni Letta.
Infine si fa strada una singolarissima prassi da parte di Berlusconi d´intervenire telefonicamente nelle trasmissioni televisive per insultare i conduttori e gli ospiti delle medesime, imitato dal direttore generale della Rai, Masi, che interrompe in diretta Annozero dando vita ad una rissa verbale con Santoro davanti a sette milioni di telespettatori.
Se in queste condizioni Giorgio Napolitano decidesse di sciogliere il Parlamento e rimettere il giudizio su quanto avviene al popolo sovrano, credo che nessuno potrebbe formulare nei suoi confronti la menoma critica: farebbe il suo dovere rispettando in pieno la lettera e lo spirito della Carta costituzionale.

Corriere della Sera 30.1.11
Veltroni convince i finiani: sì a una manifestazione nazionale
di  Alessandro Trocino


ROMA— Mobilitazione nelle piazze, discussioni e litigi dentro casa. Il Partito democratico prova a chiamare alla riscossa gli italiani, lanciando raccolte di firme e manifestazioni, ma sconta ancora gli effetti delle primarie napoletane, che hanno scosso il partito tra accuse di brogli e irregolarità. E intanto si apre anche un altro fronte polemico interno, con il Movimento democratico (Modem), attivissimo: da una parte Walter Veltroni gioca in solitaria e invita l’opposizione a scendere in tutte le piazze d’Italia; dall’altra Beppe Fioroni chiede a sorpresa le dimissioni di Gianfranco Fini, insieme a quelle di Silvio Berlusconi. — non c’è pace nel Pd napoletano. Il vincitore delle primarie, Andrea Cozzolino, non ha alcuna intenzione di fare il passo indietro che gli è stato chiesto dal partito. Ma anche lo sconfitto, Umberto Ranieri, contesta la linea della segreteria, a partire dalla decisione di commissariare il partito, inviando Andrea Orlando: «Mi auguro che non sia una ritorsione per la limpidezza con la quale Nicola Tremante, segretario uscente, ha parlato di come sono andate le cose» . Da Tremante erano arrivate le accuse più forti di brogli. Per Ranieri la sua sconfitta è figlia di un «sistema di potere che ha prodotto uno sconcio per scongiurare la svolta» . E la decisione di commissariare è «politicamente avventata, improvvida, sbagliata e incomprensibile» . Parole alle quali replica Enrico Letta: «Cozzolino sbaglia, serve generosità» . Insomma, faccia un passo indietro, di modo che si possa trovare una personalità autorevole, magari quel Raffaele Cantone invocato da Roberto Saviano e Walter Veltroni. E proprio quest’ultimo ieri su Repubblica ha lanciato un’iniziativa forte, chiedendo all’opposizione di scendere in piazza lo stesso giorno in tutti gli ottomila Comuni italiani per «uscire da questo immobilismo malato, da questa rissosità inconcludente» . Iniziativa che va a sovrapporsi a quella del partito, che ha cominciato la raccolta firme per raggiungere quota 10 milioni entro l’ 8 marzo. Nessuna reazione ufficiale della segreteria all’uscita di Veltroni, ma a Largo del Nazareno non si nasconde una certa irritazione: «Vanno bene tutte le iniziative, ma sia chiaro che il Pd nelle piazze c’è già» . A dar manforte a Veltroni ci sono i senatori democratici Roberto Della Seta e Francesco Ferrante: «Veltroni ha ragione, l’Italia sana si ribelli pacificamente allo spettacolo vomitevole del crepuscolo berlusconiano» . E con l’ex segretario si schiera anche FareFuturo, la rivista finiana che si dice d’accordo «con l’idea di una manifestazione» . Ma c’è un altro elemento di frizione nel Pd ed è l’iniziativa di Fioroni (anche lui nel Modem di Veltroni), che chiede sia a Berlusconi sia a Fini di «fare un passo indietro per il bene dell’Italia» . E non importa che il Pd possa allearsi con il Terzo Polo, come aggiunge Enrico Gasbarra: «Dobbiamo avere il coraggio di andare oltre le convenienze politiche per sostenere il Paese sull’esempio dei padri costituenti» . Ma Bersani non ci sta ad attaccare Fini e fa sapere che bisogna «concentrare tutte le energie sul premier e il suo governo che paralizza il Paese» .

Repubblica 30.1.11
Parla lo storico Gilles Kepel, specialista di Islam
"Una rivoluzione inevitabile la gente non sopporta più i despoti e gli estremisti"
di Pietro Del Re


Mubarak non è in grado di risolvere i problemi interni e ha fatto perdere al Paese il ruolo di potenza che aveva una volta in quella parte di mondo
Dalla Tunisia all´Egitto le società arabe hanno dimostrato il desiderio di voler rientrare a far parte della Storia universale

«Erano inevitabili i moti di Tunisi e del Cairo? Sì, perché le società arabe non ne possono più di sentirsi prigioniere in un vicolo cieco dove ognuno è oppresso o dal despota locale o dal mullah estremista». Gilles Kepel, specialista di Islam e direttore della cattedra "Moyen-Orient Méditerranée" all´Institut d´études politiques di Parigi non sembra pessimista su quanto sta accadendo in Tunisia e in Egitto. «Sono società che hanno dimostrato il desiderio di voler rientrare a far parte della Storia universale, da cui sono state scansate o dal dittatore di turno o dalla Jihad».
Professor Kepel, in poche ore le piazze hanno cambiato la storia araba. Ma quali sono adesso gli esiti possibili degli sconvolgimenti in corso?
«Mubarak era diventato un problema per una parte dell´establishment egiziano, perché non è stato in grado di risolvere i problemi interni e perché ha fatto perdere all´Egitto il ruolo di prestigio e di potenza che aveva una volta in quella parte di mondo. Il Libano, per esempio, è oggi un scacchiere dove intervengono Ankara e Teheran, ma dove il Cairo è totalmente assente».
Come valuta la nomina di Omar Suleiman a vicepresidente egiziano?
«Credo che da anni Suleiman sia il vero padrone dell´Egitto, così me in Algeria il capo dei servizi, Taoufik, sia a capo del paese. Suleiman negozierà adesso con le diverse forze dell´opposizione e con gli Stati Uniti. Quando lo incontrai un anno fa mi disse che era determinato a impedire con ogni mezzo che i Fratelli musulmani prendano il potere in Egitto».
E le sembra ancora possibile?
«A differenza di quanto è accaduto in Tunisia, dove sono stati duramente repressi, e dove c´è una classe media liberale e culturalmente franco-araba, in Egitto i Fratelli musulmani sono oggi la forza politica dominante nel paese. Inoltre, in Egitto, la classe media non mantiene legami con la massa composta da 80 milioni di egiziani, e la sua capacitò di influenzarla è praticamente nulla».
E quindi?
«Quindi il generale Suleiman sarà costretto a trovare un´equazione politica che permetta la transizione verso il futuro. Mi sembra più un facitore di re, che lui stesso un potenziale re».
Le sembra esagerato chi parla di un ‘89 arabo, collegando i moti egiziani e tunisini al cataclisma epocale della rivoluzione francese?
«Da diversi decenni la situazione in Medio Oriente è stata bloccata attorno a tre assi: israelo-palestinese, i paesi del Golfo e il Pakistan-Afghanistan. Quello che sta succedendo adesso, rispecchia invece un´influenza che proviene da Ovest. Ovvero dal Maghreb e dalla Tunisia, paese questo che è il più vicino alla cultura europea. "Ben Ali dégage" (Ban Ali vattene) è stato ripreso anche in Egitto con "Mubarak dégage", in un paese dove quasi più nessuno parla francese. È qualcosa di sicuramente simbolico che gli slogan degli insorti siano stati pronunciati nella lingua della rivoluzione francese».
Come valuta le rivelazioni di WikiLeaks secondo cui da tre anni gli Stati Uniti appoggerebbero la rivolta egiziana?
«Non mi stupisce».
E ora quali sono le altre dittature a rischio?
«Nello Yemen si percepiscono diversi segnali di fragilità. Se, come sembra, il sistema Mubarak dovesse scomparire, si produrrebbe sicuramente un effetto tsunami».
Nel saggio Jihad lei interpretava la radicalizzazione del mondo arabo come un segno di declino e non di maggiore potenza. In che chiave si possono leggere le violente proteste di oggi?
«La voglia di alcuni popoli di rientrare nella Storia contemporanea».

il Fatto 30.1.11
Kifaya: Basta, il grido che unisce l'opposizione
Una galassia di movimenti che ora può superare le faide interne


Kifaya in arabo significa “basta”. Basta Mubarak, basta corruzione, basta rincari del pane, basta disoccupazione, basta omicidi di giovani che denunciano la corruzione della polizia. Come Khaled Said, un giovane di 28 anni, massacrato a morte nel giugno scorso, dopo aver caricato su internet un video in cui una squadra di agenti di poliziotti si spartisce una partita di droga, dopo una retata. La foto con il volto sfigurato di Khaled, a 6 mesi dalla sua morte, è l'immagine simbolo della rivoluzione egiziana. Viene alzata dalla folla, al grido di Kifaya! È brandita da tutti i membri dei gruppi, partiti e movimenti di opposizione che dal 25 gennaio sono scesi nelle strade delle città egiziane, a partire dal gruppo dal movimento per il cambiamento democratico. È uno dei principali gruppi di opposizione, meglio conosciuto come movimento kifaya per l'appunto, nato nel 2004. Tra i   suoi fondatori, il più noto a livello internazionale è sicuramente l'intellettuale - scrittore Ala Al Aswani. Ieri la sua assistente Dalia El Sayegh ci ha spiegato quanto sia difficile contattare Aswani perché partecipa a tutte le manifestazioni al Cairo: “E nelle zone delle manifestazioni spesso non c'è segnale”. Kifaya e soprattutto il movimento 6 aprile sono i più seguiti dai giovani, perché fin dalla loro nascita hanno utilizzato internet come strumento principale di organizzazione e diffusione delle proprie istanze.
Il “6 aprile” è nato su Facebook nel 2008 in occasione di uno sciopero. Ha una storia fatta da ragazzi che hanno frequentato l'università, che credono nella laicità dello Stato e nella democrazia. Inizialmente si erano conosciuti virtualmente, attraverso il social network, poi si sono incontrati per la prima volta nella sede del partito El-Ghad. Dietro questo movimento c'è la volontà ferrea di un giovane ingegnere civile che lavora per   un'impresa di costruzioni: è noto come Maher. Pur essendo già militante di El-Ghad, Maher riteneva che i metodi di lotta utilizzati dai partiti fossero inefficaci. Si concentrò su Facebook per sfuggire alle infiltrazioni della polizia postale che fino ad allora aveva infiltrato solo i singoli blogger e le comunicazioni via   mail. Nel 2006 il blogger Mohammed El Sharqawi fu incarcerato e sodomizzato per aver partecipato alle proteste. Altri sono ancora in prigione.
I vecchi partiti non sono seguiti dai giovani e molta parte della popolazione li sente lontani, anche perché al loro interno nascono continuamente fazioni e faide. El-Ghad fu fondato da Ayman Nur, che ha passato ben 3 anni in carcere. Ora ha ripreso le redini del partito ed è sceso in piazza. L'altro partito è il Wafd, l'unico d'opposizione legale e per questo guardato con sospetto. Le speranze della comunità internazionale sono riposte nel-l’Associazione nazionale per il cambiamento (Nac) fondato dal Nobel El Baradei: movimento trasversale che comprende altri leader di partiti liberali, attivisti e intellettuali, la maggior parte laici. (R. Z.)

La Stampa 30.1.11
L’esercito non spara “Vogliamo proteggervi”
La polizia sparisce dalle strade e la gente offre il tè ai militari sui carri armati
dio Paolo Mastrolilli


La polizia è sparita dalle strade del Cairo, dopo la battaglia del venerdì di preghiera. In giro sono rimaste solo decine di camionette bruciate, più i cecchini che sparano e uccidono dai tetti del ministero dell’Interno. La capitale è in mano all’esercito che ha schierato i carri armati, ma lascia che la gente salga sulle torrette per farsi fotografare con i soldati.
Da questo, dal comportamento dei militari, dipenderà il futuro di un Paese finito al bivio tra la democrazia e la carneficina.
Alle nove di mattina piazza Tahrir è già piena di dimostranti, ma pare una festa di paese più che una rivoluzione. È sabato, giorno di vacanza, e persino le famiglie con mogli e bambini sono venute a vedere il campo di battaglia. Ahmed Ibrahim sta seduto sopra la corazza di un carro armato e chiacchiera amabilmente col pilota. In mano tiene il tricolore egiziano: il nero che simboleggia la repressione, il rosso che è il sangue della rivolta, e il bianco che è la luce del nuovo inizio.
Ma perché i soldati sono amici e i poliziotti nemici? Ahmed estrae dalla giacca una foto che spiega tutto: lui in divisa dentro un cingolato. «Pure io - dice - ho fatto il militare. Loro sono come noi, gente del popolo che difende la nazione dalle minacce esterne. I poliziotti, invece, sono gli aguzzini del regime che ci opprime». Il pilota del carro sorride e annuisce: «Anche lui - giura Ahmed - odiaMubarak».
È così in tutta la piazza. La gente va col telefonino a riprendere le immagini della sede del partito di Mubarak, ancora fumante per l’incendio della notte prima. Davanti c’è una camionetta carbonizzata della polizia. Dentro si vedono ancora pagnotte bruciate dalle fiamme: gli agenti antisommossa, evidentemente, si erano attrezzati per resistere a lungo. Invece sono fuggiti. Omar scatta foto e sospira: «Mi dispiace tanta violenza, però oggi sento come un senso di liberazione. L’unica paura è che Mubarak abbia ritirato apposta la polizia: così comincerà l’anarchia. In periferia è già iniziata, girano le bande. I criminali si metteranno a saccheggiare i negozi e la gente finirà per pregare che il Presidente riporti l’ordine».
Un ufficiale si sgola col megafono: spiega che l’esercito e il popolo sono una cosa sola, ma il popolo non deve esagerare: «Fate quello che credete ora, ma quando alle 6 del pomeriggio comincia il coprifuoco, tutti a casa». Sta in piedi sopra un M60, vecchio carro armato americano della serie ispirata al generale Patton. Fino a una dozzina di anni fa li aveva in dotazione anche l’esercito italiano, di stanza dalle parti di Aviano per prevenire l’ipotetica invasione sovietica dal Carso. Sono carri buoni per combattere nel deserto, perché hanno la pancia alta, ma meno agili in città.
Sulla torretta, oltre al cannone da 105, montano mitragliatrici Springfield calibro 12,7. Una raffica di queste armi, semmai i soldati cominciassero a usarle, non uccide un uomo: lo taglia a metà. Altro imbarazzo per Washington, che regala un paio di miliardi di dollari all’anno all’Egitto, che poi li investe in carri armati e lacrimogeni americani.
Comincia a girare la voce che Mubarak ha davvero licenziato il governo, e ha scelto Omar Suleiman come vice presidente e Ahmed Shafiq come nuovo premier. È la prima volta che nomina un vice, e qualche analista azzarda che potrebbe essere l’inizio della transizione, visto che la moglie e il figlio Gamal sono già all’estero. Azza Hassen, un’avvocatessa che sta seduta davanti alla sede dell’Ordine, non abbocca: «State scherzando? Suleiman è il capo dell’intelligence da vent’anni, mentre Shafiq viene dall’aviazione militare come Mubarak. Questo vi pare il cambiamento? Queste sono le riforme? Vi dico io come finisce: la gente non smetterà di protestare fino a quando Mubarak non andrà via».
La tensione torna a salire verso le 5 del pomeriggio, quando la folla inizia a marciare sul palazzo della televisione di Stato. «Imbroglia la gente - dice un manifestante - dobbiamo chiuderla». Una colonna di 15 carri armati, in pratica un’intera compagnia, si schiera a difesa dell’edificio. Dal fondo del viale sul Nilo si sentono urla sempre più forti. Avanza una folla che tiene sollevato qualcosa che assomiglia a un uomo, avvolto in una bandiera egiziana. Dal drappo cola il sangue. Poco lontano i cecchini della polizia rimasti a guardia del ministero dell’Interno hanno cominciato a sparare contro i manifestanti che si avvicinavano.
Ci sono almeno cinque morti e la gente adesso porta il primo cadavere in processione per mostrarlo ai soldati. Le grida della protesta salgono, scuotono l’aria. Un ufficiale scende dal carro e ferma la sua faccia a due centimetri da quella di una leader dei manifestanti che gli urla contro. Le Springfield sulle torrette si abbassano ad alzo zero. L’ufficiale grida: «Il popolo e l’esercito sono una cosa sola. Siamo qui per proteggervi, non costringeteci a fare altro». Il corteo funebre continua la processione verso piazza Tahrir, i carri armati davanti al palazzo della tv rialzano le bocche da fuoco.
Qualcuno si avvicina per mettere un fiore dentro i lancia fumogeni dei cingolati, e qualche altro offre il tè ai soldati. Il canto del muezzin richiama alla preghiera, che comincia proprio sotto i carri armati: si stendono in terra le bandiere egiziane per chinarsi verso la Mecca. Arriva un’auto con a bordo un padre, Mohammed Shafi, e le sue tre figlie: la più piccola ha quattro anni e la più grande sette. Hanno tutte in mano una bandiera. Le prende una per una e con l’aiuto dei soldati le fa salire sopra un M60. Loro sventolano orgogliose il tricolore, i militari sorridono e il papà riprende la scena col cellulare. Ma perché? «E’ un momento storico - dice -, Mubarak sta per andare e io voglio che loro lo ricordino».
Può darsi, ma intanto dalla periferia arrivano voci di vigilantes armati alla buona, che pattugliano le strade contro le bande di saccheggiatori. La mossa di far uscire i soldati dalle caserme ha abbassato un po’ la tensione al centro, ma domani si torna a lavorare, anche se la tv ha annunciato che la Borsa resterà chiusa. Cosa faranno allora i soldati, durante il coprifuoco? E se domani la gente tornerà in piazza, lasceranno poggiare i fiori sui carri armati?

La Stampa 30.1.11
Al Cairo Obama punta sui generali
Washington incalza il raiss: “Rimescolare le carte non basta, ci vogliono riforme concrete”
di Maurizio Molinari


L’amministrazione Obama guarda alle forze armate egiziane come garanti della transizione verso le elezioni presidenziali di settembre. L’interlocutore privilegiato è il generale Sami Hafez Enan, capo di Stato Maggiore, che fino a venerdì mattina era al Pentagono per discutere con il parigrado americano Mike Mullen gli scenari strategici in Africa e Medio Oriente. Appena le proteste di piazza sono lievitate Hafez Enan è tornato in gran fretta in patria e il generale James Cartwright, vice di Mullen, ammette che «nei corridoi» sono avvenute «conversazioni» sui disordini.
Il paludato linguaggio del Pentagono cela il fatto che le forze egiziane sono considerate una garanzia di stabilità da Washington. Un veterano del Medio Oriente come Edward Djerejian, già ambasciatore in Siria e Israele, lo riassume così: «I militari hanno rovesciato la monarchia nel 1952, espresso tutti i presidenti da allora, riscattato l’onore nazionale con la guerra del 1973, non sono considerati corrotti e guidano il più potente esercito arabo nella nazione-perno della pace con Israele, che è anche titolare del Canale di Suez attraverso cui passa una buona parte del greggio per l’Occidente». Le immagini dei manifestanti che abbracciano i militari hanno rafforzato la convinzione americana che siano i generali a poter evitare l’incubo dello «scenario iraniano» che Martin Indyk, ex consigliere di Bill Clinton sul Medio Oriente, riassume con queste parole: «L’America deve fare attenzione a non commettere gli errori che nel 1979 spinsero le piazze iraniane ad esserci ostili, ne stiamo ancora pagando il prezzo».
Scongiurarlo significa spingere i militari egiziani a non sparare sui manifestanti, diventando piuttosto un pungolo per indurre Mubarak alle riforme, cominciando con garantire elezioni davvero libere. E’ questo il motivo che ha portato il presidente Barack Obama a minacciare l’interruzione degli aiuti annuali all’Egitto - 1,3 miliardi di dollari - se dovesse scattare la repressione: la maggioranza di tali fondi va infatti, dal 1978, ai militari che li hanno usati per costruire un esercito di tipo occidentale, con aerei e navi americane, addestrando una forza di 468 mila uomini che ne fa il decimo esercito al mondo. In concreto ciò significa che la Casa Bianca mette i generali davanti a un bivio: sparare sulla gente significa rinunciare ai fondi, con in più il rischio di far scivolare la rivolta nelle mani dei Fratelli Musulmani rimasti finora alla finestra.
L’esercito d’altra parte può essere tentato di cercare una rivincita su Mubarak, che ha sempre cercato di ridurne l’influenza con decisioni simili a quella presa nel 1989 quando defenestrò il ministro della Difesa Abdel Halim Abu Ghazala - un popolare eroe di guerra - per sostituirlo con il meno amato Hussein Tantawi. Se da un lato Washington guarda ai militari dall’altro preme su Mubarak affinché eviti la repressione. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Philip Crowley, gli manda a dire che «non basta rimescolare le carte» con il rimpasto di governo e «l’impegno alle riforme deve essere seguito da fatti concreti» mentre David Axelrod, guru politico della Casa Bianca, svela che «da due anni Obama preme su Mubarak per una svolta» facendo capire che la pazienza è finita. La designazione di Omar Suleiman come vicepresidente sembra premiare gli sforzi americani in atto perché lo zar dell’intelligence è un apprezzato interlocutore dei generali guidati da Hafez Enan: potrebbe essere un patto fra i due ad allontanare lo spettro di un collasso nazionale.
A confermare che da tempo Washington puntava ad un’accelerazione democratica c’è il dispaccio diplomatico redatto il 30 dicembre 2008 da Margaret Scobey, ambasciatrice al Cairo, a Hillary Clinton e reso pubblico da Wikileaks. Nel testo Scobey scrive «dobbiamo sostenere le riforme in Egitto» affermando di essere a conoscenza di «un piano segreto dei gruppi di opposizione per un cambio di regime prima delle presidenziali». Il memo fu mandato a Hillary in vista della partenza per New York di almeno un dissidente egiziano del gruppo «6 Aprile», che riuscì a lasciare Il Cairo sfuggendo ai controlli grazie agli americani.

La Stampa 30.1.11
Con gli arabi ad Auschwitz per capire
Cento politici e intellettuali visiteranno il campo: è la prima volta
di Abrahm B. Yehoshua


I primi sionisti non volevano espellere i palestinesi, ma furono visti come invasori
Molti in Medio Oriente avevano salutato l’Olocausto perché colpiva i loro nemici

Martedì prossimo, primo febbraio, una delegazione di un centinaio di personalità politiche e intellettuali provenienti da tutto il mondo arabo e musulmano, guidata dal presidente del Senegal e patrocinata dall’Unesco e dalla municipalità di Parigi, si recherà ad Auschwitz, in Polonia. Saranno accompagnati da un altro centinaio di personalità politiche, religiose e intellettuali cristiane, musulmane ed ebraiche di tutta Europa. Non è la prima volta che arabi musulmani visitano un campo di sterminio.
Ritengo però che una delegazione di tale livello e portata non si sia ancora vista, e questo non solo è un risultato molto positivo per l’Unesco e per la città di Parigi, che cercano di contrastare le ventate di antisemitismo e di anti-islamismo che soffiano sull’Europa, ma è anche un segnale della volontà di governi e di organizzazioni arabe e musulmane, nonché di intellettuali e di esponenti religiosi, di combattere il fenomeno della negazione della Shoah.
Il sionismo nasce come movimento nazionale politico alla fine del XIX secolo, 50 anni prima dell’Olocausto. E benché io non creda che i suoi ideologi fossero in grado di predire il terribile sterminio del popolo ebraico avvenuto a metà del ventesimo secolo, i più acuti tra loro (in gran parte scrittori e intellettuali) avvertirono che l’ostilità di stampo nazionalista che si andava diffondendo in Europa nei confronti degli ebrei avrebbe potuto rivelarsi ancora più grave e pericolosa di quella tradizionale di matrice religiosa. Così, anziché rimuginare su cosa fare perché il mondo si mostrasse più tollerante alla presenza ebraica, scelsero di operare un cambiamento di identità negli ebrei e, in primis, di instillare nelle loro coscienze la necessità di possedere un territorio definito. Non più una patria virtuale radicata nell’immaginario che gli ebrei serbavano in cuore spostandosi da una nazione all’altra come chi cambia albergo, ma una patria reale, dove potessero esercitare una loro sovranità e fossero responsabili del proprio destino.
Ma l’idea di raggrupparsi in un territorio definito era concepibile per gli ebrei unicamente in un luogo, nella loro patria storica e mai dimenticata menzionata anche nelle preghiere: la Terra d’Israele, chiamata però Palestina dal resto del mondo e dai suoi abitanti dell’epoca.
La stragrande maggioranza del mondo arabo, e in primo luogo i palestinesi, respinse categoricamente questa ipotesi ed è chiaro che chiunque altro al posto loro avrebbe fatto lo stesso. «Adesso vi siete ricordati di avere bisogno di uno Stato?», obiettarono, «avete cominciato ad abbandonare la Terra d’Israele 2500 anni fa. Già in epoca romana metà del popolo ebraico era disperso in tutto l’Impero. Dopo la distruzione del tempio, nel primo secolo d.C., ve ne siete andati definitivamente e benché nei duemila anni trascorsi abbiate avuto molte opportunità di farvi ritorno, non le avete sfruttate. Vi siete stabiliti ovunque nel mondo, persino nei Paesi intorno alla Palestina, solo qui non siete venuti. E adesso volete prendervela?».
In un primo momento i palestinesi pensarono che si trattasse di un nuovo tentativo di conquista coloniale da parte di europei. Tanto più che, come molti altri, ritenevano gli ebrei una collettività religiosa, e non nazionale. Ben presto, però, si resero conto che quella trasmigrazione, avvenuta in un primo tempo col patrocinio dell’impero ottomano e poi con quello britannico, aveva lo scopo di creare uno Stato sovrano che col tempo li avrebbe trasformati, nel migliore dei casi, in una minoranza o, nel peggiore, in una comunità priva di diritti che avrebbe potuto essere espulsa dal Paese.
Nel 1917, all’epoca della Dichiarazione Balfour con la quale la Gran Bretagna prometteva agli ebrei un focolare nazionale in Israele, il numero dei sionisti in Palestina non superava le 50 mila, rispetto a 550 mila palestinesi (cifre dell’Enciclopedia ebraica). In altre parole, questi ultimi erano 11 volte numericamente superiori. Ma i palestinesi sapevano che dietro a quei 50 mila c’era un intero popolo di 15 milioni di individui e, anche se solo una parte di essi si fosse trasferita in un futuro Stato ebraico, sarebbero diventati un’insignificante minoranza. Così, fin dall’inizio, sostenuti dal mondo arabo, si imbarcarono in una lotta senza quartiere contro il sionismo.
I palestinesi possedevano a quel tempo una distinta e autonoma coscienza nazionale? A mio modesto parere, è irrilevante nel contesto della controversia morale che li vede opposti agli ebrei. Anche se la Palestina era soltanto una regione della Siria, o del grande mondo arabo, nessuno aveva il diritto di trasformare i suoi cittadini in una minoranza. La terra appartiene a chi vi risiede, è un principio universale inequivocabile e legittimo. Anche se all’inizio del ventesimo secolo la maggior parte del mondo non era ancora organizzata in Stati nazionali la terra appartiene a chi vi abita in quanto parte dell’identità umana, individuale e collettiva.
È vero che gli ebrei che cominciavano a trasferirsi a poco a poco in Israele non avevano intenzione di espellere i palestinesi. Volevano unicamente fondare uno Stato che garantisse loro una struttura indipendente entro la quale decidere del proprio destino e soprattutto gestire la propria difesa. Credevano inoltre che un Paese abitato da milioni di ebrei potesse garantire piena parità di diritti alle minoranze. E infatti, negli Anni 30, con l’intensificarsi delle persecuzioni antisemite in Germania e in altri Paesi europei, 350 mila ebrei riuscirono a trasferirsi in Israele, scampando allo sterminio.
Ma anche se gli arabi palestinesi furono costretti ad ammettere in seguito che il sionismo contro cui avevano combattuto ancor prima della seconda guerra mondiale aveva salvato dalla morte centinaia di migliaia di ebrei, impossibilitati a trovare rifugio negli Usa che avevano chiuso le porte dopo la crisi del 1929, non si rassegnarono al fatto che tale salvataggio fosse avvenuto a loro spese, con una lenta ma costante erosione dei loro territori da parte di stranieri.
Non so se durante la seconda guerra mondiale, e anche dopo, gli arabi abbiano compreso appieno la portata e le dimensioni dell’eccidio del popolo ebraico. A volte ho l’impressione che gli ebrei stessi, ancora oggi, non siano del tutto consapevoli della gravità della tragedia abbattutasi su di loro, come non lo erano delle avvisaglie che la annunciavano e che avrebbero dovuto riconoscere. Lo sterminio degli ebrei non avvenne per un desiderio di occupazione territoriale e nemmeno per osteggiare una diversa religione. E sicuramente non per motivi economici o ideologici. I nazisti sterminarono gli ebrei semplicemente perché volevano sterminarli. E questo è ciò che rende una simile barbarie unica nella storia. Lo sterminio degli ebrei in un primo tempo avvenne persino contro gli interessi dei loro stessi aggressori e trovò sostegno psicologico e talvolta concreto in molte nazioni occupate dalla Germania nazista.
Io non so cosa gli arabi abbiano provato nell’apprendere della Shoah in Europa. Di certo i loro sentimenti furono contrastanti e complessi. Da un lato sbigottimento per l’odio profondo mostrato contro gli ebrei in Europa giacché, anche se nel mondo arabo sussistevano qua e là ostilità e diffidenze nei confronti degli ebrei dovute a motivi religiosi, mai tali sentimenti si erano avvicinati ai livelli di antisemitismo cristiano e laico dell’Europa. Probabilmente, però, è naturale supporre che gli arabi, e in particolare i palestinesi, avessero anche provato soddisfazione nel constatare che la fonte della forza ebraica che li minacciava, soprattutto su un piano demografico, fosse stata colpita e si fosse ridotta di molto. Se non che gli europei, indipendentemente dalla loro appartenenza al blocco comunista o a quello occidentale, sconvolti dalle atrocità naziste, si resero conto che non solo per gli ebrei, ma anche per loro stessi e per il futuro dell’umanità, dovevano fare qualcosa di drastico per combatterel’antisemitismo che cominciava a compromettere l’integrità del loro stesso essere. Perciò, con un’iniziativa rara ed eccezionale, nel 1947, due anni dopo la fine del conflitto e già al culmine della Guerra Fredda, il blocco comunista e quello occidentale si unirono per aiutare gli ebrei a normalizzare la propria esistenza in uno Stato che occupasse una parte (e sottolineo: una parte) delle terre palestinesi.
Il grido di protesta, di rabbia e di offesa del mondo arabo è comprensibile dal loro punto di vista: «Voi europei, che non solo ci avete oppresso nei nostri Paesi e continuate a farlo nei vostri ma avete anche commesso crimini orribili e gravi contro gli ebrei, vi aspettate che noi arabi, estranei ai vostri crimini, paghiamo per le vostre colpe con la nostra terra?». Secondo la loro logica, dunque, la decisione di cercare di distruggere lo Stato ebraico ancor prima che nascesse, era naturale e giustificata.

La Stampa 30.1.11
Céline contro Céline
di Lorenzo Mondo


aretta, negli ambienti culturali francesi, per la riproposizione del caso Céline a cinquant’anni dalla morte. Lo scrittore «maledetto» compariva nel calendario delle celebrazioni previste in Francia per il 2011, insieme ai titolari di altri eventi, come Luigi XIV e Pompidou, Marie Curie e Franz Liszt.
L’elenco era così variegato da risultare assolutamente neutro e da rendere inoffensiva l’inclusione di Céline. Ma le proteste del cacciatore di nazisti Serge Klarsfeld, in rappresentanza dell’«Associazione dei figli di deportati ebrei», ha indotto il ministro della Cultura Frédéric Mitterrand a cassare il suo nome, avviando al macero il volume già stampato per le commemorazioni. Quasi una damnatio memoriae inflitta all’autore del delirante pamphlet antisemita Bagatelle per un massacro , imputato tra l’altro di collaborazionismo con il governo Pétain. Si dà tuttavia il caso che egli sia considerato uno dei più importanti scrittori, non solo francesi, del secolo scorso.
Ferve dunque la polemica tra chi difende le ragioni di una memoria inespiabile e quelle, che sembrerebbero minime e oziose, della letteratura, da riservare a critici e filologi. In realtà, non è soltanto questione di bello scrivere. Nei suoi romanzi, a partire dal Viaggio al termine della notte , Céline ha denunciato con vertiginoso furore l’insensatezza della guerra, le brutture del colonialismo, l’appagato egoismo dei benpensanti (suscitando non a caso l’entusiasmo di un Bernanos). E nella trilogia dell’esilio a Sigmaringen, nel castello degli Hohenzollern dove si era rifugiato, ha rappresentato come nessun altro, con inarrivabile ironia, la miseria morale dei reduci di Vichy, presi nella tenaglia delle avanzanti truppe alleate, in un’aria di apocalittica resa dei conti. Dimentichiamo pure il fatto che non si sia macchiato di sangue e che abbia cercato un silenzioso riscatto prodigandosi dopo la guerra, come medico dei poveri, nel sobborgo di Meudon.
Atteniamoci soltanto ai suoi libri, ai due diversi Céline che in essi si manifestano e nei quali prevale di gran lunga il suo volto migliore. Non sarà l’esclusione dalla carta di futili annali, dettata da postumi rancori, ad attenuare la forza della sua scrittura e delle sue verità. Si è persa semplicemente l’occasione, penetrando nel torbido impasto del cuore umano, di contrapporre Céline a Céline, di concedergli uno scampolo di quella pietà che egli seppe esercitare sotto il velame della negazione e dell’ira.

La Stampa Tuttolibri 30.1.11
Céline L’epistolario con la segretaria rischiara le traversie dello scrittore
“Ho un solo scopo: essere sgradevole”
di Felice Piemontese


«Il mio unico e preciso obiettivo è quello di riuscire massimamente sgradevole… a tutti quelli a cui posso pensare… o che siano semplicemente sfiorati dal mio pensiero». Così scriveva Louis-Ferdinand Céline in una lettera del 1937, di poco successiva, cioè, a quello che è con ogni probabilità il suo capolavoro assoluto, Morte a credito . E, si potrebbe commentare, non si può dire che non ci sia riuscito, ad essere sgradevole, e si tratta evidentemente di un eufemismo.
La lettera, con un centinaio di altre, è una scelta di quelle indirizzate, in più di venticinque anni, a Marie Canavaggia, una donna per molti aspetti straordinaria, che andrebbe meglio conosciuta. Di origine corsa, figlia di un magistrato, è nota come la «segretaria» di Céline. Ma fu molto di più, sia per lui che in assoluto. Traduceva benissimo dall’inglese e dall’italiano (Moravia ad esempio), si occupava di editing , come si direbbe oggi, ed ebbe intensi rapporti letterari con un altro personaggio notevole, l'italo-francese Gian Dauli, scrittore apprezzatissimo negli Anni Trenta e oggi quasi dimenticato, tra i primi ammiratori di Céline, di cui fece tradurre quasi subito in italiano il Voyage au bout de la nuit .
Per quel che riguarda Céline, la Canavaggia si occupava di tutte le incombenze letterarie, oltremodo gravose dato il personaggio e il suo rapporto ossessivo con la scrittura: rileggeva i manoscritti, diceva la sua opinione sulle infinite modifiche a cui venivano sottoposti, li faceva dattilografare, teneva i rapporti con gli editori (sempre burrascosi). E quando le sciagurate posizioni antisemite di Céline lo costrinsero all'esilio e alla prigione - e ci fu il rischio tutt’altro che remoto di una condanna a morte - lo sostenne e non gli fece mai mancare la propria indefettibile solidarietà, aiutandolo a riemergere dall’abisso in cui era precipitato.
Le lettere ora pubblicate in italiano - un quinto circa dell'intero epistolario con la Canavaggia - consentono di seguire dal vivo, per così dire, le traversie dello scrittore, soprattutto nella fase, durissima, dell'esilio danese, dopo la folle cavalcata (con la moglie Lucette e il gatto Bébert) nella Germania in fiamme, distrutta dai bombardamenti e dall'avanzata delle truppe alleate. Vicende note, che del resto hanno fornito a Céline la materia per i grandi romanzi degli ultimi anni, ma che si ripercorrono con interesse particolare attraverso una scrittura che non aveva nessuna pretesa di letterarietà, ma che reca pur sempre tracce evidenti di quell’inventiva, di quella genialità, di quel gusto dell'iperbole e dell'eccesso che rendono unica, e immediatamente riconoscibile, la prosa céliniana.
Naturalmente la Canavaggia era anche romanticamente e pudicamente innamorata dello scrittore. Che la maltratta con affettuosa durezza per le «ridicole balordaggini» sentimentali alle quale talvolta si lascia andare. Troppo impegnato com’era a inveire contro il mondo, contro i «persecutori», a lamentarsi della salute malferma, a seguire con ansia la propria vicenda giudiziaria, e soprattutto a portare avanti la sua impresa letteraria («non è facile dissuadermi dal rivoluzionare la letteratura francese»).
"L’autore del «Voyage» impegnato a inve

Repubblica 30.1.11
Kafka. Lettere alla sorella
di Andrea Tarquini


Di tutta la famiglia, Ottla era la persona più importante per l´autore de "La metamorfosi". Martire volontaria ad Auschwitz per non abbandonare dei bambini ebrei al loro destino, la più giovane dei fratelli era quella che Franz definisce "grande, matura, forte", quella che lo fa sentire "completamente diverso, rispetto a come sono davanti agli altri". Come testimonia un epistolario dello scrittore che ora sta per andare all´asta in Germania
La pensa in ogni suo viaggio, le scrive cartoline dalla Slesia, da Versailles, dal lago di Garda

Ottla fu la sorella più giovane, e la sua preferita. Per nessun´altra persona al mondo Franz Kafka provò tanto affetto e confidenza. Le scriveva da ogni suo viaggio, e chiudendosi come giovani complici nel bagno di casa, nel bel centro borghese di Praga, Franz e Ottla adolescenti e poi giovani passavano ore a scambiarsi confidenze. Un mondo di sentimenti, un altro volto dell´autore de Il processo e La metamorfosi, un mondo che ci viene tramandato da documenti straordinari. Sono centoundici lettere che Franz scrisse a Ottla per anni e anni, dall´inizio del secolo fino alla sua morte. Testimonianze eccezionali, tutte vergate da Franz con la stilografica. Gli eredi di Ottla conservarono per decenni quel carteggio, lo hanno fatto custodire a Oxford dalla Bodleian Library, e ora vogliono venderlo. In aprile andrà all´asta, e nessuna istituzione culturale europea sembra avere in tasca i soldi, da cinquecento a ottocentomila euro, per assicurarselo: con ogni probabilità, quel pezzo pregiato del patrimonio culturale del Vecchio continente finirà in mano a qualche ricco collezionista privato, lontano ore e ore di aereo da Praga o dalla Mitteleuropa. Contro questa ipotesi, per conservare l´accesso del pubblico mondiale al patrimonio dell´epistolario, i maggiori istituti di ricerca letteraria e archivi tedeschi hanno lanciato un appello per una grande colletta, in modo che l´asta sia vinta da un´istituzione pubblica.
Una storia affascinante ma triste, insomma: parlando di Kafka non potrebbe essere altrimenti. Per anni e anni, dalla più acerba gioventù fino alla morte nel 1924, Franz ebbe in Ottla la confidente preferita. Lui vedeva in lei, e glielo scrisse in tante lettere, il meglio dei temperamenti dei genitori: «Testardaggine e sensibilità, senso della giustizia, inquietudine, autoconsapevolezza della forza d´animo di noi Kafka». Lei, la più giovane, appariva sempre «grande, matura e forte» al fratello di nove anni più vecchio. Lui la adorava per la capacità di replicare con fermezza al padre, «a casa dove dimorano i giganti», la vedeva «senza detrimento per il mio affetto verso gli altri fratelli» come «di gran lunga la più cara». Franz scriveva a Ottla da ogni dove, da Weimar, da Versailles o dal Lago di Garda. Lui morì nel 1924, Ottla finì deportata dai nazisti ad Auschwitz-Birkenau. Nel 1943, Ottla si trasferì prima nel campo di Theresienstadt e a ottobre si unì volontariamente a un convoglio di bambini diretto ad Auschwitz, dove morì. Dopo la disfatta hitleriana nel 1945, i discendenti di Ottla ritrovarono quelle lettere, nel caos postbellico di Praga. Decisero di non rinunciare alla memoria. Conservarono alla meglio, ma accumulate in disordine in un cassettone, quelle 45 lettere, 32 cartoline postali e 34 cartoline illustrate fitte di saluti affettuosi e racconti buttati giù a penna. Dopo la fine della guerra fredda, le spedirono a Oxford per farle custodire.
Pagine straordinarie, rivelatrici. Nelle righe scritte con amore nel suo tedesco raffinato e letterario, Franz rivela di sentirsi, nel rapporto con Ottla, «una persona completamente diversa, rispetto a come sono davanti agli altri». Scrive affettuoso delle sue emozioni nei viaggi. Da Kratzau, dove «nel ristorante dell´albergo "Al destriero" ho assaggiato un ottimo vitello con frutti di bosco, innaffiato da buon sidro, poi la cameriera si è seduta accanto a me, abbiamo parlato delle onde del mare e dell´amore, poi ci siamo separati, tristi». O dalla Slesia, da cui Franz inviò a Ottla una spiritosa cartolina-fumetto intitolata «vedute della mia vita quotidiana qui», con disegni ironici a illustrare notti insonni, tavolate, incontri con gente del posto. Sotto c´è scritto: «E tu come stai? Natale si avvicina e porta gioia, t´interrogherò su come avrai vissuto il prossimo Natale». O ancora da Versailles, accennando a favole e sogni con appunti su una cartolina che illustra il giardino della reggia. O da Weimar, una cartolina che riproduce la casa di Goethe, con confessioni di tristezza.
Angoscia e gioia, incertezze e sollievi, confessati alla sorella più amata in quelle centoundici lettere e cartoline. È una delle raccolte più ampie dei manoscritti privati di Kafka quella che i discendenti di Ottla hanno saputo salvare e difendere dall´usura del tempo e dalle insidie della storia. E che ora - patrimonio pubblico della memoria del continente e del mondo - rischia di cadere nelle mani di qualche ricco privato.

Repubblica 30.1.11
La strategia dell'insetto
di Massimo Rizzante


Rileggendo le Lettere di Franz Kafka ai suoi amici, ai suoi genitori, alle sue donne, alla sorella Ottla, ci si rende conto di come la discrezione, il pudore e la volontà di restare dietro le quinte alimentino la tonalità maggiore dell´epistolario, cioè il suo stile pieno di humour, di sfumature malinconiche e bizzarre, di distacco carico di comprensione per gli elementi apparentemente più infimi delle cose. Nelle Lettere una solitudine inseparabile dalla costruzione dell´opera getta continuamente ponti levatoi verso la vita degli altri per poi, come nel caso di Felice e di Milena, le due donne con cui Kafka pensava di sposarsi, ritirarli. Ogni lettera sembra un tentativo di uscire dal castello dei propri fantasmi per partecipare alla guerra dei fantasmi altrui, per poi sottrarsi allo scontro decisivo.
Nelle Lettere troviamo spesso la metafora della guerra. A Max Brod, Kafka, già molto malato, scrive: «Sì, è credibile che la tubercolosi venga arginata, tutte le malattie finiscono con il venir arginate. Lo stesso avviene nelle guerre, ciascuna è portata a termine e nessuna finisce». Non si tratta di viltà o di disperazione. Che senso ha disperarsi se nessuna guerra, come nessuna malattia, finisce, ma può essere solo «portata a termine»? Lo stesso si potrebbe dire delle altre guerre che Kafka condusse nel corso della sua esistenza: la guerra con il padre, la guerra con il mondo femminile, la guerra con la letteratura… Tutte queste guerre l´autore de Il processo le arginò e le portò a termine grazie a un´ostinata strategia difensiva. Adorno affermò una volta che Kafka non predicava l´umiltà, bensì «l´astuzia». Kafka non era, come il suo grande amico Max Brod sosteneva, «un santo del nostro tempo». La sua modestia «soprannaturale» non gli ha impedito di frequentare i bordelli e di scoprire nella sua opera la sessualità, occultata per tutto il Diciannovesimo secolo, come parte integrante, perfino banale dell´esistenza. La sua umiltà era un´astuzia per disertare il mondo al fine di meglio esplorarlo.
Da qui si comprende la tonalità maggiore delle Lettere, quel suo distacco pieno di humour. Ma allo stesso tempo ci suggerisce la distanza che separa la biografia dall´opera: l´immaginario erotico che produce il coito tra K. e Frieda su un pavimento coperto di sporcizie e pozze di birra del Castello non traspare nelle lettere alle sue amate. Per entrare nell´opera, Kafka ha bisogno della sottrazione finale, di ritirarsi dalla guerra dei fantasmi altrui, di sollevare tutti i ponti levatoi che le Lettere hanno gettato. Nel racconto Una vecchia pagina, un calzolaio, che ha il suo laboratorio nella piazza dove si trova il palazzo dell´Imperatore, assiste all´arrivo di un popolo barbaro, dalla lingua incomprensibile, che depreda tutto. Egli guarda un macellaio che per salvarsi dai barbari porta nel suo negozio un bue vivo. E che cosa fa? «Mi ammucchiai addosso tutti i miei vestiti, le coperte e i guanciali pur di non sentire i muggiti di quel bue che i nomadi assalivano da ogni parte per strappargli coi denti brandelli di carne viva». Nell´Altro processo, Canetti, si domanda: «Si può dire davvero che il narratore si sottrasse all´intollerabile?». Il calzolaio, di fronte all´orrore, si stende al suolo e cerca di sparire, desidera farsi invisibile, diminuire il suo peso.
Nell´opera di Kafka, l´uomo si trasforma a volte in un piccolo animale che non riesce neppure a sollevarsi dal suolo. Kafka conosceva bene ciò che egli stesso ha definito una volta, in una lettera a Felice, «l´angoscia della posizione eretta», che è a fondamento di ogni potere dell´uomo sugli altri uomini. Non dobbiamo andare troppo fieri della nostra posizione eretta, scrive Kafka a Felice. Ma, per cercare di sottrarsi ai diktat di ogni potere, foss´anche quello dell´amata, e per vincere la sua guerra con la letteratura, Franz Kafka si è trasformato in qualcosa di ancora più insignificante, senza peso, in un insetto.