venerdì 11 febbraio 2011

l’Unità 11.2.11
«Da Berlusconi parole eversive»
Bersani chiama il Pd in piazza
di Simone Collini


Finocchiaro e Franceschini firmano l’appello per chiedere le dimissioni del presidente del Consiglio: «Vuole uccidere la libertà del nostro Paese soltanto per salvare se stesso»

Il leader del Pd attacca il premier e chiede unità per voltare pagina sia all’opposizione che a chi nella maggioranza vive con disagio questa fase. Nel fine settimana mobilitazione straordinaria con tutti i big in campo.

«Parole eversive». Pier Luigi Bersani per un giorno voleva evitare di commentare le uscite del premier e le operazioni dei suoi per garantirgli l’immunità. È rimasto in silenzio «per evitare di finire sullo stesso piano di chi la spara più grossa» di fronte alle manovre del governo contro le intercettazione e all’annuncio di ricorso alla Corte europea per i diritti contro lo Stato italiano, di fronte alla presenza del Guardasigilli Alfano alla riunione del Pdl in cui sono stati attaccati i magistrati milanesi e all’emergere dei dettagli delle proposte di legge per garantire al premier un altro scudo processuale mediante la modifica dell’articolo 68 della Costituzione.
LETTERA AGLI ITALIANI ALL’ESTERO
Su ognuna delle questioni ha comunque lasciato che fossero parlamentari e altri dirigenti del Pd a in-
tervenire, e ha passato la giornata tra colloqui telefonici (con Fini e Casini sono ormai all’ordine del giorno) e la stesura di una lettera spedita ai circoli del Pd all’estero per raggiungere quanti più possibili italiani nel mondo e invitarli a firmare la petizione per le dimissioni di Berlusconi: «Proprio voi, oggi più che mai, state vivendo sulla vostra pelle le conseguenze sull’immagine del nostro Paese che hanno avuto le vicende personali del Presidente del Consiglio, vicende che hanno trovato ampio spazio e risonanza sui media internazionali si legge nella lettera appena partita Tutti coloro che, anche nel centrodestra all’estero, hanno a cuore il buon nome dell’Italia e i suoi interessi fondamentali, devono chiedere a Berlusconi di dimettersi, togliendo il Paese dall’imbarazzo e dal disagio non più sopportabile in cui l’ha costretto».
DA BERLUSCONI PAROLE EVERSIVE
Ma quando in serata ha saputo delle parole pronunciate da Berlusconi nell’intervista a Ferrara che verrà pubblicata sul “Foglio” di oggi, ha deciso di intervenire non solo per condannare l’uscita del premier, ma anche per lanciare un appello alle forze di opposizione e a quanti nella stessa maggioranza vivono con disagio i continui attacchi alle istituzioni. «Se, come dice Berlusconi, le sue dichiarazioni Al Foglio non sono uno sfogo, allora si tratta di parole semplicemente eversive. Se nella maggioranza c’è qualcuno che ha a cuore le sorti del Paese, dica qualcosa perché ci si sta avvicinando rapidamente alla soglia di allarme. Si pronunci nel Paese chiunque ha la possibilità di far sentire la sua voce». Non solo. Ora più che mai «tutte le opposizioni hanno il dovere di rinserrare le fila, di costruire un’iniziativa comune e, come chiediamo da tempo, di rivolgersi agli italiani stanchi e turbati con la generosità di una proposta nuova e unitaria».
FINE SETTIMANA IN PIAZZA
Il Pd si prepara a un fine settimana di mobilitazione straordinaria, perché domenica tutti i dirigenti del partito parteciperanno alle manifestazioni in difesa della dignità della donna (Bersani sarà a Roma) e perché da sabato saranno allestiti in tutte le principali città italiane tremila gazebo (e tutti i big saranno presenti) per raccogliere le firme per l’appello «Berlusconi dimettiti». Il primo milione di sottoscrizioni è stato abbondantemente superato e, dice il responsabile Organizzazione del Pd Nico Stumpo, l’obiettivo dei dieci milioni verrà sicuramente raggiunto «anche perché c’è una risposta positiva anche da chi non è un elettore del Pd». Le dimissioni del premier sono la condizione per andare al voto, e se alla richiesta di urne anticipate si unisce anche Pier Ferdinando Casini, il vicesegretario del Pd Enrico Letta rilancia la proposta di presentarsi davanti agli elettori con una coalizione ampia, che vada dall’Udc alla Sinistra e libertà di Nichi Vendola, di cui Bersani potrebbe essere il candidato premier.
FIRMANO I VERTICI PARLAMENTARI
A firmare la petizione per arrivare alla dimissioni di Berlusconi ieri sono stati anche Anna Finocchiaro e Dario Franceschini, arrivati di buon’ora al banchetto allestito in una piazza nel cuore di Roma. I capigruppo del Pd al Senato e alla Camera hanno ribadito la richiesta di dimissioni da parte di un premier che sta mettendo a rischio la tenuta istituzionale e l’immagine dell’Italia nel mondo. «In qualsiasi altro paese o in qualsiasi altro periodo della storia italiana, un leader politico avrebbe capito quando il momento richiede un passo indietro dice Franceschini per il suo paese, per la sua coalizione, almeno per il suo partito. Questo non avviene perché Berlusconi da sempre mette il proprio interesse personale davanti agli interessi del paese». Quanto al ricorso alla Corte di Strasburgo contro lo Stato per violazione della privacy, il capogruppo del Pd alla Camera si è limitato a definirla un’ipotesi che «fa ridere i polli», e anche «una stupidaggine che non sta né in cielo né in terra». Duro anche il commento di Finocchiaro di fronte a un premier che è pronto a «uccidere la libertà dell’Italia per salvare esclusivamente se stesso» e che con l’attacco alla magistratura e le leggi per garantirsi l’immunità «vuole sacrificare sull’altare dei propri processi la funzionalità della giustizia, la lotta alla criminalità, la sicurezza dei cittadini».

il Fatto 11.2.11
“Cercano lo scontro tra poteri dello Stato”
Orlando (Pd) denuncia il progetto eversivo della maggioranza
di Wanda Marra


“Il comunicato emanato dall'ufficio di presidenza del Pdl, ribadendo le tesi complottistiche a cui la destra ci ha abituato, presenta toni, sintassi e lessico più vicini a quelli utilizzati da un'organizzazione terroristica che non a quelli che dovrebbero essere propri del principale partito di governo del Paese". Così Andrea Orlando, presidente forum Giustizia del Pd, interveniva mercoledì. Il comunicato in questione - per intendersi - è quello in cui si definisce la magistratura   “avanguardia rivoluzionaria”. E non si può dire che Berlusconi ieri abbia abbassato i toni, visto che ha parlato di “inchieste farsesche degne della Ddr”.
Onorevole Orlando, un progetto eversivo (come dice anche Bersani) da parte di Berlusconi?
Quando a margine di un Consiglio dei ministri si pensa di organizzare manifestazioni contro la magistratura oppure di fare causa allo Stato, nei fatti siamo allo sfregio costituzionale. Si assiste a un metodo di intimidazione preventivo: dire che chi sta aprendo un procedimento penale contro il presidente del Consiglio in realtà sta portando avanti un progetto eversivo di abbattimento del governo è un modo per delegittimare la Magistratura e cercare uno scontro tra poteri dello stato.
Ha letto le notizie sui tentativi di sottrarre i fascicoli su Ruby al Tribunale di Milano?
Se fossero confermate, indicherebbero che gli interessati sapevano dell’inchiesta ancor prima dell’inchiesta.
Dove si sta andando a finire? 
Mi auguro ci si fermi. Spero che alcuni dei tanti che si proclamano moderati nel Pdl faccia ragionare la propria maggioranza.
L’opposizione però non sembra essere particolarmente incisiva. C’è un modo per portare Berlusconi alle dimissioni?
Stiamo lavorando per costruire un’alternativa. Abbiamo contrastato le leggi ad personam. Rivendico con orgoglio il fatto che la maggioranza non sia riuscita a varare il processo breve, né la legge sulle intercettazioni.
A proposito di intercettazioni, ieri il Ministro Alfano ha sostenuto di non aver mai proposto un decreto sulle intercettazioni....
Se è così ritiri i disegni di legge in itinere nei due rami del Parlamento
A quale alternativa pensate?
Stiamo cercando di far crescere l’opposizione nel paese, di mettere insieme un’alleanza che tenga conto dell’emergenza.
Da Casini a Vendola? Con o senza Di Pietro?
Con quelli che aderiscono, partendo da punti programmatici precisi   da offrire a tutte le opposizioni. Verificando anche la possibilità di un governo costituente. Mi auguro che l’escalation in atto dia la forza ad altri pezzi della maggioranza di prendere le distanze da Berlusconi chiuso nel suo bunker. Il referendum tra Repubblica e Monarchia questo paese l’ha già fatto una volta.
La convince l’ipotesi di Saviano leader? O ha un altro nome da proporre?
Non è il momento di fare nomi.
Che cosa pensa della decisione della Rai di non mandare in onda le scene finali del Caimano di Nanni Moretti (quelle in cui dopo la condanna del Cavaliere si evoca una sorta di guerra civile)?
Mi sembra un grande segno di nervosismo. In una democrazia con i processi fisiologici corretti non esisterebbe proprio la possibilità di censurare un film.
È possibile che si arrivi a una situazione come quella prefigurata dalla parte finale del film?
Credo di no. Penso che nel nostro Paese ci siano degli anticorpi molto forti e la capacità di reagire.

il Fatto 11.2.11
Il Quirinale da solo non basta
di Lorenza Carlassare


Un governo “provvisorio” per affrontare questioni improrogabili (la legge elettorale innanzitutto) è solo in astratto la soluzione per uscire da una situazione disastrosa. I normali rimedi previsti nelle democrazie costituzionali non riescono infatti a funzionare nella realtà politicamente e moralmente degradata che stiamo vivendo. I rimedi per uscire dalle crisi prevedono due passaggi, il primo nelle mani delle Camere, il secondo del presidente della Repubblica: se il governo non è in grado di funzionare, un voto di sfiducia lo costringe alle dimissioni aprendo la strada alla formazione di un governo nuovo da parte del presidente. Questo cammino è oggi impedito da una squallida farsa: una maggioranza inesistente, ‘acquistando’ una manciata di voti di parlamentari ‘responsabili’, impedisce l’approvazione della sfiducia, bloccando una situazione insostenibile. Non ci sono i numeri per sfiduciare   il governo, né per consentirgli un’azione politica efficace. I meccanismi costituzionali risultano inservibili perché il gioco è condotto con dadi truccati. Se il primo passaggio si rivela impossibile, ogni uscita è inesorabilmente preclusa?
QUI S’INSERISCE l’altro lato della vicenda, forse il più fosco, che ne rende insostenibile il perdurare. Non è soltanto in causa una maggioranza sfaldata e insufficiente: l’insufficienza è anche morale, vorrei dire ‘civile’, e rende incompatibile la persona di Berlusconi con la carica istituzionale ricoperta. Ma il presidente del Consiglio rifiuta di dimettersi; anche quest’uscita, scontata in qualsiasi democrazia normale, di fatto è preclusa. È guardando ad entrambi i fatti e alla loro ‘peculiarità’ che va valutato, in concreto, il ricorso   all’estrema soluzione: lo scioglimento anticipato delle Camere. È la via indicata da Eugenio Scalfari nell’editoriale di domenica scorsa; ma, gli si obietta, il decreto di scioglimento deve essere controfirmato dal presidente   del Consiglio. Come se ne esce? La Costituzione si limita a dire che il presidente della Repubblica può sciogliere le Camere “sentiti i loro presidenti” (art. 88).
Nessuna difficoltà, sembrerebbe. La norma però va letta nel quadro del sistema parlamentare e del generale principio dell’art. 89 “Nessun atto del presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità”. La controfirma ha un valore puramente formale, o il governo può rifiutarla? La risposta non è del tutto sicura. La controfirma assume “un diverso valore a seconda del tipo di atto” ammette anche   la Corte costituzionale seguendo l’opinione dei giuristi (sent. 200/2006 sul potere di grazia). Ad essa va “attribuito un carattere sostanziale quando l’atto sottoposto alla firma del capo dello Stato sia di tipo governativo e, dunque, espressione delle potestà che sono proprie dell’esecutivo, mentre a essa deve essere riconosciuto valore soltanto formale quando l’atto sia espressione di poteri propri del presidente della Repubblica, quali – ad esempio – quelli di inviare messaggi alle Camere, di nomina di senatori a vita o dei giudici costituzionali. A tali atti deve essere equiparato quello di concessione della grazia”. 
Negli atti ‘presidenziali’, dunque, la decisione finale è assunta dal capo dello Stato, la controfirma è dovuta. Lo scioglimento delle Camere è fra questi? Alcuni costituzionalisti, soprattutto in passato, ritenevano di sì; per altri invece rientrerebbe in un terzo tipo (‘atto complesso’) che richiede l’accordo di entrambi. Mi è sempre parsa preferibile questa posizione: inammissibile   affidare al solo presidente, organo politicamente irresponsabile, una decisione intensamente politica, legata a valutazioni contingenti, non giudicabile con parametri oggettivi. La mia convinzione si è rafforzata dopo la presidenza di Cossiga le cui decisioni, legate agli umori del momento, provocarono numerosi appelli di costituzionalisti preoccupati per l’equilibrio costituzionale.
HO SEMPRE ritenuto che anche la maggioranza, qualsiasi maggioranza, vada tutelata, e dunque il governo, che della maggioranza è espressione, debba aver voce in una decisione grave che può metterne in   gioco la sorte, e che pertanto la controfirma al decreto di scioglimento abbia valore ‘sostanziale’. Le interpretazioni diverse dell’art. 88 portano a differenti esiti: se lo scioglimento è ‘atto presidenziale’ l’eventuale rifiuto di controfirma autorizzerebbe il presidente a ricorrere alla Corte costituzionale, la quale, purché sussistano ragioni valide, darebbe ragione al primo. Con la teoria dell’atto complesso, invece, il rifiuto governativo – accertata la validità delle ‘motivazioni’ del rifiuto – dovrebbe essere considerato legittimo. La situazione concreta ha comunque un ruolo decisivo, e certamente le tipologie della dottrina non vanno intese in un modo rigido   , incompatibile con l’elasticità dei rapporti costituzionali che sono pur sempre rapporti politici. Anche chi accede all’idea del necessario accordo fra i due, sposta comunque l’accento sul potere del capo dello Stato (ad esempio Paladin). Ed è sicuro per tutti che se è il presidente ad opporsi, lo scioglimento non si può fare. Nelle attuali circostanze s’innestano peculiarità tali da spostare i termini del discorso? Non siamo in una situazione ‘normale’ dove la decisione di sciogliere si basa su considerazioni soltanto ‘politiche’ e perciò non può essere lasciata al solo capo dello Stato. 
Urgenze diverse s’incrociano. A un blocco che non trova uscita nelle vie costituzionalmente previste si aggiunge l’esigenza di ridare alle istituzioni la dignità perduta e di porre fine a contrasti indecorosi al limite della crisi. Quella del capo dello Stato non sarebbe una valutazione soltanto ‘politica’.
Due gravi motivi, oggettivamente rilevabili, la sosterrebbero: rimettere in moto le istituzioni inceppate è fra i suoi compiti istituzionali (il governo con la sua maggioranza risicata non ‘governa’ e i rimedi costituzionali sono inutilizzabili); chiudere un’inedita situazione di degrado e lotta fra ‘poteri’ mai prima verificata. I dubbi, di certo, non mancano: ma è necessario, almeno, rifletterci.
 
La Stampa 11.2.11
Le tensioni con la Consulta potrebbero costare caro
di Marcello Sorgi


Non doveva proprio capitare anche questa a Berlusconi, di ricevere con qualche mese di ritardo, ma tutta insieme, la reazione dei giudici della Consulta agli attacchi a cui s'era lasciato andare un numero infinito di volte, da quando, ormai un anno e mezzo fa, la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo il lodo Alfano, rimettendo in moto la macchina dei processi contro il Cavaliere.
Da allora in poi è stato un lento, ma neppure troppo, rotolamento verso la morsa in cui il presidente del consiglio s'è ritrovato stretto in questi giorni, tra il caso Ruby con le accuse di concussione e sfruttamento della prostituzione, e i tre processi che dal 28 febbraio lo attendono a Milano. La breve parentesi del legittimo impedimento, parzialmente annullato anche quello, è stata una specie di libertà provvisoria, per altro usata dal premier per rimettersi nuovamente nei guai.
D'altra parte il tono usato dal presidente De Siervo ieri lascia poche speranze: trattandoli da manutengoli della sinistra, Berlusconi ha offeso i giudici della Consulta, due terzi dei quali, come si sa, non provengono dal Parlamento, essendo scelti direttamente dal Capo dello Stato o tra i capi delle diverse magistrature. Ma anche per quelli di nomina politica i requisiti e le alte competenze giuridiche richiesti sono gli stessi e il sistema di elezione è tale da rendere indispensabile un accordo tra maggioranza e opposizione. Di qui l'irritazione dei supremi giudici a cui De Siervo ha dato voce ieri.
Il nuovo attrito istituzionale che ne è generato ha un prezzo particolarmente alto per Berlusconi. La Consulta infatti, nelle strategie dei difensori del premier, rappresenta l'ultima possibilità per cercare di evitare il processo con rito immediato chiesto dalla Procura di Milano e tentare di ricondurlo al Tribunale dei ministri, da dove, grazie a un nuovo voto parlamentare, potrebbe essere portato in una specie di limbo. Anche se non c'è alcuna ragione per temere che i giudici costituzionali si lascino influenzare dagli attacchi ricevuti, l'uscita del presidente De Siervo lascia trapelare una non proprio felice disposizione a occuparsi dei frequenti problemi giudiziari del premier. E se la richiesta di investire il Tribunale dei ministri dovesse essere respinta dalla Corte, Berlusconi dovrebbe rassegnarsi a comparire a Milano, per rispondere delle accuse infamanti che il caso Ruby gli ha riversato addosso e per ricevere in poco tempo, data la proceduta abbreviata, una sentenza che non promette niente di buono.

Corriere della Sera 11.2.11
Ora interroghiamoci (anche noi uomini) sul caso Ruby
di Paolo Franchi


L’ appello a partecipare alle manifestazioni di domenica fa discutere le donne, e le divide, come non succedeva da decenni. Secondo il direttore dell’Unità, Concita De Gregorio, «sostenitori e fiancheggiatori dell’Arcore style» cercano di trarne partito, nella malcelata speranza che si scateni «una rissa da pollaio» . Non è certo il caso del confronto aperto sul Corriere. In generale, può anche darsi. Resta il fatto, però, che questa discussione, e anche queste divisioni, già rappresentano, in tempi di desolazione del dibattito pubblico, una ricchezza riscoperta di cui dovremmo tutti essere grati alle donne. Tutti. Quindi anche, e soprattutto, noi uomini, che ci interroghiamo così poco, e sulla scorta di categorie così mediocri, sulle questioni sollevate dal Rubygate, quasi che dalle notti di Arcore, e non solo dalle notti di Arcore, l’immagine maschile non uscisse infinitamente più devastata di quella femminile. Coglie nel segno, certo, Manuela Fraire, quando segnala quanto, nel Rubygate, contino la paura della morte, e «il vuoto di senso» attorno a cui ruota il potere: «Perché questo declino terribile e tristissimo poiché rifiutato, temuto, negato, perché questo spasmodico bisogno di un corpo femminile per sventare la comparsa del convitato di pietra» ? Ma non credo che la politica, e nemmeno la giustizia, possano dare risposte a domande così angosciose. Forse sarebbe il caso di circoscrivere con un po’ di crudo realismo il problema. Come fanno, sul Riformista, Letizia Paolozzi e Franca Chiaromonte, quando osservano che lo scambio in cui le donne sono la controparte (a suo modo libera, ma come lo erano, vendendo la loro forza lavoro, i salariati di Carlo Marx richiamati in causa sul Corriere da Olivia Guaraldo) viene praticato, per odioso che sia, su scala di massa, e la differenza (politica e istituzionale) sta tutta nel ruolo di Silvio Berlusconi, «perché un simile scambio un premier non può praticarlo pubblicamente: dovrebbe rispondere del proibizionismo e dell’ipocrisia del governo, e presentarsi ai giudici per smentirlo» . Sottoscrivo alla lettera, presentazione ai giudici ovviamente compresa, ma avverto che non basta. Perché le domande su cui toccherebbe, donne e uomini, arrovellarsi sono anche altre. «L’Italia non è un bordello» , recitano gli striscioni inalberati dalle donne che protestano. Ma è davvero così? Antonio Polito, richiamandosi al costume nazionale e pure al dibattito in corso sul Corriere e altrove, non ne è tanto convinto. O, almeno, pensa che la questione si sia fatta molto più complicata. Anch’io. E non solo, né soprattutto, perché nei più diversi ambienti sociali è cresciuto assai il numero delle ragazze e delle donne «consapevoli di essere sedute sulla propria fortuna» e convinte dell’opportunità di farne partecipe «chi può concretarla» : tutto questo, in termini liberali ha ragione Piero Ostellino, non basta a farne automaticamente delle prostitute né, tanto meno, ad autorizzare altre donne «perbene» a metterle sotto accusa come donne «permale» . Ma se capita, e capita, bisognerebbe prima di tutto cercare di capire perché, interrogarsi sul modello sociale e culturale dominante, su chi compra e non soltanto (troppo comodo, e anche un po’ infame) su chi vende. Anch’io provo un qualche imbarazzo di fronte a un certo bacchettonismo (malattia senile del giustizialismo?) di ritorno nella sinistra, e un certo stupore a leggere, in un appello alla mobilitazione scritto da donne e rivolto in primo luogo alle donne, che «senza quasi rendercene conto abbiamo superato la soglia della decenza» : attente, siamo a un passo dal «comune senso del pudore» . Leggo Emma Fattorini, però, che scrive dei compagni di scuola di suo figlio, increduli alla vista della loro compagna così bella che si ostina, ciò nonostante, a studiare il greco, e sento l’eco di quanto mi racconta angosciata mia moglie a proposito dei suoi studenti e delle sue studentesse di un istituto tecnico di frontiera che, senza incontrare troppe resistenze nei genitori, la pensano allo stesso modo, ma in termini molto più espliciti: e mi chiedo se davvero le generazioni adulte possono pensare di cavarsela elargendo loro qualche buon precetto liberale. Credo, onestamente, di no. Mi domando pure se la «sinistra liberale» porti, in materia, le responsabilità di cui dice Polito. Davvero la «cultura progressista» è stata subalterna a questa «presunta modernizzazione» , davvero è «ormai schiava di una cultura dei diritti declinata soprattutto in chiave di libertà sessuale» , davvero è senza parole convincenti perché non ha saputo riconoscere che alcuni aspetti della tradizione andavano conservati, e non si è sforzata «di comprendere la morale sessuale della Chiesa» , dimenticando la lezione del giovane Berlinguer che indicava a modello delle ragazze comuniste, assieme alla partigiana Irma Bandiera torturata a morte, Maria Goretti? Non direi proprio, sui diritti non so la cultura, ma la politica «progressista» è stata timida, se non latitante. In ogni caso, il Rubygate e i suoi ampi dintorni tutto possono indurre a pensare, fuorché di fare autocritica per aver appoggiato i Gay Pride, difeso i Dico o sostenuto la fecondazione eterologa, mentre chi oggi insorge contro il moralismo strumentale faceva strumentalmente blocco in nome della morale (e della religione) oltraggiata. E poi. Ogni ragionamento sui limiti (codice penale a parte) della libertà sessuale è, ci mancherebbe, legittimo. Ma tra la libertà sessuale e la visione del mondo neopostribolare di cui tocca occuparci la distanza è e dovrebbe restare stellare: sarà pure una banalità, ma con i tempi che corrono è il caso di riaffermarla.

Repubblica 11.2.11
Durissimo editoriale del quotidiano britannico. Bondi: articolo ingiurioso e volgare. Il sondaggio sul WSJ
Affondo del Times: "Abuso di potere dimissioni subito per far cessare la farsa"
di Enrico Franceschini


LONDRA «Una farsa avvilente e distruttiva, un abuso di potere incompatibile con la carica istituzione ricoperta». E´ il durissimo giudizio di un editoriale del Times di Londra su Silvio Berlusconi, completato dalla richiesta di «dimissioni immediate».
Ma non è soltanto lo storico quotidiano londinese a ritenere che la vicenda del premier italiano sia giunta al termine e debba concludersi: praticamente tutti i media internazionali, dai giornali alle tivù ai siti internet, dedicano ampio spazio agli ultimi sviluppi dello scandalo, concordando che la richiesta di rinvio a giudizio per concussione e induzione di minore alla prostituzione sia «il problema più grave e destabilizzante» mai affrontato dal leader del Pdl.
«Berlusconi mostra di non comprendere la differenza che intercorre tra il tornaconto personale e il dovere nei confronti del pubblico», afferma l´editoriale non firmato del Times, dunque espressione della direzione del giornale, che è utile ricordarlo è un quotidiano fieramente conservatore. «Egli abusa la sua carica politica per i suoi fini e sfida chiunque a fermarlo: è da tempo passato il momento in cui questa farsa avvilente e distruttiva arrivi a una fine», prosegue l´articolo.
«La volgarità è sempre stata una componente distintiva della sua avventura politica, ma un procedimento penale è un´aggiunta che oltrepassa l´ordinario squallore. Dovrebbe essere superfluo affermarlo, ma Berlusconi è distante dalla consapevolezza quanto lo è dal decoro, quindi ribadiremo l´ovvio: la sua condotta è incompatibile alla carica istituzionale che ricopre quindi dovrebbe dimettersi immediatamente». Immediata ieri sera la reazione del portavoce del Pdl Sandro Bondi: «Un editoriale ingiurioso e volgare, una raffigurazione caricaturale della realtà italiana, non rende onore a chi lo ha scritto e pubblicato».
Ma tutta la stampa internazionale pensa che Berlusconi debba dimettersi. Il Wall Street Journal, bastione del capitalismo e della destra americana, lo chiede in un sondaggio ai suoi lettori e la risposta è netta: per l´80 per cento, il premier italiano dovrebbe rassegnare le dimissioni. L´Economist afferma che il processo per il Rubygate «promette di imbarazzare perfino Berlusconi», ossia uno che non è sembrato in imbarazzo davanti a nessuna delle accuse e delle critiche che gli sono state mosse. Il settimanale britannico, che vende 1 milione e mezzo di copie in tutto il mondo, nota che le 800 pagine di imputazioni descrivono Berlusconi come «uno che passa il tempo libero come se fosse uno dei più sordidi imperatori romani» e giudica «probabile» che il processo per il Rubygate si farà, richiamando l´attenzione sul «linguaggio pericoloso» usato dal premier e dalla Lega Nord quando parlano di prepararsi alla «guerra totale». L´Independent si chiede fin dal titolo, «Sta per finire in galera?», il Boston Globe osserva che gli italiani non «hanno bisogno di essere puritani per decidere che Berlusconi non è adatto a governare», e ancora il Times pubblica una vignetta del premier accanto a una torre di Pisa piegata all´ingiù come un fiore appassito.

il Riformista 11.2.11
Diario delle passioni politiche di una adolescente comunista
di Filippo La Porta

qui
http://www.scribd.com/doc/48641379

Repubblica 11.2.11
Il politologo Gilles Kepel: "Le Forze armate non vogliono che il presidente vada via: sarebbe l´inizio della fine per tutti"
"È una rivoluzione incompiuta i militari frenano il cambiamento"
Lo Stato Maggiore teme di perdere il potere. Ma semplici riforme cosmetiche non calmeranno le folle
di Pietro Del Re


«Mubarak resiste. E provoca. Perciò, nonostante i suoi morti e i suoi blogger, la rivoluzione egiziana è ancora incompiuta». Secondo il politologo francese Gilles Kepel, specialista di Islam e del mondo arabo, la rivoluzione del Cairo è inconclusa perché tutto il potere resta nelle mani dell´esercito. «Anche se c´è stata una forte pressione da parte di una gioventù colta e sensibile al discorso dei diritti umani, gli avvenimenti egiziani non sono stati guidati dai manifestanti. Mi ricorda quanto accadde nel 1952, quando arrivarono al potere i Liberi Ufficiali, guidati da Naguib e Nasser. Le forze armate occuparono i ministeri, le stazioni radio e tutti gli obiettivi militari e in brevissimo tempo la capitale».
Professor Kepel, Mubarak è dunque il "fantoccio" dietro cui si nasconde l´esercito?
«Anche se buona parte del Cairo è scesa in piazza Tahrir, che significa "liberazione", l´Egitto è oggi controllato dallo stato maggiore militare, che evidentemente ancora non vuole che il presidente vada via. E ciò per paura che sia l´inizio della fine. Teme che Mubarak possa essere il primo fusibile e che poi tocchi a Omar Suleiman, al premier Ahmed Shafiq e così via».
E adesso, che cosa accadrà?
«Nel suo discorso Mubarak ha detto che trasferisce la sua autorità al vice presidente Suleiman. Ma resta al suo posto. Se avesse lasciato, i manifestanti avrebbero raggiunto il loro obiettivo, e avrebbero potuto capitalizzare la loro vittoria nelle trattative con l´esercito».
Potrebbe essere Suleiman l´uomo chiamato a occupare la fase della transizione egiziana?
«Sì, sempre se sarà in grado di offrire a chi è sceso in piazza un´alternativa soddisfacente. Credo che stavolta semplici riforme cosmetiche non basteranno a calmare le folle».
Secondo lei quale posizione adotteranno i fratelli musulmani?
«Al momento, il loro ruolo è stato piuttosto marginale. I militari stanno trattando con un´opposizione molto più ampia, che comprende anche i cosiddetti blogger, nel tentativo di cooptarli all´interno del sistema. Detto questo, ora più che mai, tutto dipenderà da come i militari riusciranno a contenere la piazza».
Come spiega l´assenza diplomatica dell´Europa in questa crisi?
«Purtroppo l´Europa ha oggi una diplomazia quasi inesistente in Medio Oriente, ed è comunque incapace di mostrarsi come una potenza unificata. E ciò è gravissimo, dal momento che l´Egitto, la Tunisia e gli altri paesi arabi sono suoi vicini geografici, e le loro popolazioni sono presenti in molti paesi europei».
I timori di Israele le sembrano legittimi?
«Sì, perché da quella parte della sua frontiera lo Stato ebraico ha beneficiato negli ultimi trent´anni di una situazione di grande tranquillità. E anche se Suleiman è stato uno degli artefici dei buoni rapporti israelo-egiziani, Gerusalemme è adesso preoccupata delle pressioni che potrebbe esercitare sul paese un nuovo potere».
Come potrebbero cambiare i rapporti geopolitici nella regione?
«L´Egitto vuole tornare sulla scena politica in Medio Oriente, da cui è assente da decenni. La sua assenza ha permesso a paesi come la Turchia e l´Iran di prendere il sopravvento. L´Egitto è tuttavia schiavo dei massicci aiuti americani, militari e civili, senza i quali l´esercito perderebbe la sua forza repressiva e gli oltre ottanta milioni di egiziani digiunerebbero sia a pranzo sia a cena».
Come valuta il ruolo di Washington?
«Oggi gli americani chiedono una transizione incruenta, ma pochi giorni fa una dichiarazione assai maldestra Obama ha consentito a Mubarak di mobilitare qualche migliaio di poveri nelle periferie povere del Cairo per dare la caccia agli stranieri e ai giornalisti, "servi dell´imperialismo americano"».
Questa rivoluzione incompiuta segna dunque una caduta dell´influenza americana nella regione?
«Sì, da ora in poi quella parte di mondo non guarderà più né verso gli Stati Uniti né verso l´Europa, ma piuttosto verso Oriente, ossia verso la Cina e verso l´India».

l’Unità 11.2.11
L’alleato di Israele che ha tessuto il destino del Medio Oriente
di Umberto De Giovannangeli


L’ascesa al potere dopo l’assassinio di Sadat. Da allora ha trattato con 5 presidenti americani e 7 premier dello Stato ebraico. L’assillo della stabilità
Comunque lo si giudichi, una cosa è certa: senza di lui, senza Hosni Mu-barak, il Medio Oriente non sarà più lo stesso. Perché degli eventi che hanno segnato gli ultimi trent'anni dell'area più nevralgica del mondo, oltre che dell'Egitto, l'ottuagenario rais è stato tra i protagonisti assoluti. La sua uscita di scena segna un passaggio d'epoca destinato a ridisegnare il volto non solo del più grande tra i Paesi arabi ma dell'intera Regione. L’«ultimo dei faraoni» porta con sé le contraddizioni insanate di un leader che ha cercato di tenere insieme il disegno nasseriano di un Egitto laico e panarabo e un legame mai messo in discussione con l’Occidente «colonizzatore»: l’orgoglio di una civiltà millenaria e una dipendenza dall’America anche quella dei neocon sostenitori del «Conflitto di civiltà» che ha puntellato il suo potere trentennale. Ha rivendicato, conquistandolo, un posto al sole sulla scena internazionale per se stesso e per l’Egitto e ha negato al suo popolo diritti fondamentali: secondo l'indice che valuta l'attenzione garantita ai Diritti Umani, l'Egitto occupa il 119 ̊ posto su 177 nazioni. Ha «conquistato» l’Europa ma non ha saputo togliersi di dosso l’accusa, documentata, di aver accumulato nel corso degli anni una fortuna «familiare» calcolata in 70 miliardi di dollari, oltre il doppio della riserva in valuta pregiata a disposizione della Banca centrale egiziana, circa la metà del debito dello Stato. Ha conquistato innumerevoli volte le prime pagine dei più importanti quotidiani al mondo ma secondo Reporters Senza Frontiere i media egiziani sono collocati per libertà d'espressione al 143 ̊ posto su 167 nazioni considerate. Comunque protagonista. Per decenni inamovibile. L’America ha visto succedersi negli ultimi trent’anni cinque presidenti.
Lui, «l’ultimo faraone» è sempre rimasto in sella, partner privilegiato di Ronald Reagan, George Bush, Bill Clinton, George W.Bush e Barack Obama. Con lui hanno dovuto fare i conti sette primi ministri d’Israele, a lui si erano legati indissolubilmente «Mr.Palestine» Yasser Arafat e il suo successore, Mahmud Abbas (Abu Mazen). Al potere quando Saddam Hussein era il padre-padrone dell’Iraq, lo è ancora quando il «macellaio di Baghdad» ha finito i sui giorni su un patibolo. Ha accompagnato nel loro ultimo viaggio re Hussein di Giordania, il «leone di Damasco», Hafez el Assad, parlò al mondo dal Monte Herzl cuore della Gerusalemme ebraica nel giorno dell’addio al suo «partner di pace»: il primo ministro d’Israele, Yitzhak Rabin, assassinato da un zelota dell’ultradestra ebraica per aver osato la pace con l’Olp di Arafat. Era il 6 novembre 1995. Quel giorno di vuoto e di dolore, il rais andò con la memoria indietro nel tempo, ad un altro giorno che cambiò la sua vita, quella dell’Egitto e del Medio Oriente: il 14 ottobre 1981, quando vide morire sotto i suoi occhi Anwar Sadat, assassinato da un commando integralista per aver osato la pace, a Camp David, con Israele. Hosni Mubarak ha governato con il pugno di ferro in un guanto di velluto: investendo sulla modernizzazione dell’Egitto ma senza gettare mai le basi di una vera democrazia. Ha promesso «normalità» ma ha perpetrato per trent’anni lo Stato di emergenza. Nel mondo c’è chi lo ha considerato un Grande, chi il Male minore rispetto a una deriva fondamen-
talista. Il suo popolo lo ha esaltato, poi temuto, infine odiato. Aveva promesso il benessere, ha finito per far assoldare squadracce di picchiatori per assaltare i ragazzi di Piazza Tahrir.
Le sue origini sono quelle di una famiglia dell'alta borghesia, che lo indirizza verso la carriera militare. Frequenta l'Accademia militare nazionale e l'Accademia aeronautica e poi, in Unione Sovietica, l'Accademia di Stato maggiore. All'età di ventidue anni si arruola nell'aeronautica. Ci rimarrà per altri ventidue anni della sua vita, un periodo in cui avrà modo di intraprendere una carriera militare che gli permetterà di arrivare ai vertici delle gerarchie delle Forze armate. Diviene capo di stato maggiore dell'Aeronautica nel 1969 e comandante in capo nel 1972. Durante gli anni della presidenza di Anwar Sadat, ricopre incarichi militari e politici: oltre ad essere il più stretto consigliere dello stesso presidente egiziano, viene nominato viceministro della guerra e, nel 1975, vicepresidente. Il 14 ot-
tobre 1981, una settimana dopo l'omicidio di Sadat, viene eletto presidente dell'Egitto. Successivamente vince tre elezioni senza alcuna opposizione fino al quarto scrutinio quando è costretto su pressione degli Stati Uniti a riformare il sistema per permettere un'elezione multi-partitica per le presidenziali previste per settembre. Per la Comunità internazionale ha rappresentato un elemento di stabilità; odiato dal fronte del rifiuto arabo, ritenuto un fatto di moderazione regionale da Israele. Successi internazionali che non hanno cancellato i suoi deficit interni trasformatisi in una vera bancarotta politica, sociale, morale. Mubarak è sfuggito a sei tentativi di attentato, ma non alla «Rivoluzione dei Loto». In Egitto «si sta facendo la storia», «una nuova generazione leva la voce per essere udita», dice Barack Obama, il presidente del «Nuovo Inizio» nei rapporti tra l’Occidente e l’Islam, mentre a Piazza Tahrir si attende con il fiato sospeso l’annuncio per cui in milioni si sono battuti nei diciassette giorni che hanno fatto la storia.

Corriere della Sera 11.2.11
Ravasi e il multiculturalismo: meglio l’interculturalità
di  Gian Guido Vecchi


CASTEL GANDOLFO — «Il multiculturalismo è fallito» , ha detto il premier inglese David Cameron, innescando un dibattito continentale. Una riflessione che nella Chiesa è già iniziata da tempo, «ciò che dobbiamo f a r e è passare d a l l a m u l t i c u l t u r a l i t à a l l a interculturalità, dalla coesistenza di culture che non comunicano all’esperienza del dialogo, l’altro giorno avevamo una riunione di cardinali in vista di un eventuale documento» , spiega il cardinale Gianfranco Ravasi. Che ieri ne ha parlato al 35 ° incontro dei vescovi amici del movimento dei Focolari, poco distante dalla residenza estiva del Papa: «Bisogna costruire un confronto che non sia scontro, nel quale anche i valori siano comunicati ma senza perdere la propria identità: una sorta di convivenza culturale, molto delicata e complessa» . La fede e la cultura laica, le diverse fedi. Il cardinale Ravasi, rivolto a una settantina di vescovi del mondo, non nasconde quanto sia arduo il processo educativo, «anche per i nostri fedeli non è facile» . Il multiculturalismo «è un dato di fatto fin dall’antichità» , ma oggi è diventato «emblematico nelle città, dove si vedono compresenze di identità culturali diversissime» , talvolta «quasi dei fondamentalismi che stanno uno accanto all’altro: con scintille, scontri» . Di qui il passaggio necessario al modello «interculturale» , che riguarda il rapporto con la propria identità e quella altrui: «Il dialogo, come dice questa bella parola greca, presuppone il dia-logos e quindi il rapporto tra due logoi. Il che significa che l’interculturalità non ha come meta l’identificazione, la costruzione di un’unica società globalizzata» . Il grande biblista sceglie un’immagine musicale: «La tentazione multiculturale era quella del duello: il più forte riesce a occupare più spazio. Ciò che dobbiamo creare con l’interculturalità è piuttosto un duetto, che in musica può essere costituito da un basso e da un soprano. Cosa c’è di più diverso di queste due voci? E perché ci sia armonia, è forse necessario che il basso canti in falsetto e il soprano abbassi il tono?» . No, l’essenziale è «avere una forte coscienza della propria identità, perché non si fa dialogo senza un volto, ed è questo il grande rischio dell’Europa: come diceva Eliot, se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto» . Bisogna tuttavia guardarsi da «una malattia duplice» , avverte il cardinale: «Da un lato il fondamentalismo, l’eccesso di identità, l’identità aggressiva, della spada, che può essere anche cristiana; e dall’altro il sincretismo culturale, la superficialità, la banalità, la stupidità, l’amoralità, una genericità incolore, insapore e inodore, la nebbia culturale che oggi domina» . Ecco la difficoltà: «Devi avere una consapevolezza forte dei tuoi valori e insieme rispettare quelli degli altri. Sapere ascoltare, senza per questo imitare...» . Il cardinale Ravasi, con il «Cortile dei Gentili» voluto da Benedetto XVI, ha iniziato un dialogo tra teologia e cultura laica che il 24 e 25 marzo lo porterà a Parigi: dalla Sorbona all’Unesco all’Académie. «È faticoso ma possibile: il problema è il livello basso, non l’ateismo colto ma l’indifferenza...» . A Castel Gandolfo c’era anche il cardinale Miloslav Vlk, che fu ordinato sacerdote durante la Primavera di Praga e costretto dal regime a fare il lavavetri. Ha evocato l’esperienza di perseguitato, la sua scelta di «abbracciare la Croce come Gesù» , in analogia a quanto accade oggi, «la fede messa ai margini, il rifiuto dei valori cristiani» . E pure lui ha messo in guardia da velleità crociate: «Talvolta abbiamo una fede debole, e allora sorge la paura. Invece bisogna fare l’esperienza del Vangelo e, in base a questa, testimoniare: gli altri lo sentono» .

Corriere 11.2.11
Matisse Michelangelo
Il corpo della gioia Quella ricerca dei volumi attraverso i nudi e la sensualità Così il pittore francese inseguì il mito del Buonarroti
di  Melisa Garzonio


Ecco come finirà: entrerete pensando a Matisse, ne uscirete innamorati pazzi di Michelangelo. Vedrete sensuali nudi blu, e vi verrà da pensare al capolavoro michelangiolesco dell’ «Aurora» , la statua di marmorea grandeur che turba i visitatori nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze. Non è la prima volta che una mostra offre nuove chiavi di lettura del pittore della «Joie de vivre» , come s’intitola il quadro realizzato da Henri Matisse (1869-1954) con la tecnica del pointillisme nel 1905. Lo ha fatto il MoMa di New York lo scorso autunno con «Matisse: Radical Invention 1913-1917» , riabilitando un centinaio di opere insolitamente ombrose e dai contorni pesanti, generalmente liquidate come una laconica risposta del maestro «fauve» all’ascesa di Picasso (l’alter ego e rivale di una vita). Lo fa, adesso, lanciando una sfida affascinante, l’esposizione «Matisse. La seduzione di Michelangelo» che apre oggi al Museo di Santa Giulia di Brescia, con la cura di Claudia Beltramo Ceppi. In mostra non s’incontra il guru del Novecento tutto emozione e sensualità, si capisce subito che tra i volumi di Cézanne e le nuove sfaccettature cubiste, negli affetti di Matisse s’insinua un terzo pretendente, che non concede scampo ai rivali. Matisse e Michelangelo, un ménage perfetto. Spiega la curatrice: «Due artisti solitari, tormentati, strenui difensori della "loro"verità; incapaci di adattarsi, in caso di necessità, alla committenza dei grandi mecenati, papi o collezionisti» . Matisse trova nel genio fiorentino una profonda affinità elettiva. Ne condivide i turbamenti, la passione mai appagata per l’opera, il procedimento «a togliere» che alleggerisce le immagini, la tensione spasmodica che le distorce. L’innamoramento è totale, la devozione assoluta: «Si potrebbe far rotolare una statua di Michelangelo dall’alto di una collina fino a far scomparire la maggior parte degli elementi di superficie: la forma rimarrebbe comunque intatta. Non si potrebbe dire altrettanto di Donatello» . Più chiaro di così. A documentare il percorso di questa straordinaria fascinazione, 180 opere: dipinti, incisioni, disegni, e le celebri papier découpé (collage di carte dipinte a guazzo) che sono la risposta geniale alla domanda cruciale di Matisse sulla plasticità dei corpi in relazione allo sfondo, la fusione sognata che gli farà dire: «Ritagliare a vivo nel colore mi ricorda il procedimento diretto della scultura» . La presenza di Michelangelo è costante, e si palesa attraverso disegni e calchi in gesso, intrecciando continui rimandi fra pittura e scultura. Matisse insegue il mito fiorentino indagando per dieci anni sui calchi delle sue sculture conservati all’École des Beaux-Arts di Nizza. Sarà lui stesso a raccontare in una lettera all’amico Albert Marquet di questo rapporto esclusivo: «Scusami non posso raggiungervi perché sono trattenuto qui da una donna, passo con lei tutto il mio tempo e non credo mi muoverò da qui per tutto l’inverno» . La donna dalle sinuose anatomie che l’ha stregato è il calco di una celebre scultura che si chiama «La notte» . Quando nel 1919 lascia Parigi e trasloca in Costa Azzurra, Matisse è già famoso, corteggiato, conteso. Un collezionista leggendario, il russo Sergej Suckin, gli ha commissionato una serie di dipinti per le pareti della sua casa moscovita. Tra questi, «La danza» , uno dei suoi massimi capolavori, di cui esegue anche una seconda versione per la collezione dell’americano Albert C. Barnes. In mostra «La danza, armonia blu» del 1930 e una stampa della versione in rosso eseguita per la rivista Verve nel 1938. Nel suo buen retiro sul mare, pensa a un viaggio a Firenze del 1907, quando, alle Gallerie dell’Accademia, ha conosciuto l’arte di Michelangelo. Ecco, a ricordarlo il grande «Nudo blu» , ricordo di Biskra, la traduzione dipinta di un piccolo bronzo incompiuto, eseguito proprio nel 1907, quattro anni dopo aver modellato «Lo schiavo morente» , doppio debito con il fiorentino e con Rodin, esposto in mostra in una copia e raffigurato nel dipinto «Pianista e giocatori di dama» , del 1924. Una festa di contorsioni e avvitamenti muscolari che ricompariranno nella statuetta del «Nudo sdraiato» (Aurora), ispirato al capolavoro michelangiolesco delle Tombe Medicee, che farà da modello a tanti dipinti degli anni a venire. E non è un caso che l’opera più amata e più patita, che gli porterà via sette anni di lavoro, sarà proprio la giunonica scultura del «Grande nudo seduto» : le braccia intrecciate dietro la testa, la gamba destra accavallata sotto la coscia sinistra, in una posa decisamente michelangiolesca.

Repubblica 11.2.11
L’arte della gioia di vivere all’ombra di Michelangelo
Le forme del pittore francese confrontate con quelle del Buonarroti nella mostra che si apre oggi a Brescia
di Lea Mattarella


"Scusami, non posso raggiungervi – scrive da Nizza nel 1918 Henri Matisse al collega Albert Marquet – perché sono trattenuto da una donna, passo con lei tutto il mio tempo e non credo mi muoverò da qui per tutto l´inverno". Un colpo di scena nella vita del pittore francese da sempre dedito alla moglie Amélie, ai suoi tre figli, a una vita borghese contro ogni stereotipo maudit? In effetti sì. Perché l´identità di questo amore rivela l´interesse di Matisse verso un mito del Rinascimento, periodo che, com´è noto, l´artista francese amava pochissimo. "Fortunatamente – prosegue la lettera – questa donna è un calco di Michelangelo e si chiama La Notte. L´Ecole des arts décoratifs ne possiede una copia a grandezza originale. Sono ritornato studente: oggi dalle otto a mezzogiorno ho modellato dal vivo, dalle quattro alle sei ho disegnato la Notte e domani ricomincerò e così per tutta la settimana".
Una frase così accende la curiosità, fa venir voglia di comprendere come l´innamoramento per la Notte di questo genio del Novecento che per Picasso "aveva il sole nel ventre", si possa tradurre in pittura.
La mostra "Matisse. La seduzione di Michelangelo" curata da Claudia Beltramo Ceppi, aperta da oggi al 12 giugno al Museo di Santa Giulia di Brescia, accompagnata da un catalogo Giunti, si pone il compito di dimostrare la profondità del legame che tiene uniti questi due maestri. Separati da quattro secoli, ma tenuti insieme dal filo ben saldo dell´urgenza espressiva.
Il percorso conduce tra 180 opere di Matisse – dipinti, disegni, incisioni, gouaches, sculture dagli esordi, avvenuti nel segno della pittura fauve, fino alla parte finale della sua vita, dedicata all´illustrazione dei libri, della rivista Verve e alla grande scoperta del papier découpé. Questo attraversamento della luce matissiana avviene all´ombra di Michelangelo: qua e là si incontrano per un confronto ideale e per certi versi davvero sorprendente, diversi calchi delle sue più importanti sculture, oltre a un disegno originale raffigurante due Veneri. Che dialoga con uno stesso soggetto eseguito dal francese. L´arte di entrambi, infatti, trova linfa nell´amore per il corpo, nella ricerca spasmodica delle posizioni che questo può assumere nello spazio della creazione.
Si è sempre parlato della sensualità delle donne di Matisse, delle sue odalische, dei nudi, ma anche delle figure tratte dalla mitologia greca. Come l´Europa qui esposta, che tutto pare tranne che una fanciulla spaventata da Giove. Eccola lì, abbandonata, distesa, in una postura che ricorda appunto gli esempi delle Cappelle Medicee di Michelangelo, accanto al dio che per possederla si è trasformato in toro: lui l´avrà pure rapita, ma lei lo ha senza dubbio domato.
Da dove nasce questo erotismo indolente tutto matissiano se non dalla perfetta padronanza dell´artista dell´anatomia della macchina corporea che si rivela in pose e torsioni cariche di espressività? «Devo dipingere un corpo di donna: prima gli conferisco grazia, fascino, ma si tratta di dargli qualcosa di più» affermava. Cercava questo, il quid in più, probabilmente, tra le pieghe della Notte. Che aveva visto e amato dal vero in un viaggio in Italia del 1907, con tappa a Firenze e visita alla Sagrestia in San Lorenzo, dove le sculture michelangiolesche incarnano la fugacità del tempo, il passare dei giorni, ma anche le stagioni dell´uomo. Che il corpo è chiamato a narrare. A unire Michelangelo e Matisse è anche questa predilezione, la scelta di usare l´anatomia per altri più alti racconti. «Quel che più mi interessa non è la natura morta, né il paesaggio, ma la figura. La figura mi permette ben più degli altri temi di esprimere il sentimento, diciamo religioso, che ho della vita», diceva il francese.
Sappiamo che Matisse possedeva un calco di uno dei Prigioni di Michelangelo, lo Schiavo morente, capolavoro conservato al Louvre. Eccolo comparire in due opere in mostra. È il protagonista dell´Interno con schiavo dove appare in primo piano davanti a una finestra, altro tema matissiano per eccellenza. E poi, eccolo svettare, unico tocco di bianco, tra gli arabeschi, gli ornamenti, la tessitura di rossi di Pianista e giocatori di dama, come fosse una silenziosa dichiarazione di poetica: ci sono i tappeti, gli incastri, le tappezzerie, le stoffe a fiori e a righe, ma c´è anche questo pezzo di Italia, in un incontro tra oriente e occidente protetto dal sogno realizzato della classicità.
Matisse, tra l´altro, scolpiva. Sempre tenendo ben presente la linea curva, quel contorno che per lui è l´origine di tutto. Nella sua testa è ben chiaro il primato del disegno, valore consolidato del Rinascimento fiorentino. E nella statuaria, dove manca la potenza espressiva del colore, questo appare ancora più evidente: basti guardare il Nudo disteso, la sua prova scultorea più grande, o il Piccolo nudo accovacciato per rendersi conto della tensione della linea che crea volume, pienezza e armonia della forma. Naturalmente nel suo inno felice alla bellezza non c´è posto per i dettagli: in questa necessità di sintesi Matisse è figlio del suo tempo. Lo sa e lo rivendica quando afferma: «Si nasce con la sensibilità di tutta un´epoca». Per questo è così moderno, e può premettersi la sua allergia a tutti i movimenti e le ideologie che nascevano intorno a lui: cubismo, dadaismo, surrealismo. Non gli interessa niente di tutto questo, l´arte per Matisse deve essere come "una comoda poltrona". E infatti la sua vita scorre nel colore, nonostante attraversi due guerre mondiali. Ecco il senso della sua "gioia di vivere" che è gioia di dipingere. Ma anche di disegnare, modellare, ritagliare: le arti per lui sono davvero sorelle. Alla fine della sua carriera questo "sarto delle luce", come lo ha definito un critico, giunge al papier découpé: colora la carta e poi la ritaglia, sintetizzando sempre di più, come succede nella Venere proveniente da Washington. Afferma che in questo modo può "disegnare nel colore" e che "ritagliare nel vivo il colore ricorda lo sbozzare diretto degli scultori". Significa lavorare per sottrazione "per via di levare". Come faceva Michelangelo convinto assertore che l´opera fosse già contenuta nella materia e compito dell´artista fosse solo quello di svelarla. Così Matisse può dire di colui che questa mostra gli riconosce come un maestro a fianco: «Si potrebbe far rotolare una statua di Michelangelo dall´alto di una collina fino a far scomparire la maggior parte degli elementi di superficie: la forma rimarrebbe comunque intatta». E per l´artista francese l´unica cosa che conta è questa: la felicità della forma, la sua essenza imperturbabile.

Repubblica 11.2.11
La ricerca dell´essenziale nei due artisti
Quando la parola d´ordine è "togliere"
Un processo creativo che punta a "levare" per liberare la materia e consentirle di mostrare la sua natura nascosta
di Achille Bonito Oliva


Si può raggiungere la profondità con il massimo della superficie. Questo avvertimento nicciano ci permette di guardare senza scandalo al corto circuito, che non è rotta di collisione, tra Michelangelo e Matisse proposto dalla mostra di Brescia. Un appuntamento iconografico assolutamente sostenibile proprio a partire dall´idea neo-platonica del Buonarroti sul processo creativo. L´opera nel suo farsi richiede un procedimento "a togliere": un levare per liberare la materia e consentirle di mostrare la sua profonda natura nascosta. È un anelito verso l´essenziale e l´essenza, che spiega ancor meglio il concetto di furor che non è sprofondamento nella materia, ma al contrario elevazione ed emendamento dall´inevitabile peso gravitazionale della carne.
Matisse, nella sua pittura vaporizzata nello spazio e senza penombre, dominata dalla memoria di una luce mediterranea, rincorre anche lui, magari senza pensare a Platone o ai Neo-platonici, il raggiungimento di una forma che si costituisca come essenza della scultura e della pittura. Il percorso naturalmente ha altri tragitti rispetto a quelli del Rinascimento italiano, per la verità non tanto amato dal pittore francese, ma nello stesso tempo conquistato e incantato da un calco di Michelangelo, esattamente la Notte.
Inoltre anche la teoria del non-finito, che nasce dall´impossibilità dell´artista e dell´uomo di gareggiare con la creazione divina, può trovare una consonanza nella decorazione matissiana che spesso passa attraverso una volubile sinuosità del segno ed una voluta indefinizione cromatica. Senza arrivare ai Prigioni, che fanno di Michelangelo anche un profeta dell´Informale e della Neo-figurazione, è possibile misurare uno stato di ansietas identico ma di diversa temperatura con quella di Matisse. Ansietà che corrisponde a un tremore spirituale in Michelangelo e, invece, nel pittore francese, ad una condizione giocosa, erotica e disseminata. Una sorta di stato d´animo che non isola le diverse parti della visione, semmai le aggrega in una fertile continuità.
Eppure Matisse è profondamente colpito nella sua forte anoressia iconografica dalla volumetria bulimica di Michelange-lo. E´ possibile rintracciare nella pittura stessa di Matisse la memoria della scultura michelangiolesca. Basti confrontare il Ratto d´Europa del 1929 con la postura dell´Aurora e della Notte delle Tombe medicee nella Sacrestia Nuova di San Lorenzo in Firenze per capire quanto ikl grande pittore francese ha guardato il Buonarroti.
Naturalmente ancor più facile è segnalare una consonanza tra i due modi di fare scultura. Si comprende come Michelangelo e Matisse cadano, nel senso buono, dentro la scultura, proprio per riuscire a darcene l´essenza. Un taglio in profondità per dare ordine e sistema alla materia. Michelangelo, turbolento spirito quasi protestante, Matisse libertino oscillante tra figurazione e decorazione, a distanza di secoli rappresentano procedure creative dove non esiste relativismo stilistico ma il timbro di un linguaggio che vola e sprofonda contemporaneamente alla ricerca dell´essenza, la Forma.

La Stampa 11.2.11
“Shakespeare ci insegna: non c’è amore senza morte”
Scamarcio a teatro nel “Giulietta e Romeo” pop di Binasco “Oggi non pensiamo più al destino, ma ai soldi, e siamo vuoti”
di Simonetta Robiony


Gli amanti di Shakespeare Riccardo Scamarcio e Deniz Ozdogan, giovane attrice turca venuta in Italia «per cercare di sfuggire al teatro chiuso nella tradizione del mio Paese»

«La villa dei Capuleti sembra quella dei camorristi lo spettacolo è comico e cupo»
«Giulietta è il candore, l’assoluto la purezza. Non ha ferite non può far male né farsi male»

Giulietta, Deniz Ozdogan, non ha la treccia ma cortissimi capelli un pò punk e quei grandi occhi neri e intensi tipici di molti del suo paese: «Sono arrivata in Italia dopo aver visto uno spettacolo di Strehler: volevo un teatro che mi desse emozioni come era il vostro, ma ormai ne fate poco anche voi». Romeo ha la bella faccia tumultuosa di Riccardo Scamarcio, da tempo ormai non più stella dei film da Moccia ma protagonista di pellicole del nostro cinema migliore, difensore dei diritti umani, da noi e non da noi, nonchè compagno alla pari di Valeria Golino: «In teatro avevo fatto una particina, giovanissimo, in Miseria e nobiltà : naturale che adesso mi senta stanco e spaventato. Comunque vada è stata una esperienza fondamentale che mi ha allontanato da un certo egocentrismo. Sul palcoscenico è il personaggio che ti prende e ti porta dove vuole, qualcosa d’ignoto che nemmeno chi ti dirige sa cosa sarà: a te basta lasciarti trascinare. Un’esperienza mistica esaltante come quella di certe tradizioni peruviane, una sensazione di distacco dal corpo, ma senza l’uso di droghe».
Questo Romeo e Giulietta di uno Shakespeare tradotto in lingua moderna da Paravidino e diretto da Valerio Binasco, uno dei più lodati protagonisti del nostro spettacolo, va in scena per un mese, dal 14 febbraio, giorno di San Valentino, la festa degli innamorati, all’Eliseo di Roma, per la volontà di Massimo Monaci, con la collaborazione della Compagnia Gank e del Gloriababbi, riallacciando legami nati sul set del film Texas . Successivamente un lungo speciale sulla sua messa in scena fatto da RaiCinema e Magnolia dovrebbe trovar posto sulla nostra tv. Binasco l’ha voluto contemporaneo e senza tempo, abientato in una città di provincia violenta e pigra dove gruppi di giovani si fronteggiano in risse mentre i padri accumulano denaro più o meno illecito: «La casa dei Capuleti può sembrare un villone di camorristi con le palme piantate in giardino. Gli scontri in piazza, faide di un paese che ha smarrito i valori. L’odore della morte aleggia ovunque. Credevo di costruire un grande spettacolo sulla violenza: è venuto fuori uno spettacolo comico e cupo, vitale e popolare, un’opera pop che tutti noi abbiamo voluto realizzare come atto di ribellione contro la politica criminale di chi taglia i fondi alla cultura. È un modo di dire ai politici che il teatro va avanti: faremo senza di voi, ma sarà contro di voi».
Tragedia celeberrima, Romeo e Giulietta è nel testo shakespeariano e nel nostro immaginario un inno all‘amore romantico e assoluto: quello degli adolescenti. Qua l’amore c’è, ma non è una esplosione dell’adolescenza: è un atto consapevole. Dice Deniz Ozdogan: «Giulietta è il candore, l’assoluto, la purezza. Non ha ferite: non può far male né farsi male. La mia frase più bella? Il mio amore è come il mare: più te ne dò più me ne resta. Giulietta è proprio come l’ha voluta Shakespeare». Riccardo Scamarcio, invece, spstiene che di amori nel testo ce ne sono molti: «In principio c’è l’infatuazione possessiva di Romeo per Rosalina. Poi, più importante, l’amore tra lui e Mercuzio, una amicizia complementare dove l’uno è portatore di sogni l’altro di concretezza. Infine l’amore per Giulietta, quello che ti cambia, ti matura, ti fa uscire dal gruppo, è pronto a dare e non solo a ricevere, sfida le stelle, arriva alla morte». C’è differenza tra il modo di amare di allora e quello di oggi? «No. I sentimenti sono universali. Shakespeare è il primo commediografo moderno, grandissimo e quindi sempre attuale. Sono cambiate, però, le condizioni dell’umanità. La morte è sparita e con la morte è sparito il mistero dell’aldilà, delle grandi domande sul nostro destino. Non vogliamo sentirne parlare, della morte. Viviamo molto a lungo come non ci fosse. E invece c’è. Cerchiamo soddisfazioni immediate: la ricchezza, il sesso, il potere. Seguiamo un modello di capitalismo globalizzato già in fallimento, dimenticando che uno dei compiti dell’uomo è analizzare se stesso». Come riconoscerla, allora, in queste condizioni, l’eternità del sentimento amoroso? «Con l’arte. Il teatro, il cinema, perfino la tv di ricerca possono essere arte. E’ l’arte che mette le mani in questa materia e la mostra al pubblico. E l’attore è il mezzo con cui può esprimersi. Una soddisfazione grande».

La Stampa 11.2.11
Tumore al seno, vincono gli “italian doctors”
di Umberto Veronesi


IlNew York Times due giorni fa ha dato ampio spazio in prima pagina all’annuncio di un nuovo progresso nella cura del tumore del seno: l’intervento chirurgico di rimozione dei linfonodi dell’ascella, anche se colpiti dalla malattia, non deve più essere lo standard per tutte le pazienti. A molti forse è sfuggita l’importanza di questo messaggio, che ha invece un significato speciale per le donne e per la ricerca scientifica italiana. Per le donne perché è dimostrato che sono le migliori custodi della propria salute: con la loro consapevolezza e determinazione sono in grado di far crollare la rigidità dei dogmi e scuotere la mentalità conservatrice di alcuni medici. Se sanno che esiste una cura migliore per loro, prima o poi la otterranno. Per la ricerca italiana, perché esattamente 30 anni fa sullo stesso giornale e nella stessa posizione, appariva la notizia della strada aperta da noi chirurghi italiani per le donne, di cui l’annuncio dei giorni scorsi rappresenta una nuova tappa. Nel luglio del 1981, infatti, proprio il New York Times (insieme ad altri quotidiani americani come Los Angeles Times ed Herald Tribune ) riportava una rivoluzione fondamentale per le donne colpite da tumore del seno.
Il dogma della mastectomia (asportazione totale della mammella), che si poneva l’obiettivo di salvare la vita della paziente, era stato superato dalla nuova tecnica della quadrantectomia (asportazione di una parte, un quadrante, della mammella) che non solo salvava la vita, ma ne preservava anche qualità. Il risultato, spiegava l’articolo, era dovuto agli «italian doctors» che avevano appena pubblicato sul New England Journal of Medicine gli esiti di uno studio clinico durato sette anni e realizzato a Milano. Sono felice di avere fortemente voluto quello studio e di aver firmato quella pubblicazione scientifica, perché cambiando la direzione del trattamento del tumore del seno, ha cambiato la vita delle donne. Poi abbiamo capito all’Istituto Europeo di Oncologia che potevano spingerci più in là nella protezione dell’integrità del corpo della donna e, oltre alla mammella ci siamo chiesti se potevano salvare l’ascella, evitando ove possibile l’intervento di rimozione dei suoi linfonodi. Così abbiamo messo a punto la tecnica del linfonodo sentinella, vale dire quel linfonodo che è in grado di darci indicazioni sullo stato di tutti gli altri. Se è sano, l’ascella è sana, se è malato, l’ascella è malata. Abbiamo iniziato a effettuare gli interventi all’ascella solo in caso di linfonodo sentinella malato, risparmiando così operazioni non necessarie alle nostre pazienti, e evitando di privarle di una parte preziosa della loro difesa immunitaria. La notizia americana ci incoraggia e rafforza i nostri capisaldi, andando ancora oltre nella strategia della conservazione: la rimozione dei linfonodi dell’ascella, anche se malati, non deve necessariamente essere effettuato, per certi specifici tipi di tumori (pari al 20% circa di tutti i casi) perché non porta vantaggi nella cura.
Si profila sempre più chiaramente quindi il tramonto del concetto stesso di dogma in medicina. La cura si fa personalizzata e già siamo molto vicini a poter offrire ad ogni donna con tumore del seno un percorso di cura individuale. E per far crollare i dogmi, l’abbiamo detto, contiamo molto sulla forza delle donne.

giovedì 10 febbraio 2011

La Stampa 7.2.11
Le ultime 100 tribù “incontaminate”
In Brasile indios che non hanno mai visto i bianchi: “Stiamo lontani, o moriranno”
di Mattia Bernardo Bagnoli


PIÙ NUMEROSI DEL PREVISTO I ricercatori: «La foresta non è vuota come pensiamo Ce ne possono essere altri»
CONFLITTI IN VISTA Le aree inesplorate sono ricchedi petrolio e finora erano ritenute senza abitanti

Gli etnologi Survival International sta cercando gli aborigeni: le immagini hanno fatto scalpore in tutto il mondo I cercatori d’oro Battono la zona abitata dai «selvaggi»: c’è il rischio che portino epidemie devastanti nei villaggi indigeni
Neolitici Le tribù mai contattate dai bianchi sono cacciatori raccoglitori che vivono come i nostri antenati della preistoria L’impatto con la società moderna potrebbe essere devastante Già nel 1500 all’arrivo degli europei epidemie e guerre decimarono gli indigeni
Il nostro mondo è pieno come un uovo, Internet ormai raggiunge ogni dove, eppure allo scoccare del 2011 esistono ancora quasi cento popolazioni che non hanno mai visto l’uomo bianco, figuriamoci un computer o uno smartphone. E neppure una banca, una macchina, o il presidente Obama. O il concetto di Stato. Tribù, insomma, ferme a un periodo premoderno - quasi primitivo, in certi casi - grazie alla protezione offerta dalle foreste pluviali. Che però si fanno sempre più piccole a causa del disboscamento. Popolazioni che sono quindi in pericolo non tanto di restare per sempre isolate ma, al contrario, di venire a contatto con l’uomo contemporaneo: e venir dunque decimate dalle malattie, come capitò agli indios al tempo dei conquistadores.
Il caso dei popoli perduti è riemerso con forza dopo che sono state diffuse le immagini di una tribù scoperta dall’organizzazione Survival International ai confini tra il Brasile e il Perù. L’Ong ha adesso rivelato che un altro gruppo indigeno, sempre parte della popolazione degli Yanomami, vive indisturbato nella parte settentrionale dello stato brasiliano di Roraima. La tribù, i Moxateteu, vive però in un’area piagata da un’alta concentrazione di cercatori d’oro illegali. Se questi bracconieri di metalli pregiati non verranno presto espulsi, dicono gli esperti, c’è il rischio che la maledizione dell’uomo bianco possa colpire i Moxateteu, come è già capitato altre volte in passato.
«Ci sono molte popolazioni indios sperdute», ha detto a Survival International Davi Kopenawa, portavoce del popolo Yanomami - di quella parte cioè già emersa dal cuore della giungla. «Io vorrei aiutarli: hanno il nostro stesso sangue e non hanno mai visto il mondo moderno».
Il mito delle popolazioni perdute, insomma, non è una leggenda ma un fatto. «Queste persone esistono davvero», ha spiegato all’ Independent on Sunday José Carlos Meirelles, funzionario del Funai, il ministero brasiliano per gli Affari degli Indios. «Quegli spazi vuoti del parco Yanomami - ovvero la zona off-limits creata nel 1992 dopo varie campagne di pressione internazionali - non sono così vuoti come la gente pensa. Anzi mi spingo sino a dire che in quest’area possa esistere più d’una tribù ancora da scoprire».
«Queste immagini - ha commentato Fiona Watson, direttrice del settore ricerca di Survival International - ci dicono che queste popolazioni sono vive e più che sane. E contraddicono in pieno il pensiero di chi sostiene siano state inventate dagli ambientalisti impegnati nella battaglia contro lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Amazzonia».
Il Sudamerica, insomma, è davvero una specie di Arca di Noé dei popoli perduti. Oltre a Brasile e Perù, infatti, anche il Paraguay custodisce una tribù ancora da contattare: gli Ayoreo-Totobiegosode. Gli unici a vivere al di fuori dell’Amazzonia, nella vasta distesa di boscaglie che si estende tra Bolivia, Paraguay e Argentina. Ovvero un’altra area ad alto rischio ambientale a causa degli interessi legati all’allevamento del bestiame. La storia è sempre la stessa: giù le foreste e largo ai pascoli.
L’altra zona della Terra che potrebbe custodire molte sorprese è la Papua occidentale. Qui la presenza dei militari e il terreno particolarmente accidentato rendono infatti le esplorazioni praticamente impossibili. Detto questo, il direttore di Survival International ha sottolineato come un cambiamento di attitudini da parte dell’uomo «civilizzato» nei confronti di queste popolazioni possa essere la vera chiave per proteggere il loro stile di vita. «Spesso - ha dichiarato - questi popoli vengono visti come retrogradi perché vivono in modo diverso dal nostro. Ma è questa stessa nozione ad essere invece retrograda e incivile».

Corriere della Sera 6.2.11
Bellocchio, il labirinto vuoto
di Franco Cordelli


I pugni in tasca di Marco Bellocchio dopo quarantasei anni arriva sulla scena. Si tratta di un tipo di operazione che ha una storia illustre e che negli ultimi anni è diventata sempre più frequente. A scoprire che per fare teatro non è necessaria una scrittura drammaturgica furono le avanguardie. Il teatro si può fare anche recitando l’elenco del telefono, il teatro non è che scrittura scenica: dal Tarzan di Memè Perlini (un romanzo di Edgar Rice Burroughs) al Mago di Oz di Fanny e Alexander (un film di Victor Fleming). Ma qui siamo di fronte a registi e spettacoli nei quali il testo originario era un punto di partenza e poi di riflessione e trasfigurazione. Diversa cosa sono gli allestimenti (cito i recenti) di Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar, de L’appartamento di Billy Wilder o di questo I pugni in tasca. A tradurre la sceneggiatura in copione teatrale è stato lo stesso autore del film. Ci si chiede perché si sia lasciato tentare. Così dimostra di credere non in ciò che fece in quanto regista, ma in ciò che scrisse in quanto sceneggiatore. Bellocchio crede nelle storie, nelle storie in sé, nella loro intrinseca pregnanza. Al contrario, le storie in sé sono quasi nulla, poco più o poco meno che cronache giornalistiche: le consumiamo e in fretta ce ne dimentichiamo. Assistendo allo spettacolo intitolato I pugni in tasca ciò è chiarissimo. Prima di tutto, della storia originaria non è rimasto che lo scheletro. I passaggi narrativi che giustificavano (per quanto possibile) azioni morbose o efferate, qui non ci sono più, si resta a bocca asciutta, spettatori dell’inespresso, ovvero dell’incomprensibile. Se si capisce, si capisce in termini grossolani, pessimi luoghi comuni di quanto di peggio può accadere in una famiglia vissuta come ambiente claustrofilo. Poi c’è la questione cruciale. Ogni sceneggiatura, se la si prende per buona, se la si prende in quanto tale, benché adattata, è una scrittura virtuale o, meglio, funzionale. L’intensità del film di Bellocchio non era data dalla drammaticità della storia ma dallo sviluppo delle sequenze e dalla icasticità di ognuna di esse. Quella certa battuta aveva quel certo valore perché a dirla era Lou Castel dal regista inquadrato in un certo modo, su uno sfondo, o in un contesto piuttosto che in altro. Qui gli attori sono nudi, all’aperto, al freddo, impacciati, spauriti, sembrano aggirarsi sul palcoscenico non avendo di meglio da fare; e qualunque cosa dicano ci si chiede perché la dicono, che valore abbia, essa risuona puntualmente in un inimmaginabile vuoto di regia. La regista è Stefania De Santis, ma di lei sappiamo il nome, che cosa avesse in mente nessuno lo sa. Questa storia, di quattro fratelli imbranati o pazzi, al meglio potrebbe somigliare a una pessima commedia di Tennessee Williams. Ma quando Ambra Angiolini dice qualcosa e la scena si svuota e lei rimane poggiata a un palo, o asta o colonnina, in silenzio per un minuto e mezzo, come se da questo silenzio si dovesse sprigionare chissà che tensione, noi spettatori si resta francamente imbarazzati. Non solo non ha senso il copione, ma è lo spettacolo a risultare d’una dilettantesca goffaggine. In quanto alla Angiolini, se ne tocca con mano l’insicurezza, si percepisce d’essere di fronte a un’attrice che si vede e si sente recitare, un’attrice che pensa a ogni parola o gesto che fa. La scena, una specie di labirinto su più piani, è di Daniele Spisa. Tra gli interpreti ricordo Pier Giorgio Bellocchio (il più credibile) nella parte che fu di Lou Castel.

La Stampa 6.2.12
Il film di Bellocchio secondo la De Santis
Fiacchi “Pugni in tasca”
di Masolino D’Amico


Lunghi silenzi. La scena è fiocamente illuminata, l’atmosfera quasi cecoviana

Le commedie tratte dai film sono di due tipi, quelle per chi non ha visto il film, che quindi funzionano anche indipendentemente, e quelle per chi invece ha visto il film e vuole per così dire ripassarselo. Ora, I pugni in tasca che Marco Bellocchio ha tratto dal copione del folgorante esordio cinematografico (1965) suo e dell’interprete Lou Castel (che il grande critico inglese Kenneth Tynan paragonò al Marlon Brando del Tram ) non rientra agevolmente né nella prima né nella seconda categoria. Si può chiedere al cinefilo di rievocarlo con facce diverse - anche se quella di Pier Giorgio Bellocchio come lo spiritato Alessandro ricorda tanto quella di suo padre giovane - senza quel bianco e nero sprezzante dell’eleganza, già rétro in un’epoca in cui il colore dilagava? Ma anche come semplice dramma noir regge male, almeno nello spettacolo diretto da Stefania De Santis: spezzettato in miniepisodi precariamente saldati con oscuramenti; poco agilmente articolato in una scenografia su più livelli nessuno dei quali consente una visione davvero soddisfacente; fiocamente illuminato, con un’atmosfera quasi cecoviana (lunghi silenzi) poco adatta alla ferocia della storia. Questa, si sa, riguarda una famiglia con madre cieca e soavemente ricattatrice, un figlio pazzo, un figlio normale ma stronzo, un figlio schizofrenico-epilettico, e una figlia frustrata. Liberatoriamente, il figlio schizofrenico elimina la madre e il pazzo e violenta la sorella, consegnando così il patrimonio, una casa di campagna con terre, al fratello normale. Nell’indimenticabile film questa truce materia coniugava dolore, passione repressa, malinconia; qui rimane inerte. Vestiti da Armani, i cinque attori parlano sommessamente, molto composti tranne Bellocchio junior, per 90 filati; l’attesa Ambra Angiolini è diligente e graziosa.
Al Quirino di Roma fino al 13

Repubblica 5.2.11
Per la prima volta va in scena a teatro il celebre film di Marco Bellocchio del 1965 che lo stesso regista ha adattato. Con Ambra Angiolini e Piergiorgio Bellocchio
Orrori di famiglia crudeli ma non troppo
di Rodolfo Di Giammarco


Visione senza alcuna speranza nei confronti dell´uomo di oggi, e catastrofica profezia del deserto emozionale che incombe, il film di Marco Bellocchio I pugni in tasca fu nel 1965, e lo resta ancora oggi, un capolavoro cui riferiamo una ricerca lucida e spietata sul crollo dei costumi, delle relazioni domestiche, dei ruoli in società. Ora a quasi mezzo secolo di distanza, con una parte di pubblico che conosce il titolo di culto ma magari non possiede dimestichezza con la pellicola, sarebbe pedante fare il confronto tra il film e l´adattamento teatrale dello stesso Bellocchio, con regia di Stefania De Santis, e con un cast dove emergono Ambra Angiolini e Pier Giorgio Bellocchio nei panni dei fratelli crudeli, ovvero la Giulia apatica e complice e l´Alessandro due volte omicida (di madre cieca e bigotta, e di fratello con handicap). Ed è giusto parlare solo dello spettacolo d´adesso, prodotto da Roberto Toni, del suo tentativo di proporsi come teatro angoscioso e duro tra quattro mura, con orrori cui ormai la cronaca nera ci ha assuefatti.
Faremmo un´unica eccezione citando il solo elemento comune al grande schermo d´allora e all´allestimento d´adesso, le musiche ben presenti e ossessive di Ennio Morricone con l´aggiunta potente del finale "liberatorio" del primo atto della Traviata quando, in chiusura, entra in crisi e stramazza il deus ex machina Alessandro, sotto gli occhi impassibili (gelidi) della sorella. Poi c´è però da fare il punto con la teatralità de I pugni in tasca. La trascrizione ambientale, il colpo d´occhio risponde a un impianto farraginoso, che nell´intento di accorpare più luoghi ha le sembianze di uno spazio a più livelli e più comparti come s´usava in modo storico e antiquato per i drammi di Tennessee Williams (scene di Daniele Spisa). Al di là della diretta parentela col film, il copione di Bellocchio ha una sua forza verbale che in parte sostituisce (e in parte no) i quadri muti ed emblematici che restano patrimonio del cinema, ma in sostanza regge all´impatto dei rapporti fisici, delle schermaglie dal vivo.
Vale a dire che l´inferno a porte chiuse dove ad affermarsi sarebbero la catatonia della madre e la malattia del fratello più alienato svela anche ora, sulla ribalta, i meccanismi per cui, dopo il formale distinguersi di Augusto (e della sua fidanzata), a fare piazza pulita con due mosse criminali è il fratello malato ma perverso, con la connivenza postuma della sorella. Manca, forse, quel clima d´aridità morbosa e patologica con disincanto fraterno che poi ha immaginato Houellebecq ne Le particelle elementari. Ma Bellocchio ha riletto Bellocchio. Il problema è che, pur in presenza di un testo forte, non si rintraccia un disegno registico emotivo e disperato d´insieme di Stefania De Santis. Va detto che Pier Giorgio Bellocchio è ben teso come ci si aspetta dal suo Alessandro, e che Ambra Angiolini contribuisce con fermezza, ambiguità, toni risoluti e versatilità di figura impersonando Giulia. Poi c´è l´ordinario senso delle convenzioni dell´Augusto di Fabrizio Rongione, la mitezza matriarcale della Madre di Giulia Weber, l´infermità del Leone di Giovanni Calcagno, e la quotidianità estranea e osservatrice della Lucia di Aglaia Mora. Ma è un Dies Irae, questa versione scenica de I pugni in tasca, cui manca spesso la struttura dell´insopportabilità, dell´intolleranza, dell´ossessione di persone innocenti e guaste allo stesso tempo.

l’Unità 10.2.11
Disegno eversivo
di Giovanni Maria Bellu


Salutiamo con sollievo la decisione di Silvio Berlusconi di far causa allo Stato italiano. Certo, è molto probabile che l’annuncio di ieri vada a infoltire la lunghissima serie delle promesse non mantenute, ma il solo fatto che il presidente del Consiglio abbia manifestato il proposito di agire in giudizio contro il suo Paese va considerato un importante passo in avanti verso la chiarezza. Sono ormai diciassette anni che Berlusconi agisce contro l’Italia in modo senza dubbio efficace ma anche un po’ caotico. A tutto campo, verrebbe da dire: ne ha infangato le istituzioni facendo eleggere al Parlamento inquisiti per mafia, ne ha ridicolizzato l’immagine nel mondo prima coi suoi «scherzi» ai vertici internazionali e poi col pubblico scandalo della sua incontrollabile satiriasi, ne ha danneggiato le casse pubbliche giustificando gli evasori fiscali e ne ha offeso la memoria ironizzando sulle vittime del fascismo. Ne ha sistematicamente oltraggiato l’intelligenza con bugie colossali – dalla «ricostruzione» dell’Aquila alla risoluzione del problema dei rifiuti a Napoli – e anche il paesaggio non solo con i suoi «piani casa» ma anche con le sue case private, come l’osceno maniero che ha edificato in Sardegna. Ne ha corrotto l’anima non solo assecondando ma addirittura trasformando in «valori» gli storici vizi dai quali a fatica, e molto
lentamente, tentava di liberarsi. Ecco, giunto a un passo dal completare
l’opera di distruzione del suo Paese, ma anche a un passo dalla possibilità di essere espulso per indegnità dalla vita politica, giunto insomma a questo cruciale bivio il premier ha deciso di adire le vie legali: porterà l’Italia in tribunale per chiederle conto dei suoi giudici sovversivi che in tribunale vogliono portare lui. Quei moralisti che considerano reati le relazioni sessuali a pagamento tra adulti e minorenni. Contemporaneamente (stando almeno agli incredibili annunci giunti ieri sera dal vertice del Pdl) i suoi dipendenti politici denunceranno i giudici per lesa maestà. Sarà il processo del secolo. Anche perché ci sono buone probabilità che l’Italia, così autorevolmente chiamata in giudizio, decida di promuovere un’azione riconvenzionale chiedendo che sia Silvio Berlusconi a pagare. Com’è noto i mezzi non gli mancano, ma dubitiamo che siamo sufficienti a risarcire l’immenso danno che ha prodotto.
Un altro po’ anche ieri. La cosiddetta «scossa» economica impapocchiata lì per lì nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica e recuperare un po’ di consenso (perché il consenso del Caimano cala, checché ne dicano i suoi sondaggisti e i suoi maggiordomi) purtroppo non è «a costo zero». Cioè: lo è per quanto riguarda le risorse pubbliche disponibili (che sono zero, appunto) ma non lo è per il Paese. Perché tra le armi di distrazione (e distruzione) messe in campo c’è ora anche l’annuncio della modifica di tre norme della Costituzione. Il Caimano affonda i denti nella carne viva delle istituzioni per salvare se stesso. Staremo a vedere fino a che punto si spingeranno l’irresponsabilità e l’ambizione personale di quanti lo assecondano nel disegno eversivo.

l’Unità 10.2.11
Bersani: «Scossa? Questa è solo un’operazione di distrazione»
«Le misure annunciate dal governo? Solo una strategia di distrazione. In Italia c’è bisogno di vere liberalizzazioni». Il segretario Pd ribatte agli annunci del premier e lancia un appello alla Lega. «Fermatevi».
di Maria Zegarelli


Una scossa all’economia del Paese? «Le misure annunciate dal governo non fanno nemmeno il solletico», altro non sono che un’«operazione di distrazione», un mix di «norme astratte, calendari, niente di concreto». Pier Luigi Bersani convoca la conferenza stampa al Nazareno poco dopo quella del premier, per annunciare una lenzuolata di 34 liberalizzazioni messe a punto dal Partito democratico e per smontare pezzo per pezzo la ricetta del governo. Berlusconi fissa la crescita del Pil all’1,5% dopo la cura messa a punto dal «filosofo» Tremonti? «Se fosse vero sarei pronto a mettermi il saio e andare a piedi ad Arcore, ma non accadrà perché il Pil non supererà lo 0.5%», scommette il segretario Pd.
APRIRE ALLA CONCORRENZA
«L’Italia dice ha bisogno di una nuova stagione di liberalizzazioni, intesa in senso ampio e molteplice. Ciò vuol dire aprire alla concorrenza mercati chiusi e in regime di monopolio e come può farlo lui, che è un monopolista e un miliardario incapace di capire il paese reale?». La ricetta del Pd punta invece a maggiore potere e libertà ai consumatori e alla revisione della regolamentazione «di alcuni settori di grande impatto sociale». Per questo «non serve a nulla modificare l’articolo 41 del-
la Costituzione, che dalla nascita della Repubblica e fino agli Anni Ottanta non è mai stato un ostacolo al boom economico di questo Paese». Si facciano «41 norme concrete sulle liberalizzazioni, noi ne mettiamo in rete subito 34 e chiediamo a chi ha esperienze di vita vissuta delle idee, di interloquire con noi. Si può fare una mega lenzuolata». Stoccata aggiuntiva: «Il Pil lo si muove con le riforme e non con un articolo scritto dal volenteroso Giuliano Ferrara».
L’APPELLO ALLA LEGA
Ma è alla Lega, sempre più schierata con il premier, che si rivolge Bersani: «Fermatevi qui o si perde un’occasione storica per fare un federalismo che tenga davvero insieme questo Paese». Appello destinato a cadere nel vuoto alla luce del patto che tiene insieme Berlusconi Bossi: federalismo (anche blindandolo con la fiducia) in cambio del via libera su processo breve e intercettazioni. «La Lega vuole dice infatti il segretario ottenere una bandierina e il premier salvare la pelle» anche se questo «porterà a esiti ingestibili, a dei pasticci». Al senatur ricorda che ci sono «solo due forze con radici autonomistiche: il Pd e la Lega» e a Berlusconi che «se fosse qualcosa che assomiglia a uno statista, troverebbe il modo di levare se stesso e l’Italia dall’imbarazzo». In gioco la credibilità del Paese, «anche oggi ho ricevuto telefonate di imprenditori disperati che lavorano all’estero. C’è un punto che si chiama credibilità ed è l’immagine del paese e questo paese non è rappresentato in modo credibile. Così non si può andare avanti». Altro appello, stavolta alla classe dirigente muta davanti a quello che sta succedendo: chi tace adesso come potrà parlare dopo?

La Stampa 10.2.11
Nuova lenzuolata
La “scossa” di Bersani Contropiano in 34 punti

Rinfrancato dai sondaggi (l’ultimo quello di Ipsos diffuso a Ballarò) che danno il centrosinistra per la prima volta sopra nelle intenzioni di voto, Pierluigi Bersani reagisce a tambur battente alla campagna mediatica del premier sull’economia. Con una mossa da leader di un governoombra, convoca subito una conferenza stampa per illustrare una manovra antitetica a quella dell’esecutivo. «Ma quale scossa all’economia? Queste misure non fanno neanche il solletico, non c’è niente di concreto, è un insieme di norme astratte. Se con queste cose il Pil crescerà dell’1,5% come ha detto Berlusconi, prendo il saio e vado ad Arcore a piedi».
Il segretario del Pd dunque boccia senza mezzi termini il pacchetto del governo e ingaggia un botta e risposta a distanza col premier. A Berlusconi che dice «l’Italia ha un debito alto ma i suoi cittadini sono ricchi» e che «le lenzuolate di Bersani non hanno prodotto nessun effetto», Bersani replica gelido di provare «a chiederlo a chi ha un mutuo. Quando si ha una psicologia da miliardario non si può capire come vive il Paese, sono problemi che non si possono comprendere».
Quindi snocciola la sua ricetta, riversando in rete un elenco di 34 liberalizzazioni da fare subito, «per andare incontro alle esigenze dei consumatori, abbassare i prezzi e sostenere il lavoro per i giovani, sbloccando investimenti e attività economiche». Il pacchetto del Pd rilancia disegni di legge già presentati in Parlamento sulle professioni, proposte su una maggiore concorrenza nel mercato dei carburanti e dell’energia, presentati come emendamenti alla Manovra di luglio, iniziative sulla regolazione del settore dei trasporti, come la soppressione del pubblico registro automobilistico (Pra), proposte per liberalizzare il commercio e semplificazioni per le imprese. Un insieme di misure che potrebbero avere «effetto immediato, senza farci perdere un anno, perché la situazione del paese è critica, abbiamo un problema di stagnazione e di rilevantissima disoccupazione e il sistema delle imprese è in difficoltà». E sulla controversa riforma del federalismo, il leader Pd rilancia un appello al Carroccio di fermarsi «prima che si perda un’occasione storica facendo pasticci. Perché se si andasse avanti con una forzatura sarebbe dovuto al fatto che la Lega vuole ottenere una bandierina e il premier vuole salvare la pelle con il processo breve».
E contro il governo si scagliano pure i Verdi, denunciando che il nuovo piano casa approvato oggi «è l’ennesimo condono edilizio mascherato: le città dovranno subire un aumento della superficie abitabile di 490 milioni di metri quadrati e sopportare oltre 1 miliardo di metri cubi di cemento».

Il Sole 24 Ore 10.2.11
Intervista a Susanna Camusso:
dal governo nessuna risposta concreta, tocca alle parti sociali
di Giorgio Pogliotti
qui
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-02-09/intervista-susanna-camusso-governo-220328.shtml?uuid=AaHEhz6C

il Fatto 10.2.11
Ezio Mauro: “Qui è un problema fare l’opposizione”
Il direttore di Repubblica: “Saviano farà solo lo scrittore”
intervista di Luca Telese

“D’Alema e Veltroni hanno iniziato a litigare nel 1994. Il che vuol dire, anche senza esprimere giudizi di merito, litigano da quattro partiti, perché hanno iniziato nel Pd, hanno proseguito con il Pds, poi con i Ds e infine nel Pd...”. Pausa. Sopracciglia che si sollevano: “In questo lasso di tempo non breve, l’America è riuscita ad eleggere cinque presidenti, è stata inventata una cosetta come Google, e - anche se può sembrare incredibile - persino l’Inter è tornata a vincere lo scudetto”. L’apologo sintetico di Ezio Mauro arriva come una scudisciata perché il tono del direttore di Dronero è pacato, non varia di un semitono rispetto a quando mi parla di Bobbio, di Zagrebelsky e di Montesquieu. Però, quando rialzo la testa dal taccuino e lo guardo, noto un inarcamento, in un angolo della bocca - che in fondo è un sorriso. Nel corso dell’intervista il direttore di Repubblica concede un’apertura di credito al centrosinistra (“Finalmente hanno finito con le aperture sulle riforme”) parla soprattutto di Silvio Berlusconi. Lo sfida, di fatto a querelarlo (di nuovo),dedica lunghe riflession ia quella che savianamente chiama “la fabbrica del fango”, cesella epiteti sprezzanti per Brunetta   e Sacconi (“Ministri facinorosi che inseguono le vendette del ‘900”), dice che sarà “lui stesso” (lui è Berlusconi) a creare le condizioni perché tutte le opposizioni si uniscano. Dedica stilettate memorabili a Minzolini Ferrara, Vespa e ad Alfonso Signorini (che non cita direttamente). Rivela la notizia esplosiva di un quasi-ricatto a “un giornalista sgradito al governo”. Definisce “folle” chi dice di una sua candidatura a premier e che Saviano “vuole essere e fa bene lo scrittore”. Repubblica - dice - fa giornalismo, e non politica. Fruga sulla scrivania, estrae un foglietto ingiallito: “È l’unica tessera che io abbia mai avuto in vita mia, quella del Partito d’azione. Un cimelio. Arriva da un lettore”.
Da due anni batti sul tasto dell’anomalia democratica...
Sì. Vedo che anche i dirigenti del centrosinistra accettano questa verità. Posso partire da un’immagine? 
Quale?
Oggi, nella stanza dei caporedattori, avevamo quattro schermi accesi sui tg italiani e internazionali.
E che notizie davano?
Quelli italiani trasmettevano Berlusconi che presentava un improbabile piano di rilancio, la Bbc dava le breaking news sulla richiesta di rito immediato contro il nostro premier.
Ti stupisce?
Affatto. Si citavano i capi di imputazione: il primo: “prostituzione minorile”. Il secondo, da noi “peculato”, era tradotto, efficacemente: “abuso d’ufficio”. 
Cosa hai pensato?
Da noi milioni di persone ancora non sanno che di questo si discute: pochi tg hanno usato altrettanta linearità. Queste due cose non stanno insieme.
Rilancio e prostituzione?
Esatto. Sei con le mani e con i piedi dentro uno scandalo, hai un governo in stato pre-agonico, eppure cerchi di spostare l’attenzione su un annuncio che ha tutta l’aria di una diversione.
Non credi che Berlusconi ci creda?
Non è riuscito a fare questo quando era appena uscito dal voto, investito da un mandato mai visto, da una maggioranza di cento voti e da un consenso fortissimo. Perché dovrebbe ora?
Basta un voto in più dopotutto...
Ha riaggregato un materiale umano terribile. Gente su cui nessuno fa affidamento. E non ci crede nemmeno lui, un minuto dopo averli comprati.
Comprati?
Su Repubblica abbiamo pubblicato il contratto, con tanto di importo, con cui si retribuivano due ex deputati della Lega. Ma ci sono anche transazioni non direttamente economiche. 
Berlusconi querela molti giornali...
Quando ci ha querelato, per le nostre dieci domande, 138 giornali in tutto il mondo le hanno riprese.
Ora pubblicate le dieci bugie...
Mi farebbe quasi piacere se querelasse ancora. Ma capisco che non voglia ripetere l’esperienza. 
Anche voi avete querelato lui.
Per l’invito a boicottarci! Ma invece di andare in tribunale, ha usato lo scudo del Parlamento per l’immunità.
Ha risposto, in parte, però. Oh, sì... Chiuso dentro il recinto del suo notaio personale, e di un libro della sua casa editrice. “Il notaio” è Vespa, un bell’epiteto.
(Stupore) Non è un’illazione.
Non credo che Vespa sia contento.
È il ruolo che si è scelto. Ha iniziato a recitarlo davanti alla scrivania del contratto degli italiani, allestita dallo spin doctor dell’epoca, Crespi.
Il premier sarebbe al suo posto senza controllo di giornali e tv? 
Ovviamente no. Sono strumenti che vengono usati per mistificare, per sviare l’attenzione, propagandare false verità mascherate di antimoralismo.
E tu non sei moralista su Ruby?
Cosa c’è di morale in messaggi dettati dal cielo con episodi di giornalismo imbarazzante?
Alt. Stai parlando dell’intervista al Tg1 di Augusto Minzolini, con le domande inserite ex post.
Ho conosciuto Minzolini quando dava l’anima per cercare le notizie, ora guardo con fatica i titoli del suo tg. Oggi dà l’anima per nasconderle.
Non guardi più il Tg1?
Cosa c’è da vedere? Ci sono le reazioni del potere alle notizie che non sono date. Cosa può capire lo spettatore?
Il problema sono i giornalisti?
Il problema non sono i killer, ma i mandanti. 
Facciamo scuola di giornalismo?
Va illuminato il mandante, e soprattutto il movente. Il vero voyeurismo non è il nostro. È quello di chi pubblica le intercettazioni senza spiegare il contesto e trarre le conseguenze.
Esempio?
Non è informazione il giornalismo di chi non tira mai un filo. Un grande giornale ha persino scritto: è stata spiata la residenza di Arcore. Bè, menzogna.
Le ragazze sono state intercettate.
Non a casa del premier. E la telefonata per cui tutto il mondo ci ride dietro è stata ammessa da lui stesso, nel tentativo grottesco di trasformare una menzogna in una verità di Stato.
I giornali di sinistra processano Berlusconi? 
Posso citarti una frase: “Un uomo politico deve rispondere pubblicamente dei suoi comportamenti privati”. Non è un mio editoriale, è di Barbara Berlusconi. Non posso che sottoscrivere.
Questa è una piccola perfidia.
No, buonsenso. Bastano le parole della figlia. E invece lui cerca di farsi assolvere, ancora una volta dalla sua maggioranza con il voto sull’inchiesta.
I magistrati vanno avanti.
Ma la fabbrica del fango, immediatamente, colpisce. Hai visto cosa hanno fatto alla Boccassini?
Il trattamento Boffo?
Certo. Quello che ha colpito Mesiano. E poi l’avvertimento a Fini, seguito dalla campagna su Montecarlo. E parlo dei casi che ho studiato.
Cosa intendi?
L’avvertimento dei giornali del premier agli avversari del premier è: attento, ora rovistiamo nel tuo letto. La tua vita privata verrà messa a soqquadro.
Non sempre funziona.
Anche se non ci si piega il messaggio per tutti è: tieni gli occhi bassi. Tieni le orecchie chiuse.
Non è finita? 
Posso raccontarti il caso di un importante giornalista sgradito al governo.
Chi?
Il nome non posso farlo. E’ stato chiamato dal direttore di uno dei giornali di presunto gossip, la cui principale attività è santificare la famiglia reale...
 È facile: il “Chi” di Signorini.
Non importa. Importa il messaggio: “Ci sono delle fotografie imbarazzanti che ti riguardano, se te le vuoi ricomprare questo è il numero del fotografo”.
Stai dicendo che è un ricatto?
Peggio: ti sta dando un avvertimento. Ti dice che sei sorvegliato. Ti dice che devi rigare diritto. E anche se quest’uomo non si piega lo hai toccato. Questo è un paese in cui è un problema stare all’opposizione. 
Cossiga disse: “Mauro sarà il candidato premier del centrosinistra”.
Se è per questo l’ha scritto pure Libero, e me l’ha chiesto persino un leader di centrosinistra
Nome, nome...
Non lo dico perché è una fesseria. Non salgo mai sui palchi. Non sono andato nemmeno al Palasharp.
Hai duellato con Ferrara...
Aveva scritto un articolo incredibile. Ora vedo che si è corretto. Sono d’accordo con lui su una cosa... 
Questa è una notizia.
Che non siamo d’accordo su nulla. Hanno attaccato Eco perché ha detto che legge Kant. E cosa dovrebbe leggere? La Settimana Enigmistica?
Repubblica tira la volata a Saviano?
È uno scrittore, straordinario, che vuole continuare a fare lo scrittore. È uno straordinario personaggio pubblico, non credo sia un personaggio politico. Vedi?
Cosa?
È una caratteristica del populismo. Ma perché Saviano non si fa gli affari suoi? Il messaggio per tutti è fatti gli affari tuoi, a te pensa il sovrano.
Non ti senti troppo indulgente con il centrosinistra?
Assolutamente no!
Cosa gli manca?
Hanno perso il concetto di fraternità. Se discuti con Franceschini o Bersani, ti parlano 10 minuti di Berlusconi e 50 del loro avversario di partito. 
Allora sei più duro di noi de Il Fatto.
Noto che non si sentono compagni. Essere moderninonsignificafareilbagnonelsenso comune. O fare il gregariato del vincente, penso alla Fiat. Uno di loro...
Chi?
Non conta. Un insospettabile. Quando nel 1994 scrissi che la parola unificante doveva essere riformismo, mi chiamò: ‘Come sei vecchio, culturalmente’. Bè, ora riformismo è l’unica cosa che hanno sulla carta di identità.
Allora sei spietato
No, ti ripeto. Ogni settimana chiedevano il dialogo sulle riforme a prescindere. Ora vedo che si sono corretti. Sai cosa mi disse Bobbio? “Si interrogano sul loro destino e non capiscono che dipende dalla loro natura, se risolvessero la loro natura risolverebbero anche il loro destino”.

Repubblica 10.2.11
Il Cavaliere in calo nei sondaggi perde con Bersani, Casini e Vendola
Pagnoncelli: per il 61% degli intervistati dovrebbe dimettersi
Il Rubygate comincia a pesare nella valutazione sul premier: gradimento a picco
In questo momento solo un elettore su 4 sceglierebbe la coalizione di centrodestra
di Mauro Favale

ROMA - Berlusconi contro Bersani? Vince Bersani. Berlusconi contro Casini? Vince Casini. Berlusconi contro Vendola? Vince Vendola. La premessa è che «si tratta di simulazioni». Ma i sondaggi effettuati da Ipsos e illustrati due giorni fa da Nando Pagnoncelli a Ballarò, raccontano una situazione in evoluzione con un presidente del Consiglio che a meno di un mese dall´esplosione del caso-Ruby, subisce, secondo le previsioni di voto, i contraccolpi dell´ennesimo scandalo. Tanto che per il 61% degli intervistati Berlusconi dovrebbe dimettersi.
Una cifra bilanciata, però, da un dato opposto: quasi la stessa percentuale (il 59%) ritiene che, alla fine, il governo continuerà la sua attività e solo il 12% pensa che si arriverà al voto anticipato. Ciò non toglie, però, «l´esistenza di un fronte largo non favorevole a Berlusconi», spiega Pagnoncelli. «Prevale una radicalizzazione delle posizioni e un ricompattarsi degli elettori contrari al premier». Si spiegano così le cifre delle simulazioni sui "confronti diretti": Bersani-Berlusconi finirebbe 43% a 33%; Casini-Berlusconi 45% a 32%; e nello scontro a tre Vendola-Berlusconi-Casini prevarrebbe il primo col 32%, poi 31% al secondo e 21% al terzo. Circa un quarto degli intervistati, però, nel caso di scelta secca preferisce non decidere. Nella simulazione sulle coalizioni, poi, il centrodestra perderebbe (fermo al 38,7%) sia se in campo ci fossero Centrosinistra (41%) e Centro (17,8%) sia in caso di una coalizione "tutti contro Berlusconi" (51,3% contro 44,2%).
«Si sono moltiplicati gli oppositori del premier - prosegue il direttore di Ipsos - fatto salvo il dato di chi dichiara che, in caso di elezioni, non andrà a votare». Una percentuale ancora vicina al 40%, tra indecisi, astenuti e delusi. Un dato che difficilmente potrà essere recuperato da Berlusconi: «Quando si avvicineranno le elezioni, la quota di non voto si assottiglierà. Non arriveremo, però, all´affluenza del 2008, vicina all´80%. In ogni caso, è difficile che chi oggi è deluso possa poi esprimere un giudizio positivo e tornare a votare per il governo uscente». È con quest´ampia fascia di indecisi che bisognerà comunque fare i conti.
Per adesso, Pagnoncelli mette in fila le cifre assolute, riscontrando per il Pdl un trend calante: «Nel 2008 raccolse 13 milioni e 800 mila voti. Alle Europee del 2009 furono 10 milioni e 800 mila. E non era ancora nato Fli né era scoppiato il caso Ruby». Inoltre, su una base elettorale che si riduce perché crescono le astensioni, «il peso reale di quel 27-30% intorno al quale viene accreditato oggi il Pdl rappresenta il 18% in termini assoluti. E se aggiungiamo anche la Lega, il 40% di consensi attribuiti dai sondaggi al centrodestra significa, in termini di elettorato complessivo, il 24%». Solo un elettore su 4, insomma, tra tutti gli aventi diritto al voto in Italia, sceglierebbe, in questo momento, la coalizione di centrodestra.

Corriere della Sera 10.2.11
L’alternativa è Vendola?
Giovedì sera vuol dire Santoro, vuol dire arena, vuol dire viale Mazzini che trema. Il giornalista che sempre più sbanca l’Auditel — soprattutto quando tratta di Berlusconi e degli scandali sessuali— anche stasera non può non parlare del governo... Come si esce da questa situazione? Vendola ha la forza politica per unire tutto il centrosinistra? Qual è la sua proposta politica, economica, sociale e culturale per sfidare Berlusconi alla guida del Paese? Ospiti oltre a Vendola, l'economista Irene Tinagli e i giornalisti Lucia Annunziata, Pierluigi Battista e Nicola Porro. Annozero Raidue, ore 21.05


l’Unità 10.2.11
Le responsabilità del Comune
I Rom, la tragedia e i tre errori di Alemanno
di Roberto Morassut


Dopo la tragedia di Tor Fiscale Alemanno ha chiesto poteri speciali per risolvere il problema dei campi rom reso, a suo parere, complicato dalle resistenze della “burocrazia”.
Tralascio il fatto che nel 2008 non la pensava così e che promise espulsioni di massa per catturare consenso elettorale pur sapendo di non avere il potere di farlo. La realtà è che nello specifico caso di Tor Fiscale il Comune è stato latitante e senza poteri speciali, ma con procedimenti del tutto ordinari, poteva risolvere da tempo il problema. Questo giudizio emerge da due fatti.
Primo. Nel maggio del 2010 un rapporto redatto dal Corpo dei Vigili Urbani segnalava direttamente agli uffici del Sindaco la rischiosa situazione di un insediamento abusivo composto da oltre venti persone di cui la metà minori alloggiati in baracche. Da allora nulla si è mosso per affrontare il problema.
Secondo. Già dal 2007 il Comune su mio indirizzo aveva avviato con un atto di Giunta una procedura di recupero urbanistico per approvare un piano particolareggiato in variante col fine di riqualificare l’area, sgombrare insediamenti abusivi, favorire la sicurezza e valorizzare l’area di proprietà del Cotral che avrebbe potuto così consolidare il proprio bilancio. Dove è finita quella delibera? Perché non è stata portata avanti?
Sono domande importanti a cui si deve dare risposta perché con il “normale” funzionamento amministrativo e senza “poteri speciali” si poteva probabilmente prevenire una situazione grave. Il Sindaco, su questo, qualche spiegazione dovrebbe darla.
Infine occorre ricordare un’altra cosa. Il Comune di Roma aveva messo allo studio tra il 2006 ed il, 2007 a cavallo della approvazione del Piano regolatore di Roma, una serie di localizzazioni per realizzare alcuni insediamenti regolari per i rom. Si trattava di aree prive di vincoli in zone semiurbanizzate tali da non creare problemi agli insediamenti esistenti e da non risultare completamente isolate e collocate grossomodo nei quattro punti cardinali di Roma. Su quelle aree avrebbero dovuto essere realizzati i cosiddetti “Villaggi della solidarietà” da gestire in collaborazione tra il Comune, associazioni di volontariato laico e cattolico e le rappresentanze delle comunità rom.
Queste scelte e questo metodo furono aspramente criticati da Alemanno che preferì usare in modo miope e strumentale l’argomento delle espulsioni. Quel lavoro complesso che non aveva alternativa come ora dimostrano i fatti fu gettato alle ortiche ed ora Alemanno invoca “poteri speciali”. Il solito alibi al quale non crede più nessuno.

l’Unità 10.2.11
Il rapporto dei carabinieri maggio 2010: «Troppi materiali infiammabili, rischio incendio»
I sopralluoghi dei vigili urbani corredati da fotografie, l’ultimo censimento il 9 dicembre
Bimbi rom, tutti gli allarmi che Alemanno ha ignorato
La veglia a Santa Maria in Trastevere, le mamme rom: «Basta campi, i nostri figli muoiono di malattia o bruciati». Il cardinale vicario Vallini: «La carità non può essere disgiunta dalla giustizia».
di Jolanda Bufalini


Si sono avvicinate alla fine della veglia di preghiera a Santa Maria in Trastevere, la basilica dove si raccolgono in preghiera gli immigrati, i bisognosi, i portatori di handicap, per la prossimità alla comunità di
sant’ Egidio. Si sono avvicinate le donne rom alle autorità presenti, il sindaco Gianni Alemanno, il presidente della Provincia Nicola Zingaretti, la presidente della Regione Renata Polverini: «Basta campi», hanno chiesto a gran voce. «I nostri figli sono tutti malati o bruciati». Incoraggiate, forse, nella tragedia, dalle parole pronunciate dal pulpito dal cardinale vicario Agostino Vallini, così come la famiglia di Sebastian, Patrizia, Fernando e Raul si era sentita accolta, per la prima volta nel nostro paese, dalla massima autorità civile, il presidente Napolitano. Incoraggiate anche, nel grido disperato, dalla lettura, al termine dell’ omelia, di cento nomi di bambini rom morti a Roma negli ultimi dieci anni: annegati nel fiume sul cui argine era costruita la loro baracca, morti di polmonite, bruciati nel rogo causato da un fornelletto o da una candela. Per ogni bambino una candelina è stata portata all’ altare.
La folla in chiesa si è stretta intorno Elena Moldovan e Erdei Mircea,
che non hanno mai smesso di piangere durante la cerimonia. Non c’era solo gente comune ad ascoltare le parole del cardinale, c’erano anche politici, fra gli altri Casini e l’ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick. «La carità ha sostenuto Agostino Vallini è inseparabile dalla giustizia. Viviamo in una città complessa e sarebbe un gravissimo errore ignorarlo» ma i problemi non possono far velo al punto fondamentale: «Domandarsi a quanti casi di giustizia negata dobbiamo riparare, perché gli immigrati non devono essere considerati solo come fonte di problemi ma anche come titolari di diritti», al lavoro, alla scuola, alla casa, alla salute. Ieri al Senato, la commissione straordinaria per i diritti umani ha approvato all’ unanimità il rapporto sulla condizione di Rom, Sinti e Camminanti in Italia. Vi si lamenta l’assenza di un piano nazionale che preclude all’Italia l’accesso ai fondi europei. E si segnala anche come il fenomeno dei campi sia solo italiano. Negli altri paesi europei «i campi sono di transito» mentre le soluzioni che la commissione suggerisce sono quelli degli alloggi popolari, delle auto-costruzioni, delle famiglie allargate. «La soluzione non può essere dice la commissione l’eterna emergenza e lo spostamento da un luogo all’ altro, andando dietro alle lamentele».
Nel frattempo emerge che la situazione della famiglia dei quattro bambini arsi vivi a Tor Fiscale era ben nota al Campidoglio. Denuncia Susi Fantino, presidente del IX municipio: «Li conoscevamo perché più volte erano stati sgomberati, e il papà lavora nell’edilizia». Il sindaco Alemanno, accusa la presidente, «non può far finta di non sapere». Ecco qui l’elenco delle azioni compiute e comunicate al gabinetto del sindaco per mettere in guardia dalle condizioni di grave insicurezza del piccolo insediamento: una segnalazione forte e dettagliata è contenuta in un rapporto dei carabinieri datato 9 maggio 2010, i militari mettono in guardia proprio dal «rischio di incendi per la presenza concentrata di materiali infiammabili dagli indumenti in acrilico alle bombolette a gas». Nello stesso mese di maggio seguono una lettera dettagliata del direttore del Municipio Di Giovine e una lettera della mini-sindaco: «Ho espresso la preoccupazione sia per una collocazione più protetta delle famiglie accampate sia per il rischio che vi fossero reazioni negative da parte dei cittadini», spiega ora Susi Fantino. Ma non è finita lì, perché si sono susseguiti puntuali i rapporti della polizia municipale, corredati di fotografie, a giugno, ottobre e dicembre. L’ultimo sopralluogo, il 9 dicembre, è stato anche occasione di un censimento. «Alemanno sostiene la presidente del Municipio non può nascondersi dietro cavilli burocratici che in questo caso non c’entrano. Quello era un piccolo gruppo e un’azione preventiva era semplice da realizzare».
Nessuna schiarita, intanto, nei rapporti fra il sindaco e il ministro dell’Interno. Alemanno, ieri mattina, aveva annunciato che, se Maroni non rispondeva, si sarebbe rivolto a Berlusconi. Il ministro non deve aver gradito e non lo ha ricevuto. «Non ero a Roma, non sono ancora andato in ufficio ha tagliato corto Lo riceverò. Prima o poi».

l’Unità 10.2.11
Conversando con...
Beppino Englaro
Dico no all’inferno di Eluana: per questo ho consegnato il mio testamento biologico
di Luca Landò

qui


Repubblica 10.2.11
Anche Bossi boccia la festa del 17 marzo, imbarazzo nel governo
Perché è giusto non lavorare nel giorno dell´Unità d´Italia
di Adriano Prosperi

Il 17 marzo 1861 si riunì a Torino il primo Parlamento e venne proclamato il Regno d´Italia. Era nata la nazione come realtà politica. Fino ad allora l´Italia era stata solo una espressione geografica. Per ricordare quella data faremo festa il prossimo 17 marzo. La faremo davvero?

La data si avvicina e le voci critiche, dubbiose, ironiche si moltiplicano. Oggi la possibilità, il pericolo che la festa venga cancellata si sono fatti tangibili. Su di un´opinione pubblica frastornata, in un paese diviso profondamente da disuguaglianze di beni, di consumi e di diritti, dove le diversità che consideravamo la ricchezza e l´originalità dell´Italia oggi appaiono improvvisamente come cesure insanabili, cala l´ombra del dubbio: un dubbio che investe la festa come simbolo e che nel simbolo ferisce in modo grave il dato reale. Perché se muoiono i simboli l´entità che essi rappresentano comincia a cessare di esistere: la morte del simbolo nella coscienza comune significherebbe che l´Italia che apparentemente continuerebbe a esistere sarebbe un fantasma privo di vita.
Ma vediamo gli argomenti. Perché questa festa non s´ha da fare? Qualcuno la mette sul serio: l´economia nazionale è così grama che non tollera il rischio del lavoro perduto. E come spesso accade l´argomento dell´economia ha dato una maschera seria a chi non la possedeva. È bastato che la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, persona seria e che sa farsi ascoltare con rispetto, parlasse del danno rappresentato dalla perdita di otto ore di produzione, perché chi non aveva avuto fino ad allora il coraggio di andare al di là delle battutine e delle alzate di spalla si mettesse alla sua ombra per insidiare più decisamente l´evento festivo e provare a cancellarlo del tutto. Si sono levate voci ostili dalle regioni dove comandano parti politiche che si desolidarizzano dalla responsabilità della nazione pur attingendo alle sue risorse e si inventano appartenenze e identità patrie di pura fantasia. Hanno parlato coloro che concepiscono la politica come arte dell´alzare muri divisori e si inventano religioni del sole delle Alpi e del fiume Po mentre baciano sacre pantofole prelatizie.
Non con loro vale la pena di parlare. Limitiamoci all´argomento "serio" della Marcegaglia. Davvero – si chiedeva Giorgio Ruffolo su questo giornale – in questi 150 anni della nostra storia non ci siamo guadagnati nemmeno otto ore per festeggiare la nostra unità nazionale? Perché il fatto singolare è che non stiamo progettando l´introduzione di una nuova festa nel calendario civile: quella del 17 marzo 2011 non sarebbe l´equivalente italiano del 14 luglio francese o del 4 luglio americano. Sarebbe un "una tantum", da ripetere magari solo quanto i 150 saranno diventati 200 o 300. Un ricordo del passato, un impegno per il futuro: un momento comune e pubblicamente riconosciuto per sostare e prendere atto di un accadimento storico che ci riguarda tutti in quanto italiani, non in quanto legati a questo o a quel partito, a questa o a quella ideologia, fede religiosa o identità etnica.
Quella mattina del 17 marzo gli italiani non si alzeranno per andare al loro solito posto di lavoro – quelli che ne hanno uno – o a cercare lavoro – quelli che non ne hanno, che sono tanti, soprattutto fra i giovani. Dovranno pensare tutti almeno per un attimo che quel giorno è diverso e saranno portati a soffermarsi su quel pensiero. Scopriranno che quel giorno è la loro festa: di tutti loro in quanto italiani, perché in Italia sono nati, vi abitano, vivono e lavorano. Per questo la festa deve esserci. La dobbiamo alle generazioni passate e a quelle future. E deve essere pubblicamente dichiarata e rispettata.
Non ascolteremo chi vuole convincerci a sostituire il fatto pubblico con un fatto privato o un pensiero individuale, a riporre il senso dell´appartenenza e l´impegno ad affrontarne i problemi del paese nascondendo quel pensiero nel dominio segreto delle intenzioni, trasformandolo chi vuole in voto da formulare "in interiore homine". Sarebbe uno schiaffo al paese e in primo luogo a chi degnamente lo rappresenta nel mondo e si è impegnato a tutelarne i diritti e a farne osservare i doveri. Perciò quel pensiero il 17 di marzo del 2011 lo dovremo dedicare in particolare ad alcuni nomi: quello del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quelli dei suoi predecessori, in modo particolare Carlo Azeglio Ciampi.

La Stampa 10.2.11
La rivolta dei blogger “Gaza è stufa di Hamas”
Il vento del Cairo arriva nella Striscia, gli islamisti proibiscono le manifestazioni
di Francesca Paci

Come vedo la rivoluzione del Cairo? Eccola, una strada sbarrata» dice il cinquantenne Youssuf indicando la barriera che si scorge oltre i palazzi incompiuti all’estrema periferia di Rafah. Dal 25 gennaio il confine tra Gaza e l’Egitto è sigillato e l’unica via di transito corre nei tunnel sotterranei costruiti nel 2007 per aggirare l’embargo internazionale. Da lì sono tornati a casa numerosi militanti di Hamas, fuggiti dalle prigioni nei giorni convulsi della rivolta egiziana ma anche il corpo di suo cugino Ali Younis, morto d’infarto una settimana fa mentre si trovava per affari a El Arish.
L’eco della rivolta L’eco di piazza Tahrir arriva a Gaza forte ma distorta. L’instabilità ha reso più difficile attraversare il Sinai e i prezzi delle merci contrabbandate sono schizzati alle stelle. «A ogni carico che ricevo devo aggiungere 300 schekel (circa 60 euro) per la scorta del camion» calcola Abu Khalid, uno dei proprietari dei tunnel. Con il risultato che la benzina è raddoppiata e il cemento è passato da 430 a 900 schekel la tonnellata.
Tra aspirazioni abortite e difficoltà quotidiane la vita a Gaza non è cambiata, in apparenza. Per la prima volta nella leggenda della piazza araba, un’intifada vede i palestinesi spettatori. Ma la quantità di automobili della polizia agli angoli dei viali sterrati suggerisce un’altra storia. Tutti aspettano di vedere cosa accadrà domani, se si svolgerà o meno la manifestazione indetta su Facebook al grido di Revolution dal gruppo Karama. Impossibile leggere oltre la sigla per capire chi siano gli organizzatori, ma molti sospettano si tratti di uomini di Fatah.
«Non andrò perché se qualcuno scenderà in strada la sicurezza sparerà per uccidere» dichiara la giornalista ventinovenne Asmaa Alghoul, giacca di pelle anni settanta, smalto violaceo, kajal intorno agli occhi. Non ha paura, al contrario. Da cinque anni è ai ferri corti con Hamas di cui denuncia regolarmente «l’islamismo liberticida mascherato da lotta contro l’occupazione israeliana», nel 2009 è stata licenziata dal giornale di Ramallah al Ayyam perché raccontava le torture commesse da Fatah, ora che la rivolta tunisina e egiziana ha messo le ali ai desideri di milioni di ragazzi arabi il suo blog è finito sul serio nel mirino di Hamas che prima ha arrestato lei, poi il fratello e il padre.
Revolution Asmaa si affaccia al balcone e mostra l’automobile scura che la segue da giorni: «Mi hanno picchiato, mi hanno minacciato di morte, dicono che sono nemica del governo e che ho organizzato la manifestazione Revolution, ma non è vero e non andrò perché non sto con nessun partito, quando la nostra rivolta esploderà sarà popolare».
Asmaa non è sola. Da quando ha preso il potere a Gaza la popolarità di Hamas è calata a picco. Lo mormorano le mamme al mercato, i padri pescatori seduti sulle barche che non prendono il largo, il ferramenta Mahmoud che conta un cliente ogni ora e mezza. «Non ci abbiamo guadagnato niente dal cambio con Fatah», ripetono. Ma nessuno ha voglia di esporsi. I figli sì. E non solo contro Hamas. Da due mesi, prima ancora che la rivolta tunisina suonasse la carica, otto universitari tra i 20 e i 25 hanno lanciato via Facebook il «Manifesto dei Giovani di Gaza» che suona più o meno così: «Vaff... Hamas. Vaff...Israele. Vaff... Fatah. Vaff.. Onu. Vaff... Unrwa. Vaff... Usa». Rifiutano la cultura del vittimismo e chiedono che la frattura tra Hamas e Fatah venga sanata per il bene del popolo palestinese. «Il cambiamento comincia prendendosi le proprie responsabilità», sostengono. Quando hanno inziato c'era con loro Wael Ghonim, il blogger diventato simbolo della rivoluzione egiziana. I sostenitori oggi sono a quota 20 mila.
Per incontrarli in un caffè-pasticceria della zona di Alrimal, a Gaza City, bisogna passare attraverso un mediatore e accettare di tenere celati i nomi e i dettagli che potrebbero farli identificare. Dove studiano, cosa, il quartiere in cui vivono. Arrivano in tre, jeans, felpe, snikers, potrebbero essere studenti di Londra, Parigi, New York. Ascoltano i Beatles ma anche la cantante libanese Fairouz e conoscono a memoria le battute del film «Il Padrino». «È cominciato tutto per gioco, ci chiedevamo tra amici cosa volessimo fare da grandi ed è venuto fuori che non potevamo far nulla, non mettere a frutto i nostri studi, non sposarci senza un lavoro, non fuggire» spiega Abu Yaza. Interviene Abu Oun: «Il manifesto l’abbiamo scritto così, di getto, ma solo perché eravamo tra amici, siamo cresciuti con la consapevolezza che non puoi fidarti di nessuno».
Il poliziotto Entra un poliziotto in uniforme nera a comprare dei dolci e loro scartano parlando di calcio, Inter, Milan, Real Madrid. Poi riprendono: «Non vogliamo più stare in panchina. La nostra rivolta è diversa da quelle tunisina e egiziana, noi abbiamo tre nemici, Hamas e Fatah che combattendosi hanno dissanguato la nostra causa, e Israele».
La rete si allarga. Con Asmaa sono usciti allo scoperto un’altra ventina di blogger, tra cui il giovanissimo Afun. Via passaparola, amico chiama amico, il Manifesto è sulla bocca di molti, sottovoce. Sarà un caso, ma Hamas non ha rilasciato una sola dichiarazione ufficiale sulla situazione in Egitto. Nel frattempo la security ha chiuso il centro di aggregazione giovanile Sharik.
«In comune con gli altri coetanei in rivolta in tutti i Paesi del Medioriente abbiamo la volontà di non essere strumentalizzati» insiste una ragazza velata, bevendo tè sulla terrazza dell’hotel Beach. La religione conta, dice, ma non nell’arena politica: «Finora abbiamo fatto comodo a tutti, all’Iran che paga Hamas, all’America che paga Israele e Fatah, vogliamo poter cacciare via i governanti che non ci rappresentano». «Degage», via, urlano per le strade di Tunisi. «Fuori Mubarak», rispondono dal Cairo. Sono i figli a maturare la frustrazione dei genitori. Gaza inizia a mormorare.

Corriere della Sera 10.2.11
Agostino, Hugo, Nietzsche I classici che hanno fondato l’Occidente liberale
di Antonio Carioti

Ci sono autori dei quali non ci si può disfare, neppure volendolo, perché i loro dubbi, le loro riflessioni, la loro indignazione hanno lasciato un segno nella storia e continuano a risuonare intorno a noi, nonostante il frastuono dei tanti richiami effimeri con cui ci assilla l'inflazione mediatica. Per quanto sommerso da messaggi di ogni genere, spesso del tutto privi di un contenuto significativo, il pubblico sa riconoscere l’impronta di questi autori e mostra di apprezzarli. Così si spiega l’attrazione che esercitano i festival dedicati alla letteratura, alla filosofia, alla storia, al diritto, alla spiritualità. E si spiega allo stesso modo il successo della collana «I Classici del Pensiero Libero» , inaugurata in novembre dal «Corriere della Sera» con l’offerta di grandi testi al prezzo di un euro più il costo del quotidiano. L’iniziativa è partita con il Trattato sulla tolleranza di Voltaire e in questi giorni è giunta alle Lezioni di politica sociale di Luigi Einaudi (in uscita oggi) e al Manifesto di Ventotene di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli (in edicola dopodomani). Ora si appresta a proseguire oltre i programmi iniziali, con una nuova serie. La scelta di prolungare la collana era quasi obbligata, di fronte alla pressante richiesta dei lettori e al riscontro del mercato. Molti si sono lamentati di non aver trovato qualcuno dei «Classici» , perché era già andato a ruba. È evidente che nel nostro Paese c’è fame di cultura: si avverte l’esigenza di confrontarsi con libri che pongano e approfondiscano i grandi temi da cui ha preso le mosse la civiltà liberaldemocratica dell’Occidente. Insistere su questi argomenti appartiene del resto alla missione istituzionale di una testata come il «Corriere» . In assoluta coerenza con l’impostazione precedente, la nuova serie procederà fondamentalmente su due binari. Da una parte libri che hanno smosso l’opinione pubblica del loro tempo, determinando svolte importanti in campo politico e sociale. Dall’altra testi di approfondimento filosofico, che hanno trattato in maniera innovativa le grandi questioni della vita e della cultura. Un esempio eloquente sono le prime due nuove uscite. Giovedì 17 febbraio vanno in edicola assieme al «Corriere» Le confessioni di un peccatore, pagine in cui Sant’Agostino d’Ippona mette a nudo il tormento della sua anima: una pietra miliare del pensiero cristiano sulla condizione umana e sul male, con prefazione di Giuliano Vigini. Sabato 19 febbraio tocca invece a Victor Hugo, grande scrittore francese dell’Ottocento, e a una raccolta dei suoi scritti riguardanti la battaglia per l’abolizione del supplizio capitale, intitolata Contro la pena di morte, con prefazione di Ranieri Polese. La serie proseguirà con due pensatori tedeschi che hanno segnato in modo indelebile il loro tempo. Giovedì 24 febbraio esce Il giudizio degli altri di Arthur Schopenhauer, con prefazione di Paola Capriolo, mentre sabato 26 approda in edicola Verità e menzogna di Friedrich Nietzsche, con prefazione di Sossio Giametta. Sarà poi il turno del Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano di Pietro Abelardo (3 marzo), con prefazione di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e dei Pensieri di Montesquieu (5 marzo), con prefazione di Giuseppe Bedeschi. Dal tardo impero romano all’età dell’Illuminismo, dal Medioevo all’Ottocento, perché ogni epoca ha avuto i suoi spiriti forti, capaci di parlare ancora direttamente a ciascuno di noi, nonostante il trascorrere dei secoli.

Corriere della Sera 10.2.11
Per spiegare la politica di oggi lasciamo in pace l’azionismo
di Massimo Teodori

Nella polemica tra berlusconismo e antiberlusconismo sarebbe meglio lasciare in pace l’ «azionismo» , la «cifra morale azionista» e le «belle anime degli azionisti» . La categoria dell’azionismo è solo un’invenzione utilizzata sia dai laudatores, che vi proiettano l’intransigenza civile che scorre nelle vene della Repubblica, sia dai detrattori che lo bollano come l’indomabile nemico giacobino dei valori tradizionalisti. Certo, il Partito d’Azione, tra il 1942 e il 1946, ha svolto un ruolo politico decisivo nella Resistenza e nei Comitati di Liberazione fino alla Costituente. Ma, in seguito, l’azionismo scompare del tutto come movimento politico e come tendenza intellettuale coesa, mentre si sviluppano i percorsi dei singoli esponenti azionisti che imboccano strade diverse: la socialista di sinistra (Lussu, Foa), la socialista autonomista (Lombardi), la socialdemocratica (Garosci) e la liberaldemocratica (La Malfa e poi Valiani). Anche Ferruccio Parri seguì un itinerario tutto suo tendente a perpetuare il ruolo unitario di capo della Resistenza; e Norberto Bobbio non può e non deve essere caricato del fardello di interprete autentico dell’azionismo. Per comprendere la penosa crisi d’oggi, dunque, è improprio utilizzare la chiave dell’azionismo, estraendone la memoria dalle vicende di sessantacinque anni fa. Distinguere quel che va distinto in un determinato momento è la sostanza della lezione laica e liberale. A proposito della quale non corrisponde a verità l’affermazione secondo cui i liberali (anche di sinistra) hanno sempre rifiutato l’anticomunismo. La profonda anima liberale e liberaldemocratica riposa, fin dal periodo tra le due guerre, nell’antitotalitarismo, vale a dire nell’accoppiata di anticomunismo e antifascismo, in versioni democratiche e liberali. È vero che in Italia la storiografia di sinistra ha cancellato l’antinomia totalitarismo-antitotalitarismo, ma lo ha fatto non per ragioni storiche ma politiche. Discutendo di liberalismo, come si possono dimenticare, ad esempio, i contributi antitotalitari di Hannah Arendt, Raymond Aron, George Orwell e, in Italia, di Gaetano Salvemini, Ignazio Silone e Mario Pannunzio?

Repubblica 10.2.11
Multiculturalismo
Perché è andato in crisi il sogno della convivenza
di Alain Touraine

Secondo il premier inglese David Cameron e la cancelliera tedesca Angela Merkel occorre abbandonare l´idea della coesistenza tra gruppi con tradizioni diverse. E in Europa si riapre la discussione
Senza integrazione il rispetto della diversità produce l´antagonismo di etiche e pratiche che finisce per minare la coesistenza civile
Le leggi nazionali devono sempre prevalere sui costumi dei paesi da cui provengono gli immigrati

Quando si parla dei rapporti tra culture diverse all´interno di una stessa società occorre evitare semplificazioni e schematismi, sottraendosi alla tentazione dell´aut aut tra assimilazionismo e multiculturalismo. Due atteggiamenti contrapposti che nelle loro versioni più intransigenti diventano entrambi irrealistici, e quindi fallimentari. In Francia, dove si pensava di poter integrare gli immigrati, assimilandoli all´interno di un´identità nazionale, oggi questi sono prigionieri dei quartieri ghetto, alle prese con una disoccupazione altissima e una discriminazione sempre più marcata. In Inghilterra, David Cameron - come per altro Angela Merkel in Germania - denuncia i limiti del multiculturalismo, dove la difesa delle differenze culturali alla fine ha prodotto contrapposizioni inaccettabili e il rifiuto dei diritti degli altri. Nei due casi, ha prevalso un comunitarismo intransigente che resiste ad ogni integrazione.
Il progetto di una società multiculturale è dunque in crisi. La causa va cercata soprattutto nel venir meno dei fattori d´integrazione che avrebbero dovuto accompagnare tale progetto. Senza integrazione, infatti, il rispetto della diversità culturale produce l´antagonismo di pratiche, valori e tradizioni, dove l´assenza di un terreno comune finisce per minare la coesistenza civile.
L´idea che diverse comunità culturali, etniche o religiose possano continuare a vivere all´interno di una stessa nazione conservando le loro tradizioni, i loro valori e le loro identità era nata proprio in Inghilterra, che però all´epoca pensava soprattutto alle diverse comunità provenienti dall´impero britannico e quindi unificate dalla lingua inglese. Oltretutto, il multiculturalismo si è affermato in un contesto di crescita economica e di rafforzamento dell´identità nazionale. Come per altro è avvenuto negli Stati Uniti, un paese d´immigrati che però ha immediatamente sviluppato due potenti fattori d´unità: il sistema giuridico e il mercato del lavoro. Il multiculturalismo, infatti, può esistere solo se contemporaneamente si rafforza l´unità nazionale, sul piano sociale ed economico, ma anche sul piano dei valori condivisi che fondano l´appartenenza alla cittadinanza e all´identità collettiva.
Oggi l´Inghilterra non ha più la capacità d´integrazione che aveva in passato. Lo stesso vale per la Francia e perfino - in parte - per gli Stati Uniti. Un po´ dappertutto assistiamo all´indebolimento della coscienza dell´identità nazionale. La mondializzazione, la crisi dei valori, la congiuntura economica indeboliscono gli Stati, che quindi non sono più in misura di controbilanciare con l´integrazione le rivendicazioni del comunitarismo. Rivendicazioni sempre più oltranzistiche che spesso nascono come reazione alla xenofobia e all´islamofobia in crescita in tutto l´Occidente, anche per via delle tensioni internazionali prodotte dall´11 settembre e dalla guerra in Iraq.
Riconoscere i limiti di una società multiculturale non significa però rinunciare al rispetto delle altre culture e al dialogo, che è sempre un fattore positivo. Tuttavia ciò non può ridursi semplicemente alla tolleranza, anche perché talvolta dietro di essa si cela un sentimento di superiorità. Tolleriamo infatti colui che consideriamo inferiore. Il multiculturalismo più radicale, che difende una tolleranza assoluta, nasce spesso da un sentimento di superiorità economica, culturale e sociale.
Rispettare le altre culture è un´operazione più complessa, motivo per cui la tolleranza che m´interessa è quella che difende i diritti delle minoranze in nome dei diritti universali, come è stato fatto in passato per i diritti delle donne. Chi, in nome del relativismo culturale, rimette in discussione il valore universale dei diritti dell´uomo fa un grave errore, perché tutti i nostri diritti specifici sono sempre stati conquistati in nome di tali valori universali. Non avrebbe senso abbandonarli. Dobbiamo però dimostrare che l´universalismo dei diritti dell´uomo è conciliabile con il rispetto dei diritti culturali delle diverse comunità, le quali a loro volta devono riconoscere il valore dei principi universali. Solo così è possibile vivere insieme senza conflitti. Insomma, la maggioranza deve rispettare i diritti della minoranza, a condizione che la minoranza rispetti quelli della maggioranza. E quando una comunità rifiuta di farlo, allora occorre farle rispettare la legge che incarna i diritti di tutti. Le leggi nazionali devono sempre vincere sulle tradizioni dei paesi di provenienza.
Viviamo in un mondo mobile, in cui le nostre società continueranno inevitabilmente ad accogliere i migranti, anche perché ne abbiamo bisogno. La presenza delle loro tradizioni culturali produrrà forme di meticciato che arricchiranno la nostra cultura. Per questo vanno rispettate. Ma come ho detto, la tolleranza da sola non basta, dato che non può esserci riconoscimento d´identità senza integrazione sociale e nazionale. Solo se si rinforza il senso di appartenenza all´identità collettiva, diventa possibile riconoscere le differenze culturali. Solo rafforzando le politiche d´uguaglianza diventa possibile accettare le differenze. Occorre essere uguali e differenti. In pratica, oltre a chiedere il rispetto delle leggi nazionali da parte di tutte le comunità, occorre combinare multiculturalismo e assimilazionismo, cercando d´integrare le altre culture, ma dando loro la possibilità di esprimersi. Solo così si combattono contemporaneamente il comunitarismo e la xenofobia.
(testo raccolto da Fabio Gambaro)


il Riformista 10.2.11
Fofi: «Io, un critico arrogante»
 «Il ’77 fu l’inizio della fine del movimento»
IMPEGNO. Dice il critico. «In politica è giusto ambire alla maggioranza, ma in cultura è meglio stare con la minoranza, non bisogna partecipare alla “corsa dei topi”. L’intellettuale non deve voler diventare ministro della cultura, direttore di “Repubblica”, presidente della Rai»
di Alessandro Leogrande
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il Riformista 10.2.11
Bergman, ritratto politico di un intellettuale onesto
di Ettore Colombo
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http://www.scribd.com/doc/48553523

l’Unità 10.2.11
A Roma Apre domani una mostra costruita su documenti originali dell’Archivio di Stato
La scoperta Tra le opere, il ritratto di Paolo V, attribuito al Merisi dopo il restauro
Quando l’artista arrivò nella città eterna veniva bruciato Bruno
L’oste, il pizzicagnolo e il pittore Vita quotidiana di Caravaggio
Inaugura venerdì 11 a Sant’Ivo alla Sapienza «Una vita dal vero», mostra di dipinti e documenti dedicata a Michelangelo Merisi. L’ esposizione è curata dagli Archivi di Stato di Roma per i 400 anni dalla morte.
di Jolanda Bufalini


L’aspetto non benevolo e severo dell’uomo potente. La postura ufficiale, in udienza. Il ritratto di Camillo Borghese poco dopo la sua elezione a papa con il nome di Paolo V conclude il percorso della mostra Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, (da domani nella biblioteca Alessandrina di Sant’ Ivo alla Sapienza, all’Archivio di Stato di Roma), ideata e diretta da Eugenio Lo Sardo, curata da Michele Di Sivo e Orietta Verde.
«Rapporto complesso ci racconta Claudio Strinati, storico dell’arte e, per molti anni soprintendente del polo museale romano che avrebbe voluto essere di stima ma che fu conflittuale anche per ragioni politiche», Caravaggio orbita negli ambienti francesi, il papa è filo spagnolo. Fu sotto Paolo V che Caravaggio fu condannato e costretto a fuggire. E c’ è qualcosa di emblematico per l’ arte di Caravaggio che Strinati definisce «fortemente autobiografica» nel fatto che, dei 10 ritratti di cui parlano le fonti, gli unici arrivati con certezza sino a noi sono del Papa e del Gran maestro dell’ ordine di Malta Alof de Wignacourt (Louvre): «L’uomo d’ arme e il religioso dice Strinati due categorie implacabili. I due personaggi che hanno portato alla rovina il maestro, dopo averlo esaltato».
Il ritratto del pontefice fa parte della collezione privata dei Borghese e non veniva esposto al pub-
blico dal 1911. L’ attribuzione a Caravaggio è già nelle fonti antiche (Manilli) ma restavano i dubbi per la piattezza dell’opera. Ora i dubbi sono stati fugati dalla pulitura da poco ultimata. Prima di questa semplice rimozione dello sporco spiega Strinati il dipinto sembrava privo di volumetria. Ora è venuto fuori con il suo colore intenso e la bellezza che ha convinto me ed altri, come la soprintendente Rossella Vaudret, per il convergere di ragioni estetiche, documentali e storiche».
Quella di Sant’Ivo è una mostra pittorico-documentaria, i documenti restituiscono in modo molto vivido la vita degli artisti in quel quadrante di Roma fra la dogana del porto di Ripetta e via della Scrofa, sulla carta topografica di Maggi (1625) sono stati individuati gli indirizzi in cui abitò il pittore, l’osteria della Lupa, il rigattiere, il barbiere. Sembra di vederli artisti e madonnari, negozietti di souvenir devozionali e merci che arrivavano dall’Umbria. Che si incontrano, lavorano insieme oppure si denigrano alle spalle, prima amici e poi nemici, pronti a vedere «chi alza la berretta per primo». Spesso si tratta di carte giudiziarie. Appena arrivato a Roma Caravaggio assistette, probabilmente, al corteo che accompagnò Beatrice Cenci esposta sulla carretta dei condannati a piazza di ponte dove fu decollata; dello stesso periodo è il rogo che Bruciò Giordano Bruno, dopo un processo durato sette anni. La mostra parte da lì, con il ritratto bellissimo di Beatrice attribuito a Guido Reni, e le carte della Confraternita laica che diede assistenza a Bruno, fra i primi sottoscrittori racconta il direttore degli Archivi Eugenio Lo Sardo c’ era stato Michelangelo Buonarroti: «Cercavano di alleviare la sorte dei condannati, anche pagando il boia perché desse loro droghe».
Fra le carte più importanti per la storia dell’ arte conservate a Sant’Ivo (e restaurate grazie a un’iniziativa giornalistica di Marco Carminati che è riuscita a raccogliere fondi dai privati) ci sono i verbali del processo per diffamazione che il pittore Giovanni Baglione intentò a Caravaggio. Michele Di Sivo ne ha curato la trascrizione integrale e, con Federica Papi, ne presenta il significato. Baglione aveva dipinto una resurrezione per la chiesa del Gesù, subito dopo cominciarono a circolare feroci testi satirici: «Porta i disegni che tu ai fatto a Andrea pizzicarolo /o veramente forbetene il culo». Baglione attribuì la campagna alla cerchia di Caravaggio. Merisi, rispondendo al giudice, si tiene sul vago ma spiega quali secondo lui sono i «valent’huomini» e quali invece come Baglione, non valgono nulla: «Quella pittura è goffa... E non l’ ho
intesa lodare da nessuno». La parte centrale della mostra, dunque, si costruisce sulle opere dei pittori che, secondo Merisi, «sappi dipinger bene» e su quelle di «cattivi pittori et ignoranti». Fra esse il capolavoro, amatissimo da Caravaggio, di Annibale Carracci, Santa Margherita.
Al restauro e alla esegesi delle carte hanno partecipato giovani con borse di studio. Saranno loro a guidare i visitatori che entreranno 25 per volta. Un piccolo contributo per contrastare la catastrofe incombente. Gli archivi italiani, con pensionamenti, prepensionamenti e spoil system si stanno impoverendo dei loro maggiori esperti. E il ricambio, ovviamente, non è previsto.

l’Unità 10.2.11
Storia e memoria
Una raccolta dei suoi scritti attraverso il giellismo e l’azionismo
L’influenza di Carlo Rosselli, il carcere, il fascismo poi la Costituente
Foa e la sua idea di politica dall’antifascismo alla Carta
Si tratta di un volume che raccoglie gli articoli e i saggi più significativi di Foa: «Scritti politici. Tra giellismo e azionismo 1932-1947 (Bollati Boringhieri) a cura di C. Colombino e A. Ricciardi.
di Nunzio Dell’Erba


Sul settimanale Giustizia e Libertà del 20 marzo ‘36 Carlo Rosselli deplorò la condanna di Vittorio Foa a 15 anni di carcere: «Ha osservato dal vivo, nel fatto, l’ingiustizia fatta al lavoratore. La macchina del regime egli l’ha vista funzionare nei dettagli, con quegli occhi che è così difficile, in Italia, tenere aperti». Nel volume che raccoglie gli articoli e i saggi più significativi di Foa Scritti politici. Tra giellismo e azionismo 1932-1947 (Bollati Boringhieri, pp. 284) i curatori C. Colombino e A. Ricciardi mettono in rilievo l’influenza culturale di Rosselli sul giovane antifascista torinese.
All’epoca Foa aveva 25 anni, ma già militava nel movimento di Giustizia e Libertà, costituito a Parigi nel 1929 per iniziativa di Carlo Rosselli. L’impegno «attivo» nella cospirazione antifascista fu dettato da un’adesione ideale al programma giellista e da una personale avversione alla violenza squadrista, che raggiunse il culmine con l’omicidio di Giacomo Matteotti («il discrimine politico della mia adolescenza», dirà più tardi) e con l’introduzione delle cosiddette «leggi fascistissime» come fonte di «ogni autoritarismo». Quelle leggi, volte a sopprimere la stampa e la libertà sindacale e politica, furono aspramente criticate dal giovane Foa, che denunciò il corporativismo «come ideologia (e mistificazione) dell’intervento diretto dello Stato nell’economia», mettendo in rilievo il «carattere classista della politica mussoliniana e l’aperto sostegno della grande industria e del latifondo al fascismo.
Proprio per questi articoli Foa fu arrestato per la delazione di Dino Segre (Pitigrilli), fiduciario diretto del ministero dell’Interno e scrittore infiltrato dalla polizia politica negli ambienti giellisti. Deferito al Tribunale Speciale, egli fu indicato come dirigente del nucleo cospirativo di Torino e, sulla base di una sentenza sommaria pronunciata il 28 febbraio 1936, venne rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, di Civitavecchia e di Castelfranco Emilia, dove scontò 3022 giorni di reclusione.
Gli anni trascorsi in carcere, già rievocati nelle sue Lettere della giovinezza (Torino 1998), documentano momenti focali del Novecento come la guerra civile spagnola, le leggi razziali, lo scoppio della seconda guerra mondiale, la sconfitta del nazifascismo. Ma sono significativi sul piano umano per la conoscenza di Ernesto Rossi e di Riccardo Bauer, con i quali instaurò un sodalizio culturale, che arricchì le elaborazioni politiche proposte nei primi anni Trenta.
Scarcerato il 23 agosto 1943, un mese dopo la caduta di Mussolini,
Foa intraprese l’attività politica nelle file del Partito d’Azione, partecipando 5 giorni dopo ad una importante riunione a Milano, dove fu ribadita la necessità della resistenza armata contro il nazismo e l’esclusione del movimento antifascista da ogni «controllo di organismi totalitari». L’allusione ai comunisti e alla loro struttura verticistica diventò così una mera operazione tattica nel documento (Memoria), scritto e diffuso venti giorni dopo da Giorgio Diena e da Foa. I giovani azionisti avvertirono la necessità di «mantenere stretti rapporti col Pci» ed imprimere «un’impronta rivoluzionaria all’azione» contro l’occupazione tedesca. Dall’insieme degli articoli pubbli-
cati da Foa negli anni ‘45-47 si coglie una linea diretta a caldeggiare un rapporto privilegiato con il Pci, ma si avverte anche un’analisi dei partiti e del loro ruolo nella democrazia italiana postfascista. L’enunciazione di un nuovo modello di partito, inteso non come «strumento di aristocrazie organizzate» ma come proiezione politica per il soddisfacimento dei bisogni dei lavoratori, caratterizza il suo impegno politico di questi anni, come emerge per esempio dall’articolo su L’Italia Libera (29 gennaio ‘46) e riproposto nel volume: «I partiti di sinistra ? si legge sono fatalmente portati ad una concezione riformistica, ossia ad accettare gli esistenti strumenti statali per un partito che sia originariamente ed integralmente democratico».
L’evolversi degli avvenimenti, compresi tra il referendum del 2 giugno ‘46 e la nascita della Repubblica, vide Foa impegnato nella ricomposizione sindacale, nell’attività dell’Assemblea costituente come deputato e nella ricostruzione economica dell’Italia. Unità sindacale, ripresa della produzione e intervento pubblico erano così auspicati per dar vita a «una moderna democrazia» e ad un piano organico di rinascita sociale, le cui responsabilità dovevano essere assunte dai partiti della Sinistra nella costituzione di un governo omogeneo diretto dai «partiti del lavoro». Con l’apertura della Costituente e la nomina il 19 luglio del ‘46 della «commissione dei 75», Foa partecipò all’elaborazione della Carta, il cui risultato finale doveva derivare da una convergenza di tutte le forze democratiche. Le sue convinzioni furono rivolte a una nuova organizzazione dello Stato basata sulla sovranità popolare come «valore assoluto», sulle garanzie costituzionali, l’equa retribuzione ai lavoratori, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la difesa delle minoranze e l’autonomia delle regioni sul piano territoriale, funzionale e finanziaria.

l’Unità 9.2.11
Il saggio Nel suo nuovo lavoro, Michele Ciliberto analizza le ragioni profonde dell’«anomalia Italia»
Storia Il problema non è solo Berlusconi: sono troppe le comprimissioni della nostra classe dirigente
Per capire la «democrazia dispotica» italiana ci vuole più Gramsci e meno Tocqueville
È in libreria «La democrazia dispotica» di Michele Cilberto (pp. 195, euro 18, editore Laterza): dice lo studioso che quello italiano è un «regime» democratico alla sua massima espressione...
di Nicola Tranfaglia


Tra i molti libri che gli editori stanno inviando finalmente in libreria ora che l’egemonia berlusconiana è entrata in grave crisi, l’inchiesta di Milano incalza e a fine febbraio o poco tempo dopo, il presidente del Consiglio sarà costretto, con molta probabilità, a comparire di fronte ai suoi giudici ordinari (visto che il legittimo impedimento è in gran parte crollato e lui, almeno formalmente, è tornato ad essere cittadino italiano agli effetti giudiziari), anche l’editore Laterza è ora presente con La democrazia dispotica di Michele Cilberto (pp. 195, euro 18, collana I Sagittari) che è tra i migliori studiosi di Giordano Bruno a livello internazionale e insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Normale di Pisa.
Il libro di Ciliberto merita molto interesse anche per chi non è del tutto d’accordo con le categorie adottate dall’autore, specialista, peraltro, di altri secoli e non dell’età contemporanea con cui oggi abbiamo a che fare. Secondo Ciliberto, il regime con cui abbiamo oggi a che fare è un regime democratico nella sua massima espressione, come Tocqueville prefigurava come degenerazione (già nel Settecento, nel suo capolavoro, La democrazia in America), perché sono presenti, nello stesso tempo, un grande apparato burocratico proprio dello Stato contemporaneo e il potere carismatico di Silvio Berlusconi che ha creato un partito a sua immagine e somiglianza e lo governa con criteri che violano ogni giorno i principi della costituzione repubblicana fissati nella prima parte del testo. Quest’affermazione si può sottoscrivere interamente, ma mi chiedo due cose da contemporaneista quale sono da quasi mezzo secolo: tutti i regimi democratici europei sono arrivati alla democrazia dispotica come quella italiana? O invece la Francia, la Germania, la Gran Bretagna e gli Usa hanno ancora regimi democratici e non dispotici?
È un interrogativo centrale sul piano storico perché l’anomalia Italia deriva non solo dalle qualità negative di Berlusconi (sulle quali siamo d’accordo) ma sull’incapacità complessiva che le classi dirigenti soprattutto di centro-destra dominanti hanno avuto nella crisi del 1943-46 di rinnovare lo Stato italiano, sulle caratteristiche indicate proprio da Gramsci che parla di ricorrente sovversivismo delle classi dirigenti, sulla crisi della repubblica sorta con la fine del centro-sinistra e l’assassinio di Aldo Moro e precipitata all’inizio degli anni novanta.
Ciliberto, uno dei nostri migliori studiosi dell’età moderna, fa molto bene a utilizzare tutti i classici della politica europea e americana, da Tocqueville a Marx, a Max Weber e, in piccola parte, anche Gramsci che, a mio avviso, per essere stato un grande storico dell’Italia moderna e contemporanea, avrebbe potuto essere citato e usato meglio di quanto avviene nel libro (ma la giustificazione implicita è che, a settant’anni dalla nascita della repubblica, nessuno storico, e tanto meno quelli che sono stati comunisti, hanno scritto ancora il libro, sempre più necessario e opportuno, sulla interpretazione che Gramsci ha dato della nostra storia).
La situazione italiana, come sappiamo, è drammatica e ha ragione chi afferma che Berlusconi sta declinando come pure la sua personale egemonia, ma che il berlusconismo resiste ancora e potrebbe continuare a dominare l’Italia, se le forze delle opposizioni non saranno in grado, al più presto, di fare un programma preciso e alternativo. Del resto i nostri amici europei ci dicono ogni giorno che siamo ancora nel baratro e non siamo neppure in grado di far precipitare la crisi in modo tale che il Capo dello stato sciolga le Camere e proceda subito alle elezioni, per evitare la rovina totale del settore intero della istruzione e superare la crisi economica che colpisce le classi medie e tutti quelli che hanno difficoltà ad arrivare alla quarta o alla terza settimana del mese. L’attuale situazione, questo è il punto, non è qualcosa che si esprime improvvisamente con l’ascesa di Berlusconi ma piuttosto la sua ascesa è dovuta a ragioni storiche di breve e lunga durata.
Allora o si riscrive la storia d’Italia, sottolineando questi aspetti e i frequenti compromessi delle classi dirigenti italiane di ogni colore verso le associazioni mafiose, i vertici del Vaticano e altre istituzioni dell’Italia più arretrata e non democratica, o si dà un’immagine del nostro paese che non può reggere al confronto internazionale, oggi necessario. Abbiamo bisogno, perciò, di discutere le categorie di metodo, usare più Gramsci e meno Tocqueville, ed elaborare una visione storicamente valida dell’odierno populismo mediatico-autoritario. L’Italia, a mio avviso, non è mai arrivata a una democrazia compiuta e ne paga ancora le conseguenze.