giovedì 10 febbraio 2011

La Stampa 7.2.11
Le ultime 100 tribù “incontaminate”
In Brasile indios che non hanno mai visto i bianchi: “Stiamo lontani, o moriranno”
di Mattia Bernardo Bagnoli


PIÙ NUMEROSI DEL PREVISTO I ricercatori: «La foresta non è vuota come pensiamo Ce ne possono essere altri»
CONFLITTI IN VISTA Le aree inesplorate sono ricchedi petrolio e finora erano ritenute senza abitanti

Gli etnologi Survival International sta cercando gli aborigeni: le immagini hanno fatto scalpore in tutto il mondo I cercatori d’oro Battono la zona abitata dai «selvaggi»: c’è il rischio che portino epidemie devastanti nei villaggi indigeni
Neolitici Le tribù mai contattate dai bianchi sono cacciatori raccoglitori che vivono come i nostri antenati della preistoria L’impatto con la società moderna potrebbe essere devastante Già nel 1500 all’arrivo degli europei epidemie e guerre decimarono gli indigeni
Il nostro mondo è pieno come un uovo, Internet ormai raggiunge ogni dove, eppure allo scoccare del 2011 esistono ancora quasi cento popolazioni che non hanno mai visto l’uomo bianco, figuriamoci un computer o uno smartphone. E neppure una banca, una macchina, o il presidente Obama. O il concetto di Stato. Tribù, insomma, ferme a un periodo premoderno - quasi primitivo, in certi casi - grazie alla protezione offerta dalle foreste pluviali. Che però si fanno sempre più piccole a causa del disboscamento. Popolazioni che sono quindi in pericolo non tanto di restare per sempre isolate ma, al contrario, di venire a contatto con l’uomo contemporaneo: e venir dunque decimate dalle malattie, come capitò agli indios al tempo dei conquistadores.
Il caso dei popoli perduti è riemerso con forza dopo che sono state diffuse le immagini di una tribù scoperta dall’organizzazione Survival International ai confini tra il Brasile e il Perù. L’Ong ha adesso rivelato che un altro gruppo indigeno, sempre parte della popolazione degli Yanomami, vive indisturbato nella parte settentrionale dello stato brasiliano di Roraima. La tribù, i Moxateteu, vive però in un’area piagata da un’alta concentrazione di cercatori d’oro illegali. Se questi bracconieri di metalli pregiati non verranno presto espulsi, dicono gli esperti, c’è il rischio che la maledizione dell’uomo bianco possa colpire i Moxateteu, come è già capitato altre volte in passato.
«Ci sono molte popolazioni indios sperdute», ha detto a Survival International Davi Kopenawa, portavoce del popolo Yanomami - di quella parte cioè già emersa dal cuore della giungla. «Io vorrei aiutarli: hanno il nostro stesso sangue e non hanno mai visto il mondo moderno».
Il mito delle popolazioni perdute, insomma, non è una leggenda ma un fatto. «Queste persone esistono davvero», ha spiegato all’ Independent on Sunday José Carlos Meirelles, funzionario del Funai, il ministero brasiliano per gli Affari degli Indios. «Quegli spazi vuoti del parco Yanomami - ovvero la zona off-limits creata nel 1992 dopo varie campagne di pressione internazionali - non sono così vuoti come la gente pensa. Anzi mi spingo sino a dire che in quest’area possa esistere più d’una tribù ancora da scoprire».
«Queste immagini - ha commentato Fiona Watson, direttrice del settore ricerca di Survival International - ci dicono che queste popolazioni sono vive e più che sane. E contraddicono in pieno il pensiero di chi sostiene siano state inventate dagli ambientalisti impegnati nella battaglia contro lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Amazzonia».
Il Sudamerica, insomma, è davvero una specie di Arca di Noé dei popoli perduti. Oltre a Brasile e Perù, infatti, anche il Paraguay custodisce una tribù ancora da contattare: gli Ayoreo-Totobiegosode. Gli unici a vivere al di fuori dell’Amazzonia, nella vasta distesa di boscaglie che si estende tra Bolivia, Paraguay e Argentina. Ovvero un’altra area ad alto rischio ambientale a causa degli interessi legati all’allevamento del bestiame. La storia è sempre la stessa: giù le foreste e largo ai pascoli.
L’altra zona della Terra che potrebbe custodire molte sorprese è la Papua occidentale. Qui la presenza dei militari e il terreno particolarmente accidentato rendono infatti le esplorazioni praticamente impossibili. Detto questo, il direttore di Survival International ha sottolineato come un cambiamento di attitudini da parte dell’uomo «civilizzato» nei confronti di queste popolazioni possa essere la vera chiave per proteggere il loro stile di vita. «Spesso - ha dichiarato - questi popoli vengono visti come retrogradi perché vivono in modo diverso dal nostro. Ma è questa stessa nozione ad essere invece retrograda e incivile».

Corriere della Sera 6.2.11
Bellocchio, il labirinto vuoto
di Franco Cordelli


I pugni in tasca di Marco Bellocchio dopo quarantasei anni arriva sulla scena. Si tratta di un tipo di operazione che ha una storia illustre e che negli ultimi anni è diventata sempre più frequente. A scoprire che per fare teatro non è necessaria una scrittura drammaturgica furono le avanguardie. Il teatro si può fare anche recitando l’elenco del telefono, il teatro non è che scrittura scenica: dal Tarzan di Memè Perlini (un romanzo di Edgar Rice Burroughs) al Mago di Oz di Fanny e Alexander (un film di Victor Fleming). Ma qui siamo di fronte a registi e spettacoli nei quali il testo originario era un punto di partenza e poi di riflessione e trasfigurazione. Diversa cosa sono gli allestimenti (cito i recenti) di Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar, de L’appartamento di Billy Wilder o di questo I pugni in tasca. A tradurre la sceneggiatura in copione teatrale è stato lo stesso autore del film. Ci si chiede perché si sia lasciato tentare. Così dimostra di credere non in ciò che fece in quanto regista, ma in ciò che scrisse in quanto sceneggiatore. Bellocchio crede nelle storie, nelle storie in sé, nella loro intrinseca pregnanza. Al contrario, le storie in sé sono quasi nulla, poco più o poco meno che cronache giornalistiche: le consumiamo e in fretta ce ne dimentichiamo. Assistendo allo spettacolo intitolato I pugni in tasca ciò è chiarissimo. Prima di tutto, della storia originaria non è rimasto che lo scheletro. I passaggi narrativi che giustificavano (per quanto possibile) azioni morbose o efferate, qui non ci sono più, si resta a bocca asciutta, spettatori dell’inespresso, ovvero dell’incomprensibile. Se si capisce, si capisce in termini grossolani, pessimi luoghi comuni di quanto di peggio può accadere in una famiglia vissuta come ambiente claustrofilo. Poi c’è la questione cruciale. Ogni sceneggiatura, se la si prende per buona, se la si prende in quanto tale, benché adattata, è una scrittura virtuale o, meglio, funzionale. L’intensità del film di Bellocchio non era data dalla drammaticità della storia ma dallo sviluppo delle sequenze e dalla icasticità di ognuna di esse. Quella certa battuta aveva quel certo valore perché a dirla era Lou Castel dal regista inquadrato in un certo modo, su uno sfondo, o in un contesto piuttosto che in altro. Qui gli attori sono nudi, all’aperto, al freddo, impacciati, spauriti, sembrano aggirarsi sul palcoscenico non avendo di meglio da fare; e qualunque cosa dicano ci si chiede perché la dicono, che valore abbia, essa risuona puntualmente in un inimmaginabile vuoto di regia. La regista è Stefania De Santis, ma di lei sappiamo il nome, che cosa avesse in mente nessuno lo sa. Questa storia, di quattro fratelli imbranati o pazzi, al meglio potrebbe somigliare a una pessima commedia di Tennessee Williams. Ma quando Ambra Angiolini dice qualcosa e la scena si svuota e lei rimane poggiata a un palo, o asta o colonnina, in silenzio per un minuto e mezzo, come se da questo silenzio si dovesse sprigionare chissà che tensione, noi spettatori si resta francamente imbarazzati. Non solo non ha senso il copione, ma è lo spettacolo a risultare d’una dilettantesca goffaggine. In quanto alla Angiolini, se ne tocca con mano l’insicurezza, si percepisce d’essere di fronte a un’attrice che si vede e si sente recitare, un’attrice che pensa a ogni parola o gesto che fa. La scena, una specie di labirinto su più piani, è di Daniele Spisa. Tra gli interpreti ricordo Pier Giorgio Bellocchio (il più credibile) nella parte che fu di Lou Castel.

La Stampa 6.2.12
Il film di Bellocchio secondo la De Santis
Fiacchi “Pugni in tasca”
di Masolino D’Amico


Lunghi silenzi. La scena è fiocamente illuminata, l’atmosfera quasi cecoviana

Le commedie tratte dai film sono di due tipi, quelle per chi non ha visto il film, che quindi funzionano anche indipendentemente, e quelle per chi invece ha visto il film e vuole per così dire ripassarselo. Ora, I pugni in tasca che Marco Bellocchio ha tratto dal copione del folgorante esordio cinematografico (1965) suo e dell’interprete Lou Castel (che il grande critico inglese Kenneth Tynan paragonò al Marlon Brando del Tram ) non rientra agevolmente né nella prima né nella seconda categoria. Si può chiedere al cinefilo di rievocarlo con facce diverse - anche se quella di Pier Giorgio Bellocchio come lo spiritato Alessandro ricorda tanto quella di suo padre giovane - senza quel bianco e nero sprezzante dell’eleganza, già rétro in un’epoca in cui il colore dilagava? Ma anche come semplice dramma noir regge male, almeno nello spettacolo diretto da Stefania De Santis: spezzettato in miniepisodi precariamente saldati con oscuramenti; poco agilmente articolato in una scenografia su più livelli nessuno dei quali consente una visione davvero soddisfacente; fiocamente illuminato, con un’atmosfera quasi cecoviana (lunghi silenzi) poco adatta alla ferocia della storia. Questa, si sa, riguarda una famiglia con madre cieca e soavemente ricattatrice, un figlio pazzo, un figlio normale ma stronzo, un figlio schizofrenico-epilettico, e una figlia frustrata. Liberatoriamente, il figlio schizofrenico elimina la madre e il pazzo e violenta la sorella, consegnando così il patrimonio, una casa di campagna con terre, al fratello normale. Nell’indimenticabile film questa truce materia coniugava dolore, passione repressa, malinconia; qui rimane inerte. Vestiti da Armani, i cinque attori parlano sommessamente, molto composti tranne Bellocchio junior, per 90 filati; l’attesa Ambra Angiolini è diligente e graziosa.
Al Quirino di Roma fino al 13

Repubblica 5.2.11
Per la prima volta va in scena a teatro il celebre film di Marco Bellocchio del 1965 che lo stesso regista ha adattato. Con Ambra Angiolini e Piergiorgio Bellocchio
Orrori di famiglia crudeli ma non troppo
di Rodolfo Di Giammarco


Visione senza alcuna speranza nei confronti dell´uomo di oggi, e catastrofica profezia del deserto emozionale che incombe, il film di Marco Bellocchio I pugni in tasca fu nel 1965, e lo resta ancora oggi, un capolavoro cui riferiamo una ricerca lucida e spietata sul crollo dei costumi, delle relazioni domestiche, dei ruoli in società. Ora a quasi mezzo secolo di distanza, con una parte di pubblico che conosce il titolo di culto ma magari non possiede dimestichezza con la pellicola, sarebbe pedante fare il confronto tra il film e l´adattamento teatrale dello stesso Bellocchio, con regia di Stefania De Santis, e con un cast dove emergono Ambra Angiolini e Pier Giorgio Bellocchio nei panni dei fratelli crudeli, ovvero la Giulia apatica e complice e l´Alessandro due volte omicida (di madre cieca e bigotta, e di fratello con handicap). Ed è giusto parlare solo dello spettacolo d´adesso, prodotto da Roberto Toni, del suo tentativo di proporsi come teatro angoscioso e duro tra quattro mura, con orrori cui ormai la cronaca nera ci ha assuefatti.
Faremmo un´unica eccezione citando il solo elemento comune al grande schermo d´allora e all´allestimento d´adesso, le musiche ben presenti e ossessive di Ennio Morricone con l´aggiunta potente del finale "liberatorio" del primo atto della Traviata quando, in chiusura, entra in crisi e stramazza il deus ex machina Alessandro, sotto gli occhi impassibili (gelidi) della sorella. Poi c´è però da fare il punto con la teatralità de I pugni in tasca. La trascrizione ambientale, il colpo d´occhio risponde a un impianto farraginoso, che nell´intento di accorpare più luoghi ha le sembianze di uno spazio a più livelli e più comparti come s´usava in modo storico e antiquato per i drammi di Tennessee Williams (scene di Daniele Spisa). Al di là della diretta parentela col film, il copione di Bellocchio ha una sua forza verbale che in parte sostituisce (e in parte no) i quadri muti ed emblematici che restano patrimonio del cinema, ma in sostanza regge all´impatto dei rapporti fisici, delle schermaglie dal vivo.
Vale a dire che l´inferno a porte chiuse dove ad affermarsi sarebbero la catatonia della madre e la malattia del fratello più alienato svela anche ora, sulla ribalta, i meccanismi per cui, dopo il formale distinguersi di Augusto (e della sua fidanzata), a fare piazza pulita con due mosse criminali è il fratello malato ma perverso, con la connivenza postuma della sorella. Manca, forse, quel clima d´aridità morbosa e patologica con disincanto fraterno che poi ha immaginato Houellebecq ne Le particelle elementari. Ma Bellocchio ha riletto Bellocchio. Il problema è che, pur in presenza di un testo forte, non si rintraccia un disegno registico emotivo e disperato d´insieme di Stefania De Santis. Va detto che Pier Giorgio Bellocchio è ben teso come ci si aspetta dal suo Alessandro, e che Ambra Angiolini contribuisce con fermezza, ambiguità, toni risoluti e versatilità di figura impersonando Giulia. Poi c´è l´ordinario senso delle convenzioni dell´Augusto di Fabrizio Rongione, la mitezza matriarcale della Madre di Giulia Weber, l´infermità del Leone di Giovanni Calcagno, e la quotidianità estranea e osservatrice della Lucia di Aglaia Mora. Ma è un Dies Irae, questa versione scenica de I pugni in tasca, cui manca spesso la struttura dell´insopportabilità, dell´intolleranza, dell´ossessione di persone innocenti e guaste allo stesso tempo.

l’Unità 10.2.11
Disegno eversivo
di Giovanni Maria Bellu


Salutiamo con sollievo la decisione di Silvio Berlusconi di far causa allo Stato italiano. Certo, è molto probabile che l’annuncio di ieri vada a infoltire la lunghissima serie delle promesse non mantenute, ma il solo fatto che il presidente del Consiglio abbia manifestato il proposito di agire in giudizio contro il suo Paese va considerato un importante passo in avanti verso la chiarezza. Sono ormai diciassette anni che Berlusconi agisce contro l’Italia in modo senza dubbio efficace ma anche un po’ caotico. A tutto campo, verrebbe da dire: ne ha infangato le istituzioni facendo eleggere al Parlamento inquisiti per mafia, ne ha ridicolizzato l’immagine nel mondo prima coi suoi «scherzi» ai vertici internazionali e poi col pubblico scandalo della sua incontrollabile satiriasi, ne ha danneggiato le casse pubbliche giustificando gli evasori fiscali e ne ha offeso la memoria ironizzando sulle vittime del fascismo. Ne ha sistematicamente oltraggiato l’intelligenza con bugie colossali – dalla «ricostruzione» dell’Aquila alla risoluzione del problema dei rifiuti a Napoli – e anche il paesaggio non solo con i suoi «piani casa» ma anche con le sue case private, come l’osceno maniero che ha edificato in Sardegna. Ne ha corrotto l’anima non solo assecondando ma addirittura trasformando in «valori» gli storici vizi dai quali a fatica, e molto
lentamente, tentava di liberarsi. Ecco, giunto a un passo dal completare
l’opera di distruzione del suo Paese, ma anche a un passo dalla possibilità di essere espulso per indegnità dalla vita politica, giunto insomma a questo cruciale bivio il premier ha deciso di adire le vie legali: porterà l’Italia in tribunale per chiederle conto dei suoi giudici sovversivi che in tribunale vogliono portare lui. Quei moralisti che considerano reati le relazioni sessuali a pagamento tra adulti e minorenni. Contemporaneamente (stando almeno agli incredibili annunci giunti ieri sera dal vertice del Pdl) i suoi dipendenti politici denunceranno i giudici per lesa maestà. Sarà il processo del secolo. Anche perché ci sono buone probabilità che l’Italia, così autorevolmente chiamata in giudizio, decida di promuovere un’azione riconvenzionale chiedendo che sia Silvio Berlusconi a pagare. Com’è noto i mezzi non gli mancano, ma dubitiamo che siamo sufficienti a risarcire l’immenso danno che ha prodotto.
Un altro po’ anche ieri. La cosiddetta «scossa» economica impapocchiata lì per lì nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica e recuperare un po’ di consenso (perché il consenso del Caimano cala, checché ne dicano i suoi sondaggisti e i suoi maggiordomi) purtroppo non è «a costo zero». Cioè: lo è per quanto riguarda le risorse pubbliche disponibili (che sono zero, appunto) ma non lo è per il Paese. Perché tra le armi di distrazione (e distruzione) messe in campo c’è ora anche l’annuncio della modifica di tre norme della Costituzione. Il Caimano affonda i denti nella carne viva delle istituzioni per salvare se stesso. Staremo a vedere fino a che punto si spingeranno l’irresponsabilità e l’ambizione personale di quanti lo assecondano nel disegno eversivo.

l’Unità 10.2.11
Bersani: «Scossa? Questa è solo un’operazione di distrazione»
«Le misure annunciate dal governo? Solo una strategia di distrazione. In Italia c’è bisogno di vere liberalizzazioni». Il segretario Pd ribatte agli annunci del premier e lancia un appello alla Lega. «Fermatevi».
di Maria Zegarelli


Una scossa all’economia del Paese? «Le misure annunciate dal governo non fanno nemmeno il solletico», altro non sono che un’«operazione di distrazione», un mix di «norme astratte, calendari, niente di concreto». Pier Luigi Bersani convoca la conferenza stampa al Nazareno poco dopo quella del premier, per annunciare una lenzuolata di 34 liberalizzazioni messe a punto dal Partito democratico e per smontare pezzo per pezzo la ricetta del governo. Berlusconi fissa la crescita del Pil all’1,5% dopo la cura messa a punto dal «filosofo» Tremonti? «Se fosse vero sarei pronto a mettermi il saio e andare a piedi ad Arcore, ma non accadrà perché il Pil non supererà lo 0.5%», scommette il segretario Pd.
APRIRE ALLA CONCORRENZA
«L’Italia dice ha bisogno di una nuova stagione di liberalizzazioni, intesa in senso ampio e molteplice. Ciò vuol dire aprire alla concorrenza mercati chiusi e in regime di monopolio e come può farlo lui, che è un monopolista e un miliardario incapace di capire il paese reale?». La ricetta del Pd punta invece a maggiore potere e libertà ai consumatori e alla revisione della regolamentazione «di alcuni settori di grande impatto sociale». Per questo «non serve a nulla modificare l’articolo 41 del-
la Costituzione, che dalla nascita della Repubblica e fino agli Anni Ottanta non è mai stato un ostacolo al boom economico di questo Paese». Si facciano «41 norme concrete sulle liberalizzazioni, noi ne mettiamo in rete subito 34 e chiediamo a chi ha esperienze di vita vissuta delle idee, di interloquire con noi. Si può fare una mega lenzuolata». Stoccata aggiuntiva: «Il Pil lo si muove con le riforme e non con un articolo scritto dal volenteroso Giuliano Ferrara».
L’APPELLO ALLA LEGA
Ma è alla Lega, sempre più schierata con il premier, che si rivolge Bersani: «Fermatevi qui o si perde un’occasione storica per fare un federalismo che tenga davvero insieme questo Paese». Appello destinato a cadere nel vuoto alla luce del patto che tiene insieme Berlusconi Bossi: federalismo (anche blindandolo con la fiducia) in cambio del via libera su processo breve e intercettazioni. «La Lega vuole dice infatti il segretario ottenere una bandierina e il premier salvare la pelle» anche se questo «porterà a esiti ingestibili, a dei pasticci». Al senatur ricorda che ci sono «solo due forze con radici autonomistiche: il Pd e la Lega» e a Berlusconi che «se fosse qualcosa che assomiglia a uno statista, troverebbe il modo di levare se stesso e l’Italia dall’imbarazzo». In gioco la credibilità del Paese, «anche oggi ho ricevuto telefonate di imprenditori disperati che lavorano all’estero. C’è un punto che si chiama credibilità ed è l’immagine del paese e questo paese non è rappresentato in modo credibile. Così non si può andare avanti». Altro appello, stavolta alla classe dirigente muta davanti a quello che sta succedendo: chi tace adesso come potrà parlare dopo?

La Stampa 10.2.11
Nuova lenzuolata
La “scossa” di Bersani Contropiano in 34 punti

Rinfrancato dai sondaggi (l’ultimo quello di Ipsos diffuso a Ballarò) che danno il centrosinistra per la prima volta sopra nelle intenzioni di voto, Pierluigi Bersani reagisce a tambur battente alla campagna mediatica del premier sull’economia. Con una mossa da leader di un governoombra, convoca subito una conferenza stampa per illustrare una manovra antitetica a quella dell’esecutivo. «Ma quale scossa all’economia? Queste misure non fanno neanche il solletico, non c’è niente di concreto, è un insieme di norme astratte. Se con queste cose il Pil crescerà dell’1,5% come ha detto Berlusconi, prendo il saio e vado ad Arcore a piedi».
Il segretario del Pd dunque boccia senza mezzi termini il pacchetto del governo e ingaggia un botta e risposta a distanza col premier. A Berlusconi che dice «l’Italia ha un debito alto ma i suoi cittadini sono ricchi» e che «le lenzuolate di Bersani non hanno prodotto nessun effetto», Bersani replica gelido di provare «a chiederlo a chi ha un mutuo. Quando si ha una psicologia da miliardario non si può capire come vive il Paese, sono problemi che non si possono comprendere».
Quindi snocciola la sua ricetta, riversando in rete un elenco di 34 liberalizzazioni da fare subito, «per andare incontro alle esigenze dei consumatori, abbassare i prezzi e sostenere il lavoro per i giovani, sbloccando investimenti e attività economiche». Il pacchetto del Pd rilancia disegni di legge già presentati in Parlamento sulle professioni, proposte su una maggiore concorrenza nel mercato dei carburanti e dell’energia, presentati come emendamenti alla Manovra di luglio, iniziative sulla regolazione del settore dei trasporti, come la soppressione del pubblico registro automobilistico (Pra), proposte per liberalizzare il commercio e semplificazioni per le imprese. Un insieme di misure che potrebbero avere «effetto immediato, senza farci perdere un anno, perché la situazione del paese è critica, abbiamo un problema di stagnazione e di rilevantissima disoccupazione e il sistema delle imprese è in difficoltà». E sulla controversa riforma del federalismo, il leader Pd rilancia un appello al Carroccio di fermarsi «prima che si perda un’occasione storica facendo pasticci. Perché se si andasse avanti con una forzatura sarebbe dovuto al fatto che la Lega vuole ottenere una bandierina e il premier vuole salvare la pelle con il processo breve».
E contro il governo si scagliano pure i Verdi, denunciando che il nuovo piano casa approvato oggi «è l’ennesimo condono edilizio mascherato: le città dovranno subire un aumento della superficie abitabile di 490 milioni di metri quadrati e sopportare oltre 1 miliardo di metri cubi di cemento».

Il Sole 24 Ore 10.2.11
Intervista a Susanna Camusso:
dal governo nessuna risposta concreta, tocca alle parti sociali
di Giorgio Pogliotti
qui
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-02-09/intervista-susanna-camusso-governo-220328.shtml?uuid=AaHEhz6C

il Fatto 10.2.11
Ezio Mauro: “Qui è un problema fare l’opposizione”
Il direttore di Repubblica: “Saviano farà solo lo scrittore”
intervista di Luca Telese

“D’Alema e Veltroni hanno iniziato a litigare nel 1994. Il che vuol dire, anche senza esprimere giudizi di merito, litigano da quattro partiti, perché hanno iniziato nel Pd, hanno proseguito con il Pds, poi con i Ds e infine nel Pd...”. Pausa. Sopracciglia che si sollevano: “In questo lasso di tempo non breve, l’America è riuscita ad eleggere cinque presidenti, è stata inventata una cosetta come Google, e - anche se può sembrare incredibile - persino l’Inter è tornata a vincere lo scudetto”. L’apologo sintetico di Ezio Mauro arriva come una scudisciata perché il tono del direttore di Dronero è pacato, non varia di un semitono rispetto a quando mi parla di Bobbio, di Zagrebelsky e di Montesquieu. Però, quando rialzo la testa dal taccuino e lo guardo, noto un inarcamento, in un angolo della bocca - che in fondo è un sorriso. Nel corso dell’intervista il direttore di Repubblica concede un’apertura di credito al centrosinistra (“Finalmente hanno finito con le aperture sulle riforme”) parla soprattutto di Silvio Berlusconi. Lo sfida, di fatto a querelarlo (di nuovo),dedica lunghe riflession ia quella che savianamente chiama “la fabbrica del fango”, cesella epiteti sprezzanti per Brunetta   e Sacconi (“Ministri facinorosi che inseguono le vendette del ‘900”), dice che sarà “lui stesso” (lui è Berlusconi) a creare le condizioni perché tutte le opposizioni si uniscano. Dedica stilettate memorabili a Minzolini Ferrara, Vespa e ad Alfonso Signorini (che non cita direttamente). Rivela la notizia esplosiva di un quasi-ricatto a “un giornalista sgradito al governo”. Definisce “folle” chi dice di una sua candidatura a premier e che Saviano “vuole essere e fa bene lo scrittore”. Repubblica - dice - fa giornalismo, e non politica. Fruga sulla scrivania, estrae un foglietto ingiallito: “È l’unica tessera che io abbia mai avuto in vita mia, quella del Partito d’azione. Un cimelio. Arriva da un lettore”.
Da due anni batti sul tasto dell’anomalia democratica...
Sì. Vedo che anche i dirigenti del centrosinistra accettano questa verità. Posso partire da un’immagine? 
Quale?
Oggi, nella stanza dei caporedattori, avevamo quattro schermi accesi sui tg italiani e internazionali.
E che notizie davano?
Quelli italiani trasmettevano Berlusconi che presentava un improbabile piano di rilancio, la Bbc dava le breaking news sulla richiesta di rito immediato contro il nostro premier.
Ti stupisce?
Affatto. Si citavano i capi di imputazione: il primo: “prostituzione minorile”. Il secondo, da noi “peculato”, era tradotto, efficacemente: “abuso d’ufficio”. 
Cosa hai pensato?
Da noi milioni di persone ancora non sanno che di questo si discute: pochi tg hanno usato altrettanta linearità. Queste due cose non stanno insieme.
Rilancio e prostituzione?
Esatto. Sei con le mani e con i piedi dentro uno scandalo, hai un governo in stato pre-agonico, eppure cerchi di spostare l’attenzione su un annuncio che ha tutta l’aria di una diversione.
Non credi che Berlusconi ci creda?
Non è riuscito a fare questo quando era appena uscito dal voto, investito da un mandato mai visto, da una maggioranza di cento voti e da un consenso fortissimo. Perché dovrebbe ora?
Basta un voto in più dopotutto...
Ha riaggregato un materiale umano terribile. Gente su cui nessuno fa affidamento. E non ci crede nemmeno lui, un minuto dopo averli comprati.
Comprati?
Su Repubblica abbiamo pubblicato il contratto, con tanto di importo, con cui si retribuivano due ex deputati della Lega. Ma ci sono anche transazioni non direttamente economiche. 
Berlusconi querela molti giornali...
Quando ci ha querelato, per le nostre dieci domande, 138 giornali in tutto il mondo le hanno riprese.
Ora pubblicate le dieci bugie...
Mi farebbe quasi piacere se querelasse ancora. Ma capisco che non voglia ripetere l’esperienza. 
Anche voi avete querelato lui.
Per l’invito a boicottarci! Ma invece di andare in tribunale, ha usato lo scudo del Parlamento per l’immunità.
Ha risposto, in parte, però. Oh, sì... Chiuso dentro il recinto del suo notaio personale, e di un libro della sua casa editrice. “Il notaio” è Vespa, un bell’epiteto.
(Stupore) Non è un’illazione.
Non credo che Vespa sia contento.
È il ruolo che si è scelto. Ha iniziato a recitarlo davanti alla scrivania del contratto degli italiani, allestita dallo spin doctor dell’epoca, Crespi.
Il premier sarebbe al suo posto senza controllo di giornali e tv? 
Ovviamente no. Sono strumenti che vengono usati per mistificare, per sviare l’attenzione, propagandare false verità mascherate di antimoralismo.
E tu non sei moralista su Ruby?
Cosa c’è di morale in messaggi dettati dal cielo con episodi di giornalismo imbarazzante?
Alt. Stai parlando dell’intervista al Tg1 di Augusto Minzolini, con le domande inserite ex post.
Ho conosciuto Minzolini quando dava l’anima per cercare le notizie, ora guardo con fatica i titoli del suo tg. Oggi dà l’anima per nasconderle.
Non guardi più il Tg1?
Cosa c’è da vedere? Ci sono le reazioni del potere alle notizie che non sono date. Cosa può capire lo spettatore?
Il problema sono i giornalisti?
Il problema non sono i killer, ma i mandanti. 
Facciamo scuola di giornalismo?
Va illuminato il mandante, e soprattutto il movente. Il vero voyeurismo non è il nostro. È quello di chi pubblica le intercettazioni senza spiegare il contesto e trarre le conseguenze.
Esempio?
Non è informazione il giornalismo di chi non tira mai un filo. Un grande giornale ha persino scritto: è stata spiata la residenza di Arcore. Bè, menzogna.
Le ragazze sono state intercettate.
Non a casa del premier. E la telefonata per cui tutto il mondo ci ride dietro è stata ammessa da lui stesso, nel tentativo grottesco di trasformare una menzogna in una verità di Stato.
I giornali di sinistra processano Berlusconi? 
Posso citarti una frase: “Un uomo politico deve rispondere pubblicamente dei suoi comportamenti privati”. Non è un mio editoriale, è di Barbara Berlusconi. Non posso che sottoscrivere.
Questa è una piccola perfidia.
No, buonsenso. Bastano le parole della figlia. E invece lui cerca di farsi assolvere, ancora una volta dalla sua maggioranza con il voto sull’inchiesta.
I magistrati vanno avanti.
Ma la fabbrica del fango, immediatamente, colpisce. Hai visto cosa hanno fatto alla Boccassini?
Il trattamento Boffo?
Certo. Quello che ha colpito Mesiano. E poi l’avvertimento a Fini, seguito dalla campagna su Montecarlo. E parlo dei casi che ho studiato.
Cosa intendi?
L’avvertimento dei giornali del premier agli avversari del premier è: attento, ora rovistiamo nel tuo letto. La tua vita privata verrà messa a soqquadro.
Non sempre funziona.
Anche se non ci si piega il messaggio per tutti è: tieni gli occhi bassi. Tieni le orecchie chiuse.
Non è finita? 
Posso raccontarti il caso di un importante giornalista sgradito al governo.
Chi?
Il nome non posso farlo. E’ stato chiamato dal direttore di uno dei giornali di presunto gossip, la cui principale attività è santificare la famiglia reale...
 È facile: il “Chi” di Signorini.
Non importa. Importa il messaggio: “Ci sono delle fotografie imbarazzanti che ti riguardano, se te le vuoi ricomprare questo è il numero del fotografo”.
Stai dicendo che è un ricatto?
Peggio: ti sta dando un avvertimento. Ti dice che sei sorvegliato. Ti dice che devi rigare diritto. E anche se quest’uomo non si piega lo hai toccato. Questo è un paese in cui è un problema stare all’opposizione. 
Cossiga disse: “Mauro sarà il candidato premier del centrosinistra”.
Se è per questo l’ha scritto pure Libero, e me l’ha chiesto persino un leader di centrosinistra
Nome, nome...
Non lo dico perché è una fesseria. Non salgo mai sui palchi. Non sono andato nemmeno al Palasharp.
Hai duellato con Ferrara...
Aveva scritto un articolo incredibile. Ora vedo che si è corretto. Sono d’accordo con lui su una cosa... 
Questa è una notizia.
Che non siamo d’accordo su nulla. Hanno attaccato Eco perché ha detto che legge Kant. E cosa dovrebbe leggere? La Settimana Enigmistica?
Repubblica tira la volata a Saviano?
È uno scrittore, straordinario, che vuole continuare a fare lo scrittore. È uno straordinario personaggio pubblico, non credo sia un personaggio politico. Vedi?
Cosa?
È una caratteristica del populismo. Ma perché Saviano non si fa gli affari suoi? Il messaggio per tutti è fatti gli affari tuoi, a te pensa il sovrano.
Non ti senti troppo indulgente con il centrosinistra?
Assolutamente no!
Cosa gli manca?
Hanno perso il concetto di fraternità. Se discuti con Franceschini o Bersani, ti parlano 10 minuti di Berlusconi e 50 del loro avversario di partito. 
Allora sei più duro di noi de Il Fatto.
Noto che non si sentono compagni. Essere moderninonsignificafareilbagnonelsenso comune. O fare il gregariato del vincente, penso alla Fiat. Uno di loro...
Chi?
Non conta. Un insospettabile. Quando nel 1994 scrissi che la parola unificante doveva essere riformismo, mi chiamò: ‘Come sei vecchio, culturalmente’. Bè, ora riformismo è l’unica cosa che hanno sulla carta di identità.
Allora sei spietato
No, ti ripeto. Ogni settimana chiedevano il dialogo sulle riforme a prescindere. Ora vedo che si sono corretti. Sai cosa mi disse Bobbio? “Si interrogano sul loro destino e non capiscono che dipende dalla loro natura, se risolvessero la loro natura risolverebbero anche il loro destino”.

Repubblica 10.2.11
Il Cavaliere in calo nei sondaggi perde con Bersani, Casini e Vendola
Pagnoncelli: per il 61% degli intervistati dovrebbe dimettersi
Il Rubygate comincia a pesare nella valutazione sul premier: gradimento a picco
In questo momento solo un elettore su 4 sceglierebbe la coalizione di centrodestra
di Mauro Favale

ROMA - Berlusconi contro Bersani? Vince Bersani. Berlusconi contro Casini? Vince Casini. Berlusconi contro Vendola? Vince Vendola. La premessa è che «si tratta di simulazioni». Ma i sondaggi effettuati da Ipsos e illustrati due giorni fa da Nando Pagnoncelli a Ballarò, raccontano una situazione in evoluzione con un presidente del Consiglio che a meno di un mese dall´esplosione del caso-Ruby, subisce, secondo le previsioni di voto, i contraccolpi dell´ennesimo scandalo. Tanto che per il 61% degli intervistati Berlusconi dovrebbe dimettersi.
Una cifra bilanciata, però, da un dato opposto: quasi la stessa percentuale (il 59%) ritiene che, alla fine, il governo continuerà la sua attività e solo il 12% pensa che si arriverà al voto anticipato. Ciò non toglie, però, «l´esistenza di un fronte largo non favorevole a Berlusconi», spiega Pagnoncelli. «Prevale una radicalizzazione delle posizioni e un ricompattarsi degli elettori contrari al premier». Si spiegano così le cifre delle simulazioni sui "confronti diretti": Bersani-Berlusconi finirebbe 43% a 33%; Casini-Berlusconi 45% a 32%; e nello scontro a tre Vendola-Berlusconi-Casini prevarrebbe il primo col 32%, poi 31% al secondo e 21% al terzo. Circa un quarto degli intervistati, però, nel caso di scelta secca preferisce non decidere. Nella simulazione sulle coalizioni, poi, il centrodestra perderebbe (fermo al 38,7%) sia se in campo ci fossero Centrosinistra (41%) e Centro (17,8%) sia in caso di una coalizione "tutti contro Berlusconi" (51,3% contro 44,2%).
«Si sono moltiplicati gli oppositori del premier - prosegue il direttore di Ipsos - fatto salvo il dato di chi dichiara che, in caso di elezioni, non andrà a votare». Una percentuale ancora vicina al 40%, tra indecisi, astenuti e delusi. Un dato che difficilmente potrà essere recuperato da Berlusconi: «Quando si avvicineranno le elezioni, la quota di non voto si assottiglierà. Non arriveremo, però, all´affluenza del 2008, vicina all´80%. In ogni caso, è difficile che chi oggi è deluso possa poi esprimere un giudizio positivo e tornare a votare per il governo uscente». È con quest´ampia fascia di indecisi che bisognerà comunque fare i conti.
Per adesso, Pagnoncelli mette in fila le cifre assolute, riscontrando per il Pdl un trend calante: «Nel 2008 raccolse 13 milioni e 800 mila voti. Alle Europee del 2009 furono 10 milioni e 800 mila. E non era ancora nato Fli né era scoppiato il caso Ruby». Inoltre, su una base elettorale che si riduce perché crescono le astensioni, «il peso reale di quel 27-30% intorno al quale viene accreditato oggi il Pdl rappresenta il 18% in termini assoluti. E se aggiungiamo anche la Lega, il 40% di consensi attribuiti dai sondaggi al centrodestra significa, in termini di elettorato complessivo, il 24%». Solo un elettore su 4, insomma, tra tutti gli aventi diritto al voto in Italia, sceglierebbe, in questo momento, la coalizione di centrodestra.

Corriere della Sera 10.2.11
L’alternativa è Vendola?
Giovedì sera vuol dire Santoro, vuol dire arena, vuol dire viale Mazzini che trema. Il giornalista che sempre più sbanca l’Auditel — soprattutto quando tratta di Berlusconi e degli scandali sessuali— anche stasera non può non parlare del governo... Come si esce da questa situazione? Vendola ha la forza politica per unire tutto il centrosinistra? Qual è la sua proposta politica, economica, sociale e culturale per sfidare Berlusconi alla guida del Paese? Ospiti oltre a Vendola, l'economista Irene Tinagli e i giornalisti Lucia Annunziata, Pierluigi Battista e Nicola Porro. Annozero Raidue, ore 21.05


l’Unità 10.2.11
Le responsabilità del Comune
I Rom, la tragedia e i tre errori di Alemanno
di Roberto Morassut


Dopo la tragedia di Tor Fiscale Alemanno ha chiesto poteri speciali per risolvere il problema dei campi rom reso, a suo parere, complicato dalle resistenze della “burocrazia”.
Tralascio il fatto che nel 2008 non la pensava così e che promise espulsioni di massa per catturare consenso elettorale pur sapendo di non avere il potere di farlo. La realtà è che nello specifico caso di Tor Fiscale il Comune è stato latitante e senza poteri speciali, ma con procedimenti del tutto ordinari, poteva risolvere da tempo il problema. Questo giudizio emerge da due fatti.
Primo. Nel maggio del 2010 un rapporto redatto dal Corpo dei Vigili Urbani segnalava direttamente agli uffici del Sindaco la rischiosa situazione di un insediamento abusivo composto da oltre venti persone di cui la metà minori alloggiati in baracche. Da allora nulla si è mosso per affrontare il problema.
Secondo. Già dal 2007 il Comune su mio indirizzo aveva avviato con un atto di Giunta una procedura di recupero urbanistico per approvare un piano particolareggiato in variante col fine di riqualificare l’area, sgombrare insediamenti abusivi, favorire la sicurezza e valorizzare l’area di proprietà del Cotral che avrebbe potuto così consolidare il proprio bilancio. Dove è finita quella delibera? Perché non è stata portata avanti?
Sono domande importanti a cui si deve dare risposta perché con il “normale” funzionamento amministrativo e senza “poteri speciali” si poteva probabilmente prevenire una situazione grave. Il Sindaco, su questo, qualche spiegazione dovrebbe darla.
Infine occorre ricordare un’altra cosa. Il Comune di Roma aveva messo allo studio tra il 2006 ed il, 2007 a cavallo della approvazione del Piano regolatore di Roma, una serie di localizzazioni per realizzare alcuni insediamenti regolari per i rom. Si trattava di aree prive di vincoli in zone semiurbanizzate tali da non creare problemi agli insediamenti esistenti e da non risultare completamente isolate e collocate grossomodo nei quattro punti cardinali di Roma. Su quelle aree avrebbero dovuto essere realizzati i cosiddetti “Villaggi della solidarietà” da gestire in collaborazione tra il Comune, associazioni di volontariato laico e cattolico e le rappresentanze delle comunità rom.
Queste scelte e questo metodo furono aspramente criticati da Alemanno che preferì usare in modo miope e strumentale l’argomento delle espulsioni. Quel lavoro complesso che non aveva alternativa come ora dimostrano i fatti fu gettato alle ortiche ed ora Alemanno invoca “poteri speciali”. Il solito alibi al quale non crede più nessuno.

l’Unità 10.2.11
Il rapporto dei carabinieri maggio 2010: «Troppi materiali infiammabili, rischio incendio»
I sopralluoghi dei vigili urbani corredati da fotografie, l’ultimo censimento il 9 dicembre
Bimbi rom, tutti gli allarmi che Alemanno ha ignorato
La veglia a Santa Maria in Trastevere, le mamme rom: «Basta campi, i nostri figli muoiono di malattia o bruciati». Il cardinale vicario Vallini: «La carità non può essere disgiunta dalla giustizia».
di Jolanda Bufalini


Si sono avvicinate alla fine della veglia di preghiera a Santa Maria in Trastevere, la basilica dove si raccolgono in preghiera gli immigrati, i bisognosi, i portatori di handicap, per la prossimità alla comunità di
sant’ Egidio. Si sono avvicinate le donne rom alle autorità presenti, il sindaco Gianni Alemanno, il presidente della Provincia Nicola Zingaretti, la presidente della Regione Renata Polverini: «Basta campi», hanno chiesto a gran voce. «I nostri figli sono tutti malati o bruciati». Incoraggiate, forse, nella tragedia, dalle parole pronunciate dal pulpito dal cardinale vicario Agostino Vallini, così come la famiglia di Sebastian, Patrizia, Fernando e Raul si era sentita accolta, per la prima volta nel nostro paese, dalla massima autorità civile, il presidente Napolitano. Incoraggiate anche, nel grido disperato, dalla lettura, al termine dell’ omelia, di cento nomi di bambini rom morti a Roma negli ultimi dieci anni: annegati nel fiume sul cui argine era costruita la loro baracca, morti di polmonite, bruciati nel rogo causato da un fornelletto o da una candela. Per ogni bambino una candelina è stata portata all’ altare.
La folla in chiesa si è stretta intorno Elena Moldovan e Erdei Mircea,
che non hanno mai smesso di piangere durante la cerimonia. Non c’era solo gente comune ad ascoltare le parole del cardinale, c’erano anche politici, fra gli altri Casini e l’ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick. «La carità ha sostenuto Agostino Vallini è inseparabile dalla giustizia. Viviamo in una città complessa e sarebbe un gravissimo errore ignorarlo» ma i problemi non possono far velo al punto fondamentale: «Domandarsi a quanti casi di giustizia negata dobbiamo riparare, perché gli immigrati non devono essere considerati solo come fonte di problemi ma anche come titolari di diritti», al lavoro, alla scuola, alla casa, alla salute. Ieri al Senato, la commissione straordinaria per i diritti umani ha approvato all’ unanimità il rapporto sulla condizione di Rom, Sinti e Camminanti in Italia. Vi si lamenta l’assenza di un piano nazionale che preclude all’Italia l’accesso ai fondi europei. E si segnala anche come il fenomeno dei campi sia solo italiano. Negli altri paesi europei «i campi sono di transito» mentre le soluzioni che la commissione suggerisce sono quelli degli alloggi popolari, delle auto-costruzioni, delle famiglie allargate. «La soluzione non può essere dice la commissione l’eterna emergenza e lo spostamento da un luogo all’ altro, andando dietro alle lamentele».
Nel frattempo emerge che la situazione della famiglia dei quattro bambini arsi vivi a Tor Fiscale era ben nota al Campidoglio. Denuncia Susi Fantino, presidente del IX municipio: «Li conoscevamo perché più volte erano stati sgomberati, e il papà lavora nell’edilizia». Il sindaco Alemanno, accusa la presidente, «non può far finta di non sapere». Ecco qui l’elenco delle azioni compiute e comunicate al gabinetto del sindaco per mettere in guardia dalle condizioni di grave insicurezza del piccolo insediamento: una segnalazione forte e dettagliata è contenuta in un rapporto dei carabinieri datato 9 maggio 2010, i militari mettono in guardia proprio dal «rischio di incendi per la presenza concentrata di materiali infiammabili dagli indumenti in acrilico alle bombolette a gas». Nello stesso mese di maggio seguono una lettera dettagliata del direttore del Municipio Di Giovine e una lettera della mini-sindaco: «Ho espresso la preoccupazione sia per una collocazione più protetta delle famiglie accampate sia per il rischio che vi fossero reazioni negative da parte dei cittadini», spiega ora Susi Fantino. Ma non è finita lì, perché si sono susseguiti puntuali i rapporti della polizia municipale, corredati di fotografie, a giugno, ottobre e dicembre. L’ultimo sopralluogo, il 9 dicembre, è stato anche occasione di un censimento. «Alemanno sostiene la presidente del Municipio non può nascondersi dietro cavilli burocratici che in questo caso non c’entrano. Quello era un piccolo gruppo e un’azione preventiva era semplice da realizzare».
Nessuna schiarita, intanto, nei rapporti fra il sindaco e il ministro dell’Interno. Alemanno, ieri mattina, aveva annunciato che, se Maroni non rispondeva, si sarebbe rivolto a Berlusconi. Il ministro non deve aver gradito e non lo ha ricevuto. «Non ero a Roma, non sono ancora andato in ufficio ha tagliato corto Lo riceverò. Prima o poi».

l’Unità 10.2.11
Conversando con...
Beppino Englaro
Dico no all’inferno di Eluana: per questo ho consegnato il mio testamento biologico
di Luca Landò

qui


Repubblica 10.2.11
Anche Bossi boccia la festa del 17 marzo, imbarazzo nel governo
Perché è giusto non lavorare nel giorno dell´Unità d´Italia
di Adriano Prosperi

Il 17 marzo 1861 si riunì a Torino il primo Parlamento e venne proclamato il Regno d´Italia. Era nata la nazione come realtà politica. Fino ad allora l´Italia era stata solo una espressione geografica. Per ricordare quella data faremo festa il prossimo 17 marzo. La faremo davvero?

La data si avvicina e le voci critiche, dubbiose, ironiche si moltiplicano. Oggi la possibilità, il pericolo che la festa venga cancellata si sono fatti tangibili. Su di un´opinione pubblica frastornata, in un paese diviso profondamente da disuguaglianze di beni, di consumi e di diritti, dove le diversità che consideravamo la ricchezza e l´originalità dell´Italia oggi appaiono improvvisamente come cesure insanabili, cala l´ombra del dubbio: un dubbio che investe la festa come simbolo e che nel simbolo ferisce in modo grave il dato reale. Perché se muoiono i simboli l´entità che essi rappresentano comincia a cessare di esistere: la morte del simbolo nella coscienza comune significherebbe che l´Italia che apparentemente continuerebbe a esistere sarebbe un fantasma privo di vita.
Ma vediamo gli argomenti. Perché questa festa non s´ha da fare? Qualcuno la mette sul serio: l´economia nazionale è così grama che non tollera il rischio del lavoro perduto. E come spesso accade l´argomento dell´economia ha dato una maschera seria a chi non la possedeva. È bastato che la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, persona seria e che sa farsi ascoltare con rispetto, parlasse del danno rappresentato dalla perdita di otto ore di produzione, perché chi non aveva avuto fino ad allora il coraggio di andare al di là delle battutine e delle alzate di spalla si mettesse alla sua ombra per insidiare più decisamente l´evento festivo e provare a cancellarlo del tutto. Si sono levate voci ostili dalle regioni dove comandano parti politiche che si desolidarizzano dalla responsabilità della nazione pur attingendo alle sue risorse e si inventano appartenenze e identità patrie di pura fantasia. Hanno parlato coloro che concepiscono la politica come arte dell´alzare muri divisori e si inventano religioni del sole delle Alpi e del fiume Po mentre baciano sacre pantofole prelatizie.
Non con loro vale la pena di parlare. Limitiamoci all´argomento "serio" della Marcegaglia. Davvero – si chiedeva Giorgio Ruffolo su questo giornale – in questi 150 anni della nostra storia non ci siamo guadagnati nemmeno otto ore per festeggiare la nostra unità nazionale? Perché il fatto singolare è che non stiamo progettando l´introduzione di una nuova festa nel calendario civile: quella del 17 marzo 2011 non sarebbe l´equivalente italiano del 14 luglio francese o del 4 luglio americano. Sarebbe un "una tantum", da ripetere magari solo quanto i 150 saranno diventati 200 o 300. Un ricordo del passato, un impegno per il futuro: un momento comune e pubblicamente riconosciuto per sostare e prendere atto di un accadimento storico che ci riguarda tutti in quanto italiani, non in quanto legati a questo o a quel partito, a questa o a quella ideologia, fede religiosa o identità etnica.
Quella mattina del 17 marzo gli italiani non si alzeranno per andare al loro solito posto di lavoro – quelli che ne hanno uno – o a cercare lavoro – quelli che non ne hanno, che sono tanti, soprattutto fra i giovani. Dovranno pensare tutti almeno per un attimo che quel giorno è diverso e saranno portati a soffermarsi su quel pensiero. Scopriranno che quel giorno è la loro festa: di tutti loro in quanto italiani, perché in Italia sono nati, vi abitano, vivono e lavorano. Per questo la festa deve esserci. La dobbiamo alle generazioni passate e a quelle future. E deve essere pubblicamente dichiarata e rispettata.
Non ascolteremo chi vuole convincerci a sostituire il fatto pubblico con un fatto privato o un pensiero individuale, a riporre il senso dell´appartenenza e l´impegno ad affrontarne i problemi del paese nascondendo quel pensiero nel dominio segreto delle intenzioni, trasformandolo chi vuole in voto da formulare "in interiore homine". Sarebbe uno schiaffo al paese e in primo luogo a chi degnamente lo rappresenta nel mondo e si è impegnato a tutelarne i diritti e a farne osservare i doveri. Perciò quel pensiero il 17 di marzo del 2011 lo dovremo dedicare in particolare ad alcuni nomi: quello del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quelli dei suoi predecessori, in modo particolare Carlo Azeglio Ciampi.

La Stampa 10.2.11
La rivolta dei blogger “Gaza è stufa di Hamas”
Il vento del Cairo arriva nella Striscia, gli islamisti proibiscono le manifestazioni
di Francesca Paci

Come vedo la rivoluzione del Cairo? Eccola, una strada sbarrata» dice il cinquantenne Youssuf indicando la barriera che si scorge oltre i palazzi incompiuti all’estrema periferia di Rafah. Dal 25 gennaio il confine tra Gaza e l’Egitto è sigillato e l’unica via di transito corre nei tunnel sotterranei costruiti nel 2007 per aggirare l’embargo internazionale. Da lì sono tornati a casa numerosi militanti di Hamas, fuggiti dalle prigioni nei giorni convulsi della rivolta egiziana ma anche il corpo di suo cugino Ali Younis, morto d’infarto una settimana fa mentre si trovava per affari a El Arish.
L’eco della rivolta L’eco di piazza Tahrir arriva a Gaza forte ma distorta. L’instabilità ha reso più difficile attraversare il Sinai e i prezzi delle merci contrabbandate sono schizzati alle stelle. «A ogni carico che ricevo devo aggiungere 300 schekel (circa 60 euro) per la scorta del camion» calcola Abu Khalid, uno dei proprietari dei tunnel. Con il risultato che la benzina è raddoppiata e il cemento è passato da 430 a 900 schekel la tonnellata.
Tra aspirazioni abortite e difficoltà quotidiane la vita a Gaza non è cambiata, in apparenza. Per la prima volta nella leggenda della piazza araba, un’intifada vede i palestinesi spettatori. Ma la quantità di automobili della polizia agli angoli dei viali sterrati suggerisce un’altra storia. Tutti aspettano di vedere cosa accadrà domani, se si svolgerà o meno la manifestazione indetta su Facebook al grido di Revolution dal gruppo Karama. Impossibile leggere oltre la sigla per capire chi siano gli organizzatori, ma molti sospettano si tratti di uomini di Fatah.
«Non andrò perché se qualcuno scenderà in strada la sicurezza sparerà per uccidere» dichiara la giornalista ventinovenne Asmaa Alghoul, giacca di pelle anni settanta, smalto violaceo, kajal intorno agli occhi. Non ha paura, al contrario. Da cinque anni è ai ferri corti con Hamas di cui denuncia regolarmente «l’islamismo liberticida mascherato da lotta contro l’occupazione israeliana», nel 2009 è stata licenziata dal giornale di Ramallah al Ayyam perché raccontava le torture commesse da Fatah, ora che la rivolta tunisina e egiziana ha messo le ali ai desideri di milioni di ragazzi arabi il suo blog è finito sul serio nel mirino di Hamas che prima ha arrestato lei, poi il fratello e il padre.
Revolution Asmaa si affaccia al balcone e mostra l’automobile scura che la segue da giorni: «Mi hanno picchiato, mi hanno minacciato di morte, dicono che sono nemica del governo e che ho organizzato la manifestazione Revolution, ma non è vero e non andrò perché non sto con nessun partito, quando la nostra rivolta esploderà sarà popolare».
Asmaa non è sola. Da quando ha preso il potere a Gaza la popolarità di Hamas è calata a picco. Lo mormorano le mamme al mercato, i padri pescatori seduti sulle barche che non prendono il largo, il ferramenta Mahmoud che conta un cliente ogni ora e mezza. «Non ci abbiamo guadagnato niente dal cambio con Fatah», ripetono. Ma nessuno ha voglia di esporsi. I figli sì. E non solo contro Hamas. Da due mesi, prima ancora che la rivolta tunisina suonasse la carica, otto universitari tra i 20 e i 25 hanno lanciato via Facebook il «Manifesto dei Giovani di Gaza» che suona più o meno così: «Vaff... Hamas. Vaff...Israele. Vaff... Fatah. Vaff.. Onu. Vaff... Unrwa. Vaff... Usa». Rifiutano la cultura del vittimismo e chiedono che la frattura tra Hamas e Fatah venga sanata per il bene del popolo palestinese. «Il cambiamento comincia prendendosi le proprie responsabilità», sostengono. Quando hanno inziato c'era con loro Wael Ghonim, il blogger diventato simbolo della rivoluzione egiziana. I sostenitori oggi sono a quota 20 mila.
Per incontrarli in un caffè-pasticceria della zona di Alrimal, a Gaza City, bisogna passare attraverso un mediatore e accettare di tenere celati i nomi e i dettagli che potrebbero farli identificare. Dove studiano, cosa, il quartiere in cui vivono. Arrivano in tre, jeans, felpe, snikers, potrebbero essere studenti di Londra, Parigi, New York. Ascoltano i Beatles ma anche la cantante libanese Fairouz e conoscono a memoria le battute del film «Il Padrino». «È cominciato tutto per gioco, ci chiedevamo tra amici cosa volessimo fare da grandi ed è venuto fuori che non potevamo far nulla, non mettere a frutto i nostri studi, non sposarci senza un lavoro, non fuggire» spiega Abu Yaza. Interviene Abu Oun: «Il manifesto l’abbiamo scritto così, di getto, ma solo perché eravamo tra amici, siamo cresciuti con la consapevolezza che non puoi fidarti di nessuno».
Il poliziotto Entra un poliziotto in uniforme nera a comprare dei dolci e loro scartano parlando di calcio, Inter, Milan, Real Madrid. Poi riprendono: «Non vogliamo più stare in panchina. La nostra rivolta è diversa da quelle tunisina e egiziana, noi abbiamo tre nemici, Hamas e Fatah che combattendosi hanno dissanguato la nostra causa, e Israele».
La rete si allarga. Con Asmaa sono usciti allo scoperto un’altra ventina di blogger, tra cui il giovanissimo Afun. Via passaparola, amico chiama amico, il Manifesto è sulla bocca di molti, sottovoce. Sarà un caso, ma Hamas non ha rilasciato una sola dichiarazione ufficiale sulla situazione in Egitto. Nel frattempo la security ha chiuso il centro di aggregazione giovanile Sharik.
«In comune con gli altri coetanei in rivolta in tutti i Paesi del Medioriente abbiamo la volontà di non essere strumentalizzati» insiste una ragazza velata, bevendo tè sulla terrazza dell’hotel Beach. La religione conta, dice, ma non nell’arena politica: «Finora abbiamo fatto comodo a tutti, all’Iran che paga Hamas, all’America che paga Israele e Fatah, vogliamo poter cacciare via i governanti che non ci rappresentano». «Degage», via, urlano per le strade di Tunisi. «Fuori Mubarak», rispondono dal Cairo. Sono i figli a maturare la frustrazione dei genitori. Gaza inizia a mormorare.

Corriere della Sera 10.2.11
Agostino, Hugo, Nietzsche I classici che hanno fondato l’Occidente liberale
di Antonio Carioti

Ci sono autori dei quali non ci si può disfare, neppure volendolo, perché i loro dubbi, le loro riflessioni, la loro indignazione hanno lasciato un segno nella storia e continuano a risuonare intorno a noi, nonostante il frastuono dei tanti richiami effimeri con cui ci assilla l'inflazione mediatica. Per quanto sommerso da messaggi di ogni genere, spesso del tutto privi di un contenuto significativo, il pubblico sa riconoscere l’impronta di questi autori e mostra di apprezzarli. Così si spiega l’attrazione che esercitano i festival dedicati alla letteratura, alla filosofia, alla storia, al diritto, alla spiritualità. E si spiega allo stesso modo il successo della collana «I Classici del Pensiero Libero» , inaugurata in novembre dal «Corriere della Sera» con l’offerta di grandi testi al prezzo di un euro più il costo del quotidiano. L’iniziativa è partita con il Trattato sulla tolleranza di Voltaire e in questi giorni è giunta alle Lezioni di politica sociale di Luigi Einaudi (in uscita oggi) e al Manifesto di Ventotene di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli (in edicola dopodomani). Ora si appresta a proseguire oltre i programmi iniziali, con una nuova serie. La scelta di prolungare la collana era quasi obbligata, di fronte alla pressante richiesta dei lettori e al riscontro del mercato. Molti si sono lamentati di non aver trovato qualcuno dei «Classici» , perché era già andato a ruba. È evidente che nel nostro Paese c’è fame di cultura: si avverte l’esigenza di confrontarsi con libri che pongano e approfondiscano i grandi temi da cui ha preso le mosse la civiltà liberaldemocratica dell’Occidente. Insistere su questi argomenti appartiene del resto alla missione istituzionale di una testata come il «Corriere» . In assoluta coerenza con l’impostazione precedente, la nuova serie procederà fondamentalmente su due binari. Da una parte libri che hanno smosso l’opinione pubblica del loro tempo, determinando svolte importanti in campo politico e sociale. Dall’altra testi di approfondimento filosofico, che hanno trattato in maniera innovativa le grandi questioni della vita e della cultura. Un esempio eloquente sono le prime due nuove uscite. Giovedì 17 febbraio vanno in edicola assieme al «Corriere» Le confessioni di un peccatore, pagine in cui Sant’Agostino d’Ippona mette a nudo il tormento della sua anima: una pietra miliare del pensiero cristiano sulla condizione umana e sul male, con prefazione di Giuliano Vigini. Sabato 19 febbraio tocca invece a Victor Hugo, grande scrittore francese dell’Ottocento, e a una raccolta dei suoi scritti riguardanti la battaglia per l’abolizione del supplizio capitale, intitolata Contro la pena di morte, con prefazione di Ranieri Polese. La serie proseguirà con due pensatori tedeschi che hanno segnato in modo indelebile il loro tempo. Giovedì 24 febbraio esce Il giudizio degli altri di Arthur Schopenhauer, con prefazione di Paola Capriolo, mentre sabato 26 approda in edicola Verità e menzogna di Friedrich Nietzsche, con prefazione di Sossio Giametta. Sarà poi il turno del Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano di Pietro Abelardo (3 marzo), con prefazione di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e dei Pensieri di Montesquieu (5 marzo), con prefazione di Giuseppe Bedeschi. Dal tardo impero romano all’età dell’Illuminismo, dal Medioevo all’Ottocento, perché ogni epoca ha avuto i suoi spiriti forti, capaci di parlare ancora direttamente a ciascuno di noi, nonostante il trascorrere dei secoli.

Corriere della Sera 10.2.11
Per spiegare la politica di oggi lasciamo in pace l’azionismo
di Massimo Teodori

Nella polemica tra berlusconismo e antiberlusconismo sarebbe meglio lasciare in pace l’ «azionismo» , la «cifra morale azionista» e le «belle anime degli azionisti» . La categoria dell’azionismo è solo un’invenzione utilizzata sia dai laudatores, che vi proiettano l’intransigenza civile che scorre nelle vene della Repubblica, sia dai detrattori che lo bollano come l’indomabile nemico giacobino dei valori tradizionalisti. Certo, il Partito d’Azione, tra il 1942 e il 1946, ha svolto un ruolo politico decisivo nella Resistenza e nei Comitati di Liberazione fino alla Costituente. Ma, in seguito, l’azionismo scompare del tutto come movimento politico e come tendenza intellettuale coesa, mentre si sviluppano i percorsi dei singoli esponenti azionisti che imboccano strade diverse: la socialista di sinistra (Lussu, Foa), la socialista autonomista (Lombardi), la socialdemocratica (Garosci) e la liberaldemocratica (La Malfa e poi Valiani). Anche Ferruccio Parri seguì un itinerario tutto suo tendente a perpetuare il ruolo unitario di capo della Resistenza; e Norberto Bobbio non può e non deve essere caricato del fardello di interprete autentico dell’azionismo. Per comprendere la penosa crisi d’oggi, dunque, è improprio utilizzare la chiave dell’azionismo, estraendone la memoria dalle vicende di sessantacinque anni fa. Distinguere quel che va distinto in un determinato momento è la sostanza della lezione laica e liberale. A proposito della quale non corrisponde a verità l’affermazione secondo cui i liberali (anche di sinistra) hanno sempre rifiutato l’anticomunismo. La profonda anima liberale e liberaldemocratica riposa, fin dal periodo tra le due guerre, nell’antitotalitarismo, vale a dire nell’accoppiata di anticomunismo e antifascismo, in versioni democratiche e liberali. È vero che in Italia la storiografia di sinistra ha cancellato l’antinomia totalitarismo-antitotalitarismo, ma lo ha fatto non per ragioni storiche ma politiche. Discutendo di liberalismo, come si possono dimenticare, ad esempio, i contributi antitotalitari di Hannah Arendt, Raymond Aron, George Orwell e, in Italia, di Gaetano Salvemini, Ignazio Silone e Mario Pannunzio?

Repubblica 10.2.11
Multiculturalismo
Perché è andato in crisi il sogno della convivenza
di Alain Touraine

Secondo il premier inglese David Cameron e la cancelliera tedesca Angela Merkel occorre abbandonare l´idea della coesistenza tra gruppi con tradizioni diverse. E in Europa si riapre la discussione
Senza integrazione il rispetto della diversità produce l´antagonismo di etiche e pratiche che finisce per minare la coesistenza civile
Le leggi nazionali devono sempre prevalere sui costumi dei paesi da cui provengono gli immigrati

Quando si parla dei rapporti tra culture diverse all´interno di una stessa società occorre evitare semplificazioni e schematismi, sottraendosi alla tentazione dell´aut aut tra assimilazionismo e multiculturalismo. Due atteggiamenti contrapposti che nelle loro versioni più intransigenti diventano entrambi irrealistici, e quindi fallimentari. In Francia, dove si pensava di poter integrare gli immigrati, assimilandoli all´interno di un´identità nazionale, oggi questi sono prigionieri dei quartieri ghetto, alle prese con una disoccupazione altissima e una discriminazione sempre più marcata. In Inghilterra, David Cameron - come per altro Angela Merkel in Germania - denuncia i limiti del multiculturalismo, dove la difesa delle differenze culturali alla fine ha prodotto contrapposizioni inaccettabili e il rifiuto dei diritti degli altri. Nei due casi, ha prevalso un comunitarismo intransigente che resiste ad ogni integrazione.
Il progetto di una società multiculturale è dunque in crisi. La causa va cercata soprattutto nel venir meno dei fattori d´integrazione che avrebbero dovuto accompagnare tale progetto. Senza integrazione, infatti, il rispetto della diversità culturale produce l´antagonismo di pratiche, valori e tradizioni, dove l´assenza di un terreno comune finisce per minare la coesistenza civile.
L´idea che diverse comunità culturali, etniche o religiose possano continuare a vivere all´interno di una stessa nazione conservando le loro tradizioni, i loro valori e le loro identità era nata proprio in Inghilterra, che però all´epoca pensava soprattutto alle diverse comunità provenienti dall´impero britannico e quindi unificate dalla lingua inglese. Oltretutto, il multiculturalismo si è affermato in un contesto di crescita economica e di rafforzamento dell´identità nazionale. Come per altro è avvenuto negli Stati Uniti, un paese d´immigrati che però ha immediatamente sviluppato due potenti fattori d´unità: il sistema giuridico e il mercato del lavoro. Il multiculturalismo, infatti, può esistere solo se contemporaneamente si rafforza l´unità nazionale, sul piano sociale ed economico, ma anche sul piano dei valori condivisi che fondano l´appartenenza alla cittadinanza e all´identità collettiva.
Oggi l´Inghilterra non ha più la capacità d´integrazione che aveva in passato. Lo stesso vale per la Francia e perfino - in parte - per gli Stati Uniti. Un po´ dappertutto assistiamo all´indebolimento della coscienza dell´identità nazionale. La mondializzazione, la crisi dei valori, la congiuntura economica indeboliscono gli Stati, che quindi non sono più in misura di controbilanciare con l´integrazione le rivendicazioni del comunitarismo. Rivendicazioni sempre più oltranzistiche che spesso nascono come reazione alla xenofobia e all´islamofobia in crescita in tutto l´Occidente, anche per via delle tensioni internazionali prodotte dall´11 settembre e dalla guerra in Iraq.
Riconoscere i limiti di una società multiculturale non significa però rinunciare al rispetto delle altre culture e al dialogo, che è sempre un fattore positivo. Tuttavia ciò non può ridursi semplicemente alla tolleranza, anche perché talvolta dietro di essa si cela un sentimento di superiorità. Tolleriamo infatti colui che consideriamo inferiore. Il multiculturalismo più radicale, che difende una tolleranza assoluta, nasce spesso da un sentimento di superiorità economica, culturale e sociale.
Rispettare le altre culture è un´operazione più complessa, motivo per cui la tolleranza che m´interessa è quella che difende i diritti delle minoranze in nome dei diritti universali, come è stato fatto in passato per i diritti delle donne. Chi, in nome del relativismo culturale, rimette in discussione il valore universale dei diritti dell´uomo fa un grave errore, perché tutti i nostri diritti specifici sono sempre stati conquistati in nome di tali valori universali. Non avrebbe senso abbandonarli. Dobbiamo però dimostrare che l´universalismo dei diritti dell´uomo è conciliabile con il rispetto dei diritti culturali delle diverse comunità, le quali a loro volta devono riconoscere il valore dei principi universali. Solo così è possibile vivere insieme senza conflitti. Insomma, la maggioranza deve rispettare i diritti della minoranza, a condizione che la minoranza rispetti quelli della maggioranza. E quando una comunità rifiuta di farlo, allora occorre farle rispettare la legge che incarna i diritti di tutti. Le leggi nazionali devono sempre vincere sulle tradizioni dei paesi di provenienza.
Viviamo in un mondo mobile, in cui le nostre società continueranno inevitabilmente ad accogliere i migranti, anche perché ne abbiamo bisogno. La presenza delle loro tradizioni culturali produrrà forme di meticciato che arricchiranno la nostra cultura. Per questo vanno rispettate. Ma come ho detto, la tolleranza da sola non basta, dato che non può esserci riconoscimento d´identità senza integrazione sociale e nazionale. Solo se si rinforza il senso di appartenenza all´identità collettiva, diventa possibile riconoscere le differenze culturali. Solo rafforzando le politiche d´uguaglianza diventa possibile accettare le differenze. Occorre essere uguali e differenti. In pratica, oltre a chiedere il rispetto delle leggi nazionali da parte di tutte le comunità, occorre combinare multiculturalismo e assimilazionismo, cercando d´integrare le altre culture, ma dando loro la possibilità di esprimersi. Solo così si combattono contemporaneamente il comunitarismo e la xenofobia.
(testo raccolto da Fabio Gambaro)


il Riformista 10.2.11
Fofi: «Io, un critico arrogante»
 «Il ’77 fu l’inizio della fine del movimento»
IMPEGNO. Dice il critico. «In politica è giusto ambire alla maggioranza, ma in cultura è meglio stare con la minoranza, non bisogna partecipare alla “corsa dei topi”. L’intellettuale non deve voler diventare ministro della cultura, direttore di “Repubblica”, presidente della Rai»
di Alessandro Leogrande
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il Riformista 10.2.11
Bergman, ritratto politico di un intellettuale onesto
di Ettore Colombo
14
http://www.scribd.com/doc/48553523

l’Unità 10.2.11
A Roma Apre domani una mostra costruita su documenti originali dell’Archivio di Stato
La scoperta Tra le opere, il ritratto di Paolo V, attribuito al Merisi dopo il restauro
Quando l’artista arrivò nella città eterna veniva bruciato Bruno
L’oste, il pizzicagnolo e il pittore Vita quotidiana di Caravaggio
Inaugura venerdì 11 a Sant’Ivo alla Sapienza «Una vita dal vero», mostra di dipinti e documenti dedicata a Michelangelo Merisi. L’ esposizione è curata dagli Archivi di Stato di Roma per i 400 anni dalla morte.
di Jolanda Bufalini


L’aspetto non benevolo e severo dell’uomo potente. La postura ufficiale, in udienza. Il ritratto di Camillo Borghese poco dopo la sua elezione a papa con il nome di Paolo V conclude il percorso della mostra Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, (da domani nella biblioteca Alessandrina di Sant’ Ivo alla Sapienza, all’Archivio di Stato di Roma), ideata e diretta da Eugenio Lo Sardo, curata da Michele Di Sivo e Orietta Verde.
«Rapporto complesso ci racconta Claudio Strinati, storico dell’arte e, per molti anni soprintendente del polo museale romano che avrebbe voluto essere di stima ma che fu conflittuale anche per ragioni politiche», Caravaggio orbita negli ambienti francesi, il papa è filo spagnolo. Fu sotto Paolo V che Caravaggio fu condannato e costretto a fuggire. E c’ è qualcosa di emblematico per l’ arte di Caravaggio che Strinati definisce «fortemente autobiografica» nel fatto che, dei 10 ritratti di cui parlano le fonti, gli unici arrivati con certezza sino a noi sono del Papa e del Gran maestro dell’ ordine di Malta Alof de Wignacourt (Louvre): «L’uomo d’ arme e il religioso dice Strinati due categorie implacabili. I due personaggi che hanno portato alla rovina il maestro, dopo averlo esaltato».
Il ritratto del pontefice fa parte della collezione privata dei Borghese e non veniva esposto al pub-
blico dal 1911. L’ attribuzione a Caravaggio è già nelle fonti antiche (Manilli) ma restavano i dubbi per la piattezza dell’opera. Ora i dubbi sono stati fugati dalla pulitura da poco ultimata. Prima di questa semplice rimozione dello sporco spiega Strinati il dipinto sembrava privo di volumetria. Ora è venuto fuori con il suo colore intenso e la bellezza che ha convinto me ed altri, come la soprintendente Rossella Vaudret, per il convergere di ragioni estetiche, documentali e storiche».
Quella di Sant’Ivo è una mostra pittorico-documentaria, i documenti restituiscono in modo molto vivido la vita degli artisti in quel quadrante di Roma fra la dogana del porto di Ripetta e via della Scrofa, sulla carta topografica di Maggi (1625) sono stati individuati gli indirizzi in cui abitò il pittore, l’osteria della Lupa, il rigattiere, il barbiere. Sembra di vederli artisti e madonnari, negozietti di souvenir devozionali e merci che arrivavano dall’Umbria. Che si incontrano, lavorano insieme oppure si denigrano alle spalle, prima amici e poi nemici, pronti a vedere «chi alza la berretta per primo». Spesso si tratta di carte giudiziarie. Appena arrivato a Roma Caravaggio assistette, probabilmente, al corteo che accompagnò Beatrice Cenci esposta sulla carretta dei condannati a piazza di ponte dove fu decollata; dello stesso periodo è il rogo che Bruciò Giordano Bruno, dopo un processo durato sette anni. La mostra parte da lì, con il ritratto bellissimo di Beatrice attribuito a Guido Reni, e le carte della Confraternita laica che diede assistenza a Bruno, fra i primi sottoscrittori racconta il direttore degli Archivi Eugenio Lo Sardo c’ era stato Michelangelo Buonarroti: «Cercavano di alleviare la sorte dei condannati, anche pagando il boia perché desse loro droghe».
Fra le carte più importanti per la storia dell’ arte conservate a Sant’Ivo (e restaurate grazie a un’iniziativa giornalistica di Marco Carminati che è riuscita a raccogliere fondi dai privati) ci sono i verbali del processo per diffamazione che il pittore Giovanni Baglione intentò a Caravaggio. Michele Di Sivo ne ha curato la trascrizione integrale e, con Federica Papi, ne presenta il significato. Baglione aveva dipinto una resurrezione per la chiesa del Gesù, subito dopo cominciarono a circolare feroci testi satirici: «Porta i disegni che tu ai fatto a Andrea pizzicarolo /o veramente forbetene il culo». Baglione attribuì la campagna alla cerchia di Caravaggio. Merisi, rispondendo al giudice, si tiene sul vago ma spiega quali secondo lui sono i «valent’huomini» e quali invece come Baglione, non valgono nulla: «Quella pittura è goffa... E non l’ ho
intesa lodare da nessuno». La parte centrale della mostra, dunque, si costruisce sulle opere dei pittori che, secondo Merisi, «sappi dipinger bene» e su quelle di «cattivi pittori et ignoranti». Fra esse il capolavoro, amatissimo da Caravaggio, di Annibale Carracci, Santa Margherita.
Al restauro e alla esegesi delle carte hanno partecipato giovani con borse di studio. Saranno loro a guidare i visitatori che entreranno 25 per volta. Un piccolo contributo per contrastare la catastrofe incombente. Gli archivi italiani, con pensionamenti, prepensionamenti e spoil system si stanno impoverendo dei loro maggiori esperti. E il ricambio, ovviamente, non è previsto.

l’Unità 10.2.11
Storia e memoria
Una raccolta dei suoi scritti attraverso il giellismo e l’azionismo
L’influenza di Carlo Rosselli, il carcere, il fascismo poi la Costituente
Foa e la sua idea di politica dall’antifascismo alla Carta
Si tratta di un volume che raccoglie gli articoli e i saggi più significativi di Foa: «Scritti politici. Tra giellismo e azionismo 1932-1947 (Bollati Boringhieri) a cura di C. Colombino e A. Ricciardi.
di Nunzio Dell’Erba


Sul settimanale Giustizia e Libertà del 20 marzo ‘36 Carlo Rosselli deplorò la condanna di Vittorio Foa a 15 anni di carcere: «Ha osservato dal vivo, nel fatto, l’ingiustizia fatta al lavoratore. La macchina del regime egli l’ha vista funzionare nei dettagli, con quegli occhi che è così difficile, in Italia, tenere aperti». Nel volume che raccoglie gli articoli e i saggi più significativi di Foa Scritti politici. Tra giellismo e azionismo 1932-1947 (Bollati Boringhieri, pp. 284) i curatori C. Colombino e A. Ricciardi mettono in rilievo l’influenza culturale di Rosselli sul giovane antifascista torinese.
All’epoca Foa aveva 25 anni, ma già militava nel movimento di Giustizia e Libertà, costituito a Parigi nel 1929 per iniziativa di Carlo Rosselli. L’impegno «attivo» nella cospirazione antifascista fu dettato da un’adesione ideale al programma giellista e da una personale avversione alla violenza squadrista, che raggiunse il culmine con l’omicidio di Giacomo Matteotti («il discrimine politico della mia adolescenza», dirà più tardi) e con l’introduzione delle cosiddette «leggi fascistissime» come fonte di «ogni autoritarismo». Quelle leggi, volte a sopprimere la stampa e la libertà sindacale e politica, furono aspramente criticate dal giovane Foa, che denunciò il corporativismo «come ideologia (e mistificazione) dell’intervento diretto dello Stato nell’economia», mettendo in rilievo il «carattere classista della politica mussoliniana e l’aperto sostegno della grande industria e del latifondo al fascismo.
Proprio per questi articoli Foa fu arrestato per la delazione di Dino Segre (Pitigrilli), fiduciario diretto del ministero dell’Interno e scrittore infiltrato dalla polizia politica negli ambienti giellisti. Deferito al Tribunale Speciale, egli fu indicato come dirigente del nucleo cospirativo di Torino e, sulla base di una sentenza sommaria pronunciata il 28 febbraio 1936, venne rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, di Civitavecchia e di Castelfranco Emilia, dove scontò 3022 giorni di reclusione.
Gli anni trascorsi in carcere, già rievocati nelle sue Lettere della giovinezza (Torino 1998), documentano momenti focali del Novecento come la guerra civile spagnola, le leggi razziali, lo scoppio della seconda guerra mondiale, la sconfitta del nazifascismo. Ma sono significativi sul piano umano per la conoscenza di Ernesto Rossi e di Riccardo Bauer, con i quali instaurò un sodalizio culturale, che arricchì le elaborazioni politiche proposte nei primi anni Trenta.
Scarcerato il 23 agosto 1943, un mese dopo la caduta di Mussolini,
Foa intraprese l’attività politica nelle file del Partito d’Azione, partecipando 5 giorni dopo ad una importante riunione a Milano, dove fu ribadita la necessità della resistenza armata contro il nazismo e l’esclusione del movimento antifascista da ogni «controllo di organismi totalitari». L’allusione ai comunisti e alla loro struttura verticistica diventò così una mera operazione tattica nel documento (Memoria), scritto e diffuso venti giorni dopo da Giorgio Diena e da Foa. I giovani azionisti avvertirono la necessità di «mantenere stretti rapporti col Pci» ed imprimere «un’impronta rivoluzionaria all’azione» contro l’occupazione tedesca. Dall’insieme degli articoli pubbli-
cati da Foa negli anni ‘45-47 si coglie una linea diretta a caldeggiare un rapporto privilegiato con il Pci, ma si avverte anche un’analisi dei partiti e del loro ruolo nella democrazia italiana postfascista. L’enunciazione di un nuovo modello di partito, inteso non come «strumento di aristocrazie organizzate» ma come proiezione politica per il soddisfacimento dei bisogni dei lavoratori, caratterizza il suo impegno politico di questi anni, come emerge per esempio dall’articolo su L’Italia Libera (29 gennaio ‘46) e riproposto nel volume: «I partiti di sinistra ? si legge sono fatalmente portati ad una concezione riformistica, ossia ad accettare gli esistenti strumenti statali per un partito che sia originariamente ed integralmente democratico».
L’evolversi degli avvenimenti, compresi tra il referendum del 2 giugno ‘46 e la nascita della Repubblica, vide Foa impegnato nella ricomposizione sindacale, nell’attività dell’Assemblea costituente come deputato e nella ricostruzione economica dell’Italia. Unità sindacale, ripresa della produzione e intervento pubblico erano così auspicati per dar vita a «una moderna democrazia» e ad un piano organico di rinascita sociale, le cui responsabilità dovevano essere assunte dai partiti della Sinistra nella costituzione di un governo omogeneo diretto dai «partiti del lavoro». Con l’apertura della Costituente e la nomina il 19 luglio del ‘46 della «commissione dei 75», Foa partecipò all’elaborazione della Carta, il cui risultato finale doveva derivare da una convergenza di tutte le forze democratiche. Le sue convinzioni furono rivolte a una nuova organizzazione dello Stato basata sulla sovranità popolare come «valore assoluto», sulle garanzie costituzionali, l’equa retribuzione ai lavoratori, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la difesa delle minoranze e l’autonomia delle regioni sul piano territoriale, funzionale e finanziaria.

l’Unità 9.2.11
Il saggio Nel suo nuovo lavoro, Michele Ciliberto analizza le ragioni profonde dell’«anomalia Italia»
Storia Il problema non è solo Berlusconi: sono troppe le comprimissioni della nostra classe dirigente
Per capire la «democrazia dispotica» italiana ci vuole più Gramsci e meno Tocqueville
È in libreria «La democrazia dispotica» di Michele Cilberto (pp. 195, euro 18, editore Laterza): dice lo studioso che quello italiano è un «regime» democratico alla sua massima espressione...
di Nicola Tranfaglia


Tra i molti libri che gli editori stanno inviando finalmente in libreria ora che l’egemonia berlusconiana è entrata in grave crisi, l’inchiesta di Milano incalza e a fine febbraio o poco tempo dopo, il presidente del Consiglio sarà costretto, con molta probabilità, a comparire di fronte ai suoi giudici ordinari (visto che il legittimo impedimento è in gran parte crollato e lui, almeno formalmente, è tornato ad essere cittadino italiano agli effetti giudiziari), anche l’editore Laterza è ora presente con La democrazia dispotica di Michele Cilberto (pp. 195, euro 18, collana I Sagittari) che è tra i migliori studiosi di Giordano Bruno a livello internazionale e insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Normale di Pisa.
Il libro di Ciliberto merita molto interesse anche per chi non è del tutto d’accordo con le categorie adottate dall’autore, specialista, peraltro, di altri secoli e non dell’età contemporanea con cui oggi abbiamo a che fare. Secondo Ciliberto, il regime con cui abbiamo oggi a che fare è un regime democratico nella sua massima espressione, come Tocqueville prefigurava come degenerazione (già nel Settecento, nel suo capolavoro, La democrazia in America), perché sono presenti, nello stesso tempo, un grande apparato burocratico proprio dello Stato contemporaneo e il potere carismatico di Silvio Berlusconi che ha creato un partito a sua immagine e somiglianza e lo governa con criteri che violano ogni giorno i principi della costituzione repubblicana fissati nella prima parte del testo. Quest’affermazione si può sottoscrivere interamente, ma mi chiedo due cose da contemporaneista quale sono da quasi mezzo secolo: tutti i regimi democratici europei sono arrivati alla democrazia dispotica come quella italiana? O invece la Francia, la Germania, la Gran Bretagna e gli Usa hanno ancora regimi democratici e non dispotici?
È un interrogativo centrale sul piano storico perché l’anomalia Italia deriva non solo dalle qualità negative di Berlusconi (sulle quali siamo d’accordo) ma sull’incapacità complessiva che le classi dirigenti soprattutto di centro-destra dominanti hanno avuto nella crisi del 1943-46 di rinnovare lo Stato italiano, sulle caratteristiche indicate proprio da Gramsci che parla di ricorrente sovversivismo delle classi dirigenti, sulla crisi della repubblica sorta con la fine del centro-sinistra e l’assassinio di Aldo Moro e precipitata all’inizio degli anni novanta.
Ciliberto, uno dei nostri migliori studiosi dell’età moderna, fa molto bene a utilizzare tutti i classici della politica europea e americana, da Tocqueville a Marx, a Max Weber e, in piccola parte, anche Gramsci che, a mio avviso, per essere stato un grande storico dell’Italia moderna e contemporanea, avrebbe potuto essere citato e usato meglio di quanto avviene nel libro (ma la giustificazione implicita è che, a settant’anni dalla nascita della repubblica, nessuno storico, e tanto meno quelli che sono stati comunisti, hanno scritto ancora il libro, sempre più necessario e opportuno, sulla interpretazione che Gramsci ha dato della nostra storia).
La situazione italiana, come sappiamo, è drammatica e ha ragione chi afferma che Berlusconi sta declinando come pure la sua personale egemonia, ma che il berlusconismo resiste ancora e potrebbe continuare a dominare l’Italia, se le forze delle opposizioni non saranno in grado, al più presto, di fare un programma preciso e alternativo. Del resto i nostri amici europei ci dicono ogni giorno che siamo ancora nel baratro e non siamo neppure in grado di far precipitare la crisi in modo tale che il Capo dello stato sciolga le Camere e proceda subito alle elezioni, per evitare la rovina totale del settore intero della istruzione e superare la crisi economica che colpisce le classi medie e tutti quelli che hanno difficoltà ad arrivare alla quarta o alla terza settimana del mese. L’attuale situazione, questo è il punto, non è qualcosa che si esprime improvvisamente con l’ascesa di Berlusconi ma piuttosto la sua ascesa è dovuta a ragioni storiche di breve e lunga durata.
Allora o si riscrive la storia d’Italia, sottolineando questi aspetti e i frequenti compromessi delle classi dirigenti italiane di ogni colore verso le associazioni mafiose, i vertici del Vaticano e altre istituzioni dell’Italia più arretrata e non democratica, o si dà un’immagine del nostro paese che non può reggere al confronto internazionale, oggi necessario. Abbiamo bisogno, perciò, di discutere le categorie di metodo, usare più Gramsci e meno Tocqueville, ed elaborare una visione storicamente valida dell’odierno populismo mediatico-autoritario. L’Italia, a mio avviso, non è mai arrivata a una democrazia compiuta e ne paga ancora le conseguenze.

mercoledì 9 febbraio 2011

l’Unità 9.2.11
Suore e puttane
di Concita De Gregorio

Nel disperato e spaventato tentativo di far sembrare la manifestazione di domenica prossima una piccola cosa, una cosa di donne, sono scese in campo le truppe da combattimento dei sostenitori e dei fiancheggiatori dell'Arcore style. Quelli che, a partire dall'anziano Ostellino, spiegano che ogni donna è seduta sulla sua fortuna dunque che male c'è, è sempre andata così, l'Italia in fondo è veramente un bordello abbiamo letto di nuovo ieri sul Corriere. I più raffinati, per così dire, schierano donne a denigrare altre donne nel tentativo di scatenare quella che, se solo si scatenasse, chiamerebbero entusiasti una rissa da pollaio. Il sottotesto, il retropensiero divertito di chi manda in tv e mette in prima pagina le Santanchè da combattimento è il seguente: ecco, guardate, donne contro donne. Come se le donne non rispondessero alle categorie di ogni essere umano e non ce ne fossero di ladre e di oneste, di servili e di libere, di capaci e di inette. Gli argomenti più in voga, per denigrare chi crede che le donne siano capaci per prime di reagire al “sistema” piuttosto che adattarvisi, sono i seguenti: sono femministe, moraliste. Predicavano il libero amore ora si atteggiano a suore. Le brave ragazze contro le prostitute, le madri contro le puttane, il mondo diviso in Maria e Maddalena così come i libri sacri ci insegnano, come gli uomini in fondo desiderano. Le puttane per strada offendono il decoro urbano, in villa sono accompagnate dagli autisti. Il femminismo e il moralismo non c'entrano: molte suore hanno firmato il nostro appello e parecchie prostitute, preti e libertini come se aveste la pazienza di leggerci capireste. Ammesso che l'obiettivo sia capire, naturalmente. Carla Corso, una donna di 65 anni che è stata ed è leader del comitato per i diritti civili delle prostitute, ci racconta oggi perché aderisce alla manifestazione. Dice, a un certo punto: “Noi eravamo in lotta contro il mondo, volevamo rompere l'ipocrisia, queste ragazze non sono contro ma sono funzionali al sistema”. Il femminismo è stato un movimento politico portatore di diritti. Le ragazze che negli anni Settanta non erano nate, quelle che come me andavano alle elementari non hanno combattuto quella battaglia: ne hanno goduto i frutti. Ma i diritti non sono dati per sempre, vanno difesi: con la cultura, con la consapevolezza. Scrivevo anni fa le storie vere di Dalia, la ragazzina dell'Est venduta dalla nonna a 12 anni, di Cristina, la studentessa che fiera di farlo rivendica il suo diritto a fare la puttana. La libertà consiste nel darsi il destino che si vuole. Credo che il “sistema” di cui parla Lele Mora e che da decenni è un modello di referimento per generazioni di ragazze – quelle sulle copertine dei rotocalchi, in tv – proponga come strada per la realizzazione di sé una libertà condizionata alla sottomissione. Un mondo di cortigiane, dice Carla Corso. Il problema non è mai chi vende, è chi compra. L'amore è gratis, si può fare in quanti e come si vuole. Anche vendersi è lecito. E' l'acquisto all'ingrosso, della società intera, che fa schifo. In specie se si comprano adolescenti: che siano consenzienti, e i loro padri con loro, non migliora. Peggiora piuttosto la responsabilità di chi dovrebbe indicare altri orizzonti e non lo fa. Di chi cavalca la sua privata debolezza spacciandola per legge di vita.

l’Unità 9.2.11
«Se non ora quando» In tutto il Paese domenica le donne lo diranno in versi
Un minuto di silenzio. Poi piazza del Popolo esploderà in urlo. Tutte unite, le donne. «Mai contro nessuna». Sognando un’altra patria «al femminile». Viatico i versi di Patrizia Cavalli. E Lucia Annunziata prepara la diretta.
di Mariagrazia Gerina
Un minuto di silenzio, seguito da un urlo collettivo. Quasi un rito di purificazione per tirare fuori rinnovata la voce. E anche le parole. Le prime, scandite domenica prossima alle 14 dal palco di piazza del Popolo, saranno versi. Scritti e letti da una donna, Patrizia Cavalli, tra le voci più significative della poesai italiana. Dedicati all’Italia. Anzi, a La patria (titolo del suo ultimo libro, edizioni Nottetempo, in libreria dal 17 febbraio). «Certo,/ sarebbe un gran vantaggio/ poterla immaginare, tutta intera,/ dai tratti femminili, dato il nome...». E non potrebbe esserci viatico migliore a una manifestazione che rivendica di voler mutare l’Italia in «un paese che rispetti le donne» (reciterà così lo striscione srotolato dalla terrazza del Pincio).
Una patria al femminile. Non solo sognata, ma cercata, inseguita, sperata. Altro dal paese che «ci reprime e non ci considera persone», per dirla con Susanna Camusso, primo segretario donna della Cgil. Altro dall’Italia di Arcore e di Berlusconi, «che sta facendo passare il principio per cui alla politica accedono le donne che partecipano alle sue feste», per dirla da destra con il direttore del Secolo, Flavia Perina. Due donne, che nemmeno si conoscevano, prima. «Ciao piacere. Non c’è più posto?». «Ma no, c’entriamo tutte». Si sono trovate fianco a fianco nell’appello «Se non ora quando», si sono presentate ieri, alla conferenza stampa di lancio della manifestazione che da quell’appello (51.500 firme) prende le mosse. «L’hanno firmato donne di diverse età e provenienze politiche, in cerca di un comune denominatore», spiega la “regista” della mobilitazione Francesca Comencini. Con lei, l’attrice Lunetta Savino, l’europarlamentare Silvia Costa, la storica Francesca Izzo, Nicoletta Dentico, Titti Di Salvo, l’italianista Maria Serena Sapegno. Una mobilitazione che si vuole «plurale» e senza etichette. Nemmeno quella «moralizzatrice», che i «media cercano di attribuirci». «Non stigmatizziamo il comportamento di nessuna, non vogliamo dividerci in buone e cattive», ribadisce Comencini, felice di salutare l’adesione del Movimento per i diritti delle prostitute. «Questa piazza è aperta a tutte». Anche agli uomini «ovviamente», incitati a partecipare.
Contro nessuna, tanto meno contro Ruby. «Poi ciascuna di noi è qui a testimoniare la sua storia, in una relazione di confronto», spiega Camusso. Per altro: «la divisione tra puttane e madonne su cui soffiano i media dà molto fastidio giovanissime», avverte da prof universitaria Serena Sapegno. Assenti dal tavolo della conferenza, le giovanissime «stanno aderendo in tante» e saranno sul palco, assicurano le organizzatrici. «Noi senza loro e loro senza noi non andiamo da nessuna parte». In sala, c’è anche Lucia Annunziata. «Sono una giornalista, non firmo appelli». Però prepara la prossima puntata di In Mezz’ora. Domenica, in diretta da piazza del Popolo.
il Fatto 9.2.11
Le “altre” donne.  Francesca Izzo
“Paese vecchio e maschilista”
di Chiara Paolin


L’episodio è passato in cavalleria. Una settimana fa l’onorevole Pdl Lucio Barani sventolava felice il garofano rosso che porta sempre nel taschino – è un nostalgico craxiano – per festeggiare il successo di Montecitorio:   niente perquisizioni negli uffici del ragionier Spinelli. Di tutt’altro umore Rosi Bindi: per contrastare l’esultanza del collega si è stretta al collo la sciarpa bianca con cui ricordare la manifestazione che domenica prossima porterà nelle piazze di tutta Italia migliaia di donne stanche di   bunga bunga. Ma Barani a quel punto s’è offeso moltissimo, e, sempre col fiore in mano, ha mimato un gesto osceno: “Bindi, quell’antisocialista, faceva gestacci – ha spiegato il deputato –. Allora mi sono tolto il garofano e le ho fatto capire che ero pronto a metterglielo”. Scene di ordinaria volgarità e disprezzo nelle sacre stanze istituzionali. Basterà una protesta di piazza per cambiare le cose? “Ci proviamo. Anche perché, come dice lo slogan, “Se non ora quando?”: Francesca Izzo, docente di dottrine politiche all’Università Orientale di Napoli, è una delle organizzatrici. 
I numeri?
Oltre 50 mila adesioni online, 117 città e paesi in cui il 13 febbraio si chiederà all’Italia di riscattare la dignità di tutti e di tutte, ponendo fine alla devastazione del ruolo femminile. Un successo inaspettato, evidentemente abbiamo toccato un punto che,   sotto la pelle della nostra società, era già sensibile.
Lei scrive saggi sulla “Morfologia del moderno” e “Il cosmopolitismo di Gramsci”. Che c’entra Ruby?
C’entra eccome perché le vicende poco private di Berlusconi sono soltanto la punta dell’iceberg. L’Italia è un Paese vecchio e maschilista: la disastrosa condizione delle donne è il segno più evidente della nostra arretratezza.
Lo dice anche Pia Covre, rappresentante delle prostitute italiane che ha aderito alla protesta. Ma chi è pronto a cambiare davvero? 
Le donne, tutte. Infatti con noi ci saranno Susanna Camusso della Cgil e Flavia Perina di Futuro e libertà, artiste come Francesca Comencini o Margherita Buy, industriali come Miuccia Prada. Siamo volutamente e felicemente trasversali.
Eppure molte esponenti del Pdl difendono il premier   a spada tratta, e il sottosegretario Roccella dice che farete una manifestazione di donne contro donne.
Al contrario, chiediamo il rispetto di tutte le donne. A partire da quelle che subiscono questa forma di violenza, lo sfruttamento sessuale, o anche solo la pressione psicologica di dover essere carine, bellocce, disponibili.
Ma le Papi-girls sono giovani furbe, che hanno imparato dalle mamme la libertà sessuale, o ragazze perdute?
Sono vittime di una forma odiosa di corruzione: gli uomini, che detengono il potere, impongono un modello obbligatorio. Infatti, proprio ai maschi chiediamo grande solidarietà e partecipazione: senza una loro presa di responsabilità sarà impossibile cambiare le cose. Anzi, già che ci siamo, posso chiedere anche a voi una cosa? 
Prego.
Capisco il dovere di cronaca, ma cercate di ricordare sempre la differenza tra una ragazzina e un uomo di Stato. L’Italia deve davvero fare un passo avanti, è questo il momento giusto per spiegare – soprattutto ai giovani – che un altro futuro è possibile.
DICE LA FRASE del Talmud, presa in prestito da Primo Levi per il titolo del suo libro e rilanciata dalle donne: “Se io non sono per me, chi sarà per me? Ma se io sono solo, che cosa sono io? E se non ora, quando?”.

Repubblica 9.2.11
«Perché continuate a volerlo?»
Il papi padrino
di Barbara Spinelli


Cari elettori berlusconiani, vi sarà giunta voce, immagino, che gli italiani sono divenuti un enigma per le democrazie alleate. Il mistero non è più Berlusconi, che da anni detiene un potere non normale: controllando tv, intimidendo giornali e magistrati. Dopo tante elezioni, siamo noi, singoli cittadini, a essere il vero rebus.
Quel che ripetutamente ci chiedono è: «Perché continuate a volerlo? Perché insistete anche ora, che viene sospettato di corruzione di minorenni e concussione?». Nessun capo di governo potrebbe durare più di qualche giorno, fuori Italia: la stampa, la televisione, i suoi pari lo allontanerebbero, costringendolo a presentarsi ai giudici. Di questo le democrazie non si capacitano: se non ora, quando vi libererete?
A queste domande ciascuno deve saper rispondere: chi lo vota e chi non l´ha mai votato, giudicando non solo ineguale la battaglia fra schieramenti (per disparità di mezzi d´influenza) ma profondamente atipica. Tutti siamo contaminati, dal modo in cui quest´uomo entrò in politica e dalla natura del suo potere, che costantemente mescola il suo privato col nostro pubblico. Tutti viviamo in una sorta di show, dominato dal sesso e dai processi al premier.
La cosa peggiore a mio parere è quando inveiamo contro le sue passioni senili. Come se a far problema fosse l´età; come se bastasse che a Arcore ci fosse un trentenne, perché le cose cambiassero. È la trappola in cui spesso cadono gli oppositori. Vale la pena leggere quel che ha scritto lo scrittore Boris Izaguirre, a proposito del consenso tuttora vantato dal premier. Le sue debolezze sono in realtà forze nascoste: «La corruzione, quando si espone, crea meraviglia. La capacità di scansare ogni controllo e di schivare la giustizia affascina». Affascina anche l´epifania finale dell´anziano concupiscente. Nella «rivoluzione del gusto» che questi impersona, l´epifania è «l´unica opzione per l´uomo maturo moderno, e ineluttabilmente attrae un elettorato che condivide sogni di eterna gioventù» (El Paìs, 7-2-11). Il nostro, lo sappiamo, è un paese di vecchi: l´offensiva che accoppia età e reati del premier è qualcosa che turba sia voi sia me. Fa cadere ambedue in una rete che imprigiona, che impedisce di far politica normalmente, di reinventare quel che sono, in democrazia, destra e sinistra.
La rete in cui cadiamo è un film che non minaccia davvero il leader: è il suo film, noi e voi siamo comparse di una sua sceneggiatura, impastata di sesso, cattiveria, abuso di potere. Sono anni che abitiamo un mondo-fantasma lontano dalla realtà, imperniato sulla vita privata del capo. È lecito quel che fa? Osceno? I benpensanti sono convinti che di questo si occuperanno i magistrati, che politici e stampa debbano invece cercare una tregua. Ma tregua con chi? Si può patteggiare con un burattinaio che ci tramuta in pupazzi o spettatori di pupazzi? Se non si fa luce sulle notti di Arcore, è inevitabile che i film sulle papi-girl sfocino nel ridanciano. Ogni cittadino, berlusconiano o no, già ci scherza sopra, probabilmente, come gli spettatori ridono increduli negli ultimi giorni dell´uomo descritti da Kierkegaard, quando irrompe il buffone e dice che il teatro brucia. Nel momento in cui inizia la risata lo show sommerge il reale. Anche voi elettori Pdl lo intuite: le novità che attendete da anni rischiano di esaurirsi in un teatro in fiamme, con noi imbambolati a fissare il buffone.
C´è da domandarsi se non sia precisamente questa, la forza del Cavaliere: distruttiva, ma pur sempre forza. Come Napoleone quando parlava dei propri soldati, egli sembra dire: «I miei piani, li faccio coi sogni degli italiani addormentati». Imbullonati nello spettacolo senza vederne le insidie, ammaliati da veline e spazi azzurri che usurpano lo spazio della Cosa Pubblica, continueremo a esser pedine di un suo gioco. Sarà lui a decidere quando termina lo show di cui è protagonista. Lui occupa entrambi gli spazi, il fantasmatico e il reale, secondo le convenienze. È la sua doppia natura a confondere le menti: il suo essere Jekyll e Hyde. Chiamato a presentarsi in tribunale si rifugerà nell´inviolabile privato, esibendo la sguaiataggine di Hyde. Quando lo show tracimerà, ridiverrà l´impeccabile Dr Jekyll e dirà tutto stupito: «Propongo un patto di crescita economica, e l´armistizio sul resto». A Galli della Loggia, che è storico dell´Italia, vorrei chiedere: con questa doppia personalità urge far tregue?
È il motivo per cui nessun politico dovrebbe, oggi, invitare gli italiani a sognare un paese diverso. L´Italia ha già troppo sognato. Nel caldo delle illusioni ha disimparato lo sguardo freddo, snebbiato. Non di sogni c´è bisogno, ma di risvegli. L´altra Italia da raccontare fuori casa non è quella «che va a letto presto», come dice la Marcegaglia. È quella che veglia, che osa di nuovo sapere, informarsi (Umberto Eco ha ben risposto, nella manifestazione di Libertà e Giustizia: «Io vado a letto tardi, signora, ma è perché leggo Kant»). Come i prestiti subprime, l´Italia è chiusa in una bolla, fabbricata da chi si pretende garante della sua stabilità. Ma le bolle scoppiano e voi lo sapete, elettori Pdl: quel giorno i pescecani si salveranno, e il vostro grande sballo finirà.
Finché resta la bolla, è evidente che il premier conserverà influenza. Vi invito a leggere un articolo scritto nel 2002 sul Paìs da Javier Marìas (è riprodotto nel blog mirumir.blogspot.com). Lo scrittore enumera gli ingredienti della seduzione berlusconiana: la sua disinvoltura sempre «sottolineata in rosso», il «sorriso falso perché costante», il passato di cantante come allenamento per staccarsi dai domestici e mischiarsi ai potenti, la mentalità di vecchio portinaio franchista ossequioso coi potenti e sdegnoso coi domestici, il risentimento dietro una bontà caricaturale, il terrore d´essere escluso dalle cerchie dei grandi, l´assenza d´ogni «vergogna narrativa». Egli seduce i declassati identificandosi con loro, e tanto più li sprezza. La sua morale: sei un perdente, se non infrangi come me leggi, diritti, costituzione.
Dicono che vi piace l´antipolitica. Credo piuttosto che vi aspettiate troppo, dalla politica. Avete sognato un re-taumaturgo onnipotente e permissivo al tempo stesso, non un democratico. È inutile proseguire l´omertoso patto che vi lega a lui nell´illegalità: i risultati attesi non verranno. Questo è infatti Berlusconi: un potere fortissimo, ma impotente. Non è il fascismo, ma i primordi del fascismo quando era pura «dottrina dell´azione» ripetuti come un disco rotto. Le masse cullate nell´illusione: tali sono i primordi. Poi la dottrina divenne politica, guerra, e fu rovina. Ma fu un agire. Non così Berlusconi. Da anni l´immagine è fissa sui preamboli fascisti del mago che seduce le folle umiliando l´uomo, come il Cavalier Cipolla che ipnotizza le vittime nel racconto Mario e il Mago di Thomas Mann.
L´era Berlusconi è costellata di questi torbidi patti: patti con la mafia per proteggere impresa e famiglia; patti con giudici corrotti; patti con ragazze alla ricerca di soldi e visibilità. Si può indovinare quel che hanno pensato i loro genitori: «Meglio vergini offerte al drago, che precarie in un call-center». Erano pagate per le prestazioni, e poi perché tacessero. Per questo possono divenire, da ricattate, ricattatrici del papi-padrino.
Ma la storia italiana è anche storia di decenza, di morti caduti difendendo lo Stato, contro le mafie. Anche voi ammirate questa storia: avete ammirato i tre ultimi capi di Stato, e prima Pertini. Senza di voi tuttavia il Quirinale può poco e l´Europa ancor meno. Ambedue ci risparmiano per ora il baratro, e forse l´Europa solo economico-monetaria è un po´ la nostra sciagura: i pericoli, ci toccherà intuirli dietro tanti veli. Ma li intuiremo. Se l´Egitto ha avuto la rivoluzione della Dignità, perché l´Italia non può avere una rivolta della decenza? La decenza ricomincia sempre con la riscoperta di leggi superiori a chi governa, del diritto eguale per tutti, della libera parola.

Repubblica 9.2.11
"Noi donne in piazza per urlare basta"
Domenica 117 manifestazioni. Le promotrici: gli uomini amici sono benvenuti
di Giovanna Casadio


ROMA L´idea è cominciare con un urlo. Un urlo liberatorio dalla Terrazza del Pincio fino a piazza del Popolo, domenica alle 14 a Roma ma ci sono altre 117 piazze in Italia e nel mondo perché non se ne può più. Le donne italiane non ne possono più di essere finite «in un cattivo film degli anni ‘50, in cui solo chi sta fuori dalla storia può pensare come spiegano le organizzatrici della mobilitazione "Se non ora quando?" che le donne corrispondano all´immaginario di vitelloni che non sanno fare l´amore, né confrontarsi, né lavorare al fianco e alla pari con le donne». In un video che va forte su Youtube (sul web sono arrivate decine di migliaia di adesioni all´appello), l´attrice Angela Finocchiaro invita alla manifestazione per fare dell´Italia quello che non è più, «un paese per donne», che «rispetti le donne».
Raccontano le ragioni delle piazze di domenica il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e il direttore del Secolo d´Italia, Flavia Perina; Francesca Comencini; Titti Di Salvo; Silvia Costa; Lunetta Savino; Nicoletta Dentico. E la conferenza stampa è stata convocata non a caso nella sede della stampa estera, perché c´è un problema: spiegare all´estero com´è che siamo arrivati a questo punto. Con un premier indagato per concussione e rapporti con una minorenne, circondato da amici accusati di sfruttamento della prostituzione. E com´è che metà dello spazio sui media se ne vada a discutere se in piazza il 13 non vadano per caso le donne «per bene» contro quelle «per male». Una rappresentazione rilanciata da ministre e politiche del Pdl, intervistate dal settimanale berlusconiano Chi. Una sorta di "bigotte" contro "bocca di rosa". Altro fumo sui fatti. Camusso invita a guardare al cuore delle cose: «Anche in questo caso si deve sempre parlare delle ragazze, del lavoro delle prostitute, e non si parla dell´origine del problema, cioè la domanda maschile dei clienti, si cerca il dito e non la luna: se non ora quando un´Italia normale? Con la negazione della dignità delle donne non c´è futuro». La mobilitazione è trasversale. Lo spiega Perina, che è donna di destra, finiana. Un´altra donna di Fli, e presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, Giulia Bongiorno, è stata invitata a parlare sul palco a Roma. Prima, la poetessa Patrizia Cavalli che ha preparato una orazione civile dal titolo "La patria". A Milano, sul palco anche Perina.
Ovvio che le perplessità femministe non mancano. Sul sito donnealtri. it si dibatte sui rischi di moralismo e di strumentalizzazione. Pia Covre, leader del Movimento per i diritti civili delle prostitute, dice: «Noi ci saremo». I leader politici che parteciperanno, sappiano di essere ospiti: né simboli di partito né simboli sindacali. Un mini vademecum della mobilitazione recita: «La manifestazione non è fatta per giudicare altre donne, o per dividerle in buone e cattive, cartelli e striscioni ne terranno conto»; la manifestazione è promossa dalle donne ma «la partecipazione di uomini amici è richiesta e benvenuta».

Repubblica 9.2.11
La Finocchiaro a Repubblica Tv: la mobilitazione femminile è un grande fatto politico
"La nostra dignità è quella del Paese ora possiamo far cadere il premier"
di Laura Pertici


ROMA Berlusconi può cadere anche grazie alla dignità delle donne. Alla loro presa di coscienza. Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd, a Repubblica Tv parla ovviamente di politica. Dunque delle 117 piazze che domenica saranno unite da un coro: "Se non ora, quando?".
La mobilitazione cresce di giorno in giorno.
«E´ un grande fatto politico. Per le dimensioni, per la sua natura spontanea, perché non ci sono patronati di partiti. In passato il movimento delle donne ha pagato le divisioni, oggi invece ciascuna firma l´appello dell´altra, prevale la necessità di fare massa critica».
Cosa vuol dire per l´Italia?
«La dignità delle donne corrisponde per una volta a quella del Paese. La loro identità, faticosamente costruita, le donne vogliono difenderla. Sono in fondo la parte più vivace della società, lo dimostra qualsiasi statistica su scuola e professioni. E´ per questo che un tale movimento può portare il presidente del Consiglio alle dimissioni».
Le donne del bunga bunga non sono libere di scegliere?
«Certo che sono libere. Così come qualsiasi donna adulta che voglia prostituirsi senza costrizioni. Il problema è la concezione che Berlusconi ha del mondo femminile: usate per proprio capriccio, le donne gli vengono procacciate, lui ne diventa l´utilizzatore finale e poi le destina a cariche pubbliche. Ho sempre pensato che le donne nelle istituzioni non possono che far bene, ma non se sono oggetto di mercato. Le nostre figlie hanno lavorato per veder riconosciute le loro capacità, non per essere selezionate. Non si tratta quindi di una rivendicazione di genere, per questo a manifestare saranno anche gli uomini».
Intanto Berlusconi annuncia la "scossa" economica, oltre che il ritorno al processo breve.
«Chiunque abbia conosciuto la natura del potere berlusconiano non può pensare che tutto finisca senza colpi di coda. La modifica dell´articolo 41 della Costituzione è solo uno show, i tempi sarebbero lunghissimi. In quanto al processo breve, l´opposizione sarà dura anche perché si possa tornare a cogliere il senso vero delle parole: processo breve non significa che la giustizia in Italia riprenderà a funzionare, bensì che il capo del governo non andrà a giudizio».
Il patto con la Lega ancora non si scioglie. Che fine farà il federalismo?
«La Lega tiene al laccio il premier e se lo porta in giro come un giocattolino. Ma sbaglia, non è con lui che può fare il federalismo, perché il premier e Tremonti hanno in testa un Paese in cui gli enti locali non contano niente e il potere rimane di poche persone, magari solo due. Per adesso Bossi sta cercando di raccogliere il maggior utile possibile prima delle elezioni, per poterlo spendere nei comizi. Non si arriverà alla fine della legislatura. Berlusconi è un uomo accerchiato».

il Fatto 9.2.11
Roberto, se non ora quando?
di Paolo Flores d’Arcais


Caro Roberto, ho riascoltato su Internet il tuo intervento al Palasharp, dove hai scandito, fra le ovazioni, che “non ha senso avere le mani pulite, se si tengono in tasca”. Un invito a impegnarsi direttamente in politica, visto che hai concluso con un “è molto facile star lontani dall’agone e sentirsi puri”. Come darti torto? Viviamo in una democrazia parlamentare (anche se ridotta in macerie da un regime di “populismo proprietario”, che conosce solo la libertà mannara dei prepotenti e delle cricche), e dunque non c’è protesta, movimento di massa, iniziativa popolare, indignazione e rivolta morale, che possa porre fine al cupo “quasi ventennio” arcoriano se non si prolunga in un coerente esito elettorale. 
Il Palasharp si chiamava nove anni fa Palavobis, e allora furono quindicimila cittadini dentro e trentamila fuori a manifestare la stessa indignazione e volontà di democrazia, rispondendo al “resistere, resistere, resistere!” di Francesco Saverio Borrelli. Molti di quei cittadini probabilmente erano ad applaudire il tuo “sogno di un altro paese”. E nei nove anni trascorsi, assieme a tante altre centinaia di migliaia di concittadini, hanno riempito piazza San Giovanni e il quartiere limitrofo almeno tre volte, e piazza Navona, e piazza del Popolo, per non parlare delle tante lotte contro le mafie, che spesso hanno visto protagonisti i più giovani. O le lotte sindacali e operaie, quelle dei precari, e infine il movimento degli studenti. 
NESSUN PAESE occidentale vede da anni una tale imponente e inesausta mobilitazione di massa della società civile. Eppure il regime di Berlusconi ha potuto proseguire nella sua opera di demolizione della Costituzione repubblicana. Perché nei rapporti di forza politici, che hanno nel Parlamento il pallottoliere dove si tirano le somme, quella straordinaria mobilitazione non ha trovato rappresentanza, e neppure voce. A chi ti rivolgevi, perciò, col tuo accorato e inoppugnabile monito? Alle centinaia di migliaia di tuoi e miei concittadini che con la generosità della passione civile hanno continuato a scendere in piazza ma non hanno ancora trovato la pazienza e la forza di dar vita a liste elettorali che li rappresentassero? Immagino che intanto tu ti indirizzassi a chi, in tutti questi anni, troppe volte ha preferito restare   a casa, a lucidare il suo “particulare” e infiocchettarlo con schifate esortazioni a non “fare il gioco di Berlusconi”, come se non fosse proprio il rifiuto ad accettare l’invito alla piazza che gli “estremisti” e “girotondini” e “viola” rivolgevano loro, a facilitare la putinizzazione dell’Italia. Le gerarchie del Pd, in primo luogo, se non   vogliamo avvitarci in quelle ipocrisie che tu, citando Gobetti e Camus, evidentemente consideri nefaste. Ma anche taluni che hanno preso la parola al Palasharp – sempre se vogliamo prendere sul serio la lezione di Gobetti e Camus – e che per anni hanno rifiutato di contaminarsi, in nome dell’unità e del realismo, ça va sans dire, con quel giustizialismo cui di fatto devono oggi riconoscere la sola descrizione tempestiva e puntuale del potere berlusconiano.
Proprio perché, caro Roberto, “è venuto il tempo di pensare a ciò che siamo e ciò che vogliamo”, per ripetere la frase con cui hai chiuso il tuo intervento, e proprio perché avevi richiamato, pochi secondi prima, la “rivoluzione a cui Monicelli faceva riferimento”   , bisognerà pur sostanziarla di proposte concrete quella “priorità dell’unità” che hai martellato come imprescindibile e che è sempre nei voti di tutti, ma poi si scontra con le tentazioni all’accomodamento col regime, deprimente spettacolo cui troppe volte i cittadini hanno dovuto assistere (di cui l’inciucio ha costituito solo il degradante diapason) e a cagione del quale in tre/quattro milioni circa, nel volgere di due o tre anni, sono passati dal voto per il Pd al ritiro in un personale e angosciato aventino del non voto. 
Tu sai bene che sul recupero di questi non-voti si giocherà il risultato delle prossime imminenti elezioni. Se non ci sarà, Berlusconi grazie alla legge “Porcata” avrà una maggioranza in Parlamento con cui fare strame in sei mesi di ogni articolo della Costituzione, addomesticare con nuove nomine la suprema Corte, e dopo un paio d’anni salire trionfalmente al Quirinale.
POICHÉ immagino che il minimo di “quel che siamo e vogliamo” sia sventare questo incubo, non possiamo restare nel generico, caro Roberto. Concretamente: pensi che sia credibile recuperare una parte cospicua di quei milioni di giustificatissimi “disertori” del centrosinistra senza che nell’alleanza unitaria siano presenti una o più liste di società civile, formate da cittadini senza appartenenze di partito? Tutte le ricerche demoscopiche rispondono   di no, ma è comunque necessario che tu prenda posizione, poiché svicolare da un tale decisivo interrogativo somiglierebbe troppo a quel “facile star lontani   dall’agone e sentirsi puri” che hai giustamente stigmatizzato. La “Porcata” ha infatti un solo pregio: dentro un’alleanza nessun voto finisce disperso. Nel 2006 con Prodi si presentarono anche una lista di pensionati e una lista di consumatori, insieme presero meno dell’1%, che incrementò il peso delle altre liste della coalizione. Anzi, en passant: se per il Senato fossero state accettate le “liste civiche regionali” pronte per quasi tutte le regioni, accreditate nei sondaggi a seconda delle zone tra un 2% e un 12%, Prodi si sarebbe trovato in entrambe le Camere con una larga maggioranza e senza dover trattare con i Ma-stella e altri padri della patria di analoga risma. Ma D’Alema Veltroni e Rutelli dissero di no, Prodi, si piegò, il seguito   lo sappiamo.
Sei pronto a usare tutta la tua influenza presso i partiti della sinistra, perché tanto scempio non si ripeta? Perché accettino con pari dignità nell’alleanza tutte le liste di società civile, comprese quelle che scioccamente vengono gratificate di “giustizialismo” e di “girotondismo”?
E CON QUALI punti qualificanti pensi si debba concretare nella comunicazione verso gli elettori quel positivo “cosa vogliamo” che giustamente consideri all’ordine del giorno? Ad esempio, l’abrogazione di tutte le leggi ad personam? La “implementazione” della già esistente (dal 1957!) legge sul conflitto di interessi, per la quale basterebbe una modifica minima   ? L’introduzione della legislazione statunitense in tema di falsa testimonianza e ostruzione di giustizia, oltre che di falso in bilancio? La restituzione dell’etere al pluralismo, oggi negato dall’appropriazione indebita berlusconiana? Il ripristino e la radicalizzazione delle leggi di contrasto degli omicidi bianchi?
La lotta contro la piaga del precariato endemico, che già alcune leggi del centrosinistra avevano propiziato? Una legge sulla democrazia in fabbrica, per cui siano gli operai ad avere l’ultima parola sul contratto, che segnerà la vita loro, non quella di eventuali corrivi cacicchi sindacali? Sai bene, caro Roberto, che sarebbe facile continuare, secondo una logica assai semplice, che consiste nel prendere sul serio la nostra bellissima Costituzione e cercare di realizzarla nei suoi valori. Tra i quali, l’idea   (art. 49) che i partiti sono uno strumento attraverso cui i cittadini si occupano della Cosa pubblica, non un viatico di affarismo e di privilegi. Saresti d’accordo con leggi che riportino a dimensioni tollerabili il potere della Casta (se distruggerlo sembra troppo “sanculotto”, mentre dovrebbe essere ovvio, perché privilegio e democrazia formano un ossimoro): non più di due mandati da parlamentare (c’è già nello statuto del Pd! Ma poi c’è il codicillo delle eccezioni...) dopodiché si torna al proprio lavoro nella società civile, ad esempio? Mi fermo qui. 
TU SAI perfettamente che nei prossimi mesi, ma potrebbe essere anche nelle prossime settimane, si giocherà il futuro dell’Italia almeno per una generazione. Tra chi vuole realizzare la Costituzione democratica e chi la vuole distruggere, la partita è infatti a somma zero. Berlusconi, se vince, non farà prigionieri, e dell’edificio della democrazia nata dalla Resistenza non lascerà una sola pietra. Vogliamo agire di conseguenza?
 Un abbraccio





 l’Unità 9.2.11
La coalizione costituente viene definita dal governatore della Puglia «autolesionismo puro»
Il leader del Pd: «Dimmi allora quale sarebbe la tua alternativa per battere Berlusconi»
Faccia a faccia Bersani-Vendola. Ma niente intesa sulle alleanze
La questione alleanze rischia di complicarsi se il governo dovesse reggere. Colloquio tra Bersani e Vendola: niente convergenza. Veltroni: «Evitiamo di correre appresso un giorno a Casini e un giorno al leader di Sel».
di Simone Collini

C’è l’azione della magistratura, c’è il dubbio che da un momento all’altro possa uscir fuori qualche foto compromettente capace di provocare al premier più danni di tante pagine scritte e lette, c’è l’impatto che potranno avere le manifestazioni di domenica e c’è la possibilità che il federalismo si incagli di nuovo in una commissione parlamentare. Ma anche se tra le forze di opposizione si continua a discutere di alleanze, sotto sotto si fa strada la consapevolezza che per quanto debole e per quanto si poggi, per dirla con D’Alema, sulla «corruzione di parlamentari», questo governo ha i numeri per rimanere in sella ancora per un bel po’ (e non è un caso che sia stato fatto slittare il voto sulla mozione di Fli sul pluralismo in Rai). Anzi, chi oggi interviene per sostenere questa o quella formula di coalizione, lo fa per posizionarsi in vista di una partita che sarà piuttosto lunga. Bersani, che vuole far giocare al Pd il ruolo di «cardine» attorno a cui costruire un’alleanza di cui faccia parte non solo il centrosinistra tradizionale ma anche l’Udc, sta lavorando per sintetizzare in una decina di slogan e di cartelle il programma messo appunto con le tre assemblee nazionali, per avviare poi un confronto con le altre forze di opposizione. Di Pietro, che ha capito che il Pd potrebbe anche sacrificarlo sull’altare del Terzo polo (sono soprattutto l’area che fa riferimento a Letta e quella che ruota attorno a Fioroni a spingere in questa direzione), ha lanciato un’offensiva contro la “Santa alleanza”, insistendo sul fatto che se vogliono essere «credibili» ci vuole una coalizione limitata a Idv, Pd e Sel. E poi c’è Vendola, che da un lato definisce in un’intervista al sito web di “Libertà e giustizia” «autolesionismo puro» l’ipotesi dell’alleanza costituente, dall’altro sta giocando una partita più sottile, mostrandosi anche disponibile ad aprire un confronto con Casini («io non pongo veti») e chiudendo invece a un’eventuale intesa con Fini: «Vuole rifondare il centrodestra, io il centrosinistra».
COLLOQUIO TRA BERSANI E VENDOLA
Ieri il leader del Pd e quello di Sel hanno discusso della questione. Il colloquio non è però bastato a far trovare ai due un punto di convergenza. Vendola ha chiesto di «non insistere» con la proposta della coalizione costituente perché non verrebbe capita dagli elettori di centrosinistra e perché comunque non la vogliono i finiani («ogni volta che si parla di alleanza da Vendola a Fini la pattuglia parlamentare di Fli rischia di perdere pezzi»). Bersani ha replicato chiedendo al governatore della Puglia quale sarebbe allora in questa fase di «emergenza democratica» la sua proposta alternativa per battere il premier, aprire una fase nuova e ricostruire sulle macerie lasciate da questi anni di cura berlusconiana.
Sull’ipotesi della coalizione costituente Bersani ha compattato tutto il Pd, ma non è detto che riuscirà a tenerlo unito se i tempi si dovessero allungare. Veltroni dice che se si andasse al voto a maggio bisognerebbe fare «un’alleanza di carattere costituzionale per fare le riforme di cui il Paese ha bisogno» e che sia guidata da «un federatore esterno» (non un leader di partito), mentre se le urne si allontanassero sarebbe auspicabile «un governo di decantazione con le forze responsabili». Ma l’ex segretario è anche convinto che se la legislatura andrà avanti il Pd dovrà rivedere la sua strategia. Le incognite su come si muoverà il Terzo polo sono molte con l’allungarsi dei tempi (ieri Rutelli ha proposto «un governo di larga convergenza che vada da Fi al Pd, senza gli estremi che non vogliono governare, ma solo gridare»). E per Veltroni il Pd «deve evitare di correre appresso un giorno a Vendola e un giorno a Casini». Per l’esponente di Movimento democratico il suo partito deve «rimettersi al centro, avere la forza di dare un messaggio per Paese e su questa base verificare le alleanze possibili». È quello che vuole fare anche Bersani, ma più durerà il governo, più la strada verso l’alleanza costituente sarà in salita.


il Fatto 9.2.11
Manifesto futurista
“Il fascista libertario”: la nuova destra da Eastwood a Saviano
di Luciano Lanna


 “Il fascista libertario, da destra oltre la destra tra Clint Eastwood e Gianfranco Fini” scritto dal direttore del “Secolo d’Italia”, Luciano Lanna (Sperling & Kupfer, collana “Le radici del presente”) parte dall’immaginario, dalle idee, dai miti, dalle passioni di una generazione che da destra si è affacciata alla politica negli anni ‘70. E delinea il Pantheon del post-fascismo da Leo Longanesi ed Ezra Pound, fino a Ennio Flaiano e Roberto Saviano, passando per Indro Montanelli e Vasco Rossi. Ne pubblichiamo uno stralcio.
Eastwood è sempre stato un’icona cara alla destra. Fascista o non fascista, dai tempi di Per un pugno di dollari di Sergio Leone, passando per l’Ispettore Callaghan, sino al suo diretto impegno in politica a destra – è stato, negli anni Ottanta, anche sindaco repubblicano di Carmel, in California – e ai film da lui diretti, da Gli spietati a Million Dollar Baby, Eastwood non ha mai smesso di rappresentare una cifra precisa nell’immaginario e sempre si è definito un “libertario”. “Non sbaglia un film”, ha   scritto Roberto Savia-no, l’autore del best-seller Gomorra, lo scrittore che, come egli stesso ha ammesso, deve molto alla sua lettura giovanile di autori come Céline, Jünger e Pound. “Ogni sua pellicola è necessaria. Sembra, il suo, un percorso che cerca nelle storie un modo per ordinare il mondo, per chiarirsi le idee. Un catalogo   di vicende che come in Gran Torino, Million Dollar Baby o Lettere da Iwo Jima non stanno a raccontare come dovrebbe andare il mondo, ma come lo fanno andare le persone, gli individui, attraverso ogni loro scelta. Che sia giusta, falsa, marcia o vera. È l’individuo che Eastwood racconta”. Nell’autunno del 2009 Roma è stata per qualche giorno tappezzata   da manifesti politici che riprendevano la sua interpretazione di Walt Kowalski in Gran Torino. Il personaggio è un classico uomo di destra, ligio alle regole e allo stile, un reduce di guerra che prova una grande passione per la propria Ford Torino, modello classico del 1972, custodita religiosamente nel suo garage. E in quel manifesto Kowalski era ripreso nel suo consueto e straordinario segno di pollice e indice a indicare la pistola come nei giochi dei bambini, gesto che coinciderà con il suo sacrificio per aiutare la comunità degli immigrati asiatici. (...) E anche nel suo film successivo, Invictus, Eastwood rilanciava il suo antirazzismo “da destra”. Intervistato a Los Angeles, il vecchio Clint spiegava perché avesse scelto di girare una pellicola tutta dedicata alla battaglia anti-apartheid di Nelson Mandela. “Sono cresciuto a Oakland, in California, con una vasta popolazione di neri”, esordiva il cineasta. Aggiungendo: “Amavo la musica, ma non capivo perché i musicisti neri non potessero suonare nella band dei bianchi” (...) Tutto questo Eastwood lo sostiene senza rinnegare nulla delle sue radicate convinzioni politiche libertarie, quelle che nei primi anni Settanta lo fecero bollare – a partire dalla nota stroncatura della critica statunitense Pauline Kael – addirittura come “fascista” (...) Ma oggi, sostiene   lui, la frontiera della libertà passa attraverso la capacità di “scavalcare le linee di partito” (...)La via è quella dell’ossimoro. Callaghan è libertario. A destra e antirazzista. La lezione eastwoodiana, conclude Saviano dopo aver visto Invictus, è quella “di come la politica sappia essere cosa diversissima da quella che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi. Di come possa essere, in tutti i sensi, il sogno di un uomo e di un popolo ancora desideroso di conquistare diritti e felicità...”.

il Fatto 9.2.11
Il diluvio
di Oliviero Beha


Vaglielo a dire a Berlusconi, Bossi e Maroni, e Cicchitto ecc., e olimpicamente a Napolitano e specularmente a Bersani che forse ha ragione l’Ecclesiaste, il quale non vota e dunque non costituisce un pericolo imminente. Vaglielo a spiegare che c’è un tempo per la semina e un tempo per il raccolto, e tutto il repertorio stagionale che magari consideriamo “ciofeca” superata e invece è ancora lì, a reggere il mondo. Vaglielo a dire che non è neppure sorprendente che spunti alla fin fine un Saviano post-televisivo che spiegabilmente infiammi la “piazza” del Palasharp, con quell’eloquio calmo e un po’ raffazzonato che arriva più penetrante della sua pagina scritta, con quel volto antico da Inri contemporaneo e/o da camorrista buono, una specie di cura omeopatica contro i Casalesi e tutta quella gentaglia che ce l’ha con lui ma almeno altrettanto con noi, con quelli che intendono diversamente il rapporto tra persone. Vaglielo a ripetere che la “piazza” deflagra comunque quando il disagio è eccessivo, quando la politica è vuota, quando non si capisce un beneamato di alcun programma e persino sul famoso, famigerato o fatidico “federalismo fiscale” non torna un conto che è uno, quando il futuro è stato polverizzato e il presente dura un istante e a volte neppure quello in assenza di uno straccio di memoria storica. Vaglielo a dire che i 150 anni di Unità (d’Italia) sono   una gran bella cosa ma che ancora migliore sarebbe una nuova spedizione dei Mille tra il mediatico e il piazzaiolo perché altrimenti tutto resta chiuso in un Palazzo grigissimo che non dà più risposte da un pezzo e le folle grandi e piccole si chiedono “che fare?” a Lenin ultrasepolto e in attesa motivatamente spasmodica di fare a meno anche di   Berlusconi? “Dopo”, per tornare all’Ecclesiaste e alle sue stagioni, dopo che accadrà? Oppure la paura che Berlusconi sopravviva a se stesso è tanto forte da rimuovere anche questa cruciale domanda? Allora sì che ci sarebbe un berlusconismo a livelli industriali senza il prototipo... con Saviano o senza di lui (mentre dalla penombra si affacciano i berluschini della politica di entrambi gli schieramenti con aggiunta di terzipoli, dell’imprenditoria, della finanza, dell’editoria...). Nel frattempo si dispiega mediaticamente la “paura della piazza” e chi ne scrive come sto facendo è quasi obbligato a premettere (o post-mettere, nel caso) che è “contro ogni violenza” in una tiritera che dovrebbe essere acquisita e suonare offensiva per chiunque abbia un poco di memoria per gli anni di piombo e un poco di sensibilità per questi anni di merda. Certo, sono contro la violenza, e temo ogni strumentalizzazione della piazza. Ma non al punto di additare la piazza come il nemico pubblico principale di uno status quo truffaldino che ci ha ridotti così. Basterebbe riprendere in mano qualche pagina di Machiavelli, per esempio quelle delle “istorie fiorentine” citate in “Giustizia e bellezza”, di Luigi Zoja, (Bollati Boringhieri). Da sempre c’è stato un “palagio” cui però si opponeva una “piazza”, dal latino platea: era il Rinascimento. Oggi in una Seconda Repubblica che è diventata semplicemente una Reprivata c’è il Palazzo o i Palazzi o il Residence del potere ma la piazza è stata sostituita dalla piazza/tv, dalla sua farsesca e annichilente riproduzione mediatica. Adesso sembra vicina la resa dei conti e ve ne meravigliate? Davvero si pensava che potesse durare così all’infinito? E non dipenderà da Ruby e dalle minorenni, ma dall’Ecclesiaste e dai tempi maturi: in   “Dopo di Lui il diluvio”, maggio 2010, ed.Chiarelettere, cito dai verbali della D’Addario sul lettone di Putin le parole testuali del premier che le dice “pisciami addosso” motivando il titolo del pamphlet. Non era un reato penale, perlomeno non in senso proprio, no. Semplicemente il momento dell’Ecclesiaste (e di Saviano...) non era ancora giunto.

il Riformista 9.2.11
Si cerca un candidato Veltroni vuole un esterno
Walter cerca un federatore, modello Draghi. Vendola: «Voglio destrutturare il centrosinistra e aprire un cantiere per il nuovo». E nel Pd s’avanza l’ala per includerlo.
di Ettore Colombo

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il Riformista 9.2.11
Un altro partito comunista? Lo fa il compagno Giannini
di Ettore Colombo

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il Riformista 9.2.11
Non tutta la sinistra riparte dal Palasharp «Saviano presidente forse è meglio di no»
di Giacomo Russo Spena

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http://www.scribd.com/doc/48476028

il Riformista 9.2.11
Nessuna scusa alla Fiom?
di Peppino Caldarola


Ho aspettato qualche giorno prima di scriverne in attesa di reazioni. Parlo della notizia di Marchionne che vuole trasferire a Detroit la testa della Fiat e forse altrove tutto il resto. Aspettavo di leggere dichiarazioni di scusa alla Fiom. Del tipo: «C’eravamo sbagliati». Appena poche settimane fa abbiamo letto articoli e dichiarazioni che facevano la lezioncina ai metalmeccanici della Cgil sulla loro arretratezza culturale e sulla atavica diffidenza verso il management Fiat. Per giorni e giorni governo, Bonanni e leader della sinistra hanno invitato gli operai a liberarsi dalla cultura settaria per aprirsi alle nuove relazioni sindacali. Mi interessa ora soprattutto mettere a fuoco l’atteggiamento dei leader della sinistra marchionnizzati. Che cosa dire di loro? Sono dei “boccaloni”, per usare una espressione, credo toscana, che indica un esemplare ittico che figura nell’elenco delle cento specie dichiarate più dannose al mondo. Non ci voleva molto acume per capire il trucco del piano di Marchionne. L’iniziativa dell’ad della Fiat è stata letta come l’annuncio della controffensiva liberista, da alcuni, o come il duro prezzo da pagare alla crisi, da altri. Abbiamo invece assistito alle prove tecniche di sganciamento dell’azienda dall’Italia. La richiesta della Fiom di vedere il piano prima di trattare la condizione operaia era una piattaforma realista e moderata per scongiurare scelte pericolose. Ora siamo tutti più deboli. Spero che i “boccaloni” se ne siano accorti.

Corriere della Sera 9.2.11
Marino: «La norma non rispetta la volontà della persona»


ROMA— Senatore Ignazio Marino, lei ha firmato un appello dei medici contro la legge sul fine vita. Perché la avversa? «Perché contiene almeno due punti inaccettabili. Non è giusto che l’inserimento di un tubo nell’intestino per l’alimentazione e idratazione diventi obbligatoria anche per coloro che hanno espresso la volontà di rifiutare questi trattamenti. Parliamo di cure, di veri e propri atti medici. Inoltre la legge non garantisce che le volontà della persona siano rispettate visto che il testamento non è vincolante» . Che significa in pratica? «Significa che un medico ha il potere di mantenere in vita quella persona e di commettere una violazione. Parliamo di una legge voluta dalla destra, ma non dagli italiani. Il 70%dei chirurghi hanno affermato che disobbediranno. Il 77%dei cittadini intervistati da Eurispes si sono espressi a favore della libertà di scelta» . C’è una via di compromesso? «È stata respinta la proposta del Pd di sostituire la legge con un unico articolo dove si dice che tutte le terapie, incluse alimentazione e idratazione, devono essere garantite a meno che la persona abbia lasciato scritto un no» . Cosa succederà nei reparti di rianimazione se la legge diventasse pratica quotidiana? «Ci sarebbe un’ondata di ricorsi alla Corte costituzionale da parte dei familiari che non ritenessero rispettate le volontà del proprio caro. Viene violato l’articolo 32 della Carta sulla libertà di scelta» . Che ne dice della giornata sugli stati vegetativi? «Il governo dimostra di preferire le provocazioni al dialogo. Dovrebbe essere la giornata del silenzio, come ha chiesto Englaro. Invece ci sarà una crociata ottusa e senza rispetto per la memoria di Eluana» .

il Fatto 9.2.11
Intervista
“La giornata degli stati vegetativi è uno schiaffo a Beppe Englaro”
Per Ignazio Marino l’iniziativa di oggi “è una violenza”
di Caterina Perniconi


Non è potuta morire in pace, né adesso la lasciano riposare in pace. Oggi, secondo anniversario della scomparsa di Eluana Englaro, ricorre la giornata nazionale degli stati vegetativi, celebrazione indetta dal Consiglio dei ministri, su proposta del sottosegretario Eugenia Roccella. Non bastavano, per Beppe Englaro, le urla in Senato il giorno della morte, o le leggi dell’ultimo minuto che hanno cercato in tutti i modi di bloccarlo. Ancora una volta la politica è entrata nella vita della famiglia di Lecco, che ha definito questo ennesimo gesto di sfida “indelicato e inopportuno”. 
Senatore Ignazio Marino, tutti possono capire perché questo gesto è indelicato. Lei, da medico e da politico, ci può dare gli strumenti per capire quanto è anche inopportuno?
Questo atto va al di là dell’arroganza. Fa parte di quella destra violenta che non è riuscita a fare in modo che Englaro, tramite la legge, non potesse far rispettare le decisioni della figlia e ora lo vuole colpire con uno schiaffo in pieno volto. Quindi trasforma la giornata della morte di Eluana in una giornata di conflitto per il paese. 
Che lo spacca a metà.
Sono sempre più preoccupato dal fatto che nel nostro paese le questioni che interessano la vita delle persone diventano secondarie al conflitto politico. Le lotte di potere su temi sensibili come questo distaccano la politica dai cittadini.
Dopo la morte di Eluana sembrava che una legge sul testamento biologico fosse urgentissima.
È stata invece chiusa in un cassetto e ora la riportano in parlamento senza discutere sulla vita, ma solo sperando nella divisione delle opposizioni per la sopravvivenza del governo Berlusconi. 
Lei ha presentato 1500 emendamenti al ddl Calabrò.
Nessuno può essere curato contro la sua volontà. Nessuno può avere la possibilità di fare violenza sulle persone e decidere quali trattamenti può ricevere e quali no.
Il nodo è quello dell’obbligo di idratazione e alimentazione.
L’articolo 3 prevede che anche chi ha lasciato scritto il suo no all’idratazione e all’alimentazione venga comunque trattato, perché lo vogliono la Roccella e altri politici. Né io, né lei né chi legge potrà più scegliere   .
Quindi le indicazioni lasciate dal cittadino (come quelle che ieri ha annunciato di aver scritto Beppe Englaro) non saranno più vincolanti.
Dopo questo percorso di legge no. A scegliere saranno le convinzioni e la cultura del medico e non quelle del paziente. Perciò se perdi coscienza perdi anche ogni diritto. È una proposta così inaudita che io faccio fatica a spiegarla ai miei colleghi all’estero.
Questo vale   anche per i casi come quello di Welby, in cui paziente è cosciente?
All’inizio la proposta riguardava anche quei casi, per fortuna siamo riusciti, dopo un grande lavoro, a scongiurarlo. La legge resta comunque anticostituzionale.
Si riferisce all’articolo 32?
Certo, e fu una persona religiosa come Aldo Moro a far introdurre la parte che prevede che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Non capisco perché continuare   a scrivere e votare leggi che poi devono essere smontate dalla magistratura perché anticostituzionali come la fecondazione assistita.
Lei ha fatto una sua proposta.
Sì, che per quanto mi riguarda è già un bel passo indietro. É un solo articolo e prevede che le terapie siano garantite a tutti tranne a chi l’ha esplicitamente dichiarato. Mi spiego meglio: se io perdessi coscienza vorrei che i miei familiari scegliessero per me. Nella mia proposta non è possibile, può averlo scritto solo il paziente. Capisce che per me è un bel passo indietro   ma sono disposto a farlo nell’interesse delle persone.
Perché il Partito democratico fa così fatica a trovare una sintesi sui temi etici?
Perché all’interno ci sono persone che potrebbero votare con la destra sul biotestamento e non si fanno una ragione del fatto che i temi eticamente sensibili sono semplicemente diritti civili. Ma troveremo una convergenza.
Tutti dovrebbero garantire i diritti civili.
Questa è una fase politica in cui qualunque argomento viene utilizzato per scegliere una posizione e non discusso nel merito   .
All’assemblea del Pd D’Alema ha chiesto un maggiore impegno della società civile in politica. Può essere un modo per discutere questioni più vicine ai cittadini?
Io sono convinto che la politica debba essere a servizio del paese e non fatta solo da professionisti. Uno ha un impegno temporaneo e poi torna al suo lavoro.
Saviano potrebbe essere un esempio?
Chiunque si senta di dare un contributo – senza fare propaganda sui nomi – con un vero impegno personale.

il Fatto 9.2.11
La proposta alternativa del medico composta da un solo articolo


Il presente disegno di legge si pone l’obiettivo di dare soluzione al problema delle indicazioni sui trattamenti sanitari, nella consapevolezza che la vita biologica ha un limite, garantendo comunque la qualità e la dignità della vita nelle fasi terminali di essa. Introdotto negli Stati Uniti nel 1991, il living will, o dichiarazione anticipata di trattamento, mira a garantire che una persona possa   lasciare, se lo desidera, indicazioni in merito alle terapie nel caso in cui non sia più in possesso delle proprie facoltà di intendere e di volere. (...) Qualora il medico ritenga di dover agire diversamente da quanto indicato nel testamento biologico, si ritiene necessario coinvolgere il comitato etico dell’ospedale per valutare le motivazioni del medico, confrontarle con le indicazioni del testamento e   giungere a una decisione che salvaguardi il migliore interesse del malato anche nel rispetto dell’articolo 32 della Costituzione. Rispettare un testamento biologico non dovrebbe mai portare ad agire contro il benessere del paziente, come invece potrebbe accadere, paradossalmente, nel caso di un documento redatto in maniera poco chiara o pericolosamente restrittiva.

l’Unità 9.2.11
Pazienti o prigionieri?
Perché la loro legge insulta la Costituzione
La nostra Carta stabilisce il diritto universale alle cure (articolo 3) ma anche la libertà di rifiutare qualunque terapia (articoli 13 e 32). Eppure governo e maggioranza hanno deciso di marciare nella direzione opposta
di Vittorio Angiolini


La Giornata degli stati vegetativi che si celebra oggi è puro atto di arroganza politica del governo. L’art. 32 della Costituzione garantisce alla persona il diritto ad avere le cure: il medico e la struttura sanitaria debbono curare, alla sola condizione che la cura, anche di carattere palliativo e volta solo ad alleviare la sofferenza, risulti tale ad una corretta valutazione tecnico-scientifica. La giurisprudenza ne fa discendere la “posizione di garanzia” del medico come professionista.
Nell’ambito stesso del diritto alla cura, la Costituzione (articoli 13 e 32) sancisce anche il diritto di non farsi curare, di fermare la mano di chi, pur in veste di medico e professionista, pretenda di invadere il nostro corpo. Non è un altro diritto, ma è lo stesso diritto alla salute, in quanto diritto della persona ad autodeterminarsi.
Nel caso di Eluana Englaro, i giudici hanno sancito come non si possa, con gli artifici della scienza medica, costringere a sopravvivere chi non può più essere tolto, perché la medicina stessa non ha mezzi accertati per toglierlo, dallo “stato vegetativo”. La libertà del rifiuto deve valere sempre, affinché il diritto di curarsi non si trasformi per la persona, tanto più se cosciente, in uno stato di soggezione: un malato terminale, che si trova in hospice per ricevere cure solo palliative, se non messo al corrente della propria situazione ed in grado di decidere sul tempo che gli rimane, non è più un paziente ma solo un prigioniero.
Il governo Berlusconi e la maggioranza che lo sostiene hanno negato il diritto a rifiutare la cura. Ne è riprova la trasformazione del progetto di legge sul cosiddetto “testamento biologico” nell’esatto opposto; su spinta del governo, quella che doveva essere una legge per consentire a ciascuno di esprimere la propria volontà anticipata sul rifiuto di determinati trattamenti sanitari, per il frangente in cui si perdesse la facoltà di esprimerla direttamente, si è tramutata in una legge che rimette la salute della persona alle decisioni altrui, non solo del medico ma del legislatore politico. Ed il governo non ha fatto questo per impegnarsi, invece, ad assicurare il diritto di essere effettivamente curati. Tutto il contrario. Per il governo Berlusconi, il servizio sanitario non è un servizio indefettibile, ma al più è una concessione graziosa: come attestano i“tagli” alla spesa sanitaria, operati costantemente a prescindere da una qualunque seria verifica sulla possibilità dei medici e delle strutture di assolvere la loro “posizione di garanzia” nei confronti delle persone.
È in questo contesto che oggi, 9 febbraio, il governo, dopo aver negato i diritti costituzionali dei loro congiunti, ha voluto adunare le famiglie di coloro che sono tanto malati da non poter avere una voce propria, e purtroppo talora neanche la ragionevole speranza di poterla recuperare, per dire loro che è preoccupato. A famiglie che hanno congiunti in condizioni disperate, il governo non parla di diritti, ma solo del suo potere di eventualmente concedere benefici, cancellando per l’ammalato tanto il diritto a non essere abbandonato quanto la libertà a che altri non si ingeriscano nella sua malattia.
La Giornata degli stati vegetativi è nella logica del “riparliamone”, ma non c’è niente di cui riparlare. Ci sono solo diritti costituzionali da ripristinare, perché il governo li ha calpestati.
Vittorio Angiolini, professore ordinario di Diritto Costituzionale, ha assistito Beppino Englaro nella sua battaglia legale.

l’Unità 9.2.11
Un altro strappo tra i sindacati sulla scia del modello imposto Pomigliano-Mirafiori
Polemica dopo l’accordo separato sul salario degli statali. Sciopero Fp-Cgil a fine marzo
Dalla Fiat al pubblico impiego i sindacati sempre più divisi
Firmato un altro accordo senza la Fiom sui permessi sindacali in Fiat. E non cessano le polemiche sull’assenza del governo nella vertenza. Intanto i “pubblici” Cgil preparano lo sciopero mentre Cisl e Uil difendono l’intesa.
di Giuseppe Vespo


Fiat: ancora una divisione tra i sindacati sulla scia del modello Pomigliano-Mirafiori. In attesa del ritorno a Roma di Marchionne, chiamato a spiegare l’ipotesi che il Lingotto sposti la sede centrale a Detroit, ieri a Torino è stato siglato l’ennesimo accordo senza la Fiom, mentre non cessano le critiche, soprattutto su come il governo ha gestito la partita. «Non ho visto nessun intervento, né pro, né contro, né di striscio, su questo tema», attacca l’ex premier Romano Prodi «Questa non è una polemica politica ma è la constatazione di una realtà incredibile. Siamo stati mesi e mesi senza ministro dello Sviluppo nel corso della crisi più grave degli ultimi decenni». Sabato, il vertice tra l’esecutivo e Marchionne avviene con colpevolissimo ritardo. «Mi aspetto che da questo incontro esca ciò che da un anno dovrebbe essere fatto gli fa eco la leader Cgil Susanna Camusso cioè che si apra un tavolo, con i sindacati, con l'azienda in cui venga illustrato il piano di investimenti per l'Italia».
I tavoli che si sono visti finora hanno portato una divisione dopo l’altra. L’ultima ieri. Al centro della contesa c’era il rinnovo del cosiddetto “accordo di miglior favore”, firmato per la prima volta nel 1971 che prevedeva per la figura del “delegato esperto” e per il resto delle Rsu Fiat ore di permesso sindacale retribuite in più rispetto a quelle garantite dalla legge. Ieri l’azienda ha preteso che il rinnovo di queste condizioni passasse per l’accettazione da parte dei sindacati della «clausola di responsabilità», ovvero uno dei punti degli accordi di Mirafiori e Pomigliano contestati dalla Fiom perché limitativi del diritto di sciopero. Fim, Uilm e Fismic, hanno acconsentito, la Fiom no.
A inasprire il clima, la polemica seguita all’accordo separato di venerdì sul salario accessorio degli statali. Mentre Fp-Cgil e Flc-Cgil preparano uno sciopero generale per fine marzo, ieri si sono riuniti gli esecutivi nazionali del pubblico impiego di Cisl e Uil, che hanno firmato l’intesa. Presenti i due leader, Luigi Angeletti e Raffaele Bonanni, tornati a ribadire la bontà dell’intesa sottoscritta col governo che, affermano, in questo modo sono stati difesi: per Cisl e Uil con l’intesa le retibuzioni non perderanno un euro, a differenza di quanto sarebbe accaduto con la riforma Brunetta che, non a caso la Cgil aveva duramente contestato. Inoltre viene taciuto dai firmatari che i costi dell’operazione ricadranno sulle spalle dei lavoratori pubblici precari che non verranno stabilizzati.


l’Unità 9.2.11
Rom, la tragedia che nessuno vuole fermare
di Dijana Pavlovic


A Roma sono bruciati vivi con la loro baracca e la loro miseria Fernando 3 anni, Sebastian 7 anni, Raul 5 anni, Elena Patrizia 11. Sono morti come Emil 13 anni, nel marzo scorso a Milano, Menji 4 anni, Lenuca 5 anni, Daciu 11 anni ed Eva 8 anni nell’agosto del 2007 a Livorno. Una strage a cui si aggiungono le tante morti di anni di emarginazione in un costante silenzioso porrajmos, la “shoah dei rom”, che non è finito con la fine dei campi di concentramento. Un porrajmos che diventa visibile con le morti innocenti ma scompare quando tocca ai tanti bambini ai quali le ruspe distruggono i quaderni e i libri che non potranno più usare perché le ruspe li cacciano da scuola e fanno perdere il poco lavoro in nero ai padri. Una gara feroce che non si ferma neppure quando, come a Milano, maestre e genitori inseguono le famiglie di via Rubattino da uno sgombero all’altro, li accolgono in casa, fan di tutto perché quei bambini non perdano la scuola, diritto costituzionale e speranza per il loro futuro.
Come sempre per qualche giorno si parla di rom non solo per demonizzarli con luoghi comuni e pregiudizi, perseguitarli con sgomberi inutilmente crudeli perché colpiscono sempre gli stessi. Si apre un dibattito sulle responsabilità: sono delle amministrazioni che tollerano il degrado o dei genitori che abbandonano i figli nella baracca per far la spesa? Ma nessuno si interroga davvero su cosa sia necessario per evitare simili disgrazie e il dibattito finisce presto perché poi incombono le solite urgenze politiche. Un dibattito ipocrita perché nessuno vuole davvero risolvere questo problema. Un problema semplice sono solo 130.000 i rom e i sinti in tutta Italia, metà dei quali cittadini italiani ma anche un problema “elettorale”, perciò irrisolvibile: porta voti a chi li perseguita mantenendoli nel degrado, li toglie a chi li aiuta a uscire da quelle discariche sociali che sono i campi.
Ma in questa occasione c’è stato un fatto nuovo che mi ha colpita e commossa e che da solo vale tutte le parole spese per il mio popolo: il gesto di grande umanità del presidente della nostra Repubblica seduto insieme con i genitori e la sorella di questi bambini a condividere la loro disperazione. Un gesto che squarcia il velo dell’ipocrisia, che cancella l’ottuso razzismo del consigliere regionale lombardo, il leghista Bossetti, che non si alza in piedi nel minuto di silenzio dedicato ai quattro bambini, un gesto che, accompagnato dalla richiesta di mettere al primo posto dell’agenda politica il destino di queste persone, ci fa sperare che possiamo ritrovarci uomini e donne che portano ad altri uomini e donne il riconoscimento della comune umanità fatta di convivenza civile e reciproco rispetto.

La Stampa 9.2.11
Lite Pannella-Formigoni
«Quello di Roberto è un regime». «È pazzo»


«La differenza tra Pannella e il Pd è che il Pd fa le stronzate sottotraccia, Pannella le fa alla luce del sole. Ma sempre di stronzate si tratta». Filo diretto amaro, per Marco Pannella. La sua Radio Radicale diffonde malcontento. I militanti tremano all’idea di un’apertura a Silvio Berlusconi. Gridano «vergogna» e «tradimento». Inneggiano alle perplessità di Emma Bonino e temono di rivivere un trauma pari a quello del passaggio al Pdl di Daniele Capezzone. A nulla sembrano valere le ragioni del dialogo, che Pannella si affanna a spiegare. Lui giura che i radicali non si venderanno per una poltrona. Ma neanche questo, a quanto pare, è abbastanza. «Non accettiamo ministeri, non accettiamo di fare parte della maggioranza», dice in serata Pannella al Tg1.Tra coloro che ritengono utile «sbarazzarsi di Berlusconi» c’è «la magistratura di Milano con quel signore neopromosso Bruti Liberati», che è pronta «a far fare la marcia su Roma ad uno che è molto casto, ma anche molto imbroglione come Roberto Formigoni». Lo ha detto il leader dei Radicali, Marco Pannella, in un’intervista al Tg1. Formigoni, sottolinea Pannella, è «protetto da quella magistratura milanese che ha fatto l’impossibile per incastrare Berlusconi e ci è riuscito, sulla storia della puttane. Mentre contemporaneamente ha lasciato impunito un presidente, un regime come quello di Cl, con buona pace di don Giussani». Dopo pochi minuti la replica di Formigoni. «Che Pannella fosse un prevaricatore violento, nonostante i suoi tentativi di proclamarsi l’opposto, lo sapevamo da tempo. Ora abbiamo un’altra certezza: è pazzo».

il Fatto 9.2.11
Capaci di tutto
Pannella rimembri ancora?
A Massimo Bordin storico conduttore


Di “Stampa e regime” su Radio Radicale non è piaciuta la rubrica che Pino Corrias ha dedicato sul “Fatto” di martedì alla divergenze tra Emma Bonino e Marco Pannella sul dialogo con Berlusconi. Possiamo capirlo. Non tanto per le “volgarità” dell’articolo che proprio non ci sono. Quanto per la difficoltà di spiegare quella che rappresenta una svolta sorprendente nella pur scoppiettante politica del leader radicale. Noi del “Fatto”, per esempio, non possiamo dimenticare l’articolo a firma Marco Pannella che abbiamo pubblicato come editoriale di prima pagina il primo settembre 2010. Una frase per tutte: “Sei davvero divenuto uno di quei capaci davvero, ma proprio davvero proprio di tutto. Categoria, questa, che finisce per far precipitare nel vuoto di ragionevolezza, di democrazia e legalità i suoi eroi. Temo che tu sia in questa condizione e che rischi di precipitare anche tu in questo baratro”. Chiediamo a Pannella: cosa è cambiato in cinque mesi?

il Fatto 1.9.10
Verso il baratro
di Marco Pannella


Presidente Berlusconi, ascoltando le tue dichiarazioni a e con Gheddafi, ho provato un empito di vergogna. Ripetendo a più riprese, come hai fatto, che, non solo i due Stati, ma anche i “due popoli”, l’Italiano e il Libico, sono oggi uniti per festeggiare l’intesa tra la Repubblica italiana e la Jamaria, ti qualifichi come erede, semmai, dei “Graziani” di quella Italia, estraneo perfino a questa partitocratica, non democratica, che gestisci. In tal modo tu rappresenti il popolo italiano tanto quanto Gheddafi quello libico. Non adontarti di questa equazione: è tua! Se un feroce dittatore, per te, rappresenta il suo popolo tanto quanto il premier di una Repubblica dalla Costituzione democratica, ravvivi il ricordo di quell’individuo per il quale il Fascismo offriva vacanze non male ai suoi oppositori: dai Matteotti ai Carlo e Nello Rosselli, dagli Ernesto Rossi agli Altiero Spinelli, ai Pertini e migliaia di altri vacanzieri antifascisti. Della Libia si sa così poco, da non sapere se le vittime del tuo grande amico personale siano di meno o di più di quelli uccisi da noi Italiani. Comunque ci sono come anche altri Africani, spesso Eritrei, Somali, Etiopi, i cui genitori conobbero anch’essi la civiltà di quel colonialismo. Voglio precisare che qui non discuto affatto, come in Parlamento, il principio e modalità importanti imprenditoriali e commerciali, anche di per loro positivi, dell’accordo. Ma del costo gravissimo e superfluo, e francamente intollerabile, che tu imponi ai danni di standard internazionali democratici e più semplicemente civili, morali. Presidente, lo so che anche per D’Alema la Libia è “strategica”; ma mi chiedo fin dove tu sia, ormai, capace di intendere e di volere più o diversamente da un Gheddafi o da un “Graziani” qualsiasi. Sei davvero divenuto uno di quei capaci davvero, ma davvero proprio di tutto. Categoria, questa, che finisce per far precipitare nel vuoto di ragionevolezza, di democrazia e legalità i suoi eroi. Temo che tu sia in questa condizione e che rischi di precipitare anche tu con la sola forza accelerata di gravità in questo baratro. Faremo – lo sai – tutto il possibile per impedirti di finire – e farci finire – come fanno in genere costoro. Con la nostra nonviolenza e tolleranza confido che ci riusciremo. Evitando pure che ti e vi seguiamo nello stesso destino anche noi, vostri popoli, il libico l’africano e l’italiano.

Repubblica 9.2.11
Il socialista Nencini lancia l’area laico-democratica


ROMA Il segretario del Psi Riccardo Nencini (foto) lancerà oggi insieme con l´ex radicale Massimo Teodori e l´ex dirigente del Garofano Luigi Covatta il manifesto dell´area laico-democratica. Un appello rivolto al perimetro del centrosinistra, al mondo radicale che non condivide il dialogo di Pannella con Berlusconi, agli intellettuali, al mondo delle università. Obiettivo: 100 firme "pesanti", in grado di scuotere la società civile. Fra i primi firmatari viene dato per sicuro il filosofo della scienza Giulio Giorello.

l’Unità 9.2.11
«Niente cambia se non cade il raìs.
Non ci fermiamo»
Secondo il blogger e attivista dei diritti umani i manifestanti sbaglierebbero se accettassero che la transizione fosse gestita dall’attuale leader
di U.D.G.


Da un regime liberticida a uno Stato di diritto: è questo il sogno che i ragazzi di Piazza Tahrir vogliono realizzare. Un Egitto dove la libertà di espressione non sia più una rivendicazione che apre le porte della galera; un Paese in cui le elezioni non siano più una farsa e la corruzione il motore dell’economia. Di questo sistema Hosni Mubarak è stato per trent’anni il perno. A chi dice che senza di lui la transizione finirebbe nel caos, ribatto che la piazza non smobiliterà fino a quando il rais non sarà uscito di scena». A parlare è una delle figure più rappresentative della «Rivoluzione dei Loto»: Gamal Eid, tra i fondatori del movimento creato su Facebook «Siamo tutti Khaled Said» (il ragazzo torturato a morte dalla polizia pochi mesi fa), direttore esecutivo della Ong Network Arabo per i Diritti umani. «Per restare in sella dice Eid a l’Unità Mubarak ha promesso aumenti di stipendi e pensioni, cercando così di dividere il movimento di protesta. Ma ha fatto male i suoi calcoli: i milioni di egiziani che in queste due settimane sono scesi in strada a rischio della loro vita, non intendono barattare diritti e libertà con qualche lira in più promessa dal regime».
La rivolta è entrata nella sua terza settimana. La piazza non smobilita e Mubarak continua a rifiutare di farsi da parte sostenendo che la sua uscita di scena farebbe precipitare l’Egitto nel caos...
«Quello che Mubarak chiama caos per noi è la ribellione a un regime liberticida. In questi trent’anni abbiamo vissuto sulla nostra pelle quello che il regime ha spacciato per “ordine” e “stabilità”: elezioni truccate, oppositori in galera, una nomenclatura che si arricchiva alle spalle del popolo. Questo è l’ordine di Hosni Mubarak: un ordine iniquo contro cui ci siamo rivoltati. La nostra è una battaglia di libertà».
Il rais ha promesso aumenti di stipendi e pensioni e la costituzione di una commissione che modifichi la Costituzione..
«Ma è sempre lui a voler condurre il gioco. Mubarak non è il simbolo del regime che per trent’anni ha soggiogato l’Egitto, di quel regime lui è il perno, la mente. Ciò che sta accadendo in Egitto, che è accaduto in Tunisia e un domani non lontano in tutta la Regione, è l’”89” del mondo arabo. È come se allora ai ragazzi di Berlino che si erano rivoltati contro il regime, fosse stato detto: fermatevi, se no è il caos, affidate la transizione a Honecker... Il Muro di Berlino è stato abbattuto. Ora tocca ai nostri “Muri”.
In molti si chiedono chi sia il leader della rivolta... «Una curiosità che resterà delusa. Non esiste un capo. Non stiamo sfidando un rais per portarne al potere un altro. Questa è la forza del movimento: avere una dirigenza plurale, tante teste che provano poi a fare una sintesi. Prima di predicarla, la democrazia va praticata. Ed è quello che sta avvenendo in queste settimane a Piazza Tahrir, che non è solo il simbolo della rivolta anti-Mubarak ma è anche un laboratorio politico a cielo aperto». Quanto ha pesato l’esempio tunisino?
«Si parla molto dell’esempio tunisino, ma prima c’è stato un altro “esempio” di straordinaria importanza...».
A cosa si riferisce?
«All’”Onda verde” iraniana. In comune c’è la determinazione a sfidare regimi autoritari, in nome dei diritti civili e politici. Protagonisti di queste rivolte sono soprattutto i giovani, in Iran, in Tunisia, in Egitto...».
È la «generazione Internet»...
«È la generazione che ha rivoluzionato il linguaggio della comunicazione facendo di Twitter, Facebook veicoli di informazione, denuncia e organizzazione in tempo reale. Non è un caso che tutti i regimi contestati abbiano cercato come primo atto di chiudere questi spazi, arrestando centinaia di blogger». Sorte che è toccata anche a lei... «Si chiamino Ben Ali, Mubarak, Ahmadinejad, tutti i dittatori hanno paura della libertà d’espressione. Una libertà che oggi viaggia sul web».

l’Unità 9.2.11
Il saggio Nel suo nuovo lavoro, Michele Ciliberto analizza le ragioni profonde dell’«anomalia Italia»
Storia Il problema non è solo Berlusconi: sono troppe le comprimissioni della nostra classe dirigente
Per capire la «democrazia dispotica» italiana ci vuole più Gramsci e meno Tocqueville
È in libreria «La democrazia dispotica» di Michele Cilberto (pp. 195, euro 18, editore Laterza): dice lo studioso che quello italiano è un «regime» democratico alla sua massima espressione...
di Nicola Tranfaglia


Tra i molti libri che gli editori stanno inviando finalmente in libreria ora che l’egemonia berlusconiana è entrata in grave crisi, l’inchiesta di Milano incalza e a fine febbraio o poco tempo dopo, il presidente del Consiglio sarà costretto, con molta probabilità, a comparire di fronte ai suoi giudici ordinari (visto che il legittimo impedimento è in gran parte crollato e lui, almeno formalmente, è tornato ad essere cittadino italiano agli effetti giudiziari), anche l’editore Laterza è ora presente con La democrazia dispotica di Michele Cilberto (pp. 195, euro 18, collana I Sagittari) che è tra i migliori studiosi di Giordano Bruno a livello internazionale e insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Normale di Pisa.
Il libro di Ciliberto merita molto interesse anche per chi non è del tutto d’accordo con le categorie adottate dall’autore, specialista, peraltro, di altri secoli e non dell’età contemporanea con cui oggi abbiamo a che fare. Secondo Ciliberto, il regime con cui abbiamo oggi a che fare è un regime democratico nella sua massima espressione, come Tocqueville prefigurava come degenerazione (già nel Settecento, nel suo capolavoro, La democrazia in America), perché sono presenti, nello stesso tempo, un grande apparato burocratico proprio dello Stato contemporaneo e il potere carismatico di Silvio Berlusconi che ha creato un partito a sua immagine e somiglianza e lo governa con criteri che violano ogni giorno i principi della costituzione repubblicana fissati nella prima parte del testo. Quest’affermazione si può sottoscrivere interamente, ma mi chiedo due cose da contemporaneista quale sono da quasi mezzo secolo: tutti i regimi democratici europei sono arrivati alla democrazia dispotica come quella italiana? O invece la Francia, la Germania, la Gran Bretagna e gli Usa hanno ancora regimi democratici e non dispotici?
È un interrogativo centrale sul piano storico perché l’anomalia Italia deriva non solo dalle qualità negative di Berlusconi (sulle quali siamo d’accordo) ma sull’incapacità complessiva che le classi dirigenti soprattutto di centro-destra dominanti hanno avuto nella crisi del 1943-46 di rinnovare lo Stato italiano, sulle caratteristiche indicate proprio da Gramsci che parla di ricorrente sovversivismo delle classi dirigenti, sulla crisi della repubblica sorta con la fine del centro-sinistra e l’assassinio di Aldo Moro e precipitata all’inizio degli anni novanta.
Ciliberto, uno dei nostri migliori studiosi dell’età moderna, fa molto bene a utilizzare tutti i classici della politica europea e americana, da Tocqueville a Marx, a Max Weber e, in piccola parte, anche Gramsci che, a mio avviso, per essere stato un grande storico dell’Italia moderna e contemporanea, avrebbe potuto essere citato e usato meglio di quanto avviene nel libro (ma la giustificazione implicita è che, a settant’anni dalla nascita della repubblica, nessuno storico, e tanto meno quelli che sono stati comunisti, hanno scritto ancora il libro, sempre più necessario e opportuno, sulla interpretazione che Gramsci ha dato della nostra storia).
La situazione italiana, come sappiamo, è drammatica e ha ragione chi afferma che Berlusconi sta declinando come pure la sua personale egemonia, ma che il berlusconismo resiste ancora e potrebbe continuare a dominare l’Italia, se le forze delle opposizioni non saranno in grado, al più presto, di fare un programma preciso e alternativo. Del resto i nostri amici europei ci dicono ogni giorno che siamo ancora nel baratro e non siamo neppure in grado di far precipitare la crisi in modo tale che il Capo dello stato sciolga le Camere e proceda subito alle elezioni, per evitare la rovina totale del settore intero della istruzione e superare la crisi economica che colpisce le classi medie e tutti quelli che hanno difficoltà ad arrivare alla quarta o alla terza settimana del mese. L’attuale situazione, questo è il punto, non è qualcosa che si esprime improvvisamente con l’ascesa di Berlusconi ma piuttosto la sua ascesa è dovuta a ragioni storiche di breve e lunga durata.
Allora o si riscrive la storia d’Italia, sottolineando questi aspetti e i frequenti compromessi delle classi dirigenti italiane di ogni colore verso le associazioni mafiose, i vertici del Vaticano e altre istituzioni dell’Italia più arretrata e non democratica, o si dà un’immagine del nostro paese che non può reggere al confronto internazionale, oggi necessario. Abbiamo bisogno, perciò, di discutere le categorie di metodo, usare più Gramsci e meno Tocqueville, ed elaborare una visione storicamente valida dell’odierno populismo mediatico-autoritario. L’Italia, a mio avviso, non è mai arrivata a una democrazia compiuta e ne paga ancora le conseguenze.

il Fatto 9.2.11
Storia. Fratelli Rosselli
Vergognoso segreto di Francia
Perché Mitterrand non ha sollevato il velo su La Cagoule, l’organizzazione   che assassinò Carlo e Nello? Il veto era stato posto dal generale De Gaulle
di Nicola Tranfaglia


Un oscuro segreto emerge dopo settant’anni. Un segreto che riguarda nello stesso tempo la storia della Francia e dei suoi miti e quella dell’Italia, del fascismo e degli uomini che furono uccisi dalla dittatura.
Carlo e Nello Rosselli vennero assassinati il 9 giugno 1937 dalla setta fascista con forti tendenze razziste e antisemite della Cagoule. Ma chi faceva parte di quella organizzazione di estrema destra? Soltanto i fascisti francesi e i loro confratelli italiani? O anche personaggi che dopo la Liberazione avrebbero fatto parte di altre forze, opposte, nello schieramento repubblicano? 
FRANÇOIS Mitterrand (è così che si scrive il suo nome) è nato nel 1916 durante la Prima guerra mondiale e proprio mentre si combatteva nel sud-ovest della Francia la grande battaglia di Verdun, una delle più sanguinose del conflitto che divise l’Europa e condusse alla crisi da cui sarebbero nati i fascismi, prima in Italia, poi in Germania e nei paesi dell’Europa orientale. Durante la Seconda guerra mondiale catturato dai nazisti tedeschi riesce a fuggire a Parigi dove diventa un ufficiale del governo collaborazionista di Vichy fondato e guidato dal maresciallo Petain. E questo non è un caso perché, a vent’anni, Mitterrand è un militante della setta di estrema destra La Cagoule (secondo altri storici della setta La Lègion   francaise des combattants et des volontaires de la rivolution nationale, sempre fascista) che il 9 giugno 1937, su ordine di Galeazzo Ciano e del SIM italiano, in cambio di mille fucili regalati dal governo fascista, uccide a Bagnoles sur   L’Orne stroncando la vita di due giovani di grandi qualità e possibilità future: Carlo era il fondatore e leader del movimento di Giustizia e Libertà in Francia e in Italia e Nello era uno storico del Risorgimento italiano, di Carlo Pisacane, di Mazzini e Bakunin.
Il giovane funzionario da gennaio ad aprile 1942 lavora presso La Lègion, dal giugno 1942 al Commissariato per il reinquadramento dei prigionieri di guerra, dal quale si dimetterà nel gennaio 1943.
Nel dicembre 1942, Mitterrand scrive nel giornale ufficiale di Vichy France, Revue de l’Etat nouveau: “Se la Francia non vuole morire in questa melma, gli ultimi francesi degni   di questo nome devono dichiarare una guerra senza quartiere a tutti quanti, all’interno come all’estero, si preparano ad aprirne le dighe: ebrei, massoni, comunisti… sempre gli stessi e tutti gollisti”.
Di fronte ad affermazioni di questo genere non si possono avere esitazioni sulla prima fede petainista e filofascista del giovane francese che nel 1942   ha ventisei anni.
L’anno successivo, nel 1943, anno fatale nella Seconda guerra mondiale perché cade l’Italia fascista e Petain va in crisi come alleato della Germania nazista, con un plateale “salto della quaglia” (come diciamo noi italiani per i processi di trasformismo cui siamo purtroppo abituati anche oggi nella nostra tormentata storia) Mitterrand, dopo un incontro difficile con il generale De Gaulle, entra nella resistenza gollista conservando peraltro le sue mansioni presso l’amministrazione di Vichy. Una volta eletto nel 1981 alla presidenza della Repubblica francese, e fino al 1992, Mitterrand deporrà una corona di fiori sulla tomba del maresciallo Petain; nella primavera del 1943 è decorato dell’ordine della Francisque; una distinzione onorifica del regime di Vichy.
È impossibile, insomma, mettere in dubbio la sincerità e la   saldezza della sua fede giovanile per i regimi fascisti e collaborazionisti con la Germania nazista. Non è ancora del tutto chiaro se fosse esplicitamente   antisemita, ma le organizzazioni di cui faceva parte, a cominciare dalla Cagoule, lo erano.
Nel 1943 il giovane funzionario diventa il capo di una rete di spie che prende contatto con i funzionari dell’Amministrazione francese in vista dell’ormai vicina liberazione assicurando la fiducia di funzionari, burocrati, e prefetti alla nuova Repubblica francese. Quindi diventa leader di un piccolo partito radicalsocialista, l’Union democratique et socialista de la Resistence, l’UDGR.
DI QUI INIZIA intorno ai trent’anni la sua carriera prima di ministro della Repubblica, poi di leader della sinistra europea e in particolare del socialismo non comunista e in questa veste ascenderà nel 1981 dopo due tentativi falliti, alla presidenza della Repubblica francese di cui è titolare   per due mandati, quattordici anni, dal 1981 al 1995.
Ma non dimentica la sua giovinezza e i suoi trascorsi. E lo dimostra con una decisione che finora gli storici non solo italiani non avevano mai notato. E che a me è invece molto   chiara, grazie alla mia lunga esperienza di ricercatore della vita e dell’opera di Carlo Rosselli di cui ho appena pubblicato per Baldini e Castoldi una biografia completa (2011, pp. 518; euro 22). Ebbene, il generale De Gaulle negli anni Cinquanta quando era asceso al potere aveva posto il veto al fascicolo su La Cagoule negli Archivi di Stato francesi, i presidenti gollisti che gli sono succeduti hanno mantenuto quel veto e nessuno storico, a cominciare dal sottoscritto, ha mai potuto consultare il fascicolo che riguarda gli assassini di Carlo e Nello Rosselli.   Ma il fatto grave è che anche negli anni Ottanta e Novanta quando Mitterrand è stato presidente della Repubblica non ha eliminato il veto che De Gaulle aveva posto agli inizi della Repubblica sul caso de La Cagoule. Ne abbiamo una prova clamorosa leggendo non soltanto gli scritti di Gaetano Salvemini negli anni Trenta e Quaranta ma anche nel saggio, ottimo, che Mimmo Franzinelli ha pubblicato nel 2007 su Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico (Mondadori editore): non c’è traccia, a causa di quel veto, della documentazione   francese su La Cagoule che tuttora esiste negli Archivi Nazionali Francesi e che i cataloghi appositi testimoniano ancora. Detto in maniera semplice, il leader del socialismo europeo, per quattordici anni presidente della Repubblica e uomo simbolo (non soltanto in Francia) del socialismo non comunista ha oscurato un delitto compiuto dai fascisti peggiori del suo paese, servi dei regimi europei, a distanza di più di cinquant’anni da quello che resta uno dei più terribili delitti che il fascismo abbia compiuto negli anni Trenta quando in Italia dominava Mussolini e in Germania Hitler era al potere.   Come si può spiegare l’atteggiamento di François Mitterrand e della Repubblica francese?
È un problema storico di notevole entità. E mette in luce, ancora una volta, le contraddizioni della vicenda europea ancora aperte e la difficoltà di superare completamente l’eredità del fascismo, in Italia come in Francia. È una constatazione amara per chi ha trascorso finora la sua vita a ricostruire la storia del Vecchio Continente e dell’Italia degli ultimi cento anni.

Repubblica 9.2.11
La vera storia di via Rasella
risponde Corrado Augias


Caro Augias, leggo che addirittura Sergio Romano è caduto nella trappola del cosiddetto senso comune, a proposito dell'attentato di via Rasella. Accompagno ogni anno per conto del Comune di Roma e con l'Irsifar (Istituto romano per l'antifascismo e la Resistenza) classi di scuola media alle Fosse Ardeatine; i ragazzi vengono preparati da un incontro tenuto da esperti, poi si va con il pullman a visitare le tombe dei martiri. In genere i ragazzi non sanno quasi nulla, o al massimo a casa hanno sentito dire che se i colpevoli dell'attentato si fossero presentati, la strage sarebbe stata evitata. Non è così, la vulgata costruita nei mesi successivi alla strage ha del tutto falsato la realtà. Dopo la visita i ragazzi escono dal monumento ai caduti colpiti, commossi, consapevoli. Potenza della memoria e del senso della storia, da non trascurare mai più, pena la perdita della nostra identità.
Elisabetta Bolondi

Per gli immemori e per coloro che non hanno voluto sapere, vale la pena di ripetere lo schema orario dei fatti. L'attacco contro una colonna di soldati germanici di ritorno da un addestramento, avvenne in via Rasella alle ore 15.45 di giovedì 23 marzo 1944. Buona parte del pomeriggio passò per concordare, anche in contatto con Berlino, il tipo di rappresaglia. Alla fine si stabilì che dieci cittadini italiani fossero uccisi per ogni soldato tedesco morto: 33 questi, 330 gli italiani. Il massacro in una cava di pozzolana sulla via Ardeatina ebbe inizio alle ore 15.30 del successivo venerdì, ora in cui un pastore che stazionava nei pressi testimoniò d'aver udito i primi colpi. Un macabro particolare conferma che la notizia fino a quel momento era stata tenuta segreta. Nella loro furia i carnefici avevano finito per superare la già tragica lista di 330 todeskandidaten ( candidati alla morte ) . Gli assassinati alla fine furono 335, cinque in più del previsto. I conti erano sbagliati e si ordinò di uccidere anche quei cinque perché, testualmente, si ordinò: "Questi hanno visto tutto, uccidete anche loro". Nulla doveva infatti trapelare alla popolazione fino al comunicato ufficiale. Dopo quattro ore di spari e di grida, i carnefici erano così esausti che si dovette distribuire del cognac perché terminassero le esecuzioni, le quali ebbero fine alle ore 20 di venerdì 24. Verso le 23 di quel venerdì ci fu un comunicato che l'agenzia Stefani (diretta da Luigi Barzini) distribuì a giornali e sale stampa e che venne pubblicato solo sui quotidiani di sabato 25. Dato il coprifuoco, i giornali, stampati al mattino, arrivavano in edicola verso mezzogiorno. Nessuno sa se gli esecutori dell'attacco, sapendo, si sarebbero presentati. Il fatto è che seppero, come tutti, solo a cose fatte. Si vorrebbe non doverlo più ripetere.

Corriere della Sera 9.2.11
L’eroina che sfidò le tirannie
Angelica Balabanoff ruppe con Mussolini e Lenin. Morì povera e sola
di Pierluigi Battista


A ngelica Balabanoff morì sola, povera e abbandonata, ma è stata una protagonista, sconfitta, della grande stagione del socialismo libertario e antitotalitario. Il suo nome appare di sfuggita nei manuali della storia del movimento operaio. Ma la Balabanoff fu una donna energica e testarda, e seppe tener testa come nessun altro ai dioscuri delle due tragiche deviazioni autoritarie della storia socialista: Mussolini e Lenin. Spese tutta se stessa per un ideale di emancipazione sociale che non contrastasse con la difesa della libertà. Fu una grande donna di una sinistra allergica alle dittature, come Rosa Luxemburg. La solitudine che afflisse gli ultimi anni della sua vita è il simbolo di una sinistra messa ai margini, gettata nel dimenticatoio, cancellata. Per questo è più che benvenuto il libro di Amedeo La Mattina che porta il titolo Mai sono stata tranquilla. La vita di Angelica Balabanoff, la donna che ruppe con Mussolini e Lenin (Einaudi). È il racconto di una vita straordinaria, la narrazione, alimentata da una documentazione di prima mano, di una donna di indomito coraggio che recise con dolore i rapporti con la sua benestante famiglia russa (un fratello verrà seviziato e ucciso dai bolscevichi appena arrivati al potere). Che nei primi anni del Novecento vagò per le università e le biblioteche d’Europa per studiare i grandi classici del pensiero sociale, consacrarsi al socialismo, affrontare con spirito temerario e anticonformista le battaglie politiche e giornalistiche del movimento operaio. È un racconto di incontri, di relazioni burrascose. Un andirivieni dei personaggi che hanno popolato il quartier generale del movimento socialista mondiale. Tempestoso il rapporto della Balabanoff con un giovane dallo sguardo incendiario e dai modi grossolani e sbrigativi che si chiamava Benito Mussolini. Lei ne subì il fascino sensuale (per anni girò la diceria che lei fosse la vere madre di Edda). Lo aiutò maieuticamente a mettere ordine nel ribollire caotico delle sue letture, a temperare la frenesia disordinata di un carattere straordinariamente impulsivo. Fu lei a dare solidità alla direzione mussoliniana dell’ «Avanti!» . Fu lei a soffrire di più per la cocente delusione nata dal «tradimento» di Benito: una frattura personale insanabile, con lui che dall’interventismo passerà al fascismo, e lei fedele a un intransigente internazionalismo pacifista. La Balabanoff è stata una delle grandi donne della politica italiana della prima metà del Novecento. La Mattina insiste con grande sensibilità sulla rivalità con Margherita Sarfatti, che non fu solo gelosia e contesa per le attenzioni di Mussolini, ma scontro tra due modelli femminili, l’eleganza algida e leziosa della Sarfatti contro la mistica del sacrificio di ogni forma di femminilità incarnato dalla Balabanoff. Rivalità politica quella con Anna Kuliscioff, specchio del duro contrasto che nei primi anni del Novecento contrappose il socialismo massimalista e verboso di Mussolini al riformismo di Filippo Turati. Rivalità quasi antropologica con la Krupskaja, la moglie di Lenin, subalterna, e adorante nei confronti del marito-Capo di cui invece la Balabanoff intuì tempestivamente le caratteristiche del tiranno spietato e sanguinario, incapace di calcolare gli immensi costi umani di una rivoluzione guidata da un dottrinarismo gelido e disumano. La Balabanoff non diplomatizzò mai il dissenso con i «potenti» di turno. Esule dall’Italia fascista dell’ex amico, compagno (e amante?) Benito Mussolini, lei non esitò a rompere con il bolscevismo detestandone la fredda logica autoritaria, la repressione su scala di massa, l’onnipotenza della polizia politica. Ruppe anche con il fuoriuscitismo socialista riparato a Parigi, dove lei condusse una vita grama, ridotta alla fame, alla solitudine, alla malattia. Ruppe perché i socialisti si ostinavano a voler conservare un rapporto «unitario» con i comunisti e con quella parte del movimento operaio che considerava prioritario il rapporto di fedeltà con la «patria del proletariato» , con l’Unione Sovietica della Gpu, del Gulag, dello stalinismo come apocalittico compimento del progetto leninista di repressione totale. Per una socialista libertaria come lei, l’Urss non era una deviazione da un percorso comune, ma l’antitesi di tutto ciò che pensava e che l’aveva spinta ad aderire al socialismo umanitario, all’ideale di una società «giusta» . Con la peste nazista che stava contagiando l’Europa e con il comunismo stalinista fondato sulla deportazione e la cancellazione fisica di ogni voce dissidente, la Balabanoff venne presa da una disperazione assoluta. La disperazione di chi si sentiva inascoltato e che non doveva aspettare il ’ 39 e la rivelazione del patto nazi-sovietico siglato da Ribbentrop e Molotov per cogliere le affinità che i totalitarismi del Novecento stavano tragicamente maturando. Quando, con la rinascita della democrazia nell’Italia post-fascista, la Balabanoff tornò in Italia, la vecchia socialista che aveva rotto con Mussolini e con Lenin, non esitò a rompere con il partito che aveva accettato il patto unitario con i comunisti. Intravide nel socialismo democratico di Giuseppe Saragat una strada possibile per conciliare ideali socialisti e difesa a oltranza della libertà. Ma, seppure senza arrivare a una frattura personale definitiva con Saragat, non tardò a maturare un profondo disprezzo per il ceto politico dirigente del partito saragattiano, immerso nelle pratiche di sottogoverno, e troppo subalterno, a suo parere, alla deriva «clericale» nutrita dall’alleanza con la Democrazia cristiana. Veniva esibita come una laica madonna pellegrina, il simbolo di una continuità ideale con la stagione eroica del passato, ma quei dirigenti del Psdi non facevano che sopportare malamente quella «vecchia» mugugnante e recriminatoria che era la rappresentazione vivente del loro distacco dal socialismo di un tempo. La socialista libertaria e anti-autoritaria non trovava più ascolto. Dopo la sua morte nessuno ha voluto inserire la sua figura nel pantheon ideale di una lunga storia: troppo perdente, troppo rompiscatole, troppo sola. Il libro di La Mattina ne è un primo, doveroso risarcimento.

Corriere della Sera 9.2.11
Ma quel Deineka era un vero pittore comunista
di Pierluigi Panza


A nche se le relazioni postmoderne tra Italia-Russia sembrano cementate grazie al lettone di Putin e alle condotte della Gazprom, ci fu un tempo, diciamo lontano, in cui l’ideologia e il totalitarismo la facevano da padrone. Era «il secolo breve» , anno domini 1935, e il massimo pittore del regime stalinista, Aleksandr Deineka, veniva nientemeno che ad abbeverarsi nella Roma superfascista al fine di coniugare il rosso della falce e martello con l’estetica della classicità. Ne vennero fuori dei bei quadri di regime, in puro Realismo sovietico: atleti con la tuta Cccp che vincono, lavoratori che avanzano sicuri verso il sol dell’avvenire, ragazze contente nei campi di grano, bandiere con il profilo dello zio Josif e tutto il bagaglio che oggi ci appare di ferrivecchi. E così, sarà un bel vedere, il 17 febbraio, l’inaugurazione della mostra «Aleksandr Deineka. Il maestro sovietico della modernità» al Palazzo delle Esposizioni di Roma, evento inaugurale del programma diplomatico di scambio culturale italo-russo (2011 Anno di Italia-Russia). Più di ottanta capolavori, provenienti oltre che dalla Galleria Tret’jakov anche dal Museo Statale di San Pietroburgo e dalla Pinacoteca Statale Deineka di Kursk, si articoleranno in un percorso che abbraccia l’intera opera dell’artista (esposizione a cura di Irina Vakar, Elena Voronovic e Matteo Lafranconi). Un bel vedere perché, come annunciato ieri a Mosca, a tagliare simbolicamente il nastro ci sarà l’uomo del nuovo corso del Cremlino, Dmitri Medvedev e poi l’anticomunista per eccellenza, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Più l’ex fascista e sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Saranno loro a tagliare il nastro di un pittore comunista davvero, amico personale di Renato Guttuso, grande cantore dell’epopea del comunismo italiano. «La prossima settimana sarò in visita a Roma, dove insieme alle autorità italiane parteciperò al lancio dell’anno della cultura e della lingua russe in Italia e della cultura e della lingua italiana in Russia» , ha detto ieri Medvedev. «L’annuncio della visita del presidente della Federazione Russa in occasione dell’inaugurazione dell’anno della Cultura Italiana in Russia e della Cultura Russa in Italia testimonia l’eccellente livello delle relazioni culturali tra i due Paesi» , ha risposto il ministro Sandro Bondi, per altro ex comunista. Questa mostra, sarà solo il primo degli eventi dell’anno dedicato agli scambi culturali Italia-Russia organizzati dagli ex ministri Giuliano Urbani e Mikhail Shvidkoy. Programmi che si concluderanno con l’inaugurazione del restaurato Bolshoi di Mosca, che riaprirà dopo cinque anni il 2 ottobre 2011 con un balletto e il «Requiem» di Verdi eseguito dall’Orchestra del Teatro alla Scala.

Repubblica 9.2.11
Eros e analisi
Quando gli psicoanalisti tradiscono i pazienti
Luigi Zoja racconta il suo nuovo saggio "A volte la seduzione prevale sulla cura"
L´analista può andare oltre il suo ruolo incoraggiando l´atteggiamento erotico
di Luciana Sica


L´innamoramento analitico, secondo Luigi Zoja, somiglia a quello della poetica stilnovista che «non aspira al possesso della persona amata, ma all´elevazione di chi ama». Come un´esperienza spirituale, nella dimensione del sacro. Capita però che l´analista, eccessivamente idealizzato dal paziente, più spesso dalla paziente, non sappia mantenere la "giusta distanza" e scivoli in un rapporto dove la seduzione prevale sulla cura. In alcuni casi l´infrazione si fa grave, ha conseguenze imprevedibili e un marchio infamante: quello dell´abuso sessuale.
«Il cuore dell´analisi è etico», scrive Zoja nella prima riga del suo breve saggio, Al di là delle intenzioni (esce domani da Bollati Boringhieri, pagg. 156, euro 12). Il titolo allude alla natura inconscia che lega la coppia analitica e ai rischi dovuti a quella "materia incandescente" che deborda. Per dirla con l´autore: «Aldilà delle intenzioni coscienti, s´intende a volte l´analista può abusare del suo ruolo, del suo potere. Allora il viaggio analitico deraglia dai suoi binari, deroga all´imperativo che affonda nella tradizione kantiana e mai vede l´altro come un mezzo».
"Etica e analisi" fa da sottotitolo a questo libro che per nulla si presta al gossip, alla pruderie e tanto meno allo scandalismo, ma che non tace sull´asimmetria di una relazione delicatissima. Di scuola junghiana e orientamento cosmopolita, per la formazione zurighese e i molti anni a New York, Zoja ha affrontato con coraggio garbato i temi etici legati alla cura analitica, un´esperienza che colloca in una "zona grigia" dove non esistono contrasti netti tra il bianco e il nero, come nella sfera della pura razionalità.
Transfert e controtransfert sono i termini tecnici per dire il rapporto tra analista e paziente, il loro incrocio di emozioni. L´analisi avrà un cuore etico, ma non è anche un luogo erotico per eccellenza?
«Non necessariamente. Io lo vedo come un luogo fisico, ma prima di tutto psichico dell´approfondimento di sé, di ricerca della trasparenza e dell´onestà intellettuale. Il lavoro analitico ha un cuore etico intanto perché il comandamento "non mentire" si estende e diventa: "non mentire, non solo agli altri, ma neppure a te stesso"... In molti casi, che nelle sedute aleggi anche eros si può dire solo a costo di tirare il concetto per i capelli».
Per Freud eros è desiderio, pulsione di vita, certo non consumazione di un atto sessuale. E secondo Lacan, la psicoanalisi non ha nulla a che fare con la psicologia ma con la "erotologia": un paradosso lontano dal punto di vista junghiano?
«A noi sta a cuore la consapevolezza, la giustizia rispetto alla legge, l´unicità rispetto all´uniformità, l´individuazione. Sapendo però che l´analisi è un contenitore di ambivalenza e di complessità, dove si può raggiungere una profonda identità emotiva e un grado d´intimità superiore a quello presente in ogni altro tipo di relazione».
Quando la coppia analitica cede invece all´attrazione e il desiderio si fa sessuale?
«La relazione diventa rischiosa quando l´analista, magari senza esserne davvero consapevole, non contiene ma al contrario incoraggia l´atteggiamento erotico della paziente. Si tratta di un inciampo grave: sul piano analitico, è il "sintomo" di un bisogno di gratificazione, di una fragilità incontrollata, di una narcisistica e infantile onnipotenza. Soggiacere a delle tentazioni è profondamente umano, ma un analista che si accorga di scivolare dal piano simbolico a quello reale dovrebbe chiedere immediatamente aiuto a un collega».
E lo fa?
«Gli analisti seri e preparati tendono a farlo. Del resto, quelli importanti che finiscono sui giornali sono pochissimi, e prima o poi costretti alle dimissioni. Nel sottobosco analitico, non saprei dire quel che succede: quando si tratta di nomi senza peso, che non suscitano curiosità, non fanno clamore... ».
Fenomeno poco quantificabile. Ma anche nervo scoperto, argomento tabù. Si liquida dicendo "sono mascalzonate, e in tutte le professioni ci sono mascalzoni". A lei sembra sufficiente?
«No, perché andare dall´analista non è come andare dal dentista. Inoltre, almeno nei paesi anglosassoni, per queste "mascalzonate" diventa quasi automatica l´esclusione dalla scuola di appartenenza. L´abuso sessuale è un marchio che lascia senza lavoro, e l´abusatore non solo è obbligato a rifondere tutto quel che la paziente ha pagato, ma anche a pagarle una nuova analisi, senza limiti di tempo».
Qui da noi, in casa freudiana e junghiana, certi casi sono stati affrontati correttamente? Nel suo libro, fa un parallelo con la faticosa autocritica da parte della Chiesa sui preti pedofili... Non avrà esagerato?
«No, perché riconoscere l´esistenza degli abusi è decisivo per l´etica psicoterapeutica, e seppure il prete e l´analista hanno ruoli diversi, nei fatti attivano dinamiche inconsce molto simili. Da noi bisogna ammetterlo c´è stata una tendenza al silenzio, all´omertà. Ma può sorprenderci che l´Italia non sia un Paese "normale", soprattutto nel rigore? Se in passato c´è stata anche troppa elasticità, va però detto che col tempo la severità è cresciuta. Del resto, il corporativismo è un rischio universale e in più nei comitati dei probiviri è difficilissimo un giudizio su "gli analisti che sbagliano": per le troppe dinamiche di amore-odio, i legami affettivi, i conflitti irrisolti».
Accenna anche ad altri abusi: economici, religiosi, ideologici...
«Per me c´è abuso ogni volta che l´analista utilizza la propria autorevolezza per raggiungere un suo beneficio. Vuole qualche esempio? Pensi a quei pazienti "convinti" a devolvere danaro a una certa fondazione o anche ad abbracciare una qualche credenza: in America sono casi frequenti... L´abuso ideologico? Magari hai in analisi un editore e gli suggerisci di pubblicare il tuo libro o quello di un collega».
"Che ne pensa il tuo analista?": domanda ingenua, ma diffusa in certi ambienti... Non ci saranno anche gli analisti "direttivi", quelli che hanno la ricetta in tasca su come vivere?
«Io non li conosco. Non c´è nulla di più anti-analitico che "indicare la strada" al paziente: perché l´analisi non è un processo didattico, non è prendere delle lezioni private... Un analista può pensare che il paziente sta combinando dei disastri, ma lo lascerà comunque libero di sbagliare».

Corriere della Sera 9.2.11
Il «cortile» dove si incontrano fede e ragione
Parte da Bologna il dialogo tra atei e credenti ispirato allo spazio per i «gentili» del Tempio di Gerusalemme
di Armando Torno


Nell’antico Tempio di Gerusalemme vi era uno spazio chiamato «Cortile dei Gentili» . Ad esso potevano accedere tutti, non soltanto gli israeliti. Non c’erano vincoli di cultura, lingua o religione. In tal modo, accanto al luogo nel quale Dio aveva fissato la sua presenza, si apriva un’area per i non ebrei, per gli «altri» , o meglio per i non credenti nel Dio unico di Abramo, Isacco e Giacobbe. Un atrio esterno, rappresentato appunto da questo cortile dei gojim, con porticato e colonne, sotto cui sostavano scribi e sacerdoti per dialogare con coloro che chiedevano di conoscere meglio la religione di Israele. La sua esistenza è attestata a partire da Antioco III (223-187 a. C.) e ad esso si riferisce forse l’Apocalisse: «Ma l’atrio che è fuori del santuario, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani» (11,2). Giuseppe Flavio nelle sue Antichità Giudaiche (XV, 417) parla dell’iscrizione che proibiva l’ingresso agli stranieri, sotto pena di morte, nella parte riservata al popolo ebraico. Qui si fermò anche Gesù. Da questa consuetudine, dopo un invito di papa Benedetto XVI alla fine del 2009, è nata l’idea del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, di dare vita a uno spazio di incontro e confronto sulla fede chiamato, appunto, «Cortile dei Gentili» . Un dialogo che non si terrà in un luogo fisso come un tempo usava ma percorrerà le città del mondo, incontrando le diverse culture. Cercherà risposte alle domande della fede, alimenterà una reciproca conoscenza tra credenti e non credenti. Ravasi invita ogni uomo e punta sul dialogo: affida ad esso le speranze, gli approfondimenti, nonché la creazione di nuovi contesti per meglio comprendere i problemi attuali. Del resto, Platone consegnò ai dialoghi il suo pensiero; ora si guarda con spirito aperto a questa forma di comunicazione per scoprire idee e opinioni condivise, allargare le comuni consapevolezze. Il cardinale nota: «In ogni incontro c’è già un valore» . Non è possibile scrivere in questo momento un programma definitivo del progetto riguardante il «Cortile dei Gentili» , perché le richieste stanno giungendo da ogni parte del mondo. Possiamo soltanto ricordare che codesta odissea di ragione e fede comincerà a Bologna il prossimo 12 febbraio; il 24 e 25 marzo sarà la volta di Parigi, ma già si parla di Tirana, Praga, Stoccolma, Ginevra, Mosca, Chicago, senza contare le richieste che stanno giungendo dall’Asia e dal Sud America. Perché Bologna? Ravasi chiarisce: «Cominceremo il nostro viaggio nella più antica università d’Europa, con una grande tradizione laica. Sabato prossimo sarà la vera e propria "prolusione"di un itinerario di dialogo e di ricerca dalle tappe molteplici. L’idea nasce quasi in connessione, in concorrenza con l’evento di Parigi, in particolare con la manifestazione della Sorbona» . Il rettore, Ivano Dionigi, precisa che «un’università pubblica e laica che ospita il confronto tra il credere e l’intelligere non abdica alla propria autonomia, ma assolve la funzione di istituzione vocata, per natura e storia, alla formazione e alla ricerca» . Il suo intervento e quello del cardinale apriranno, poco dopo le 10, i discorsi dei primi quattro «relatori» del «Cortile» : lo scienziato Vincenzo Balzani, il costituzionalista Augusto Barbera, i filosofi Massimo Cacciari e Sergio Givone. Saranno intervallati da letture dell’attrice Anna Bonaiuto (tra l’altro, ha lavorato con Pupi Avati, Liliana Cavani e Nanni Moretti), che farà rivivere brani di Agostino (Confessioni), Pascal (dei Pensieri la parte sulla «Scommessa» ) e Nietzsche (Così parlò Zarathustra). Sottolinea Ravasi: «L’iniziativa sarà aperta a tutti: studenti, docenti e anche a coloro che desiderano percorrere i sentieri di altura della ricerca sia filosofica sia teologica, sia razionale sia di fede. L’universitas torna a raccogliere ogni disciplina, compresa la teologia, e si rivolge all’agorà, alla comunità, a chi cerca e si interroga» . — per l’eminente uomo di Chiesa questo è il primo di due passi da intraprendere: «Mi sono ora rivolto all’orizzonte alto della cultura ed è auspicabile che sia l’inizio di un percorso di confronto nell’ambito accademico o, se si vuole, in quello del sapere più qualificato e specialistico; il secondo, invece, è delicato, decisamente arduo: sarà un confronto serrato, anche aspro, con la tipologia dominante della non credenza attuale che è quella nazional popolare dell’indifferenza, dell’amoralità, dello sberleffo ateistico» . Inoltre Ravasi chiarisce i termini del primo incontro: «Il rettore e io non faremo, ovvero non daremo il là; vorrei ribadire che la tonalità del dibattito è lasciata completamente libera. Noi presenteremo soltanto la ragione di indole culturale che esige un simile confronto, perciò non sarà mai la finalità dell’incontro strettamente apologetica o volutamente laica, ma quello che si intende avviare è un dibattito aperto, un dialogo sulle letture differenti delle questioni umane fondamentali» . Chiediamo degli esempi. In tal caso il cardinale mette in campo parole pesanti, che stanno al centro dell’attenzione di scienza e teologia, oltre che in secolari controversie filosofiche: «Vita, morte, oltrevita, bene e male, amore e dolore, verità e relativismo, trascendenza e immanenza» . Aggiunge: «Ovviamente ci sarà un’attenzione per le questioni bioetiche, in modo da essere sempre attenti ai progressi delle scienze ma al tempo stesso anche alla complessità del valore della vita e della persona, che restano il punto di riferimento sia per la teologia che per la filosofia» . Il «Cortile dei Gentili» combatte la sonnolenza dello spirito, quel genere di torpore — per fare un esempio— alimentato da quell’editoria che fa notizia ma è inutile alla cultura, cara a coloro che confondono il messaggio con il massaggio. È iniziativa che ribadisce il valore della fede e ricorda con Dostoevskij l’impossibilità di vivere pienamente senza riflettere su Dio. Ci accomiatiamo da Ravasi chiedendogli cosa si aspetta, come teologo, da questa iniziativa. «Con essa — risponde — attendo, oltre quel dialogo ricordato, un aiuto per coloro che desiderano uscire da una concezione povera del credere. Vorrei invitare il laico a non considerare la teologia un reperto archeologico o mitologico, perché ha una sua dignità "scientifica"; mentre il credente comprenda le ragioni profonde della teologia e non la veda come ostacolo: la intenda come un sussidio, una componente fondamentale per percorrere le strade della fede» .

La Stampa TuttoScienze 9.2.11
Il primo esodo dei Sapiens è scritto con asce e frecce
“Lasciarono la culla africana molto presto, già 125 mila anni fa”
Le orgini dell’umanità
di Gabriele Beccaria


La prova nella Penisola Arabica Dal sito di Jebel Faya emergono utensili uguali a quelli dei «fratelli» dell’Etiopia

"UNA SAVANA STERMINATA Si estendeva fino al Medio Oriente ed era punteggiata da boschi, fiumi e laghi"

Sono stati soprannominati i «Sapiens d’Arabia» e l’enfasi non è affatto fuori posto. Questi progenitori senza volto potrebbero riscrivere un capitolo-chiave della storia, quando la nostra specie ha lasciato la culla africana e ha cominciato a esplorare gli altri continenti. Fu quella l’epoca eroica della globalizzazione primigenia.
E’ proprio il momento a fare la differenza. Nella sempre rovente controversia che tra gli esperti è nota come «out of Africa» una scoperta riporta clamorosamente indietro la migrazione decisiva. Non 60 mila anni fa, come recita la teoria ortodossa, ma almeno 125 mila. Una capriola vertiginosa, testimoniata da un sito che si chiama Jebel Faya e che si trova negli Emirati Arabi Uniti, non lontano dallo stretto di Hormuz.
Invece che mucchietti di ossa fossilizzate, le prove sono esempi eloquenti di primordiale tecnologia, emerse da una roccia crollata su quello che doveva essere un rifugio. Si tratta di almeno 500 frammenti di amigdale piccole asce di pietra senza manico oltre a raschietti e punte di freccia. La prima sorpresa è che la tecnica di luminiscenza li ha datati a 125 mila anni fa e la seconda è che il «set» appare come un clone degli utensili usati dai primi umani nell’Africa orientale. Niente di sofisticato, anzi. Il team, guidato da Hans Peter Uerpmann della Eberhard Karls University di Tubinga, li giudica strumenti rozzi, ma molto efficaci, figli di una tecnica che rimase immutata per millenni e millenni.
Basta uno sguardo alle mappe e oggi Jebel Faya spicca come un’anomalia geografica, relegata in una delle estremità orientali della penisola arabica. Oltre 2 mila chilometri di deserto e di mezzo c’è uno dei più terribili, il sinistro Rub’ al Khali lo separano dal corridoio liquido del Mar Rosso. Ma ai tempi del «low tech» litico i paesaggi erano completamente diversi, come se fossero appartenuti a un altro mondo. La fine della glaciazione aveva cosparso le terre che oggi chiamiamo Etiopia e Arabia Saudita di boschetti e fiumi e anche di molti laghi. Una sterminata savana, decisamente più lussureggiante dei rimasugli attuali, si estendeva a Ovest e a Est e ulteriore colpo di scena il livello dei mari era più basso di quello di oggi, addirittura di un centinaio di metri.
Ecco spiegato sottolinea l’articolo su «Science» uno dei tanti misteri sulle nostre origini. Se l’invasione delle dune di sabbia era ancora uno scenario futuribile, il Mar Rosso assomigliava a una pozzanghera stagnante e si poteva facilmente attraversare con una zattera oppure, in diversi tratti, addirittura a piedi. Non fu necessario risalire la Valle del Nilo, affacciarsi in Medio Oriente e inoltrarsi a Sud, come pensava qualche archeologo. Sarebbero bastate buone gambe e una volontà di ferro (doti che ai Sapiens del tempo non mancavano) per sfruttare il ponte naturale tra le terre primordiali e le terre promesse: lo stretto di Bab al-Mandab, che oggi separa il corno d’Africa dall’Arabia, era così risicato da non esistere nel senso che i geografi gli danno nel XXI secolo. La linea delle coste confondeva Ovest ed Est, creando un’unica e accogliente mega-piattaforma.
E’ probabile che le coraggiose tribù di esploratori non si siano nemmeno rese conto di lasciarsi alle spalle un mondo per colonizzarne uno nuovo. I panorami continuavano ad assomigliarsi, con monotonia, chilometro dopo chilometro. Fino all’arrivo al sito di Jebel, che ipotizzano gli studiosi potrebbe essere stato utilizzato come trampolino di lancio per ulteriori migrazioni a lungo raggio, nella Mezzaluna Fertile e in India. «Adesso queste scoperte dovranno stimolare una nuova analisi dei modi e dei mezzi con cui noi umani siano diventati una specie globale ha sottolineato uno dei ricercatori, Simon Armitage della University of London -. Quei gruppi, ormai anatomicamente moderni, si sono evoluti in Africa circa 200 mila anni fa e poi hanno popolato il resto del mondo». Non ci sono dubbi, secondo Uerpmann: «Sono loro i nostri antenati».
Così si butta all’aria una consolidata cronologia del popolamento della Terra e si risolve, per esempio, l’enigma delle prime tracce dei Sapiens in Australia: se l’uscita dall’Africa deve essere retrodatata a 125 mila anni fa, ha senso lo sbarco in Australia di quelli che sarebbero stati chiamati aborigeni intorno a 50 mila anni fa. Anche i loro predecessori devono essere partiti dall’Arabia o, più precisamente, da una valle oggi perduta l’Ur-Schatt River Valley che ora giace in fondo al Golfo Persico: prima dell’innalzamento dei mari, conclusosi 8 mila anni fa, era una distesa fertile grande almeno quanto la Gran Bretagna, sostiene uno studio apparso su «Current Anthropology». Poi arrivò un diluvio.

Repubblica 9.2.11
Nell´ultimo libro di Paola Mastrocola la sconfitta degli insegnanti
Perché ormai i nostri ragazzi pensano che studiare sia inutile
di Pietro Citati


Quando, l´estate, vado al mare, prendo volentieri l´ombra vicino ai capanni dove giocano i bambini. Ci sono bambini di due, tre, quattro, cinque, sei, sette anni: qualcuno viene da Torino, altri da Firenze, da Prato, da Padova, da Trieste; e le voci mescolano e confondono i loro accenti.
Mi piace ascoltare quel fitto o fittissimo chiacchiericcio infantile, interrotto da esclama zioni, grida, urla, pause, racconti. Fino a sette anni, i bambini parlano una lingua corposa, ricca, divertente: migliore di quella degli adulti che, lì vicino, fanno pettegolezzi o dicono barzellette. Poi vanno a scuola, ascoltano i discorsi dei professori e dei presidi, e la loro lingua si degrada.
Paola Mastrocola, che dedica un piacevolissimo libro alla scuola italiana (Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Guanda, tra qualche giorno in libreria), parla di rado delle chiacchiere infantili sulla spiaggia. C´è una sola condizione che le interessa: il ragazzo o la ragazza che frequentano le medie o la prima classe del liceo scientifico. Per loro, ha una passione insaziabile. Ogni mattina, alle sette e trenta, le ragazze si preparano per la scuola; jeans attillati, scarpine con un po´ di tacco, cinturina di lamé, orologino Armani, brillante minutissimo alla narice destra, piccolo tatuaggio alla caviglia. Mezz´ora dopo, una massa scura occupa parlottando e fumacchiando la nebbia fitta che avvolge le scuole di Torino. I ragazzi e le ragazze hanno gli occhi cerchiati e tristi, il naso pieno di sonno, le spalle curve, le braccia penzolanti, lo sguardo perduto nel nulla, la bocca semiaperta, i capelli stanchi. Sembrano posseduti dalla noia.
Nessuno, o quasi nessuno tra quei ragazzi perduti nella nebbia, ha voglia di andare a scuola. Nessuno si vergogna di questo rifiuto. Tutti detestano leggere o scrivere o ascoltare le lezioni. Qualche volta, basta ascoltarli per cinque minuti. Il lessico umano è immenso, ma i ragazzi ne conoscono pochissime parole: usano termini impropri, pasticciano, confondono ortografia e punteggiatura. Non sanno pensare. Non riescono a distribuire le idee e le sensazioni secondo una architettura. Elaborare i concetti e disporli nel tempo sembra, a ciascuno di loro, un´impresa disperatissima. Discorrono in modo vuoto e spento, con parole senza vita, senza agilità e movimento.
Paola Mastrocola ama i suoi ragazzi perennemente annoiati, e in quei lunghi sbadigli percepisce delusioni, desideri, speranze. Quando guarda verso le cattedre, si accorge che i professori non posseggono il dono di insegnare. Nel mondo e nei libri, non esiste quasi nulla di noioso: tutto è misterioso, concentrato, enigmatico, affascinante. Basta saper capire e interpretare: ma i professori lasciano spento ciò che era spento, morto ciò che era morto. Sopra il loro capo, ci sono i volti dei presidi: sopra quello dei presidi, i sottosegretari; sopra quello dei sottosegretari, l´intelligenza sovrana dei Ministri-Riformatori. I Ministri hanno pretese grandiose, che si possono riassumere in pochissime parole: smantellare, mattone dopo mattone, la scuola: distruggere in pochi anni, o pochi mesi, gli studi, la lingua, il lessico, i significati, i vocabolari. Bisogna ammettere che ci sono riusciti. Oggi, all´inizio del febbraio 2011, rimane soltanto una vaga sembianza di quella che fu la scuola italiana.
***
Nel 1943, avevo tredici anni, come gli alunni sonnacchiosi di Paola Mastrocola, e attraversavo le stesse esperienze. Non andavo mai a scuola: non studiavo né il latino né il greco. I bombardamenti di Torino avevano costretto la mia famiglia a rifugiarsi in un´immensa casa in Liguria, con stanze altissime, scale ombrose, soffitte che accoglievano uccelliere vaste come saloni. In quel piccolo paese di mare, vivevo quasi solo. La scuola del capoluogo vicino era chiusa perché gli aerei inglesi mitragliavano le strade: i miei due migliori amici erano stati fucilati durante un rastrellamento tedesco; e qualcosa nel mio contegno teneva lontani da me i ragazzi del paese, coi quali avrei voluto giocare a pallone.
Tutti i libri della mia casa di Torino erano finiti in una cucina abbandonata: identica a quella del Castello di Fratta. Mio padre li aveva sistemati a caso dentro vecchie librerie o lasciati dentro le casse. Dovunque mi avventurassi e esplorassi, l´immensa casa grondava di libri. Un avo aveva nascosto il suo Buffon, il suo Voltaire, la sua Encyclopédie dentro una cassapanca della soffitta: mia nonna aveva raccolto i romanzi della sua Bibliothèque rose, pubblicazioni audaci del Settecento, libri di spiritismo e di rivendicazioni femministe in una madia della stanza da pranzo: dal ripostiglio di cucina emergevano le storie di battaglia, gli studi di tattica e di strategia, che mio nonno militare aveva amato: nelle stanze da letto qualcuno aveva disseminato i fascicoli di un feroce romanzo antimassonico; mentre nel salotto facevano pompa di sé i volumi delle mediocri glorie letterarie della famiglia. Vivevo rinchiuso nella cucina-biblioteca, nella soffitta-biblioteca, nei ripostigli-biblioteca: in tutti gli angoli di quell´alveare ronzante di libri.
Fino allora avevo letto soltanto i romanzi di Salgari. All´improvviso, mi misi a leggere tutti i libri di casa: senza scelta né discernimento, perché la mia curiosità senza forma prendeva tutte le forme. Shakespeare nella versione ottocentesca di Andrea Maffei, i libri rosa di mia nonna, i racconti delle battaglie russo-giapponesi che mio nonno compilava per la Rivista militare, le meravigliose descrizioni di uccelli nella Histoire naturelle di Buffon, le voci dell´Encyclopédie sulle arti, la Storia delle crociate affidata alla penna fantastica di Gustave Doré. Non smettevo mai. Appena sveglio, scendevo in cucina: passavo tra i libri la mattina e il pomeriggio; e la voce di mia madre mi chiamava inutilmente a cena. Quelle letture mi hanno segnato per sempre: malgrado gli anni, sono rimasto un dilettante, a casa in tutti i luoghi e in nessun luogo. La biblioteca domestica, frutto casuale della sedimentazione del tempo, figlia delle generazioni, luogo aperto all´invincibile curiosità, è la più formativa che esista. Con tutte le sue lacune e stranezze, eccita la passione del libro molto più della biblioteca scolastica, dove i libri sono scelti e registrati in ordine, e sopravvivono soltanto i trionfatori della storia e della letteratura.
Finì la guerra. Giunse il 1945: abbandonai la biblioteca della casa al mare: ritornai a Torino; e, insieme ai miei compagni del D´Azeglio, cominciai a passeggiare lungo il Po, a discorrere di tutto – monarchia, repubblica, storia, filosofia, famiglia, scuola, scuola. Su tutto, avevo idee e contro-idee. Nel 1946 scrissi uno sciocchissimo articolo sul giornale scolastico. Sostenevo che bisognava smettere – per sempre – di imparare le poesie a memoria. Niente più Infinito, Chiare, fresche e dolci acque, terzo canto del Paradiso. Era una cosa meccanica: un´esperienza per parassiti; fatta apposta per quei bambini, che avevamo smesso di essere. Ero orgogliosissimo delle mie convinzioni.
Qualche anno dopo, mi resi conto che avevo torto. Imparare le poesie a memoria, richiamare e rispecchiare le parole, andare avanti e indietro, sillabare e risillabare, era un gioco bellissimo. Se dicevo e ripetevo tra me: Sedendo e mirando, interminati spazi: oppure herba et fior che la gonna leggiadra ricoverse; oppure Qual per vetri trasparenti e tersi o ver per acque nitide e tranquille: – la mente variava e arricchiva il vocabolario, rafforzava la scrittura mentale, imparava a pensare e a ripensare. Oggi, sono pieno di rimpianti. Mi ricordo tutti i versi che, per arroganza giovanile, ho dimenticato, e penso a quello che avrei potuto essere e non sono.
***
Malgrado la passione di Paola Mastrocola, temo che il suo libro sia troppo ottimista. In questi anni di presunte riforme, non assistiamo soltanto al disastro (certo più grave) della scuola italiana, ma a quello di tutta la scuola occidentale. In Gran Bretagna, il governo ha reso facoltativo, nel programma dei ragazzi più adulti, lo studio delle lingue straniere: questo studio – sostiene il Ministro – non serve più a niente, visto che, nel mondo, tutti letteralmente tutti, parlano e scrivono inglese. Per una volta, il ministro inglese è più sciocco di quello italiano: poiché immagina che la conoscenza di un´altra lingua sia soltanto un fatto utilitario: mentre arricchisce il lessico, la fantasia e l´intelligenza di chi la apprende. Il secondo esempio è ridicolo. Da qualche anno, gli studiosi di storia medioevale non conoscono più il latino di Gregorio di Tours o di Liutprando o di san Francesco. Anche questa conoscenza, suppongo, viene considerata inutile. Non è necessario conoscere un testo medioevale latino: bastano le traduzioni.
Un evento ancora più grave minaccia l´intera società occidentale. Le fabbriche americane o inglesi o francesi o italiane non producono più automobili o scarpe in Europa: le producono in Cina o in India; mentre l´Occidente è rimasto la sede della pura attività finanziaria ed economica. Così, in pochi anni, l´Europa ha perduto una vocazione essenziale: quella di costruire una seggiola, o un tavolo, o una lavatrice, o un computer. Non sappiamo più leggere, né scrivere, né conoscere le lingue straniere, né comporre un lavoro qualsiasi. Un tempo, l´Occidente era il luogo dell´esperienza e dell´avventura. Oggi, siamo diventati quello del niente e del vuoto.