giovedì 3 febbraio 2011

l’Unità e  The Independent 3.2.11
Nessun incubo islamico.
In piazza Tahrir ho visto l’Egitto laico
Martedì scorso hanno sfilato insieme donne con il niqab e ragazze con i capelli lunghi, poveri e ricchi. Non è un popolo anti-occidentale o anti-americano
di Robert Fisk


IL CAIRO Quella di martedì è stata la parata della vittoria, ma senza la vittoria. Il solo dispiacere che al calar delle tenebre Hosni Mubarak si autodefiniva ancora «presidente» dell’Egitto.
Mubarak ha concluso la giornata come previsto, apparendo in televisione per annunciare che bisognerà aspettare fino alle prossime elezioni. Sulle prime agli egiziani avevano detto che questa doveva essere la marcia di un milione di persone fino al Palazzo di Kuba, residenza ufficiale di Mubarak a Heliopolis. Ma la folla era tale che gli organizzatori, che facevano capo a circa 24 gruppi di opposizione, hanno deciso che era troppo pericoloso esporsi alle cariche della polizia segreta. In seguito hanno detto di aver scoperto un furgone con a bordo uomini armati nei pressi di piazza Tahrir. Io ho visto solamente 30 sostenitori di Mubarak che urlavano a squarciagola il loro amore per l’Egitto davanti alla sede della radio sotto lo sguardo vigile di oltre 40 soldati.
Le urla di odio per Mubarak stanno diventando familiari e gli striscioni sempre piu’ interessanti. «Né Mubarak né Suleiman; non abbiamo bisogno di Obama – ma non ce l’abbiamo con gli Usa», diceva generosamente uno striscione. «Via tutti, compresi i vostri schiavi», diceva un altro. In un cortile sporco e malridotto ho visto dei ragazzi che con lo spray scrivevano su candide lenzuola rettangolari gli slogan politici per pochi centesimi. Le sale da te dietro la statua di Talat Harb erano affollate di gente che parlava di politica con la stessa passione che si vede nei dipinti orientalisti di Delacroix. Ma cosa era? L’inizio di una rivoluzione? O una rivolta? O una «esplosione» di rabbia come l’ha descritta un giornalista egiziano con il quale ho parlato?
Questo avvenimento politico senza precedenti aveva alcuni elementi peculiari. Anzitutto lo spirito laico della manifestazione. Donne col chador, il niqab o il fazzoletto marciavano allegramente accanto a ragazze con i capelli lunghi sulle spalle, gli studenti camminavano accanto agli imam e ad uomini con barbe che avrebbero fatto morire di invidia Osama bin Laden. I poveri con i sandali logori e i ricchi vestiti da uomini d’affari si confondevano nella folla multicolore dando una rappresentazione grafica dell’Egitto diviso in classi e facendo pensare all’invidia sociale incoraggiata dal regime. Avevano fatto l’impossibile e, in un certo senso, la loro personale rivoluzione sociale l’avevano già fatta con pieno successo.
Poi c’era l’assenza dell’«islamismo» vero e proprio incubo dell’Occidente, incoraggiato ovviamente dall’America e da Israele. Mentre il mio cellulare continuava a squillare andava in onda la solita, vecchia storia. Tutti – giornalisti radiofonici, televisivi, redazioni – volevano sapere se dietro l’oceanica dimostrazione c’era la Fratellanza Musulmana. La Fratellanza avrebbe preso il potere in Egitto? Ho detto la verità. Erano scemenze. La «Fratellanza Musulmana» alle ultime elezioni ha preso il 20% dei voti e i membri dell’organizzazione sono 145.000 su una popolazione di oltre 80 milioni.
Una folla di egiziani che parlavano inglese si è raccolta intorno a me durante uno di questi imperdibili colloqui telefonici. Sono quasi caduti a terra dalle risate al punto che ho dovuto troncare la conversazione. Naturalmente non è servito a nulla spiegare intervenendo in diretta che il gentile e umanissimo ministro degli Esteri di Israele, Avigdor Lieberman – che una volta ha detto che “Mubarak puo’ andare all’inferno” – può finalmente ritirarsi dalla scena, politicamente intendo. La gente era travolta dagli eventi.
E anche io. Mi trovavo all’incrocio dietro il Museo Egizio dove appena cinque giorni prima – mi sembravano passati cinque mesi – sono quasi morto soffocato per lacrimogeni. Fino ad allora nessuna parola di lode e sostegno da parte dell’Occidente per queste donne e questi uomini coraggiosi. E anche l’altro ieri non si è levata una voce per ringraziarli.
Sorprendentemente erano pochissimi i segni di ostilità nei confronti degli Stati Uniti malgrado le espressioni infelici di Obama e di Hillary Clinton negli otto giorni precedenti. Quasi dispiaceva per Obama. Se avesse sostenuto il tipo di democrazia che aveva predicato al Cairo sei mesi dopo la sua investitura, se avesse chiesto qualche giorno prima l’uscita di scena di questo dittatore di Serie C, la folla oltre alla bandiera egiziana avrebbe sventolato quella degli Stati Uniti e Washington avrebbe realizzato la missione impossibile: trasformare l’odio contro l’America (Afghanistan, Iraq, «guerra al terrore» e via dicendo) nel rapporto più disteso e amichevole che gli Usa ebbero negli anni ’20 e ’30 e, malgrado l’appoggio dato alla nascita di Israele, nel calore che caratterizzava le relazioni tra arabi e americani fino agli anni ’60.
Ma no. Queste possibilità’ sono andate perse in appena sette giorni di debolezza e codardia come quelli vissuti a Washington e che stridevano con il coraggio di milioni di egiziani che cercavano di fare quello che noi occidentali gli chiediamo sempre: trasformare una dittatura in democrazia. Loro volevano la democrazia. Noi volevamo la «stabilità», la «moderazione», la «misura», la leadership «forte», le «riforme» caute e i musulmani ubbidienti.
Il fallimento della leadership morale occidentale potrebbe rivelarsi una delle principali tragedie del Medio Oriente. L’Egitto non è anti-occidentale. Non è nemmeno particolarmente anti-israeliano anche se le cose potrebbero cambiare. La tragedia è che un presidente americano ha teso la mano al mondo islamico e poi ha mostrato il pugno quando quello stesso mondo islamico è sceso in piazza per combattere una dittatura e chiedere la democrazia.
Questa tragedia potrebbe proseguire nei giorni a venire nel caso in cui Stati Uniti e Unione Europea decidessero di appoggiare il successore designato di Mubarak, vale a dire il vicepresidente Omar Suleiman, capo dei servizi segreti e negoziatore con Israele. Suleiman ha detto di voler aprire un tavolo negoziale con «tutte le fazioni» – ha persino tentato di imitare Obama. Ma in Egitto tutti sanno che un suo eventuale governo sarebbe l’ennesima giunta militare che gli egiziani sarebbero chiamati ad ossequiare per ottenere quelle elezioni veramente libere che Mubarak non ha mai concesso. È possibile, è concepibile che il migliore amico di Israele in Egitto dia a questi milioni di egiziani la libertà e la democrazia che chiedono? È possibile che l’esercito appoggi acriticamente quella democrazia considerato che riceve da Washington la bella somma di 1,3 miliardi di dollari l’anno? Questa macchina militare, che non combatte una guerra da 38 anni, è sotto-addestrata e super-armata con armamenti per lo più obsoleti – anche se l’altro ieri si potevano ammirare i nuovi carri M1A1 – e vanta legami inestricabili con il giro degli alberghi e dei complessi residenziali di lusso, graziosi regali del regime Mubarak ai generali per premiare la loro fedelta».
E cosa facevano gli americani? Correva voce che i diplomatici americani fossero in viaggio per l’Egitto per presiedere il negoziato tra il futuro presidente Suleiman e i gruppi dell’opposi-
zione. Correva anche voce che diversi soldati del corpo dei Marines fossero stati inviati in Egitto per difendere l’ambasciata americana da eventuali attacchi. Certo è che Obama alla fine ha detto a Mubarak di togliere il disturbo. Certo è che le famiglie americane sono state evacuate dal Marriott Hotel del Cairo e scortate da soldati e poliziotti egiziani all’aeroporto abbandonando un popolo che poteva benissimo essere amico dell’America.
(c) The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 3.2.11
Intervista a Sayed el-Badawi
«Il regime vuole il caos ma non smobilitiamo, Il tempo del rais è finito»
Il leader del partito liberale: «Con El Baradei e i Fratelli musulmani pronti a un governo di salvezza nazionale. Per Mubarak un salvacondotto»
di U.D.G.


Hosni Mubarak vuol prendere tempo, ma il suo tempo è ormai scaduto. Non sarà certo chi ha retto per trent’anni col pugno di ferro e le leggi marziali il Paese a potersi fare garante di una transizione democratica». A sostenerlo è Sayed el-Badawi, leader del partito Wafd (Delegazione) di orientamento liberale che assieme alla Fratellanza Musulmana e all’Associazione per il Cambiamento di Mohammed El Baradei hanno chiesto la formazione di un governo di salvezza nazionale. «Abbiamo dato vita ad un'alleanza di forze dell'opposizione spiega el-Badawi per ribadire che il destino di Hosni Mubarak è nelle mani del popolo e che è necessario formare un nuovo governo di salvezza nazionale che sia in grado di riformare la costituzione e andare al voto. Ormai è venuta meno la legittimità del presidente Mubarak». L'uscita di scena del Rais resta il discrimine per il dialogo: «Non escludiamo una trattativa con il vice presidente Suleiman afferma il leader di Wafd ma questa possibilità può realizzarsi soltanto dopo che Mubarak avrà rassegnato le dimissioni». La piazza non smobilita. E prepara un'altra mobilitazione di massa per venerdì prossimo, il «“Venerdi della partenza». “Hanno provato a fermare al protesta militarizzando il Paese, ora tentano con le provocazioni armate delle squadracce prezzolate dal regime. Ma non riusciranno nel loro intento: la rivoluzione non si ferma», rimarca el-Badawi. ”. Dopo nove giorni di protesta, il presidente Hosni Mubarak ha annunciato che non intende ripresentarsi alle presidenziali. Al tempo stesso ha chiarito di voler restare in carica fino al compimento di questo percorso...
«Mubarak vuol prendere tempo ma il suo tempo è ampiamente scaduto. Il suo destino è nelle mani del popolo e il popolo chiede che lui si faccia da parte. Subito».
Nel suo discorso, Mubarak ha preso atto che lo status quo è improponibile... «Ha preso atto, per l’appunto, perché fosse stato per lui e la nomenclatura al potere lo status quo sarebbe durato in eterno...A spezzarlo è stata la rivolta popolare, i milioni di egiziani che con coraggio sono scesi nelle strade per rivendicare diritti, giustizia sociale, libere elezioni, fine della censura...In una parola, democrazia. La transizione non può attendere un giorno in più. Deve iniziare da subito. E senza Hosni Mubarak».
La transizione deve partire da adesso, e deve essere reale: un concetto affermato con forza dal presidente Usa Barack Obama.
«Più che la posizione di un idealista, quello del presidente Obama è il pronunciamento di uno statista pragmatico che ha capito che l’America non può difendere i suoi interessi in Medio Oriente difendendo regimi screditati. E questo discorso non vale solo per l’Egitto...».
Ma per restare all’Egitto, cosa chiede l’opposizione alla Casa Bianca? «Di fornire una “safety card” a Hosni Mubarak...».
El Baradei ha parlato di un salvacondotto... «La garanzia di aver salva la vita...Una uscita di scena concordata. L’Egitto vuol voltare pagina senza ulteriori spargimenti di sangue. La vendetta non è nelle nostre intenzioni».
L’Esercito ha chiesto ai manifestanti di Piazza Tahrir di «aiutare il Paese a tornare alla vita normale»...
«Si tratta di intenderci sul “normale”: indietro non si torna. Normale per noi significa fine dello stato d’emergenza e uscita di scena di Mubarak. Per questa “normalità” democratica continueremo a batterci, nei modi che riterremo più opportuni al raggiungimento di questi obiettivi».
In piazza sono scesi anche i sostenitori di Mubarak... «Con l'intenzione di provocare e alimentare la violenza. Ma non cadremo in questa trappola. Le provocazioni scatenate in Piazza Tahrir dovrebbero preoccupare fortemente la Comunità internazionale. È chiaro che il regime utilizza ogni mezzo per scatenare il caos. Cercano in ogni modo di provocare una reazione violenta per giustificare le leggi marziali e il pugno di ferro. Nei giorni scorsi hanno scatenato bande di saccheggiatori al Museo Egizio per screditare la rivolta agli occhi del mondo. L’Esercito deve proteggere le vite degli egiziani. Restare a guardare significa farsi complici di questi provocatori».
Cosa si sente di chiedere all’Europa?
«Di rompere ogni indugio e schierarsi decisamente a fianco di quanti si stanno battendo nel mio Paese per una transizione pacifica e democratica. Ogni incertezza, ogni ambiguità renderebbero ancor più drammatica la situazione. L’Egitto di Piazza Tahrir guarda con speranza all’Europa. Sta voi non tradire queste aspettative».

il Fatto 3.2.11
La rivoluzione delle donne
Nelle piazze della protesta, in prima linea migliaia di ragazze alla ricerca di un’inedita libertà
di Maurizio Chierici


Osserviamo gli umori delle piazze del Cairo con la preoccupazione di coniugare la “democrazia” invocata da milioni di senza diritti, alla “stabilità” che Mubarak ha garantito alle strategie di Stati Uniti ed Europa: 30 anni di buone maniere, 30 anni di polizie. Gli analisti sono così occupati ad inseguire le trame dei Fratelli musulmani da non guardare la folla che ogni giorno agita le nostre tv. E non si accorgono di una novità straordinaria: tante donne mai viste nella storia del mondo arabo. Ragazze che lanciano pietre contro gli scudi di chi prova a farle tacere. Ragazze che scaldano l’entusiasmo sui piedistalli dei monumenti. Ragazze velate e ragazze dai capelli sciolti con la sfrontatezza della Parigi ’68. Baciano militari quasi fossero angeli custodi o si mettono in posa davanti agli elmetti con la dignità di una sfida pericolosissima fino a una settimana fa. L’Islam delle donne ombra diventa protagonista nella capitale politica e culturale del mondo arabo. Se la contestazione di Parigi ha acceso le nuove generazioni d’Europa (a Milano arriva nel ’69, un anno dopo), i colori del Cairo – ragazze in piazza con madri e figli – annunciano la liberazione dal ghetto dell’altra metà del cielo schiacciata da padri, fratelli, mariti, politici, dittatori. All’improvviso, eccole lì. Sta per cambiare qualcosa o è solo l’illusione che i giochi dei notabili si preparano a imprigionare appena il gran conduttore fa le valigie?
DA SEMPRE LE DONNE dell’Islam immaginano di essere impegnate nella difesa di quei diritti umani che la politica maschile nasconde e reprime. Per imporsi hanno provato a rischiare la vita, ma dopo la sfida e il sacrificio le sopravvissute si sono ripiegate nella subalternità. Racconti di tanti anni fa. Leila Kalhed entra nella mitologia dei rotocalchi col velo sulla bocca e il mitra in mano. Era cresciuta ad Haifa, famiglia benestante, giardini di aranci . Poi l’esilio e la rabbia raccolta dal Fronte Popolare palestinese di Georges Habbash (rivale di Arafat) medico cristiano ortodosso. Perché il primo terrorismo arabo è cristiano. Leila prova a dirottare un aereo della Twa. Ma la sicurezza fa scattare l’allarme che blocca la cabina. Catturata e liberata tre giorni dopo, scambio ostaggi e prigionieri per un altro volo dirottato nel deserto giordano. Era il 1970. L’ho incontrata nel quartiere Jama Al Arabia della Beirut dove i palestinesi imperversavano. Magra, gentile: una specie di segretaria nell’anticamera di Habbash, signore supremo. Le avevano assegnato – raccontava malinconica – il posto che “meritava”.
NESSUN POLIZIOTTO fruga le sottane delle belle ragazze, nel ‘72 a Monaco, quando le fanciulle arabe preparavano l’assalto alle Olimpiadi. Nessun familiare sospettava della figlia kamikaze, orribili attentati nella Gerusalemme della paura. “Quando la vita non ha più senso e sai di non avere speranza, tutto è possibile”, racconta Rashida Asheda, ancora traumatizzata in Kuwait per la strage della bomba che le avevano ordinato di confondere fra i barattoli di un market di Gerusalemme. Insomma, donne usate per un terrorismo non solo atroce, soprattutto insensato. Usate e messe da parte. Ecco la scommessa che le immagini dal Cairo propongono al nostro pessimismo. Migliaia in fila contro Mubarak: verranno rinchiuse come comparse appena non servono dopo la caduta del rais, o contribuiranno a contenere i dogmi dell’estremismo di una parte dei Fratelli musulmani, così diversi dalla tolleranza che accompagna milioni di giovani del mondo arabo? In piazza, con fiori e bandiere, provano a cambiare il mondo. Se i nostri interessi alla “stabilità” trovano conveniente consentirlo.

Repubblica 3.2.11
La paura di Israele
di Sandro Viola


Sino a una decina di giorni fa, pochi israeliani (gli intellettuali, i giornalisti) parlavano ancora di politica. Del negoziato con i palestinesi interrotto già nello scorso settembre, di come il premier Netanyahu fosse scaltramente riuscito ad arginare la pressione della Casa Bianca che voleva la continuazione del negoziato, o dell´isolamento internazionale in cui Israele si trova da tempo. Gli altri israeliani parlavano d´altro. I prezzi dei terreni e delle case, la Borsa, l´ultimo film, il nuovo ristorante a Tel Aviv, le vacanze.
Alla pace con i palestinesi non pensavano quasi più. Del resto, ormai da tre anni erano spariti gli attentatori-suicidi, e da due anni Hamas aveva praticamente fermato i lanci dei suoi razzi sul Negev. Nel paese s´insinuava ogni giorno di più l´idea che una vera pace con i palestinesi non ci sarà mai, ma che il Muro e la forza militare d´Israele erano lì a rendere improbabili nuove convulsioni come le due Intifada degli anni Ottanta e Duemila. L´impressione d´uno straniero a Gerusalemme e soprattutto a Tel Aviv, era che i tentativi di giungere alla pace non interessassero più la società israeliana. I giornali avevano ridotto gli spazi prima dedicati alla politica, e un sondaggio dell´autunno 2010 su quale problema sembrasse più urgente agli israeliani, rivelò che solo l´otto per cento degli interrogati citava al primo posto il conflitto con i palestinesi. Il segno che quel conflitto veniva ormai considerato un peso, una seccatura – anche se una grossa seccatura –, ma non più una minaccia per la sopravvivenza dello Stato ebraico.
È per questo che gli avvenimenti egiziani hanno rappresentato per Israele un brusco, dolente risveglio. Certo: la prospettiva (sebbene ancora piuttosto vaga) di un Iran dotato dell´arma nucleare inquietava da un paio d´anni la classe politica, era l´oggetto di incessanti studi dello Stato maggiore sulla convenienza di un´eventuale azione preventiva, e circolava ogni tanto anche nei discorsi della gente. Ma dopo tutto l´Iran non è tanto vicino, e la sua bomba nucleare non è ancora fabbricata. Mentre il pauroso, per ora inarrestabile sbandamento del regime di Hosni Mubarak, le enormi e tumultuose dimostrazioni del Cairo suscitano emozioni assai più forti e profonde. Perché l´Egitto è vicino, è sulla frontiera occidentale d´Israele: la frontiera che da trentadue anni veniva considerata la più tranquilla, la più sicura.
Il primo riflesso avvertibile di questa ondata di preoccupazioni che investe Israele è il ritorno degli israeliani alle abitudini del passato. L´irrinunciabile e ansioso ascolto, alle otto di sera, dei telegiornali più seguiti: il Canale 2 condotto dalla brava Yanit Levi, o il 10 che ha come conduttori Yaakov Eilon e Miki Haimovic. Rispuntano anche nei discorsi sugli autobus, nei caffè, nei campus universitari, le opinioni degli editorialisti più stimati, Nahum Barnea dell´Yediot Ahronot, Ofer Shaleh di Maariv, Ari Shavit di Haaretz. Dunque quella specie di smemoratezza che aveva colto la società israeliana, la convinzione che s´era fatta strada sull´impossibilità d´una nuova guerra (salvo che con avversari non troppo temibili come gli Hezbollah o Hamas), si sono dissolte in una sola settimana. E lo scioglimento martedì del governo giordano, il ricorso di re Abdullah II ai militari mentre anche le strade di Amman si stanno sempre più riempiendo di dimostranti, è venuto ad appesantire ulteriormente l´atmosfera.
Tutti si rendono conto che in neppure un anno Israele ha perso i due soli appoggi che aveva nella regione. La Turchia di Erdogan, e l´Egitto di Mubarak scivolato nel caos. È vero, l´isolamento è una condizione alla quale Israele è abituato. I paesi arabi e islamici (tranne i due, Egitto e Giordania, con cui aveva firmato un trattato di pace) restano freddamente distanti se non ostili, il sentimento degli europei s´è fatto sempre più critico (se non si deve dire anti-israeliano), mentre gli scontri di tutto il 2010 con la Casa Bianca hanno aperto parecchie crepe nel rapporto con l´amministrazione, la diplomazia e l´opinione pubblica degli Stati Uniti.
Ma Israele ha fatto il callo alla sua mancanza di amici. Ai governi di Gerusalemme basta il legame con l´America, che nonostante le liti tra Obama e Netanyahu intorno al negoziato con i palestinesi, regge, e reggerà forse per sempre. Tuttavia, il vuoto che si apre in questi giorni davanti a Israele con la crisi egiziana, rappresenta un colpo inatteso (il celebre servizio d´intelligence israeliano, il Mossad, nulla aveva previsto) e molto violento.
Non c´è frontiera, adesso, che possa ritenersi sicura. A nord ci sono gli Hezbollah, a sud c´è Hamas, e adesso – mentre a ovest c´è il disfacimento del regime egiziano – a est scoppiano moti anche in Giordania. Né serve a rassicurare il discorso d´un Egitto che potrebbe farsi democratico senza per questo rompere il trattato di pace con lo Stato ebraico. Come dice il suo presidente, Shimon Peres, anche Hamas aveva vinto le libere elezioni in Palestina, ma solo per chiedere l´indomani la sparizione d´Israele dalle carte geografiche.
Adesso, forse, il mondo politico israeliano e quella grossa parte dell´opinione pubblica del paese furiosamente contraria a qualsiasi compromesso territoriale con i palestinesi, rifletteranno sui danni politici, morali ed economici che quarantaquattro anni di occupazione della Palestina hanno procurato ad Israele. L´adagiarsi sulla conservazione dello status quo, la politica dei rinvii, il sistematico svicolare (come dimostrano i documenti pubblicati giorni fa da Al Jazeera) di fronte ad ogni apertura venuta negli anni dai palestinesi, sono stati esiziali.
I "Palestinian papers" forniti dall´emittente araba hanno forse minato la credibilità del leader palestinese Mahmud Abbas agli occhi del suo popolo (troppe concessioni, troppo affanno nel voler chiudere la trattativa), ma ai nostri occhi sono chiarissimi. Per due anni, tra 2006 e 2008, l´Autorità nazionale palestinese avanzò proposte molto generose sugli insediamenti, su Gerusalemme, e sul "diritto al ritorno" dei profughi che dovettero lasciare le loro case nel ´48 e nel ´67. L´intesa con il premier israeliano d´allora, Ehud Olmert, fu davvero vicina. Ma l´opposizione dei coloni e poi l´avvento del governo Netanyahu sostenuto dai partiti di destra, la fecero andare in fumo.
Oggi, se ci fosse stato un accordo con i palestinesi, la posizione d´Israele dinanzi al collasso del regime egiziano sarebbe diversa, meno inquietante e spinosa? La risposta è sì. I moti del Cairo non hanno avuto sinora, per fortuna, allarmanti intonazioni anti-israeliane. Ma la pace con i palestinesi avrebbe reso Israele meno sola e sconcertata di com´è in queste ore.

Haaretz 3.2.11
Why should Israel be the only democracy in the Mideast?
People are scaring us with talk of an Isalmist takeover of our big neighbor. But doesn't Egypt deserve democracy too?
by Anshel Pfeffer

qui
http://www.haaretz.com/print-edition/opinion/why-should-israel-be-the-only-democracy-in-the-mideast-1.340717

Haaretz 3.2.11
When Israel's protective net of tyranny tears
We have not yet reached the stage in which the machinery of Israeli repression breaks up into its component parts - the people - who instead of obeying, begin to think.
by Amira Hass

qui
http://www.haaretz.com/print-edition/opinion/when-israel-s-protective-net-of-tyranny-tears-1.340720

l’Unità 3.2.11
I satrapi che vuole il Corsera
di Renato Barilli


C’è da strabuzzare gli occhi, a leggere il fondo steso sul Corriere di ieri da Ernesto Galli Della Loggia, la cui tesi è che il Pd non arriva a imporsi perché manca di leadership, della presenza di un uomo carismatico. Lo dice in un momento in cui due terzi del Paese deprecano la presenza oppressiva, ingombrante, destituita di ogni credito, dell’attuale presidente del consiglio. Ci sarebbe quasi da fare degli scongiuri e invocare il destino che non ci mandi un uomo fatale a questo modo.
I capi carismatici non si inventano, se ci sono si possono magari anche accettare, ma sempre con molto sospetto; se non ci sono, in definitiva meglio così, si sceglie tutti assieme e democraticamente chi risponde di più alle esigenze, pronti del resto a cambiare, come in fondo è avvenuto alla testa del centro-sinistra negli ultimi tempi, non è detto che la qualità di un capo si deduca dalla sua irremovibilità alla testa di un partito. Caso mai, il male, l’eccezione è proprio insita nei fatti di casa nostra. Guardandoci in giro, almeno in Europa, non è che si vedano queste figure gigantesche. In Inghilterra c’è stato Blair, ma se n’è poi andato travolto dalla alleanza supina con Bush Jr. La Merkel ha più l’aria di una brava massaia che conduce le sue cose con prudenza. Sarkozy, a stare ai sondaggi se la passa alquanto male, Zapatero ha già deciso di gettare la spugna. E dunque, l’eccezione non è la sinistra di casa nostra, bensì la presenza di un satrapo, di un faraone che tenta, con l’appoggio di una schiera di cortigiani, di rimanere a galla nonostante tutto. Meglio avere a contrastarlo persone che non curano troppo il maquillage, e non vanno a scuola di dizione per parlare un italiano forbito, come ieri Prodi, oggi Bersani. Più che l’aspetto, conta la probità, l’adesione a una causa che è di tutti e non di uno solo.

il Fatto 3.2.11
Per favore, meglio il voto
di Nicola Tranfaglia


Siamo in una situazione indegna di un paese civile. I miei amici europei tra i quali ci sono osservatori autorevoli della crisi italiana (perché, da storici hanno scritto libri importanti sulla nostra storia negli ultimi cento cinquant’anni, dall’Unità ad oggi) si chiedono come si potrà uscirne in tempi non troppo lunghi.
Ma la risposta non è facile da elaborare, e soprattutto da realizzare, nell’attuale situazione di scontro tra gli opposti schieramenti e con la volontà, espressa più volte dall’attuale presidente del Consiglio, di continuare a governare pur ora che la sua maggioranza alla Camera si è assottigliata quando ormai sono alle porte scadenze importanti destinate a succedersi.
Per oggi è prevista la votazione dell’assemblea di Montecitorio sulla competenza della Procura di Milano sullo scandalo Ruby e la votazione del primo decreto attuativo della legge sul federalismo che vede contrari i partiti del terzo Polo, incluso Futuro e Libertà e i partiti di centrosinistra presenti in Parlamento, il Partito democratico come l’Italia dei Valori.
ORA È VERO che la macchina del fango e della corruzione funziona a pieno ritmo, con l’attiva partecipazione dello stesso Berlusconi, e si afferma che almeno un altro deputato, l’onorevole Misiti, sarebbe stato acquisito nelle ultime ore alla pattuglia intemerata dei cosiddetti “responsabili”.
Ma è difficile pensare che si possa andare avanti con tre o quattro voti di vantaggio sulle opposizioni, lanciando progetti del tutto irrealizzabili come l’annuncio di una legge costituzionale sull’articolo 41 della Costituzione che, per essere approvata, richiederebbe una doppia votazione a distanza di qualche mese e la sicurezza di un referendum confermativo destinato a un altro forte scontro nel paese.
Insomma questo governo appare vicino alla sua conclusione e le alternative che si presentano alla classe politica sono ormai soltanto due di fronte alle quali occorre operare una scelta in tempi che non possono essere lunghi ma, al contrario, devono svolgersi in tempi rapidi.
La prima alternativa è quella di prevedere una fase di decantazione della crisi e dello scontro radicale tra i due schieramenti che potrebbe sfociare in un governo al quale dovrebbero partecipare tutti i gruppi parlamentari di maggiore consistenza che sia affidato non a un politico di lungo corso ma a una personalità delle istituzioni fuori dall’uno e dall’altro schieramento. Un simile governo di salute pubblica, senza la partecipazione , questo è essenziale, dell’attuale presidente del Consiglio, dovrebbe affrontare con la massima urgenza tre problemi essenziali della crisi italiana.
Prima di tutto il lavoro e la disoccupazione, soprattutto giovanile che tende ad aumentare e a portare l’Italia a una situazione drammatica simile a quella dell’Europa meridionale e dell’Africa settentrionale. Si moltiplicano su tutto il territorio nazionale gli stati di crisi di fabbriche e stabilimenti nei principali settori industriali del paese.
LA POLITICA economica del governo non si è posta fino ad oggi il problema della crescita e dello sviluppo economico necessario per superare la crisi, rendere competitiva l’Italia in Europa, ridare slancio a un paese che da tempo sembra immobile e quasi paralizzata dalle sue contraddizioni.
Al lavoro e all’occupazione si collegano due problemi strettamente legati tra loro che riguardano il precariato particolarmente forte ed esteso in ogni settore pubblico e privato e dall’altro il settore dell’istruzione di ogni livello particolarmente colpito dalla crisi e dai tagli che il governo Berlusconi ha portato dall’aprile 2008 ad oggi.
È noto che otto miliardi di euro sono stati sottratti alla scuola che versa in una condizione ormai comatosa e che anche le università hanno subito tagli per oltre un miliardo e mezzo. In un momento in cui in tutta Europa i governi di centrosinistra ma anche di centrodestra, come avviene in Germania, fanno i salti mortali per non diminuire le risorse per la scuola e i centri di studio e di ricerca, assistere all’accanimento adottato dal governo Berlusconi contro il settore intero dell’istruzione e della ricerca richiede una netta inversione di tendenza prima di affrontare ogni altra questione.
Ma resta il problema di fondo. Accetteranno le forze delle opposizioni di mettere da parte veti reciproci e le difficoltà di dialogo? È quasi impossibile rispondere all’interrogativo con ottimismo. E in questo caso le elezioni anticipate restano l’unica soluzione per uscire dall’attuale palude e voltare pagina.

Repubblica 3.2.11
Democrazia e decadenza
di Adriano Prosperi


Perché, nonostante le prove schiaccianti di ripetute e numerose illegalità e turpitudini morali, gli italiani continuano a sostenere Silvio Berlusconi? Questa è la domanda che ci si pone fuori d´Italia. Il New York Times ha aperto uno spazio di dibattito sull´Italia intitolandolo così: "Decadenza e democrazia in Italia". è un titolo che ci ricorda un punto importante: dal punto di vista di una tradizione come quella americana la moralità e la democrazia sono essenziali l´una all´altra. Dalla decadenza morale discende la crisi della democrazia. Il politico che mente, che giura il falso, che dà esempi di vita palesemente immorale, che attacca l´ordinamento costituzionale, vi è non solo messo in stato d´accusa ed espulso dal gioco del potere ma è anche immediatamente colpito dal verdetto inappellabile dell´opinione pubblica.
Il caso Berlusconi sembra fatto apposta per proiettare come in uno specchio rovesciato l´idea di democrazia agli occhi del paese che l´ha creata. Così gli argomenti hanno finito col battere sul tasto della diversità antropologica degli italiani: disposti a perdonare tutte le forme di corruzione, maschilisti e sessisti, portati a discriminare le donne più di ogni altro paese europeo e a consumare immagini di corpi femminili in una misura impensabile altrove. In quel dibattito sono intervenuti anche diversi italiani che hanno provato a rispondere e a fornire giustificazioni. Non hanno avuto un compito facile. E soprattutto non hanno centrato il nodo del rapporto tra moralità e democrazia. Si è andati dal piano politico – la presunta mancanza di alternative – a quello dell´imbonimento dei media asserviti in vario modo al padrone. Argomenti fragili, come ognun vede.
Non siamo in un regime dittatoriale di controllo dell´informazione. E quanto a possibili alternative, ce ne sono anche troppe: il problema è che non riscuotono consensi nella stessa misura del personaggio che fuori d´Italia appare così sconveniente e grottesco. Ma la speranza è dura a morire e c´è chi ha chiesto ai lettori americani di avere pazienza promettendo a breve scadenza una normalizzazione della situazione italiana: così Alexander Stille ha concluso il suo intervento affermando che il pubblico italiano non sopporterà più a lungo il fatto che Berlusconi si occupi dei propri affari trascurando del tutto l´attività di governo. Questo sarebbe secondo lui l´unico "peccato imperdonabile" per gli italiani. Vedremo se la previsione sarà confermata. Ma intanto si è affacciata la questione squisitamente teologica e religiosa del "sin that may not be sorgiven", il "peccato imperdonabile".
Che cosa abbia significato nella cultura puritana questo problema lo abbiamo imparato dalla grande letteratura dell´800. Ma oggi è una domanda molto semplice quella che ci viene proposta dal paese di Melville e di Hawthorne: esiste almeno un peccato imperdonabile per gli italiani? La risposta negativa dei paesi di cultura non cattolica è a questo proposito antica e ben consolidata. Un viaggiatore inglese del ´600 autore di un rapporto sullo stato della religione in Italia che fu postillato da Paolo Sarpi, Edwin Sandys, lo disse molto chiaramente: gli italiani gli sembrarono un popolo civile e accogliente, dotato di eccellenti qualità. Gli piacquero anche alcuni aspetti della loro religione. Ma trovò incomprensibile e del tutto esecrabile la pratica della confessione cattolica: il modo in cui nel segreto del confessionale i comportamenti più immorali e le infrazioni più gravi ai comandamenti cristiani venivano cancellati al prezzo di qualche orazioncella biascicata distrattamente gli sembrò una vera e propria licenza di immoralità, un modo per corrompere in radice la natura di un popolo.
Oggi quei tempi e quelle idee sono lontani ma il problema si ripropone. La questione teologica di allora ci si presenta come qualcosa che riguarda il paese intero e tocca la radice profonda della convivenza democratica e del funzionamento delle istituzioni. è il problema della moralità pubblica come cemento della democrazia, o in altre parole della sostanza morale della democrazia, come questione del rapporto che deve esserci tra il buon ordinamento della società e il patto stretto dal politico con gli elettori: l´impegno ad accettare le regole, quelle del fisco, della giustizia, della libertà d´informazione, incluso l´obbligo a sottostare alla legge come e più di ogni privato cittadino. Ora, che questo problema sia stato ignorato clamorosamente dalla dirigenza della Chiesa cattolica italiana anche nei suoi recenti e imbarazzati pronunciamenti è qualcosa che rinvia ai caratteri profondi della religione italiana e non può essere spiegato soltanto dalla difesa del proprio potere e dalla ricerca dei favori governativi da parte di chi si arroga la funzione di maestro e censore della morale collettiva.
Ma è dal punto di vista della sopravvivenza della democrazia italiana che quello che ci viene proposto da Berlusconi in questo tardo autunno dell´ "egoarca" appare come un patto scellerato: si tratterebbe di affrontare i problemi del paese lasciando cadere come irrilevanti i capi d´accusa dei tanti reati che pendono sulla testa del premier. Se anche fosse vero che accettando questo patto i problemi di un paese ridotto nelle condizioni che ognuno vede sarebbero risolti, la questione è quella della natura del regime che noi italiani ci troveremmo ad avere inventato. E qui torna utile la domanda che fu posta da Benedetto Croce a proposito della natura del fascismo: rivoluzione o rivelazione, trasformazione violenta e radicale dell´assetto politico del paese o disvelamento di una verità profonda, di carenze antiche e radicali, tali da rendere il paese Italia diverso da tutti gli altri. Oggi, al termine – speriamo, infine – di un´avventura individuale e collettiva che consegna una fetta consistente di storia del Paese alla figura di Berlusconi, gli italiani tutti e non solo la classe politica, sono giudicati nel mondo per ciò che hanno accettato e premiato con le loro scelte e di cui continuano a non volersi liberare. Come nel rapporto tra personaggio e ritratto descritto da Oscar Wilde ne "Il ritratto di Dorian Gray", oggi il nostro Paese e la qualità morale della nostra convivenza civile sono diventati il ritratto rivelatore della verità nascosta del personaggio Berlusconi: brutti, vecchi, laidi, corrotti. Così li giudica l´opinione pubblica democratica dei paesi civili.

Corriere della Sera 3.2.11
E D’Alema elogiò Occhetto: ci ha portato al governo
In un documentario sulla «svolta» il racconto della fine del Pci. Ma anche il germe delle divisioni attuali
di  Maria Teresa Meli


ROMA— Dovrebbe essere— ed è — un documentario che racconta la nascita del Pds e la fine del Pci. Accadde il 3 febbraio 1991 in un Congresso del Partito comunista in quel di Rimini. Oggi ricorre l’anniversario, e Giovanni Minoli ne parlerà proprio stasera, a «La Storia siamo noi» , in onda su Rai2 alle 23.30. Dovrebbe essere — ed è — un riassunto di quello che fu, finisce per essere, invece, un riflettore puntato sulle difficoltà del Partito democratico. E non solo perché i protagonisti di allora sono gli stessi di ora, salvo rare, e significative eccezioni, come quella di Achille Occhetto. Sullo schermo si alternano, tra gli altri D’Alema, Veltroni, Napolitano e Fassino. Un pezzo di storia, un pezzo del presente. E un’ammissione di colpa. Che va in onda proprio in chiusura, quando la trasmissione sta finendo di raccontare la storia e la morte del Pci. Dà il via Alfredo Reichlin: «Il compito della generazione che è venuta dopo la mia era di rifondare la Repubblica, ma questo compito non è stato assolto. Siamo corresponsabili di questo casino: noi non siamo innocenti» . Chiude Massimo D’Alema: «È vero, non ce l’abbiamo fatta, siamo stati sconfitti» . Ma il germe di questa sconfitta è tutto dentro le parole di Occhetto: «La svolta è stato il mio ultimo atto d’amore per il Partito comunista» . È questo lo sbaglio, sottolinea Emanuele Macaluso. È questo lo sbaglio, ripetono i tanti che stanno nel Pd, ma che non vengono dalla storia del Pci. Ed è forse proprio questo che spiega l’elogio che, per la prima volta, D’Alema fa di Occhetto. Alla fine prevale la difesa delle comuni radici, traslocate di partito in partito. «La sua svolta ha condizionato la nostra storia, ha aperto alla sinistra la strada del governo: Occhetto rimane un grande protagonista della storia del Paese, lui è un uomo che ha avuto un coraggio di una portata straordinaria» . D’Alema dixit. Ma c’è dell’altro in quella storia del Pci che si uccide, o che muta la forma. Lì è già in germe la dialettica D’Alema-Veltroni, che dal Pci trasmigra al Pds, per continuare nei Ds, e, infine, nel Pd. Già, perché in questa trasmissione dove D’Alema rende omaggio ad Occhetto, Occhetto abbatte un mito che fu del Pci: non era il presidente del Copasir il predestinato alla segreteria. L’allora leader della Quercia lo racconta con voce piana, ricordando il colloquio tra lui e D’Alema subito dopo la morte di Berlinguer. Macaluso, all’epoca, lo battezzò il patto del garage. Ma da come lo ricordano i due, ossia D’Alema e Occhetto, patto non ci fu. Il secondo dice che è stato «Massimo» ad offrirgli la leadership, il primo sostiene che è stato Occhetto ad autocandidarsi. Dopo Berlinguer fu Natta e nessuno può smentire o avvalorare una delle due versioni. Ma— e si ritorna, inesorabilmente, al Pd — la storia del garage, da qualunque parte la si prenda, conferma una tesi cara a Veltroni: «Non era D’Alema il segretario designato da Enrico Berlinguer» . E lo scontro è sempre tra gli stessi protagonisti: D’Alema e Veltroni. L’uno, l’ex sindaco di Roma, preoccupato di non apparire come lo sfasciacarrozze del Partito democratico, l’altro, il presidente del Copasir, tutto teso a dimostrare che tra il Pd e il Pci, oltre il mutamento di nome, ben poco è cambiato. Siamo all’oggi, a quel che nella trasmissione di Minoli non c’è, ma si indovina, ed è appunto l’eterno duello che dal Pci è trasmigrato nel Pd. Occhetto, questa volta, non c’entra, però nel filmato racconta la sua verità: «Massimo aveva la tendenza a frenare ogni apertura» . E D’Alema ammette: «Ero più conservatore» . Lo è anche adesso, secondo Veltroni, perché insegue Casini: «Massimo, come Trapattoni, ha sempre lo stesso schema: Dc +Pci. Ma la verità è che Casini non verrà mai con il centrosinistra e noi dobbiamo pensare a fare del Pd un partito di governo» . La versione di D’Alema, ovviamente, è diversa: «Il Pd non si esaurisce in titoli di giornali e frasi ad effetto. Se sollecitiamo Casini, alla fine lui non potrà dirci di no, a meno che non voglia apparire come quello che favorisce Berlusconi» . E la guerra continua, nel Pds come nel Pd.

il Riformista 3.2.11
Rileggere la storia del Pci per una sinistra di governo
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/48080821

Corriere della Sera 3.2.11
«Le donne e il testimone che non è stato passato»
Vegetti Finzi: le figlie non ci seguivano, ora le trovo accanto. Avallone: noi indipendenti ma disorientate
di Daniela Monti

«Non avete voluto seguirci. Pensavate di essere al sicuro, poi vi siete accorte che, al primo figlio, il vostro posto di lavoro traballa, la carriera si ferma» . «E voi? Ubriache del "tutto è possibile", della "creatività al potere", siete diventate madri e padri in difetto di responsabilità, vi siete separati, avete messo in ombra la professione» . «Le più generose fra noi si sono buttate senza calcolare i costi personali e familiari...» . «Il risultato è che siamo una generazione senza orizzonti precostituiti e dobbiamo inventarceli noi, partendo da un presente avvitato su se stesso. E intanto intorno le fabbriche chiudono, le ricerche non vengono finanziate...» . È anche nostra la colpa? Nostra di donne, nostra di uomini: la questione riguarda tutti. Ma qui sono le donne a parlare. Allora, è anche nostra la colpa? Intendendo per «colpa» quello che Anna Bravo, citando Jean Amery, scrive sul sito donnealtri. it: non un’ipotetica colpa generica ma la somma delle azioni e omissioni che hanno contribuito al collasso della morale pubblica nel nostro Paese, a ingessare la società togliendo fiato (e lavoro) ai giovani, al riemergere di modelli svilenti di rapporto fra i sessi, con il dubbio che possano essere più radicati di quanto si abbia il coraggio di ammettere. «Le discriminazioni nei luoghi di lavoro e la riproposizione di vecchi stereotipi femminili mi lasciano interdetta perché non riesco a non vederli come retaggi violenti di un passato che non ha più ragione di essere — dice Silvia Avallone, 26 anni —. Il punto critico è lo discrepanza tra la nozione libera che io e le mie coetanee abbiamo di noi stesse e la possibilità di esercitarla concretamente» . A discutere con lei c’è Silvia Vegetti Finzi, 72. Due Silvie scrittrici e un’attualità che entrambe vorrebbero diversa. Voci di due generazioni che hanno smesso di parlarsi e che provano a riannodare il dialogo. Vegetti Finzi: «Sabato scorso, alla manifestazione in piazza della Scala a Milano, dedicata a Un’altra storia italiana è possibile, una ragazza di cinquant’anni, buttandomi la braccia al collo, ha esclamato: "Anche lei qui!". Avrei potuto dire altrettanto di lei. Per anni noi femministe abbiamo aspettato che le figlie ci seguissero nei cortei, partecipassero alle riunioni, scrivessero sui nostri giornali, ma erano presenze improvvise, sussultorie, inconcludenti. Non siamo riuscite a passare il testimone, questa è stata forse la nostra "colpa", se di colpa si può parlare: ma non credo. I movimenti sono per loro natura ingovernabili e come nascono si dissolvono; i più ottimisti dicono che le loro radici rispunteranno più tardi e più in là. Forse è vero» . Avallone: «La vostra generazione ci ha lasciato molto più di un testimone: una condizione nuova da cui partire. Ciò che è andato perduto è l’orizzonte: quello ampio, collettivo, del rinnovamento generale. Abbiamo dovuto rinunciare all’astratto per l’urgenza del concreto: il mondo reale che abbiamo ricevuto in eredità, a fronte delle idee di emancipazione ed eguaglianza, fa acqua da tutte le parti. La disoccupazione giovanile sfiora il 30%e dai mass media non passano tanto analisi e soluzioni, quanto l’invito alla distrazione. Un bombardamento di immagini spesso fasulle in luogo delle storie e dei contenuti» . Quale vita immaginavate per le vostre figlie, Vegetti Finzi: questa? «Negli anni Settanta l’interesse delle donne "realizzate"si concentrava sull’inconsapevole complicità con il potere maschile, sulla necessità di "partire da sé"e di guardare il mondo con uno sguardo femminile. Ma le giovani, forti della raggiunta emancipazione, non ci hanno seguite, non ne sentivano il bisogno. Rispetto ai coetanei erano migliori a scuola, si laureavano in maggior numero e prima, i genitori le educavano come i fratelli, e alcune scalavano professioni ritenute tradizionalmente maschili. Non sapevano che quei diritti sono stati conquistati con dure battaglie politiche e che potevano essere facilmente perduti» . Avallone: «Ma le mie coetanee non ignorano lo sforzo, il sacrificio, e i costi che stanno dietro a diritti che oggi diamo per acquisiti. Non possono ignorarlo perché quei diritti, nella loro effettiva concretezza, vacillano» . Che cosa è rimasto nella vostra generazione, Avallone, dell’esperienza delle vostre madri? «Sono cresciuta dando per scontato di avere le stesse opportunità di chiunque altro, e con la ferma convinzione che l’istruzione e poi il lavoro costituissero l’unica strada per costruirmi un’identità solida. Mia madre non mi ha mai detto: devi sposarti e avere dei figli per diventare adulta. Mi ha ripetuto, invece, che dovevo studiare e trovarmi un’occupazione che mi rendesse indipendente. Questa parola, “ indipendenza”, mi è sempre stata detta con un tono particolare, il tono di ciò che è veramente importante. Non ho mai sentito, sulla mia pelle, un difetto di libertà» . Come rimettere insieme i pezzi? Silvia Avallone: «Per me la "questione femminile"non va più posta nei termini teorici di "cosa le donne potrebbero diventare"e di "quali spazi tradizionalmente maschili le donne possono occupare"perché le conquiste del passato hanno già dimostrato che una donna non ha un limite nel suo potenziale. Una nuova questione femminile si pone nella realtà della prassi, nella concretezza di un licenziamento che piove su una lavoratrice incinta. È la distanza tra le conquiste della coscienza e le condizioni reali a dover destare allarme» . Vegetti Finzi: «Ora vedo sempre più donne incontrarsi in Rete e in loro scorgo le tracce del movimento in cui ho creduto, sento riemergere parole che sembravano perdute. Escono dal privato per dire "noi"e costruire, senza volerlo e talora senza saperlo, un nuovo "soggetto donna"» . Avallone: «Però io quando penso a un "noi"non penso soltanto alle donne della mia generazione, ma anche agli uomini che vedo ugualmente avviliti e indignati di fronte alle stesse discriminazioni. Non si è mai creata una divisione dei compiti. C’è, semmai, una frattura profonda con quelli che dovrebbero essere i nostri esempi: vedere una donna che riceve un diverso salario rispetto a un collega di sesso maschile, o ancora prendere atto dell’uso spregiudicato con cui l’immagine della donna passa in televisione, risulta inammissibile anche per i miei coetanei uomini. Queste prassi, che la mia generazione non ha inaugurato, non le percepiamo affatto come "normali"a fronte di una parità tra i sessi che invece nessuno di noi metterebbe mai in discussione. Tocca a noi, allora, rendere efficace una conquista del passato contro una prassi discriminatoria che continua imperterrita, anch’essa dal passato. Per fare questo, dobbiamo anzitutto poterci inserire a pieno nel tessuto produttivo e culturale. Cosa non semplicissima visti i blocchi delle assunzioni, e la farraginosità dei turn over» . Vegetti Finzi: «Come abbiamo potuto arrivare a questo punto? È mancato il ricambio generazionale, le giovani si sono staccate dalla generazione precedente quando hanno constato l’infelicità delle loro mamme. Molte hanno tentato una strada diversa — il lavoro, la cultura, la competizione, il successo — ma per definizione primeggiare non è da tutti. E per uno che vince molti perdono. Ripensare parole collettive, come la sorellanza e l’affidamento tra donne, la solidarietà, il gruppo, il sentimento di appartenenza, mi sembra una prospettiva più sicura. Gli uomini non sono necessariamente i nostri peggiori nemici, ma in tempi di crisi possono anche diventarlo» .

l’Unità 3.2.11
I cablo dell’ambasciata Usa in Libia chiamano in causa i militari della Marina
Il direttore dell’Alto commissariato per i rifugiati critica l’ambasciatore italiano a Tripoli
Wikileaks, accuse all’Italia «Eritrei respinti e picchiati»
Dalle carte segrete svelate dal sito di Assange nuovi sconcertanti dettagli. Un gruppo di eritrei intercettato il primo luglio 2009 a 33 miglia da Lampedusa è stato picchiato dai militari italiani: «Almeno sei feriti».
di Gabriele Del Grande


Eritrei pestati dai militari della marina italiana durante i respingimenti in Libia e l'ambasciatore italiano a Tripoli che fa finta di niente e si nega alle pressanti richieste dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite. Emergono altri sconcertanti dettagli nei cable dell'ambasciata americana in Libia diffusi in rete da Wikileaks.
CARTE RISERVATE
In particolare in un documento riservato, datato 5 agosto 2009. L'ambasciatore americano Gene Cretz ha appena incontrato il direttore dell'Alto commissariato dei rifugiati a Tripoli, l'iraqeno Mohamed Alwash, in piena stagione di respingimenti. Oggetto della riunione è la definizione di un piano di accoglienza negli Stati Uniti di un gruppo di rifugiati politici eritrei respinti dall'Italia e detenuti a Misratah. Ma ben presto la discussione si sposta su altro. Alwash è una persona moderata. Ma ci sono due cose che proprio non gli sono andate giù. La prima è il pestaggio degli eritrei respinti dalla Marina militare italiana il primo luglio. La seconda è l'ostruzionismo dell'ambasciatore italiano a Tripol, Francesco Trupiano.
È il primo luglio 2009. A 33 miglia a sud di Lampedusa viene intercettata una imbarcazione con 89 passeggeri a bordo, tra cui 75 eritrei (comprese 9 donne e tre bambini). Racconta Alwash all'ambasciatore americano: «Quando l'imbarcazione è stata intercettata, tre degli eritrei hanno chiesto di parlare con il comandante della nave italiana per informarlo del loro status di rifugiato. Diversi passeggeri hanno mostrato al comandante i loro attestati rilasciati dagli uffici dell'Alto commissariato dei rifugiati delle Nazioni Unite». Ma il comandante è intransigente. Dice che c'è un «ordine tassativo del governo italiano di riportare i migranti in Libia», e quindi ordina a tutti di salire sulla nave italiana diretta verso la Libia. Al rifiuto degli eritrei, i militari italiani passano alle maniere forti. Alwash riferisce di «scontri fisici tra i migranti e l'equipaggio italiano che si concludono con alcuni degli africani picchiati dagli italiani con bastoni di plastica e di metallo». Il bilancio degli scontri è di «almeno sei feriti». Alcuni dei passeggeri «filmano l'incidente con il proprio cellu-
lare, e a quel punto l'equipaggio italiano decide di confiscare tutti i telefoni cellulari, i documenti e gli oggetti personali, che non sono ancora stati restituiti». Al rifiuto delle autorità libiche di inviare una propria motovedetta per il trasbordo, gli eritrei sono «consegnati a una piattaforma petrolifera dell'Eni al largo delle coste della Libia», quella di Bahr Essalam, da dove poi vengono portati a terra e detenuti. Dopo due giorni di insistenti richieste, gli operatori delle Nazioni Unite ottengono l'autorizzazione a incontrare il gruppo dei respinti. Le 9 donne e i 3 bambini si trovano nel campo di Zawiyah. Tra loro c'è «una donna incinta con urgente bisogno di cure mediche». A Zuwarah invece incontrano gli uomini. Sei di loro hanno ancora i punti di sutura sulla testa e sul viso.
Alwash sollecita il governo italiano, ma non arrivano risposte. Agli americani confida di ritenere che «il governo italiano faccia intenzionalmente ostruzionismo alle Nazioni Unite». In particolar modo nella figura dell'ambasciatore italiano a Tripoli, Francesco Trupiano. Alwash dice che «Trupiano si rifiuta di incontrarsi con l'Unhcr» e che ha saputo che Trupiano dice di lui che è soltanto un «piantagrane». Trupiano, dice Alwash, è concentrato soltanto sui respingimenti e dice addirittura di non sapere niente di un iniziale accordo tra Nazioni Unite e governo italiano per riportare in Italia una ventina dei 93 titolari di asilo politico che le Nazioni Unite hanno identificato tra i respinti in Libia. Tutti elementi che lo portano a concludere che «l'accordo di cooperazione tra Italia e Libia per respingere i migranti intercettati nel Mediterraneo verso la Libia, stia violando i diritti umani dei migranti e mettendo in pericolo i richiedenti asilo». Un altro documento, dopo il cable di ieri, che raccomandiamo di utilizzare agli avvocati dei due processi ancora in piedi contro i respingimenti, nella speranza che sebbene a due anni di distanza dai fatti, si possa ristabilire la ragione del diritto sopra la ragione politica.

Repubblica 3.2.11
Addio "tovarish" la Russia abroga la parola compagno
di Nicola Lombardozzi


Il termine "tovarish" voluto da Lenin era ancora in uso per i poliziotti Ora, con la riforma dei Servizi, gli agenti diventano "signori"

Mosca. Addio compagno. La Russia cancella dal suo vocabolario il termine tovarish, la parola più pronunciata per quasi 80 anni nel paese più grande del mondo. Così aveva deciso il compagno Lenin subito dopo la rivoluzione e così si fece indistintamente fino al crollo dell´Urss nonostante le riforme del compagno Gorbaciov, che si lasciò perfino celebrare all´estero con la canzone «Tovarish Gorbaciov».
Tutti erano tovarish. Dal segretario del Partito al ragazzo che spala la neve dai marciapiedi, il compagno recluta e il compagno generale, compagni studenti agli ordini del compagno professore. Con la fine del comunismo la parola era scomparsa dal linguaggio ufficiale ma, per uno di quei meccanismi psicologici difficili da spiegare, era pur sempre rimasta nell´uso comune. Limitata però a una sfera particolare. Rimaneva il modo più abituale per rivolgersi agli agenti e ai funzionari di polizia. Adesso, per legge, sparirà anche da questa piccola nicchia. La riforma della polizia, varata ieri dalla Duma, prevede infatti esplicitamente che gli agenti vengano chiamati come tutti gli altri lavoratori con l´appellativo gospodin, signore.
Furiose le polemiche. Tra i comunisti, che sono i soli a usare ancora tovarish tra di loro. Ma anche tra molti che ritengono il termine signore troppo rispettoso e sottomesso per usarlo con un poliziotto.
La stessa riforma della polizia è in realtà un´operazione simbolica, anche se molto costosa. Alla ricerca di un antidoto alla corruzione che corrode storicamente tutto l´apparato, il governo Putin ha pensato intanto di cambiarne il nome. Da oggi si chiamerà finalmente Polizia e rinuncerà all´antica denominazione rivoluzionaria di Milizia. Un termine voluto, anche questo, da Lenin per evocare la matrice popolare e volontaria delle prime ronde per la sicurezza. Il cambio, che comporterà modifiche a milioni di insegne, targhe, scritte sulle auto, mostrine, dovrebbe, secondo il governo, «contribuire a dare un´immagine più efficace e moderna e ispirare la creazione di una nuova generazione più limpida e solerte di agenti».
La parola Milizia, da tempo associata a immagini di violenza e prevaricazione, non lascerà molti rimpianti. Diverso il discorso per tovarish che ha ormai quasi un valore letterario. Lenin voleva imporre il concetto di una uguaglianza assoluta. Prima dell´abolizione della servitù della gleba, 140 anni fa, i signori si rivolgevano al resto del mondo direttamente con il nome, o più spesso con appellativi vari. «Contadino, fai questo», oppure «Vecchio, fai passare». Nella prima Costituzione, concessa dopo la Rivoluzione del 1906, lo Zar cercò di imporre l´appellativo di signore per tutti, con risultati risibili e perfino con il rifiuto sprezzante dei nobili di Corte. Ecco perché l´invenzione di tovarish attecchì subito. Poter pronunciare "Compagno dottore", "Compagno avvocato" o addirittura "Compagno Stalin" equivaleva per molti a un riscatto secolare. Con le inevitabili degenerazioni. «Calma compagni - scriveva Majakovskij - lasciamo parlare il compagno mitragliatore».

«Sotto la guida di Orietta Verdi e Michele Di Sivo si sono messi a compulsare i manoscritti (molti dei quali saranno esposti nella mostra “Caravaggio a Roma: una vita dal vero”»
Corriere della Sera 3.2.11
Caravaggio, le carte salvate dai giovani
Gli interrogatori in carcere, la scoperta dell’identità della modella
di Lauretta Colonnelli


C omincia tutto con la storia di un «ferraiolo» nero, un mantello senza maniche di moda tra i gentiluomini alla fine del ’ 500. Seguendo questa storia, e scavando nei sessanta chilometri di scaffalature dell’Archivio di Stato di Roma, sette giovani ricercatori hanno ritrovato i documenti inediti che costringeranno gli studiosi a riscrivere la biografia di Caravaggio e a rivedere alcune datazioni dei suoi quadri. Esattamente un anno fa, mentre alle Scuderie del Quirinale si inaugurava la fortunata mostra su Michelangelo Merisi, a Eugenio Lo Sardo, direttore dell’Archivio, venne l’idea di dar vita a una nuova esposizione sull’artista, per far conoscere i ponderosi volumi finora consultati solo dagli esperti e contenenti gli atti processuali che raccontano le risse e le altre vicende giudiziarie dell’artista lombardo nella città dei papi. Ma quando Lo Sardo va ad aprire i fascicoli rilegati in pergamena, è preso dalla disperazione: le carte sono corrose dall’acidità dell’inchiostro e in alcuni casi si vanno sbriciolando, con il rischio di perderle per sempre. L’allarme è lanciato sul «Sole24Ore» : «Ci sono trenta libri da salvare e servono duemila euro a libro. Chi può mi aiuti» . Nei giorni successivi cominciano ad arrivare le offerte. Sia da importanti società come Arcus, la Federazione italiana tabaccai, la Land Rover Italia, la Eberhard, l’Istituto per il credito sportivo, la Fondazione credito bergamasco. Sia da privati cittadini, come Raffaele Schioppo, titolare di un’agenzia di assicurazioni a Frosinone, che ha contribuito al restauro delle carte giudiziarie contenenti le notizie dell’omicidio di Ranuccio Tomassoni da parte del Merisi nel 1606. O come Giovanni Pezzola, 86 anni, ex professore di latino e greco che ha salvato il registro in cui è annotata la leggendaria rissa scoppiata tra Caravaggio e il garzone di un’osteria vicino al Pantheon. O come Gianni Canuto, proprietario di un’impresa di autoservizi a Moncalieri, che è venuto di persona a Roma con la sua offerta e di fronte agli antichi documenti si è commosso. «Alla fine— dice Lo Sardo— abbiamo raccolto circa duecentomila euro, tre volte la cifra richiesta. Perciò abbiamo pensato di assumere sette ricercatori a contratto per rivedere tutto il corpus caravaggesco romano e farne una nuova trascrizione. Inoltre abbiamo potuto acquistare le bacheche da sistemare nella Sala Alessandrina, dove verrà allestita la mostra. E pagato un po’ di arretrati, come le bollette della luce» . Sono arrivati Federica Papi e Francesca Curti, Antonella Cesarini e Daniela Soggiu, Orsetta Baroncelli, Patrizio Scopino e Daniele Balduzzi. Sotto la guida di Orietta Verdi e Michele Di Sivo si sono messi a compulsare i manoscritti (molti dei quali saranno esposti nella mostra «Caravaggio a Roma: una vita dal vero» , dall’ 11 febbraio al 15 maggio a Sant’Ivo della Sapienza). Partendo da quelli già noti, come il documento che riporta la storia del «ferraiolo» . L’episodio risale alla sera di martedì 8 luglio 1597. Reso noto da Maurizio Marini e da monsignor Sandro Corradini una decina di anni fa, era stato interpretato in questo modo: un certo Pietropaolo, garzone di un barbiere con bottega a S. Agostino, era stato aggredito in via della Scrofa e poi incarcerato per reticenza sull’identità dell’aggressore. Sul luogo dell’assalto, Caravaggio aveva trovato un «ferraiolo» , perso durante la colluttazione e lo aveva restituito al garzone, il quale però nega di esserne il proprietario e viene incarcerato. Episodio abbastanza oscuro. Cesarini e Curti, guardando il documento, si accorgono che c’è un rimando alla carta 182 e lì trovano il bandolo. Ovvero l’origine della querela, che non era partita da Pietropaolo ma da un musico, Angelo Zanconi, vera vittima dell’assalto e proprietario del «ferraiolo» . L’interrogatorio del garzone si interrompe alla prima frase. Ma le ricercatrici indagano tra i libri degli interrogatori in carcere. E trovano il seguito. Pietropaolo Pellegrini, milanese di origine, racconta tutto. È vero che non sa trovare il pittore che gli ha riportato il «ferraiolo» , ma può dirne il nome: «Micchalangelo pittore» e lavora nella bottega di mastro Lorenzo, morto durante la Quaresima. Michelangelo parla «alla lombarda» , ha circa 28 anni, di giusta statura, robusto più che grasso, dal colorito olivastro, con la barba scura e rada, veste di nero, con delle «calzette negre un poco stracciate» , un cappello di feltro e l’abito «di mezza rascia negra» . Testimonianza importante, che permette di posticipare l’arrivo a Roma di Caravaggio all’età di oltre 25 anni e non di 19 o 22 come si pensava prima. Un’altra scoperta rivelata da questi documenti è la figura del pittore siciliano Lorenzo Carli, con il quale Caravaggio collaborò e la cui giovane moglie Faustina potrebbe aver fatto da modella per i quadri di Santa Caterina e di Giuditta e Oloferne. Un altro filone di ricerca, seguito da Daniela Soggiu, riguarda il celebre episodio della casa presa in affitto, nella quale Caravaggio avrebbe aperto una parte del tetto per far piovere luce dall’alto. Da lì si era sviluppata una serie di ipotesi sulla sua tecnica del chiaroscuro. Ora la scoperta del contratto notarile rimette tutto in gioco, perché già nel contratto il Merisi chiede di intervenire demolendo, non il tetto, ma una parte del soffitto, che separava la sala dove dipingeva da un locale soprastante. Quindi il lavoro fu fatto semplicemente per far entrare nella stanza, alta solo tre metri, le grandi tele che stava dipingendo in quel momento. Ma intorno a questi ritrovamenti principali se ne dipanano altri, «materiali su cui il ricercatore può costruire nuove ipotesi e nuove indagini» , confermano gli studiosi caravaggeschi Claudio Strinati e Alessandro Zuccari.

l’Unità 3.2.11
Kepler 11. Sono pianeti che orbitano intorno alla stessa stella. Di questi, 5 sono piccoli come la Terra
Una conferma dell’intuizione di Giordano Bruno che l’universo è fatto da infiniti sistemi
Scoperti sei nuovi mondi e assomigliano al nostro
Il telescopio Kepler della Nasa ha scoperto a 2.000 anni luce da noi un sistema planetario simile al nostro: orbita intorno a una stella simile al Sole ed è composto da sei pianeti grandi più o meno come la Terra

di Pietro Greco

C’è un sistema planetario con cinque «piccole terre» che orbitano intorno alla stella Kepler-11, laggiù a 2.000 anni luce di distanza da noi. Lo afferma un team del telescopio spaziale Kepler in un articolo pubblicato oggi dalla rivista Nature. La scoperta si è meritata, a ragione, la copertina della rivista scientifica inglese. Per svariati motivi.
In primo luogo perché è il più grande sistema planetario extra-solare finora rilevato. Orbita intorno a una stella del tutto simile al Sole, battezzata Kepler-11 dal team di ricercatori, ed è composto da ben sei pianeti.
Inoltre uno solo di questi pianeti ha una massa non ancora ben determinata, ma gli altri cinque hanno una massa compresa tra 2,3 e 13,5 masse terrestri. Insomma, sono solo un po’ più grandi della Terra. Dal 1992 a oggi, da quando cioè gli astronomi sono riusciti a individuare pianeti intorno a stelle diversa dal Sole, sono stati catalogati oltre 520 esopianeti. Per la gran parte si tratta di pianeti giganti, grandi come Giove e più: ovvero con un massa di due o tre ordini superiore a quella terrestre. Solo raramente si è scoperto un pianeta di massa simile alla Terra. Kepler stesso aveva individuato poco tempo fa un sistema planetario costituito da cinque pianeti giganti. Ora, però, Kepler ha scoperto addirittura cinque pianeti piccoli come la Terra e tutti orbitanti intorno alla medesima stella. Bel colpo, non c’è che dire, per il telescopio mandato nello spazio dalla Nasa nel 2009 con questa specifica missione: trovare oggetti della stessa specie e della stessa grandezza della Terra.
Poco importa che il sistema è instabile. Il team di ricercatori, infatti, ha rilevato che i cinque pianeti di grandezza paragonabile alla Terra hanno un periodo orbitale piuttosto breve, compreso tra 10 e 47 giorni; la loro orbita è molto vicina a quella della loro stella (la distanza è all’incirca come quella di Mercurio); sono molto vicini tra loro e, inoltre, viaggiano nel bel mezzo di una nube di gas, polvere e forse di oggetti più grandi. Un sistema così non è stabile. Ha un comportamento caotico e certamente è destinato a cambiare nel tempo.
Certo la scoperta non convince del tutto tutti. La fotometria di transito, utilizzata per rilevare la presenza di pianeti così lontani, è una tecnica molto delicata e molto nuova. Si basa su un principio chiaro: quando un pianeta transita davanti alla sua stella (ovvero si interpone tra noi e la stella) assorbe una parte della luce emessa. E questo assorbimento è proporzionale al suo raggio. La sua grandezza può dunque essere dedotta dalla quantità di luce assorbita. E la frequenza del transito è proporzionale al suo periodo orbitale e alla distanza dalla stella. Le misure di fotometria sono semplici. Ma le distanze sono enormi. La luce in gioco è pochissima. Errori sono sempre possibili. Tuttavia, al di là delle sue performance, le implicazioni delle scoperte del telescopio Kepler sono notevoli. Per due motivi. È la conferma di quel «principio di mediocrità» che portava il filosofo Giordano Bruno a sostenere, più di quattrocento anni fa e prima che fosse messo a punto qualsiasi telescopio, che l’universo è fatto da infiniti mondi e, dunque, da infiniti oggetti «della stessa specie» della Terra. Il telescopio Kepler ce ne ha dato una conferma.
Il secondo motivo è che gli ultimi venti anni di osservazioni hanno dimostrato che ci sono i sistemi planetari i più diversi. Non tutti previsti dalle teorie. E che, dunque, anche per i pianeti valeva la felice intuizione di un altro grande del XVI secolo, William Shakespeare, quando fa dire ad Amleto: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quanto ne sogni la tua filosofia».

l’Unità 3.2.11
Margherita Hack: «C’è vita nell’universo. Ma è difficile trovarla»
L’astrofisica: «Si tratta di una scoperta importante perché dimostra che esistono miliardi di pianeti “abitabili” con condizioni molto simili alla nostra»


Margherita Hack, come giudica quest’ultima scoperta del telescopio spaziale Kepler?
«La giudico una scoperta davvero di grande rilievo. Perché certo ormai siamo quasi abituati a scoperte di pianeti extrasolari. Negli ultimi anni ne abbiamo rilevati tantissimi. Ma questa volta è stato scoperto un intero sistema planetario. Per di più costituito da diversi pianeti di grandezza paragonabile a quella della Terra. Finora erano stati scoperti quasi solo pianeti giganti. In genere gassosi e dunque molto diversi dalla Terra. Ora sono stati scoperti cinque pianeti simili alla Terra e per di più intorno a un pianeta simile al nostro Sole».
Perché questi dettagli sono importanti? «Beh, al di là delle performance tecniche necessarie per rilevarli significa che nell’universo non ci sono solo miliardi di pianeti, ma miliardi di pianeti “abitabili”. E questo ha una profonda implicazione per l’esistenza di altra vita nell’universo». Questi pianeti, tuttavia, sono molto vicini alla loro stella.
«Sì, in questo caso i pianeti orbitano a distanze molto ravvicinate alla loro stella e quindi sono caldissimi. Questo li rende di fatto inospitali. Ma il fatto che esistano e ne esistano in gran numero con questa grandezza ci induce a credere che in giro nella galassia e nell’universo ve ne siano anche a distanza “giusta”, in “un’area di abitabilità”».
Ma basta la presenza di pianeti “abitabili” per affermare che c’è altra vita nell’universo? «Certo la scienza ci dice che solo una prova empirica può darci la certezza. Ma io e molti altri studiosi siamo convinti che la vita nasca ovunque vi siano le condizioni. Ecco, Kepler ha dimostrato che le condizioni per la presenza di vita simile alla nostra nell’universo ci sono».
Non sarà facile trovare una prova empirica di esistenza di vita, però. «Infatti io penso che quella prova non l’avremo mai. Le distanze tra le stelle sono troppo grandi. La stella Kepler-11 dista 2.000 anni luce da noi. Il che significa che il telescopio Kepler ha visto ciò che accedeva 2.000 anni fa, al tempo dei Romani. Immagini che lì ci sia vita intelligente e capace di dialogare con noi – cosa niente affatto scontata. Se oggi noi ponessimo loro una domanda, dovremmo attendere 4.000 anni per sapere cosa ci hanno risposto. In definitiva possiamo dire che la vita certamente c’è nell’universo. Ma difficilmente la troveremo. Almeno con le conoscenze e le tecnologie attuali». PI.GRE

il Fatto 3.2.11
Teatro
“I pugni in tasca”, la scommessa di Ambra e Bellocchio


La curiosità, andando a vedere la versione teatrale de I pugni in tasca, è almeno tripla. Riusciranno la regista, Stefania De Santis, lo scenografo Daniele Spisa e i sei attori a rivitalizzare su un palcoscenico lo spirito e la lettera di un vecchio e glorioso film sperimentale, come l’opera prima di Marco Bellocchio, datata 1965? Come si muoverà Ambra Angiolini, coprotagonista assieme al bravissimo Piergiorgio Bellocchio, nella parte davvero feroce di Giulia? E come verrà accolta quella trama, ai suoi tempi più che eversiva, dal pubblico di quasi mezzo secolo dopo? La prima curiosità l’abbiamo soddisfatta l’altra sera, alla “prima” romana al Teatro Quirino, pieno murato: l’operazione, per quanto ardua e quasi temeraria, è riuscita. La seconda anche: Ambra continua a trasformarsi in meglio, in un percorso artistico che ne coinvolge anche le forme fisiche, sempre più mature e consapevoli, e non fa rimpiangere Paola Pitagora, protagonista del film (lo stesso vale per Bellocchio jr, molto efficace nel ruolo che fu di Lou Castel). Alla terza domanda risponderà il botteghino nei prossimi mesi e la risposta non è affatto scontata, perché il testo è difficile, diciamo pure terribile, ma proprio per questo affascinante. Soprattutto se calato nell’Italia del 2011. Chi ha visto il film di Bellocchio, considerato profezia del Sessantotto alle porte, conosce la storia: una famiglia claustrofobica che si muove nella prigione delle mura domestiche. La madre cieca e bigotta, che vive di ricordi, ricamo e visite al cimitero. E i quattro figli: il minore, Leone, epilettico e ritardato mentale, dunque il personaggio più dolce e umano; il maggiore, Augusto, il più “normale” e integrato secondo i canoni della famiglia borghese, l’unico capace di relazionarsi con l’esterno al punto da uscire di tanto in tanto di casa, da avere una professione (è avvocato) e una fidanzata, ma ciononostante, o proprio per questo, mediocre, cinico, avido di denaro; la ragazza Giulia, vivace e imprigionata dal rapporto morboso con il quarto fratello, Alessandro, il vero protagonista, incapace di guardare al di là del proprio ombelico, padrone di tutto e di tutti ma solo dentro le mura domestiche. Un bamboccione feroce, narciso, autoritario, possessivo, talmente posseduto dal demone della famiglia-malattia-manicomio da arrivare a distruggerla pezzo dopo pezzo. Uccide la madre e il fratello matto (e dunque “inutile”), poi si abbandona all’incesto con la sorella. Difficile, quasi impossibile racchiudere questo vaso di Pandora di ombre nere, fantasmi, delirii, sentimenti, ossessioni e umori (amori no, il testo ne è volutamente privo), in pochi metri quadri di palcoscenico. Eppure la De Santis, con l’aiuto di una scenografia labirintica e alchemica (lo scrittoio di Augusto si trasforma nella bara per i funerali della madre e di Leone) e con la scelta di un cast tutto di ottimo livello (oltre ad Ambra e a Bellocchio jr ci sono Giovanni Calcagno, Aglaia Mora, Fabrizio Rongione e Giulia Weber), ci è riuscita. Anche se gli attori dovranno risolvere alcune lentezze, forse dovute all'ansia della prima, che appesantiscono a tratti i dialoghi migliori. Tra le scene più incisive, Ambra-Giulia e Leone che ballano su un motivetto anni ‘60 e dipingono di rosso antiruggine un tavolino stile Luigi XVI, gli scherni di Ale sulla bara della mamma e il saccheggio liberatorio dei figli alla soffitta della vecchia morta. Le musiche di Ennio Morricone, già autore della colonna sonora del film, e le luci di Loic Hamelin sono perfette almeno come i costumi di Armani.
(m.trav.)

L’Ossevatore Romano 3.1.11
Nel volgare di Dante il segno dei Padri
di Enrico Dal Covolo


L'interpretazione spirituale delle Scritture - alquanto offuscata negli ultimi tre secoli dal metodo storico-critico - torna oggi a essere raccomandata con energia dal magistero della Chiesa, e in particolare da Benedetto XVI, che proprio sulla sostanziale unità dei due Testamenti fonda la proposta di un'esegesi "canonica", o meglio "teologica". Al riguardo, si può vedere ora l'Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini.
Ma prima della rivoluzione illuministica, quando appunto iniziò a prevalere il metodo storico-critico (benemerito, senza dubbio, ma in se stesso insufficiente), non c'era alcun dubbio: di fatto, alla scuola dei grandi Padri, l'interpretazione spirituale e cristologica rappresentò per tutto il medioevo la via privilegiata di accostamento alle Scritture.
Tuttavia questa interpretazione spirituale venne a declinarsi in modi assai vari, come vedremo appunto accostando in primo luogo il metodo della lectio divina, caratteristico dei Padri della Chiesa, e poi la lettura profetico-apocalittica di alcune correnti minoritarie, come i Gioachimiti, a cui la Commedia di Dante Alighieri si ispirò in maniera decisa.
Senza dubbio i Padri accostavano la Scrittura con il metodo della lectio divina. Giacché però su questa gravano ancor oggi pesanti equivoci, non possiamo limitarci a tale semplice risposta. Per uscire dagli equivoci, è necessario illustrare il metodo autentico della lectio. A tale scopo, ci lasceremo guidare dalla stessa dottrina dei Padri.
Dobbiamo riconoscere che il metodo della lectio è più antico dei nostri Padri. Di fatto, esso non è posteriore alla sacra Scrittura, perché lo si rintraccia già all'interno di essa. Valga per tutti l'episodio di Emmaus, alla fine del Vangelo di Luca. Il Signore risorto non è forse egli stesso l'autentico Maestro della lectio divina? 
Da parte loro, poi, i Padri greci non si stancarono di coltivare e di raccomandare quella che Origene chiama thèia anàgnosis (la "divina ricognizione" dei testi sacri), e che i Padri latini, a partire da sant'Ambrogio, chiamano lectio divina.
Dopo Ambrogio, il metodo della lectio in occidente rimane legato alle antiche Regole monastiche, finché incontra il suo definitivo "codificatore" in Guigo II, priore della Grande Certosa negli anni fra il 1174 e il 1180. Siamo ormai vicini all'età di Dante.
Guigo ci ha consegnato una presentazione organica della lectio divina nella celebre Lettera "all'amatissimo fratello suo Gervaso", intitolata anche La scala di Giacobbe. "Un giorno, occupato in un lavoro manuale - scrive appunto Guigo II - mi trovai a pensare all'attività spirituale dell'uomo". 
Dunque, proprio mentre sta eseguendo un'attività manuale, Guigo si rende conto che ogni manufatto, per riuscire soddisfacente, richiede tempi e ritmi precisi, o - più esattamente - esige una serie di operazioni scalari. Allora si domanda se per caso non succeda la stessa cosa anche per le attività dello spirito; e prosegue: "Si presentarono improvvisamente alla mia riflessione quattro gradini spirituali, ossia la lettura, la meditazione, la preghiera, la contemplazione. Questa è la scala che si eleva dalla terra al cielo, composta di pochi gradini, e tuttavia di immensa e incredibile altezza, la cui base è poggiata a terra, mentre la cima penetra le nubi, e scruta i segreti del cielo" (Lettera, 2).
Questa riflessione di Guigo ci permette finalmente di elencare, nel loro ordine, le quattro tappe fondamentali, che rappresentano la nervatura della lectio divina: la lectio, la meditatio, l'oratio e la contemplatio. Aggiungo solo una precisazione, a proposito di quest'ultima tappa, la contemplatio. Non voglio certo negare che - in linea di principio - la parola contemplatio alluda a una forma di preghiera piuttosto elevata. Ma in questo caso i nostri Padri non pensavano tanto alla preghiera (per questo c'era già l'oratio). Pensavano piuttosto al confronto "faccia a faccia" con quel Dio tutto carità, che impone di trasformare in carità la vita intera del credente. 
Che cos'è allora la vera contemplatio, nel contesto della lectio divina? È la conversione della vita, e non c'è alcun bisogno di inventare una quinta tappa - che sarebbe l'operatio - proprio perché l'operatio è già di per sé il contenuto autentico della contemplatio.
Conviene ricordare, a questo proposito, un passo della Deus caritas est di Benedetto XVI, là dove il Papa afferma, alludendo chiaramente al pio esercizio della lectio divina: "Nel confronto "faccia a faccia" con quel Dio che è Amore, il monaco avverte l'esigenza impellente di trasformare in servizio del prossimo, oltre che di Dio, tutta la propria vita" (n. 40).
Trascorriamo ora alla lettura profetico-apocalittica delle Scritture e alla Commedia di Dante Alighieri. Se Dante accolse Roma come nuova mèta del pellegrinaggio di ogni fedele, certamente egli non rinunciò a guardare all'ecumene, alla giustizia e alla pace universali, e dunque agli "stremi" del mondo, a cui si rivolgevano i vecchi pellegrinaggi. Tuttavia - con la sua adesione allo "spirito profetico" (Paradiso, 12, 141) di Gioachino da Fiore, nell'interpretazione che ne offrivano i Francescani spirituali - Dante spostò dalla dimensione "spaziale" a quella "temporale" il suo concetto di universalità, interpretando il Giubileo del 1300 come segno del futuro, luminoso svelamento della verità spirituale.
Questa concezione profetico-apocalittica - che attraversa l'interpretazione gioachimita delle Scritture, come pure l'opera dantesca - ha indotto la critica a correggere la definizione tradizionale della Commedia da "poema allegorico" a "poema figurale". 
Come ha dimostrato Auerbach, il modello a cui Dante si attiene non va ricercato né nelle rozze composizioni medievali delle visioni (come quelle di Giacomino da Verona, di Bonvesin da la Riva, di Uguccione da Lodi), né nei poemi allegorici (come il Roman de la Rose), ma nella Bibbia. 
Leggendola e interpretandola, Dante - come già i Padri della Chiesa - non lasciava nulla al mondo della fantasia o della finzione, e tutto inverava alla luce del Nuovo Testamento: nei fatti e nei personaggi dell'Antico Testamento, infatti, egli riconosceva altrettante figure di eventi futuri, carichi sì di più pieni significati, ma che non toglievano alcuna veridicità storica alle figure stesse.
Per spiegare con un esempio la duplice e distinta verità presente nella Commedia, lo stesso Dante nella lettera a Cangrande ricorse proprio alla Bibbia, richiamando l'evento del passaggio del Mar Rosso raccontato nel libro dell'Esodo: se è vero che la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù dell'Egitto - realizzatasi con il passaggio del Mar Rosso - prefigura la redenzione, cioè la liberazione definitiva celebrata dalla Pasqua cristiana, non per questo l'adempimento neotestamentario annulla la realtà storica dell'esodo dall'Egitto faraonico, alla quale invece tale adempimento assegna una pregnanza assai maggiore di quella che la moderna concezione scientifica della storia attribuisce ai fatti. 
Mentre infatti lo storico moderno considera i fatti storici come una successione continua di accadimenti, senza cercarvi il significato in un disegno complessivo che li inveri, l'interpretazione figurale di Dante suppone la conoscenza dei significati primi e ultimi della storia.
La Bibbia li illumina alla luce di quei "momenti forti" della storia della salvezza (la creazione, l'incarnazione, la redenzione, il giudizio finale), che al continuum degli accadimenti assegnano il loro pieno significato: così attraverso il metodo figurale Dante nella Commedia si assume il ruolo proprio degli agiografi biblici, che avevano scritto la storia umana interpretandola alla luce dei disegni di Dio. 
Nella Commedia questo proposito sembra contrastare con lo stesso titolo dell'opera, che allude sia alla "mediocrità" dello stile sia all'"evidenza" del vocabolario adottato dai "viaggiatori-cantastorie" dell'epoca; e invece anche sotto questo profilo la Commedia rivela la propria matrice nell'interpretazione spirituale delle Scritture. 
I Padri della Chiesa alla sublimità dei contenuti rivelati dalla Bibbia vedevano giustamente corrispondere quel sermo humilis - che poteva anche scandalizzare alcuni Dottori come Agostino e Girolamo, formati alla nobile retorica classica - ma che rispecchiava la Persona di Cristo, nel quale culmina la rivelazione biblica: umiltà e sublimità si incontrano paradossalmente in Cristo, che è sia l'ultimo degli uomini, sia il figlio di Dio intronizzato alla destra del Padre nel Giudizio escatologico.
L'inesausta dialettica tra lettera e spirito, presente nella Bibbia stessa e rilevata sempre dai suoi più grandi lettori (si pensi ancora una volta a Origene), attraversa l'intero poema di Dante, che da una parte cercava la pantera del Phisiologus al di sotto dei dialetti della penisola, e dall'altra ascoltava docilmente l'ispirazione del "dittatore divino", che attraverso Beatrice lo aveva incaricato di compiere il viaggio narrato nella Commedia. 
In questo senso egli aveva inseguito in un primo tempo lo stilus gravis adatto alle canzoni d'amore e al grande tema biblico di Deus caritas, e aveva cercato di avvicinare il suo "volgare aulico" alla lingua che lo stesso Creatore, che è Amore(1 Giovanni, 4, 16), doveva aver ispirato in principio ad Adamo ed Eva, perché "a sua immagine" (Genesi, 1, 27) cantassero il primo epitalamio della storia umana. 
Ma questa lingua divina conservata nell'ebraico dei più antichi libri della Bibbia - come il Poeta sosteneva nel De vulgari eloquentia - in realtà non è mai esistita, e dunque anche la lingua delle Scritture doveva essere ricondotta alla storicità e precarietà del linguaggio umano (è quello che Dante negli anni della composizione della Commedia vuole sentirsi dire dallo stesso Adamo, quando lo incontra nel cielo delle Stelle fisse: Paradiso, 26, 91-96). 
Eppure, se tale lingua divina non è più materialmente recuperabile dal passato, essa può essere ancora cercata nel futuro, lungo la via spirituale indicata dai gioachimiti: incarnato nella storicità del linguaggio, l'Amore divino può non solo ispirare la vera poesia, ma segnare in senso positivo l'evoluzione storica delle lingue, spingendole ad affratellarsi. 
In questo senso Dante può definire le tre lingue sorelle - quella italiana, quella francese e quella provenzale - in contrapposizione amorosa, e quindi divina, con le "rime petrose", adatte invece al "tristo buco sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce" (Inferno, 32, 2-3) del Cocito, nel cui ghiaccio è sequestrato l'Invidioso con il suo carico di odio inestinguibile. 
La scelta del volgare fiorentino, concepito come "lingua del sì", trovava dunque giustificazione nelle Sacre Scritture, e Dante poteva servirsene come nuovo Adamo per "ridare nome" ed evidenza a tutte le cose, a quelle del cielo e a quelle della terra, del Paradiso e dell'Inferno.
Si tratta di una novità rivoluzionaria anche all'interno della società cristiana, perché con la scelta del volgare - compiuta attraverso il richiamo alle lingue della Bibbia - Dante toglieva alla casta clericale quel latino che essa aveva adottato come esclusiva lingua del sacro cristiano, e consegnava la locutio vulgaris al popolo laico, in modo che anche gli uomini comuni e le donne potessero esserne partecipi. Con il volgare neo-latino applicato al sacro cristiano si annuncia quel realismo, che già nell'occidente cristiano - in contrasto con l'oriente bizantino - aveva trovato fioritura nelle arti figurative, dalla miniatura alla pittura, dalla scultura alla sacra rappresentazione, e che ebbe in Giotto, contemporaneo di Dante, l'espressione più alta.
Gli artisti posteriori videro nell'opera di Giotto un'autentica rivoluzione artistica, tanto che, alla fine del Trecento, un suo seguace, Cennino Cennini, scrisse che Giotto "convertì l'arte di greco (bizantino) in latino" (neo-latino). 
In tempi recenti si usò rubricare le opere letterarie e figurative, realizzate in questa svolta culminata in Dante e in Giotto, sotto la denominazione complessiva di biblia pauperum per la vasta accoglienza ricevuta in quelle fasce pauperistiche e spirituali del francescanesimo, che Dante frequentò assiduamente. Ancora una volta, l'interpretazione spirituale delle Scritture presiede al metodo patristico della lectio divina, come al poema figurale di Dante Alighieri.

Avvenire 2.1.11
Fa discutere l’accostamento di Elie Wiesel tra il genocidio degli ebrei e la sorte del popolo antico
Etruschi e Romani, fu una Shoah?
di Franco Cardini


Cardini: «Non fu affatto 'genocidio' ma pacifica assimilazione, durata secoli. A essere volontariamente annientati da Roma furono invece Galli e Cartaginesi»

H o letto le dichiarazioni dei Elie Wiesel riportate da 'Avvenire' il 25 gennaio 2011. Ammiro il Wiesel scrittore, ho simpatia per il Wiesel uomo e testimone delle sofferenze del suo popolo e del nostro tempo. Tuttavia, temo che dovremmo sul serio tornare con i piedi per terra: i piedi della verità storica, anche di quella che pochi oggi hanno le conoscenze e/o il coraggio necessari a presentare con chiarezza. Il 27 gennaio scorso ho fatto una cosa che non faccio mai: sono rimasto per ore incollato al piccolo schermo. Vi garantisco che su tutti i canali, tra telegiornali, film, fiction e dibattiti, di altro non si è parlato se non della Shoah. Non è certo stato un male. Ma ciò induce a osservare tre cose. Primo: se Wiesel teme che tale evento venga dimenticato, può rassicurarsi perché per il momento (e penso anche ai moltissimi ragazzi di tutta Europa che ogni anno vengono condotti ad Auschwitz in gite scolastiche a metà tra istruzione e pellegrinaggio) la memoria è ben viva. Secondo: se egli paventa la 'storicizzazione del nazismo', allora chiedo all’intellettuale colto e raffinato che cosa mai possiamo fare di un 'caso' storico tragico e terribile quanto si voglia, se non appunto storicizzarlo, vale a dire cercar di comprendere come possa essersi verificato (e 'comprendere' non vuol dire affatto 'giustificare'). Terzo: se il valore primario, umano e universale del ricordo della Shoah sta nel dovere della memoria, affinché quel ch’è accaduto non accada mai più (e non accada più non solo agli ebrei, ma a nessun popolo sulla faccia della terra), allora tale ricordo deve interpretare la tragedia toccata agli ebrei non tanto come 'unica' e imparagonabile ad altre, quanto come paradigmatica di tutte quelle accadute e che potrebbero accadere. E quelle accadute sono tante. Il paragone di Wiesel con i 'soli' Etruschi è sbagliato per due motivi. Primo. I Romani non commisero alcun genocidio, cioè non soppressero mai in massa il popolo etrusco; avrebbero potuto distruggere la cultura etrusca, commettere cioè un etnocidio: ma non fecero nemmeno quello, limitandosi semmai a un’assimilazione che cancellò cultura e memoria, non stirpi.
Secondo. Nella storia, di genocidi paragonati alla Shoah ce ne furono parecchi, per quanto di gran lunga meno documentati: ma Wiesel, evidentemente, preferisce non ricordare.
Primo. In realtà, nonostante la lingua latina sia di ceppo decisamente indoeuropeo e quella etrusca d’origine tuttora incerta (le polemiche continuano, le ipotesi si accumulano...), la 'cancellazione' dell’idioma – il quale peraltro sopravvisse fino al V secolo d.C. come 'lingua sacra', nei rituali magico-divinatori dell’etrusca disciplina – non corrispose affatto alla cancellazione demografica d’un intero popolo diffuso dalla Lombardia alla Campania e le vicende del quale sono strettamente legate a quelle dei Romani. Etruschi erano i 're di Roma' dell’ultima fase del periodo monarchico; etrusche, ancora in piena età imperiale, grandi famiglie aristocratiche come i Cecina e la gens cui apparteneva Mecenate, amico e consigliere di Augusto. Gli studi sul Dna nella media Toscana, nel Volterrano, hanno rivelato una realtà biologica ancora vitale che può esser fatta risalire agli Etruschi.
Consiglio il ricorso al pur discusso, ma importante, Dizionario della lingua etrusca di Massimo Pittau, docente emerito nell’Università di Sassari (Dessì 2005), che ha sistematicamente vagliato le fonti etrusche e alla luce del quale risulta evidente come l’abbandono dell’idioma etrusco si dovette principalmente a un fenomeno di assimilazione etrusco-romana che non ci sono motivi di ritenere condotto con metodi violenti e tantomeno genocidi, ma che fu piuttosto portato avanti attraverso tecniche di organizzazione istituzionale e di politica matrimoniale. A quel che sembra, i Romani furono semmai di gran lunga più decisi allo sterminio nei confronti dei Galli o dei Cartaginesi.
Secondo. Di alcuni tra i genocidi più terribili della storia non sappiamo nemmeno nulla: e sono forse quelli davvero perfettamente riusciti. Se non volgiamo ostinati le spalle al passato, se ne possono scorgere comunque le tracce: dalle gesta dei Gran Re achemenidi agli annali di Gengis Khan alle stesse genti 'cananee' di cui parla la Bibbia, fino alle genti balcaniche sterminate dai Bizantini nel X-XI secolo, ai Sassoni fatti sparire da Carlomagno, agli Slavi e ai Finni eliminati in massa dai cavalieri Teutonici tra XII e XV secolo. Ma, in tempi vicini e vicinissimi a noi, per 'civile' convenzione ricordiamo gli indios massacrati dai Conquistadores ma ci siamo dimenticati dei guanchos delle Canarie, degli indigeni brasiliani e argentini, dei nativi americani ('pellerossa') dei quali restano soltanto malinconici brandelli abbrutiti nelle 'riserve', dei tasmaniani e degli altri popoli dell’Oceania fatti letteralmente sparire dagli inglesi e degli olandesi, delle genti centroasiatiche 'deportate' (e in realtà eliminate) dai sovietici, degli armeni, degli zingari che condivisero la stessa Shoah, delle numerose 'pulizie etniche' balcaniche e africane dei giorni nostri. Molti di questi popoli furono massacrati in seguito a fredde, precise programmazioni.
Ma purtroppo nella storia i massacri che si ricordano sono troppo spesso soltanto quelli che 'servono', che si 'sbattono in prima pagina' magari per coprire altri delitti. Il Giorno della Memoria è nato per ricordare anzitutto la Shoah, ma anche per farne simbolo di tutte le vittime innocenti e dimenticate della storia: e, come uomini, di nessuna di esse possiamo autoassolverci; di tutte siamo corresponsabili. Wiesel paventa la sua 'normalizzazione', come se ciò fosse sinonimo di 'rimozione'. È vero il contrario.
Recuperare pienamente un fatto alla storia significa strapparlo non solo all’oblio, ma anche a una mitizzazione 'meta-storica' che rischierebbe davvero, quella sì, di venir un giorno contestata, tradita e cancellata. Dalla storia, signor Wiesel, nessuno può uscire. Mai.

L’Osservatore Romano 2.1.11
La mente, il cervello e la deriva nichilista
Se la morale è un fatto di neuroni
di Giorgio Israel


    Nella Monadologia Leibniz propone una confutazione della tesi che il pensiero sia generato dal cervello con la seguente metafora. Si immagini di essere ridotti alle dimensioni di un insetto piccolissimo rispetto al cervello o, equivalentemente, che il cervello sia un grandissimo locale rispetto al quale la nostra persona risulti molto piccola. Potremmo allora entrare nel cervello come in un gigantesco mulino meccanico. Potremmo esaminarne in dettaglio il funzionamento, studiarne gli ingranaggi, le ruote dentate, i movimenti. È evidente, osserva Leibniz, che per quanti sforzi si facciano non potremmo mai "vedere" un'idea, un pensiero, una sensazione. Insomma, il cervello, in quanto oggetto fisico, apparirebbe come una macchina, quanto si vuole complessa, ma i cui elementi costitutivi sono oggetti materiali e non pensieri o idee, che appartengono a una diversa sfera del reale.
    Questo genere di obiezioni è stato riproposto molte volte nel pensiero filosofico. Facendo riferimento a immagini tecnologiche più avanzate rispetto a quella che vede come prototipo della macchina l'orologio, Henri Bergson ha parlato del cervello come una sorta di "ufficio telefonico centrale" che di per sé non aggiunge nulla a quel che riceve e che non ha nulla di un apparato atto a fabbricare rappresentazioni. Nel suo "L'uomo neuronale", il neurobiologo Jean-Pierre Changeux ha confutato Bergson menzionando esperienze che dimostrano il parallelismo tra il movimento di un oggetto e la sua percezione mentale. Egli cita un'esperienza in cui un soggetto è posto di fronte a due oggetti che si ottengono l'uno dall'altro per rotazione e deve segnalare il momento in cui percepisce trattarsi dello stesso oggetto: si constata che il tempo necessario a tale percezione è proporzionale al tempo della rotazione. Ma questo - come analoghi esperimenti - dimostrano soltanto che nel cervello accade qualcosa che è materialmente correlato al processo percettivo, e questo nessuno si sognerebbe di negarlo. In realtà, la confutazione di Changeux, basata sul parallelismo di processi di movimento, avvalora la tesi di Bergson che il cervello sia un centro di azione motoria, che ha per funzione principale il ricevere stimoli e trasmetterli mediante processi motori. Bergson avrebbe potuto rispondere a Changeux alla maniera con cui Galileo replicò a Simplicio: "Vedete adunque quale sia la forza del vero, che mentre voi cercate di atterrarlo, i vostri medesimi assalti lo sollevano e l'avvalorano". E oltretutto qui si parla di rappresentazioni di oggetti materiali e non di idee astratte - dell'idea di sfera o dell'idea di bellezza o di Dio. L'osservazione che le rappresentazioni visive mobilitano soprattutto i neuroni dell'emisfero destro mentre le idee più astratte quelle dell'emisfero sinistro, così come le correlazioni tra attività mentali e irrorazione sanguigna stabilite dagli esperimenti di risonanza magnetica, non soltanto sono molto generiche, ma non dicono nulla circa l'origine e le modalità di fabbricazione dei pensieri.
    Per quanto ci si affanni a confutare la metafora di Leibniz e quelle analoghe, il risultato è un insuccesso. Per lo più a essa si oppone che, se fossimo ridotti alle proporzioni di minuscoli insetti, non vedremmo il cervello come un mulino meccanico, ma come un sistema biologico neuronale e i pensieri apparirebbero come ciò che viene prodotto e trasmesso da neuroni e sinapsi. Insomma, vedremmo la vera sostanza fisica del mentale e la mente sparirebbe nel cervello. Ma questa non è una confutazione, bensì l'affermazione di una credenza, una professione di fede in un'ontologia materialista.
    Proviamo noi a sviluppare e rafforzare questa "confutazione" con riferimento a macchine più moderne, per convincerci meglio della sua inconsistenza. A prima vista, l'informatica contemporanea fornisce un'immagine vivida di come le idee si producano e si trasmettano mediante processi fisici. Scrivo questo articolo su un computer che codifica i miei pensieri e li incide su un oggetto materiale. Lo spedisco alla redazione del giornale. Le idee corrono come impulsi elettrici su cavi e addirittura nell'aria. È affascinante pensare che le onde elettromagnetiche trasportino nello spazio concetti astratti. Questi pervengono a un altro computer che li decodifica traducendo il "materiale" inviato in un insieme di lettere e parole che la redazione potrà leggere. Non è forse questa una rappresentazione efficace e trasparente dei processi neuronali? Certamente sì, anche se questi ultimi si svolgono con modalità diverse da quelle informatiche, perché la maggiore complessità del processo non toglie nulla al fatto che esso ha una natura strettamente materiale, fisico-chimica. Ma è possibile dire che tale processo "produce" e "trasporta" concetti? Qui dobbiamo fermarci. Forse può apparire evidente che li trasporti, ma la questione è più complessa, perché il trasporto richiede un'operazione decisiva: la traduzione delle parole in un codice che consenta la trasmissione materiale e che dovrà essere in possesso di chi le riceve affinché siano per lui intellegibili. Questo codice è disponibile sia per chi invia sia per chi riceve il messaggio, perché è così che nei fatti è stato progettato il processo informatico. Ma qual è il codice con cui tradurre i processi neuronali? Nessuno ha la minima idea di come si possa tradurre una reazione fisico-chimica o una trasmissione elettrica in un linguaggio che esprima l'"idea". In fin dei conti, non esiste neppure una vaga idea di come ciò possa farsi. Se davvero fossimo in presenza di pensieri in codice bisognerebbe interpellare "chi" - Dio o il caso? - ha creato il sistema di traduzione delle idee astratte in processi neuronali, così come ha fatto l'uomo per i processi informatici; o scoprirne il segreto. Sarebbe un compito impossibile perché presupporrebbe quello che neppure in fisica si sa fare, e cioè descrivere in modo esatto il comportamento di ogni singola particella del cervello.
    Ma ancora qui siamo agli aspetti meramente esteriori della questione, al processo di "trasmissione". Se si passa alla questione della "produzione" dei concetti la faccenda si complica. Qui entra in gioco l'esistenza della persona che ha scritto l'articolo (e di chi lo legge). Senza l'autore dell'articolo e le "idee" che egli ha "pensato" non c'è assolutamente nulla. Ma tali idee e il loro senso sono assolutamente indipendenti e antecedenti al processo della loro trasmissione ed elaborazione materiale nello spazio. Nel modello informatico considerato non c'è produzione di alcuna idea. Esattamente come nel mulino di Leibniz, è impossibile scorgervi alcuna idea, a meno che non ci si collochi "fuori" e cioè nel mondo di chi quelle idee ha prodotto.
    Insomma, siamo ridotti all'antica teoria dell'homunculus. Per concepire un cervello che pensa occorre immaginare un altro soggetto a esso interno che sia l'autore dei pensieri che il cervello si limita a manipolare e trasmettere. Se si mira a una spiegazione puramente materiale il processo regredisce all'infinito. Ecco perché, come ebbe a dire Paul Ricoeur - nel libro-dialogo con Changeux La natura e la regola - la formula "il cervello pensa" è insostenibile e assomiglia a un ossimoro. Changeux, per quanto materialista, fu costretto ad ammettere: "Evito di impiegare simili formule".
    Ma allora siamo costretti ad ammettere che, per quanti progressi si siano fatti nella conoscenza di ciò che accade nel cervello quando pensiamo - e sono progressi grandi, importanti e benvenuti - quanto alla dimostrazione della tesi metafisica circa il carattere materiale del pensiero siamo al punto di partenza. E vi è ogni motivo per ritenere che vi si resti per sempre. Difatti, è irragionevole pretendere che dalla scienza si possano ricavare teoremi metafisici, nella fattispecie la verità del materialismo. È meglio accettare la realtà come si offre nella sua evidenza. E l'evidenza della mente non è minore di quella della materia. Per dirla con Bergson: "L'esistenza di cui siamo più certi e che conosciamo meglio è incontestabilmente la nostra, perché di tutti gli altri oggetti abbiamo nozioni esteriori e superficiali, mentre percepiamo noi stessi interiormente, profondamente". Meglio sarebbe quindi accettare e sviluppare, nella loro ricchezza, le riflessioni delle scienze umane, rispetto a ciò che di modestissimo offrono i tentativi di dissolverle in capitoli delle neuroscienze, aggiungendo il prefisso "neuro": neuro-filosofia, neuro-etica, neuro-economia, neuro-estetica, neuro-teologia.
    Occorrerebbe essere consapevoli che qui si gioca una delle poste più cruciali nel confronto con il relativismo e il nichilismo dilaganti. Difatti, cosa resta del valore oggettivo e universale della morale in una neuro-morale che la riduce a una particolare conformazione cerebrale? Nulla. I principi morali o etici sarebbero mero prodotto dell'evoluzione e, come tali, soggetti al processo evolutivo, o addirittura manipolabili dall'uomo nelle forme da questi ritenute più opportune. Se l'idea di un Dio trascendente fosse prodotto di conformazioni neuronali, essa sarebbe un evento casuale e sopprimibile, come peraltro sostengono alcuni neuroscienziati. Naturalmente se ciò fosse vero, e dimostrato come tale, vi sarebbe poco da dire. Ma non lo è, lungi da ciò, si tratta di tesi inconsistenti. Così accettarle è solo la manifestazione di una dannosa soggezione nei confronti di uno scientismo che agisce come cavallo di Troia del nichilismo. Tantomeno bisogna farsi intimidire dalle veementi accuse di un certo pensiero postmoderno nei confronti dell'"essenzialismo" della cultura occidentale, accusata di avere introdotto, con la difesa dei valori "assoluti", forme di "razzismo" e di discriminazione. Anche tale soggezione è da dismettere, perché nessun errore può cancellare il fatto che la cultura cosiddetta "essenzialista" ha posto le basi morali di una società basata sul rispetto della persona.