mercoledì 2 febbraio 2011

l’Unità 2.2.11
«S’avvera infine il sogno dei lunghi giorni di prigionia»
Parla la scrittrice rientrata in patria durante la rivolta contro l’oppressione. «Sono commossa Stiamo riscattando la nostra dignità calpestata»
di U.D.G.


Questa Piazza piena di rabbia e di dignità l’avevo sognata da una vita. La speranza di una rivolta morale del mio popolo mi aveva tenuto compagnia nei lunghi giorni di carceri e nelle mie peregrinazioni all’estero. Non è la paura il sentimento predominante, ma la felicità. Sì, la felicità di poter vedere una rivoluzione, esserne una piccola parte, per questo non mi sono persa una manifestazione. Ora questa speranza si è fatta realtà. L’Egitto si è ribellato al despota, riscattando se stesso e una dignità calpestata da un regime che ha fallito sotto tutti i punti di vista. Per questo sono tornata in patria, per essere vicina alle donne e agli uomini che stanno scrivendo la storia dell’Egitto riappropriandosi del loro futuro».
Non trattiene la commozione Nawal El Saadawi, l'autrice egiziana femminista più conosciuta e premiata. I suoi scritti sono tradotti in più di trenta lingue in tutto il mondo. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo arabo, la scrittrice egiziana, 80 anni, fiera oppositrice del regime al potere, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste. L’Unità l’ha raggiunta telefonicamente al Cairo poco prima che la scrittrice si unisse alla marea umana che ha invaso le strade della capitale egiziana.
Come definirebbe ciò che sta scuotendo il suo Paese, l’Egitto? «Una rivoluzione di popolo. Un popolo che si ribella al despota, che trasforma la rabbia accumulata in trent’anni di regime autoritario in energia positiva, in volontà di cambiamento. La piazza è unita. Non c’è distinzione tra laici e musulmani, destra o sinistra. Ora tutte le forze politiche di opposizione fanno a gara per essere alla guida del movimento, ma la verità è che si tratta di un movimento spontaneo, scaturito dalla ribellione della gente che si è unita insieme per chiedere la libertà, la giustizia sociale, la fine della corruzione, l’indipendenza e l’uguaglianza. Leggo che in Occidente ci si appassiona a individuare un leader, a indicare il possibile anti-Mubarak. È un approccio sbagliato che non tiene conto del vero dato di novità di questa rivoluzione popolare».
Quale sarebbe questo dato di novità? «Sono i giovani. Sono loro i veri protagonisti. Scendendo in piazza si stanno riappropriando del loro futuro e di quello del Paese».
C’è chi teme una deriva integralista della rivolta... «Sono gli stessi che hanno sempre difeso il regime di Mubarak come tutte le altre gerontocrazie arabe. L’America, l’Europa sapevano bene che il regime di Mubarak, come quello di Ben Ali o la satrapia oscurantista saudita facevano scempio dei diritti, affossavano ogni istanza di libertà, ma non importava, perché questi regimi “facevano argine al fondamentalismo”. Una visione miope, che ora si vorrebbe rilanciare facendo credere che chi si sta battendo per la libertà non fa che il gioco dei Fratelli musulmani. Si sbagliano e di grosso. Certo, tra i manifestanti c’è chi simpatizza per loro, ma la verità è che all’inizio la Fratellanza Musulmana vedeva con diffidenza questo movimento, che aveva imposto priorità che si discostano totalmente da quelle dei fondamentalisti. La gente lo sa e per questo saprà custodire gelosamente la sua rivoluzione».
Quale ruolo hanno le donne egiziane in questa rivoluzione? «Ne sono parte attiva, soprattutto le ragazze. Ed è l’altro aspetto incoraggiante di questa rivolta. ll regime ci ha tolto molti diritti dopo l’ultima rivoluzione egiziana. A loro e a me stessa dico di restare vigili e imparare la lezione del passato. Abbattere una tirannia è importante ma lo è altrettanto edificare sulle sue macerie qualcosa di diverso anche in termini di superamento di una società patriarcale. Il nuovo Egitto potrà definirsi compiutamente tale se realizzerà una vera parità tra i sessi».
Quale contributo può venire dall’Europa? «Più che i governi è importante oggi che si manifesti l’opinione pubblica. È importante dimostrare una vicinanza alla gente egiziana, far vedere che non è sola, che in Europa si è compresa la portata storica di questa rivoluzione e si sta dalla sua parte».
Cosa rappresenta oggi Hosni Mubarak? «Il passato che non vuol passare, restando legato al potere con ogni mezzo. Ma la sua uscita di scena è ormai nelle cose. L’Egitto non lo rimpiangerà. Il suo regno sta sprofondando».

Corriere della Sera 2.2.11
«Non sarà l’Iran di Khomeini. Questa nuova generazione è in piazza per la democrazia»
Olivier Roy: non sono mossi da ideologie integraliste
di  Stefano Montefiori


«L’Islam politico ha fallito, e i tunisini e gli egiziani lo sanno. Nelle strade del Cairo, dove pure i Fratelli musulmani sono più forti, non si sentono le invocazioni alla guerra santa, le grida contro l’imperialismo americano o gli slogan integralisti che accompagnarono la rivoluzione iraniana del 1978 sin dal primo giorno. E il modello degli islamisti egiziani è comunque la Turchia di Erdogan, non l’Iran di Khomeini» . L’orientalista francese Olivier Roy, 61 anni, professore all’Istituto universitario europeo di Firenze e autore di «La Santa ignoranza. Religioni senza cultura» (Feltrinelli), è uno dei maggiori esperti mondiali di Islam. Roy è moderatamente ottimista: non teme un colpo di Stato islamico. Il rischio in Egitto, semmai, è l’anarchia. L’Occidente e Israele sono preoccupati per la caduta di Mubarak, da vent’anni considerato un baluardo contro l’avanzata dell’integralismo islamico. Roy taglia corto: «L’analisi di europei, americani e israeliani sul Medio Oriente è indietro di almeno vent’anni, non hanno minimamente preso in conto l’arrivo sulla scena di una nuova generazione. Ed è questa nuova generazione a manifestare sulla piazza Tahrir del Cairo, oggi. È la stessa gente che ha vinto in Tunisia. Gli occidentali non vogliono capire che gli estremisti sono più numerosi nelle periferie europee che nel mondo arabo. Ci sono dei punti in comune nelle rivolte in Tunisia e in Egitto: i protagonisti sono giovani istruiti, moderni, abituati a tenersi informati su Internet, che vogliono la democrazia, il lavoro e sono privi di un’ideologia. Musulmani forse, sì, ma non ideologizzati. Aspirano alla fine della corruzione: questo è un aspetto molto importante, la lotta alla corruzione è fondamentale perché è legata al lavoro, alla possibilità di avere un futuro. L’economia in Tunisia, e in Egitto, era in mano a una cricca di personaggi corrotti. Sono questi i nemici della nuova generazione, non certo l’Occidente. I terroristi poi sono un’infima minoranza, ridotta a prendere ostaggi nel deserto del Sahel, senza alcun sostegno popolare» . Esistono differenze tra Tunisia ed Egitto? «La Tunisia è uno Stato debole, con un esercito debole. L’Egitto è uno Stato forte, con un esercito forte. Il regime tunisino era isolato, identificato con la famiglia Ben Ali-Trabelsi, mentre in Egitto il potere è molto più ramificato, ha dei sostegni e delle reti diffuse nel notabilato locale. La terza differenza molto importante è legata agli islamisti: in Tunisia sono stati schiacciati e non costituiscono una grande forza politica mentre in Egitto i Fratelli musulmani restano una presenza consistente» . Proprio per questo l’Iran si augura apertamente la nascita di un nuovo Medio Oriente islamico a partire dall’Egitto. «L’Iran può sperare quel che vuole ma non ci sono le condizioni, Tunisi e anche il Cairo del 2011 sono enormemente diverse dalla Teheran del 1978. Gli islamisti tunisini ed egiziani sanno benissimo che lo Stato islamico non funziona. Capiscono che non possono sfuggire alla democrazia. E accettano il pluralismo politico: è una novità fondamentale rispetto alla rivoluzione iraniana di Khomeini. Nel Nordafrica oggi gli islamisti sono prudenti, non parlano affatto dell’introduzione della sharia. Per due ragioni: prima di tutto non vogliono instaurare uno Stato islamico destinato alla catastrofe; e poi, nel fondo, si sono evoluti nel corso degli ultimi vent’anni. Si sono trasformati secondo un modello turco, il loro punto di riferimento è Erdogan. Cioè accettano le regole del parlamentarismo. Non direi che sono dei sinceri democratici, non bisogna esagerare, ma comunque sono favorevoli alle elezioni. In ogni caso, non sono loro i protagonisti di questi giorni: al centro degli eventi ci sono giovani poco influenzati dagli islamisti» . L’Occidente ha ragioni per felicitarsi del movimento in atto in Medio Oriente? «A mio parere sì. Sono molto ottimista per la Tunisia, dove c’è maturità politica. L’attuale governo di transizione tunisino indirà delle elezioni e verrà eletto un parlamento democratico. In Egitto la situazione è più complicata, il Paese è più grande e complesso, con una struttura sociale meno moderna, un’economia meno avanzata e un esercito molto più forte. In ogni caso, il pericolo di un colpo di Stato islamico a mio parere è lontano. Il Cairo di ieri non assomiglia alla Teheran khomeinista del 1978. Semmai, ricorda la Teheran della rivoluzione verde di due anni fa» .

La Stampa 2.2.11
Intervista
“È crollata una fortezza Adesso tutto è possibile”
Tariq Ramadan: “Diamo una chance ai Fratelli musulmani”
«Le nuove generazioni guardano alla Turchia non all’Arabia Saudita»
di Francesca Paci


Tariq Ramadan è un habitué della provocazione. Ma neppure il più amatoodiato intellettuale musulmano d’Europa, autore di saggi come La riforma radicale. Islam, etica e liberazione (Rizzoli) e nipote del fondatore di Fratelli Musulmani, poteva ipotizzare gli eventi in corso. Li segue avidamente. La protesta egiziana non si ferma. Come evolverà? «È la rivoluzione, un punto di non ritorno. Dopo la Tunisia gli analisti erano in allerta, sapevano che l’Egitto aveva caratteristiche simili: corruzione, disoccupazione, mancanza di libertà. Ma se allora mi avessero detto che sarebbe andata esattamente così avrei detto no, l’Egitto è un paese talmente strategico. Invece è emerso un movimento popolare di massa che non risponde a partiti politici né a guide religiose».
Chi guiderà l’opposizione? «Al momento non c’è una leadership. Ci sono tre grandi forze, i Fratelli Musulmani le sinistre laiche e l’associazione Kefaya, ma tutta questa gente è accomunata solo dalla volontà di cacciare Mubarak. Prima o poi qualcuno dovrà prendere in mano le redini politiche e l’Occidente sta tentando di dire la sua. È possibile che sia qualcuno dell’esercito a guidare la transizione». I Fratelli Musulmani orienteranno la protesta in direzione islamista, come si teme? «La paura deriva dalla propaganda israeliana che è la stessa usata dal regime di Mubarak quando si giustificava sventolando la minaccia dei fondamentalisti. Peccato che non ci siano islamisti alla guida del movimento in piazza in questi giorni. Non so quale sarà la strategia dei Fratelli Musulmani, per ora provano a mantenere un basso profilo anche sostenendo El Baradei che però, dal canto suo, non ha il sostegno del popolo». Ecco il punto: i Fratelli Musulmani sono la più popolare forza dell’opposizione. «Demonizzare è una strada chiusa, dobbiamo chiederci senza pregiudizi: siamo per la democrazia o no? Gli islamisti non sono tutti uguali. Tra i Fratelli Musulmani c’è un grande gap tra le vecchie generazioni più tradizionaliste e legate all’Arabia Saudita e le nuove che guardano alla Turchia. I Fratelli sono in evoluzione da anni, è giusto far loro pressione su molte questioni tipo quella delle donne ma è anche ora di dare una chance alla democrazia, la repressione non funziona».
A quale paese toccherà ora? «Hanno tutti paura. Yemen, Mauritania, Algeria, Siria, il re giordano ha cambiato il governo. Dopo la Tunisia si poteva dubitare dell’effetto domino ma caduto l’Egitto no, ora può accadere ovunque. Perfino in Arabia Saudita. Se saltassela Giordania sarebbe un terremoto. Seguiamo l’Egitto, la situazione è fluida e non è detto che rimosso Mubarak arrivi subito la democrazia».
Salterà la pace con Israele? «La pace dipende da chi guiderà il nuovo Egitto. Comunque il supporto unilaterale alla pace con Israele non può essere dato per garantito».

La Stampa 2.2.11
I Fratelli musulmani, un dialogo da aprire
di Vittorio Emanuele Parsi


Non c’è dubbio che la profondità e l’estensione della protesta in Egitto abbia colto di sorpresa le diplomazie delle potenze occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti. Fino ad ora, all’ormai consueta balbuzie europea, di cui il vertice di un paio di giorni fa a Bruxelles costituisce solo l’ennesimo esempio, ha fatto da imbarazzante controcanto la confusione americana. L’America è stata sistematicamente in ritardo di fronte allo tsunami che sta squassando il sud del Mediterraneo, è apparsa sempre essere almeno due passi indietro rispetto al corso degli eventi, affannata a inseguirli piuttosto che in grado di esercitare una qualche influenza. Imbarazzante, se solo si considera che, dopo Israele, l’Egitto è il secondo destinatario degli aiuti (economici e militari) degli Usa. Nei giorni scorsi, dopo il tartufesco ritardo con cui la Casa Bianca ha esteso anche alle proteste egiziane la patente di legittimità prima rilasciata solo ai moti tunisini, l’America ha prima chiesto a Mubarak di non reprimere nel sangue la rivolta, poi di riprendere il processo di liberalizzazione timidamente intrapreso sotto la pressione di George W. Bush e Condoleezza Rice, infine di fare un passo indietro. In una frase: sempre troppo poco e troppo tardi.
Forse però il tempo c’è ancora per provare a giocare d’anticipo, a condizione di mettere in campo l’audacia necessaria, anche nella consapevolezza che, senza un intervento coraggioso, il corso degli eventi potrà solo andare in una direzione poco favorevole agli interessi occidentali nell’area e alla stessa stabilità strategica del Medio Oriente, con conseguenze negative anche e innanzitutto per il popolo egiziano. In altri termini, occorre già pensare al dopo-Mubarak, cercando di esercitare tutta l’influenza di cui si dispone per provare a indirizzarlo e bisogna farlo a partire dall’individuazione degli interlocutori per ora, e sottolineo il per ora, ancora decisivi. Mi riferisco ai militari, ad El Baradei e ai Fratelli Musulmani. Al momento sono questi tre, per motivi diversi, gli interlocutori dotati di risorse significative. Finché il regime sta in piedi, i militari continuano a esercitare il controllo dell’uso della forza. La loro sbandierata decisione di non impiegarla contro i protestatari può ovviamente essere letta come una manifestazione di debolezza, ma credo vada anche interpretato come un segnale politico, di disponibilità al dialogo, alla ricerca di una soluzione di compromesso in questa fase di resilienza del vecchio regime. El Baradei ha dalla sua la chance di essere l’unico federatore possibile per coalizzare tute le forze anti-Mubarak, per dare la spallata decisiva al regime. L’unico di cui tutti si fidano o dicono di fidarsi. El Baradei è forte della sua debolezza, di non essere il leader di alcun gruppo organizzato. Ma ciò che è la sua forza si ribalterebbe nella sua debolezza non appena il regime venisse abbattuto. Caduto il regime, le diverse anime del composito movimento sorto più o meno spontaneamente, inizierebbero una dura battaglia politica per conseguire la leadership o, più probabilmente, l’egemonia sul nuovo corso. E in questa terza e decisiva fase, inutile far finta di negarlo, i Fratelli Musulmani sarebbero quelli meglio in grado di conseguire la vittoria, per la loro migliore organizzazione e per la loro più capillare diffusione. Con quali garanzie per la natura liberale o democratica del loro regime è difficile a dirsi, tanto più se la natura rivoluzionaria del processo dovesse prevalere. Se il processo sarà rivoluzionario, infatti, saranno le minoranze meglio organizzate a guidarlo e a volgerlo a proprio vantaggio, e senza mediazione alcuna.
Ogni attore, quindi, è particolarmente forte in una fase quella della resilienza del potere al tramonto, quella del suo abbattimento, e quello dell’instaurazione di un regime diverso ma più debole in tutte le altre. Con l’avvertenza ovvia che, se i momenti non vengono legati insieme, chi vince l’ultima mano vince tutto il piatto. Qualora invece, mentre la fase uno appare già pericolosamente agli sgoccioli ma non ancora completamente conclusa, Washington intavolasse trattative congiunte con tutti gli attori significativi, potrebbe vincolarli a una serie di impegni e concessioni reciproche, trasformando le diverse distinte fasi (di resilienza, abbattimento e instaurazione rivoluzionaria) in un unico processo di transizione. Ciò implicherebbe il riconoscimento della natura politica legittima dei Fratelli Musulmani, ma eviterebbe di riprodurre in Egitto su scala ancora maggiore il disastro di Gaza: cioè di chiedere prima elezioni regolari, per poi disconoscerne la validità quando chi vince non ci piace. Inutile negare che una simile mossa comporta rischi ovvi, ma un’apertura «contrattata» degli Usa alla legittimità politica dei Fratelli Musulmani potrebbe essere la sola carta da giocare per evitare scenari peggiori in tutta la regione e per mettere in scacco l’influenza crescente di regimi estremisti come quello iraniano.

La Stampa 2.2.11
Finite le illusioni di Israele
di Arrigo Levi


L’ invito a «sostenere Mubarak», rivolto da Israele agli Stati Uniti e ai Paesi europei, non sembra davvero una reazione adeguata alla potenziale estrema gravità, per lo Stato ebraico, di un cambiamento di regime in Egitto. L’atteggiamento dominante, e il solo per ora possibile, a Washington come nelle capitali europee, è di «wait and hope», aspettare e sperare. Nessuno, in Occidente, può o avrebbe potuto «sostenere Mubarak»: e come? Mandando cannoniere di fronte ai porti egiziani? L’Occidente altro non può fare che aspettare gli sviluppi di quelle che sono ancora le fasi iniziali di una vera e propria rivoluzione, di cui nessuno può prevedere gli sviluppi; e auspicare, dichiarandolo apertamente, che essa conduca alla nascita di una democrazia egiziana, e non alla fondazione di un «Medio Oriente islamico che faccia finalmente i conti con Israele», come si augura il governo iraniano.
Contare su un intervento occidentale che rafforzi Mubarak è assurdo, sembra piuttosto l’espressione di uno Stato di confusione del governo di Netanyahu di fronte a un potenziale stravolgimento, ai danni d’Israele, di tutto il quadro mediorientale, che ha ancora nell’irrisolto conflitto israelo-palestinese uno dei suoi nodi centrali.
La trentennale pace con l’Egitto era rimasta, a livello popolare, una «pace fredda». Ma aveva assunto i caratteri di una vera e propria alleanza contro la minaccia di un islamismo estremista, che si manifestava concretamente anche nella ostilità dell’Egitto al potere di Hamas a Gaza. Non sembra ragionevole, da parte israelita, una reazione analoga al «wait and hope» dell’Occidente: una «non politica», che in questa fase d’incertezza può anche rappresentare la scelta più saggia per l’Europa o l’America, ma una scelta che Israele, che ha ben altro in gioco, non può permettersi.
Israele, o meglio l’Israele dell’alleanza fra destra politica e religiosa guidata da Netanyahu, poteva anche pensare che la sostanziale inazione diplomatica, e la continuazione dell’espansione nei territori occupati, rappresentasse una politica comoda e non rischiosa nei confronti di un mondo palestinese diviso e privo di sostanziali appoggi dal mondo arabo e islamico: a patto, beninteso, di non guardare troppo in avanti nel tempo, e di illudersi che una Palestina sempre più debole avrebbe finito per doversi accontentare di una pace imposta a qualsiasi condizione. Se sono vere le rivelazioni di Al Jazeera, l’atteggiamento rinunciatario dei negoziatori palestinesi poteva giustificare queste illusioni.
Ma l’alleanza con l’Egitto era la premessa necessaria di questa politica, in verità ingiusta nei confronti del popolo palestinese, e miope da parte di uno Stato d’Israele che troverà la finale garanzia del suo avvenire storico soltanto nella nascita di uno Stato palestinese che offra il giusto riconoscimento alle ragioni del popolo palestinese. Se gli Ebrei hanno continuato a dirsi per duemila anni «l’anno prossimo a Gerusalemme», perché mai i Palestinesi, con alle spalle un grande mondo arabo e islamico, dovrebbero dimenticare in tempi brevi il sogno di una loro patria?
Dunque, che può fare Israele? Da più parti l’avvio della rivoluzione egiziana ha indotto diversi osservatori a chiedersi se proprio il venir meno della «colonna della pace» che aveva base al Cairo non possa avere l’effetto sorprendente di spingere Israele, nel timore di un proprio ulteriore isolamento, a rilanciare il negoziato in sospeso con i Palestinesi, dimostrando la necessaria disponibilità alle concessioni, indispensabili per un accordo, sulla cessazione dei nuovi insediamenti come sull’accettazione di una capitale palestinese nelle zone a popolazione araba della grande Gerusalemme. (Del resto, nella Gerusalemme storica, dentro le antiche mura, non ci sono né il Parlamento né la Presidenza né gli essenziali organi di governo neppure dello Stato d’Israele).
Ma per ora questo è soltanto un auspicio. Anche l’opportunismo istintivo di un politico abile come Netanyahu non sembra all’altezza di una tale svolta politica. La speranza che la rivoluzione egiziana porti alla nascita di una democrazia laica egiziana è forse ancora meno audace della speranza che l’annuncio, che comunque viene dal Cairo, di una nuova era di instabilità e imprevedibilità di tutto il mondo arabo-islamico (non sappiamo se e dove si fermerà l’ondata rivoluzionaria, dopo la Tunisia e l’Egitto), spinga questo governo israeliano a una iniziativa a sorpresa per condurre proprio ora al successo il negoziato con i Palestinesi. Gli osservatori meno ottimisti temono l’effetto opposto di un ulteriore rinchiudersi d’Israele dietro l’illusoria sicurezza del muro di protezione ai confini dello Stato.

Repubblica 2.2.11
Il dizionario dei luoghi comuni
di Barbara Spinelli


Ancora non sappiamo quale sarà l´esito delle rivoluzioni arabe, in Tunisia ma soprattutto in Egitto. E se davvero sfoceranno in democrazie costituzionali. Ma fin da ora quel che sta accadendo costringe gli occidentali a guardare da vicino questa regione, cosa che non hanno mai fatto sul serio né dopo l´ultima guerra mondiale, né dopo la decolonizzazione, né quando il Medio Oriente ha cessato di essere un luogo quasi astratto di accaparramento e di scontro fra Urss e democrazie liberali.
Questo sguardo da vicino giunge terribilmente tardi, e sono le popolazioni stesse a trasformare il luogo da astratto in concreto: sono quelle piazze arabe i cui cuori e le cui menti si volevano conquistare, dopo l´11 settembre, con il ferro e il fuoco, esportando democrazia come fosse un foglio appiccicato da fuori sui popoli. Guardarli da vicino significa non solo provare a decifrare i loro tumulti, ma cominciare da noi: da una rivoluzione nelle nostre teste, nelle nostre parole, nei dizionari di luoghi comuni ereditati dall´epoca coloniale e all´origine di politiche contraddittorie, sostenitrici di autocrazie che erano amiche nostre ma non dei loro popoli. Le guerre da noi lanciate hanno rigonfiato in questi paesi la corruzione, l´immobilità, lo sfruttamento della persona. I tumulti sono partiti da alcuni suicidi. A differenza del kamikaze, il suicida colpisce se stesso, non l´altro. È un inizio del tutto nuovo.
Il primo luogo comune nei nostri dizionari è la suddivisione amici moderati-nemici radicali. È la gara per l´accaparramento che continua, come nella guerra fredda, con la differenza che il discrimine è il rapporto con America e Israele e la lotta al terrorismo. Gli amici non sono necessariamente i filo-occidentali, e ancor meno chi vuole le basi Usa. Una persona come Omar Suleiman, il capo dei servizi segreti nominato vicepresidente e indicato come possibile successore di Mubarak a noi «amico», è conosciuto in Egitto come torturatore, complice delle deportazioni (extraordinary rendition) di sospetti di terrorismo nei paesi dove la tortura è normale (in Italia, collaborò con la Cia per la deportazione in Egitto di Abu Omar, nel 2003).
Tutti gli attributi cui ricorriamo (moderati, fautori di nostri valori) franano d´un colpo come accade alle bugie. I regimi a Tunisi o al Cairo, o quelli giordano e saudita, non diventano moderati per il mero fatto che avversano l´Islam radicale e non Israele. Prima o poi, se si è democratici come si pretende, deve entrare nel calcolo il favore che gli autocrati godono presso i popoli, e questo è mancato. È un atteggiamento coloniale che gli arabi non accettano più. Non è da escludere che le prime mosse dei nuovi regimi, democratici o no, non saranno filo-americane ma anticoloniali.
Il secondo luogo comune concerne l´Islam. Lo stereotipo dice: l´Islam è da sempre incompatibile con la democrazia, e saranno gli estremisti a prevalere. Anche qui, l´ignoranza si mescola a conveniente malafede: l´anti-islamismo è la colla che ha legato l´Ovest a regimi esecrati dai popoli. Non è in nome di Allah che gli egiziani hanno riempito le piazze, ieri, e che anche i giordani manifestano. Sono spinti, spesso, dal primordiale bisogno di pane quotidiano. Dai tempi delle guerre contadine nel ´500 e dalla rivoluzione francese sappiamo che il pane implica una profonda idea di pace. Oggi implica una domanda possente di democrazia, di legalità, di giustizia sociale. L´Islam radicale, compresi i Fratelli musulmani, ha organizzazioni più capillari assistenza ai poveri, ai disastrati ma anche se si metteranno alla testa dalle rivoluzione non ne sono i veri iniziatori e lo sanno.
Inoltre, siamo di fronte a un falso storico. Primo, perché il 75 per cento dell´Islam ha democrazie elettive, dall´Indonesia alla Turchia. Secondo, perché molti paesi hanno sperimentato la democrazia, senza riuscirci. L´interventismo occidentale ha più volte congelato tali esperimenti. Un esempio: il complotto anglo-americano del ´51-53 per eliminare il premier Mossadeq pur di salvare, sconsideratamente, l´amico scià di Persia.
Ma lo stereotipo cruciale riguarda Israele, e non stupisce che l´inquietudine maggiore si condensi qui. I movimenti arabi dovrebbero esser accolti con speranza da quella che viene chiamata la sola democrazia in Medio Oriente: è come li saluta un editoriale di Haaretz. Ma una rivoluzione mentale ancora non c´è, e per questo i timori si diffondono e sono anche fondati. La democrazia araba non gioca obbligatoriamente a favore di Netanyahu, ed è fonte di gravi pericoli se nulla cambia nella politica israeliana. In un mondo arabo assetato di libertà si vedranno più da vicino i difetti di una democrazia certo più avanzata Israele ha una stampa libera, una giustizia indipendente ma che occupando da 44 anni la Palestina controlla milioni di cittadini non democraticamente: declassandoli, assediandoli a Gaza, recludendoli in Cisgiordania.
Israele non cessa di essere uno Stato minacciato mortalmente, e la perdita dell´Egitto sarebbe un cataclisma. Ma anche qui l´autoesame s´impone. Gli arabi stanno abbandonando il vittimismo per entrare nell´età del potere su di sé: dalla cospirazione alla costruzione, dall´umiliazione all´azione, scrive Roger Cohen sul New York Times del 31 gennaio. La stessa emancipazione dovrà avvenire nelle teste israeliane. Il cataclisma può aiutare gli ex colonizzatori occidentali come Israele a ripensare il passato. Israele nasce nel 1948 come uno Stato etnico, nel momento in cui le democrazie europee scoprivano le catastrofi causate dagli Stati troppo omogenei fuorusciti dagli imperi asburgico e ottomano. Pur scappando dalla Shoah, gli ebrei non giunsero in Palestina come un «popolo senza terra in una terra senza popolo» (la definizione fu dello scrittore Zangwill, nel 1901). Piano piano, Israele ha dovuto vedere il desiderio palestinese di tornare nelle città da cui furono cacciati, e di costruirsi uno Stato. Ma grande è la fatica di guardare. Ancora il 30 agosto 2002, il capo di stato maggiore Moshe Yaalon dichiarava: «Bisogna fare in modo che i palestinesi capiscano nei più profondi anfratti della loro coscienza che sono un popolo sconfitto». Convinto dell´immaturità araba, Israele ha potuto negare la realtà, dire che non esistevano interlocutori palestinesi con cui fare la pace. Anche per lui sta giungendo l´ora in cui dal vittimismo tocca passare all´esercizio del potere non solo sugli altri, ma su di sé.
La democrazia araba è desiderata ormai anche da Obama. Ma più essa avanza, più cresceranno le spinte su Israele perché cessi l´occupazione dei territori, perché le colonie siano smantellate. Chiunque guardi la mappa della Palestina (il sito è Facts on the Ground American for peace now)» vedrà una terra talmente costellata di colonie che nessuno Stato, tantomeno democratico, è concepibile.
Israele ha tutte le ragioni di preferire Suleiman a El Baradei al Cairo: perché la democrazia araba sconvolge ovunque le comodità dello status quo. È travolto lo status quo in America: Obama sarà costretto a riesumare il tema dell´occupazione. Il rischio, per Israele, è che la rivolta lambisca i palestinesi. Già si è visto quel che produce il voto democratico quando c´è stasi: vincono Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano. La democrazia può indurre i palestinesi a rinunciare a uno Stato separato; a chiedere uno Stato binazionale, senza omogeneità etnico-religiose: tutto questo, in nome della democrazia e del principio, sacralizzato proprio in America, dell´one man-one vote, «ogni uomo un voto». Un principio che in uno Stato binazionale darebbe agli arabi la maggioranza, in poco tempo. Sarà difficilissimo per Israele, a quel punto, restare immobile, guadagnar tempo, e evitare che l´America non appoggi un principio che è indiscutibile in democrazia.

Repubblica 2.2.11
Parla Abulhassan Bani Sadr, primo presidente della Repubblica islamica, che vive in esilio in Francia
"Ma l’Egitto non sarà un nuovo Iran"
L’ostacolo più importante sulla strada della democrazia è il sistema Mubarak. Per questo il raìs è finito
di Giampiero Martinotti


PARIGI «L´Egitto non sarà un nuovo Iran, i popoli musulmani reclamano libertà e democrazia, non un nuovo Khomeini». Ne è convinto Abulhassan Bani Sadr, primo presidente della giovane Repubblica islamica, poi fuggito dall´Iran degli ayatollah nel 1981 e ancora oggi, a 78 anni, esiliato Oltralpe. L´ex leader iraniano è convinto che Mubarak sia finito: «Dopo la rivoluzione tunisina, avevo previsto quel che è successo in Egitto, dove il popolo si sentiva oppresso e disprezzato. Adesso, molte cose cambieranno, nel mondo arabo e, più in generale, nel mondo musulmano».
Come spiega i fatti di questi giorni e l´improvvisa fragilità del regime?
«Le dittature hanno una caratteristica comune: l´inflessibilità. Ma quando il popolo si mette in movimento l´inflessibilità diventa una debolezza. Se Mubarak avesse preso l´iniziativa dopo le prime proteste, le cose potevano svolgersi diversamente. Ma ha risposto tardi, ha ridotto il mutamento a un cambio di persone, mentre il popolo vuol cambiare sistema. L´esercito ha detto di capire le rivendicazioni e in questo modo si è schierato con il popolo».
Mubarak, dunque, ha perso l´arma della repressione militare: com´è stato possibile?
«I regimi dittatoriali invecchiano e a un certo momento non hanno più nessun obiettivo, se non loro stessi. Nasser aveva come fine il nazionalismo arabo, lo sviluppo, la lotta alla corruzione, la liberazione della Palestina. L´obiettivo di Mubarak qual è? Come Ben Ali, non ne ha nessuno e quindi arriva la caduta».
La caduta non rischia di aprire la strada ai fondamentalisti, come paventano Israele e molte cancellerie occidentali?
«Negli anni scorsi, il popolo egiziano non si è messo in movimento perché vedeva il pericolo fondamentalista. Ma i fondamentalisti non hanno compreso la rivoluzione e chi non vede i movimenti nella sua società non può dominare un paese. La realtà di oggi, l´evoluzione delle società musulmane non consente di aver paura di un pericolo che non è reale. Anche se bisogna restare attenti».
La Casa Bianca sembra incerta sulla strada da imboccare: come giudica il suo atteggiamento?
«Da un lato, Obama chiede a Mubarak di fare riforme e di ascoltare il popolo; dall´altro, dice che è d´accordo con quest´ultimo. Ma non si possono sostenere le rivendicazioni popolari e al tempo stesso far restare Mubarak al suo posto. L´ostacolo più importante sulla strada della democrazia è proprio il sistema Mubarak. Sulla Tunisia la sua posizione era invece chiara: stava con il popolo e contro Ben Ali. La differenza è tuttavia enorme, se lo si compara con il metodo Bush».

l’Unità 2.2.11
Rivoluzione dei gelsomini Inizia col rogo d’un ragazzo, come quello di Jan Palach nel 1968
Dopo 30 anni di torpore sociale torna la protesta. Con due elementi trasversali: crisi&Internet
Da Atene a Londra a Tunisi l’indignazione è giovane
Dicembre 2008, in Grecia muore un quindicenne. È l’inizio di un risveglio di rabbia e protesta: «la crisi noi non la paghiamo» è la parola d’ordine qui in Europa. Nel mondo arabo, in più, è lotta per i diritti.
di Lucio Spaziante


Il tema dei giovani affiora in modo sempre più visibile tra i commenti e i resoconti degli ultimi mesi: il loro senso di «vuoto» e il loro «malessere» è stato l’argomento del messaggio di fine anno del Presidente Napolitano, figura istituzionale preferita dai movimenti giovanili. Una questione che riecheggia ben oltre i confini italiani, anzi proprio la sua rilevanza a livello internazionale diventa reale motivo d’interesse. Procedendo a ritroso, la «rivoluzione dei gelsomini» in Tunisia ha visto il suo innesco nei primi giorni del 2011, dopo il sacrificio di Muhammad Bouazizi, 26 anni, datosi fuoco in piazza, e che ha riecheggiato nella memoria occidentale il gesto di Jan Palach a Praga nel 1968. Le proteste e i gesti coraggiosi contro il regime sono venuti da ogni categoria sociale ma resta nella memoria il blogger Slim Amamou, dapprima arrestato e poi inserito nel nuovo governo provvisorio. Questo dato iniziale è forse tra i più significativi: l’azione pubblica oggi oltre i singoli confini nazionali passa attraverso il Web 2.0, i blog e i social network di Internet. Non va dimenticato infatti il caso dell’Iran, quando le proteste anti-regime del 2009 presero piede e poterono avere accesso all’opinione pubblica mondiale anche grazie a sms e piccoli filmati di bassa qualità, veicolati attraverso Internet. Violenti scontri anti-governativi che nei primi giorni di quest’anno hanno visto tra le vittime un diciottenne ci sono stati anche in Algeria. In situazioni socio-politiche differenti, nell’Occidente europeo, si sono susseguite ennesime situazioni di conflitto sociale aperto che hanno visto protagonisti e in prima linea i giovani. Ritorniamo qui alla Grecia nel dicembre 2008 con la morte di un quindicenne anarchico, momento di visibilità iniziale di un processo di inquietudine sociale durato per mesi, sfociato poi negli scontri nel maggio 2010, dopo il crollo dell’economia nazionale interna.
IL COMUNE DENOMINATORE
È possibile rilevare un comune denominatore in eventi così differenti? Il primo elemento ricorrente è naturalmente la crisi economica che, peggiorando le condizioni sociali di vita, innesca processi di rabbia e disperazione. Se in alcuni paesi a ciò va aggiunta la mancanza di diritti democratici, più in generale si coglie la negatività che attraversa il sentire giovanile contemporaneo, presente nelle nostre società già da tempo e che forse ora inizia a farsi più pressante e talvolta esplosiva. Sono anni che i rapporti sociologici parlano di generazioni senza prospettive, senza punti di riferimento ideologici, senza modelli comportamentali, totalmente proiettate verso il presente, in assenza di visione del futuro. Le generazioni dei giovani dal dopoguerra al boom economico hanno vissuto trasformazioni sociali ben più profonde, dalla società contadina a quella post-industriale, ma la relativa tranquillità sociale degli ultimi decenni aveva addormentato in parte le coscienze e spostato l’accento su questioni meno rilevanti. Pensiamo alle manifestazioni pacifiste contro gli armamenti nucleari negli anni Ottanta, oppure in Italia alla stagione dei centri sociali e della Pantera dei primi anni Novanta: fenomeni meno coinvolgenti sebbene abbiano mantenuto un filo conduttore nell’azione politica. Poi è stata la volta del movimento No Global, che ha combattuto il G8 come l’incarnazione di una realtà politica autoritaria calata dall’alto, orientata al mercato e alla globalizzazione, tanto da scatenare una risposta di massa ampia e diffusa ovunque, talvolta tragica, come ci ricorda Genova nel 2001. Gli anni Zero sembravano avviati verso una soporifera conclusione quando la crisi finanziaria mondiale ha cambiato le carte in tavola. “La crisi noi non la paghiamo” è diventata la nuova parola d’ordine. Nel 2008 in Italia progressivamente emerge un’ondata di proteste, manifestazioni e occupazioni, dalla scuola all’Università, che darà luogo al movimento de L’Onda. Nel corso dei mesi situazioni simili si produrranno in Francia, ma soprattutto in Gran Bretagna, alla fine del 2010, in occasione delle manifestazioni contro l’aumento delle tasse universitarie. La partecipazione agli eventi di protesta è massiccia, come non accadeva dalla fine degli anni ‘70, e stride con la vulgata delle giovani generazioni deformate dall’immaginario televisivo. In Italia le nuove forme di lotta marcano alcune significative differenze: dichiarazioni di estraneità alla politica; partecipazione eterogenea alla lotta da parte di professori, ma soprattutto ricercatori e precari, insieme a studenti e ai genitori; uso di linguaggi innovativi – come i libri-scudo colorati e l’occupazione di siti artistici per acquisire visibilità mediatica; uso di Internet come tramite per indirizzare le manifestazioni secondo percorsi imprevedibili.Rabbia e indignazione sembrano essere il motore di questi movimenti giovanili, di una generazione orgogliosa di sentirsi in rivolta contro uno stato di cose consolidato, contro il silenzio e l’assenso del nostro stile di vita, in cerca di spazi, diritti di parola, diritti allo studio per esserci e affermare una propria cultura del dissenso. Questo vale a Londra, come ad Atene, come a Parigi, e in un certo modo vale anche a Tunisi, sebbene in condizioni ambientali molto differenti.

Repubblica 2.2.11
Bersani e Di Pietro in piazza con le donne
"Il 13 ci saremo". Nuove adesioni al raduno di LeG. A Napoli cattolici davanti al duomo


ROMA Le adesioni arrivano a valanga. Di ora in ora la mobilitazione di piazza contro Berlusconi, il caso-Ruby e il degrado etico-politico del paese pare inarrestabile. Soprattutto concentrata sulle due iniziative maggiori: quella di Libertà e Giustizia sabato 5 a Milano, e quella delle donne che chiamano a radunarsi nelle piazze di tutt´Italia il 13 febbraio. Ma spuntano anche altre iniziative. Venerdì 4 febbraio un gruppo di cattolici impegnati nelle parrocchie di Napoli si ritroveranno davanti al duomo per dire basta "allo squallido spettacolo offerto da autorevoli rappresentanti della vita politica". L´intento del comitato "Etica e speranza" è di convincere il cardinale Crescenzio Sepe a "unire la sua autorevole voce a quella di tanti cattolici che assistono sgomenti a questo spettacolo".
Per la manifestazione di LeG, sabato al Palasharp di Milano (diretta su Repubblica.it e sul canale 50 del digitale con Repubblica tv) ci sarà una vera invasione della stampa estera. Giornali e tv da mezzo mondo hanno chiesto di esserci: si va dall´ Herald Tribune a El Paìs, e perfino una troupe della Bbc Ucraina. Alle 100 mila adesioni della società civile all´iniziativa lanciata da LeG con lo slogan "Dimettiti" rivolto al presidente del Consiglio, si aggiungono anche nuove presenze sul palco: accanto ai preannunciati Zagrebelsky, Saviano, Eco, Ginsborg, ci saranno Susanna Camusso (Cgil), Maurizio Landini (Fiom), la costituzionalista Lorenza Carlassare, Nando Dalla Chiesa, il direttore dell´Unità Concita De Gregorio, Beppino Englaro, Gad Lerner, Moni Ovadia, Elisabetta Rubini, Salvatore Veca, Lorella Zanardo, autrice del documentario "Il corpo delle donne" e firmataria anche dell´appello per il 13 febbraio, che chiede anche gli uomini di reclamare "dignità per le donne". Dopo Rosy Bindi, ieri ha promesso di esserci Bersani: «Accettano anche i maschi dunque ci sarò anch´io. Se non si mette in moto il protagonismo delle donne, la civiltà di un paese rallenta». La segreteria del Pd ha invitato i militanti del partito a partecipare alla mobilitazione del 13. Altrettanto ha fatto Di Pietro. Dalla società civile firmano Miuccia Prada, Sandro Veronesi e Franca Valeri. Le loro parole e le loro motivazioni sono su Repubblica.it insieme alle immagini di uomini e donne che dicono "basta".
(a.b.)

Corriere della Sera 2.2.11
La fabbrica delle anime
Quel vuoto di leadership a sinistra
di Ernesto Galli Della Loggia


L’ Italia è il Paese in cui alla vigilia di ormai più che probabili elezioni politiche l’opposizione è ancora priva di un leader da contrapporre al leader dello schieramento avversario, cioè a Silvio Berlusconi. Ciò riguarda tanto l’opposizione di sinistra che quella di centro: ma per ragioni solo in parte eguali. Il problema comune è che entrambe le opposizioni hanno una composizione eterogenea, ognuna essendo formata di tre, quattro, o anche più formazioni diverse, le quali devono trovare un accordo su chi le rappresenti nella competizione elettorale: una decisione, come si capisce, tutt’altro che facile. Ma se questo è il problema comune sia al centro che alla sinistra, la sinistra ne ha uno in più. E cioè che qui è lo stesso partito di gran lunga più importante dello schieramento, il Partito democratico, che non ha un vero leader, non ha un capo. Per capo intendo una persona in grado di prendere decisioni vincolanti per tutti perché titolare di un consenso non da contrattare ogni volta con una continua ricerca di compromessi. Intendo insomma esattamente ciò che il povero Bersani non è. Ma Bersani non ha colpa. Il Pd manca di una simile figura da sempre: ed è questa una tra le non ultime ragioni per cui è un partito zoppo, sempre incerto nelle sue mosse, insicuro e poco affidabile all’esterno in quanto incapace di parlare con una voce sola. Sono tre i principali motivi di questa specie di destino maligno. Il primo è che innanzitutto nella cultura, nel modo di sentire del popolo del Pd si avverte una diffidenza profonda per l’idea stessa che un capo sia necessario. L’evoluzione ideologica dell’elettorato di sinistra successiva alla fine del comunismo ha voluto perlopiù dire, infatti, l’approdo a un democraticismo antigerarchico che è portato a vedere in ogni esercizio d’autorità un più o meno larvato sopruso. Dalla reverenza verso il capo indiscusso designato dal Partito con la P maiuscola a decidere di tutto (Togliatti, Berlinguer) si è passati all’idea opposta che di tutto possano e debbano decidere tutti (e chi non è d’accordo ha diritto di fare per conto suo come se nulla fosse). Alla speranza nella storia essendo subentrata con pari forza, dopo «Mani pulite» , l’idolatria per i codici, tutto il senso comune della sinistra si è impregnato di regolamentarismo, di astrattezza, di sospetto per qualsiasi contenuto o potere legato alla persona. L’odio per Berlusconi ha fatto il resto, colorando di una luce d’arbitrio ogni realtà di leadership. Il risultato è stato una vera e propria automutilazione che la sinistra si è masochisticamente inferta, disconoscendo la funzione essenziale che nella politica ha sempre avuto l’esistenza di un capo. Il quale capo, peraltro, non emerge nelle file del Pd anche per un secondo motivo: perché esso manca da tempo di un vero programma, di punti concreti sui quali definire la propria identità, di proposte con cui presentarsi all’elettorato. Sicché di fatto l’unica cosa su cui nel Pd c’è una parvenza di dibattito (per modo di dire: in realtà, infatti, non vi sono sedi effettive di discussione interna; tutto, anche in questo caso, si riduce a interviste e dichiarazioni ai giornali) è solo la tattica da adottare per far fuori Berlusconi e sugli eventuali alleati ai quali ricorrere.
Contenitore di molte prospettive ideali anche assai diverse tra di loro, il Pd non riesce in realtà a discutere di niente per paura di non trovarsi d’accordo su nulla. Ma proprio questa latitanza di concretezza programmatica e insieme di dibattito implica inevitabilmente l’assenza di vera lotta politica all’interno del partito, l’assenza di prese di posizioni che impegnino realmente chi le prende, l’impossibilità, infine, che si formino vere maggioranze intorno a un programma e intorno a una persona. E dunque l’impossibilità che nasca un vero leader. Al suo posto, invece, l’affollarsi di un’oligarchia sganciata da ogni responsabilità, immutabile, dove si entra solo e non si esce mai, dove tutti, a turno, prendono tutte le posizioni o quasi, madre di un sostanziale immobilismo punteggiato da continui compromessi. Un meccanismo del genere non è certo fatto per consentire di prevalere a chi abbia voglia e capacità. È piuttosto il vivaio inevitabile della mediocrità. Dato questo modello ormai consolidato è comprensibile, infatti, che nessuno che pure eventualmente ne avesse qualche vago desiderio abbia poi voglia di giocarsi ciò che ha già, contrapponendosi al sistema e così rischiando di restare isolato perdendo tutto. In un partito dove non c’è vero dibattito politico, dove non c’è lotta politica su proposte concrete e contrapposte, che non ha alcuna identità programmatica, nessuno, comprensibilmente, se la sente di scommettere sulla bontà delle proprie idee. Nessuno se la sente di puntare sul fatto che il futuro gli darà ragione, e dunque di accettare di restare in minoranza oggi perché domani saranno i fatti a dargli la leadership. Nel Pd, insomma, è la stessa strada che conduce alla nascita di veri capi politici che risulta impraticabile, se non addirittura inesistente. Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi da anni. Ad una patologica iperpresenza di superleadership a destra, a sinistra corrisponde un’altrettanto patologico vuoto di leadership. Anche di ciò si nutre voracemente l’anomalia italiana: quell’anomalia che ci sta conducendo alla rovina.

Repubblica 2.2.11
La ragazza umiliata di Hayez ci chiede di fare il nostro ’48
di Melania Mazzucco


Poco tempo fa si è tenuta a Roma, alle Scuderie del Quirinale, una mostra dedicata ai 150 anni dell´Unità d´Italia. La folla sciamava incuriosita davanti a enormi tele di battaglie e massacri: a tutti era necessario leggere le didascalie perché luoghi, volti e divise non dicevano più niente. Ma c´era un quadro che non aveva bisogno di didascalia: lì davanti, perenne assembramento. Suscitava nelle donne turbamento, negli uomini imbarazzo, in tutti un forte slancio emotivo. Il quadro raffigura una giovane, bellissima donna bruna di circa vent´anni – a seno nudo, con un libro e una croce tra le mani. La ragazza, imbronciata, umiliata, consapevole della propria nudità, ci guarda dritto negli occhi. Con dolore, però senza vergogna. Non è una prostituta. E´ stata però prostituita. La donna è l´Italia. O, potremmo dire, l´Italia è una donna. Come bella donna formosa è sempre stata rappresentata sulle monete e sui monumenti ai caduti in tutte le piazze del Belpaese. La perdita di dignità di una singola donna italiana – ci racconta lo storico Banti nei suoi libri – veniva temuta come perdita di dignità e onore di tutta la nazione. Questo nesso fra la donna e l´Italia su cui si è fondata l´epopea del riscatto dell´identità nazionale, si è perso col franare del XX secolo. Ce n´è stato però un altro, in qualche modo speculare: l´Italia come bordello. Chi sognava un paese libero – devo ricordare Dante e Leopardi? lamentava l´Italia ridotta a serva, ancella incapace di reagire, schiava e puttana, turpe e indegno bordello. Ma attenzione, era un discorso politico, non moralistico, perché non si trattava di sesso ma di libertà. Anche oggi non si tratta di sesso ma di libertà. Dove c´è un padrone, ci sono servi, dove c´è un bordello c´è mercato, e vi si prostituisce ben altro che i propri orifizi: le proprie idee, i propri diritti, il proprio lavoro, il proprio futuro. Anacronistica e troglodita è semmai la convinzione che una donna abbia da vendere solo la propria carne. (Mi pare del tutto fuori luogo parlare di corpo: il corpo è la memoria di una storia individuale e irripetibile, la frontiera del proprio rapporto col mondo, la sede dell´anima, per chi ci crede, ma dove c´è merce non c´è più individuo, dunque nemmeno corpo). Questa prostituzione universale, orgia, simonia, svendita, asta o saldo di ogni valore cui l´Italia si è abbandonata negli ultimi quindici anni non ha suscitato preoccupazione o sdegno. O solo in pochi, tacciati e ridicolizzati come apocalittici catoni. Non so se provo soddisfazione o fastidio nel constatare che ci indignamo ora, quando, ancora una volta, è in gioco il corpo nudo della donna. Il seno nudo, fateci caso, è l´immagine shock per molte, ed emerge dalla nebbia di troppe parole. Forse non è troppo tardi, se comunque, quando l´Italia si scopre umiliata e nuda davanti agli occhi degli altri (il mondo intero che ride, deride, stupisce e biasima la sua sconcertante incapacità di reagire, la sua passiva nudità), si imbarazza e si sdegna. Pazienza se l´onda ha già flagellato la costa, contaminato la terra, avvelenato l´aria. Io parlo per ver dire, non per odio d´altrui né per disprezzo, scriveva pacatamente Petrarca nella canzone ai Signori d´Italia. Parliamo per dire, più che la verità, che non si sa cosa sia, almeno la nostra verità, ma parliamo finalmente. Sdegnamoci allora per l´Italia umiliata e prostituita come la ragazza di Hayez, e guardiamo in faccia chi ci guarda, con dolore, e però senza vergogna. La ragazza tiene fra le mani un libro e una croce, su cui, a pigmento rosso, sono dipinti dei numeri. Non dei numeri, una data. 1848. Per chi non se lo ricorda, fu l´anno della rivoluzione.

l’Unità 2.2.11
Il premier in pressing sui radicali e sui delusi di Fli

Il premier invece non ci pensa proprio e non ha mai fermato la caccia alle new entry per allargare la maggioranza, così da dimostrare di avere i numeri per governare ed evitare le urne. È forte il pressing su Marco Pannella (che ha incontrato Berlusconi), anche con la promessa del ministero della Giustizia, sperano che sarebbe seguito da cinque parlamentari. Ma il «salto» nel Pdl dovrebbe superare il rifiuto di Emma Bonino.

il Fatto 2.2.11
Pronto il rimpasto. Trattativa con Pannella
Per “Il Giornale” sarebbe stato offerto al radicale il posto di Alfano
Malumore Bonino
di Sara Nicoli


È ricominciata in grande stile la compravendita dei deputati. E Luca Barbareschi resta comunque uno dei principali indizia-ti a favorire il premier, anche con le dimissioni in favore. Il Cavaliere va avanti come un treno sulla questione di comprare il voto dei deputati compiacenti. Dopo aver pescato tutto il pescabile dal gruppo misto, i due procacciatori per eccellenza, Silvano Moffa e Saverio Romano (quest’ultimo in predicato di assurgere al ruolo di ministro sulla poltrona delle politiche europee che fu di Andrea Ronchi) si sono diretti verso il gruppo dell’Movimento per l’autonomia, cercando di mettere i bastoni tra le ruote al governatore siciliano Raffaele Lombardo. Con qualche risultato che, a quanto si sostiene, sarà svelato nelle prossime ore. Sarebbero in arrivo tra i Responsabili Ferdinando Latteri e Aurelio Misiti, che un segnale di disponibilità l’avevano dato nel giorno del “processo” a Sandro Bondi, sparendo dall’aula al momento del fatidico voto. Ma pare che non sia finita lì. Chi riesce a condividere qualche confidenza con un abbottonatissimo Moffa, parla del possibile arrivo di “altri due da Futuro e libertà”. Uno di questi, si sostiene, potrebbe essere Potito Salatto, un fedelissimo di Fini ultimamente in rotta con il leader per una questione legata alle unioni gay che l’ex democristiano di certo non digerisce. Ma in cambio di cosa tutti questi deputati sarebbero disposti a cambiare ancora casacca per sostenere una maggioranza che anche i più ottimisti giudicano con i giorni contati? La risposta la fornisce un fedelissimo del premier: “Perché è sempre meglio un giorno da sottosegretari o addirittura da ministri, che un’intera legislatura da peone”. Stavolta, infatti, si paga con il rimpasto di governo.
LA STRATEGIA si è rivelata, ieri, durante il lungo vertice del Pdl a Palazzo Grazioli. In sostanza, Berlusconi ha detto ai suoi che intende rimpolpare le file del governo e delle seconde fasce dell’esecutivo un po’ alla volta. Il motivo è semplice: “Non posso arrivare al Quirinale – avrebbe detto il Cavaliere – con un elenco di cinque ministri e ventidue nuovi sottosegretari perché Napolitano mi chiederebbe di aprire la crisi”. E allora? Allora distribuirà i posti vacanti un po’ alla volta, alla spicciolata, gratificando i voltagabbana della prima ma anche della seconda ora, in un ordine che solo lui (ma anche Cicchitto e Gasparri) conoscono. Insomma, votarsi alla sopravvivenza della maggioranza conviene. Romano, quasi sicuramente diventerà ministro, un sottosegretariato sicuro spetterà a Catia Polidori e a Maria Grazia Siliquini, ma ce ne sarà senz’altro un po’ per tutti quelli che hanno aderito ai Responsabili. Sembra che il Cavaliere voglia lasciare, comunque, qualche posto vacante nel rimpasto a singhiozzo proprio per “invogliare nuove forze a venire verso di noi”. Il tradimento paga. Anche con un posto da ministro per poche settimane, ma sempre meglio di peone per sempre.
Poi c’è la trattativa con i Radicali, che negli ambienti del Pdl è definita in “fase avanzata”. Berlusconi punterebbe a un accordo politico con Marco Pannella sulla base di alcuni temi cari alla causa radicale come quello della giustizia, magari con un posto da sottosegretario di Angelino Alfano consegnato proprio a un radicale. Addirittura il Giornale ieri arrivava a ipotizzare una sostituzione di Alfano con lo stesso Pannella. Segnale che qualche promessa è stata fatta. Ma mentre Pannella tratta in nome di un “rinnovato spirito del ‘94”, Emma Bonino sarebbe molto irritata da questi movimenti.

Corriere della Sera 2.2.11
Pd, fughe in periferia e liti al vertice
Loiero lascia il partito. E i bersaniani attaccano Veltroni sulla patrimoniale
di Maria Teresa Meli


Sarà difficile, per i vertici del Pd, fare finta di niente, il 4 e il 5 febbraio, e attenersi rigorosamente ai temi all’ordine del giorno della conferenza programmatica. Sono troppi i problemi, troppe le difficoltà. Il partito ha ricominciato a perdere pezzi. Il senatore Nicola Rossi considera chiusa la sua esperienza. Agazio Loiero, ex presidente della Regione Calabria, uno dei 45 cofondatori del Pd, ha annunciato che non rinnoverà la tessera. E in una lettera indirizzata al segretario, inviata ieri sera, spiega i motivi di questa sua decisione. Ve ne sono alcuni contingenti, legati al fatto che Bersani ha commissariato la Regione, e altri che invece riguardano la linea politica del Pd. Tra questi, la tentazione di vanificare lo strumento delle primarie: «Come si fa — si chiede Loiero — dopo averle tanto esaltate e fatte veicolare come unico simbolo identitario del partito ad eliminarle con una motivazione surreale: il segretario del Pd rischia di perdere con Vendola» . Ma il «motivo di fondo» dell’addio al partito è «la tendenza ormai prevalente» a «occhieggiare a Bossi» . «Concludendo— è l’amara chiusa di Loiero — vado via perché vedo, nell’inconsapevolezza della maggioranza del Pd, molte fratture, che sembravano rimarginate, riaprirsi» . Ma la lista dei problemi non si esaurisce qui. In tutta Italia il Pd sta dando segni di difficoltà evidenti. In Sicilia è partita la raccolta di firme dei ribelli per indire in tutta l’isola il referendum contro la giunta Lombardo. A Cagliari si è verificato il bis di Milano: alle primarie per scegliere il candidato sindaco l’esponente del movimento di Vendola, Massimo Zedda, ha battuto il candidato del Pd, Antonello Cabras. Risultato assolutamente non previsto, tant’è vero che il rappresentante del Partito democratico, convinto di vincere alla grande, era volato per gli Stati Uniti. A Torino, dove tra un po’ si andrà a votare per le primarie del centrosinistra, l’outsider Davide Gariglio sta dando del filo da torcere al candidato ufficiale Piero Fassino. A Napoli né Cozzolino né Ranieri intendono dare retta a Bersani e ai dirigenti del partito nazionale. Il povero Andrea Orlando, neocommissario del Pd locale, fatica a trovare la quadra e spiega: «Bisogna ripensare le primarie. E lo dico non solo per Napoli, ma in generale. Infatti dobbiamo evitare che diventino lo strumento per lanciare un’Opa sul nostro partito» . L’unica maniera per evitarlo è archiviare le primarie di coalizione e ripristinare quelle di partito. Peccato però che nella piattaforma programmatica con cui Bersani si è candidato alla segreteria fossero previste proprio quelle di coalizione. E questo è un altro problema che i vertici del Pd dovranno necessariamente affrontare. Anche perché la minoranza interna non è affatto disposta a cedere su questo punto. «Non possiamo tornare alle logiche delle oligarchie di partito» , è la parola d’ordine di Walter Veltroni. Poco confortanti anche i sondaggi: ce n’è uno che inchioda il Pd sotto quota 24 per cento. In compenso, la guerra interna prosegue alla grande. Bersani e i suoi hanno messo sotto tiro Veltroni per la proposta sulla patrimoniale lanciata al Lingotto. Accusano l’ex segretario di aver fornito a Berlusconi un pretesto per attaccare il partito. E vogliono chiedergliene conto. È chiaro che è un modo per metterlo in difficoltà dopo il successo del Lingotto, che tanto aveva impensierito i bersaniani, preoccupati che Veltroni si volesse candidare anche lui alle primarie. Divisioni anche sulla strategia politica. D’Alema lavora alacremente per convincere il terzo polo di Fini e Casini a partecipare alla santa alleanza antiberlusconiana; sei senatori ex ppi che fanno capo a Fioroni hanno invece chiesto le dimissioni di Fini. È questo il quadro in cui dovrà muoversi Bersani il 4 e il 5 febbraio. Non sarà facile, ma il segretario intende assolutamente mettere dei punti fermi nel dibattito interno al Pd e dimostrare nel contempo che non è vero quello che ha dichiarato ieri il sindaco di Firenze Matteo Renzi, ossia che «il Pd guarda solo al proprio ombelico e non ai problemi del Paese» . Una sfida ambiziosa, ma Bersani sa che è anche l’unica strada che può imboccare per cercare di risollevare il suo partito.

Repubblica 2.2.11
Un dizionario di oltre 1300 voci racconta storia e meccanismi del tribunale
Perché l’Inquisizione funziona ancora
di Simonetta Fiori


Il gruppo di studiosi che ha realizzato il lavoro è stato guidato da Adriano Prosperi
Quali sono i giudizi che contano nell´epoca di Internet? Dal "New York Times" a "The Observer" i giornali si interrogano

Eresia. Bestemmia, Apostasia. Sollicitatio ad turpia. Poligamia. Da sempre l´Inquisizione scuote l´immaginario collettivo, nutrendone anche le forme letterarie più varie, tra orrore e fascinazione. Oggi il tribunale del Sant´Uffizio viene evocato soprattutto nel dibattito pubblico, in occasione del rogo di libri minacciato da alcune amministrazioni laiche ma anche riguardo alla occhiuta sorveglianza ecclesiastica sulla bioetica e sulla sessualità. Per chi voglia approfondire la conoscenza di questa potente macchina coercitiva, modello d´una memoria centralizzata che ha segnato la nostra storia nazionale, arriva ora il Dizionario storico dell´Inquisizione, pensato da un´équipe di specialisti per lettori non specialisti. Un´opera edita dalla Scuola Normale che ha tratti di straordinarietà: per l´ampiezza delle voci (1.310), per il respiro internazionale dei contributi (da 12 paesi), per la generosità con cui massima parte degli studiosi vi ha lavorato (gratis), sotto la guida esperta di Adriano Prosperi supportato da Vincenzo Lavenia e John Tedeschi.
Il Dizionario colma anche un vuoto, dal momento che non esistevano strumenti analoghi, rigorosi e di facile accesso. «Era anche difficile farlo esistere prima del 1998», spiega Prosperi, autore del fondamentale Tribunali della coscienza. «Soltanto sul finire degli anni Novanta venne aperto l´ultimo archivio coperto da segreto, quello della Suprema Congregazione Romana del Sant´Uffizio dell´Inquisizione. Era stato Carlo Ginzburg a sollecitarlo in una lettera papa Wojtyla, che volle in questo modo dare il segno del distacco della Chiesa da un lungo passato di coercizione violenta in materia di fede».
Ma questa nuova stagione è davvero cominciata? Colpisce nello scritto introduttivo una curiosa parentesi: là dove si parla dell´abolizione dell´Inquisizione, Prosperi s´affretta a puntualizzare: "quando e se vi è stata". Vuol dire che esiste ancora? «Nel 1964 il vecchio tribunale del Sant´Uffizio è stato sostituito dalla Congregazione per Dottrina della Fede: un istituto che sin dal nome si dichiara a favore della dottrina, non contro qualcuno da perseguitare. Però la sede è la stessa, e anche l´archivio. E le materie esaminate sono molto simili. Nessuno oggi viene più bruciato per eresia, tuttavia il meccanismo che persegue le dottrine sbagliate pensiamo alla bioetica o all´aborto è rimasto lo stesso». C´è quindi una forte continuità? «Direi qualcosa di più, ossia l´idea che la Chiesa cattolica non possa rinunziare alla definizione centralizzata della verità, da cui discende il perseguimento di quel che viene ritenuto eresia. Anche la ritualità è rimasta integra. È stato papa Ratzinger a riproporre la tradizionale partecipazione del pontefice alla riunione della feria quinta del giovedì coram Sanctissimo».
Sono ancora profonde le tracce lasciate dai tribunali della fede nel costume degli italiani. «La nostra ignoranza religiosa è enorme rispetto ad altre culture», spiega lo studioso. «Fin dal XVI secolo, la lettura della Bibbia è stata perseguita e vietata: la sua interpretazione spettava soltanto al corpo ecclesiastico. Da noi la religione si conosce attraverso le norme del catechismo; non esiste come domanda, inquietudine, ricerca. Chi dubita è già sospetto. Machiavelli, vissuto prima dell´istituzione del Sant´Uffizio, diceva che gli italiani avevano nei confronti della Chiesa e dei preti il debito di essere diventati "sanza religione e cattivi": una buona sintesi per indicare gli effetti di lunga durata».
Può essere interessante scoprire la trama che collega lo studio dell´Inquisizione con i movimenti più profondi della società italiana. «Se il cinquantennio liberale dopo l´Unità fu stagione di ricerche importanti, il fascismo ha operato in senso opposto: la saldatura tra Chiesa e regime mise in sordina questo genere di studi. Nel lungo evo democristiano, gli studi su vescovi, parrocchie, moralità quotidiana sul modello di san Carlo Borromeo finirono per oscurare il tema, che ricomparve negli anni Novanta con l´apertura degli archivi. Un passo importante, che però la Chiesa ha dimostrato di far fatica a compiere, con molti ripensamenti».
Oggi nella comunità scientifica c´è anche chi inclina a tesi apologetiche. «Mi auguro che il Dizionario serva a riportare alla ragione alcuni studiosi anglosassoni che si affidano a definizioni grossolane. È affiorata di recente un´immagine dell´Inquisizione simile alla dieta mediterranea: un tribunale rigoroso, perfettamente funzionante, che non fa vittime oppure ne fa ma in misura infinitamente più bassa rispetto ai tribunali secolari. Il problema è la qualità del reato. Non si tratta di furti o di assassini, ma siamo davanti a reati di coscienza, di scelta intellettuale, di orientamento religioso».
Quali sono stati i problemi più rilevanti nel comporre le voci? «Uno dei problemi principali è stato quello di dare un nome agli inquisiti. Sappiamo moltissimo degli inquisitori ma non delle loro vittime: la macchina inquisitoriale ne prevedeva la cancellazione. Io ho provato particolare soddisfazione quando ho potuto mettere il nome di Giuditta Ebrea. Fu bruciata come strega a Mantova al principio del Seicento. Di lei restano solo tre righe in una cronaca manoscritta. Manzoni parlava della lotta per strappare al tempo le sue vittime. Qui il tempo ha il volto di un´istituzione che si fondava sul controllo assoluto della memoria. Poter combattere in nome della memoria è sempre una bella partita».

Repubblica 2.2.11
La psicostar
Così il guru Phillips ti cura con le storie
Ha curato l’opera omnia di Freud e ha iniziato lavorando con i bambini negli ospedali di Londra
di Gabriele Romagnoli


È stato definito "il Martin Amis dell´analisi": tra i suoi pazienti ci sono autori illustri come Kureishi. Che aiuta con una "terapia narrativa"
In Italia esce il suo ultimo saggio dedicato ai gesti quotidiani, dal bacio al solletico
Ha curato l´opera omnia di Freud e ha iniziato lavorando con i bambini negli ospedali di Londra

Adam Phillips è una psicostar. Non si può separare l´opera dall´autore, dal contesto che si è creato (o ha creato) intorno a lui. Chi altri potrebbe pubblicare con successo un libro Sul bacio, il solletico e la noia (Ponte alle Grazie, pagg. 182, euro 15)?
Nessuno psicanalista è al momento oggetto di paragonabile idolatria: ha scavalcato anche James Hillman. Questo gli consente di dedicare, in un gioco intellettuale di specchi riflessi, un capitolo a «psicanalisi e idolatria».
Phillips corre sull´esiguo e per questo inebriante confine tra enunciazione dell´ovvio e disvelamento di una realtà che tutti vedono e nessuno nota, tra intuizione e ripetizione, creando due schieramenti: chi gli riconosce genialità e chi cialtroneria. Analista di letterati (nel suo studio di Notting Hill vanno tra gli altri Hanif Kureishi e Will Self) è letterato lui stesso.
Sostiene che la psicanalisi è più affine alla poesia che alla medicina e fornisce con questo ai suoi detrattori l´opportunità di sostenere che non offre soluzioni, ma versi variamente acconciati. Non si può dunque affrontare la sua teoria della noia o del solletico, temi che esamina con la stessa serietà dell´esistenza o della morte, senza chiarirne la figura.
Gallese, discendente da una famiglia di ebrei polacchi, Phillips ha conosciuto molti interessi, soprattutto l´ornitologia tropicale, prima di quello definitivo: la psicanalisi. L´ha declinata in forme narrative e l´ha dedicata ai bambini, diventando specialista infantile all´ospedale Charing Cross di Londra. Sposato con una critica letteraria, ha adottato una bambina cinese a cui dedica il tempo libero. Rifugge dalla mondanità, non partecipa ai talk show. Eppure è diventato una psicostar. Lo aiuta l´aspetto: assomiglia a Bob Dylan. Lo aiuta la clientela vip che ne tramanda la fama. Nessuno, dicono, è mai uscito dal suo studio sentendosi meglio. E lui ritiene che se così fosse avrebbe sbagliato tutto. Molti ne escono però con la piacevole ebbrezza di chi si è ubriacato di storie, foss´anchero le proprie e nulla più. Lo stesso Kureishi, che non a caso ha creato molti personaggi psicanalisti, mi diceva sul palco del Festival della Letteratura a Mantova: «Lo invidio: le storie vanno da lui, anziché viceversa. Anche se forse guadagna meno». Ma da quando scrive libri Phillips insegue il reddito degli autori di bestseller. Il Times lo ha definito «il Martin Amis della psicanalisi». E questo è: prende una materia scientifica e la rende narrativa. Accade anche con il bacio, il solletico e la noia.
Phillips parte dalla «convinzione che qualsiasi teoria psicanalitica destinata a riscuotere l´interesse dei soli addetti ai lavori difficilmente valga la pena di essere letta». Senza diventare per questo un divulgatore cerca (e trova) una platea più ampia, pubblica su riviste non di settore, sceglie temi universali e approcci quasi colloquiali. Se la psicanalisi è una detective story lui è un Holmes che indaga sul furto di una merendina. Ma quel che conta non è forse il metodo? E la soluzione del giallo, allora? Questa appare una pretesa superata, giacché «la psicanalisi è una storia e insieme un modo di raccontare storie che fa sentire meglio alcune persone». E dunque, c´era una bambina di otto anni che alla fine di una seduta disse: «Quando giochiamo coi mostri e la mamma mi cattura, non mi uccide mai, mi fa solo il solletico». E un´altra (o la stessa?) che racconta quanto le piaccia andare in campagna perché esce «in cerca di mucche, uccelli, baci e cose simili». C´è sempre una bambina a detonare le storie (e/o le analisi) di Phillips, come nel suo incantevole La scatola di Houdini, dedicato all´arte della fuga.
Ci sono sempre i bambini del Charing Cross, così impegnati dai loro genitori da rattristarsi alla sola domanda: «Ti annoi mai?» e rispondere: «Non mi è consentito». Poi si procede per considerazioni che rivelano una curiosa familiarità. Che cosa ci ricorda: «La più ridicola, la più chiaramente insoddisfacente e perciò la più rara tra tutte le attività autoconsolatorie o autoerotiche è baciare se stessi»? Quel che Phillips scrive a proposito del solletico: «Il bambino che diventerà capace di mangiare da solo, che si masturberà, da solo non sarà mai in grado di farsi il solletico». Il che rimanda, volendo, al più famoso (o famigerato) dei suoi aforismi: «La masturbazione non è soltanto sesso sicuro, è anche incesto sicuro».
Curatore dell´opera omnia di Freud, la psicostar condisce di riferimenti alla sessualità le sue osservazioni: «Solleticare significa sedurre, spesso attraverso il divertimento», «Il bacio, sfumando il confine tra il normale e il perverso, è la rappresentazione ammessa in pubblico della vita sessuale privata», «Il bambino annoiato è in attesa di se stesso», sottinteso di un se stesso che lo faccia divertire, come in un episodio masturbatorio, al di là del solletico e del bacio. Phillips farcisce la sua narrazione di riferimenti a Freud, Lacan, Winnicott, ma la interrompe con citazioni da Stendhal, Beckett e perfino (autoironicamente?) Dylan. Arriva a conclusioni mai definitive, introdotte da formule che esprimono modestia o incompleta adesione: «Credo che la noia protegga l´individuo rendendogli tollerabile quell´esperienza impossibile che è l´attesa di qualcosa che non si sa bene cosa sia», «Dei baci si può dire, nonostante i nostri dubbi, che sono una minaccia e una promessa», «Forse in quel trauma cumulativo che è l´evoluzione abbiamo fatto l´esperienza del solletico, ma ne abbiamo differito il significato».
Affermano i suoi detrattori (per lo più psicanalisti che si sentono molto scienziati e poco poeti): invertendo l´ordine delle sue affermazioni il concetto non cambia. In effetti, frasi come: «La propensione alla solitudine può essere paragonata alla propensione verso certe categorie di persone», se estrapolate dal contesto, avallano questa tesi. Dietro la quale, certo, si annida l´invidia di chi è psico, ma non star. Di chi si è spinto a definire Phillips un «arrogante, per troppo tempo non contraddetto».
Nessuna replica, va da sé, dall´autore di Elogio della gentilezza.
Leggendo questi suoi scritti sul bacio, il solletico e la noia (ma anche sulla compostezza, il rischio e molto altro) si ha un´impressione di leggerezza è vero, ma siamo nella psicopatologia del quotidiano, nell´analisi delle microfratture e non dei traumi. Ci viene svelato perché anche una merendina può essere oggetto di furto come un diadema, non chi l´ha rubata. E forse in questo ci si rende un grande servizio: ci viene detto con stile, aneddoti, citazioni che nessun risolverà per noi i nostri problemi. Neppure quelli minori.

Repubblica 2.2.11
I bambini delle sette
Ostaggio di un falso dio
Fanatismo e violenze. Sono migliaia i bambini che finiscono imprigionati in gruppi religiosi ai margini della legalità. Ma qualcuno si ribella
di Anais Ginori


A Tivoli la prossima settimana prende il via il processo a Danilo Speranza, il guru a capo del gruppo "Re Maja" accusato di abusi L´età del primo contatto si abbassa sempre di più. "E in Italia non esiste una legge contro la manipolazione delle menti" Per impedire gli scambi con l´esterno, i bambini sono indottrinati con lezioni private E talvolta devono cambiare nome

ROMA. «Devo modificare il tuo karma». Sul letto ondeggiava una nebbia prodotta dal fumo di candele e incensi. Il "Settimo Saggio" aveva convinto Lisa e Benedetta che con i rapporti sessuali precoci sarebbero state liberate dal "cattivo destino". «Mi toccava il seno, io rimanevo paralizzata non capendo cosa stava accadendo ricorda Lisa che aveva 12 anni all´epoca dei fatti . Mi diceva di stare tranquilla perché era il mio padrone e mi avrebbe fatto sentire meglio». Nella nebbia purificatrice si celava una minaccia, un molto presunto rito purificatorio inflitto a bambine appena sviluppate, cresciute tra violenze e minacce di "Zio Danilo". Erano cosa sua, del resto. Nate e cresciute nella comunità romana fondata negli anni Ottanta, schiave insieme alle madri diventate adepte del guru e delle sue profezie cosmiche. Il processo a Danilo Speranza, capo della setta "Re Maya", inizierà a Tivoli tra pochi giorni. Lisa e Benedetta hanno trovato la forza di ribellarsi, sono state accolte nel centro antiviolenza Solidea. Il santone è accusato di violenza sessuale con l´aggravante di aver compiuto gli abusi grazie a un´autorità paterna riconosciuta dentro alla "famiglia".
Non esistono statistiche attendibili sui bambini fantasma, vittime delle ossessioni e delle paure dei loro genitori. In Francia, dov´è stata istituita una missione ministeriale per combattere il fenomeno, ci sarebbero 60 mila minori coinvolti.
«Vittime dimenticate, ignorate, perfino negate» secondo l´Unadfi, Union nationale des associations de défense des familles et de l´individu victimes de sectes.
Telefono Azzurro ha segnalato alle autorità centinaia di casi. «Sono bambini che rimangono imprigionati e assoggettati al progetto dei genitori e a quello della setta racconta il presidente Ernesto Caffo incapaci di liberarsi e uscirne da soli». Figli di un Dio impostore. Come la scrittrice Amoreena Winkler, nata trentadue anni fa nella setta apocalittica chiamata proprio Bambini di Dio, operativa anche in Italia sotto l´altro nome, The Family. Il suo "papà", considerato tale perché guidava la setta, le ha fatto scoprire il sesso quando aveva quattro anni. «Sono nata in un mondo parallelo, dove la nostra realtà non doveva trapelare all´esterno» ricorda Winkler nel suo libro appena pubblicato.
Nell´ingranaggio. Se ci cadi dentro vieni proiettato in un microcosmo malato che finge di spacciare serenità. A rimanere impigliati non sono soltanto i creduloni o i soggetti deboli. Al numero verde anti-sette della comunità Papa Giovanni XXIII arrivano in maggioranza telefonate di professionisti, giovani laureati, soprattutto donne. Un milione di italiani partecipano a circa 600 associazioni. Alcune innocue, altre molto meno. «L´attenzione delle autorità è rivolta soprattutto agli adolescenti cooptati da gruppi satanici, protagonisti di casi di cronaca eclatanti» dice Caffo. «Purtroppo si parla poco dei bambini, anche molto piccoli, che finiscono in altre sette meno conosciute».
Il plagio dei minorenni è rapido ed efficace, come scrivere su un foglio bianco. Per prima cosa, vengono allontanati dai coetanei e parenti esterni al gruppo. «L´obiettivo è spezzare i legami famigliari biologici, perché sono quelli più profondi» racconta Maurizio Alessandrini del Favis, associazione di famigliari delle vittime. «Oggi la giusta definizione di setta aggiunge è quella di un gruppo che separa e taglia una persona dal suo nucleo famigliare e sociale. Da un punto di vista criminale è difficile da perseguire. Da noi non esiste una legge sulla manipolazione mentale come quella che esiste altrove in Europa».
Per impedire scambi con la "vita di fuori" i bimbi vengono indottrinati tramite lezioni private. Alcune sette impongono ai piccoli il cambiamento del nome, dello stato civile, l´inserimento in una nuova genealogia. Ci sono casi di genitori talmente irretiti che "regalano" i propri figli al guru di riferimento. Quelli che vengono concepiti all´interno delle sette spesso non esistono neppure per lo Stato, perché la nascita non viene dichiarata all´anagrafe.
«Il concetto di famiglia è completamente distorto. Il legame tra genitori e figli può essere rinnegato, come quello con i fratelli, dai quali possono essere separati anche fisicamente» racconta il presidente di Telefono Azzurro. «L´autorità genitoriale e l´educazione precisa vengono attribuite al leader della setta». Alcuni gruppi esortano alla procreazione per incrementare il numero di adepti. Altri non incoraggiano le nascite, altri ancora "selezionano" i membri della setta che devono procreare, indipendentemente dai vincoli coniugali, al fine di generare bambini "speciali". «Anche se considerati "l´avvenire" o "gli eletti" della setta, non vengono quasi mai protetti dagli abusi» conclude Caffo.
I bambini non scelgono. Il proselitismo tra i minorenni avviene quasi sempre attraverso i genitori. Negli ultimi anni, le scuole sono diventate un nuovo luogo di reclutamento privilegiato per le psico-sette. «Sono gruppi motivazionali che promettono ai più giovani di avere risultati sorprendenti nello studio, nello sport o con gli amici» spiega il presidente del Favis.
L´età del primo contatto si abbassa sempre di più. Il leader del "Metodo Arkeon" ha trovato adepti tenendo i suoi seminari negli istituti superiori. È sotto processo a Bari per maltrattamenti su minori, oltre che per associazione a delinquere e truffa. «I minori non si sono avvicinati spontaneamente ma sono stati introdotti dai loro genitori» racconta Lorita Tinelli del Cesap, tra i più attivi centri di assistenza psicologica e legale per le vittime di plagio. Negli incontri a pagamento di Arkeon, i bambini diventavano testimoni di confessioni su casi di pedofilia e altre perversioni sessuali. «Erano costretti a vivere momenti emotivamente molto forti, una forma di violenza psicologica» spiega Tinelli che ha seguito diversi casi di vittime minorenni. «I bambini che ho incontrato avevano un atteggiamento mite, poco litigioso, ma nel contempo poco affettuoso e privo di curiosità, di iniziativa e di spontaneità». Come il piccolo Sam, 9 anni, un´infanzia scandita dai riti e dalle preghiere dei genitori adepti. «Nei suoi disegni ricorda la psicologa c´era sempre una figura umana imprigionata tra cielo e terra». Molti bambini si salvano grazie a nonni o altri parenti che riescono ad allertare le autorità. «Per fortuna, negli ultimi tempi c´è una maggiore attenzione dei giudici. Ma uscire da una setta è comunque uno shock per un bambino conclude Tinelli significa sentirsi doppiamente orfani». Come rinascere un´altra volta, alla luce del sole.

Repubblica 2.2.11
L'autobiografia di Amoreena Winkler, ex seguace della "Family"
"Paura, botte e bugie così noi ragazzini diventavamo schiavi"
di Elena Stancanelli


Amoreena Winkler è nata a Roma nel 1978 da una madre francese e un padre americano. Un paio d´anni dopo la sua nascita, Daddy parte per fare il "missionario" in Asia. Sua madre resta in Europa, con un nuovo compagno. Il quale tiene molto a che lei lo chiami "papà". Talmente tanto che per convincerla le sbatte spesso la testa contro gli spigoli e la frusta con una cinghia fino a «frantumarla dalla paura». Amoreena ha 4 anni ed è già capace di soddisfare questo nuovo "papà", che le ha insegnato a toccarsi prima ancora che imparasse a parlare. Può essere quindi prestata a tutti gli "zii" che la chiedono, così come avviene a tutte le bambine della sua età. Ma non si chiama violenza: nella Family questa pratica si chiama amore. E la Winkler l´ha raccontato nella sua autobiografia I bambini di Dio (Fandango). «Spero di avere la fortuna di vedere l´orrore precipitarmi addosso. Spero di potermi proteggere avendo coscienza di ciò che mi accade. Questo sarà il mio sforzo lungo questa traversata dell´innominabile».
La Family è una setta. Di ispirazione cristiana, è stata fondata in California nel 1968 da David Berg col nome di Bambini di Dio, appunto. Certi della imminente fine del mondo, i bambini di Dio ballavano e cantavano sulle spiagge e nelle piazze. Portavano i capelli lunghi e le donne indossavano abiti a fiori, proprio come gli hippies, ma senza droga né alcool. Giravano l´America cercando di convincere i "sistemiti" (cioè noi, gli schiavi del sistema) a convertirsi, o quantomeno a smollare loro un po´ di soldi. A questo preciso scopo David Berg, chiamato anche Mo o Grandpa, intorno alla metà degli anni Settanta mette a punto la pratica del Flirt Fishing. Che, come spiega nelle cosiddette Mo letters, i pizzini coi quali rilasciava il suo pensiero salvifico, deve diventare la mission di ogni brava bambina di Dio, da quando è pronta, cioè prima possibile. «Si tratterà di proporre carnalmente l´incarnazione dell´amore divino, e di utilizzare questa pratica per reclutare discepoli e affascinare uomini facoltosi e personalità di potere per beneficiare di protezione, mezzi, locali e altri favori». In sintesi prostituzione. Molti dei bambini cresciuti nella setta, sono figli di questa attività. Tra questi, alcuni dei fratelli di Amoreena.
I bambini di Dio è un romanzo feroce, autobiografia di una bambina abusata fino all´inimmaginabile. Costretta a cancellare la propria identità, a fare proselitismo, a rinunciare alla proprietà di qualsiasi cosa, soprattutto il suo corpo. Che però non cede mai del tutto. Resiste, si oppone, non cede all´irrazionalità. Elude il meccanismo che conduce al plagio. Noi siamo diversi, è l´affermazione che sottende la nascita di consorzi separati di esseri umani, che significa, in sostanza, migliori. È difficile sfuggire a questa vischiosa affermazione di superiorità quando vi si è immersi totalmente, quando intorno a te niente rivela persino la possibilità del dubbio. Come si fa a capire che questa alternativa non è altro che la messa in scena di teatrini del desiderio, di forme perverse di affermazione di sé che, assunte a sistema, generano violenza e sopraffazione? Come si esce da una setta, come ci si accorge che il re è nudo? Durante uno degli innumerevoli pestaggi che subisce da parte di "papà", Amoreena scopre la carta da parati. Impara ad astrarsi seguendo le ghirlande dei fiori, le righe, le conchiglie, un intreccio di foglie di quercia. Le carte da parati, sui muri degli alberghi infimi, nelle stanze in giro per l´Europa, diventano giardini della mente dove rifugiarsi, inseguendo un´illimitatezza del disegno che la trascina via dalla disperazione. Impara ad anestetizzarsi, per resistere. Poi, finalmente, sua madre riesce ad allontanare quell´uomo dalla sua vita. E allora inizia la parte più difficile. Eliminato il carnefice, Amoreena scopre che dentro il suo corpo è stato piantato un seme, e questo seme non smette di germogliare. La sua prigione, la porta da abbattere per guadagnare la definitiva libertà, è il desiderio. La vertigine di un corpo ammaestrato al piacere, incapace di misura. Come quei bambini allenati alla guerra, drogati dal sangue, Amoreena sente che potrà uscire davvero dalla Family quando avrà imparato a resistere a quella mistura oscena di piacere e dolore che è stato il suo imprinting. La sua ribellione consiste nel farsi maschio, bestia, esercitare la malinconia, attraversare tutti gli stati non concessi per ritrovare un´identità. Gridare «io sono», che spesso ci pare una bestemmia, è il suo modo di nascere di nuovo.

Corriere della Sera 2.2.11
Costumi, etica, società Così Russell attaccò le basi del conformismo
«L’uniformità delle culture va deplorata»
di Giulio Giorello


«A Firenze, nell’epoca anteriore a Mussolini, il traffico doveva scorrere in un senso in città e in quello opposto in campagna. Questa diversità era dannosa, ma vi furono ben altre diversità che il fascismo soppresse! Nel mondo della mente… è cosa buona che vi sia una vigorosa discussione fra le varie scuole di pensiero. Però, se deve esserci concorrenza intellettuale… dovranno anche esserci maniere per limitare i mezzi che vengono impiegati» . Così Bertrand Russell nel secondo dopoguerra affrontava il problema della conciliazione tra l’esigenza di un controllo governativo centralizzato e quella di una crescita dell’iniziativa personale che richiede «le maggiori possibilità e libertà compatibili con l’ordine sociale» . — non è solo il tema di Autorità e individuo (1949), ma compare in non poche incursioni di Russell in campo politico e altrove. Ancor oggi i commentatori sottolineano come i suoi punti di vista in fatto di etica siano stati tra i più criticati del Novecento (ben più delle sue, anch’esse controverse, concezioni circa logica, matematica e teoria della conoscenza). Matrimonio e morale, sesso fuori e dentro la famiglia, liberalizzazione dei costumi non erano che esempi del gusto del filosofo di sfidare la costellazione delle opinioni stabilite. «Se non vogliamo che la vita umana diventi una cosa polverosa» , è bene coltivare ogni forma di anticonformismo, in modo che possa produrre i suoi cento fiori, purché non provochi danno ad altri. Leggiamo in Autorità e individuo: «L’uniformità dei caratteri e delle culture va deplorata. L’evoluzione biologica è dipesa da differenze innate tra individui o tribù, e l’evoluzione culturale dipende da differenze acquisite» . Eliminare tali differenze significa privare gli individui della facoltà di scegliere. Agli occhi di Russell questo era l’esito del socialismo autoritario dell’Urss; ma non è che i Paesi capitalisti se la passassero molto meglio, a causa della commistione del potere di pochi leader carismatici con la proliferazione della burocrazia. La società — ammoniva — non è un organismo né un meccanismo. Un qualunque manager che si dia alla politica potrebbe considerarla «un modello piacevole di bell’ordine, qualcosa di ben programmato con tutte le parti che s’incastrano perfettamente l’una nell’altra. Ma è negli individui, e non nel tutto, che dovranno cercarsi valori utili» . E ancora: «Quando un agricoltore dello Herefordshire viene colto in una tormenta di neve, chi sente il freddo non è il governo che sta a Londra! È questa la ragione per cui portatore del bene e del male è l’uomo singolo» , e non qualsiasi apparato collettivo. Russell concepiva l’indagine delle strutture astratte, per esempio quelle della matematica, come un’impresa non molto diversa dalle esplorazioni che Colombo o Vespucci avevano fatto del continente americano: era dunque convinto del loro valore oggettivo, ma restava pur sempre un rigoroso individualista. Per esempio, lo Stato è un’astrazione e «non sente piacere o dolore, non ha speranze o timori» , proprio come non sente piacere o dolore ecc. il numero 3 o l’insieme dei numeri interi. Dietro qualsiasi costruzione astratta vi sono gli scopi degli individui che la producono. Comunque, gli esseri umani sempre meno operano in solitudine, persino nella scienza: «La maggior parte delle ricerche esige apparecchi costosi; per molte occorre il finanziamento di spedizioni in regioni difficili; senza i mezzi forniti da un governo o da un’università, pochi sono coloro che possono ottenere risultati apprezzabili» . La ricerca è allora stata sottratta ai ricercatori per essere consegnata ai politicanti o all’industria, umiliando merito ed eccellenza individuali? Nell’impresa tecnico scientifica come altrove, la soluzione per Russell è in una sorta di decentramento che oggi chiameremmo «principio di sussidiarietà» : persino un «governo mondiale» (se mai lo si creasse e fosse capace di farsi rispettare) non dovrebbe mai usurpare le competenze di qualsiasi associazione locale. Ma a sua volta questa dovrebbe essere composta di persone «che non si accontentano di essere vive piuttosto che morte: desiderano invece vivere in modo felice, vigoroso e creativo» .

Corriere della Sera 2.2.11
Simone Weil la «rossa»: la difesa dei poveri, la vocazione mistica
Perché volle lavorare in fabbrica da operaia
di Eva Cantarella


«L a vergine rossa» la chiamavano ai tempi in cui (una delle prime donne a esservi ammesse) studiava a Parigi, alla École Normale Supérieure. Una definizione che aveva qualche ragione, ma non era certo sufficiente a descriverla. Definita abitualmente filosofa, era certamente tale, professionalmente. Ma considerarla solo sotto questo profilo vorrebbe dire dimenticare gli aspetti del suo carattere e del suo pensiero che, dopo la morte, hanno fatto di lei un’icona. Nata a Parigi nel 1909 da una famiglia ebraica di intellettuali, Simone, ottenuta nel 1931 l’agrégation in filosofia, inizia a insegnare in diversi licei di provincia, dove la sua personalità e il suo comportamento fanno subito di lei un personaggio singolare, non di rado guardato con sospetto. Incapace di accettare ogni forma di discriminazione, Simone organizza corsi per i lavoratori, appoggia le rivendicazioni operaie, partecipa agli scioperi dei minatori disoccupati, alla testa dei cui cortei sfila portando la bandiera rossa. Ma la sua vita non era solo militanza politica. Era, in modo non meno appassionato, insegnamento e ricerca. Tra gli autori prediletti, Platone: i greci, a suo giudizio, avevano elaborato un modello di vita superiore, anche se con un limite: non avevano riconosciuto il lavoro come valore umano. L’influenza di Marx nella sua formazione è evidente. Ma neppure lui era perfetto: non aveva dato indicazioni compiute nella direzione di una filosofia del lavoro. Il marxismo, dunque, non era in grado di rispondere alla «necessità interiore» che, come scrive, guidava la sua vita: la ricerca della verità, che per lei si poteva raggiungere solo nel contatto con la realtà. Per questo, nel 1931, parte per la Germania. In quel Paese i problemi sociali non erano solo dibattito intellettuale, come in Francia, erano una realtà. Ma la sinistra la delude: nessuno dei partiti rivoluzionari, incluso quello comunista, ha la capacità di instaurare un vero regime socialista, in cui l’essere umano si riappropri del dominio sulla natura, gli strumenti e la società. Nel 1934 chiede un anno di congedo dall’insegnamento, e va a lavorare in fabbrica, alla Renault di Parigi. Un’esperienza durissima, che matura in lei la convinzione che le condizioni stesse del lavoro devono cambiare, che bisogna pensare a un «regime nuovo» dell’impresa. Terminata l’esperienza per ragioni di salute, nel 1936 partecipa come volontaria alla guerra di Spagna. Infine, la svolta religiosa e l’esperienza mistica, la «vocazione particolare» che le dà delle «ragioni legittime» per chiedersi se «in un’epoca in cui gran parte dell’umanità è sommersa dal materialismo, Dio non voglia che ci siano uomini e donne che si sono donati a lui, e che tuttavia restano fuori dalla Chiesa» (Attesa di Dio, Adelphi). Interessante, nella sua riflessione sulla religione, il collegamento tra la visione greca dell’uomo e quella dei Vangeli, accomunate, per lei, dal senso della miseria umana, alla quale i greci avrebbero opposto la virtù, i Vangeli la Grazia. Quando viene allontanata dall’insegnamento per motivi razziali, dopo un breve soggiorno negli Stati Uniti, torna in Europa, per aiutare le Forze francesi libere in Inghilterra. Ma la sua resistenza fisica è ormai al limite e nel 1943 muore, sola, in un sanatorio inglese, a soli 34 anni. Superfluo, a questo punto, dire che le interpretazioni del personaggio sono state molte e diverse. In vita fu vittima di tutti i luoghi comuni ai quali si faceva (e si fa) ricorso per ridicolizzare le donne trasgressive: l’aspetto fisico, l’abbigliamento, persino i grandi occhiali da vista che le coprivano il volto. Per alcuni era un’anoressica, una fanatica, una pazza... Ci volle tempo perché le fosse resa giustizia (in Italia, e se ne possono ben comprendere le ragioni, le sue opere vennero tradotte e pubblicate grazie ad Adriano Olivetti). Ovviamente il giudizio sul contenuto e il valore del suo pensiero filosofico spetta agli esperti. Ma non è necessario essere tali per capire l’eccezionalità del suo carattere indomito e del suo spirito critico e libero, capace di non delegare mai ad altri, per nessuna ragione, le proprie scelte: né in campo politico, né in campo religioso.

Corriere della Sera 2.2.11
Come fuggire da dolori e paure grazie alla «logica delle macchine»
Internet ci rende più stupidi? È colpa dell’uomo, non della tecnologia
di Giulio Giorello


In tempi molto, ma molto antichi «l’uomo era una specie rara, la cui sopravvivenza si presentava precaria. Sprovvisto dell’agilità della scimmia, senza pelliccia addosso, gli era difficile sfuggire agli animali selvatici e, nella maggior parte del mondo, non poteva sopportare il freddo dell’inverno. Aveva solo due vantaggi biologici: la posizione eretta, che gli liberò le mani, e l’intelligenza, che gli consentì di trasmettere ad altri l’esperienza» . Così scriveva Bertrand Russell nel 1949, riassumendo una storia più che millenaria in cui s’intrecciavano la contemplazione della natura e la creazione dei manufatti. «Scienza, dunque previsione; previsione, dunque azione» era già uno slogan del filosofo Auguste Comte, fondatore del positivismo ottocentesco. Rende l’idea che la crescita della conoscenza comporti un potenziamento delle nostre capacità di modificare l’ambiente per le più diverse esigenze. Però, l’azione può anticipare la comprensione dei fenomeni naturali. Quasi un secolo dopo Ernst Mach, fisico e fisiologo, ne dava uno splendido esempio nel suo Conoscenza ed errore (1905): «Esiste un’inclinazione naturale che ci spinge a imitare ciò che si è compreso. Il punto a cui si giunge nella riproduzione dà la misura della comprensione. Se consideriamo il vantaggio che la moderna costruzione di macchine ha tratto dagli automi, se prendiamo in considerazione le macchine calcolatrici, gli apparecchi di controllo, i distributori automatici, possiamo attenderci ulteriori progressi della civiltà tecnica» . Questa «profezia» ci pare oggi ampiamente avverata. Ma pensiamo al protagonista di Blade Runner (1982, regia di Ridley Scott) che, già angosciato all’idea che la sua compagna sia una «robotta» , si domanda se per caso non sia anche lui un automa! Il confronto tra uomini e macchine chiarisce i motivi per cui gli artefatti delle varie tecnologie ci sembrano insieme familiari e sconcertanti. Anch’essi sono frutto dei meccanismi dell’evoluzione naturale e culturale; proprio per questo possono sembrarci minacciosi. Russell temeva che le peculiarità individuali potessero venir cancellate in una totale «tecnicizzazione» della società; Norbert Wiener, il creatore della cibernetica, paventava che il controllo del grande capitale sulla ricerca tramite il sistema dei brevetti avrebbe bloccato la crescita della conoscenza e la sua diffusione, innescando una crisi della democrazia. Infine, per Martin Heidegger, il filosofo tedesco che per epistemologia e politica sembrerebbe agli antipodi di Russell, la tecnica— erede della metafisica dell’Occidente — avrebbe sradicato l’essere umano dal contatto più immediato con i suoi simili e la sua storia. Questa, però, è solo una faccia della medaglia. Chi teme che lo sviluppo tecnologico produca l’abbrutimento dell’umanità dimentica che la tecnica nasce e si rafforza come elemento di emancipazione dal dolore e dalla paura. Purché, come ancora sosteneva Wiener, ci si renda conto che essa «può renderci liberi soltanto se la si può conseguire liberamente» . Il nodo, dunque, è politico. La ricerca tecnico scientifica è una manifestazione non solo della nostra individuale aspirazione alla verità ma anche della pratica della solidarietà: dove non riesce il singolo arriva la coordinazione degli sforzi provenienti dai più diversi settori. Qui occorre capire bene la «logica della macchine» (altro che liquidarle come forme di non pensiero). Per esempio, gli artigiani olandesi che avevano costruito i primi cannocchiali non immaginavano certo che Harriot o Galileo li avrebbero utilizzati per guardare la superficie scabra della Luna (e non per scorgere in anticipo le navi dei pirati sul mare o, come facevano alcuni buontemponi, le ragazze che si spogliano ai piani alti delle locande). La duttilità dello strumento non riguarda però solo la scienza; investe l’intera esistenza. Chi avrebbe mai pensato che dall’organizzazione di una rete di comunicazione ultrarapida ma segreta sarebbe nato Internet? La tecnologia non è «disumanizzante» : è intelligenza e libertà. Che poi Internet possa rischiare di renderci «stupidi» (come qualche critico comincia a insinuare) non è un suo difetto ma una nostra mancanza.

Corriere della Sera 2.2.11
Margherita Hack conduttrice di un programma per ragazzi
«Vado in tv a parlare di stelle Così batto le superstizioni»
di Chiara Maffioletti


Sul campanello della casetta bianca in cima a una stretta via in salita non c’è scritto nessun nome. Entrando il primo incontro è con Zack, un bastardino bianco che più che abbaiare borbotta. Lui e quattro gatti (di cui uno di dieci chili) sono gli inquilini di Margherita Hack (e di suo marito Aldo). L’astrofisica che più ci invidiano nel mondo, prima donna a dirigere un osservatorio astronomico in Italia, si racconta con il disincanto che hanno solo i grandi e parla del suo prossimo impegno televisivo: un programma per ragazzi in cui spiegherà, con Federico Taddia, i segreti dell’universo ai più piccoli. «Big Bang! In viaggio nello spazio con Margherita Hack» partirà il 21 marzo alle 18 su Deakids e andrà in onda ogni giorno, con pillole di cinque minuti in cui si affronteranno diversi temi: dagli asteroidi alle costellazioni, dal buco nero ai pianeti. Un programma reso unico dal linguaggio semplice con cui l’astrofisica rende comprensibili concetti complicati. Immersa tra i 20 mila libri che affollano la sua sala, Margherita Hack spiega che l’approccio sarebbe lo stesso con chiunque: «Anche quando incontro i bambini dal vivo, se vedo che sono interessati a quello che dico mi fa piacere. Se noto che non gliene importa niente non importa niente anche a me. Del resto pure io ero così alla loro età» . Come, la passione per le stelle non è innata in lei? Da bambina non guardava il cielo chiedendosi cosa nascondesse? «Ma per carità. La verità è che non sapevo proprio cosa fare fino all’università tanto che mi sono iscritta a Lettere. Dopo un’ora mi sono scocciata talmente tanto da capire che non faceva per me» , e mentre lo dice gli occhi azzurri come il maglioncino che indossa prendono a brillare. «Sicché mi sono iscritta a Fisica e la materia mi interessava molto di più. Ma alle stelle non pensavo proprio. La passione è nata per la ricerca: il romanticismo non c’entra» . Cosa sognava di fare da piccola? «L’esploratrice nell’Africa nera» . In qualche modo l’ha fatta: ha esplorato lo Spazio... Sorride e dice: «Studiare le stelle significa studiare i mattoni con cui è fatto l’universo» . «Il rigore di Margherita— interviene il co-conduttore Taddia— è quello che i bambini richiedono nelle risposte» . Lui, nel programma viaggia in una navicella mentre Margherita Hack resta sulla Terra. Avrebbe voluto fare un viaggio nello spazio? «Nello spazio ci si va con gli strumenti. Si possono vedere fenomeni che a occhio nudo non si percepirebbero. Un viaggetto lo farei ma come turista» . Cosa direbbe a un bambino che sceglie oggi la sua carriera, con i problemi della ricerca in Italia? «Se è quello che desidera di perseverare. Certo, ora è tutto fermo» . E alle donne? Non deve essere stato facile per lei... «Di non avere complessi e essere più combattive» . Lei — che a 88 anni guida la macchina, fino a qualche mese fa andava tutti i giorni in bicicletta e faceva sempre un tuffo nel mare tranne nei mesi più freddi— combattiva lo è di sicuro. Forse anche per questo è diventata una grande divulgatrice. Che ruolo ha avuto la tv per lei? «La divulgazione è importante perché c’è molta disinformazione. In tanti ancora vedono la scienza come qualcosa di magico. E c’è superstizione, come le storie che si sentono sul 2012 e la fine del mondo. La tv è importante per questo ma quando vedo che ogni mattina la Rai dedica mezz’ora all’oroscopo e che invece quando magari c’è una scoperta astronomica mi chiedono un intervento dicendomi: "Hai un minuto", ecco, lì rimango perplessa» . E allora, qui che possiamo farlo, togliamoci qualche curiosità: l’uomo vivrà mai su un altro pianeta? «Il più appetibile è Marte. Credo in futuro impianteranno delle colonie, anche stabili» . Esistono gli alieni? «La probabilità che esistano altre forme di vita intelligenti è estremamente alta ma la probabilità di venirne in contatto è estremamente bassa» . Infine, è possibile conciliare una mente scientifica con il senso religioso? «La scienza spiega come funziona l’universo ma non sa perché è nato. Dio è una comoda spiegazione» .

La Stampa 2.2.11
Art Google, con un clic 17 Musei in ogni casa
Tecnologia di Street View, oltre mille opere in alta definizione
Megio degli occhi. Un capolavoro per museo è stato digitalizzato a 14 miliardi di pixel
di Mattia B. Bagnoli


In principio era solo un «20% project». Ovvero una di quelle idee che nel fantastico mondo di Google nascono nella fetta di giornata lavorativa il 20% per l’appunto riservata all’immaginazione. A Mountain View anche questo si chiama sgobbare. Non che rappresenti una novità assoluta: i romani quelli antichi lo chiamavano otium , attività dedicata alla speculazione intellettuale. Sia come sia, 18 mesi dopo la pensata originale, Art Project è in rete, 17 grandi musei del mondo hanno aperto sale e corridoi alle macchine fotografiche di Google e basta un click per ammirare oltre mille opere a una risoluzione mai vista prima: in alcuni casi si arriva a 14 miliardi di pixel. Meglio che a occhio nudo.
«Grazie alla tecnica gigapixel spiega Nelson Mattos, capo dell’area tecnica di Google Europa, tra le volte della Tate Britain di Londra dove ieri è stato lanciato il progetto non si perde definizione quando si aziona lo zoom. È così possibile vedere dei dettagli (le crepe nel colore, i colpi del pennello) impossibili da percepire in condizioni naturali». Una qualità straordinaria, riservata ai 17 «campioni» uno per ogni museo partner dell’iniziativa. Per gli Uffizi di Firenze c’è la «Nascita di Venere» di Sandro Botticelli, il Moma di New York ha scelto «Il Cielo Stellato» di van Gogh, la Tate «No Woman, No Cry» di Chris Ofili. Ragioni diverse la Venere, spiega il Soprintendente al Polo museale di Firenze Cristina Acidini, «rappresenta il supremo ideale di cultura e di bellezza umana, simbolo della fioritura di Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico» che hanno in comune lo stesso obbiettivo: permettere a chiunque di godere dei grandi capolavori del genio artistico umano. «Per i musei ha detto il direttore della Tate Britain, Sir Nicholas Serota questa è un’occasione irripetibile per raggiungere settori nuovi del pubblico. Internet ha già cambiato il nostro modo di parlare alle persone, ci ha permesso un dialogo diverso. Art Project invece consente ai più grandi musei del mondo di lavorare insieme. Ed è la prima volta».
Tutto questo è gratis. Paga Google. Continua Mattos: «Perché lo facciamo? Punto primo: abbiamo la tecnologia, quindi perché no. Punto secondo: preservare e diffondere la conoscenza del patrimonio culturale del genere umano fa parte del nostro Dna. Io sono di origine brasiliana e i miei genitori non erano benestanti. La mia prima volta in un grande museo è dunque venuta quando studiavo all’estero grazie a una borsa di studio: ricordo ancora l’emozione di gironzolare per quelle sale».
Art Project, insomma, nasce non solo per il divertimento dei Paesi ricchi ma anche per dare la possibilità «a chi non ce l’avrà mai per davvero» di visitare questi templi della bellezza. Il servizio infatti non solo permette di ammirare le opere d’arte e comporre delle «collezioni» personali da condividere con gli amici via social network ma di «passeggiare» negli spazi dei musei attraverso la tecnica giù sperimentata con Street View. L’esperienza è tanto realistica da far venire il dubbio che Google, più che salvaguardarli, voglia liquidare i grandi musei. Serota però scuote la testa: «La gente vuole vedere le opere dal vero. I servizi digitali semmai aumenteranno i numeri dei visitatori dei musei».
Mario Resca, direttore generale per la valorizzazione del Patrimonio Culturale presso il ministero dei Beni Culturali, concorda: «Questa iniziativa rappresenta una grande opportunità per le scuole e gli studiosi. Così s’incentiva la conoscenza delle nostre opere d’arte e noi ci aspettiamo un aumento nell’indotto del turismo». Motivo non secondario per andare a passo di marcia.
Entro fine anno altri nove musei italiani entreranno a far parte di Art Project tra questi la pinacoteca di Brera, il museo Barberini, quello di Villa Borghese e il Capodimonte. L’avventura di Google nel campo dell’arte è comunque appena iniziata. Mancano all’appello alcuni mostri sacri del panorama museale internazionale come il Louvre e il Prado. Questione di tempi, a quanto pare.
La sensazione però è che sia i musei sia Google vogliano aggiungere contributi multimediali alla piattaforma per rendere l’esperienza di consultazione sempre più ricca e significativa.

La Stampa Tuttoscienze 2.2.11
Gli Etruschi sono a portata di 3D
Archeologia. Con i cloni digitali si può viaggiare all’interno delle necropoli e si scoprono forme e colori originali Grazie al rilievo fotogrammetrico si replicano all’infinito i capolavori perduti, a partire dai Buddha di Bamiyan
di Maurizio Assalto


Nuove e straordinarie opportunità di studio come per il sito azteco di Xochicalco

Vi ricordate dei Buddha di Bamiyan, le due colossali statue (53 e 38 metri di altezza), tra i più appariscenti simboli dell’arte gandhara, distrutte a cannonate nel marzo del 2001 dal delirio iconoclasta dei taleban? Come in una parabola buddista, sono rinate: in forma virtuale, per ora, ma è un primo passo, decisivo, verso una possibile futura rinascita fisica. Il loro modello fotogrammetrico tridimensionale, preciso fin nel minimo dettaglio, è stato ottenuto dai ricercatori della Fondazione Bruno Kessler di Trento, e ora chi lo volesse potrebbe rifare i Buddha in Afghanistan, esattamente come erano, e replicarli all’infinito.
La fotogrammetria è soltanto una delle tecniche impiegate nel centro di ricerca trentino: serve a produrre un rilievo 3D partendo dalle immagini. Il responsabile della divisione 3DOM (metrologia ottica tridimensionale), Fabio Remondino, che ha illustrato il lavoro del suo gruppo lo scorso autunno a Torino a «Dna Italia» il primo salone delle nuove tecnologie applicate ai beni culturali spiega che «con la fotogrammetria, basandosi sul materiale d’archivio, si possono ricostruire cose che non ci sono più». Una ricostruzione digitale, beninteso, che però potrebbe preludere alla ricostruzione fisica. Un’opportunità straordinaria per l’archeologia, che ha già trovato applicazione nel sito di Túcume, in Perù, dove le vestigia della civiltà Lambayeque (VII sec. d.C.), fatte di mattoni crudi, si stanno rapidamente degradando a causa delle piogge acide, e nel sito azteco di Xochicalco, in Messico, ormai sommerso dalla vegetazione, ma che possiamo di nuovo esplorare nelle immagini in 3D ottenute grazie alla documentazione fotografica di 60-70 anni fa.
L’altra tecnica è quella che fa uso del laser scanner, uno strumento che rileva ciò che vede in 3D, misurando la distanza rispetto all’oggetto o all’ambiente che si sta riprendendo, con una precisione al decimo di millimetro. Con questo sistema si sono ottenuti i modelli tridimesionali delle orme di dinosauro scoperte sulle Alpi trentine, che consentono ai paleontologi di analizzarle e interpretarle nel modo più preciso, per ipotizzare dimensioni e peso dell’animale. Ma anche si è costruito il modello delle Tre Cime di Lavaredo, simbolo delle Dolomiti, con ricadute possibili nel campo dell’analisi geologica, della documentazione, dell’alpinismo e dei virtual tour. E ancora, attraverso il rilievo multitemporale, i modelli in 3D possono servire a monitorare i ponti.
Due cose vanno osservate. «Innanzitutto dice Remondino la nostra è una rilevazione metrica, ossia quantitativa, a differenza per esempio della fotografia, che restituisce un’informazione qualitativa». In secondo luogo, «il laser scanner rileva la forma, i contorni, ma non i colori, la «texture». Per questo va integrato con le foto, calibrandone la radiometria per ottenere modelli fotorealistici». Il risultato è una sorta di clone digitale della realtà. In ciò la tridimensionalità ottenuta da 3DOM si distingue dalla computer grafica, che fa notare Remondino «non è metrica: va bene per il cinema, per i videogiochi, ma non per i beni culturali».
Una promettente applicazione in questo campo si può sperimentare nella mostra multimediale «Etruschi in Europa», aperta fino al 24 aprile al Musée du Cinquantenaire di Bruxelles, che ha nelle immagini in 3D e nelle ricostruzioni virtuali la sua attrattiva principale. Attraverso una serie di postazioni video, inforcati gli occhialini con le lenti rosse e blu, si può vagare nella campagna laziale, raggiungere Tarquinia, la Tomba della Caccia e della Pesca. E non fermarsi in fondo al «dromos», dove uno sbarramento di vetro impedisce al visitatore in carne e ossa di proseguire, concedendogli soltanto uno sguardo disagevole sulla prima stanza, ma aggirarsi all’interno, raggiungere la seconda stanza, dove su una parete c’è il famoso affresco del tuffatore. E poi spostarsi a Cerveteri, oltrepassare i cancelli di ferro e addentrarsi nei sepolcri chiusi al pubblico (perché l’umidità prodotta dai visitatori corrode i dipinti), visitare la Tomba dei Rilievi, ammirando spade scudi e elmi scolpiti, meglio che se si fosse davvero in loco. E nella Tomba dei Leoni dipinti, dove ormai le immagini sono scomparse e su tutto prevale l’uniforme colore del tufo, assistere al prodigio: sulla spoglia parete grigia, i colori che tornano a affiorare, i leoni svaniti che riprendono forma. Rinati con la fotogrammetria grazie ai disegni di fine Ottocento.

Avvenire 2.1.11
Fa discutere l’accostamento di Elie Wiesel tra il genocidio degli ebrei e la sorte del popolo antico
Etruschi e Romani, fu una Shoah?
di Franco Cardini


Cardini: «Non fu affatto 'genocidio' ma pacifica assimilazione, durata secoli. A essere volontariamente annientati da Roma furono invece Galli e Cartaginesi»

H o letto le dichiarazioni dei Elie Wiesel riportate da 'Avvenire' il 25 gennaio 2011. Ammiro il Wiesel scrittore, ho simpatia per il Wiesel uomo e testimone delle sofferenze del suo popolo e del nostro tempo. Tuttavia, temo che dovremmo sul serio tornare con i piedi per terra: i piedi della verità storica, anche di quella che pochi oggi hanno le conoscenze e/o il coraggio necessari a presentare con chiarezza. Il 27 gennaio scorso ho fatto una cosa che non faccio mai: sono rimasto per ore incollato al piccolo schermo. Vi garantisco che su tutti i canali, tra telegiornali, film, fiction e dibattiti, di altro non si è parlato se non della Shoah. Non è certo stato un male. Ma ciò induce a osservare tre cose. Primo: se Wiesel teme che tale evento venga dimenticato, può rassicurarsi perché per il momento (e penso anche ai moltissimi ragazzi di tutta Europa che ogni anno vengono condotti ad Auschwitz in gite scolastiche a metà tra istruzione e pellegrinaggio) la memoria è ben viva. Secondo: se egli paventa la 'storicizzazione del nazismo', allora chiedo all’intellettuale colto e raffinato che cosa mai possiamo fare di un 'caso' storico tragico e terribile quanto si voglia, se non appunto storicizzarlo, vale a dire cercar di comprendere come possa essersi verificato (e 'comprendere' non vuol dire affatto 'giustificare'). Terzo: se il valore primario, umano e universale del ricordo della Shoah sta nel dovere della memoria, affinché quel ch’è accaduto non accada mai più (e non accada più non solo agli ebrei, ma a nessun popolo sulla faccia della terra), allora tale ricordo deve interpretare la tragedia toccata agli ebrei non tanto come 'unica' e imparagonabile ad altre, quanto come paradigmatica di tutte quelle accadute e che potrebbero accadere. E quelle accadute sono tante. Il paragone di Wiesel con i 'soli' Etruschi è sbagliato per due motivi. Primo. I Romani non commisero alcun genocidio, cioè non soppressero mai in massa il popolo etrusco; avrebbero potuto distruggere la cultura etrusca, commettere cioè un etnocidio: ma non fecero nemmeno quello, limitandosi semmai a un’assimilazione che cancellò cultura e memoria, non stirpi.
Secondo. Nella storia, di genocidi paragonati alla Shoah ce ne furono parecchi, per quanto di gran lunga meno documentati: ma Wiesel, evidentemente, preferisce non ricordare.
Primo. In realtà, nonostante la lingua latina sia di ceppo decisamente indoeuropeo e quella etrusca d’origine tuttora incerta (le polemiche continuano, le ipotesi si accumulano...), la 'cancellazione' dell’idioma – il quale peraltro sopravvisse fino al V secolo d.C. come 'lingua sacra', nei rituali magico-divinatori dell’etrusca disciplina – non corrispose affatto alla cancellazione demografica d’un intero popolo diffuso dalla Lombardia alla Campania e le vicende del quale sono strettamente legate a quelle dei Romani. Etruschi erano i 're di Roma' dell’ultima fase del periodo monarchico; etrusche, ancora in piena età imperiale, grandi famiglie aristocratiche come i Cecina e la gens cui apparteneva Mecenate, amico e consigliere di Augusto. Gli studi sul Dna nella media Toscana, nel Volterrano, hanno rivelato una realtà biologica ancora vitale che può esser fatta risalire agli Etruschi.
Consiglio il ricorso al pur discusso, ma importante, Dizionario della lingua etrusca di Massimo Pittau, docente emerito nell’Università di Sassari (Dessì 2005), che ha sistematicamente vagliato le fonti etrusche e alla luce del quale risulta evidente come l’abbandono dell’idioma etrusco si dovette principalmente a un fenomeno di assimilazione etrusco-romana che non ci sono motivi di ritenere condotto con metodi violenti e tantomeno genocidi, ma che fu piuttosto portato avanti attraverso tecniche di organizzazione istituzionale e di politica matrimoniale. A quel che sembra, i Romani furono semmai di gran lunga più decisi allo sterminio nei confronti dei Galli o dei Cartaginesi.
Secondo. Di alcuni tra i genocidi più terribili della storia non sappiamo nemmeno nulla: e sono forse quelli davvero perfettamente riusciti. Se non volgiamo ostinati le spalle al passato, se ne possono scorgere comunque le tracce: dalle gesta dei Gran Re achemenidi agli annali di Gengis Khan alle stesse genti 'cananee' di cui parla la Bibbia, fino alle genti balcaniche sterminate dai Bizantini nel X-XI secolo, ai Sassoni fatti sparire da Carlomagno, agli Slavi e ai Finni eliminati in massa dai cavalieri Teutonici tra XII e XV secolo. Ma, in tempi vicini e vicinissimi a noi, per 'civile' convenzione ricordiamo gli indios massacrati dai Conquistadores ma ci siamo dimenticati dei guanchos delle Canarie, degli indigeni brasiliani e argentini, dei nativi americani ('pellerossa') dei quali restano soltanto malinconici brandelli abbrutiti nelle 'riserve', dei tasmaniani e degli altri popoli dell’Oceania fatti letteralmente sparire dagli inglesi e degli olandesi, delle genti centroasiatiche 'deportate' (e in realtà eliminate) dai sovietici, degli armeni, degli zingari che condivisero la stessa Shoah, delle numerose 'pulizie etniche' balcaniche e africane dei giorni nostri. Molti di questi popoli furono massacrati in seguito a fredde, precise programmazioni.
Ma purtroppo nella storia i massacri che si ricordano sono troppo spesso soltanto quelli che 'servono', che si 'sbattono in prima pagina' magari per coprire altri delitti. Il Giorno della Memoria è nato per ricordare anzitutto la Shoah, ma anche per farne simbolo di tutte le vittime innocenti e dimenticate della storia: e, come uomini, di nessuna di esse possiamo autoassolverci; di tutte siamo corresponsabili. Wiesel paventa la sua 'normalizzazione', come se ciò fosse sinonimo di 'rimozione'. È vero il contrario.
Recuperare pienamente un fatto alla storia significa strapparlo non solo all’oblio, ma anche a una mitizzazione 'meta-storica' che rischierebbe davvero, quella sì, di venir un giorno contestata, tradita e cancellata. Dalla storia, signor Wiesel, nessuno può uscire. Mai.

L’Osservatore Romano 2.1.11
La mente, il cervello e la deriva nichilista
Se la morale è un fatto di neuroni
di Giorgio Israel


    Nella Monadologia Leibniz propone una confutazione della tesi che il pensiero sia generato dal cervello con la seguente metafora. Si immagini di essere ridotti alle dimensioni di un insetto piccolissimo rispetto al cervello o, equivalentemente, che il cervello sia un grandissimo locale rispetto al quale la nostra persona risulti molto piccola. Potremmo allora entrare nel cervello come in un gigantesco mulino meccanico. Potremmo esaminarne in dettaglio il funzionamento, studiarne gli ingranaggi, le ruote dentate, i movimenti. È evidente, osserva Leibniz, che per quanti sforzi si facciano non potremmo mai "vedere" un'idea, un pensiero, una sensazione. Insomma, il cervello, in quanto oggetto fisico, apparirebbe come una macchina, quanto si vuole complessa, ma i cui elementi costitutivi sono oggetti materiali e non pensieri o idee, che appartengono a una diversa sfera del reale.
    Questo genere di obiezioni è stato riproposto molte volte nel pensiero filosofico. Facendo riferimento a immagini tecnologiche più avanzate rispetto a quella che vede come prototipo della macchina l'orologio, Henri Bergson ha parlato del cervello come una sorta di "ufficio telefonico centrale" che di per sé non aggiunge nulla a quel che riceve e che non ha nulla di un apparato atto a fabbricare rappresentazioni. Nel suo "L'uomo neuronale", il neurobiologo Jean-Pierre Changeux ha confutato Bergson menzionando esperienze che dimostrano il parallelismo tra il movimento di un oggetto e la sua percezione mentale. Egli cita un'esperienza in cui un soggetto è posto di fronte a due oggetti che si ottengono l'uno dall'altro per rotazione e deve segnalare il momento in cui percepisce trattarsi dello stesso oggetto: si constata che il tempo necessario a tale percezione è proporzionale al tempo della rotazione. Ma questo - come analoghi esperimenti - dimostrano soltanto che nel cervello accade qualcosa che è materialmente correlato al processo percettivo, e questo nessuno si sognerebbe di negarlo. In realtà, la confutazione di Changeux, basata sul parallelismo di processi di movimento, avvalora la tesi di Bergson che il cervello sia un centro di azione motoria, che ha per funzione principale il ricevere stimoli e trasmetterli mediante processi motori. Bergson avrebbe potuto rispondere a Changeux alla maniera con cui Galileo replicò a Simplicio: "Vedete adunque quale sia la forza del vero, che mentre voi cercate di atterrarlo, i vostri medesimi assalti lo sollevano e l'avvalorano". E oltretutto qui si parla di rappresentazioni di oggetti materiali e non di idee astratte - dell'idea di sfera o dell'idea di bellezza o di Dio. L'osservazione che le rappresentazioni visive mobilitano soprattutto i neuroni dell'emisfero destro mentre le idee più astratte quelle dell'emisfero sinistro, così come le correlazioni tra attività mentali e irrorazione sanguigna stabilite dagli esperimenti di risonanza magnetica, non soltanto sono molto generiche, ma non dicono nulla circa l'origine e le modalità di fabbricazione dei pensieri.
    Per quanto ci si affanni a confutare la metafora di Leibniz e quelle analoghe, il risultato è un insuccesso. Per lo più a essa si oppone che, se fossimo ridotti alle proporzioni di minuscoli insetti, non vedremmo il cervello come un mulino meccanico, ma come un sistema biologico neuronale e i pensieri apparirebbero come ciò che viene prodotto e trasmesso da neuroni e sinapsi. Insomma, vedremmo la vera sostanza fisica del mentale e la mente sparirebbe nel cervello. Ma questa non è una confutazione, bensì l'affermazione di una credenza, una professione di fede in un'ontologia materialista.
    Proviamo noi a sviluppare e rafforzare questa "confutazione" con riferimento a macchine più moderne, per convincerci meglio della sua inconsistenza. A prima vista, l'informatica contemporanea fornisce un'immagine vivida di come le idee si producano e si trasmettano mediante processi fisici. Scrivo questo articolo su un computer che codifica i miei pensieri e li incide su un oggetto materiale. Lo spedisco alla redazione del giornale. Le idee corrono come impulsi elettrici su cavi e addirittura nell'aria. È affascinante pensare che le onde elettromagnetiche trasportino nello spazio concetti astratti. Questi pervengono a un altro computer che li decodifica traducendo il "materiale" inviato in un insieme di lettere e parole che la redazione potrà leggere. Non è forse questa una rappresentazione efficace e trasparente dei processi neuronali? Certamente sì, anche se questi ultimi si svolgono con modalità diverse da quelle informatiche, perché la maggiore complessità del processo non toglie nulla al fatto che esso ha una natura strettamente materiale, fisico-chimica. Ma è possibile dire che tale processo "produce" e "trasporta" concetti? Qui dobbiamo fermarci. Forse può apparire evidente che li trasporti, ma la questione è più complessa, perché il trasporto richiede un'operazione decisiva: la traduzione delle parole in un codice che consenta la trasmissione materiale e che dovrà essere in possesso di chi le riceve affinché siano per lui intellegibili. Questo codice è disponibile sia per chi invia sia per chi riceve il messaggio, perché è così che nei fatti è stato progettato il processo informatico. Ma qual è il codice con cui tradurre i processi neuronali? Nessuno ha la minima idea di come si possa tradurre una reazione fisico-chimica o una trasmissione elettrica in un linguaggio che esprima l'"idea". In fin dei conti, non esiste neppure una vaga idea di come ciò possa farsi. Se davvero fossimo in presenza di pensieri in codice bisognerebbe interpellare "chi" - Dio o il caso? - ha creato il sistema di traduzione delle idee astratte in processi neuronali, così come ha fatto l'uomo per i processi informatici; o scoprirne il segreto. Sarebbe un compito impossibile perché presupporrebbe quello che neppure in fisica si sa fare, e cioè descrivere in modo esatto il comportamento di ogni singola particella del cervello.
    Ma ancora qui siamo agli aspetti meramente esteriori della questione, al processo di "trasmissione". Se si passa alla questione della "produzione" dei concetti la faccenda si complica. Qui entra in gioco l'esistenza della persona che ha scritto l'articolo (e di chi lo legge). Senza l'autore dell'articolo e le "idee" che egli ha "pensato" non c'è assolutamente nulla. Ma tali idee e il loro senso sono assolutamente indipendenti e antecedenti al processo della loro trasmissione ed elaborazione materiale nello spazio. Nel modello informatico considerato non c'è produzione di alcuna idea. Esattamente come nel mulino di Leibniz, è impossibile scorgervi alcuna idea, a meno che non ci si collochi "fuori" e cioè nel mondo di chi quelle idee ha prodotto.
    Insomma, siamo ridotti all'antica teoria dell'homunculus. Per concepire un cervello che pensa occorre immaginare un altro soggetto a esso interno che sia l'autore dei pensieri che il cervello si limita a manipolare e trasmettere. Se si mira a una spiegazione puramente materiale il processo regredisce all'infinito. Ecco perché, come ebbe a dire Paul Ricoeur - nel libro-dialogo con Changeux La natura e la regola - la formula "il cervello pensa" è insostenibile e assomiglia a un ossimoro. Changeux, per quanto materialista, fu costretto ad ammettere: "Evito di impiegare simili formule".
    Ma allora siamo costretti ad ammettere che, per quanti progressi si siano fatti nella conoscenza di ciò che accade nel cervello quando pensiamo - e sono progressi grandi, importanti e benvenuti - quanto alla dimostrazione della tesi metafisica circa il carattere materiale del pensiero siamo al punto di partenza. E vi è ogni motivo per ritenere che vi si resti per sempre. Difatti, è irragionevole pretendere che dalla scienza si possano ricavare teoremi metafisici, nella fattispecie la verità del materialismo. È meglio accettare la realtà come si offre nella sua evidenza. E l'evidenza della mente non è minore di quella della materia. Per dirla con Bergson: "L'esistenza di cui siamo più certi e che conosciamo meglio è incontestabilmente la nostra, perché di tutti gli altri oggetti abbiamo nozioni esteriori e superficiali, mentre percepiamo noi stessi interiormente, profondamente". Meglio sarebbe quindi accettare e sviluppare, nella loro ricchezza, le riflessioni delle scienze umane, rispetto a ciò che di modestissimo offrono i tentativi di dissolverle in capitoli delle neuroscienze, aggiungendo il prefisso "neuro": neuro-filosofia, neuro-etica, neuro-economia, neuro-estetica, neuro-teologia.
    Occorrerebbe essere consapevoli che qui si gioca una delle poste più cruciali nel confronto con il relativismo e il nichilismo dilaganti. Difatti, cosa resta del valore oggettivo e universale della morale in una neuro-morale che la riduce a una particolare conformazione cerebrale? Nulla. I principi morali o etici sarebbero mero prodotto dell'evoluzione e, come tali, soggetti al processo evolutivo, o addirittura manipolabili dall'uomo nelle forme da questi ritenute più opportune. Se l'idea di un Dio trascendente fosse prodotto di conformazioni neuronali, essa sarebbe un evento casuale e sopprimibile, come peraltro sostengono alcuni neuroscienziati. Naturalmente se ciò fosse vero, e dimostrato come tale, vi sarebbe poco da dire. Ma non lo è, lungi da ciò, si tratta di tesi inconsistenti. Così accettarle è solo la manifestazione di una dannosa soggezione nei confronti di uno scientismo che agisce come cavallo di Troia del nichilismo. Tantomeno bisogna farsi intimidire dalle veementi accuse di un certo pensiero postmoderno nei confronti dell'"essenzialismo" della cultura occidentale, accusata di avere introdotto, con la difesa dei valori "assoluti", forme di "razzismo" e di discriminazione. Anche tale soggezione è da dismettere, perché nessun errore può cancellare il fatto che la cultura cosiddetta "essenzialista" ha posto le basi morali di una società basata sul rispetto della persona.