domenica 6 febbraio 2011

l’Unità 6.2.11
Bersani lancia l’agenda, D’Alema attacca i metodi di Berlusconi: «Vediamo come trova i voti»
Veltroni plaude all’unità: «Discorso del segretario è il momento più alto di questo anno e mezzo»
Il Pd è pronto a governare: «Noi al posto dei corrotti»
Si conclude l’assemblea nazionale e Bersani lancia l’agenda per governare il Paese. «E per essere perno di un’alleanza costituente, il Pd deve prima essere unito». Cofferati vuole più sinistra e meno «liberldemocrazia».
di Simone Collini


Bersani lancia l'agenda di governo del Pd, D'Alema attacca un esecutivo che «si regge sulla corruzione di parlamentari», Franceschini sottolinea la necessità di accelerare su una «alleanza costituente» che non sarebbe fondata soltanto sull'antiberlusconismo ma su «senso dello Stato, rispetto delle regole, legalità, unità nazionale». E Letta insiste sulla precondizione per ogni ragionamento su come battere il centrodestra, trovare gli alleati, andare al governo: «La nostra unità è la chiave per battere Berlusconi e creare l'alternativa». L'Assemblea nazionale del Pd si chiude con l'approvazione dei documenti programmatici su sanità, cultura, sicurezza, amministrazione, welfare, Mezzogiorno, e con la soddisfazione generale per un partito che ora ha un «manifesto per l'Italia» sul quale far partire un dialogo con le altre forze di opposizione (temi come il fisco, il lavoro, l'immigrazione, la scuola erano stati affrontati nelle precedenti assemblee di Roma e Varese) e che si mostra intenzionato ad affrontare unito questa situazione di «emergenza democratica».
Nodi da sciogliere e diversità di proposte non mancano, come dimostra l’attacco di Ranieri al Pd «malato e da rifondare» nelle regioni del sud, o il segretario del Pd campano Amendola che chiede «scusa» per come sono andate le primarie a Napoli, come dimostra il botta e risposta tra il veltroniano Morando e il responsabile Economia della segreteria Fassina su chi sia il responsabile degli attacchi di Berlusconi sulla patrimoniale («non noi», dice il primo, «sui temi del fisco evitiamo improvvisazioni», replica il secondo). E poi c'è Cofferati, che vuole rilanciare la sinistra del Pd e va al microfono per confessare un «serio imbarazzo» quando vede emergere «un pensiero liberaldemocratico completamente diverso dalle ragioni riformiste fondative del nostro partito», Marino e i suoi che chiedono «parole chiare» su temi etici e diritti civili, giusto mentre gli ex-ppi citano l'uscita del presidente di Sant' Egidio Riccardi per sostenere che c'è un'area cattolica che ritiene superato il berlusconismo e che chiede al Pd una risposta: «Sbagliamo – dice al microfono Grassi – se rispondiamo con un documento su biotestamento e coppie di fatto».
IL MANIFESTO PER L'ITALIA
Nodi che non sfuggono a Bersani, che non a caso durante gli altri interventi lavora a una mediazione sul tema dei diritti civili, nei giorni scorsi ha commissariato il Pd di Napoli e annunciato correzioni alle primarie («ora può votare chiunque – fa notare anche D'Alema – e questo le rende rischiose»), e assicurato, chiudendo i lavori dell'Assemblea e riferendosi alle parole di Riccardi, che il Pd non sarà mai un partito senza valori: «I nostri sono radicalmente alternativi a quelli berlusconiani, per noi valgono parole come onestà, serietà, civismo, solidarietà». Ma la giornata di ieri è servita a Bersani soprattutto per illustrare la piattaforma programmatica del Pd, che ora viene “offerta” alle altre forze interessate ad andare «oltre Berlusconi». Il leader del Pd parla della necessità di lavorare a un «nuovo welfare», di riduzione dei costi della politica e del numero dei parlamentari, di «riforme liberali» da cui però devono rimanere fuori salute e istruzione, di federalismo diverso da quello proposto da Pdl e Lega («è una scarpa e una ciabatta, e scusa Crozza», dice ironizzando sull'imitazione che gli fa il comico). Il Pd lavora, assicura attaccando «la destra populista che imbarca pure Storace», per un'agenda che metta al centro l'Italia «e non il premier e le sue disdicevoli notti».
Ma perché il Pd possa essere quel «perno» attorno a cui costruire un'alleanza «costituente» deve prima apparire compatto. Ieri è stato così, con Veltroni che ha definito il discorso di Bersani «il punto più avanzato raggiunto nell'ultimo anno e mezzo»: «Sono contento che abbia tenuto conto del Lingotto». Dice comunque dal palco D'Alema: «È il momento di costruire il Pd. Se è emergenza democratica, e lo è, si deve vedere nel modo di stare in campo ogni giorno del nostro partito, deve esserci l’unità, nostra e dell’opposizione, si deve legare l’azione politica e il comportamento di ciascuno di noi». Solo partendo da qui, per il presidente del Copasir, si può lavorare a quella «collaborazione tra diversi che non punta a liquidare il bipolarismo ma a rilanciarlo su basi nuove». Se le altre forze di opposizione risponderanno positivamente, aggiunge, non si potrà più dire che «non c'è un'alternativa».

l’Unità 6.2.11
Il voto si allontana «Abbiamo tempo per tessere l’alternativa»
Il Pd si prepara a una maratona: «Berlusconi getterà il Paese in una lenta agonia». E se le elezioni anticipate escono dal lessico del centrodestra il Pd lavora a una larga alleanza in grado di parlare ad «un ampio blocco sociale».
di Maria Zegarelli

Potrebbe essere più una maratona che una volata di centro metri la sfida che hanno davanti le opposizioni per cercare di archiviare il berlusconismo, questa la sensazione diffusa nel Pd riunito alla Fiera di Roma per lanciare la propria proposta programmatica. Ormai è evidente che la Lega – malgrado l’insofferenza della base – per il momento è intenzionata a tenere la spina inserita ben nella presa elettrica e lo stesso Berlusconi manda in soffitta le elezioni, «sarebbero un danno per il Paese». E forse anche per se stesso, scivolato sulle sue stesse ossessioni sessuali. Un deputato Pd racconta che da ambienti di Palazzo Chigi, «ben informati» riferiscono che nei colloqui riservati l’ipotesi del voto anticipato è esclusa.
«Bossi – riflette Stefano Ceccanti – ha tutto l’interesse a mantenere in vita il governo. Ha capito che Berlusconi non è più un interlocutore credibile per gli altri partiti e dunque si allargano gli spazi per il Carroccio. Inoltre lo tiene sotto costante ricatto. Il Cavaliere dal canto suo ha capito che andare alle urne nel pieno dello scandalo sessuale che lo vede coinvolto è rischioso». Una consapevolezza diffusa che emerge dal tenore degli interventi e dalla mission che lo stesso partito si da: tornare in mezzo alla gente, partecipare, come dice, Rosy Bindi «a tutte le iniziative che partono dalla società civile». «Bisogna mobilitare il nostro partito -incalza Massimo D'Alema durante uno degli interventi più applauditi dalla platea-, il che vuol dire tenere le sedi aperte e mantenere un dialogo costante con l’opinione pubblica». E intanto lavorare ad una larga alleanza «anche con chi è diverso da noi», operazione che richiede “pazienza”. Pazienza che vuol dire tempo per intessere la tela dell’alternativa e parlare a quella parte di paese che oggi non è attratta dal Pd. Tempo da impiegare «muovendosi su un doppio binario: lavorare all’omogeneità di un progetto con le forze di opposizione e creare un ponte di fiducia con le parti sociali del paese», sostiene Beppe Fioroni. Tempi da maratona che potrebbero permettere al Pd di creare consenso in un ampio blocco sociale, tanto da rendere l’alleanza più «appetibile per Pierferdinando Casini e il terzo Polo». In questo senso Fioroni apprezza il discorso di Bersani, tanto da dire che «ha dimostrato che può essere un segretario in grado di fare sintesi». Definisce le conclusioni del leader Pd, «inclusive, come mai era successo prima, a partire dai passaggi sulla libertà di coscienza, sui valori e sulle aperture con i cattolici, con l’attenzione mostrata per le dichiarazioni di Andrea Riccardi, presidente della comunità di Sant’Egidio». Anche Michele Meta, che con Ignazio Marino ha sempre invocato le urne, è convinto che l’irresponsabilità del premier possa allungare l’agonia del Paese, e «se questa situazione dovesse andare avanti per mesi, spetta a noi affermarci come un mega-Pd, in grado di aprirsi a altre culture creando fiducia in una parte sempre più larga del paese. La strada imboccata dall’assemblea è quella giusta». Per dirla con un giovane delegato dall’accento meridionale: «Altro che rimboccarci le maniche, qua dobbiamo sudare...».

l’Unità 6.2.11
Il braccio di ferro sui diritti civili finisce in tregua
All’assemblea riesplode il caso sui temi etici, col pressing di Ignazio Marino e dell’area laica: «Il partito prenda posizione». La via d’uscita: una commissione ad hoc lavorerà a una sintesi da inserire nel programma.
di M. Ze.


I diritti civili entreranno a pieno titolo nel Progetto per l’Italia con cui il Pd si presenterà agli elettori. L’impegno preso dal segretario Pier Luigi Bersani mette così fine – per il momento – alla polemica esplosa proprio durante l’assemblea.
La trattativa per arrivare ad un punto di incontro inizia di prima mattina in una sala convegni ancora piena a metà. Ignazio Marino e i suoi lanciano l’ultimatum: o il segretario Pier Luigi Bersani dice una «parola chiara sui diritti civili, o i nostri ordini del giorno restano». Diplomazie al lavoro per ore e finalmente il percorso: nascerà un Comitato ad hoc presieduto da Rosy Bindi, di cui faranno parte esponenti del partito e della società civile che lavorerà sui temi caldi – dal biotestamento alla fecondazione che da sempre hanno lacerato i democratici alla ricerca di un punto di equilibrio. Spetterà poi ad un gruppo di lavoro ristretto elaborare un documento finale da sottoporre ad una segreteria tematica che dovrà svolgersi entro un mese, ma, e questo è parte integrante della trattativa, la Commissione dovrà recepire gli ordini del giorno su biotestamento e unioni civili che ieri sono stati ritirati. Altra condizione posta, e accettata qualcuno dice superflua perché il suo nome era nelle cose è stata la presenza del senatore Marino nel gruppo di lavoro («non ci sentiamo garantiti dalla sola Bindi», spiegano i mariniani).
Stoccata della presidente: «Marino ci ha privato del piacere di invitarlo». Tutto è nato quando Ettore Marinelli, che ha preparato il documento sui diritti civili viene a sapere che non se ne discuterà in Assemblea perché come spiega venerdì dal palco la stessa Bindi, i diritti civili «sono parte fondante del partito» e dunque non del programma di governo. L’area laica del partito e i dalemiani (il presidente del Copasir ha non a caso firmato l’ordine del giorno sulle unioni civili), a quel punto lavorano affinché il Pd prenda un impegno preciso. Ieri mattina Maurizio Migliavacca (estensore del dispositivo-mediazione) Bindi, Marino, Michele Meta, D’Alema, Concia e lo stesso segretario si riuniscono nell’ufficio del segretario e trovano un accordo. Soddisfatto Marino, che comunque promette di non mollare la presa, Meta idem, preoccupati, invece, gli ex ppi che fanno capo a Beppe Fioroni: una parte del mondo cattolico stanca degli scandali berlusconiani potrebbe iniziare a guardare al Pd e questi ordini del giorno potrebbero mandare tutto all’aria, come esplicita chiaramente Gero Grassi. E su questi temi sembra rifiorire una sitnonia tra Fioroni, Letta e Bindi. Di diverso avviso un altro ex popolare, Franceschini: i diritti civili devono entrare a pieno titolo nella proposta politica del Pd e il tema «e non può essere relegato solo nell’area della libertà di coscienza». Ma avverte sul pericolo sempre incombente: che i diritti civili vengano usati come una bandiera per dividere e non per unire.

Repubblica 6.2.11
Bersani: "Ora basta con le favole premier e tremontismo sono finiti"
D'Alema: il governo si tiene con la menzogna e la corruzione
Tregua nel Pd sui temi etici. Ritirati gli ordini del giorno, istituita una commissione
di Giovanna Casadio


ROMA - Nell´agenda "del fare" di Pier Luigi Bersani ci sono riforme che «disturbano», se no che riforme sono, ma soprattutto che «si facciano capire». Ad esempio, «se c´è da tagliare i costi della politica, si farà - elenca il segretario -; se c´è da togliere privilegi e vitalizi si toglieranno per parlamentari e consiglieri regionali; se bisogna cancellare le leggi della cricca e ad personam, si farà...». Cose concrete per dire che il Pd è «un partito di governo e di valori», che dice «basta con le favole, premier e tremontismo sono finiti» e il superministro è «filosofo, ragioniere ma non è idraulico dell´economia». Non sa mettere mano, insomma. Bersani conclude l´Assemblea nazionale con una relazione di un´ora, che è un manifesto in vista delle elezioni, sul quale si sigla l´unità dei Democratici.
Non che manchino spaccature e distanze. Però l´emergenza italiana è tale che tutti - D´Alema e Veltroni, Cofferati (pro Fiom) e Morando (pro Marchionne), i sostenitori delle primarie a oltranza e quelli per la revisione (almeno un albo degli elettori per evitare altri "casi Napoli" con infiltrazione della malavita ai gazebo) - mostrano senso di responsabilità. È tregua persino sui diritti civili, su cui Ignazio Marino e la sua corrente supportati da D´Alema, avevano lanciato un´offensiva. Già i cattolici del partito erano sul piede di guerra, temendo tra l´altro di giocarsi l´apertura di credito al Pd di Andrea Riccardi, il fondatore della comunità di Sant´Egidio. A sbrogliare la matassa ci si mettono Rosy Bindi e Enrico Letta, presidente e vice segretario. Contatti serrati con Beppe Fioroni, leader popolare. Opera di convincimento su Marino, Concia, Gozi, Scalfarotto e Meta. Conclusione: ritirati gli ordini del giorno sulle unioni gay e il testamento biologico, ma è stata creata una "commissione Bindi" che partirà da lì per trovare «una sintesi». I mariniani sono soddisfatti perché i diritti civili saranno nel programma; Fioroni gongola perché «la conclusione di Bersani è stata inclusiva e viene ribadita la libertà di coscienza».
Ma c´è molto altro nel carniere democratico. A cominciare dal federalismo, un pasticcio, come «una scarpa e una ciabatta - afferma Bersani, accorgendosi di usare una di quelle frasi gergali nel mirino della satira che di lui fa Crozza («Ops, scusa Crozza»). Sottolinea che «solo due partiti hanno la vocazione autonomista, la Lega e noi», ma i leghisti con Berlusconi il federalismo non lo faranno mai. All´attacco va D´Alema: «Questo governo si regge sulla corruzione e sulla menzogna. Cariche e auto blu saranno distribuiti a quel gruppetto di parlamentari che con molta autoironia si sono definiti responsabili». Perciò di fronte alle macerie del berlusconismo è necessario «un governo di collaborazione tra diversi per la ricostruzione». Veltroni apprezza Bersani: «Ha raccolto le sollecitazioni del Lingotto. Un passo avanti e il punto più avanzato della sua segreteria». Anche se per il veltroniano Morando «la linea del partito è sbagliata». Franceschini boccia Vendola: «Le sue ambizioni di premiership sono meno importanti della salvezza della democrazia italiana».

Repubblica 6.2.11
Il presidente del Copasir invece cerca di blindare la tregua anche nel lungo periodo
L’avviso di Veltroni sulle alleanze "Se il voto si allontana cambia tutto"
D’Alema chiede pazienza. I Modem potrebbero però reclamare una linea alternativa
di Goffredo De Marchis


ROMA - Sotto il palco dell´assemblea nazionale per votare gli ordini del giorno Walter Veltroni conferma la pace interna («Bersani ha ripreso molte proposte del Lingotto») ma anche la fragilità dell´intesa. «C´è un problema nella strategia dell´alleanza costituzionale e che qui è venuto fuori - spiega l´ex segretario -. Mi sembra che si diano per certe elezioni a breve, magari a maggio. Ma non è affatto detto che sia così. E tutta la situazione allora può cambiare». Oggi tutti i dirigenti del Partito democratico condividono lo stato di «emergenza democratica» e sottoscrivono un´alleanza larga che va da Fini a Vendola per battere Berlusconi. Ma se la prospettiva ha tempi più lunghi del previsto, possono mutare i fattori e la tregua fallire.
Il Pd dunque resta in movimento. Modem, la componente che fa capo a Veltroni-Fioroni-Gentiloni, può tornare presto a chiedere una linea alternativa, a mettere in discussione quella del segretario. Massimo D´Alema vede questo rischio. Lo ha detto nei suoi colloqui a margine dell´assemblea, nel capannone della Nuova Fiera di Roma. «Ci abbiamo messo del tempo, ma finalmente il partito si è dato un profilo, un progetto e una linea. Adesso è importante la tenuta». Lo ha ripetuto in maniera ancora più netta parlando dal palco. Il Pd non si può permettere, di fronte all´operazione di larga alleanza, il fuoco amico della società civile. Per questo l´ex premier ha benedetto le iniziative di Libertà e giustizia (ieri a Milano) e di domenica prossima a Roma per la dignità delle donne. «C´è un ponte tra il nostro appuntamento e le loro piazze», sono le parole di chi non ha mai risparmiato una bacchettata a girotondi vari. Poi ha invitato i militanti alla mobilitazione, «a tenere aperte le sedi», a «organizzare un´informazione capillare» a dispetto della manipolazione delle notizie che si fa nei telegiornali berlusconizzati. Oggi la «coalizione tra diversi», come l´ha definita D´Alema, è un dato acquisito del partito. Ma non è detto che possa reggere alla prova del tempo. «Ci vuole pazienza», è il monito di D´Alema alla platea democratica.
Il Pd si è avvicinato al Terzo polo e a Casini senza strappi dolorosi. L´emergenza lo ha portato fin lì. «Abbiamo fatto un enorme passo avanti rispetto all´assemblea di Varese - ricorda Enrico Letta -. Sono passati quattro mesi. Allora non si poteva nominare l´alleanza con il centro. Oggi invece non c´è nemmeno una voce contraria». Durerà? «Io credo di sì - risponde il franceschiniano Ettore Rosato -. Ma è vero che dobbiamo fare il massimo sforzo». Un assaggio di come i democratici si dividono facilmente è venuto dall´intervento di Enrico Morando, complimentato da Veltroni. Il senatore ha contestato la "bersanomics", la linea economica del vertice. Ha accusato il responsabile del settore Stefano Fassina di aver criticato il contributo straordinario della fascia più ricca lanciato al Lingotto parlando di «intelligenza con il nemico». Fassina gli ha risposto stizzito: «Mai dette quelle cose. Ma sulla patrimoniale basta improvvisazioni». È un confronto che può allargarsi ad altri campi se la scadenza del governo è più lontana.

il Fatto 6.2.11
Opposizione, ultima fermata
di Furio Colombo


Tutti si domandano, nel mondo, come possa l’Italia adattarsi a vivere con un primo ministro malato, un governo inerte, in cui sia il ministro degli Esteri sia quello della Giustizia fanno i galoppini elettorali, e una opposizione malleabile anziché antagonista.
La domanda è seria perché siamo al di la della buona reputazione del Paese. Siamo in una fase in cui i cittadini, i commentatori, i politici di altri Paesi si domandano se non ci sia qualcosa di malato non solo nel premier, il cui squilibrio mentale è segnalato, come avviene quasi ogni giorno, da solenni promesse di crescita del Paese seguite da violente invettive contro la magistratura eoffese gravi e gratuite al Capo dello Stato (per esempio il decreto con cui il Consiglio dei ministri approva d’urgenza il federalismo poche ore dopo che il Parlamento lo aveva respinto). Ma qualcosa di malato c’è anche nello schieramento eterogeneo della attuale, provvisoria maggioranza che ha deciso di sostenere Berlusconi non solo con il   voto ma anche con un grande applauso. Il Primo ministro aveva appena fatto dire che era stato lui a ordinare alla polizia di Milano di rilasciare una prostituta minorenne e ladra e di affidarla alla consigliera regionale Minetti. Aveva fatto dire, sempre a sua difesa, di avere davvero saputo e creduto che la giovanissima ragazza in vendita fosse la nipote del presidente egiziano Mubarak, evidentemente ben consigliato dal suo Ministro degli Esteri.
Come è noto, la consigliera Mi-netti, ha subito affidato la minorenne nipote di Mubarak nelle mani di una prostituta brasiliana.   Una volta ottenuta, anche con la partecipazione di alcuni deputati comprati all’ultimo istante, l’approvazione di una simile incredibile storia che screditerebbe chiunque, è scattato l’applauso della maggioranza berlusconiana dell’Aula, quasi una ovazione, segno che la storia folle non turba e non disturba centinaia di deputati, uomini e donne adulti, molti con figli della stessa età della prostituta comprata e venduta. Eppure bisognava sentire l’on. avv. Paniz celebrare a voce altissima, come nella parodia di una arringa giudiziaria da commedia all’italiana, il percorso seguito con scrupolo dallo statista Berlusconi, inseguito dai giudici “benché non ci sia stata denuncia”. E ha finto di non sapere, lui, principe del Foro, che alcuni reati di una certa gravità, come la frequentazione della prostituzione minorile sono perseguibili d’ufficio.
Parla di crescita e gli credono ancora
MA SE la immagine impressionante, e grave per la reputazione italiana, è lo scroscio di applausi che la maggioranza del Parlamento dedica alla prostituzione minorile praticata dal presidente del Consiglio e dai suoi amici di serate, non è meno grave e dannoso ciò che stava accadendo nello stesso giorno. Berlusconi aveva fatto all’improvviso sapere che d’ora in poi si sarebbe dedicato alla “crescita” del Paese. Crescita è una parola codice. Vuol dire occuparsi almeno un po’, almeno part-time, di governare l’Italia. Subito una buona parte dei media e, l’intera Confindustria, non hanno esitato a salutare l’evento   come se ci fosse un piano, come se qualcosa fosse iniziato, come se ci fossero indicazioni tecniche, organizzative, politiche, del grande annuncio del governo. Una vera celebrazione, sia pure durata un giorno. Ma utile per svelare l’incredibile sottomissione che stravolge ancora tanta parte della opinione pubblica e dell’opinione politica, con cui in tanti si adattano prontamente al comportamento evidentemente squilibrato dell’uomo carico di ricchezza ma privo di soglia critica e di senso della realtà.
Ma il caso più difficile da spiegare è quello di una opposizione variabile e malleabile, che non c’e la fa a diventare e restare antagonista e ad assumersi la responsabilità di rappresentare i cittadini che davvero vogliono cambiare il Paese e non sopportano più a lungo l’umiliazione di essere governati da una persona con seri disturbi della personalità e una immensa forza finanziaria che gli consente di comprare consenso, assenso, distrazione   e – quando serve in luogo del servaggio–intimidazione e sottomissione spontanea.
Il problema torna a replicarsi in questi giorni quando voci autorevoli del fronte della opposizione tornano a dire che è importante, anzi essenziale “abbandonare l’antiberlusconismo” (una versione alternativa è “superare il berlusconismo”). L’operazione funziona in due modi, ovvero produce due gravi conseguenze, capaci di bloccare ogni vera possibile opposizione. La prima è di negare, insieme con la propaganda di Berlusconi, che vi sia qualcosa di anomalo, di radicalmente malato o in Berlusconi (il personaggio, il suo mega conflitto di interesse, la sua salute mentale, il suo evidente te e brutale percorso contro la Costituzione) o nella poderosa e quasi del tutto illegale macchina politica messa in moto dalla potenza economica e dalla visione distorta del leader anormale di cui stiamo parlando   . Negando la eccezionalità legale, mentale, morale, distruttiva e antiistituzionale di Berlusconi vuol dire privarsi di tutti gli strumenti più importanti della realtà che si è abbattuta sull’Italia e ne ha deviato la storia, fisiologia, patologia, carattere ed errori. Tutto è diverso,qualunque sia il giudizio del passato. E niente può essere fatto con una normale politica di opposizione, perché, buono o cattivo, niente qui, adesso, è normale, a cominciare dalle condizioni psichiche dell’uomo che governa.
Più grave del fascismo
ANZI non governa, non ha governato mai. Una ragione in più per non collaborare mai. Infatti Berlusconi non governa, occupa. Il dramma del Paese è il più grave dai tempi del fascismo. É più grave, infatti, a causa della falsificazione di tutti i percorsi, dell’uso   privo di ritegno della parola “democrazia” ogni volta che si cerca il plebiscito e si ottiene la sottomissione. E nella riuscita operazione di eliminare – tra voto e leader e dunque tra popolo e adorazione del capo – ogni regola parlamentare e istituzionale. Non dimentichiamo che ciò che si verifica oggi, in queste ore, un violento e calcolato scontro istituzionale fondato su una presunzione di cedimento del presidente della Repubblica, sta avvenendo in solitario tra il Capo dello Stato, da un lato, e tutta la forza politica, tutta   la forza mediatica, tutta la forza finanziaria del capo del Governo che rende ancora possibile quasi ogni nuovo acquisto. Si dovrebbe chiudere qui, con una dichiarazione di separazione irreversibile – nelle Commissioni e nell’aula delParlamento– con questa situazione malata e illegale, che ha cominciato a girare intorno a modalità burocratiche e pregolpiste di piena violazione della Costituzione. Tale separazione, che dovrà essere irreversibile, dovrà escludere ogni forma di disciplinato assenso all’agenda sempre più folle, sempre più lontana dalla legalità dell’attuale governo. È (sarebbe) il solo modo di rendere chiara e pubblica quella campagna di liberazione che ormai viene invocata da molta parte del Paese e che dovrebbe realizzarsi con la proposta di alleanza fra tutte le opposizioni. Le condizioni che a suo tempo hanno reso necessario, nella storia italiana, il CNL, adesso ci sono tutte. Il “buon lavoro” per migliorare nelle loro leggi ciò che si può migliorare, è futile e pericoloso,   anzi è complicità, prolungamento della vita di un simile modo di governare, e materiale offerto spontaneamente per la loro campagna elettorale, che ci sarà comunque fra poco. La sordità di tutto ciò che avrebbe dovuto essere opposizione è durata a lungo (diciassette anni di dominio quasi ininterrotto della egemonia berlusconiana). É bene, ma è anche necessario, urgente, che si interrompa subito. Se si hanno dubbi sulle ragioni politiche (e mi sembra impossibile) si tenga conto delle condizioni mentali di Berlusconi, che ormai sono un dato acquisito nel giudizio del mondo sull’Italia.

Corriere della Sera 6.2.11
D’Alema apre alla «società civile». Da Bersani messaggi alla Lega
di  Andrea Garibaldi


ROMA — A un certo punto Massimo D’Alema dice, dal palco, una cosa singolare: «È arrivato il momento di costruire il Pd. Se siamo in emergenza, si deve vedere dal nostro modo di stare in campo, di discutere, di considerare l’unità» . Appare un’autocritica su ciò che (non) si è fatto fino ad oggi. Ma c’è anche lo sprone all’Assemblea nazionale che gli sta davanti: «Dobbiamo sostenere la mobilitazione della società civile e anche mobilitare il partito: teniamo le sedi aperte, dialoghiamo a tempo pieno con i cittadini, reagiamo alla disinformazione, organizziamo la protesta» . D’Alema parla a fine mattinata. Spiega che con questa legge elettorale, la proposta del Pd di un’alleanza alternativa con tutte le opposizioni disponibili è l’unica risposta alla corruzione e alla menzogna che regnano: «Oggi il 60 per cento degli italiani ritiene che di Berlusconi ci si debba liberare» . Edifica un insolito (per lui) ponte con le manifestazioni civiche, quella che si sta svolgendo a Milano, di Libertà e Giustizia, e quella delle donne, 13 febbraio. Aggiunge che solo il presidente della Repubblica si salva nel discredito generale delle istituzioni: «La Provvidenza ha fatto sì, in questi anni agitati, che i presidenti siano stati eletti in Parlamento solo da maggioranze di centro sinistra...» . Bersani, invece, lancia il secondo messaggio in due giorni alla Lega. Comincia così: «Sia pure in posizioni divergenti o alternative, in Italia ci sono solo due partiti che hanno una vocazione autonomista, noi e la Lega» . E continua: «Il federalismo non sono quelle quattro robette che hanno scritto nel decreto e la Lega con Berlusconi non riuscirà a fare il federalismo» . Non è ancora una mano tesa, ma è un significativo ritorno sul tema: la proposta del Pd è «inclusiva» , per andare «oltre Berlusconi» ci si può ritrovare con inattesi compagni di viaggio. Il segretario chiude la riunione con un intervento che lascia poco al cuore e punta sulle cose da fare. Far pagare la crisi al mondo della finanza, che l’ha causata e non ai cittadini con i tagli al welfare. Interrompere il «tremontismo» che si occupa della stabilità, ma non si cura della crescita: «Tremonti è filosofo, è ragioniere, ma non è idraulico» . Non mette le mani nel meccanismo dell’economia, insomma. Poi, legare ogni cosa alle leggi del mercato, eccetto scuola, istruzione, sanità. Ed elenca i valori alla base dell’alternativa a Berlusconi: onestà, serietà, sobrietà, civismo, responsabilità. È tempo di emergenza, e il partito va avanti con una certa compattezza. Perfino su Marchionne: «Non vorrei — dice Bersani — che per i 150 anni dell’Unità d’Italia il regalo per Torino sia quello di diventare periferia di Detroit. Noi non siamo d’accordo: vogliamo risposte sugli investimenti e sapere cosa succede con la Chrysler!» . È d’accordo Veltroni, che pure era stato fra i più forti sostenitori delle nuove regole in Fiat. È critico Sergio Cofferati sull’atteggiamento tenuto dal partito sulla vertenza, ma il suo intervento, molto tagliato su temi di «sinistra» , suscita tiepidi applausi. Quasi un delegato comune, dopo i trionfi da leader Cgil e le difficoltà da sindaco di Bologna. Si aggiusta anche la questione dei «temi sensibili» . Non vengono votate le mozioni presentate da Ignazio Marino, a favore delle coppie di fatto e sul biotestamento. L’intesa si cercherà all’interno di una commissione guidata da Rosy Bindi, che vedrà la partecipazione di cui Marino. Tutto a posto? Ci sarebbe il «caso Napoli» , con le primarie per il Comune contestate, i due candidati Ranieri e Cozzolino, che non fanno passi indietro, un terzo candidato che non si trova. Ranieri ieri dal palco ha detto che il Pd al Sud è «un partito malato, che deve essere rifondato se vuole essere un argine alla corruttela e al malaffare» . In questa sede, nessuno ha voglia di approfondire. La giornata finisce con una selva di microfoni e telecamere che circondano prima D’Alema, e poi Veltroni. I punti di riferimento continuano ad essere loro. Veltroni sostiene che Bersani ha fatto «il discorso più avanzato in un anno e mezzo. Ha tenuto conto delle mie parole al Lingotto» . Soprattutto, gli è piaciuto il Pd disegnato come perno dell’alternativa futura.

Corriere della Sera 6.2.11
Le primarie sempre più lontane
di  Maria Teresa Meli


ROMA— Primarie bye bye. Nel silenzio di chi dovrebbe difenderle, nella confusione di ordini del giorno e mozioni che si accavallano, in casa Pd si allontanano le consultazioni che erano state finora la ragione fondante del Partito Democratico. L’ordine del giorno dei rottamatori di Pippo Civati, che chiedeva le primarie sempre e comunque non è stato messo ai voti. Al suo posto un documento dei segretari regionali che con termini assai burocratici lascia intendere che questo strumento è ormai diventato un optional per il Pd. Nel testo si impegna il partito a «un’ampia partecipazione democratica per la scelta dei candidati» e si precisa che «le primarie (o altre forme pienamente partecipative) saranno stabilite dalla Conferenza sul partito» o, «in caso di elezioni anticipate da un regolamento approvato dalla Direzione nazionale dopo una consultazione con la Conferenza dei segretari regionali» . Dal burocratese all’italiano, le primarie non sono più un fatto scontato. E che sia questa la prospettiva lo conferma Massimo D’Alema. L’ex premier non ha dubbi, le regole per queste consultazioni «vanno ripensate» : «Io credo che la vicenda napoletana ci debba spingere a rivederle. Le nostre sono primarie in cui può votare chiunque e questo le rende particolarmente rischiose: in nessun paese si fanno così» . Insomma, era nell’aria la «trappola» per ridurre a più miti consigli Nichi Vendola (e il termine trappola è suo). Per scongiurare quella che Fausto Bertinotti definisce «un’Opa amichevole nei confronti del Partito Democratico» . L’ex presidente della Camera e il governatore della Puglia puntavano— e puntano— sul fatto che un pezzo del Pd nel caso in cui Vendola si presenti si stacchi dalla casa madre, invocando le primarie. Ma ieri questo non è accaduto. Nonostante Nicola Latorre abbia cercato di spiegare al suo partito che fare a meno di Vendola sia una pia illusione, il primo colpo di piccone sulle primarie è stato dato, e nessuno ha detto niente. C’è chi ha fatto finta di non accorgersene, come i veltroniani. Chi, come Ignazio Marino, ha giustificato quel voto e chi, come Arturo Parisi, non c’era, pur essendo uno dei sacerdoti del rito delle primarie. Una tappa nella rincorsa a Pier Ferdinando Casini è stata segnata. Sempre nella speranza di mettere in piedi questo Cln delle opposizioni che dovrebbe liberare l’Italia (anzi Sodoma, come chiama il nostro Paese Enrico Letta) da Berlusconi. Sì, quel Berlusconi che sembra essere l’ossessione di questo Pd. Citato infinite volte, proiettato addirittura su uno schermo della Fiera, demonizzato da D’Alema che per la prima volta in vita sua, in nome dell’antiberlusconismo, tesse l’elogio della magistratura e dei movimenti a favore delle procure. Sono poche le voci fuori al coro, quelle che sostengono che non è grazie al referendum pro o conto il Cavaliere che il centrosinistra vincerà. C’è il veltroniano Enrico Morando che avverte: «Dubito che la risposta che ha prevalso da parte nostra in questi mesi, tutta incentrata sulla democrazia del pericolo e sulla necessità di liberarsi del tiranno sia sufficiente» . E c’è Latorre che ammonisce: «La stagione politica inaugurata nel ’ 94 non si esaurirà solo con l’uscita di scena di Berlusconi, che certo resta una priorità» . Per il resto tutti, all’assemblea programmatica del Pd, accettano la logica dell’emergenza. E in nome di questa logica evitano di aprire la polemica sull’affossamento delle primarie.

il Riformista 6.2.11
Una commissione sui temi etici
Marino esulta e ammonisce «Guai se Fioroni vota col governo»
di Ettore Colombo

qui
http://www.scribd.com/doc/48260560

l’Unità 6.2.11
Non sono i girotondi Toni pacati, e idee chiare: «Berlusconi non può governarci»
In migliaia a Lampugnano. Eco: «Lui non lo farà, ma noi salveremo l’onore dell’Italia»
Palasharp, nessuna bandiera E una sola voce: «Dimettiti»
Sala piena per la kermesse di Libertà & Giustizia. Saviano: «Democrazia in ostaggio, dobbiamo sporcarci le mani». Lo slogan: niente per noi, tutto per tutti. Pollini: «Questo governo non ripulirà il Paese».
di Federica Fantozzi


L’Italia migliore? No, quella più informata. La società civile è diventata politica, come la domanda (retorica) di Gustavo Zagrebelsky alla platea del Palasharp: volete voi essere governati da Berlusconi?
Sono venuti in molte migliaia da tutta Italia a Lampugnano, periferia milanese, senza bandiere di partito, per gridare al premier «dimettiti». Consapevoli, come argomenta lo scettico dichiarato Umberto Eco, che non lui lo farà mai ma almeno loro salveranno «l’onore dell’Italia». Minoranza sì, inutile no: evoca gli undici professori che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo.
Parole ricorrenti: libertà e giustizia (l’associazione organizzatrice di Sandra Bonsanti), dignità, Costituzione, Tricolore (diversi in sala). In centinaia restano fuori, davanti ai cancelli. Dentro, si alzano in piedi per Roberto Saviano, camicia azzurra e un rotolo di fogli in mano, che denuncia il «gioco di prestigio» del voto di scambio che tiene in ostaggio la democrazia: 50 euro nell’urna per farti rifare una strada cui da cittadino avresti diritto. Applaudono Eco che narra il trait d’union tra il Cavaliere e Mubarak: non solo una nipote, ma il «vizietto» di non dimettersi. Ridono alla vignetta di Ellekappa: «Giudizio immediato», «Maiale».
Lo slogan: niente per noi, tutto per tutti. In prima fila Milva, la pantera ancora rossa di capelli e d’abito, sfodera gli artigli: «Deve dimettersi tutto il governo, sono incapaci, siamo finiti in basso». Gad Lerner, dopo la telefonata del premier, è coccolato come la madonna pellegrina: «Io pagherei per dirgli cafone!» lo fermano. Ma i girotondi sono lontani anni luce. Non è una kermesse, è un convegno. Non si parli di élite, sono «nudi cittadini». Non si parla di centrosinistra. Non c’è una protesta, c’è il programma già elettorale per l’Italia Diversa. Ciascuno degli oratori, a turno, ne disegna un pezzetto.
Toni pacati, quasi monocordi, abito grigio, mani sul leggio trasparente, il giurista Zagrebelski smantella il «sistema di potere» fondato su bigiotteria e poltrone, commesse e carriere, corpi e voti, sesso e delibere. Lo storico anglofiorentino Paul Ginsborg, «fiero di essere italiano», rammenta l’importanza del pubblico: dall’acqua bene comune all’istruzione.
L’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scafaro, in una video-intervista, appoggia la battaglia «limpida» in difesa della Carta, e in particolare dell’indipendenza della magistratura, ricorda la solitudine dei suoi «tre no» al Berlusconi d’antan e invita l’opinione pubblica a smuoversi: «Non arrendiamoci mai. Ognuno faccia la sua parte».
È Saviano, mentre cita Don Milani («a che servono mani pulite se le teniamo in tasca», precisando che non auspica la corruzione bensì il cimento nell’agone politico) a rivelare «la rabbia ma anche il divertimento di disegnare un Paese Diverso». È Bonsanti ad abbracciarlo: «Roberto è parte del nostro progetto».
In sala c’è Dario Franceschini, a titolo personale, sul palco sale il candidato sindaco di Milano Giuliano Pisapia per annunciare la «ripartenza». Carlo De Benedetti ripete di nuovo che non intende scendere in campo. Ma non sono i partiti, qui, che interessano. L’unità agognata, sospirata, invocata, è quella del Paese: «Non più scandisce Susanna Camusso, avvolta nella sciarpa bianca uomini contro donne, vecchi contro giovani, italiani contro stranieri». Aggiunge la leader Cgil: «Mi chiedono: cosa ha a che fare questa platea con i lavoratori? Rispondo: è una platea cittadini che traggono identità e forza dal lavoro. Dobbiamo continuare a indignarci e mobilitarci». Basta lotte fratricide, implora l’autore di Gomorra, «tra chi è più puro».
Il più emozionato è il pianista Maurizio Pollini, cravatta giallo canarino, intervento forte: «La mafia nel ‘94 votò Forza Italia, Berlusconi ha amici indagati (coro dal pubblico: condannati). Può darsi che la criminalità si sia innamorata in modo unilaterale, ma questo governo non è adatto a ripulire il Paese. A lui, nelplastico dell’Italia Diversa, toccano cultura e ambiente. Nando Dalla Chiesa ha parole per le forze dell’ordine (e le scorte) costrette a compiti non commendevoli: «Rivolta pubblica per restituire onore all’Italia». Salvatore Veca propone persino che la manifestazione al Palasharp faccia parte del complesso per il 150esimo compleanno dell’Unità d’Italia.
Concita De Gregorio invita a puntare sui ragazzini «perché ci vorranno 15 anni per ricostruire» l’Italia. E subito dopo il tredicenne Giovanni snocciola i suoi perché sulla politica nostrana: «Perché il premier si fa i comodi suoi, il governo se ne frega dell’Italia, Milano è sporca, le mafie ancora potenti? Spero con un nuovo governo di avere meno domande e più risposte».
La costituzionalista Lorenza Carlassare evoca con passione la dignità della persona e i limiti sociali all’iniziativa economica privata: «È questo che vogliono togliere?». Lerner attacca Marchionne: «Passato il referendum, gabbata l’Italia. E il governo non c’era» (voce dal fondo: non solo il governo).
A Bice e Carla Biagi, che del padre Enzo leggono parole in difesa della libertà di stampa la platea dedica molto affetto e Pollini un illuminante paragone: «Se Blair avesse fatto un editto per cacciare un giornalista della Bbc, avrebbero cacciato lui».

il Fatto 6.2.11
Saviano, l’investitura
“Ho un grande sogno di un altro Paese” A Milano in diecimila lo incoronano leader
di Mario Portanova


Milano. Parte con i temi suoi, il Sud di cui poco si parla, il voto di scambio che arriva a infettare le primarie del Partito democratico a Napoli, la macchina del fango che ci dipinge tutti ugualmente “immondi”, e dunque vinca il più furbo. All’improvviso, però, Roberto Saviano   cambia registro. Giù dal palco c’è una folla di 12 mila persone, raccolte al Palasharp di Milano da Libertà e Giustizia per invocare le dimissioni del presidente del Consiglio, travolto dallo scandalo ormai universalmente noto come bunga bunga. Altri duemila lo ascoltano dagli altoparlanti piazzati fuori. E l’autore di Gomorra si lancia in un discorso apertamente politico.   Talmente politico che qualcuno legge i segni di una suo prossimo impegno in prima persona. Si fa fatica anche solo a pensarlo: dopo l’anziano miliardario in perenne fuga dalla giustizia, lo scrittore trentenne baciato dal successo mondiale e braccato dalla camorra di Casal di Principe. “È inutile avere le mani pulite se si tengono i pugni in tasca – afferma Saviano – Vedo l’assenza di un progetto alternativo di governo, io sogno un progetto diverso. Ma non basta dire di essere diversi”. E ancora: “Dobbiamo dimostrarlo, comunque la pensiamo politicamente”.
E QUI ARRIVA il passaggio che fa pensare a una possibile svolta nella vita di questo ragazzo napoletano da nove milioni di spettatori, tanti ne ha tenuti incollati al video, insieme a Fabio Fazio, con la trasmissione Vieni via con me: “È il tempo di ritrovare l’unità, invece di fare la gara a chi è più puro, a chi è meno traditore”. E poi la conclusione, ispirata ad Albert Camus: “In genere andiamo   contro qualcuno, ora invece serve l’amore verso qualcosa di nuovo. È giunto il momento di pensare a ciò che siamo e a ciò che vogliamo”. Il popolo del Palasharp accompagna il suo ingresso e la sua uscita dal palco con lunghe standing ovation, grida di ammirazione: “Vai Roberto!”, “grazie!” e, appunto, “presidente!”. Qualcuno ha gli occhi lucidi, altri protendono i telefonini a catturarne il verbo. Quale che sia la meta di Saviano, il suo intervento tocca il punto dolente: se l’indignazione contro Berlusconi accomuna la folla degli auto-convocati   di Libertà e Giustizia, resta apertissimo il tema del “che fare?”. Sotto questo stesso tendone, nel 2002 ebbero il primo bagno di folla i “girotondi”, che Fausto Bertinotti definì “ceto medio riflessivo”. Nove anni dopo quel ceto medio è meno riflessivo e più arrabbiato, esasperato, rumoreggiante. In quale altro guaio deve finire il Cavaliere di Arcore per essere costretto a lasciare Palazzo Chigi? Quante altre manifestazioni ci dovranno essere per costringerlo alle dimissioni? Ammesso che succeda, il centrosinistra sarà in grado di proporre un’alternativa credibile? Sul palco intervengono anche Sandra Bonsanti, Gustavo Zagrebelsky, Umberto Eco, Susanna Camusso, Concita De Gregorio, Gad Lerner   e tanti altri, ma stranamente ci pensa un grande musicista, il maestro Maurizio Pollini, a evocare lo spettro di “un altro plebiscito per Berlusconi” in caso di elezioni anticipate.
IN PRIMA FILA, seduto accanto a Carlo De Benedetti, uno dei fondatori di LeG, c’è il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini. “Alle dimissioni di Berlusconi bisogna arrivarci davvero, con una grande mobilitazione”, si limita a dire. Prende la parola Umberto Eco, tra i più applauditi. Il suo intervento è disincantato e ironico: “Possiamo gridare quanto vogliamo, ma lui non se ne andrà, perché in comune con Mubarak non ha soltanto la nipote, e poi finirebbe nelle   mani della magistratura”. Anche il professore, però, conclude con un appello a fare sul serio: “Bisogna allargare il numero di quelli che scendono in piazza per dire no, se serve anche tutti i giorni”. Tutti i giorni? Oggi il Popolo Viola replica vicino al cuore del bunga bunga: ad Arcore, in piazza del Municipio dalle 14. “Non siamo l’Italia migliore, siamo solo l’Italia più informata”, ha detto ieri Sandra Bonsanti, presidente di Libertà e Giustizia. Avrà avuto modo di vedere la lista delle testate accreditate. La Cnn c’è. Il Tg1 no. Il Financial Times e El Pais ci sono, i tre telegiornali di Mediaset no. Un semplice cittadino indignato si è portato un cartello fatto in casa: “Silvio, go to Russia!”. E se lui avesse già portato la Russia qui?

Repubblica 6.2.11
Il cavaliere e il rais, due leader in fuga
di Eugenio Scalfari


Mubarak e Berlusconi, due destini gemelli. Chi l´avrebbe immaginato appena qualche settimana fa?

Tre giorni fa, mentre la sollevazione del popolo egiziano era arrivata al punto culminante, Silvio Berlusconi fu l´unico tra i dirigenti politici di paesi occidentali a dire che «Mubarak è un uomo saggio e bisogna lasciarlo dove sta. Sarà lui a fare le riforme e solo dopo potrà ritirarsi con onore».
Berlusconi e Mubarak risultano dunque strettamente – e inconsapevolmente – legati tra loro in diversi modi. Il primo è Ruby-Rubacuori, pretesa nipote del presidente egiziano secondo quanto Berlusconi dichiarò alla questura di Milano per ottenere la liberazione della minorenne marocchina dalla custodia della polizia. Mubarak non ha mai saputo di questa "birboneria" congegnata dal presidente del Consiglio italiano tirandolo in ballo.
Il secondo elemento che li lega è la crisi politica che incombe su entrambi; estremamente drammatica quella che minaccia il leader egiziano che deve fronteggiare un paese in rivolta; molto diversa e pacifica quella in corso in Italia che tuttavia configura anch´essa la decomposizione d´un sistema di potere e sembra preannunciarne la fine.
Infine un terzo elemento: sia al Cairo che a Roma, in attesa che le due crisi trovino una soluzione, il potere effettivo non è più nelle mani dei due leader ma è passato ad altre forze di tutela; al Cairo l´esercito, a Roma la Lega Nord. Due forme di transizione che sottolineano in modi diversi ma analoghi il declino inarrestabile dei vecchi leader e l´inizio di una fase nuova e ancora ignota ma ormai inevitabile.

Le partite in corso qui da noi sono tre, distinte e conflittuali tra loro.
Quella che interessa la Lega è la partita del federalismo. Dovrebbe esser portata a compimento entro il prossimo maggio; se quella data sarà superata la sconfitta politica per Bossi sarà cocente.
Perciò la Lega la mette in cima nella scala delle priorità e ha deciso di gestirla in esclusiva schiacciando in angolo le priorità del suo alleato.
Le partite che interessano Berlusconi sono invece quella di sottrarsi ai processi e quella di avviare provvedimenti di crescita economica che rilancino un paese immobile, impagliato e mummificato. Anche per queste due partite il tempo a disposizione si conta ormai a settimane, ma per quanto riguarda lo scontro giudiziario addirittura a giorni.
Il Paese assiste. In realtà la sola partita che lo interessi veramente è quella economica che però le altre contese rischiano di relegare in seconda o terza fila. Su questo terreno dovrebbero entrare in campo le opposizioni unificando i loro intenti, i loro programmi e le loro iniziative. Se riusciranno a farlo avranno anche preparato quello schieramento unitario con il quale dovranno affrontare le elezioni che, da maggio in poi, potranno essere indette in qualunque momento.
* * *
Il federalismo è partito col piede sbagliato e non è con le pezze di Calderoli che può essere recuperato e avviato sui giusti binari. Il tema dei costi standard è ancora tutto da discutere, ma non è neppur questo il punto essenziale.
Tremonti ha un suo "mantra" al quale nessuno ha mai creduto: minore burocrazia, minori spese, maggiori controlli dei governati sull´operato dei governanti.
Il mantra di Tremonti ha un difetto molto grave: non c´è una sola cifra che ne attesti la veridicità. Anzi: i decreti legislativi finora approvati o in corso d´approvazione dimostrano il contrario. I Comuni per ora sono alla fame; potranno avere un moderato sollievo tra tre anni. Intanto dispongono di risorse minime, ottenute con incrementi di sovraimposte e con tagli spesso crudeli di servizi. Regioni e Province stanno anche peggio. Lo stock degli impiegati aumenterà. I conflitti all´interno delle varie autonomie e con lo Stato aumenteranno anch´essi. Le diseguaglianze tra Comuni ricchi e poveri nella stessa area regionale e provinciale susciteranno continui conflitti di campanile. Bisognava accorpare i Comuni e abolire le Province prima di partire. Da ottomila Comuni a tremilacinquecento, questo era l´obiettivo e questa doveva essere la prima mossa d´un sistema di autonomie locali. E una politica del Mezzogiorno che diminuisse le diseguaglianze con il Nord.
Poiché niente di tutto ciò è stato fatto, avremo un sistema sgangherato di autonomie a due velocità e una selva di conflitti, rivalità, campanilismi e ulteriore decomposizione del sistema-paese. Di tutto questo Berlusconi se ne infischia ma – non sembri un paradosso – se ne infischia anche la Lega. Dopo il voto contrario della Bicamerale e lo sgarro costituzionale respinto giustamente da Napolitano, Bossi ha detto: «Quello che ci sta a cuore è che i soldi del Nord restino al Nord, il resto sono chiacchiere».
Voce dal sen fuggita. Se questa è la sostanza che sta a cuore alla Lega, essa non sta combattendo per un sistema di autonomie ma per una politica secessionista. Assolutamente inaccettabile. Io non credo che il Nord, tutti gli italiani del Nord, vogliano un federalismo secessionista. Le forze politiche responsabili (ovviamente non quelle di Moffa) dovranno porre questa domanda agli elettori di Torino, di Bologna, di Genova. Forse avremo qualche positiva sorpresa se la domanda sarà fatta con chiarezza e convinzione.
* * *
La politica di crescita. Ora la vuole anche Giuliano Ferrara, di nuovo nel ruolo di consigliere del Principe.
Sinceramente me ne rallegro, anche se le cognizioni economiche di Ferrara non risultano eccezionali, ma il "dominus" è Tremonti ed è a lui che bisogna guardare.
Il ministro dell´Economia è alla prese con la dottrina Merkel-Sarkozy-Trichet, che comporta rigore nei bilanci e riduzione dei debiti sovrani. È chiaro che per far fronte a questi criteri la crescita è indispensabile. Ma come si ottiene?
La risposta di Tremonti è questa: si ottiene con riforme senza spese, liberalizzazioni, vendita di patrimonio pubblico, aumento di produttività e di competitività. Un po´ di sgravi fiscali (spiccioli) per imprese e lavoratori.
Infine grande riforma del fisco (nel 2013 e anni seguenti).
Per intanto riscrittura dell´articolo 41 e abolizione dell´articolo 43 della Costituzione. Per poi, magari, abolire anche l´articolo 1, quello che recita «la Repubblica è fondata sul lavoro».
Una parola sull´articolo 41 (e 43): sono due articoli contenuti nella prima parte della Costituzione quella dedicata ai principi ispiratori della nostra Carta. Per convenzione tra tutte le parti politiche e sociali, la prima parte della Carta non deve essere toccata. Questa convenzione è saltata? Si può intervenire su tutto? C´è stata una consultazione su questo delicatissimo argomento?
Aggiungo: poiché presumibilmente le opposizioni voteranno contro la riscrittura dell´articolo 41, si andrà al referendum confermativo, con la conseguenza che avremo per la prima volta nella storia repubblicana un referendum costituzionale sulla prima parte della Carta, cioè sui principi che ispirano il nostro patto costituzionale.
Ebbene, noi crediamo che sia gravissimo questo programma di sottoporre a voto parlamentare e poi a referendum i principi che ci legano al patto costituzionale. Crediamo che il Capo dello Stato non firmerebbe quella legge e che la Corte la boccerebbe. Per modificare i principi ci vuole un´Assemblea costituente e troviamo molto strano che finora nessuno abbia sollevato questa questione.
Torniamo alla crescita. Con riforme senza spese non si fa niente. Va bene liberalizzare e certo sarebbe un bel giorno quello in cui la burocrazia decidesse in pochi giorni su un´autorizzazione o una licenza e che non ci volessero trenta passaggi e un anno e mezzo per ottenere un permesso.
In tutta franchezza noi credevamo che questo problema fosse stato risolto da un pezzo perché tutti i governi degli ultimi vent´anni ci hanno detto d´avere semplificato e ridotto all´osso il numero delle leggi e delle inutili complicazioni. Ricordo che Calderoli – ministro della Semplificazione – fece un pubblico falò con tanto di fotografi e televisioni e bruciò non so quante centinaia di leggi da lui abolite. Caro Calderoli, ma quali leggi ha bruciato se sono tutte ancora lì e se è vero che bisogna semplificare la burocrazia per costruire un edificio qualsiasi e per ottenere un qualsiasi permesso? Dunque non era vero quello che lei ci ha fatto intendere. Dunque avete gabbato anche questa volta i cittadini. Dunque siete un governo di imbroglioni. Dunque stiamo ancora discutendo sulla Salerno-Reggio Calabria. Non è una vergogna?
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È chiaro che le riforme senza spese non hanno nulla a che vedere con la crescita specie se la crescita bisognerebbe avviarla presto, anzi prestissimo. Nessuno vuole la patrimoniale, salvo l´imposta sulle case prevista dal decreto sul federalismo municipale. Ma per avviare la crescita, incrementare imprese e salari, rilanciare i consumi che scendono, contenere l´inflazione (che è una tassa, non è vero ministro Tremonti? Una tassa per di più regressiva?) i soldi ci vogliono.
Lei, nonostante i tagli, ha fatto correre le spese correnti (riducendo al minimo quelle per investimenti) del 2 per cento l´anno. Ha fatto aumentare il debito fino al 118 per cento. Ha azzerato l´avanzo delle partite correnti. Ha fatto aumentare la pressione fiscale.
I soldi per la crescita da dove li prenderà? Lo vedremo dai concreti provvedimenti che riuscirà a portare in Parlamento sempre che riesca a farsi luce tra il federalismo secessionista che piace tanto anche a lei e le leggi che servono al premier per bloccare i processi che lo riguardano.
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Dovrei parlare ora dell´altra partita, quella appunto sullo scontro giudiziario. Ma su quella non dico nulla, parlano e parleranno le carte. Una parola sulla foto "osé" della quale si parla con crescente insistenza. Se la foto c´è, qualcuno l´ha scattata. Quindi il premier fa entrare nelle sue case gente che è in grado di ricattarlo. Chiedo a Gianni Letta: perché lei ha escluso la ricattabilità del premier deponendo di fronte al Copasir? Se la foto ci fosse lei sarebbe smentito dai fatti. Ha considerato questa ipotesi? Le guardie non dovrebbero perquisire gli invitati del premier quando si tratta di "ragazze di vita"? E se quelle foto se le vendessero e se in contropartita del silenzio chiedessero soldi posti seggi nel Parlamento e nelle Regioni? Siamo ridotti in queste condizioni ed è questo l´uomo che rappresenta il governo e lo Stato?

il Fatto 6.2.11
I Radicali giurano “Mai in questo esecutivo”
di Sara Nicoli


... Ad agitare le acque del panorama politico è arrivato anche Marco Pannella. Una sua sibillina nota su Facebook ha ingenerato più di una domanda su cosa abbia in mente il leader radicale riguardo   al “salvataggio” del governo. “Oggi – ha scritto Pannella – escluderei che sia realistico immaginare che i radicali assumano responsabilità nell'attuale o altro governo Berlusconi. Ma sono fermamente convinto che sia metodologicamente necessario, democratico, un dovere civile aiutare anche le istituzioni disastrate e far durare la legislatura più in là possibile, se possibile fino alla fine”   . Marco Cappato, storico dirigente radicale, esclude che stia maturando nel partito una linea diversa da quella fin qui tenuta rispetto alla maggioranza. Nonostante i ripetuti incontri tra Pannella e Berlusconi.
SPIEGA CAPPATO: “La nostra storia parla chiaro dal ’96 al 2006 siamo rimasti fuori dal Parlamento proprio perché noi facciamo accordi di politica, non accordi per le poltrone; certo, se Berlusconi dovesse improvvisamente mandare avanti una delle nostre proposte, allora noi non potremmo che appoggiarlo, ma non mi pare che tiri quest’aria”. E infatti ne tira tutta un’altra: il Cavaliere è tornato alla carica con la legge sulle intercettazioni e sul processo breve, dicendo che “presto manderò in aula le riforme”. Come se fossero un’emergenza del Paese e non solo sua.

l’Unità 6.2.11
Intervista a Emma Bonino
«Piazze di libertà. Nessuno brucia bandiere americane»
L’ex Commissaria Ue : l’Europa ponga fine al sostegno di dittatori sanguinari e si schieri con le forze del cambiamento in Medio Oriente
di U.D.G.


Le proteste in Tunisia, in Egitto, come quelle che stanno segnando l’intera regione, ci stanno dicendo che il colore del cambiamento non è necessariamente islamista, come invece molti dei leader arabi avevano ripetuto all’Occidente, che ci aveva anche creduto: “O io o le moschee..”. Invece queste manifestazioni ci dicono che i diritti civili e politici e l’aspirazione alla libertà sono valori universali». A sostenerlo è Emma Bonino, vice presidente del Senato e profonda conoscitrice della realtà egiziana. In questa intervista a l’Unità, la leader radicale rilancia l’appello all’Europa affinché sostenga le forze che oggi chiedono un cambiamento democratico in Egitto e in tutto il Medio Oriente. Le ragioni di questo appello, Emma Boninino le ha indicate in un articolo pubblicato l’altro ieri dal Financial Times, scritto assieme a Anthony Dworkin, esperto di diritto internazionale al Consiglio europeo per gli Affari esteri. «È con il coraggio e non con la prudenza che in questo delicato momento possiamo contribuire a determinare gli sviluppi in Egitto, in Tunisia e in tutto il Medio Oriente scrivono possiamo forse fare poco nell'immediato per influire a breve termine su quanto sta accadendo in Egitto, ma dovremmo chiarire che i rapporti futuri con il Paese dipenderanno da come le autorità si comporteranno in questi giorni. Dovremmo dire che siamo pronti a sostenere la transizione verso la democrazia e che la violenza e la repressione porteranno l'Ue a rivedere i suoi rapporti commerciali e i suoi aiuti e i suoi legami con le classi dirigenti. Ma ancora più importante, dovremmo agire con fermezza per dare prova di aver rotto con il nostro approccio del passato, che temeva un cambiamento nel mondo arabo». «Quello che mi ha emozianato di più rimarca Emma Bonino è aver visto milioni di egiziani che non bruciano bandiere americane o israeliane, ma che sono scesi in piazza per sé, per i propri diritti».
Come leggere politicamente gli eventi che stanno ridisegnando il volto dell’Egitto? «Questa situazione non è priva di rischi. La stessa transizione democratica non è ad oggi garantita. Immagino che siano in corso colloqui, contatti sia pure ancora informali, per delineare una soluzione di transizione. D’altro canto, il passato c’insegna che elezioni rapide non sono necessariamente elezioni democratiche. E questo non vale solo per l’Egitto. Sarà necessaria, ad esempio, una nuova legge sui partiti politici così come un censimento più affidabile della popolazione. Più in generale, va rilevato che senza istituzioni forti e democratiche è difficile immaginare elezioni realmente democratiche. Mi rendo conto che quello della “transizione”, che richiede pazienza e accortezza, non è un discorso facilmente accettabile per quanti sono da giorni in piazza dopo tanti anni di chiusura; anni in cui si scendeva nelle strade solo quando il regime voleva e gli slogan che venivano imposti erano anti-imperialisti o anti-israeliani. Ora si vuole riguadagnare il tempo perduto. E’ comprensibile, è naturale ma è bene non scordare le lezioni del passato: elezioni rapide non sono necessariamente elezioni democratiche. Un discorso che va rivolto anche all’Occidente chiamato a fare i conti con suoi errori, con una visione miope...».
Quali errori?
«Il fascino dell’uomo forte, invece che delle istituzioni forti e democratiche, è una costante dei rapporti internazionali da tempo immemorabile; una dottrina secondo la quale nelle relazioni internazionali si considerano solo due aspetti: i rapporti economici e/o gli interessi geostrategici, sacrificando completamente la questione caldeggiata da sempre da noi radicali transnazionali della promozione e del sostegno dei diritti civili e politici. Le democrazie occidentali hanno la pesantissima responsabilità di aver sempre sostenuto dittatori corrotti e sanguinari».
E l’Italia in tutto questo?
«L’Italia è perfettamente inserita in questa visione miope e riduttiva delle relazioni internazionali; una visione portata avanti, purtroppo, con il sostegno dell’intero panorama politico con le solite eccezioni...».
Lei conosce e ama l’Egitto. Cosa l’ha emozianata di più degli eventi che stanno segnando il Paese? «Quello che mi ha emozionato di più è aver visto milioni di persone, e tra di loro tante donne e ragazze, che non bruciano bandiere americane o israeliane ma che sono in piazza per sé, per i propri diritti».

l’Unità 6.2.11
Solo balbettii dalla Ue
Ma i popoli vogliono l’Unione Mediterranea
Troppi silenzi e poco appoggio dai 27 alle ribellioni contro le satrapie del Nordafrica mostrano l’assenza di una vera leadership e di una politica estera comune
di Pino Arlacchi


I grandi avvenimenti di questi giorni sulla sponda sud del Mediterraneo si stanno evolvendo nell’assenza di qualsivoglia posizione significativa da parte dell’Unione europea. La mancanza di una leadership forte e autorevole si è rivelata in tutta la sua gravità. Il Presidente Barroso, la signora Ashton ed altri commissari, invece di collocarsi in prima fila nel sostegno ai diritti di libertà dei cittadini del Nordafrica, hanno pronunciato una sequela di dichiarazioni banali e includenti. All’ inizio della ribellione tunisina hanno solo saputo dire che occorreva mantenere la calma ed evitare le violenze. Dopo lo scoppio del movimento per la democrazia in Egitto, e dopo il rapido cambio di posizione degli Stati Uniti, si sono spinti fino al punto di dichiarare che l’Europa guarda con favore alla transizione democratica in corso. Basta. Nient’altro che sia degno di nota. Il minimo indispensabile. Il minimo comune denominatore di una misera aritmetica a 27 voci.
Alcuni tra i maggiori Stati membri dell’Unione, inoltre, con in testa l’Italia di Berlusconi, hanno spinto ancora più in giù il profilo dell’Europa non chiedendo le dimissioni di Mubarak, non esprimendo la propria solidarietà alle forze che si battono contro le tirannìe della regione, non rilanciando la carta della partnership strategica con paesi e popoli che in poche settimane hanno accorciato drasticamente la loro distanza dal nostro continente.
Nessun leader europeo ha parlato di rilancio su basi molto più avanzate del progetto di Unione mediterranea, anticamera di una associazione politica completa. Nessun esponente della Commissione europea ha fatto autocritica sulla politica degli aiuti consegnati negli ultimi dieci anni ai governi dell’Egitto e della Tunisia per lo sviluppo dei loro Paesi: un paio di miliardi di euro finiti chissà dove. Per esempio nel patrimonio personale di Ben Ali, Mubarak e soci. Stimati rispettivamente a 40 e 70 miliardi di dollari.
Il tradimento dei principi fondativi dell’Unione europea è stato completo. L’articolo 12 del Trattato di Lisbona stabilisce che «la politica estera dell’ Unione europea deve fondarsi sugli stessi principi che stanno dietro la sua creazione», e in primo luogo l’universalità e l’indivisibilità dei diritti umani. Invece di porsi come difensori severi di questi valori, i rappresentanti massimi dell’Unione sono rimasti silenziosi di fronte agli abusi delle autocrazie Nordafricane, dando al mondo un vergognoso spettacolo di debolezza.
L’Italia e la Spagna, in particolare, si sono girate dall’altra parte di fronte alle violazioni dei diritti umani fondamentali nella regione, credendo di barattare la loro codardia con la cooperazione in materia di politiche anti-immigrazione e con le forniture di gas e di petrolio.
Tutto ciò deve essere confrontato con la posizione degli Stati Uniti. I quali hanno saputo seguire la crisi modificando man mano la propria posizione fino ad imboccare la strada giusta. Chiedendo agli eserciti dei paesi interessati di rispettare i diritti dei civili, premendo sulle élites al potere perché non ostacolino la transizione democratica, arrivando di fatto a chiedere a Mubarak di ritirarsi, e sollevando gli appropriati interrogativi sulla opportunità di proseguire con l’aiuto militare all’ Egitto.
Posizioni espresse in modo chiaro, diretto e convincente da Obama in persona. Posizioni che hanno fatto passare nell’ombra i trent’anni di inflessibile sostegno americano alla satrapia egiziana, e che stanno facendo balenare la visione di una potenza liberale, pronta a mettere le sue grandi risorse al servizio della causa della democrazia e dei diritti umani. Le posizioni che avrebbe dovuto prendere l’ Europa, visto il suo Dna, se non fosse stata umiliata dalla mediocrità dei suoi governanti.
Non è lontano il momento nel quale il nodo di questa mediocrità arriverà al pettine del Parlamento europeo. Che saprà dare uno scossone, come ha fatto in passato, alla baracca traballante della Commissione.
Ma nel frattempo un’occasione cruciale sarà andata persa.

il Fatto 6.2.11
Che Dio (e la Polverini) ci aiutino
Il Lazio dà dieci milioni di euro a tre ospedali religiosi
di Mario Reggio


La Fede aiuta chi soffre, chi è malato. Ma aiuta anche gli ospedali religiosi della Capitale. Che la Fede sia la chiave per avere soldi lo dimostrano le tre de-libere approvate il 28 gennaio dalla giunta Polverini. Dieci milioni di euro a tre ospedali religiosi convenzionati, per ristrutturazioni edilizie e acquisto di apparecchiature sanitarie. Nell'ordine. Un milione di euro all'ospedale accreditato “Regina Apostolorum” per “programmi di intervento edilizio e per l'acquisizione di tecnologie sanitarie”. Sette milioni di euro al Presidio accreditato “Fatebenefratelli ospedale San Giovanni Calibita” dell'Isola Tiberina per gli stessi obiettivi. Due milioni di euro a disposizione del Presidio accreditato “Fatebenefratelli Ospedale San Pietro” per interventi edilizi e tecnologie sanitarie. 
Che i governi regionali del Lazio abbiano sempre avuto un occhio di riguardo verso la sanità cattolica è una vecchia storia. Ma elargire oggi 10 milioni di euro, nel pieno del programma di ristrutturazione della rete ospedaliera, con la chiusura di strutture e Pronti soccorso, le proteste dei sindaci e della popolazione, è una mossa davvero azzardata. D'altro canto la scelta della giunta Polverini è illegittima, perché gli ospedali religiosi convenzionati restano privati e la Regione Lazio rimborsa solo le prestazioni, le analisi e le degenze in base alle tabelle previste dalla legge. Quindi non è difficile prevedere che, quando la notizia diventerà di dominio pubblico, pioveranno i ricorsi al Tar.
Ma quanto costa la sanità cattolica alle casse della Regione? La risposta non è semplice. Le strutture religiose glissano. In via della Pisana la   giunta è alle prese con i tagli per rientrare dal gigantesco debito accumulato negli ultimi anni, quasi 10 miliardi di euro, e non è in grado di dare risposte certe.
I conti non tornano
VEDIAMO di capirci qualcosa. Nel 2010 il Fondo sanitario nazionale ha destinato alla Regione 9 miliardi e 440 milioni di euro. Di questi circa 6 finiscono nelle casse della sanità romana, pubblica e convenzionata. La fetta destinata a quella cattolica supera i due miliardi.
 “È evidente che il costo ingente della sanità cattolica – commenta Giulia Rodano, vicepresidente della Commissione sanità alla Regione, consigliere dell'Idv – deriva dalla presenza in una città come Roma dello Stato Vaticano. La capitale ha un'altissima offerta di sanità pubblica e religiosa e ben cinque policlinici universitari, tra i quali il Gemelli e il Campus Biomedico, che in totale costano ogni anno 400 milioni di euro,ovvero un terzo del disavanzo annuale della sanità del Lazio”. 
Impossibile parlare nel dettaglio delle decine di strutture sanitarie che fanno capo al mondo cattolico. Tra queste case di cura per lungodegenza e riabilitazione, assistenza ai malati psichiatrici e ospedali convenzionati “classificati” tra i quali il Fatebenfratelli, il Cristo Re, il San Carlo di Nancy e l'Istituto Dermatologico dell'Immacolata, solo per citarne alcuni. È necessaria una scelta. Una scelta legata alle diverse tipologie di assistenza, alle dimensioni ma unite dalla visione cattolica della cura e della sanità. E la scelta è caduta sull'Università cattolica del Sacro Cuore, ovvero il Policlinico Gemelli, per dimensioni la “portaerei” della flotta cattolica. Poi l'Ospedale pediatrico Bambino Gesù,ilvelieroclasseVespucci   che gode dei previlegi dell'extra-territorialità e di proprietà diretta della Santa Sede. Da ultimo il Campus Biomedico,dove aleggia lo spirito di Josemaria Escrivà, il fondatore dell'O-pus Dei, il sommergibile nucleare di ultima generazione della squadra.
Policlinico Gemelli
INCASTONATO tra via della Pineta Sacchetti e la via Trionfale, è uno dei più grandi   ospedali romani. La sua nascita è legata alla volontà e alla perseveranza di padre Agostino Gemelli, ordine francescano, medico, psicologo, al secolo Edoardo Gemelli, nato a Milano nel 1878 e morto nel 1959. Decisamente schierato a favore del regime fascista, ha dedicato la sua vita alla diffusione dei principi della sanità cattolica. La sua ultima impresa è l'apertura dell'Università cattolica a Roma. Il terreno è pronto. È' di proprietà della Società generale immobiliare, cioè del Vaticano, travolta poi dal crac Sindona. È il 1959. Da tempo le parrocchie hanno lanciato la campagna per la raccolta dei fondi, altri soldi arrivano dalle donazioni delle pie e ricche famiglie. Il 5novembre del 1961, alla presenza di Giovanni XXIII, s'inaugura la facoltà di Medicina del Sacro Cuore. Padre Gemelli aveva lasciato questa Terra due anni prima. Nel 1964 nasce il Policlinico Gemelli. Oggi la portaerei viaggia   a pieno ritmo. Nell'ultimo anno 105 mila i pazienti dimessi tra ricoveri ordinari, riabilitazione e day hospital. Uno su 5 provenienti da altre Regioni. Ottantamila prestazioni erogate dal Pronto soccorso. Quarantamila interventi chirurgici. Anche la facoltà di Medicina non scherza. Quattromila e duecento iscritti ai diversi corsi di laurea e specializzazione, seguiti da 711 docenti. I primi 71 medici laureati nel 1967, fino a oggi 7.485 laureati in Medicina e 438 in Odontoiatria. Fino a qualche annofa, per partecipare ai test d'ingresso, era necessario un attestato del parroco che certificava la religiosità dell'aspirante. Una prassi abbandonata quando è diventato palese che molti di quegli attestati erano palesemente dovuti al buon cuore del prelato. Chiudiamo con il vile denaro. Per il 2010 la richiesta di finanziamento per le prestazioni è stata di 610 milioni di euro, ma la Regione ha riconosciuto   al Gemelli mezzo miliardo di euro.
Bambin Gesù
È NATO nel 1869 grazie a una gentile donazione della famiglia Salviati al Vaticano, poco prima dell'arrivo dei bersaglieri. La struttura gode dell'extra-territorialità   , quindi le duemila e seicento persone che ci lavorano, tra medici, infermieri, tecnici e volontari vengono pagati dalla Santa Sede, ma non pagano le tasse allo Stato italiano. Dal 1985 il Bambino Gesù è stato riconosciuto Istituto di Ricovero e cura a carattere scientifico.
L'ospedale è senza fini dilucro, il 35 per cento dei bambini arriva da altre Regioni, soprattutto dal centro-sud e la percentuale sale al 60 per le malattie più complesse. Per l'assistenza e la ricerca il bilancio è stato, nel 2010, di 192 milioni di euro. Il Bambino Gesù gode, in base al Concordato, di un trattamento particolare: irimborsi vengono pagati direttamente dal ministero dell'Economia.
Campus Biomedico
UN OSPEDALE piccolo per le dimensioni, solo 238 posti letto, e una facoltà di Medicina che conta quasi mille studenti. Nella proprietà l'Opus Dei non risulta, ma la sua presenza è palpabile. “Nessun componente della Prelatura può mettere bocca ed influire sulle scelte operative e gestionali del Campus”, afferma uno dei portavoce. Per anni, dal 1994, il Campus ha tirato avanti, ospite dell'American Hospital. Due anni fa il colpo di reni. La società proprietaria, la Ucbm, decide di investire 140 milioni di euro per voltare pagina. Compra un terreno nei pressi di via di Trigoria, quadrante sud di Roma. Strutture moderne, stanze a due letti con bagni puliti e dotati di tutti i comfort. “A volte i pazienti chiedono se devono pagare qualcosa perchè pensano di essere capitati in un istituto privato”, racconta un medico.
E poi la facoltà di Medicina: mille studenti e cento docenti.   Nel Policlinico lavorano mille persone. La selezione dei medici è ferrea: solo équipe chirurgiche che possono vantare più di mille e cinquecento interventi l'anno. Poi la ricerca scientifica di alto livello, e da ultimo il corso di specializzazione per i medici di famiglia post-laurea.
Una struttura moderna, piccola, ma che viaggia a velocità supersonica. Sempre in nome della Fede.

il Fatto 6.2.11
Il ‘brunettismo’ applicato ai prof

di Marina Boscaino

Qual è il rapporto tra blocco dei contratti, annullamento dell’integrazione degli “scatti” salariali, peggioramento parossistico delle condizioni di lavoro dei docenti e avvio della “meritocrazia”? Nessuno. Persino se si tratta di una meritocrazia di facciata, dal respiro breve e senza risorse, come quella contenuta nella bozza di decreto sulla valutazione degli insegnanti ideato al Miur, il contrasto tra frequente mancanza di requisiti indispensabili per lavorare con dignità e demagogia del progetto di premiare il merito a costo zero è eclatante. È ormai noto a tutti il   fallimento della “sperimentazione” sulla valutazione: la straordinaria compattezza dei collegi docenti ha bocciato il tentativo di lusingare comprensibili (dati i salari) appetiti economici. Non così urgenti, però, da approvare un piano mercantilistico basato su consenso delle famiglie, progetti attuati, giudizio di comitati impreparati, istigazione a creare cordate e guerre tra poveri, alla faccia della collegialità; e del contratto nazionale che, anche se si ostinano a non tenerne conto, è valido fino a dicembre 2011. Invece di ammettere la débâcle e studiare (attività che né Gelmini né i suoi scriba conoscono e praticano) un problema complesso   come la valutazione, ecco la soluzione dall’alto. Farraginosa, come sempre, poiché neanche i sindacati hanno un testo ufficiale: Gel-mini, Brunetta e Tremonti (triade che la scuola pubblica non dimenticherà) hanno non consegnato (come vorrebbero relazioni sindacali corrette), ma solo illustrato   la bozza di decreto che – indifferente al no della scuola – attuerà anche da noi la riforma Brunetta per misurare il merito nel pubblico impiego. Una procedura al solito indifferente al confronto su materie fondamentali e delicatissime, che può diventare tramonto di un’idea democratica di scuola o cappio a cui il governo rischia di impiccarsi: un ricordo per tutti, il concorsone di Berlinguer. Sedici articoli, a premiare solo il 75 per cento dei docenti di una scuola. Trasparenza di premio e premiati, con apposite documentazioni sui futuribili siti istituzionali, in attesa di un provvedimento ad hoc del ministero relativamente a “fasi, tempi, modalità, soggetti e responsabilità del processo di misurazione e valutazione della performance, nonché di monitoraggio e verifica” del suo andamento. Vengono definiti in modo perentorio procedure e principi (senza entrare nel merito del “cosa” valutare), sottolineando in maniera inequivocabile la pericolosissima operazione culturale e   politica del governo: ridurre la scuola – che ha natura inconfutabilmente autonoma, proprio per le caratteristiche del proprio mandato – a logiche del pubblico impiego. Misurare performance (sic!) di postini o impiegati ministeriali è altro da valutare attività di insegnamento, sottoposte a variabili tanto imprevedibili quanto le condizioni di contesto. Individuare modalità premianti formali significa ignorare (volontariamente) la centralità educativa propria della scuola. E dimostrare che la “sperimentazione” – sulla scia di tante tristi analoghe operazioni dei governi di centrodestra, di cui sono stati sapientemente occultati i risultati – è l’ennesima manipolazione mediatica cui tante volte abbiamo assistito. Lanciare e imporre il merito a prescindere dai risultati e persino dall’avvio di sperimentazioni che – come molti sospettavano – sono pura propaganda, è operazione autoritaria e demagogica. Le scuole possono ancora provare a ribadire il proprio no.

Corriere della Sera 6.2.11
Che guaio la democrazia blindata
Il bipolarismo rigido aumenta i pericoli d’involuzione dispotica
di Luciano Canfora


S’ intitola La democrazia dispotica un recente, rilevante saggio di Michele Ciliberto (Laterza). È un libro dotto e ben costruito, che riguarda le evidenti deformazioni, e si potrebbe ormai dire degenerazioni, del meccanismo rappresentativo-elettivo, identificato, nel linguaggio comune, con la «democrazia» . Ciliberto si interroga sulla peculiarità, o meno, del caso italiano e dedica, tra l’altro, pagine meditate al fenomeno del «potere carismatico» . Evoca i grandi nomi che su tale questione rifletterono, da Croce a Max Weber, in una temperie in cui tornava sempre al centro la questione delle questioni: il ruolo della personalità nella storia. Plechanov, Lenin, ma già ben prima Tolstoj in pagine fondamentali di Guerra e pace ne avevano dibattuto. Ma Ciliberto ha anche la saggezza di distinguere tra «carismatici» (da Bonaparte a Bismarck) e caudillos. A mio giudizio, pur tra tanti pregi, questo libro, che è di assai piacevole lettura, muove da un presupposto ottimistico: che cioè davvero il blocco populista-opulento oggi al potere in Italia possa essere indotto, dalla controparte, a «condividere regole e valori prepolitici e preistituzionali» . Un altro presupposto è che la questione non sia solo italiana: ai nostri interlocutori europei — scrive l’autore— dovremmo obiettare de te fabula narratur. Ma questo appare improbabile. Non si vede in Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna alcunché di simile ai nostri fenomeni degenerativi. E per giunta il nostro è il solo Paese europeo dove non esiste più un partito di massa di sinistra (avendo il Pd, per definizione e composizione, natura non più di sinistra ma di centrosinistra). Un terzo presupposto dell’autore è che il cosiddetto «bipolarismo» sia un bene da non intaccare («Bisogna mantenere l’opzione bipolare se si vuole mettere su solide basi la democrazia nel nostro Paese» ). Questo presupposto sembra a me un cedimento agli idola fori, per dirla con Bacone. Il bipolarismo, infatti, essendo incardinato su leggi elettorali di tipo maggioritario (o del genere anglosassone, in cui «chi vince prende tutto» come alle corse dei cavalli, o del genere gollista «a doppio turno» , mirante alla liquidazione delle ali «estreme» ), produce — come risultato peraltro fortemente voluto — un esito, in termini di mandati parlamentari, sperequato, difforme e falsificante rispetto ai voti popolari. E dà perciò l’illusione che il cosiddetto vincitore abbia conseguito un vantaggio molto netto e preponderante («una larghissima vittoria elettorale» ). Si determina dunque una illusione ottica, dalla quale converrebbe incominciare a liberarsi. Quando si parla di «egemonia» berlusconiana nel nostro Paese, si trascura che essa è almeno in parte frutto per l’appunto di leggi elettorali fondate su «premi» e su consimili strumenti coniati ad hoc per falsare il risultato del voto popolare e regalare la maggioranza assoluta a chi ha conseguito soltanto quella relativa (che rispetto all’intero elettorato resta una minoranza). Non è privo di senso ricordare che il ministro Alfano, nel corso di una trasmissione (Ballarò) andata in onda, in piena bufera sessual-politica, lo scorso 18 gennaio, ha indicato, col consueto trasporto, quale primo merito del suo presidente del Consiglio avere questi «blindato il bipolarismo» . Oggi i sondaggi danno al blocco populista opulento (Pdl+Lega) un 40 per cento delle intenzioni di voto, e questo— grazie alla legge elettorale— viene considerato, per lo meno per l’elezione della Camera, un buon margine di sicurezza per l’attuale blocco governativo. Vien da ricordare che nelle elezioni politiche del 1958 la Democrazia cristiana da sola conseguì il 42 per cento dei voti, contro il 22 del Pci e il 14 dei socialisti, e fu costretta, nonostante tale successo, ad avviare, assai riluttante, l’esperienza del centrosinistra (con il Psi e su sollecitazione dei partiti repubblicano e saragattiano). Un partito che da solo era al 42 per cento dei voti e degli eletti doveva, allora, trattare con forze politiche differenti e dar vita a soluzioni politiche che tenessero conto delle istanze di forze diverse, con le quali infatti si giungeva a un fecondo punto d’incontro (definito, con un pizzico di malafede, «consociativismo» ). L’esatto contrario dell’astratto e ingegneristico, e al fondo «metastorico» e «metapolitico» , bipolarismo. Nello studiare la realtà politica italiana Ciliberto usa strumenti sofisticati. E questo è un altro pregio del libro, che si estolle di molto rispetto alla effimera ed esagitata pubblicistica politica che ci inonda quotidianamente in varie guise. Forse però l’autore vola troppo alto; mentre per un verso è efficace nel delineare la democrazia dispotica italiana e il suo principale attore, per altro verso, quando poi passa alla pars construens, sembra avere in mente un’Italia in cui miracolosamente il centrodestra ha quasi le fattezze del movimento finiano. Donde l’auspicio di una futura lotta politica condotta sulla base di solide, addirittura «preistituzionali» , «condivisioni» . E invece Ciliberto sa bene che l’attuale blocco populista-opulento, che sustanzia il «dispotismo democratico» , «ha rotto con la tradizione, con l’antifascismo, con la religione civile dell’antifascismo» . Questo dato rende molto problematiche quelle auspicate «condivisioni» . Un altro merito del saggio consiste nello studio del fenomeno «democrazia dispotica» , considerato nelle sue affinità e nelle sue differenze rispetto a quel dispotismo democratico che Tocqueville intravide e delineò alla conclusione del saggio sulla Democrazia in America. Aggiungerei al «dossier» un’altra fonte. Un acuto osservatore novecentesco della realtà statunitense, il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, esule in Usa durante il nazismo, in una nota al suo Arbeitsjournal (Diario di lavoro, Einaudi) datata 7 febbraio 1942 osservò: «Un fascismo americano sarebbe democratico» . Fulminante ed efficace definizione, nonché previsione che ci avvicina ancor di più al nocciolo della questione.

Corriere della Sera 6.2.11
Entusiasmo e fanatismo: il fascino dei catari
di Armando Torno


I catari devono il loro nome al greco kátharoi, che significa puri. Nel XII secolo si cominciarono così a chiamare alcune tendenze religiose che praticavano un forte ascetismo e credevano in una concezione dualistica, fondata su due principi originari: il Bene e il Male. E questo anche se il termine kátharoi circolava dai primi tempi del cristianesimo, giacché in tale modo si autodefinirono nel III secolo i seguaci del vescovo Novaziano, tanto che si trovano citati in un documento del Concilio di Nicea del 325. Nel medioevo si diffusero nell’Italia settentrionale (ma anche in Toscana), in Svizzera, nelle Fiandre, in Germania e nella Francia meridionale, dove si chiamarono albigesi, perché nella città di Albi — capoluogo del dipartimento del Tarn— ebbero il loro riferimento. La dottrina praticata, che tra l’altro considerava Cristo come un angelo dalle sembianze umane adottato da Dio, scatenò contro di essi predicatori quali Domenico di Guzmán e una crociata. La repressione fu dura e l’Inquisizione colpì senza particolari indulgenze gli ultimi cenacoli dopo la loro sconfitta. Ora un libro di Elena Bonoldi Gattermayer, Il processo agli ultimi catari. Inquisitori, confessioni, storie (Jaca Book, pp. 336, e 24) ci porta direttamente nel cuore di questa fede clandestina della «Eglesia de Deu» attraverso i testi di numerosi interrogatori giacenti negli archivi vaticani e inediti in italiano. Un materiale dedicato alla fede rivoluzionaria dei catari che, tra l’altro, rifiutavano i beni materiali e le espressioni della carne. Un’opera che restituisce voce al funzionario (Guillame Autast) o a un medico notaio (Arnaud Teisseyre di Lordat), a un «giudeo battezzato» che si chiamava Baruch o alla nobile Béatrice de Planissoles. Non mancano nemmeno indagini sui lebbrosi e sui veleni e filtri da mettere nei pozzi, nelle fontane e nei fiumi per diffondere il contagio; né particolari rituali perduti, come quello che narra il ricordato Baruch. Sono sue parole: «Ai giudei battezzati che ritornano al giudaismo secondo la dottrina del Talmud sono tagliate le unghie delle mani e dei piedi, rasati i capelli, il corpo è lavato con l’acqua corrente secondo la Legge, come si purifica una donna straniera che sposa un giudeo. Noi pensiamo che il battesimo renda impuri quello che lo ricevono» . A Pierre Maury di Montaillou, un fervido credente, l’inquisitore d’Aragona chiede: «Avete udito dire che Cristo ha mangiato, bevuto ed è morto poi crocefisso?» ; egli risponde con una frase che compendia molte credenze dei catari: «No, egli non mangiò, ma si nutrì di grazia, sembrò che fosse stato crocefisso e quindi morto, ma lui come figlio di Dio non soffrì alcun dolore, e non morì realmente perché Dio non poteva fargli alcun male. Ed egli si lasciò fare tutto in apparenza» . Un universo religioso riappare con il suo fascino, tra entusiasmi e fanatismi, testimoniato da cuori puri. E da qualche durezza ecclesiastica.

Corriere della Sera 6.2.11
Bellocchio, il labirinto vuoto
di Franco Cordelli


I pugni in tasca di Marco Bellocchio dopo quarantasei anni arriva sulla scena. Si tratta di un tipo di operazione che ha una storia illustre e che negli ultimi anni è diventata sempre più frequente. A scoprire che per fare teatro non è necessaria una scrittura drammaturgica furono le avanguardie. Il teatro si può fare anche recitando l’elenco del telefono, il teatro non è che scrittura scenica: dal Tarzan di Memè Perlini (un romanzo di Edgar Rice Burroughs) al Mago di Oz di Fanny e Alexander (un film di Victor Fleming). Ma qui siamo di fronte a registi e spettacoli nei quali il testo originario era un punto di partenza e poi di riflessione e trasfigurazione. Diversa cosa sono gli allestimenti (cito i recenti) di Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar, de L’appartamento di Billy Wilder o di questo I pugni in tasca. A tradurre la sceneggiatura in copione teatrale è stato lo stesso autore del film. Ci si chiede perché si sia lasciato tentare. Così dimostra di credere non in ciò che fece in quanto regista, ma in ciò che scrisse in quanto sceneggiatore. Bellocchio crede nelle storie, nelle storie in sé, nella loro intrinseca pregnanza. Al contrario, le storie in sé sono quasi nulla, poco più o poco meno che cronache giornalistiche: le consumiamo e in fretta ce ne dimentichiamo. Assistendo allo spettacolo intitolato I pugni in tasca ciò è chiarissimo. Prima di tutto, della storia originaria non è rimasto che lo scheletro. I passaggi narrativi che giustificavano (per quanto possibile) azioni morbose o efferate, qui non ci sono più, si resta a bocca asciutta, spettatori dell’inespresso, ovvero dell’incomprensibile. Se si capisce, si capisce in termini grossolani, pessimi luoghi comuni di quanto di peggio può accadere in una famiglia vissuta come ambiente claustrofilo. Poi c’è la questione cruciale. Ogni sceneggiatura, se la si prende per buona, se la si prende in quanto tale, benché adattata, è una scrittura virtuale o, meglio, funzionale. L’intensità del film di Bellocchio non era data dalla drammaticità della storia ma dallo sviluppo delle sequenze e dalla icasticità di ognuna di esse. Quella certa battuta aveva quel certo valore perché a dirla era Lou Castel dal regista inquadrato in un certo modo, su uno sfondo, o in un contesto piuttosto che in altro. Qui gli attori sono nudi, all’aperto, al freddo, impacciati, spauriti, sembrano aggirarsi sul palcoscenico non avendo di meglio da fare; e qualunque cosa dicano ci si chiede perché la dicono, che valore abbia, essa risuona puntualmente in un inimmaginabile vuoto di regia. La regista è Stefania De Santis, ma di lei sappiamo il nome, che cosa avesse in mente nessuno lo sa. Questa storia, di quattro fratelli imbranati o pazzi, al meglio potrebbe somigliare a una pessima commedia di Tennessee Williams. Ma quando Ambra Angiolini dice qualcosa e la scena si svuota e lei rimane poggiata a un palo, o asta o colonnina, in silenzio per un minuto e mezzo, come se da questo silenzio si dovesse sprigionare chissà che tensione, noi spettatori si resta francamente imbarazzati. Non solo non ha senso il copione, ma è lo spettacolo a risultare d’una dilettantesca goffaggine. In quanto alla Angiolini, se ne tocca con mano l’insicurezza, si percepisce d’essere di fronte a un’attrice che si vede e si sente recitare, un’attrice che pensa a ogni parola o gesto che fa. La scena, una specie di labirinto su più piani, è di Daniele Spisa. Tra gli interpreti ricordo Pier Giorgio Bellocchio (il più credibile) nella parte che fu di Lou Castel.

La Stampa 6.2.12
Il film di Bellocchio secondo la De Santis
Fiacchi “Pugni in tasca”
di Masolino D’Amico


Lunghi silenzi. La scena è fiocamente illuminata, l’atmosfera quasi cecoviana

Le commedie tratte dai film sono di due tipi, quelle per chi non ha visto il film, che quindi funzionano anche indipendentemente, e quelle per chi invece ha visto il film e vuole per così dire ripassarselo. Ora, I pugni in tasca che Marco Bellocchio ha tratto dal copione del folgorante esordio cinematografico (1965) suo e dell’interprete Lou Castel (che il grande critico inglese Kenneth Tynan paragonò al Marlon Brando del Tram ) non rientra agevolmente né nella prima né nella seconda categoria. Si può chiedere al cinefilo di rievocarlo con facce diverse - anche se quella di Pier Giorgio Bellocchio come lo spiritato Alessandro ricorda tanto quella di suo padre giovane - senza quel bianco e nero sprezzante dell’eleganza, già rétro in un’epoca in cui il colore dilagava? Ma anche come semplice dramma noir regge male, almeno nello spettacolo diretto da Stefania De Santis: spezzettato in miniepisodi precariamente saldati con oscuramenti; poco agilmente articolato in una scenografia su più livelli nessuno dei quali consente una visione davvero soddisfacente; fiocamente illuminato, con un’atmosfera quasi cecoviana (lunghi silenzi) poco adatta alla ferocia della storia. Questa, si sa, riguarda una famiglia con madre cieca e soavemente ricattatrice, un figlio pazzo, un figlio normale ma stronzo, un figlio schizofrenico-epilettico, e una figlia frustrata. Liberatoriamente, il figlio schizofrenico elimina la madre e il pazzo e violenta la sorella, consegnando così il patrimonio, una casa di campagna con terre, al fratello normale. Nell’indimenticabile film questa truce materia coniugava dolore, passione repressa, malinconia; qui rimane inerte. Vestiti da Armani, i cinque attori parlano sommessamente, molto composti tranne Bellocchio junior, per 90 filati; l’attesa Ambra Angiolini è diligente e graziosa.
Al Quirino di Roma fino al 13

Corriere della Sera Salute 6.2.11
Per i 150 anni dell’Unità d’Italia onori anche per un’intuizione non riconosciuta La penicillina, una scoperta italiana
di Ruggiero Corcella


La domanda è più che legittima: perché tanti anni di silenzio? Giulio Capone continua a chiederselo. «È passato più di un secolo dalla pubblicazione di quel lavoro semplice, chiaro, di gran rigore scientifico e tutto è rimasto nascosto» . Giulio Capone è medico di base a Roma, specializzato in dermatologia: il lavoro a cui si riferisce lo ha scritto Vincenzo Tiberio, suo nonno. Un nome ancora sconosciuto al grande pubblico, ma non alla comunità scientifica italiana e internazionale. Sì, perché nel 1895 quel giovane medico igienista, un po’ burbero e geniale, pubblicò lo studio «Sugli estratti di alcune muffe» negli Annali di Igiene Sperimentale, una rivista prestigiosa dell’epoca. Il fascicoletto conteneva i risultati delle ricerche che lo avevano portato a scoprire il potere battericida delle muffe, ben 34 ann i p r i m a c h e Alexander Fleming pubblicasse le sue osservazioni sul British Journal of Experimental Pathology. Insomma, l’inventore della penicillina è, per molti, l’italiano Vincenzo Tiberio. «Primo nella scienza, postumo nella fama» , recita la lapide commemorativa che il comune di Sepino, in provincia di Campobasso, ha voluto collocare sulla facciata della sua casa natale. Ora il Consiglio nazionale delle ricerche ha deciso di rendere onore al merito dello scienziato, promuovendone la figura con il documentario «Vincenzo Tiberio. Il vero papà della penicillina» (si veda il box a sinistra). Chi era dunque Vincenzo Tiberio e come arrivò a precorrere Fleming? La storia è affascinante e merita di essere raccontata attraverso la testimonianza del nipote e di Salvatore De Rosa, scienziato dell’Istituto di chimica biomolecolare (Icb) del Cnr di Pozzuoli, appassionato studioso di Tiberio. «Mio nonno nacque nel 1869 a Sepino, città costruita dai Romani dopo la vittoria sui Sanniti. Suo padre, Domenico Antonio, era un notaio e quindi la famiglia stava bene. La casa era un piccolo centro di cultura, frequentata da studiosi e professionisti. E Vincenzo mostrava una spiccata propensione per gli studi scientifici» . Dopo il liceo, il padre lo iscrisse alla facoltà di Medicina di Napoli e lo mandò a vivere dagli zii Graniero, ad Arzano. La casa di Arzano e il suo pozzo, che forniva l’acqua per le necessità domestiche, saranno fondamentali per la scoperta. T iberio notò che gli inquilini della casa soffrivano di infezioni intestinali ogni volta che il pozzo veniva ripulito dalle muffe. I disturbi, invece, cessavano quando le muffe ricomparivano sui bordi del pozzo. «Noi nipoti non abbiamo conosciuto il nonno, perché è morto nel 1915 a causa di una febbre mal curata— dice Giulio Capone —. Tutto quello che sappiamo ce lo ha raccontato nonna Amalia, che è stata una delle due passioni del nonno, assieme all’Istituto di igiene di Napoli dove fu assistente, prima volontario e poi strutturato» . Nonna Amalia raccontava di Vincenzo impegnato a raschiare le muffe dal pozzo con una spatolina, per portarle in laboratorio. «Nei documenti scritti da Vincenzo Tiberio — riferisce Salvatore De Rosa — sono descritte in dettaglio le condizioni di crescita delle varie muffe isolate, il metodo di estrazione acquoso delle muffe e il loro potere battericida sia in vitro sia in vivo. Viene evidenziato il potere chemiotattico degli estratti delle muffe nelle infezioni da "Bacillo del tifo"e "Vibrione del colera", Vincenzo Tiberio nasce a Sepino nel 1896 da Domenico Antonio, notaio, e Filomena Guacci. Nel 1905 sposa la cugina Amalia Graniero dalla quale ha tre figlie: Maria, Rosetta e Tomassina, quest’ultima madre di Giuliano Capone (qui nella foto). Dopo il diploma, Tiberio si iscrive alla Facoltà di medicina di Napoli e dal 1893 al 1895 diventa assistente di cattedra. Nel 1895 si arruola in Marina come medico di bordo. Muore nel 1915, ucciso da una febbre mal curata con l’utilizzo come cavie dei conigli e la tecnica delle infusioni sottocutanea e intraperitoneale. Il lavoro risulta molto meticoloso, con dettagli sperimentali e una serie di tabelle in cui riporta l’azione degli estratti sulle cavie utilizzate» . E ppure Tiberio fu costretto a portarlo avanti tra difficoltà e diffidenza. Dalle prime osservazioni alla pubblicazione della relazione conclusiva passarono circa cinque anni. L’ambiente scientifico ufficiale non dette peso alla scoperta e le conclusioni sul potere battericida delle muffe furono registrate come una coincidenza. «Mio nonno rimase profondamente deluso da come il lavoro venne accolto. Nel 1895, dopo la pubblicazione dello studio, lasciò l’Istituto di igiene per contrasti con il nuovo direttore di cattedra e si arruolò in Marina» racconta ancora Capone. Il fascicoletto della sua ricerca rimase relegato in uno scaffale polveroso dell’Istituto di igiene fino al 1955, quando un «topo di biblioteca» lo riscoprì e fu ristampato a cura dell’Istituto di Igiene stesso. I nipoti ne hanno difeso il nome e la memoria, scrivendo anche un libro. E Fleming? Il grande microbiologo scozzese riconobbe mai i meriti di Tiberio? «Chain, uno dei tre premi Nobel assieme a Fleming, — dice Capone — affermò in un’intervista che il suo illustre collega conosceva mio nonno e i suoi lavori. Lui però non lo disse mai apertamente» . Tiberio comprese che non avrebbe avuto il giusto riconoscimento in patria, ma la passione per la scienza non lo abbandonò mai. Racconta il nipote che, dietro una foto di nonna Amalia, Vincenzo scrisse una frase emblematica: «Lunga e difficile è la via della ricerca, ma alla base di tutto c’è l’amore» .

Il ricercatore raccontato dai due nipoti
Cinquantadue minuti, per raccontare la storia del ricercatore «incompreso» . Il documentario «Vincenzo Tiberio. Il vero papà della penicillina» è la prima opera divulgativa nella quale si ripercorrono la vita e gli studi del giovane scienziato molisano. Autori Tiziana Lupi e Claudio Rossi Massimi (regia di quest’ultimo), il documentario è stato prodotto con un contributo della Provincia di Campobasso ed è stato inserito nella programmazione di Rai 150, nell’ambito delle celebrazioni per i 150 anni dall’Unità d'Italia. Attraverso la voce dei nipoti di Tiberio, Giulio Capone e Anna Zuppa Covelli, dell’ammiraglio Vincenzo Martines, direttore generale della Sanità militare italiana, e di Salvatore De Rosa del Cnr, viene ricostruita la vicenda del medico molisano, partendo dagli studi sulle muffe realizzati quando lo scienziato aveva solo 26 anni e ripercorrendo le sue esperienze nella Marina Militare: un lungo periodo di tempo attraverso il quale Tiberio mise le sue capacità e le sue conoscenze al servizio dei militari e delle popolazioni vittime delle malattie infettive. «Vorremo farne una fiction televisiva» annuncia ora Lucia Macale, produttrice del documentario.

Corriere della Sera Salute 6.2.11
Alexander Fleming si meritò il Nobel grazie a una capsula dimenticata aperta
di Ruggiero Corcella


Viene citato come il caso più famoso di serendipity. Nel laboratorio di Alexander Fleming al St. Mary’s Hospital di Londra, nel 1928, i germi proliferavano nelle capsule di Petri. Il microbiologo lavorava su molecole capaci di uccidere germi ma innocue per l’uomo. Una di queste capsule venne dimenticata aperta. Tornando dalle vacanze il ricercatore vide che una delle scatolette era stata contaminata da una muffa. Stava per buttarla, ma si accorse che dove c’era la muffa gli staffilococchi non crescevano. Che cosa li aveva uccisi? Una sostanza prodotta dalla muffa stessa. Questa apparteneva alla specie Penicillium notatum, così Fleming dette alla sostanza il nome di «penicillina» . Fleming non riuscì tuttavia a dare seguiti pratici all’osservazione. Non c’erano soldi e ci si rivolse alla Fondazione Rockefeller di New York, che finanziò la ricerca per un anno. Dovettero però passare 11 anni prima che altri due ricercatori, Howard Florey e Ernst Chain, riuscissero a dare il giusto valore alla scoperta. Bastò invece pochissimo tempo perché il nuovo farmaco, usato dai soldati alleati durante la II guerra mondiate, si diffondesse in tutto il mondo. Sul finire della vita, ripercorrendo la vicenda, Fleming, che insieme con Florey e Chain ricevette il Nobel per la medicina nel 1945, annoterà: «La storia della penicillina ha qualcosa di romanzesco e aiuta a illustrare i l peso della sorte, della fortuna, del fato o del destino, come lo si vuole chiamare, nella carriera di ogni persona» . Quello stesso fato che invece non arrise a Vincenzo Tiberio e a Ernest Duchesne. Nel 1897, due anni dopo la scoperta di Tiberio, questo studente francese riportò nella sua tesi di laurea l’interazione tra il fungo Penicillium glaucum e il batterio Escherichia coli. Anche nel suo caso lo studio fu abbandonato e i suoi risultati dimenticati. R. Cor.