lunedì 14 febbraio 2011

l'Unità 14.2.11
Un milione in piazza, è l'inizio di un tempo nuovo
di Concita De Gregorio


«Le donne per strada danno alla luce un tempo nuovo. Voglio essere anche io con voi, credo di doverlo a Josè. Voglio firmare come Pilar Del Rio, come presidente della Fondazione Saramago».
La lettera di Pilar Saramago arriva da Lanzarote che è già notte. Arriva insieme alla telefonata di Oscar Luigi Scalfaro che è con sua figlia Marianna e dice «grazie, le donne oggi in Italia si sono fatte onore. Vi ammiriamo tanto, vi mandiamo un saluto affettuoso». Arriva mentre i telefoni in redazione non smettono di squillare e migliaia di foto e di messaggi giungono sul sito, mentre da Berlino e da New York le radio chiedono un commento, mentre i bambini che hanno disegnato in piazza del Popolo con Lorenzo e Susanna Terranera, oggi, tutto il giorno, già sono a dormire.
La piazza disegnata dai bambini resterà una delle immagini più belle: centinaia di metri di cartone che ora sono lì appoggiati alle pareti della piazza, un murale con mille occhi e mille sorrisi. C'erano due suore tedesche che volevano assolutamente la borsa con Piccoletta di Beatrice Alemagna per portarla alle sorelle. C'erano i violoncellisti che provavano il Dies Irae perché il giorno del giudizio arriverà, e sarà in vita. C'erano ragazzine che chiedevano autografi alla cantante famosa e lei che rispondeva “brave che siete venute”. Uomini, moltissimi, padri coi bambini, giornalisti di tutto il mondo che intervistavano anziane scese da casa in ciabatte, «perché le manifestazioni sono una cosa faticosa e non sono più abituata».
C'era così tanta gente, a Roma, che nella piazza non si poteva entrare più già dalle tre del pomeriggio e allora i cortei spontanei sono andati altrove, verso Montecitorio e verso palazzo Chigi, coi palloncini e con gli adesivi che dicevano “L'amore è gratis”, “Sono nipote di mio zio”. Dalle città d'Italia e del mondo, mentre Maria Stella Gelmini diceva cose tipo «una piazza radical chic», arrivavano centinaia e centinaia di messaggi e quando tutti insieme abbiamo fatto silenzio per un minuto e mezzo, che è lunghissimo, e dopo alla domanda se non ora quando abbiamo risposto “Adesso” c'è stato qualcuno che ha riso e qualcun altro che ha pianto, molti si sono abbracciati, sconosciuti grati ad altri sconosciuti, e abbiamo saputo con certezza che sì, il vento si sta alzando, che non basterà mai più dire sono quattro femministe sono post sessantottini, sono moralisti, che le bugie e la propaganda non possono vincere la vita vera, che non importa se il Tg1 proprio stasera ha deciso di spiegare agli italiani come vive un egiziano tipo pur di mandare in onda il servizio sull'Italia che respira in coda al tg. Non importa, davvero.
Non potranno far nulla perché la forza delle cose è qui, così evidente così potente: è quella – come dice Pilar Saramago – della gente che esce per strada e celebra il trionfo dei cittadini, delle donne che danno alla luce un tempo nuovo. Adesso fanno silenzio, i dipendenti del Padrone chiamati in forze a suonare la grancassa. Fanno silenzio perché altro non possono fare.
Dal palco, dai palchi in tutta Italia si sono sentite le voci di uomini e donne, suore e ragazze, si è sentita Susanna Camusso dire «Si può cambiare perché il futuro è nostro e dovranno capirlo», sì dovranno capirlo. Veniva alla fine di una lunga serie di “vorrei”, il suo “si può cambiare”: tutti i nostri vorrei, sguardi limpidi una sola morale la giustizia per tutti la forza di dire no. Non sarà più la stessa, l’Italia, da oggi.
Perché le donne, che in ogni luogo e in ogni epoca hanno dettato il tempo delle rivoluzioni, sono state capaci ancora una volta di rispondere all'appello sebbene esauste, deluse da questa politica, sfiduciate e mortificate. Ancora una volta hanno preso il soprabito per uscire, per camminare in piazze sgombre di insegne, di esibire i loro volti autentici, così diversi da quelli che vediamo in tv e di essere le protagoniste.
Hanno preso la parola, chi ha spesso tribuna ha fatto un passo indietro per lasciarla a chi non può parlare mai. Ma da oggi, davvero, sarà un po’ più difficile per tutti raccontare la favola che gli stipendiati del sovrano si affannano a diffondere con tutti i mezzi – e sono molti – che hanno. Da oggi sappiamo con certezza che l’altra Italia si è rimessa in moto e non starà in silenzio. Ci hanno chiesto in tanti, ci hanno chiesto tutti: e adesso? E adesso bisognerà che tutta questa forza trovi casa, che si senta e sia rappresentata da chi può farlo, nei luoghi che servono.
Un giornale, un movimento, un gruppo di persone, un luogo in internet, un passa parola di casa in casa, un progetto di rinascita che sia capace di diventare progetto politico, perché la politica è qui, è nelle cose: la politica è dove i cittadini chiedono rispetto per il loro futuro. Le donne italiane sono state capaci di fare quello che da anni, da molti anni non avevamo visto accadere. È vero, dunque: hanno battuto un colpo. Adesso. Che sia la prima battuta di una nuova musica. Noi ci saremo, c'eravamo e resteremo. Grazie a tutte e tutti voi, che ci indicate il futuro.

l’Unità 14.2.11
Colloquio con Pier Luigi Bersani
«È la parte migliore
del Paese a guidare la riscossa etica e civile»
Il segretario Pd tra la folla di piazza del Popolo: «Questa voglia straordinaria di partecipazione e protagonismo ci aiuterà ad andare oltre Berlusconi»
di Simone Collini


Attenti ai colpi di coda
«Non aspettiamoci giorni facili, l’ultima fase del berlusconismo può dare una stretta micidiale ai temi della convivenza»

«È una piazza straordinaria. Questa voglia di partecipazione, di protagonismo, è una forza positiva che ci aiuterà ad andare oltre Berlusconi. Ma ora non aspettiamoci giorni facili. Ci saranno pericolosi colpi di coda e noi dobbiamo farci trovare preparati». Pier Luigi Bersani arriva in Piazza del Popolo insieme alla moglie Daniela. Gli uomini della sicurezza gli indicano in lontananza il punto in cui c’è l’apertura tra le transenne per accedere alla zona del palco. Il segretario del Pd scuote la testa e va invece verso il centro della piazza, rovinando i piani di giornalisti, fotografi e cameramen. «Ma è giusto che stia qui», dice mentre avanza a fatica tra persone che sventolano cartelli fatti in casa e nessuna bandiera di partito.
Qualcuno gli urla «tieni duro», in molti vogliono stringergli la mano e c’è anche la giovane segretaria di un circolo Pd di Roma che lo accoglie con un perentorio «fatti baciare, segretario». Bersani sorride col mezzo Toscano che gli balla tra le labbra, anche quando gli viene chiesto perché stia in mezzo a questa calca e non nel più agibile retropalco: «Perché sto accompagnando mia moglie no?».
Ma anche se vuole muoversi in punta di piedi in questa piazza in cui protagoniste sono le donne e la società civile, sottolinea l’importanza che può avere una «saldatura» tra questa mobilitazione femminile e «la buona politica». «Se riflettiamo sulla storia d’Italia, spesso sono state le donne a interpretare il risveglio delle coscienze civili, a guidare una riscossa civica prima ancora che politica. Oggi la parte migliore del Paese non si sente rispettata da questo governo. C’è un popolo che vuole esse-
re serio, sobrio, che rispetta le donne come persone e che vorrebbe che anche chi lo rappresenta facesse lo stesso».
Dal palco comunicano quante persone stanno manifestando in questo momento nelle altre città italiane ma anche a Parigi, Atene, Berlino, Tokyo. La piazza applaude entusiasta, Bersani si rabbuia pensando ai nostri «ambasciatori in lacrime» e alle «barzellette che raccontano in giro per il mondo su di noi»: «Berlusconi si sarebbe dovuto fare da parte già da tempo. Tutte queste piazze glielo stanno ribadendo. Oltre al fatto che non sta governando, che costringe tutti a discutere dei problemi suoi e non di quelli degli italiani, ora si sono aggiunte le altre questioni. Non si tratta di essere puritani o moralisti, come dice qualcuno. È scritto nella Costituzione che chi ricopre incarichi istituzionali deve svolgerli con disciplina e onore. Altrimenti il danno provocato al volto dell’Italia nel mondo è enorme».
Bersani trae ragioni di ottimismo da questa mobilitazione, ma confessa di essere anche preoccupato per quel che potrà succedere nelle prossime settimane. Perché se in queste piazze ha trovato sfogo una «rabbia repressa» che se correttamente incanalata può far compiere «un passo avanti» verso l’apertura di una «nuova fase», per il segretario del Pd ora «la situazione si radicalizzerà ancora di più». Un segnale sono gli «attacchi vergognosi al Presidente della Repubblica» portati ieri dai quotidiani vicini al premier. Ma sono gli stessi «colpi di coda» di cui sarà capace Berlusconi a preoccuparlo. «Non aspettiamoci giorni facili. L’ultima fase del berlusconismo porterà a una stretta micidiale su temi di fondo della convivenza democratica. E questa non sarà l’ultima manifestazione di piazza per chiedere dignità e rispetto, per le persone e per le istituzioni, per i problemi degli italiani che devono trovare soluzioni e per le regole democratiche che non possono essere calpestate per risolvere i problemi di uno solo».
Un discorso che chiama in causa le forze oggi all’opposizione. «Già un anno fa dicemmo che saremmo arrivati a un punto d’allarme, e che sarebbe stato necessario dar vita a un largo schieramento in grado di guidare una stagione di ricostruzione democratica. Allora non ci fu tanta comprensione, neanche nel nostro partito, mentre adesso è stato capito che non ci sono alternative. Non si tratta di antiberlusconismo. Il punto è come andiamo oltre Berlusconi, come evitiamo il rischio di un vuoto democratico e come contribuiamo tutti insieme alla ricostruzione».
Un lavoro che per Bersani devono compiere tutte le forze politiche («fuori da gelosie personalistiche o di partito») e sociali che oggi combattono questo governo. Insieme, partiti e società civile. «Queste espressioni di civismo diffuso e la buona politica devono darsi la mano. Se c’è una saldatura è più facile giungere a una svolta. Se c’è una spaccatura si aprono spazi perché il berlusconismo vada avanti». Sicuro che questa piazza non sia percorsa anche da un sentimento di antipolitica? «Non direi. Rispetto a qualche anno fa c’è una maggiore consapevolezza che la politica costituisce un elemento di unificazione. Sta poi alla politica avere l’orecchio attento e non chiudersi nel Palazzo. Se tutti hanno senso di responsabilità, si potrà aprire una nuova stagione».

l’Unità 14.2.11
Ora e sempre, basta
di Loretta Napoleoni


Da due giorni il telefono squilla in continuazione, televisioni e radio straniere cercano commenti su Berlusconi e sulla manifestazione del 13 febbraio. Che succede? Domandano i giornalisti. Sembra loro strano che le donne italiane abbiano improvvisamente deciso di scendere in massa in piazza. All’estero l’indifferenza del nostro paese rispetto al susseguirsi degli scandali sessuali del moderno Satyricon romano è stata infatti interpretata come un tacito consenso da parte della popolazione, inclusa quella femminile. Oltr’Alpe molti ci vedono come ‘escort’ o casalinghe frustrate. Noi che viviamo all’estero e che quotidianamente affrontiamo le risatine di chi comprensibilmente ormai considera l’Italia un sultanato; noi che difendiamo a spada tratta le donne italiane dalle casalinghe alle professioniste dalle accuse di essere deboli; noi che quotidianamente ci arrampichiamo sugli specchi per spiegare il perché, nonostante il premier ed il suo governo siamo ormai diventati la barzelletta del mondo, la popolazione non scende in piazza come in Egitto per gridare “Silvio Vattene”; noi che il 13 febbraio lo abbiamo condiviso con gli stranieri spiegando loro il significato di questa manifestazione, noi emigrate ringraziamo le donne italiane per aver finalmente detto basta.
Che questa manifestazione sia la risposta dell’Italia vera, quella fondata sul lavoro e non sugli scambi sessuali, un paese emancipato e moderno, non il bordello del dittatore né l’harem del sultano. E che il suo eco si faccia sentire nel mondo dove noi donne italiane da anni non facciamo che difenderci dal fango che questa classe politica butta costantemente su di noi. Che ‘BASTA’ diventi la nostra parola d’ordine e che la si gridi sempre nelle piazze del paese finché l’ultimo partecipante al moderno Satyricon avrà lasciato la scena politica. Solo allora potremo tornarcene a casa ed alla nostra vita privata.

Corriere della Sera 14.2.11
Le femmine alfa ritrovano la voce «Non saremo state troppo educate?»
di Maria Laura Rodotà


«E tiratelo giù questo c. di striscione!» . I giovani piddini intimoriti obbediscono e arrotolano la scritta «Sono una donna che ha sempre lottato» . La signora prima impedita nella visuale ribadisce «e che c.» . Sembra la scena di Animal House in cui John Belushi spacca la chitarra in testa al ragazzo romantico che strimpellava. È una delle tante scene impreviste e significative della piazza romana, ieri. Piena di donne più o meno garbatamente assertive. Anzi: mai viste così assertive, toste e protagoniste in una manifestazione. È stata la giornata delle femmine alfa, in Italia non ce n’era mai stata una così. Donne insieme alle amiche che fanno commentacci, ragazze che applaudono e urlano «daje!» , signore arrivate da sole senza le usuali timidezze da manifestanti single che attaccano discorso con tutti. Più agguerrite delle oratrici, spesso. «E piantala col corpo delle donne, e parlaci di Berlusconi!» , è la lamentela più frequente durante i discorsi. Le lamentele poi dilagano per la poesia (bella, troppo lunga) di Patrizia Cavalli e il monologo sulla vagina in pugliese di Lunetta Savino; divertente, ma nessuna riesce a concentrarsi su questioni vaginali, la piazza è civile ma arrabbiata. Aspetta un’oratrice che la infiammi. Per un po’ l’oratrice non arriva, alla terza-quarta che si dilunga sulle bambine che non devono fare le escort una cinquantenne perde la pazienza: «Ma una che sappia parlare no? Una che sappia fare un comizio? Se non ce l’avevano potevano mettere una parrucca a Maurizio Landini, tipo» . Tipo. Assente il segretario della Fiom, arriva Susanna Camusso. Sa fare un comizio; si lancia in un monologo su «se non ora quando» ; viene molto applaudita. Ma è donna stringata, lascia il palco a signore più logorroiche. Le femmine alfa di piazza del Popolo resistono stoicamente. Acclamano suor Eugenia Bonetti e zittiscono le amiche più laiciste. Si entusiasmano per Alessandra Bocchetti che quando viene presentata suscita reazioni morettian-fantozziane («Noo, l’università Virginia Woolf noo» ) ma poi, unica tra le intervenute, parla dello stato dell’economia. Sperano in un discorso conclusivo che porti, come dicono le ragazze, «al fomento» , agli slogan ritmati, all’urlo collettivo. Non arriva. Pazienza. E andando via si chiedono «ma non sarà stata una manifestazione troppo educata?» e si rassicurano leggendo le notizie sui telefonini, guardando le strade intorno ancora strapiene. Certo, «il problema di questo momento storico è la nostra infinita pazienza» , come donne e come opposizione, dice Claudia Tombini, architetto. Sulle piazze dell’opposizione la trentenne Marta è più cattiva. Cita gli 883: «Ti ricordi quella canzone? È la dura legge del gol/gli altri segneranno però/che spettacolo quando giochiamo noi? Questo è stato il più grande spettacolo degli ultimi anni, per me, ma spero non sia solo questo» . Forse no. Forse le italiane rompiballe (la maggioranza) stanno trovando la loro voce. Forse più in piazza che sul palco. Forse era ora.

Corriere della Sera 14.2.11
«La mia generazione senza riti scopre che manifestare ha senso»
di Silvia Avallone


S ono le 15.30 e sono un minuscolo puntino in una folla immensa. Il ritrovo a Bologna era fissato un’ora fa, ma il corteo stenta a partire: siamo in troppi. Ci sono tantissime donne di tutte le età, ma anche moltissimi uomini. Ci guardiamo in volto l’un l’altro, ci sorridiamo. Non ce lo aspettavamo, non potevamo immaginare un fiume simile di persone. Una provincia che di solito la domenica è semideserta, oggi assomiglia alla notte in cui l’Italia ha vinto i Mondiali. Solo che la folla questa volta non grida e non scalcia. Quel che davvero sorprende è la sua compostezza. Fatichiamo a dirigerci verso via Indipendenza, accorrono persone da ogni strada laterale. «Siamo la forza sana di oggi e di domani» recita uno slogan. Ma gli slogan sono meno delle persone, le parole sono difficili da trovare: quello che stiamo vivendo è un’esperienza inedita, fisica prima che verbale. Quando il corteo comincia a muoversi, gli organizzatori hanno già deciso la deviazione: non è possibile far passare questo fiume nell’imbuto stretto di via dei Falegnami. Ci vuole Piazza Maggiore. Dalla terrazza del Pincio tutti vogliono immortalare questo momento. L’aria è satura di allegria, di una semplicità disarmante. Il rapporto Censis del 2007 ci aveva definiti «mucillagine sociale» ; ci avevano descritti fino all’altro ieri come una società sfibrata, disabituata a riti collettivi. Eppure quel che vedo adesso dimostra il contrario. Mi trovo al centro di una marea di famiglie, bambini, coppie che si tengono per mano e sento la misura larga di questo evento, l'emozione di vivere finalmente qualcosa che non ho mai vissuto prima. Sventola solo qualche tricolore, nessun’altra bandiera. Siamo tutte persone normali, nella nostra nuda normalità. I negozi del centro sono vuoti. Non siamo consumatori oggi, siamo cittadini. Un’intera società civile si è ritrovata insieme, spontaneamente. Siamo in piazza perché un piccolo gruppo di donne da principio, e poi un tam tam sempre più vasto, ha intercettato un bisogno profondo. Dalla finestre si affacciano gruppi di ragazzi, battono pentole e mestoli, gridano di gioia, come tifosi dopo una vittoria, e dalla strada i manifestanti rispondo con applausi. Si leva qualche coro, si sente la parola «dimettiti» intonata più volte. Ma prevalgono i sorrisi e gli applausi, questa è una folla contenta. Contenta di riconoscersi, di condividere uno stato d’animo troppo ampio per poter essere rubricato soltanto come protesta. È qualcosa di più. Vogliamo mostrarci per quello che siamo: il Paese reale non è quello che si vede in tv; la nostra esistenza civile non si esaurisce negli scandali e nelle compravendite; la cultura dominante delle donne ridotte a oggetto e degli uomini ridotti a consumatori non ci rappresenta. Le scaramucce sul moralismo— lo scontro tra ipotetiche donne per bene e donne per male — sono rimaste allo stadio di pregiudizio della vigilia. Qui l’aria che si respira è di unità e condivisione, non intorno a un nostalgico passato bensì intorno a un’idea di futuro che si sta formando davanti ai nostri occhi. Quando raggiungiamo piazza Maggiore, il silenzio è assordante. La voce diffusa dagli altoparlanti di un furgoncino improvvisato è forte e chiara, elenca le discriminazioni e le violenze che le donne italiane continuano a subire ancora oggi nei luoghi di lavoro e nelle loro case. È un elenco secco che denuncia senza aggettivi né ideologie la realtà della condizione femminile in Italia, quella che si fa fatica ad accettare e ad ammettere. «Il Paese in cui le donne vivono bene è quello che ha una testa più larga e una cultura più grande» questa è l’ultima frase che risuona nel megafono. Scatta l’applauso, il più alto. Alle 18 le vie del centro sono ancora gremite e la gente non accenna a disperdersi. Telefono alle amiche di Roma e di Milano: la loro voce è entusiasta. «Sono contenta — mi dice una — perché finalmente ho condiviso quello che provo con tante persone. Spero solo sia l’inizio di qualcosa di nuovo» .

Repubblica 14.2.11
Il centrosinistra ringrazia le donne Bersani: il paese licenzia Berlusconi
di Giovanna Casadio


La Carfagna: protesta da ascoltare, un errore attaccare il governo
Angela Finocchiaro al ministro della Istruzione: "Perché non è venuto a dirlo a noi in piazza?"

ROMA - Se ne vanno alla spicciolata i politici del centrosinistra, come sono arrivati, senza insegne di partito né inviti speciali. Pier Luigi Bersani, il leader del Pd, è pressato nella calca di piazza del Popolo a Roma, insieme con la moglie Daniela. Prima di allontanarsi dice: «Oggi il paese ha parlato, la manifestazione è stata imponente, spontanea, il segno di un moto civico». Una cosa che nasce dal basso e che, secondo il segretario democratico, «dovrebbe indurre Berlusconi e chi gli sta attorno a uscire dal delirio e a guardare in faccia l´esplosione del sentimento popolare». In piazza, commenta, c´è «il paese normale, né elite, né puritani e la destra dice disperate stupidaggini». Nichi Vendola, il leader di Sel manifesta a Milano e giudica le manifestazioni delle donne «il colpo mortale al berlusconismo». Ottimista pure Di Pietro, anche lui nella piazza milanese: «Siamo in un regime ridicolo, ma la primavera è in arrivo». Per il centrosinistra insomma è una giornata esaltante. Rosy Bindi ne è così convinta che, nel retropalco romano, fa una specie di schemino per il futuro: «Primo, mandare a casa Berlusconi. Ma questo movimento non finirà, e poi si passa al secondo punto all´ordine del giorno cioè il cambiamento della politica italiana».
Ma nel centrodestra cercano di minimizzare l´impatto di quel milione di donne (e di uomini) in tutta Italia che hanno chiesto «dignità e rispetto» per sé e «dimissioni» per il premier. La controffensiva è affidata soprattutto alle donne del governo e del Pdl. A condurla è Mariastella Gelmini, ministro dell´Istruzione, che commenta prima dell´inizio della mobilitazione, e infatti sbaglia in pieno pronostico: «Le donne che scendono oggi in piazza sono solo poche radical chic». Ironica, Angela Finocchiaro, l´attrice che ha condotto la kermesse romana, la invita a venire a vedere e a dirlo lì: «Fa il paio - scherza - con chi dice che c´erano tanti uomini perché volevano cuccare tante donne». Contro le donne in piazza che si riprendono la parola, la protesta e - come qualcuna commenta, sessantacinque anni dopo avere conquistato il diritto di voto, anche l´incarico di difendere le istituzioni svillaneggiate dal Rubygate - partono gli attacchi delle pidielline. Le donne in piazza sono «fiancheggiatrici delle procure rosse» (Laura Bianconi); «spiace che sia stata carpita la buonafede delle donne» (Laura Ravetto); «è una indignazione a orologeria» (Anna Maria Bernini). Osvaldo Napoli conia la definizione: «Donne usate come scudi umani dalle opposizioni».
Un po´ più di misura tenta di trovarla Mara Carfagna, che è ministra delle Pari Opportunità e in un comunicato a chiusura delle kermesse ammette: «Chi ha responsabilità di governo ha sempre il dovere di ascoltare la piazza. Certo l´occasione è stata sprecata trasformando questa iniziativa nell´ennesimo corteo contro il governo». Le donne nelle piazze però non ne possono davvero più. Un´ovazione a Giulia Bongiorno, donna di destra che parla a Roma. Una giovanissima chiede a Anna Finocchiaro quand´è che la politica cambia e dà più spazio alle donne e la capogruppo pd: «Però c´è da essere orgogliose della manifestazione». Tra la folla romana Veltroni con moglie e una figlia; Franceschini; Fassina.

Repubblica 14.2.11
Il grido delle donne al Paese umiliato
di Natalia Aspesi


Duecentomila a Roma, centomila a Milano e Torino, 50mila a Napoli, 30mila a Firenze, 20mila a Palermo, persino a Bergamo 2000. In tutte le 230 piazze italiane, più una trentina straniere, almeno un milione, forse di più, non ha importanza. Importa l´immenso, forse inaspettato successo, il risveglio improvviso di chi sembrava rassegnato al silenzio, a subire, ad adeguarsi.
Invece il messaggio delle donne, ‘se non ora quando?´, è corso veloce ovunque, e ha riempito le piazze come un richiamo ineludibile, finalmente sorridente, entusiasta, liberatorio.
Basta, basta, basta! il basta delle donne al di là di bandiere e partiti, il basta contro questo governo e questo premier, il basta contro la mercificazione delle donne ma anche contro l´avvilimento di tutto il paese. Il basta gridato da tutte, le giovani e meno giovani, le attrici e le disoccupate, le studentesse e le sindacaliste, le suore e le immigrate, le casalinghe e le donne delle istituzioni, facce note ma soprattutto ignote, donne tutte belle finalmente, non per tacchi a spillo o scollature o sguardi seduttivi, ma per la passione, e l´indignazione, e l´irruenza, e la coscienza di sé, dei propri diritti espropriati e derisi: e uomini, tanti, finalmente non intimiditi o infastiditi dal protagonismo femminile, consci che il basta delle donne poteva avere, ha avuto, un suono più alto, più felice, più coraggioso, cui affiancarsi, da cui ripartire per cambiare finalmente lo stato del paese. In mano alle donne, ieri, la politica si è fatta più radicale e credibile, perché ha usato le parole, le voci, i gesti, non per le solite invettive e ironie e slogan e promesse che intorbidiscono e raggelano, ma per raccontare il disagio, la paura, la fatica, la rabbia, l´umiliazione, che le donne vere sopportano ogni giorno, come lavoratrici senza lavoro, e madri senza sostegno pubblico, e professioniste la cui eccellenza non le esime dalla precarietà, e giovani donne che non possono fare figli perché senza sicurezze per il futuro, e donne che nessuno protegge dallo sfruttamento, dai maltrattamenti, dall´amore assassino dei loro uomini.
Si sa che l´armata mediatica del berlusconismo che deve il suo imperio alla menzogna e alla capacità di confondere, aveva stabilito che la manifestazione di oggi sarebbe stata dettata dal bigottismo di donne così sfortunate da non poter fare le escort, e da una superba rivalsa contro le vittoriose ragazze di Arcore e altrove. Che delusione! Nessuna, delle tante donne che si sono alternate sul palco, emozionate eppure decise, forti, ha avuto parole arroganti di separazione tra le buone e le cattive. Al massimo è stato detto quello che anche le belle signore del Pdl dovrebbero condividere: che cioè i letti dei potenti più o meno ossessionati dal sesso non dovrebbero essere istantanee scorciatoie per entrare in ruoli pubblici di massima responsabilità. E per esempio la sempre improvvida Gelmini, prima ancora che le piazze cominciassero a riempirsi, annunciò che ci sarebbe stato solo un gruppetto di desolate radical chic, termine così stantio e irreale che forse gli esperti di slogan del governo dovrebbero modificare. Povera ministra da poco mamma e scrittrice di libri per l´infanzia, oltre che falciatrice dell´istruzione pubblica italiana. Davanti a quelle migliaia di persone in ogni piazza, a quel milione accorso al richiamo di un piccolo gruppo di donne arcistufe e finalmente decise a ribellarsi, cosa avrà pensato?
Se persino le donne scese in piazza, persino i partiti dell´opposizione, non si aspettavano un simile successo, figuriamoci gli altri: hanno cominciato a perdere la testa, e prima ancora che vengano dettate dal politburo governativo gli slogan denigratori per negare la realtà, han fatto la loro brutta figura, accusando curiosamente la manifestazione di essere antiberlusconiana: come infatti vistosamente, fortemente, appassionatamente, voleva essere. I cervelloni berlusconisti da poco tornati a galla come ultima trincea, terrorizzati da quelle piazze gremite, hanno parlato di "odioso sfruttamento delle donne per abbattere il premier" non avendo capito niente dell´autentica civile autonoma rabbia femminile; c´è chi ha vaneggiato di una contro-manifestazione da parte delle ministre in carica, "di orgoglio e di amore anche nelle sue perversioni", e la solita sottosegretaria cattivissima, lei devota ad ogni sospiro del suo idolo e fan delle sue movimentate serate, ha accusato le centinaia di migliaia di donne in piazza "di essere solo strumenti degli uomini", non si sa quali, ma di sicuro non dell´ormai pericolante premier.
Chissà se le tante donne intelligenti e libere che hanno trovato mille colte ragioni per disertare una manifestazione che non risultava loro sufficientemente femminile o femminista, si sono alla fine commosse nel vedere tante altre donne, più sbrigative e meno sofisticate, gridare insieme, senza divisioni, senza distinzioni, il loro bisogno di dignità e di cambiamento. Che poi la differenza è anche questa: le donne non berlusconiane sono in grado di scelte differenti, libere di agire secondo i loro principi in contrapposizione con altre anche se le divergenze sono capillari: nessuna delle signore berlusconiane, dai loro scranni di ministre, sottosegretarie, rappresentanti di partito, osano esprimere non si dice un dissenso, ma un lievissimo, simpatico dubbio. Loro sì, pare, sono al servizio del maschio padrone.
Però una domenica come quella di ieri, così bella, e appassionata, e corale, dovrebbe mettere in guardia anche l´opposizione. Le donne hanno detto basta a questo governo e al suo leader, ma resteranno vigili: dalle piazze ieri è venuta allo scoperto una riserva di energia, di intelligenza, di bellezza, di potere, di senso del futuro femminile, che parevano dispersi o rassegnati. Le donne promettono obiettivi ambiziosi, assicurano che non torneranno indietro, soprattutto che dopo una così straordinaria, spontanea prova di forza, niente, ma proprio niente, sarà più come prima.

Repubblica 14.2.11
Nell´opposizione il 25% per una mobilitazione continua
"Come in Egitto" a sinistra cresce la voglia di piazza
In campo un movimento più vasto di quanto furono i girotondi. Quasi quattro italiani su dieci sostengono le ragioni della protesta
di Roberto Biorcio, Fabio Bordignon


Anche in Italia come in Egitto? Berlusconi come Mubarak? Il solo accostamento appare ardito, quantomeno improprio. Ma una componente non trascurabile del fronte anti-berlusconiano non esclude, esplicitamente, una soluzione "all´egiziana". La nuova ondata di protesta contro il Governo e contro il premier sta assumendo proporzioni ogni giorno più rilevanti: coinvolge una costellazione di soggetti diversi, sul piano sociale; attraversa le forze di opposizione e in particolare il centro-sinistra. Soprattutto, taglia a metà il Pd, il cui elettorato si presenta diviso sulla strategia per "battere" Berlusconi.
Quasi quattro italiani su dieci ne sostengono le ragioni (38%), uno su quattro si dice pronto a manifestare (e circa il 4% dice di averlo già fatto). Sono queste le misure dell´Onda 2011, raccolte dall´Atlante Politico di Demos. Il profilo sociale e culturale della protesta ricorda quello di altre mobilitazioni, in particolare i girotondi del 2002. Con due importanti novità: le dimensioni del fenomeno, testimoniate dalla vasta partecipazione alle iniziative e dal consenso raccolto presso l´opinione pubblica; il ruolo assunto dai giovani e dalle donne. In particolare, la partecipazione femminile, nelle generazioni sotto i 45 anni, ha superato nettamente quella maschile, rovesciando luoghi comuni e tendenze tradizionali. E l´ampia manifestazione di ieri ha sicuramente accentuato questo carattere.
Come già avvenuto in passato, l´onda di protesta nasce da un deficit di rappresentanza dei partiti di opposizione, ma il suo perimetro appare oggi meno sovrapponibile a quello del centro-sinistra. L´accordo con i manifestanti è massimo tra gli elettori di Sel (84%) e dell´IdV (77%), ma rimane maggioritario anche tra quelli del Pd (71%) e del movimento 5 Stelle (53%). Anche nell´area delle formazioni centriste, come Fli e Udc, tradizionalmente critiche verso il protagonismo della "piazza", più di un terzo degli intervistati simpatizza con la protesta. Se consideriamo, poi, la disponibilità ad attivarsi, essa coinvolge circa i due terzi di chi sceglie i partiti di Vendola e Di Pietro, mentre democratici e grillini si fermano poco sotto la soglia del 50%.
Questa articolazione interna alle diverse anime dell´opposizione richiama, in ampia misura, le divisioni su come contrastare il governo e togliere il potere a Berlusconi. In questa porzione di elettorato prevale l´idea di ricorrere al voto (47%), ma in molti ritengono più efficace il sostegno alla magistratura (30%) o il ricorso alla piazza (19%). Quasi una persona su quattro, inoltre, si dice favorevole a una mobilitazione ampia e continuativa, che costringa il premier alle dimissioni, così come è avvenuto in Egitto per Mubarak. Un dato interessante, e in parte sorprendente, che emerge dalla componente più radicale del fronte anti-berlusconiano, attenta (anche in prospettiva interna) al fermento politico che investe il Mediterraneo. L´elettorato del Pd appare in bilico tra queste diverse prospettive. Una divaricazione che aiuta a spiegare le esitazioni del partito di Bersani nella costruzione delle alleanze (ma anche, probabilmente, le difficoltà nell´intercettare il malcontento verso il governo).

La Stampa 14.2.11
“Non siamo radical chic e neanche bacchettone”
L’organizzatrice Francesca Izzo: “Il premier è solo la punta dell’iceberg”
La studentessa: Coetanea di Ruby, le ha scritto una lettera: «Corpo e mente devono stare assieme»
di Flavia Amabile


Sono scese in piazza con i «se» e i «ma». Anche con molti «però». Perché le donne sono fatte così: partecipano, ma precisano.
Soltanto una piccola parte del milione che erano e che hanno inondato le strade d’Italia condividevano in tutto e per tutto le parole delle organizzatrici della manifestazione. La stragrande maggioranza nei giorni precedenti aveva discusso e precisato fino a concludere: però vado lo stesso. Così è stato, e ora provare a appiccicare a questi centinaia di migliaia di «però» un’etichetta unica è un po’ riduttivo. Ci prova il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini a metà mattinata, definendole «poche radical chic». Ci prova anche il capogruppo Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto secondo cui si trattava di «ex teoriche e pratiche della trasgressione tramutate in bigotte». Le donne in piazza però raccontano una storia diversa. La stratega della piazza. Si chiama Francesca Izzo. E’ docente di Storia delle Dottrine Politiche all’Università di Napoli, scrive saggi sulla «Morfologia del moderno» o «Il cosmopolitismo di Gramsci». «Radical-chic? Definire così noi che siamo scese in piazza è il segno di un distacco abissale che ormai c’è tra questo governo rispetto al Paese. In piazza c’erano donne e uomini diversissimi fra loro. Lo stesso sul palco: abbiamo raccolto adesione di donne che sono espressione di vari orientamenti politici, culturali, religiosi. Di radical-chic ieri non c’era nulla, è stata una grande manifestazione di popolo, la prima della storia italiana di queste dimensioni guidata da donne». Sono le donne di un’associazione nata due anni fa, si chiama «Di nuovo». «Vogliamo creare una grande associazione nazionale di donne, cercando di superare le diffidenze, le gelosie dei gruppi che già esistono. Un mese fa, con tutto quello che stava emergendo ci siamo dette: se non ora, quando? Perché tutto il nostro lavoro sarebbe rimasto qualcosa di accademico senza un atto politico come una grande mobilitazione delle donne in questo momento così delicato». Una mobilitazione contro Berlusconi? «Le vicende poco private di Berlusconi sono soltanto la punta dell’iceberg - risponde Francesca Izzo - L’Italia è un Paese vecchio e maschilista: la disastrosa condizione delle donne è il segno più evidente della nostra arretratezza». La suora delle «ultime» . Suor Eugenia Bonetti, 71 anni, fa parte delle missionarie della Consolata. Da anni si occupa di recuperare e aiutare donne e ragazze che si prostituiscono o che vivono in condizioni di disagio e marginalità. Responsabile dell’Ufficio anti-tratta dell’Usmi (Unione superiori maggiori d’Italia), ha trascorso 24 anni in Africa, è impegnata con la Caritas di Torino. Radical-chic anche lei? «Posso solo dire che non si può rimanere indifferenti di fronte a quanto oggi accade in Italia nei confronti del mondo femminile. Siamo tutti responsabili del disagio umano e sociale che lacera il Paese». Di qui la decisione di scendere in piazza? «Ci hanno chiamato. Noi abbiamo provocato tutto questo con una riflessione che ha fatto il giro di blog e mass media. Essere qui oggi non è stata una decisione sofferta: come suore missionarie della Consolata siamo state le prime a credere che c’era bisogno di fare qualche cosa, bisogno di dare risposte, stimolare, perché le donne sembravano un pò appiattite, assenti o rassegnate di fronte a quello che sta succedendo. Quindi aver partecipato a questa iniziativa è stato un modo molto bello per riattivare la volontà delle donne. Stiamo dando troppo valore all’apparenza, bisogna dire basta a questo stereotipi che non corrispondono alle donne. La donna è la grande costruttrice della società ma deve tornare ad esserne cosciente». La coetanea di Ruby. Sofia Sabatino è portavoce della Rete nazionale degli Studenti, ha deciso di salire anche lei sul palco e leggere una lettera indirizzata a Ruby. «O meglio a Karima, ti voglio chiamare così». «Tu hai la nostra stessa età - ha detto Sofia - ma sembra tu stia dall’altra parte della barricata. Io studio e faccio politica, di te invece leggiamo sui giornali». Le «cose che ci accomunano», è che «siamo donne e giovanissime». La televisione e la società ci «hanno obbligato a scegliere tra corpo e mente. Ma la libertà è solo se corpo e mente stanno insieme».
La pluri-mamma cattolica. Rita Andreani, 39 anni, Si fa strada in mezzo alla folla con un bebè in passeggino e altri due aggrappati al papà. Era proprio il caso di scendere in piazza? «Confesso di non aver letto la lettera che chiedeva alle donne di mobilitarsi. So però che viviamo in un Paese che sta perdendo il senso di ogni cosa. L’amore viene trasformato in sesso, i corpi in merce da comprare, e le emozioni chissà dove sono finite. Abbiamo tre figli, li abbiamo desiderati e voluti, ringraziamo il Signore che ce li ha mandati, ma non vogliamo che crescano in un Paese che sostituisce il denaro ai sentimenti. Questo mi sembra il posto per dirlo». La precaria-tata a ore. Moira Cassetti, 29 anni, ha un adesivo rosso appiccicato al giubbotto: «L’amore è gratis». Sorride: «Fra un po’ anch’io sarò gratis. Lavorerò per la gloria, perché in Italia gli unici lavori per donne pagati seriamente sembrano le prestazioni sessuali. Il resto, boh! Sarei una maestra, ogni tanto ottengo una supplenza. Ma mi mantengo facendo la tata. Guadagno di più pulendo i sederini dei bambini a domicilio che nelle scuole. Nessuno però mi fa firmare un contratto, nessuno mi dà la possibilità di avere il diritto di prender e un’influenza senza perdere metà del mio stipendio perché quando hai un’influenza chi ti chiama più a lavorare con dei bambini? Ed è un paese per donne, questo?».

La Stampa 14.2.11
I nuovi confini della moralità
di Gian Enrico Rusconi


Le donne che ieri sono scese in piazza hanno dato una clamorosa risposta alla questione esplosa nei giorni scorsi, su come si debba intendere la moralità pubblica e politica, quando entra in gioco il comportamento privato dell’uomo politico.
I cittadini, almeno quelli che si suppone siano rappresentati dal sistema mediatico e dalle manifestazioni di piazza o di teatro, sono in contrasto su come giudicare il presidente del Consiglio.
Su come giudicarlo dal punto di vista dell’etica privata, che l’uomo politico deve rispettare quando riveste alti ruoli istituzionali. Ma che cosa ne pensa quella che una volta si chiamava «maggioranza silenziosa»? Esiste ancora? Per molti aspetti è confluita nel berlusconismo del 1994 - quello che Giuliano Ferrara sogna ora di poter resuscitare. Ma quel ciclo si è compiuto, si è consumato finendo nell’impotenza politica. La tragedia è che questa impotenza rischia di trasmettersi all’intera classe politica. Alla nazione. Uso intenzionalmente, con tristezza, il concetto di «nazione», che il 17 marzo celebrerà in absentia anche la fine della finzione della sua esistenza. La nazione intesa appunto come condivisione solidale di valori morali prima ancora che politici.
Si sta ora ricostituendo una nuova maggioranza (un tempo «silenziosa») che interagisce con il sistema mediatico? E’ difficile dirlo. Intanto Berlusconi da aspirante «presidente del popolo» diventa tenace parlamentarista e punta sul numero degli scranni parlamentari occupati dai suoi seguaci per sopravvivere e andare avanti. Per contrapporsi all’azione «eversiva dei pubblici ministeri». La giustizia anziché sede della chiarificazione e della restaurazione dell’etica pubblica è additata come luogo di oscure trame.
Come siamo arrivati a questo punto? Perché si è prodotta una divisione di valutazione tra i cittadini? Perché è diventato inevitabile ricorrere alle grandi manifestazioni pubbliche? Rispondere a queste domande significa fare i conti con l’impronta che il berlusconismo ha dato alla vita civile e politica italiana - e alla sua moralità. Qualunque cosa succeda, siamo davanti ad una transizione al post-berlusconismo già pregiudicata.
Che lo scontro avvenga ora esplicitamente sul confine tra moralità privata e moralità pubblica non sorprende. Il successo iniziale di Berlusconi puntava espressamente a ridisegnare i confini tra questi due termini, inizialmente declinati in termini esclusivamente sociali ed economici. Liberalismo, anti-burocratismo, anti-statalismo, anti-moralismo, anti-comunismo. Di nuovo è il sogno evocato al Teatro dal Verme di Milano. Ma questa volta l’esibizione delle «mutande» segna un salto di qualità: il diritto alla trasgressione privata viene presentato come segno di emancipazione dalla presunta oppressione giudiziaria.
Chi trae beneficio dal berlusconismo - non importa se effettivo o ancora in prospettiva (ma intanto il «vecchio sistema» si è sfasciato irreversibilmente...) è convinto che esiste un nesso positivo tra il comportamento privato del Cavaliere e il suo successo politico. Dopotutto Berlusconi ha vinto la prima e più grande della sue battaglie - quella del conflitto di interessi tra il suo enorme potere economico privato e il suo ruolo pubblico. Questo conflitto infatti è stato praticamente archiviato. Chissà quanti sostenitori del Cavaliere (forse anche qualcuno tornato silenzioso) si augurano che vinca anche questa battaglia che in un primo tempo appariva meno seria della prima, invece è più insidiosa.
Ma allora - molti si chiedono - perché Berlusconi non si presenta davanti al giudice per chiarire le sue buone ragioni? Il solito Ferrara giorni fa, prima delle sue ultime esibizioni, ha ripetuto la tesi liberale che «il peccato non è reato». In realtà nel caso Ruby, questo argomento non regge perché l’oggetto della controversia consiste proprio nel configurarsi di un reato previsto dalla legge liberale. Allora si preferisce eludere l’oggetto e sparare in generale contro il puritanesimo bacchettone.
Il resto lo fa il deragliamento del linguaggio pubblico verso lo scurrile, esibito come emancipatorio. E’ un modo volgare per ribadire la pretesa di ridefinire i confini tra moralità privata e moralità pubblica, nella convinzione che la presunta maggioranza degli italiani sia pronta per questo passaggio. Verso dove? Che non sia affatto così lo dimostrano le manifestazioni di donne e di uomini di ieri e i forti dibattiti da esse innescati.
A questo punto vorrei aggiungere un’osservazione sul mondo cattolico che, al di là delle nette dichiarazioni di principio, reagisce con imbarazzo a quanto sta accadendo. E’ diviso, ancora una volta. Di fronte all’annunciata protesta delle donne qualcuno non si è trattenuto dal rinfacciare loro: «Che cosa pretendevate voi donne laiche, dopo quello che avete fatto della vostra riconquistata libertà?». E’ un maldestro tentativo di rovesciare il quadro delle responsabilità.
Uno dei «capolavori» politici del berlusconismo è stata la frattura creata nel mondo cattolico. Ad esso si è presentato e si presenta come la diga anti-laicista, semplicemente garantendo il pacchetto dei «valori non negoziabili». Il resto dovrebbe rimanere il peccato personale del Cavaliere, stigmatizzabile solo come tale.
Gli ultimi attacchi di Berlusconi alla magistratura avrebbero dovuto modificare l’atteggiamento politico della consistente componente cattolica che lo sostiene. Se il comportamento pratico di quest’ultima continua a rimanere elusivo, il mondo cattolico italiano non sarà più in grado di offrire una classe politica capace di guidare il Paese in nome dell’etica pubblica e nella pluralità delle sue componenti.

Repubblica 14.2.11
Il cavaliere dimezzato
Indagine Demos per Repubblica: ai minimi la credibilità del governo
di Ilvo Diamanti


Silvio Berlusconi resiste. Nonostante le inchieste, gli scandali e le proteste. Anzi, reagisce con violenza. Contro i nemici. La Magistratura, i giornali e i giornalisti della Repubblica Giudiziaria. Perfino – anche se in modo meno esplicito – contro il Presidente della Repubblica. Ma la sua posizione e la sua immagine ne hanno risentito sensibilmente.

Berlusconi, fiducia a picco è tornato ai livelli del 2005 metà degli italiani crede ai pm
Pdl e Pd poco sopra il 50%, è la fine del bipartitismo
Scende al 30% l´apprezzamento per il Cavaliere sul caso Ruby per la maggioranza resterà impunito
Premier a parte, i leader aumentano i consensi, Tremonti il più gettonato nel centrodestra
Gli elettori spaesati guardano a Napolitano, l´80% è con lui: Lega e Pdl compresi

Come mostra il sondaggio condotto nei giorni scorsi dall´Atlante Politico di Demos per la Repubblica. Oggi, infatti, la fiducia dei cittadini nei confronti di Silvio Berlusconi ha toccato il fondo. La quota di italiani che ne valuta positivamente l´operato (con un voto almeno sufficiente) è ridotta al 30%. Meno che nel settembre 2005, quando il Cavaliere sembrava avviato a una sconfitta pesante alle elezioni politiche dell´anno seguente. Il che suggerisce di usare cautela, prima di darlo per finito, visto come sono andate le cose in seguito. Tuttavia, gli avvenimenti recenti fanno sentire i loro effetti. Quasi metà degli italiani ritiene vere le accuse rivolte dagli inquirenti a Berlusconi. E pensa che il Premier si dovrebbe dimettere. Meno del 20% considera, invece, falsi i fatti che gli sono addebitati. Anche se oltre metà degli italiani ritiene che, per quanto colpevole, il Premier resterà "impunito". Come sempre. Anche per questo la fiducia in Berlusconi, oltre che limitata, appare in declino costante e precipitoso. È, infatti, calata di 5 punti percentuali negli ultimi due mesi, ma di 12 rispetto allo scorso giugno e addirittura di 18 rispetto a un anno fa. I motivi di insoddisfazione degli elettori, d´altronde, vanno al di là delle feste e dei festini a casa del Premier. Solo un italiano su quattro, infatti, pensa che il governo Berlusconi abbia «mantenuto le promesse». Quasi metà rispetto a due anni fa. Neppure gli elettori leghisti sembrano disposti ad ammetterlo. Da ciò la crescente in-credibilità di Berlusconi. Sempre più indebolito sul piano del consenso personale. Mentre tutti gli altri leader politici hanno migliorato la propria immagine presso gli elettori, negli ultimi due mesi. Nella maggioranza (e non solo), Tremonti resta il più apprezzato. Nel Terzo Polo, non solo Casini - di gran lunga il più stimato – ma anche Fini ha recuperato (un po´ di) credibilità, dopo la battuta d´arresto subìta il 14 dicembre. Nel Centro-Sinistra, infine, Vendola si conferma il «più amato», per quanto anche Bersani abbia allargato la propria base di consensi. È significativo il seguito di una outsider come Emma Bonino. Nonostante il peso elettorale, limitato, del suo partito. A conferma del disorientamento di quest´epoca, senza riferimenti fissi. Senza baricentri. Come emerge, con chiarezza, dalle intenzioni di voto. Contrassegnate, anzitutto e soprattutto, dal calo sensibile dei due partiti principali. Il PDL, infatti, scende al 27%, il PD al 24%. Insieme: poco più del 50%. Alle elezioni politiche del 2008 superavano il 70%. Segno definitivo che l´illusione bipartitica è finita. Compromessa – se non finita – insieme alla capacità di Berlusconi di unire e dividere il mondo (politico) italiano. Con la conseguente frammentazione, che, più degli altri, premia la Lega, a destra, e SEL, a sinistra. È interessante osservare come il quadro cambi sensibilmente di fronte a scenari di coalizioni possibili. In primo luogo, si assiste a una riduzione consistente degli indecisi. I quali, praticamente, si dimezzano con effetti evidenti sugli equilibri politici.
Secondo le stime dell´Atlante Politico, infatti, l´attuale coalizione di governo, allargata alla Destra di Storace, perderebbe nettamente il confronto (57% a 43%) con una – ipotetica – "Grande Alleanza" di opposizione, che dal Terzo Polo arrivasse fino a SEL, passando per il PD e l´IdV. Ma appare sfavorita anche in una competizione tripolare. Il Centrosinistra (PD e IdV insieme a SEL) vincerebbe, infatti, in misura più larga rispetto a due mesi fa (6 punti percentuali in più). Aiutato, per un verso, dal voto di elettori incerti di centrosinistra; per altro verso, dalla crescita del Terzo Polo a spese del Centrodestra.
Si spiega così la resistenza del Premier di fronte a ogni ipotesi di voto anticipato. Assecondato, con malcelato disagio, dalla Lega. Si spiegano, allo stesso modo, le telefonate del Premier durante le trasmissioni "nemiche", la crescente pressione esercitata sui media. Ma anche la guerriglia condotta dagli uomini della maggioranza contro ogni sondaggio sfavorevole. Il Premier, il PdL, il centrodestra sono impegnati a modificare il clima d´opinione loro sfavorevole. Con ogni mezzo. E ad allontanare le elezioni anticipate. Visto che oggi il Centrodestra ha la maggioranza – ipotetica e incerta – in Parlamento, ma è minoranza nel Paese, fra gli elettori.
In questo Paese spaesato non può sorprendere la crescita costante e vertiginosa dei consensi nei confronti del Presidente, Giorgio Napolitano. Verso cui esprime fiducia oltre l´80% degli italiani. Lo "stimano" quasi tutti gli elettori del PD, ma anche l´80% (circa) di quelli del PdL e oltre due terzi dei leghisti. È che il Presidente offre una sponda nel vuoto politico e nella crisi che scuote le istituzioni. D´altronde, le mobilitazioni e le proteste sociali delle ultime settimane, al di là delle specifiche rivendicazioni (ieri le donne hanno riempito le piazze in nome della propria "dignità), denunciano anch´esse un "vuoto" politico. Un deficit di alternativa. Il PD, d´altronde, non è più in grado, da tempo, di "fare opposizione", da solo. Ma neppure di stabilire i confini e le condizioni di un´alleanza. Se promuovesse un´intesa esclusiva con il Centro, ad esempio, perderebbe, come mostra l´Atlante Politico. Il PD resta, comunque, determinante per costruire l´alternativa. Ma deve farlo in fretta. Oggi, un´alleanza tra le forze di opposizione avrebbe grandi possibilità di rappresentare la "maggioranza" – dei cittadini ma anche degli elettori. È ciò che teme Berlusconi. È il motivo per cui non vuole interpellare il "popolo sovrano". Almeno in questa fase. Ma - per lo stesso motivo - il PD e gli altri partiti di opposizione dovrebbero rivendicare il ritorno alle urne. Al più presto. Indicando, fin d´ora, quale coalizione. Il programma è obbligato: ri-formare e ri-fondare questa Repubblica straordinaria, questa democrazia indefinita. In modo, per quanto possibile, condiviso. Anche se ci attenderebbe una campagna elettorale dura, durissima. In tempi duri, durissimi. Ma, come ha ammonito il Presidente della Repubblica, è meglio una battaglia a termine, per quanto aspra, di questa guerra quotidiana - senza fine e senza quartiere - fra Berlusconi e le istituzioni dello Stato. Da cui io, personalmente, mi sento ogni giorno di più, sconfitto.

Repubblica 14.2.11
La tragedia degli immigrati e il fallimento della politica
di Adriano Prosperi


Un barcone sovraccarico di profughi dalla Tunisia è affondato nel porto di Gabes. Un ragazzo è morto affogato: un altro corpo senza nome ingoiato dal cimitero marino.
In quel cimitero marino dove sono finite le vittime di una intera stagione politica: quella che ha visto la collaborazione italiana con Gheddafi e l´imbarbarimento del nostro costume civile. Oggi i tirannelli della costa africana del Mediterraneo crollano come birilli davanti ad un immenso sommovimento di masse umane. Gli effetti sono appena cominciati e già si annunciano di portata mondiale. Ma intanto è il nostro Paese che deve registrare i primi effetti del terremoto. E anche se il nuovo panorama è ancora nebbioso un fatto è certo: quella che sta cambiando è la geografia politica su cui ha galleggiato finora il governo italiano. Di questo bisogna tener conto per cogliere il significato dell´appello rivolto al paese e alle forze politiche dal ministro dell´Interno, il leghista Roberto Maroni.
Ci sono, dietro quell´appello, ragioni concrete che non si possono ignorare. È ricominciata la mai finita tragedia dei barconi. Migliaia di esseri umani con le loro tante storie si affollano in questi giorni sulla strada che porta al centro di accoglienza di Lampedusa. Altre migliaia arriveranno. «Un esodo biblico come mai se ne sono visti»: ecco che cosa sta arrivando dalle coste del Maghreb secondo il ministro Maroni. L´emergenza era prevedibile. E governare significa anche prevedere: non il futuro scritto negli astri, ma quello delle emergenze in atto nel mondo che ci circonda. Se vedi il fuoco a casa del vicino prepara l´acqua in casa tua, diceva un proverbio. Ora, è ormai da tempo che il fuoco divampa a casa dei nostri vicini sull´altra costa del Mediterraneo. E non ci voleva un indovino per immaginare che a Lampedusa sarebbero arrivate ondate di profughi.
Ma quella che oggi è entrata in crisi è la politica del nostro governo. Da questa constatazione bisogna partire per cogliere il significato dell´appello del ministro. Di quella politica resta un paesaggio cosparso di macerie civili e di vittime umane: tante vittime, dai morti delle traversate ai rimpatri indiscriminati di un gioco dell´oca con tappa finale nelle carceri libiche; e per i clandestini che ce l´hanno fatta, una vita alla mercè di sfruttatori e di mercanti di carne umana. Ma se alziamo lo sguardo dalla politica interna quello che vediamo in un solo colpo d´occhio è la somma di un allentarsi dei legami europei e di un abbraccio con Gheddafi, promosso a guardia delle nostre coste e per questo pagato e armato da noi.
Oggi un governo tutto assorbito dalla difesa del suo presidente del Consiglio e dal controllo dei teatrini mediatici si sveglia dal sonno della non-politica. È in affanno, in mezzo a una crisi istituzionale senza precedenti, privo di una prospettiva di durata che guardi al di là del mattino seguente, legato alle sorti del prossimo processo per reati comuni del suddetto presidente. Un altro ministro leghista, noto per aver definito «porcellum» la legge elettorale che ha gonfiato di seggi parlamentari la sua maggioranza, oggi ha descritto il quadro come lo sgretolarsi della torre di Babele. È in questa situazione che il ministro Maroni chiede soccorso a destra e a sinistra. Il suo non sembra un appello agli impulsi del volontariato solidale, che pure è un tasto sempre funzionante da noi, nella migliore tradizione di un paese che sa di non poter fare conto sulle sue istituzioni. Sembra piuttosto un invito all´unità delle forze politiche. Ora, non è mai troppo tardi perché i picconatori della festa dell´unità nazionale, i fanatici del sacro egoismo fiscale, i governatori arroccati tra il Po e le Alpi, si rendano conto che esiste un paese Italia. Oggi il ministro del decreto sicurezza, già responsabile di toni specialmente duri nella guerra ai rom dichiarata dal nuovo razzismo italiano, chiede l´apertura di una fase nuova nella politica generale del paese. Se la sua è una richiesta seria, dovrà essere presa seriamente in esame: e per esserlo bisognerà che sia integrata con qualche dettaglio ulteriore. Per esempio, dica Maroni come e con chi secondo lui un ipotetico governo di unità nazionale dovrebbe far fronte alle tante emergenze italiane.

domenica 13 febbraio 2011

l’Unità 13.2.11
Il vento che sale
di Concita De Gregorio


Beatrice Alemagna ci ha inviato ieri una Piccoletta che con la mano sinistra sventola la bandiera e con la destra regge la sua bambola. La donne fanno spesso così, due lavori insieme e anche più. Non sempre pagati né riconosciuti, non sempre sufficienti a garantirsi da vivere. In un'altra tavola Piccoletta dice: “Il vento si sta alzando”. E' vero, si sta alzando. Non c'è chi non lo senta. Persino i guastatori: è per questo che sono così spaventati, che hanno provato fino all'ultimo a irridere e dividere strillando. Invece vedrete, oggi. Guardatevi attorno nelle 290 piazze in Italia e nel mondo. Leggete le centomila firme che pubblichiamo al centro del giornale, le vostre. Ci sono, ci siamo tutte. E tutti, i padri e i fratelli, i figli. Troverete le agenti di polizia e le infermiere (vere, in divisa e non in maschera), le precarie della scuola e le presidi di facoltà, le femministe storiche e le ragazze nate negli anni Ottanta, quelle come Emma Marrone che sono uscite da “Amici” e quelle che la tv non la guardano, Carla Corso leader storica del comitato per i diritti delle prostitute, le suore e i parroci del Veneto. Donne celebri, donne invisibili. Bisnonne e nipoti. Su questo giornale da più di due anni diamo voce – la sollecitiamo – alle donne italiane. Mai come in queste settimane si era sentita forte e chiara: una discussione aperta, larga, fonda. Oggi le vedrete in piazza perchè i pensieri e le mani si muovono insieme, arriva sempre un momento in cui le parole si trasformano in gesti e si fanno corpo. Noi dell'Unità ci saremo tutti, saremo coi ragazzi del Laboratorio B5 che faranno disegnare i bambini perchè da lì si deve ripartire: dalla cultura, dall'istruzione, dall'investimento sui ragazzi. Ci vorrà tempo, non abbiamo fretta. Ci metteremo il tempo che serve.
Tra le persone che ci hanno scritto e chiamato ieri ci sono una precaria dell'Università, una staffetta partigiana, un'operaia in cassa integrazione. Dice Rosa Giancola, operaia tessile in Cig: “Nella mia ultima busta paga c'è scritto 1051 euro. Non so nelle tariffe di Arcore a cosa corrisponda, forse a una palpatina. Quello è il mio attestato di dignità, il mio contributo al Pil. E quei segni meno sono le tasse che pago per contribuire a un bene che ricade su tutti. Non è Ruby il problema, è la corte del maraja che mi disgusta. Io pure lo uso il corpo, con le mie mani costruisco le tende per la Protezione civile, e però sono invisibile anche se occupo una fabbrica”. Teresa Vergalli, staffetta partigiana: “Una donna non conta niente anzi meno di niente, diceva mia madre contadina. Per uscire da quel niente ci sono state le donne uccise, torturate, violentate. Ed anche, forse inconsapevoli, tutte quelle che hanno dovuto piangere. Ci sono state conquiste e passi avanti. Ma ci siamo illuse di esserci assicurate il rispetto e il riconoscimento dovuto. Invece stiamo andando a ritroso. Oggi io sarò in piazza, ragazza di tanto tempo fa, insieme alle mie nuore, a mia nipote, alle mie amiche”. Rosy Nardone, Phd all'università di Bologna: “Ho la "sfortuna" di occuparmi di tutto ciò che questo Governo sta demolendo: didattica, educazione, innovazione. Dunque non c'è proprio alcun motivo per continuare ad investire su di me, sarebbe meglio che sparissi...”. Invece no, nessuna sparisce. Eccole tutte per strada, provate a contarle.

l’Unità 13.2.11
Se non ora, quando Una protesta nata dalle donne che sta diventando movimento
Da Roma a Parigi, dai piu piccoli comuni alle metropoli: un’onda d’urto gigantesca
Duecentonovanta piazze per dire basta. Tutti assieme
Donne e uomini in oltre duecento piazze italiane per urlare «Se non ora quando?», un urlo che rimbalzerà in decine e decine di città di tutto il mondo che oggi manifesteranno per la dignità e il rispetto delle donne.Tutte.
di Maria Zegarelli


Una cifra enorme, quasi duecentonovanta piazze in tutto il mondo, duecentotrenta soltanto in Italia: è qui, in tutti questi luoghi, l’ appuntamento per tantissime donne e speriamo tantissimi uomini che hanno risposto all’appello lanciato da un gruppo di donne tra le quali Francesca Comencini e Gae Aulenti e poi rimbalzato da un capo all’altro del mondo: «Se non ora quando?». Se non ora quando (ri)affermare la propria forza, dignità e determinazione? Se non ora quando dire che basta con le donne usate come nella prima Repubblica si usavano le mazzette, «educate» per compiacere il Drago, apprezzate per le misure seno-vita-fianchi altrimenti trasparenti perché se l’ascensore sociale va piano per tutti per le donne è bloccato al primo piano. Proprio ora, dicono queste piazze che azzerano le distanze tra l’Italia, la Francia, l’America, la Spagna, la Svizzera, isole lontane e decine di stati stranieri. Nessun simbolo di partito, di sindacato, di associazione, niente che sia ascrivibile ad «una parte»: sono invitate le donne di destra, di centro quelle dell’Udc fanno sapere che non saranno presenti -, di sinistra e quelle che la politica non le riguarda, le Ruby, le Minetti, le Iris, le scrittrici e le casalinghe, quelli che la sera vanno a letto presto e quelli che ci vanno tardi, quelli che leggono Kant e quelli che preferiscono Diabolik, quelli che per forza devono mostrare le mutande in un teatro ma forse iniziano ad avere un dubbio ma non lo possono dire perché il Leader indiscusso, indiscutibile, ingiudicabile, no, non permetterebbe.
L’evento clou, seguito dai media di mezzo mondo, sarà a Roma, in piazza del Popolo, dove la kermesse dal palco inizierà dalle due del pomeriggio. Un minuto e mezzo di silenzio, poi l’attrice Isabella Ragonese darà lo starter e la piazza urlerà «Se non ora quando?». Dal Pincio la risposta: «Adesso». Poi le note di Patty Smith e un enorme striscione che sarà srotolato dalla terrazza del Pincio: «Vogliamo un Paese che rispetti le donne, tutte». Ragonese e Angela Finocchiaro condurranno la manifestazione dando la parola dal palco a Susanna Camusso, segretaria Cgil, Giulia Bongiorno, Stefano Ciccone, autore del libro «Essere maschi», suor Eugenia Bonetti dell'Unione Superiore Maggiori d'Italia, Suzanne Diku, ginecologa e presidente dell'Associazione delle donne congolesi in Italia e nuova italiana, l’unica donna che governa una regione, Katiuscia Marini (Pd), a capo dell’Umbria, la regista Cristina Comencini, che racconterà come è nata e cresciuta l'iniziativa e l'attrice Lunetta Savino che leggerà un testo, mentre la poetessa Patrizia Cavalli leggerà una sua poesia «La patria», titolo di un libro non ancora pubblicato. Sul palco donne famose e donne comuni come una lavoratrice precaria, una femminista, una studentessa, come nella piazza, dove ci saranno il segretario Pd Pier Luigi Bersani e la presidente Rosy Bindi, l’Idv di Antonio Di Pietro, Sel, Fli, Fds, Pri. Lucia Annunziata seguirà l’evento in diretta nel corso della sua trasmissione su Rai3 «In 1/2 ora», con interviste Margherita Buy, Ritanna Armeni oltre a Camusso, Bongiorno e Comencini. Diretta anche su Sky, Youdem, Radio Città Futura, Radio Popolare Network, Radio Articolo 1.
A Milano appuntamento in Piazza Castello, sarà steso un grosso filo da bucato cui tutte le donne potranno appendere pensieri, storie, poesie e immagini, mentre a Torino è in piazza San Carlo. E poi nel mondo da Auckland ad Amsterdam a New York, Parigi, Bruxelles, Boston, Honululu, Jakarta, Seoul, Washintgon, Tokyo. «La nostra manifestazione non è fatta per giudicare altre donne, contro altre donne o per dividere le donne in buone e cattive», dicono dal comitato organizzativo rispondendo anche a chi nei giorni scorsi dalla maggioranza ha cercato di polemizzare cercando di dividere.

l’Unità 13.2.11
«Stavolta alziamo la voce per cantare il Dies Irae in memoria del Paese»
Centinaia di musicisti saranno in piazza del Popolo per intonare le note del Requiem di Mozart. Anna de Martini: «Sarà il nostro urlo colto e bello». E la scuola popolare di Testaccio marcerà sulle note
di Jolanda Bufalini


Dies Irae, dies illa/ solvet saeculum in favilla. È stata una valanga di adesioni, cento, duecento, ora il conto si è perso e l’ iniziativa si è allargata a macchia d’ olio. «Io dirigo un coro», racconta Anna De Martini, cantante di musica antica, che ha avuto l’ idea, «conosco altri cori, pensavo a loro». Le voci: soprano, contralti. La manifestazione che qualcuno pensava solo di donne è di donne e uomini: tenori, baritoni, bassi. Hanno chiamato tanti strumentisti, cantanti professinonisti e principianti. Quanti saranno lo vedremo oggi ma certo non passerà inosservato il Dies Irae dal Requiem di Mozart. «Un urlo colto e non demagogico», spiega Anna che prende in prestito dal mestiere la spiegazione: «Se urli si schiaccia la voce e il suono è meno chiaro». Ogni adesione, ogni messaggio, ogni telefonata era così «convinta, entusiastica, come fossi io», racconta la musicista. «Politicamente aggiunge è interessante che sono persone che spesso non hanno votato, non sono iscritte a partiti, non vanno spesso a manifestazioni. Le persone che studiano e che si fa finta che non esistano, quelli che non appaiono nei talk show».
Il paese dei balocchi Sarà un richiamo severo per chiedere «un giusto processo» e «le dimissioni del presidente del Consiglio», le dimissioni sono scritte, anche, in testa alla partitura. L’ indignazione nasce perché «non si può salire tutte/i sulla carrozza del postiglione, ‘venite ragazze nel paese dei balocchi’ e poi crescono le orecchie d’ asino», perché non tutto «è opinione a cui contrapporre un’ altra opinione uguale e contraria» e, se si continua così, «ci cambieranno anche il passato, come avviene in 1984 di George Orwell». «Io aggiunge Anna De Martini non vado in piazza perché sono scandalizzata ma perché penso si debba dar voce all’Italia per cui non tutto è uguale, non tutto è opinabile, che studia e che si impegna». Appuntamento all’ una in piazza del Popolo per provare. «Portate amici e bambini e qualche copia in più di testo e partitura per darla a chi voglia aggiungersi».
Tanta musica a piazza del Popolo, dove arriverà anche Giovanna Marini con le testaccine/i della scuola popolare di musica.
Come le lucciole “Puritani e moralisti”? Non sembra proprio. Nel repertorio degli allievi e delle allieve della scuola che andranno a piazza del Popolo spicca l’ indimenticabile “Bocca di rosa” di Fabrizio De André e anche “Noi siam come le lucciole”, 1927: «Brilliamo nelle tenebre/ Schiave di un mondo brutal/Noi siamo i fiori del mal ... ». E ancora le canzoni popolari e politiche alla cui riscoperta Giovanna Marini ha dedicato il suo rigore filologico e prestato la sua voce: «Ama chi ti ama/ non amare chi ti vuol male/ e specialmente il caporale/ e i padroni che sfruttano te». Un pensiero va anche alle operaie della Fiat e a Marchionne: «Sior padrone, non si arrabbi se al gabinetto devo andare... /Ci sei andato l’altro ieri... Mi vuoi proprio rovinare, la catena fai rallentare”. Il testo di Dario Fo e Paolo Ciarchi è del 1972: «Vai ma sbrigati in tre minuti, non si fuma al gabinetto, non si legge l’Unità». È proprio una fissa dei padroni questa della lunghezza della pausa per il gabinetto. L’ appuntamento per chi voglia provare è alla scuola di Testaccio alle 11, chi non facesse in tempo può andare direttamente a piazza del Popolo.

l’Unità 13.2.11
Colloquio con Franca Rame
«Finalmente l’Italia si sta svegliando»
L’attrice: «Quando ho letto l’appello su l’Unità ho pensato: ecco, mi hanno letto nel pensiero...»
di Maria Grazia Gregori


Franca Rame, attrice, autrice. Non c’è ragazza che, dagli anni Sessanta in poi, non conosca le sue battaglie in difesa della donna, della sua libertà di scelta, della sua dignità. Sola una così poteva trasformare una violenza orrenda subita con dolore, in una consapevole e generosa scelta di campo a favore di chi ha poco o niente. Partendo dal palcoscenico, è ovvio, perché Franca non si è mai dimenticata di essere un’attrice che racconta storie insieme a suo marito Dario Fo, ma anche da sola, avendo sempre ben presente il consapevole orgoglio della sua condizione. Anche per questo è entusiasta della manifestazione che si terrà il giorno 13, alla quale parteciperà.
Dice: “È un momento di grande fiacca generale, la gente è disinteressata, non ha soldi ed è preoccupata soprattutto di apparire e non di essere. C’è bisogno di una sveglia. Già la manifestazione del 29 gennaio a Milano, è stata bellissima: tantissima gente, uomini e donne, tanti applausi, un grande affetto che ci univa... mi sono commossa. È importante che questa manifestazione accada proprio in questi tempi in cui “il povero Berlusconi” è lì con le mutandine delle sue ragazze in testa. È importante questo svegliarsi, questo campanello d’allarme. Da parte mia spero in un risveglio totale di donne e di uomini da questo sonno profondo. Non mi è mai capitato di vedere un periodo così imbevuto di egoismo, di perdita di dignità, di denaro facile. E queste ragazze che si umiliano e l’uso umiliante che se ne fa per soldi, soldi, soldi.
Il 13 ci sarò anch’io. Quello che succede in questi giorni testimonia che in ognuna di noi covava qualcosa. E quando ho letto sull’Unità della “chiamata” per testimoniare il nostro rifiuto, il nostro lutto, mi è sembrato che mi avessero letto nel pensiero perché io credo veramente che in ognuna di noi, casalinga, miliardaria, prostituta, ci sia un forte desiderio di comunicare, di esistere, di esprimere quello che sentiamo. È stata proprio come una grande spinta. E pensare che tutto nasce dal comportamento del signor B., il signore con le mutandine in testa, da un’idea, da un’immagine mortificante della donna. E queste belle ragazze cresciute a pane e televisione, nel culto di una società che premia solo l’apparire, sono un po’ vittime di questa cultura, sembrano non rendersene conto, si tolgono sorridendo le mutandine, guardano alla busta “pesante”... A un certo punto qualche anima bella ci ha definite l’altra metà del cielo. Da parte mia non sentendomi la metà di questo cielo non l’ho mai neanche voluto tutto per me. Non voglio essere al centro delle cose. Penso sempre agli altri, non solo alle donne ma anche agli uomini, al precariato, al debito pubblico che sale, cerco di vedere dove posso essere utile. Credo che per cambiare ci sia bisogno di una politica diversa ma questo non sarà possibile fino a quando la sinistra non si risolleverà”

il segretario del Pd Pierluigi Bersani: «A Silvio Berlusconi alias Giuliano Ferrara, voglio dire che il Pd non si occupa né di reati né di peccati, ma dei problemi dell’Italia e della sua immagine nel mondo»
l’Unità 13.2.11
Bersani mette a nudo Ferrara:
Il leader Pd: «Non siamo né Chiesa né giudici. Al voto per governare l’Italia»
Il segretario del Pd vuole il voto anticipato e lancia un nuovo appello alla Lega sul federalismo: «Ne discuta con noi. Così non lo avrà mai, anche se Berlusconi glielo ha promesso in cambio del processo breve»
di Simone Collini


«A Berlusconi, alias Giuliano Ferrara, voglio dire che il Pd non si occupa di reati né di peccati, ma dei problemi che ha l’Italia e del volto che ha il nostro Paese nel mondo». Caso vuole che Pier Luigi Bersani sia a Milano nelle stesse ore in cui il direttore del Foglio attacca dal Teatro Dal Verme il «golpe moralistico» della procura milanese e la «crociata puritana» delle forze dell’opposizione. Il segretario del Pd è nel capoluogo lombardo per lanciare la campagna elettorale di Giuliano Pisapia, ma è inevitabile parlare dello scandalo che ha investito il presidente del Consiglio e dei disperati tentativi in atto per coprirlo. «Dei peccati si occupa la Chiesa, e dei reati la magistratura, non noi», è la replica di Bersani a chi si è inventato la campagna “anti-puritani”. «Ma diciamo a Berlusconi di fare un passo indietro se ha un minimo di resposabilità verso il suo Paese, perché non sta governando e perché non ha più la credibilità per farlo. Se i padri costituenti hanno scritto nella Costituzione che si devono svolgere i ruoli pubblici con disciplina e onore, non lo hanno certo fatto perché erano puritani, ma perché sapevano che tra funzione pubblica e comportamenti c’è una precisa relazione».
ORA IL VOTO È IL MALE MINORE
Bersani torna a chiedere di andare ad elezioni anticipate («a questo punto sono il male minore») perché non c’è solo il fatto che con tutti i problemi che ha il Paese dall’occupazione ai redditi alla perdurante crisi economica «il Parlamento è bloccato» e la politica italiana è «impantanata» sulle questioni personali di un premier che pur di rimanere attaccato alla poltrona va avanti con la «campagna acquisti». C’è anche la necessità, dice, di salvaguardare l’immagine già duramente intaccata dell’Italia, con un premier accusato di concussione e prostituzione minorile e con un ministro degli Esteri che invece di occuparsi di quel che sta succedendo sull’altra sponda del Mediterraneo si occupa «di portare cartuccelle dalla Giamaica o di un reclamo a Strasburgo sul caso Ruby»: «Frattini sta facendo figure da cioccolataio, mentre abbiamo ambasciatori in lacrime, imprenditori che telefonano e raccontano le barzellette che sentono in giro per il mondo, il tempio della stampa conservatrice come il Times di Londra che usa parole pesantissime che sono un invito alle dimissioni».
APPELLO ALLA LEGA SUL FEDERALISMO
Bersani sa che per andare alle urne è necessario prima costringere Berlusconi alle dimissioni. E se ormai è chiaro che a tenere in vita il governo è la Lega, desiderosa di incassare il federalismo, il leader dei Democratici lancia nuovamente un appello al Carroccio a discutere col Pd, «nel merito delle nostre proposte», la riforma: «Non otterranno il federalismo, anche se Berlusconi gli ha promesso di sì in cambio del via libera al processo breve».
Alla voce del Pd nella richiesta di voto anticipato si unisce quella dell’Udc. Cesa dice che «il nostro candidato è Casini». Il quale a suo volta riconosce che il suo nome viene «evocato» nell’ottica di un’alleanza costituente. Ma dallo stesso segreterio dei centristi si viene a sapere che l’Udc sta avendo una serie di colloqui «anche con personalità esterne ai partiti» per guidare una coalizione ampia che consenta di uscire da questa fase.

Repubblica 13.2.11
Il legno storto e quello imputridito
di Eugenio Scalfari


Mubarak è caduto sotto la spinta irrefrenabile della gioventù egiziana. Berlusconi oscilla, sempre più impotente e sempre più Caimano e registra per la prima volta lo smottamento dei consensi che finora costituivano la base del suo sistema di potere. L´opposizione comincia (finalmente) a considerare la necessità di costruire un´alleanza repubblicana che guidi il paese fuori dal pantano in cui è precipitato.
Questi sono i fatti della settimana che si conclude oggi con la manifestazione delle donne in tutte le piazze d´Italia per affermare la loro dignità ed opporsi al degrado che ci sovrasta.
C´è un tema che unifica questo panorama di eventi e lo prendo da una frase ormai celebre di Immanuel Kant sul «legno storto dell´umanità». Isaiah Berlin ha scritto un libro intitolato a questa frase. L´umanità è un legno storto e lo è perché l´uomo risulta da un´incredibile mescolanza di istinti e di ragione. Un legno storto ma un legno vivo, con radici e fronde vitali. Nelle vene del suo tronco scorrono linfe, passioni, sentimenti, memoria, progetti, ragionamenti, sogni, trasgressioni, bisogno di regole e di limiti.
Questo è il legno storto e questo siamo tutti noi. Ma l´opposto non è un improbabile anzi impossibile legno dritto, bensì un legno marcio, un legno imputridito, divorato dai parassiti e dai coleotteri velenosi. Noi, legno storto, non vogliamo che il nostro legno imputridisca, marcisca e sia divorato dai parassiti.
Questo dunque è il tema al quale gli eventi di questi giorni si ricollegano ed è la chiave per poter leggere e svolgere con chiarezza. Un tribuno che si eccita quando fiuta l´odore del nemico e dello scontro, ha citato anche lui la massima kantiana leggendola come un alibi che giustifichi i peccati di tutti e di uno in particolare. Ha anche accusato Umberto Eco di leggere Kant senza capirlo. Non so se quel tribuno vociante e urlante dal palco d´un teatro milanese imbandierato di mutande abbia letto i romanzi e i saggi di Eco. Se li avesse letti si sarebbe accorto che tutta l´opera di Eco è l´analisi e il racconto del legno storto che combatte il legno marcio, a volte vincendo, a volte soccombendo, ma sempre e comunque testimoniando.
Detto questo, a noi non importano molto i peccati perché siamo libertini illuministi e relativisti. A noi importano gli eventuali reati e chi pecca e crede confidi nella misericordia di Dio.
* * *
Berlusconi non è un fatto episodico e anomalo nella storia italiana.
Conversando l´altro giorno con Nanni Moretti, l´autore del Caimano ha detto ad un certo punto che dai geni antropologici della nostra nazione sembra emergere una sorta di predisposizione a cedere alla demagogia. Nel suo articolo di mercoledì scorso Barbara Spinelli aveva esaminato della predisposizione come si manifesta nelle sue varie forme e quali ne siano state le cause storiche.
Molti anni prima, nel 1945, in un dibattito alla Consulta che è rimasto nei verbali di quell´istituzione, ne parlarono Ferruccio Parri e Benedetto Croce a proposito di Mussolini e del fascismo. Croce sosteneva che fosse un fatto anomalo, un tragico incidente di percorso; Parri era di diverso avviso, non un incidente ma, appunto, una predisposizione, un effetto ricorrente ad intervalli periodici, un virus annidato nell´organismo del paese insieme agli anticorpi capaci di combatterlo ma a volte soccombenti di fronte alla sua irruenza.
In un contesto diverso e con caratteri diversi, Berlusconi raffigura una nuova insorgenza di quel virus e questo spiega il largo consenso che l´ha fin qui sorretto. Ma ora gli anticorpi sono entrati in azione e non basteranno i tacchi dalla Santanchè e le contumelie di Ferrara a ridare al virus la sua potenza corrompitrice.
* * *
L´opposizione sta finalmente considerando la necessità di dar vita ad un´alleanza repubblicana. Sembra decisa sull´obiettivo che si propone ma ancora molto incerta sulle modalità, sui tempi, sulla leadership ed anche sui partecipanti. Da Fini a Bersani? Da Casini a Vendola? Anche con Di Pietro? Guidati da chi? Per fare che cosa?
Includendo anche quella parte del Pdl che dovesse eventualmente abbandonare il proprietario di quel partito?
E la Lega? Si deve trattare con la Lega? Questa lunga sfilza di domande ancora senza risposte è preoccupante.
Significa che i soggetti protagonisti non hanno ancora capito che il tempo a disposizione è corto e che compete proprio a loro di accorciarlo perché e questo lo capiscono tutti nelle odierne condizioni il paese non può stare più oltre.
Debbo su questo punto una risposta personale a Nichi Vendola il quale giovedì scorso ad Annozero di Michele Santoro ha ricordato un mio articolo di oltre due mesi fa in cui sostenevo che non era il momento di andare alle elezioni e che bisognava piuttosto lavorare per disarcionare Berlusconi installando al suo posto un governo interinale che guidasse il paese fino alla fine naturale della legislatura.
È perfettamente esatto, ho scritto proprio così perché allora il contesto politico ed economico a mio avviso consigliava questa soluzione ed in questa chiave si aspettava il voto parlamentare del 14 dicembre. Ma proprio quel voto, con i suoi tre voti di differenza in favore del governo ottenuti sappiamo come, cambiò radicalmente il contesto. Oggi non si può che andare alle elezioni a meno che il premier non si dimetta. C´è ancora chi crede in un´ipotesi del genere? Mubarak è stato costretto a farlo, ma l´Italia non è l´Egitto e i due casi non sono paragonabili.
Dunque bisogna affrettare le elezioni e rispondere a quella selva di punti interrogativi che abbiamo sopra elencato.
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Un´alleanza repubblicana deve avere dei promotori che indichino gli obiettivi e decidano la leadership. I promotori si sono già manifestati: Bersani, cioè il Partito democratico unito su questa linea e Casini, cioè l´Udc, o forse il Polo della nazione che comprende anche Fini e Rutelli.
L´obiettivo è stato indicato: cambiare la legge elettorale avvicinandola agli elettori; affiancare con misure appropriate la crescita economica al rigore di bilancio; costruire un federalismo che non sia secessionista ma un solido ed efficiente sistema di autonomie regionali e comunali. Infine restituire alle istituzioni la loro dignità, la loro autonomia e la loro efficienza nel rispetto della reciproca indipendenza tra i poteri dello Stato.
Fin qui i promotori. I quali ecco un punto che ancora non è stato chiarito ma che è parte essenziale dell´operazione, non possono mettere veti alle forze politiche che decidessero di partecipare all´alleanza, anzi debbono mirare ad ampliarla il più possibile.
Gli esiti scoraggianti dell´Unione che erose dall´interno il governo Prodi del 2006 avvennero in un contesto del tutto diverso. Oggi non si tratta di dar vita ad un´alleanza di governo così estesa. L´alleanza di governo riguarda i partiti promotori. Le altre forze saranno invitate a far parte d´un cartello elettorale che concordi sull´obiettivo ed è questo che marca la differenza.
Ma c´è un altro punto che va chiarito. Una volta perfezionata l´alleanza e il cartello elettorale, i promotori debbono chiedere al Presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere per la loro manifesta impossibilità di legiferare. Il Parlamento da oltre due mesi è in stato di paralisi e questo di per sé motiva la richiesta di scioglimento della legislatura.
Va aggiunto che la paralisi parlamentare e l´impotenza del governo a governare motiva anche l´iniziativa autonoma del Capo dello Stato il quale ieri pomeriggio ha richiamato di nuovo l´attenzione pubblica su questa sua insindacabile prerogativa costituzionale.
Resta il tema della leadership. Esprimo su questo punto un parere personale: non credo che il leader d´una alleanza tra la sinistra e il centro-centrodestra possa esser guidata da un esponente politico proveniente da una delle forze alleate. Deve essere rappresentativo di tutte e soprattutto della società civile.
Parlammo a suo tempo d´un «Papa straniero» in questo senso.
Prodi lo fu e vinse due volte in nome e per conto delle forze alleate.
Ciampi, in condizioni del tutto diverse, guidò un governo di ricostruzione repubblicana.
Il leader di questa alleanza non può che rispondere a queste caratteristiche: rappresentare il comune denominatore e possedere una specifica competenza soprattutto economica perché è quello il tratto dominante della situazione.
Ma va aggiunto che anche la scelta del presidente del Consiglio spetta al Capo dello Stato che, in situazioni del genere e con l´aiuto della coalizione vincente può anche scegliere un premier diverso da quello indicato sulle schede come leader della campagna elettorale.

Post scriptum. Domenica scorsa segnalai la pericolosità di riformare l´articolo 41 della Costituzione. Tutte le opposizioni hanno criticato quell´ipotesi approvata dal Consiglio dei ministri, definendola del tutto inutile ai fini della crescita economica. Per quanto mi riguarda sono perfettamente d´accordo su questa critica, ma la vera pericolosità è un´altra: sarebbe la prima volta che si emenda un articolo scritto nella prima parte della Costituzione, quella cioè che enumera i principi ispiratori della nostra Carta. Riscrivere quell´articolo e metterlo in votazione costituirebbe un pericolosissimo precedente. Del resto il ministro Sacconi, parlando in televisione di questa questione, ha dichiarato che la riscrittura dell´articolo 41 prelude ad una vera e propria rivoluzione culturale basata su nuovi principi ispiratori. Si aprirebbe dunque la strada ad uno stravolgimento della Costituzione, che non può esser fatta a colpi di emendamenti ma richiederebbe l´eccezionalità d´una nuova Assemblea costituente. Credo che le forze politiche responsabili dovrebbero impedire che un precedente del genere sia una mina sotterranea sotto la nostra democrazia costituzionale.

l’Unità 13.2.11
Partigiani come i repubblichini, la destra ci riprova


Era appena iniziata la legislatura ed un gruppo di deputati guidati dal presidente della commissione difesa della Camera Edmondo Cirielli ritenne che era venuto il tempo di dare la pensione ai reduci della triste e famigerata repubblica di Salò.
Con una proposta di legge, il manipolo, e' il caso di dirlo proponeva di istituire l'ordine del tricolore con l'esplicito intento «di attribuire a coloro che hanno partecipato alla seconda guerra mondiale un riconoscimento a quello attribuito ai combattenti della guerra 1914-1918dalla legge 18 Marzo 1968,n 263».
Un meritorio intento se non fosse stato seguito dall'ambigua affermazione secondo la quale tale ordine sarebbe stato «un atto dovuto, verso tutti coloro che,oltre sessanta anni fa impugnarono le armi e operarono una scelta di schieramento convinti della "bontà" della loro lotta per la rinascita della Patria. Una scelta che porto' alcuni a schierarsi con la parte definita dai proponenti "avversa" e concedono "liberatrice " ,definizione quest 'ultima messa tra virgolette, altri «cresciuti nella temperie culturale guerriera e “imperiale" del ventennio,ritennero onorevole la scelta a difesa del regime...", pari e patta.
Tanto da prevedere all'articolo 1 di equiparare ai fini del riconoscimento dell'onorificenza coloro che hanno prestato servizio militare durante la guerra e coloro che hanno combattuto nelle formazioni partigiane a quelli che combatterono sotto le insegne della Repubblica fantoccio di Salò. La proposta prevedeva che al riconoscimento onorifico fosse legato un assegno vitalizio di duecento euro.
Fortunatamente ci fu chi dentro e fuori il Parlamento denunciò il carattere inaccettabile dell'iniziativa. in primo luogo le associazioni partigiane che promossero iniziative di sensibilizzazione dell'opinione pubblica che costringendo il Presidente del Consiglio a chiedere ai proponenti il ritiro della proposta.
Se torno ad occuparmi della vicenda e' perché potrebbe non essere chiusa. Il condizionale e' d'obbligo ma il sospetto non è gratuito.
Alcuni dei firmatari della proposta di legge in questione ne hanno presentata un'altra dal titolo assolutamente innocuo: “Disposizioni concernenti le associazioni di interesse delle forze armate”. Apparentemente innocuo anche il contenuto che prevede una serie di norme per il riconoscimento delle associazioni in questione distinte d'arma, di categoria e combattentistiche. Queste ultime costituite fra "ex combattenti, reduci di guerra o di prigionia, e da coloro che,condividendone il patrimonio ideale,i valori e le finalità,intendendo contribuire alla realizzazione degli scopi associativi".In questa generica formulazione sta il trucco. Non distinguono infatti tra forze legittimamente belligeranti e no. In altre parole tra coloro che in quel terribile 1943 decisero per la libertà e quelli che scelsero di sostenere gli invasori nazisti.
Le implicazioni derivanti direttamente dalla legge sono di scarso rilievo ma si scorge un obiettivo politico che il tentativo precedente aveva indicato in modo esplicito: riconoscere un valore patriottico ai cosiddetti repubblichini.
Le legge è calendarizzata presso la Commissione Difesa della Camera dal suo solerte presidente, ed ha incontrato i primi ostacoli nel contenuto delle audizioni avviate. Non solo l’Anpi ma anche altre associazioni d’arma hanno espresso perplessità riguardo ad essa. Il Ministro della Difesa potrebbe aiutare, se lo volesse, a fare chiarezza. Su questa ambiguità, credo che sia nostro dovere promuovere una mobilitazione analoga a quella prodotta contro il Dl Cirielli. Lo dobbiamo a chi ha ridato dignità alla parola patria fondando la nostra democrazia, lo dobbiamo alla verità, ma soprattutto lo dobbiamo a noi stessi democratici di questa malandata repubblica minata dal populismo e dall’antipolitica, che fa leva proprio su ricostruzioni truffaldine del nostro passato per legittimare l’aggressione quotidiana alla nostra Carta Fondamentale.

La Stampa 13.2.11
La denuncia di Ignazio Marino
Fecondazione assistita “Il governo viola la privacy delle donne”
Il ministero della Salute potrà avere informazioni sulle pazienti

ROMA Il senatore del Partito democratico Ignazio Marino denuncia il tentativo del governo di condurre un «blitz alla vita privata delle donne», con un emendamento al decreto milleproroghe, «usato inappropriatamente per inserire nuove norme sulla fecondazione assistita».
«Il governo tenta un abuso che mette a rischio la vita privata delle donne. Un articolo voluto dal governo e votato al Senato prevede infatti che il ministro della Salute possa richiedere qualunque informazione sulle pazienti e sui trattamenti ai centri italiani di procreazione medicalmente assistita», denuncia Marino. «I centri sottolinea il senatore saranno obbligati a fornirli al ministero che potrà conoscere non solo gli aspetti medici ma anche i dati anagrafici e tutti i dettagli, dai cicli ormonali alle caratteristiche delle gravidanze. Un bell’esempio di rispetto della privacy da parte di un governo che grida contro le intercettazioni ma che non esita a entrare nella vita privata delle donne, pretendendo di raccogliere informazioni particolarmente sensibili».

La Stampa 13.2.11
Intervista a Luciana Castellina
“I primi film li ho visti da Mussolini”
di Alain Elkann


«Andavo a Villa Torlonia ma poi nessuno mi offriva la merenda»”
La figkia del Duce «Anna Maria diceva in classe “Il re è un cretino!”, e spaventava gli insegnanti»

Luciana Castellina, lei ha appena pubblicato per l’editore Nottetempo «La scoperta del mondo», un diario su quattro anni di vita, dal 25 luglio del 1943 all’ottobre 1947, quando si è iscritta al Partito Comunista. Perché ha scelto come prime immagini le partite a tennis con Anna Maria Mussolini a Riccione? «L’ho iniziato sul retro di un quaderno di scuola scrivendo come titolo “Diario politico”. Avevo ritrovato Anna Maria a Riccione, eravamo state compagne di scuola al liceo per anni, e mentre quel pomeriggio giocavamo a tennis è arrivato un agente di polizia che ha interrotto la partita dicendo ad Anna Maria che doveva partire. Io sono rimasta interdetta, ho capito che doveva esser successo qualcosa e con una bicicletta ho raggiunto i nostri amici. La radio di notte ha annunciato la caduta di Mussolini, così abbiamo passato la notte ascoltando Radio Londra. Il giorno dopo sul mare i cutter a vela hanno alzato il Gran Pavese per celebrare la caduta del Fascismo. In albergo ci hanno dato un menù speciale dicendoci: “Oggi ci sono le tagliatelle con la farina bianca perché a Riccione si festeggia”. Valerio Zurlini era il mio vicino di tendone in spiaggia. Quindici anni dopo ho visto il suo film “Un’estate violenta”, che raccontava proprio ciò che era successo quel giorno a Riccione».
Come era Anna Maria Mussolini? «Molto arrogante perché consapevole del suo potere come figlia di Mussolini, ma era anche ironica e sfottente: prendeva in giro con cattiveria tutti quelli che avevano paura di Mussolini. Ricordo che commentava in classe ad alta voce il bollettino di guerra alle ore 13. Raccontava ciò che il padre diceva a casa («Il re è un cretino!»), e il povero professore era terrorizzato».
Lei frequentava anche Villa Torlonia? «In poche della classe eravamo invitate nella casa dove abitava la famiglia Mussolini. Nel parco c’era una sala cinematografica gestita dall’Istituto Luce dove vidi i primi film della mia vita. Lì molte persone si radunavano attorno a Vittorio Mussolini che dirigeva la rivista “Cinema” su cui scrivevano registi come Lizzani, che poi sarebbero diventati famosi». Che atmosfera c’era in casa Mussolini? «Noi giocavamo nel giardino, alle cinque portavano la merenda a Anna Maria e Romano ma non a noi. Mia madre era indignata di questo, ma i ragazzi erano affidati agli agenti di polizia a cui non era stato dato ordine di offrire i panini agli ospiti».
E donna Rachele com’era? «La si vedeva di rado. Romano Mussolini invece, essendo un po’ più grande, non giocava quasi mai con noi bambine». Intanto nella sua casa fin dal ‘43 vengono nascosti molti suoi parenti ebrei provenienti da Trieste, la città dei suoi nonni. «Erano sicuri che Roma sarebbe stata liberata prima. In realtà sia noi che loro eravamo ignari del pericolo che correvamo». Quando scoprì i campi di concentramento? «Dopo il ‘45. Nel momento in cui Roma fu liberata non sapevo ancora cosa succedeva nel mondo e cosa fosse la Resistenza». Come è diventata comunista? «Per via di mio nonno triestino grande amico di Oberdan con cui era scappato. Il mito di Trieste italiana aveva afflitto la mia giovinezza. A maggio del ‘45 ci furono le prime manifestazioni per Trieste italiana perché si era aperto un negoziato sul futuro della città e dell’Istria. Io partecipai a una grande manifestazione in piazza dell’Esedra. In realtà la piazza era piena di operai comunisti che ci picchiarono di santa ragione perché la nostra manifestazione, senza che lo sapessimo, era diretta da un fascista, un certo Penna Bianca. E questi fascisti poi dettero l’assalto alla sede del Pci. Da lì uscì un drappello di comunisti che fecero un comizio: per la prima volta sentii parlare di Trieste. Incuriosita, andai a cercare i comunisti che animavano il circolo culturale del Tasso: tra loro c’erano Citto Maselli, Sandro Curzi, Lietta Tornabuoni. Siccome volevo fare la pittrice, mi affidarono una relazione sul cubismo...».
Ha poi realizzato quel desiderio? «No, perché ho scoperto di non avere qualità. Però in quegli anni la pittura è stata importantissima nella formazione politica e culturale della nostra generazione. Le prime mostre di pittura contemporanea le organizzavano i partiti politici. I pittori litigavano tra loro, ma in fondo erano tutti comunisti».
Fece poi dei viaggi? «Prima scoprii le periferie romane come la Garbatella, un mondo di cui non avevo nemmeno il sospetto. Poi i viaggi organizzati dal Fronte della Gioventù, il primo dei quali mi portò a Parigi. La capitale francese era sinonimo di scoperta del mondo, e per noi il mondo allora era Parigi».
Ha conosciuti gli esistenzialisti? «Sì, alcuni protagonisti della grande stagione di Saint-Germain-des-Prés, da Sartre a Vadim a Juliette Gréco». Poi, se non sbaglio, vi fu il viaggio a Praga. «Avvenne nel ‘47, in occasione del festival della Gioventù che si tenne nella capitale cecoslovacca e che fece seguito all’esplosione di gioia per la fine della guerra: nonostante fosse già iniziata, non si avvertivano ancora i segnali della Guerra Fredda. È lì che feci conoscenza con popoli sconosciuti cinesi, indonesiani, vietnamiti, ma anche di altri Stati europei e con le loro storie che ignoravo del tutto. Al ritorno, avevo appena compiuto diciotto anni, decisi che bisognava impegnarsi per cercare di cambiare il mondo. C’era la speranza e la fiducia di poterlo fare, ma si sapeva che le cose non sarebbero state così facili. Allora mi iscrissi al Partito Comunista, e pochi mesi dopo finii in galera: mi arrestarono quando ci fu l’attentato a Togliatti e io facevo parte di quelli che scesero in piazza. E non è stata l’unica volta: nel ’63 vi rimasi addirittura due mesi».

Ansa.it 13.2.11
Incontro Berlusconi-Pannella a Palazzo Chigi


ROMA Marco Pannella e' stato ricevuto a palazzo Chigi e, a quanto si apprende, ha avuto un lungo colloquio con il premier Silvio Berlusconi. Il leader radicale, e' arrivato nella sede del governo al termine del Consiglio dei ministri ed e' stato ricevuto nello studio del Cavaliere. Presente, a quanto si apprende, solo il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. Il colloquio sarebbe durato circa 45 minuti.

l’Unità 13.2.11
Pannella
di Vincenzo Cerami


C’era una volta Pannella, in carne e ossa. Oggi c’è il suo fantasma che si muove trascinandosi dietro le catene. C’era una volta un uomo, ancor prima di un politico. Oggi si aggira nei corridoi del Palazzo una maschera patetica con il cappello in mano che va a caccia di un teatrino.
Il grande radicale vuole esistere ancora, a tutti i costi, non più per tensioni etiche e politiche, ma per pietoso anelito a non sparire nel nulla, nel dimenticatoio. Le sue memorabili, straordinarie, illuminanti provocazioni che hanno caratterizzato una vita esemplare in nome della libertà, sconfitte purtroppo dalla storia, rimangono istanze indimenticabili.
I patteggiamenti di oggi, da accattone di visibilità, umiliano il senso di un’intera esistenza. Chi gli è vicino si adoperi affinché la sua immagine di guerriero illuminista, voce alta e altra del nostro tempo, non finisca in una pernacchia. Lo convincano a tagliare i capelloni bianchi che lo fanno somigliare più a un barbone che al transfuga d’un tempo. Che ci fa il Pannella che abbiamo tanto amato in mezzo alla carnascialesca compagnia dei corrotti e dei profittatori? Non è lui. È il contrario di sé, non più il contrario di come va il mondo. Viene da dire: è meglio morire giovani che vecchi. Chi si prepara ad accomiatarsi dalla vita trova spesso consolazione convincendosi che ciò che lascia è orrendo, indegno di essere vissuto. Se ne vuole andare senza alcun rammarico. Per questo, inconsapevolmente, contribuisce ad abbruttire il mondo che si prepara ad abbandonare. Ma noi che lo abbiamo stimato per il suo coraggioso, il suo anarchico spirito libertario, ci rifiutiamo di vederlo impastoiato nella melma di questo governo. Pannella, difendi il grande ricordo di te, che meriti fino in fondo.

il Fatto 13.2.11
La questione Pannella
di Furio Colombo


Caro Colombo, quando si scriverà la storia di questi anni disgraziati gli storici non potranno non attribuire merito per la tenacia, la passione, la lucidità con cui hai denunciato i guasti micidiali provocati da Berlusconi e dal berlusconismo al vivere civile e costituzionale italiano. Dovranno però detrarre dai tuoi meriti il colpevole, acritico accreditamento con cui hai indicato ai giovani lettori del “Fatto” quel cattivo ragazzo che è stato ed è Pannella Giacinto detto Marco.
Paolo Cimarelli

HO INDICATO, come non faccio quasi mai, il nome completo dell' autore della lettera (qui un po' accorciata) perché il tema è affrontato in modo molto personale e mostra un intento di pubblico dibattito di cui sono grato e che non posso ignorare. Comincio con il dire che, scrivendo a uno che scrive su questo giornale, Paolo Cimarelli colpisce nel momento più critico del parlare di Pannella, specialmente al modo amichevole ma anche di stima e di sostegno che mi è tipico in queste pagine. Infatti sono fra coloro che non capiscono di che cosa possa Pannella dialogare con Berlusconi in questo momento, che è il peggiore per l'Italia del dopoguerra e il peggiore persino per Berlusconi, che pure è noto per una serie di fatti e misfatti pessimi anche in un Paese come il nostro, non fortunato con la politica. Io non so che cosa mi sentirò di dire quando sapremo di più del dialogo e del perché proprio adesso. So però perché ho parlato di Pannella in queste pagine. È una questione che risale indietro nel tempo. Quando, tanti anni fa, ero giornalista alla Rai, ricordo di avere spesso pensato: se dirigerò qualcosa qui dentro farò subito parlare, con tutti gli altri, anche i Radicali, anche Pannella. Non lo conoscevo, allora , ma non trovavo alcun senso o spiegazione nel bando assoluto che ha sempre escluso i Radicali da tutto. Prima che grave, mi pareva ridicolo. Non mi è mai accaduto di dover decidere qualcosa in quella azienda, ma mi sono sempre ricordato di quella strana e assoluta proibizione e ciò, fatalmente, ha moltiplicato la mia attenzione per questa strana banda di esclusi. Mi sono accorto che intere parti di questioni pubbliche e sociali, come i diritti umani e civili, le prigioni, le malattie disabilitanti, l'esclusione dei senza potere, la persecuzione di minoranze nel mondo, erano affrontate con ostinata ripetitività solo dai radicali. Perché avrei dovuto non dirlo, non scriverlo, non dare una mano quando possibile? Qualcuno, nella politica italiana, si occupa davvero di problemi del mondo come ceceni e islamici cinesi perseguitati? Se sì, ne parlo volentieri, subito. Qualcuno si è posto il problema, vero, tecnico, diplomatico, del come fermare Blair e fermare la guerra in Iraq attraverso la rimozione di Saddam Hussein, senza morte e distruzione? Se sì, avrei aggiunto il mio impegno. Ma, con tutti i suoi tremendi difetti, c'era solo Pannella. E anche accanto a Luca Coscioni, a Piergiorgio Welby, agli abbandonati nelle carceri . Ho visitato il Centro di Identificazione e di Espulsione di Ponte Galeria, a Roma, insieme a Staderini, giovane segretario del Partito Radicale e su iniziativa di Rita Bernardini, che lavora con me alla Camera. E insieme, i Radicali e alcuni deputati Pd ,siamo stati fra i pochi a batterci in tutti i modi per impedire il trattato politico, economico e militare con la Libia, cioè con un paese che nega tutti i diritti di tutti e ha il compito di affondare in mare le imbarcazioni di migranti che sperano soccorso in Italia. Ora che Marco Pannella dialoga con Berlusconi gli dico che proprio non capisco e che mi pare una iniziativa sbagliata. Ma la vita non è una lavagna da cui si cancellano di volta in volta le righe “sbagliate”. Il vissuto resta tutto. E nel caso che stiamo discutendo non è così male.

Corriere della Sera 13.2.11
Cambiano i disturbi si adeguano le cure
Giù dal lettino
La «società dei narcisi» teme l’analisi classica
Oggi soltanto la metà delle ore vengono dedicate alle terapie tradizionali. OLtre il 50 per cento dei pazienti presenta nuove patologie (problemi identitari, dipendenze, perversioni, difficoltà a reggere lo stress) che sono più gravi e diverse da quelle affrontate dalla pratica freudiana
di Dino Messina


La psicoanalisi è in crisi? Domanda banale per una teoria e una terapia che si aggiorna in continuazione sin dal suo nascere. No, la domanda che oggi gli psicoanalisti si pongono, in particolare quanti si richiamano direttamente al padre fondatore Sigmund Freud, è la seguente: come mai, dopo il successo della terapia analitica in Usa negli anni Sessanta e in Italia negli anni Settanta e Ottanta, un numero sempre minore di persone è disposto a stendersi sul lettino? Non ci riferiamo alla crescente richiesta di aiuto e all’offerta di psicoterapie che ormai formano una vera e propria giungla. Simona Argentieri, membro dell’AIPsi, psichiatra e psicoanalista a Roma, una delle studiose più attente a leggere i cambiamenti sociali con gli strumenti dell’analisi (ricordiamo i saggi Ambiguità e A qualcuno piace uguale, editi da Einaudi) ha censito almeno 350 scuole di psicoterapia in Italia: una ricchezza di offerta che si confronta con un contesto culturalmente povero, se una persona di media scolarità oggi chiama analisi qualsiasi terapia della parola. Un impoverimento, ha notato Argentieri a conclusione della voce «Psicoanalisi» scritta per l’enciclopedia Treccani, che si manifesta proprio quando nei grandi magazzini vengono messi in vendita lettini sul modello di Le Corbusier. All’inflazione commerciale di lettini corrisponde una diminuzione di terapie sul lettino. A dirlo non sono i nemici della psicoanalisi ma gli stessi analisti freudiani, che proprio mentre confermano la validità delle loro terapie, fanno una ammissione. «Oggi registriamo un dato nuovo, ossia che il trattamento classico a 3-4 sedute alla settimana sul lettino è diventato quasi una rarità e che al suo posto si fa la terapia psicoanalitica» dice Guido Medri, medico e psicoanalista, direttore scientifico della Scuola di Psicoterapia psicoanalitica di Milano. Tanta franchezza è un punto di partenza per un’inchiesta tra le più difficili, perché ha a che fare con quella componente fondamentale ma invisibile della nostra vita che è la psiche, alla ricerca delle spiegazioni cliniche e culturali alla base di un cambiamento in atto. Qualche dato di inquadramento lo offrono le statistiche che parlano per l’Italia di settantamila psicologi, un terzo di tutti quelli esistenti in Europa, e di 37mila psicoterapeuti iscritti all’albo, un terzo dei quali laureati in Medicina. Ma per sapere qualche dato più specifico ci siamo rivolti alla Spi, Società di psicoanalisi italiana che, con la AIPsi, è una delle due società italiane affiliate all’Ipa (International Psychoanalytical Association) fondata da Sigmund Freud. In particolare chiediamo lumi al dottor Leonardo Resele, psichiatra e psicoanalista a Milano, che ha scritto un articolo per la «Rivista di Psicoanalisi» sui risultati di una ricerca commissionata nel 2004 dalla Spi a Gfk Eurisko e da lui coordinata. L’indagine condotta tra i membri della Spi, che oggi sono circa novecento oltre ai circa trecento candidati in fase di formazione, ci dice che gli psicoanalisti della società più ortodossa e in linea con i canoni freudiani su 43 ore di lavoro ne dedicano 21-22 all’analisi tradizionale con l’uso del lettino. Il resto a consulenze e psicoterapie. Se si dà un occhio al tipo di patologie affrontate ci si rende conto del perché diminuisce il lettino e cresce la psicoterapia vis à vis. Ecco la divisione dei pazienti per categoria patologica: il 25 per cento soffre di disturbi della personalità, il 18 presenta disturbi dell’umore, cioè depressione, il 10 disturbi del comportamento. Riassumendo, osserva Resele, «oltre il 50 per cento dei nostri pazienti non è affetto da una classica sindrome nevrotica, ma da patologie più gravi» . L’aumento del numero di casi gravi è connesso con il minor uso del lettino. «Il nevrotico classico che deve superare dei blocchi, delle fobie, è portato a interrogare se stesso, ad abbandonarsi sul lettino, e a collaborare con l’analista. Per un paziente alle prese con problemi più gravi stendersi sul lettino può significare perdita del controllo, aumento dell’angoscia. Quindi può essere preferibile cominciare la terapia con colloqui senza l’ausilio del lettino» , conclude Resele. Se le tecniche analitiche si aggiornano, non vi è dubbio che le forme patologiche cambino con il mutare della società. «L’analisi — spiega Medri — è la terapia elettiva per le nevrosi nelle sue varie espressioni: fobie, ossessioni, ansia, depressione, difficoltà relazionali di ogni genere, impotenza, frigidità, psicosomatosi... Ma la patologia di oggi si presenta in larga misura sotto altre forme, decisamente più gravi. Si tratta di disturbi identitari, di grandiosità narcisistica, di scarso controllo degli impulsi, di difficoltà nel reggere la frustrazione e venire a patti con i propri limiti, di perversioni, di dipendenza da sostanze, di disturbi alimentari. Inoltre, mentre una volta l’analisi era l’unica terapia disponibile ora ve ne sono molte altre che per giunta promettono la "guarigione"in tempi molto più rapidi e quindi a prezzi più convenienti, la terapia cognitivo comportamentale, gestaltica, sistemica e tante altre, per non parlare della terapia farmacologica» . L’osservazione clinica va di pari passo con le spiegazioni culturali: «La psicoanalisi — dice Medri — ha perso la sua carica eversiva che le conferiva grande fascino nei confronti dei modelli sessuofobici del passato. Anzi, funziona come un freno verso una sessualità oggi troppo trasgressiva. La nostra poi è diventata la società del narcisismo, basato sul successo e sul consenso. L’analisi richiede invece la messa in mora del riscontro sul piano sociale, pone il progetto per la conoscenza di se stessi al centro dell’attenzione, proprio quel che il narcisista non sa fare. Per non parlare dei modelli oggi vincenti rispetto a quelli analitici: l’azione al posto della riflessione, l’informazione al posto dell’approfondimento, il futuro al posto del passato, il tutto e subito al posto dell’impegno nel tempo. Infine, il mondo oggi è costruito dalla tecnologia. Il terreno della psicoanalisi è quello del sogno, delle emozioni, delle fantasie; che cosa ci sta a fare vicino a un computer?» . Da una considerazione storico-culturale parte anche Stefano Bolognini, presidente della Spi. Divulgatore di temi analitici nei libri Come vento, come onda e Lo zen e l’arte di non sapere cosa dire (Bollati Boringhieri), Bolognini, medico e psicoanalista a Bologna, parte da una considerazione professionale autobiografica: «Nel 1980, quando ho cominciato a esercitare la professione, molte richieste di analisi avevano una motivazione culturale. Per fare un esempio, tanti professori universitari si facevano vanto di sdraiarsi sul lettino. Trent’anni dopo, il clima è radicalmente cambiato: ormai non si viene più dall’analista per motivi culturali ma ci si arriva dopo aver tentato altre strade, magari quella farmacologica, per curare il proprio disagio. L’aspetto economico è influente fino a un certo punto. Ho constatato infatti che i veri ricchi non vanno in analisi: preferiscono lenire il proprio malessere con un viaggio o l’acquisto di un bene di lusso. Così si crea il paradosso che chi vuole e ne ha bisogno non può andare in analisi, chi potrebbe non vuole» . Una volta sfatato il pregiudizio della «terapia per ricchi» (il costo di un trattamento che dura 4-5 anni equivale a quello di un’auto di grossa cilindrata), Bolognini tende a far fuori un altro luogo comune, in base al quale «più sedute fai più sei grave» . Casomai, dice Bolognini, «è vero il contrario. Chi è in grado di stare 3-4 volte alla settimana sul lettino è già in condizione di compiere un percorso di guarigione. Chi non tollera il lettino ha maggiori resistenze» . Analisi o psicoterapia, comunque nessun analista serio ti dirà mai che guarirai: «Potrà fare solo delle ipotesi una volta stabilito che sei adatto all’analisi» . Un altro fattore emerso negli ultimi trent’anni, secondo Bolognini, è «la diminuita capacità individuale di tollerare la dipendenza» . Quando cominci ad accettare la dipendenza dal rapporto terapeutico, sei già sulla via della guarigione. «Ma la tendenza narcisistica del nostro tempo ci rende più refrattari ai legami. Tutto nasce dalla famiglia e dalle relazioni dell’infanzia, con genitori poco presenti e bambini che presto vengono messi in condizione di organizzarsi in assenza degli oggetti affettivi di base» . Così, al posto delle nevrosi classiche nate dal contrasto tra pulsioni e super io insorgono altri tipi di patologia. «Una volta — spiega Bolognini — il tema era di liberarsi del senso di colpa, dare spazio alle pulsioni contro un super-io troppo ingombrante, oggi il problema è costituito dalle relazioni mordi e fuggi e magari si invoca un super-io che opprime ma può anche simboleggiare protezione, sicurezza» . Bolognini butta lì una battuta: «Ha notato che molti non usano più l’ombrello? È una ribellione narcisistica verso il super-io protettivo» . Scherzi a parte, non tutti quelli che hanno bisogno di cure possono reggere un’analisi. «Alcuni— dice Bolognini — necessitano solo di una psicoterapia: è il caso di soggetti che hanno avuto un lutto, una separazione, un insuccesso professionale. Allora si interviene con una psicoterapia di sostegno. In altri casi il paziente ha una diffidenza talmente forte verso il lettino che si comincia con la psicoterapia. Naturalmente l’obiettivo finale è quello dell’analisi classica ma si procede per gradi di avvicinamento, come con gli animali selvatici che a poco a poco superano le paure sino a cibarsi dalla mano dell’uomo» . Un viaggio attraverso gli eredi italiani di Freud non può non prevedere una sosta a Pavia dove lavora lo psicoanalista italiano più conosciuto all’estero per gli studi sul concetto di «campo» a partire da Wilfred Bion e, assieme a Thomas Ogden, di «rêverie» , cioè la capacità di sognare che abbiamo anche da svegli e che condiziona sia l’analista sia l’analizzando. «Tutte balle — taglia corto Antonino Ferro, che ha appena pubblicato da Raffaello Cortina il libro Tormenti di anime —, che uno va dall’analista per sete di conoscenza. Uno ci va perché vuole star meglio. Come dice Ogden, compito della psicoanalisi è aiutare il paziente a fare quei sogni che non è stato capace di fare e che si sono trasformati in sintomi» . Sì, è vero, ammette Ferro, l’uso del lettino in alcuni casi non è scontato all’inizio del trattamento, ma ciò non vuol dire che non si faccia psicoanalisi. «Personalmente — dice Ferro — non faccio psicoterapie e ho detto soltanto due "no". La verità è che i criteri di analizzabilità si sono molto allargati, oggi si accettano pazienti borderline che prima venivano rifiutati, e a volte la terapia non può immediatamente cominciare dal lettino, che non è un feticcio. Prendendo in prestito un’espressione usata con i bambini disgrafici, "nuotare sino alla riga", io dico "nuotare sino al lettino", nel senso che la terapia tradizionale può essere in alcuni casi un punto di arrivo» . Antonino Ferro è anche uno dei maggiori esperti di psicoanalisi dell’infanzia. «Con i bambini— dice— mi sento come Fra’ Cristoforo dei Promessi sposi: "Omnia munda mundis", da un bambino non puoi pretendere il rispetto del setting, certe regole saltano, bisogna guardare la sostanza» . Circolarmente il viaggio si conclude dove l’abbiamo iniziato, con Simona Argentieri: «Da anni i professionisti seri fanno sia analisi sia psicoterapie. La mia idea è che fare una buona psicoterapia sia più difficile perché occorre saper considerare in breve tempo, qui e ora, fattori di realtà contingenti» . È vero, ammette Argentieri, «il nostro tempo è caratterizzato da un’ansia dell’urgenza e dell’efficientismo che spinge verso le terapie brevi e allontana dall’analisi del profondo. Con il risultato che in alcuni casi assistiamo a psicoterapie brevi sequenziali a vita» . Ma va anche denunciata «la collusione dei terapeuti che vanno incontro alle difese dei pazienti anche quando la richiesta è di risolvere normali problemi della vita: lutti, separazioni, insuccessi. Spendiamo tante energie per diventare badanti dell’anima» . A questa banalizzazione della cura corrisponde dall’altro lato «un minor uso della psicoanalisi per le patologie gravi» . La dottoressa Argentieri è convinta che «la psicoanalisi sia uno strumento di conoscenza e di cura che si deve confrontare con le patologie gravi, non semplicemente con i dolori dell’esistenza. Era proprio Freud a dire che l’analisi non può far altro che trasformare la sofferenza nevrotica in normale infelicità» . È per questo che Simona Argentieri è favorevole a un’utile collaborazione tra la farmacologia e la terapia della parola proprio nelle malattie più gravi: «Sono preoccupata — conclude— per il divario che si sta creando tra psichiatria e psicoanalisi. A me sembra che la formazione medica possa dare un grande apporto all’analisi. È una matrice che non va persa, a dispetto dell’aumento esponenziale del numero di psicologi, che sembrano destinati a diventare maggioritari nelle società di psicoanalisi, e della crescente galassia di scuole psicoterapeutiche» .

Corriere della Sera 13.2.11
«Genitori assenti, traumi infantili»


«Non ho mai visto un’isterica» dice con la consapevolezza di svelare un dato in apparenza paradossale Bruna Aniasi, psicoterapeuta milanese che si è formata alla scuola di Giovanni Carlo Zapparoli. Dopo dieci anni nei servizi psichiatrici territoriali, oggi Aniasi segue i pazienti in uno studio privato ed è convinta che le forme patologiche «cambiano con il mutare della società» . «Ai tempi di Freud una società sessuofobica era alla base dei conflitti tra desiderio e censure del super-io, che si manifestavano con isterie e altre forme di nevrosi. Oggi alla famiglia autoritaria si è sostituita la famiglia assente, che può produrre deficit di mentalizzazione, di capacità riflessiva» . I figli delle famiglie assenti, o «normotiche» , cioè apparentemente normali, crescono con un deficit di attenzione al mentale e maneggiamento delle emozioni. Il bambino ha mal di pancia? La madre lo distrae con un giochino. Il bambino è triste perché è morta la nonna? Il problema viene eluso andando al cinema o al centro commerciale. «La trascuratezza, il mancato riconoscimento, il non essere visti è paragonabile a un grave trauma — spiega Bruna Aniasi — quindi il nostro compito principale non è tanto interpretare quanto ricostruire un nuovo ambito relazionale per il paziente che funga da contenitore facilitando una presa di contatto con le emozioni e la loro metabolizzazione» .

Corriere della Sera 13.2.11
Salute mentale: combattere ignoranza e pregiudizio per un intervento più efficace
Intervista al Professor Mario MAj sui temi del 15° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia che si apre a Roma

qui
http://www.scribd.com/doc/48728868

Corriere della Sera Salute 13.2.11
Psicologia Gli amici a «quattrozampe» sono un vero supporto per diverse patologie Gli amici a «quattrozampe» sono un vero supporto per diverse patologie L’ospedale dove si cura con l’aiuto degli asini
di Margherita Fronte


La tenuta dell'Ospedale Fatebenefratelli di Genzano, in provincia di Roma, ospita cinque asinelle. C'è Stella, la prima a giungere qui nel 2004, ormai anziana e cieca. Poi ci sono Bruschetta e Giuditta, madre, quest'ultima, di Mirella, nata nel 2005. Infine, c'è Rosita, arrivata nel centro di cura dei Castelli Romani dopo una vita di maltrattamenti. Intuendo la sua sofferenza, Carlo, un ospite dell'istituto, ha detto agli altri che «bisognava farsi carico della sua paura» , e per molto tempo, insistentemente, ha cercato di avvicinarla. A gennaio, finalmente è riuscito ad accarezzarle le orecchie. Carlo è un uomo sulla sessantina, ricoverato a Genzano da circa quattro anni perché a casa sua proprio non può vivere. Ha la mania compulsiva a raccattare tutto ciò che trova, per strada o nella spazzatura: dalle scarpe vecchie ai cestelli della lavatrice, porta con sé ogni cosa e non butta via mai nulla. Nelle sue tasche i medici dell’ospedale trovano di tutto. Ma il suo disturbo cessa quando sta con le asinelle. Per Carlo toccare le orecchie di Rosita è stata una vittoria e dopo aver raggiunto l'obiettivo ha subito iniziato a spiegare a tutti come fare per avvicinarla. G li altri pazienti, però, non osano ancora imitarlo e preferiscono piuttosto accarezzare e accudire le altre asinelle, nello spazio riservato al "percorso terapeutico con gli asini", ricavato fra i pini e gli ulivi del Parco della Torretta, come i genzanesi ancora chiamano l'ospedale, che un tempo era un manicomio. Le cinque asinelle non sono le uniche ospiti non umane del Fatebenefratelli. C'è anche un pony. E non lontano dalle stalle c'è un laghetto con le papere e ci sono conigli, cui i pazienti danno da mangiare. Su Stella e le altre, però, si concentra il progetto di pet therapy fortemente voluto da Patrizia Reinger Cantiello, educatrice professionale, che ne è la responsabile. «Avevo seguito un corso sull’impiego degli asini nella terapia e quando ho incontrato questi animali ho subito capito che potevano essere uno strumento prezioso per la mia attività con i pazienti, centrata sulla relazione e la comunicazione— spiega l’esperta in riabilitazione psichiatrica —. Per questi malati, avvicinare le asinelle equivale a confrontarsi con lo "sconosciuto", relazionarsi con lui. Questo aiuta i malati. innanzitutto a guadagnare fiducia» . Naturalmente socievoli, questi animali inducono con la loro stessa presenza una disponibilità che rende più facile anche l'interazione fra gli operatori e i malati. «Così, persone che sembrano perfino incapaci di capire ciò che si dice loro dimostrano di poter instaurare una relazione costruttiva con noi» racconta Patrizia Cantiello, che da qualche tempo ha iniziato a usare le sue asinelle con bambini che hanno deficit cognitivi. «Anche in questa esperienza stiamo ottenendo buoni risultati — riferisce — e vorremmo ampliare l’attività» . «La pet therapy è particolarmente efficace con i bambini, perché favorisce lo sviluppo della socialità e dell'emotività — conferma Francesca Cirulli, ricercatrice dell'Istituto superiore di sanità—. Ed è utile anche con gli anziani, per i quali l'incontro con gli animali è l'occasione per uscire da un isolamento che, se non interrotto, può favorire il declino cognitivo» . A ll’Istituto superiore di sanità, infatti, come riferisce la dottoressa Cirulli, si sta lavorando sulla pet therapy come sostegno a queste categorie di persone, per stilare linee guida rivolte agli operatori, perché, sottolinea: «In Italia, infatti, ci sono molte iniziative di questo tipo, ma usano metodi disomogenei» . Le linee guida specificheranno come impostare i percorsi terapeutici, ma anche quali criteri seguire per scegliere e addestrare gli animali. «La scelta deve essere tarata sui singoli casi; un documento del Comitato nazionale di bioetica stabilisce che vanno preferite le specie domestiche, perché già selezionate per la loro docilità e facilità al rapporto con l'uomo — precisa Francesca Cirulli —. L'addestramento, inoltre, non può prescindere dal benessere dell'animale, che deve però abituarsi a rispondere ai comandi e anche a "sopportare"gesti a volte un po'impulsivi, che possono verificarsi, specie se si lavora con i bambini. Per gli animali può essere faticoso e per questo le sedute terapeutiche di solito non durano più di 30-45 minuti» . A Genzano, gli incontri fra i pazienti e le asinelle si svolgono al mattino. «Coinvolgono una ventina di malati, anche se non sempre tutti partecipano— racconta Patrizia Cantiello —. Nell'ospedale però sono ricoverate anche persone che, per problemi di mobilità, non possono arrivare fisicamente fino alle stalle. Allora, andiamo noi da loro: portiamo gli animali nel portico dell'ospedale. E, così, anche pazienti che ci sembravano inadatti alle attività con gli animali si sono incuriositi e hanno iniziato spontaneamente a interagire con le asinelle» .

La Stampa 13.2.11
Anche i pellerossa hanno i loro Picasso
Rivoluzione al museo di Denver: con l’identificazione degli autori l’arte dei nativi americani per la prima volta esce dall’anonimato
di Maria Giulia Minetti


Se c’è un’idea sconfitta nella nostra cultura occidentale, è quella romantica della creazione «popolare», l’opera d’arte come espressione del Volk che l’ha prodotta, l’individualità dell’artista disciolta in quella della nazione, come si credeva dimostrassero gli anonimi manufatti medievali, le statue e le chiese, gli affreschi e i castelli. Sconfitta dagli studi, dall’emergere delle personalità artistiche nonostante l’assenza di firme e biografie, l’idea però non è morta. Piuttosto, è trasmigrata.
Per razzismo, per esigenze catalogatorie, per difficoltà o vera impossibilità di indagine, all’identificazione degli artisti «etnici» s’è rinunciato fin da subito. Erano del resto, le loro opere, frutto per lo più di razzie, e esposte per interesse antropologico, «segni» culturali, elementi descrittivi, non autonomi lavori individuali.
E benché chiunque conosca appena un poco i musei d’arte «primitiva» sappia benissimo che anche lì, come in ogni museo, ci sono capolavori e lavori minori, oggetti di sbalorditiva originalità creativa e oggetti di semplice osservanza tradizionale, tuttavia ci si accontenta, per identificare gli uni e gli altri, dell’etichetta che indica l’etnia di appartenenza, a volte solo l’area geografica d’origine.
Ma oggi dall’America dallo Stato del Colorado, per la precisione giunge una notizia davvero fuori dell’ordinario. Il Denver Art Museum ha appena riaperto le gallerie dedicate all’arte dei nativi americani (American Indian Art Galleries) dopo una chiusura di sette mesi, e, scrive Judith H. Dobrzynski sul New York Times , «il grande cambiamento non cercatelo nella forma dei nuovi espositori o nell’efficacia della nuova illuminazione. Il grande cambiamento è stato fatto dove meno vi aspettereste di trovarlo: nei cartellini sui muri. Per la prima volta molti dei lavori esposti sono attribuiti a singoli artisti invece che semplicemente alle loro tribù. È una vera rivoluzione...».
Autrice della rivoluzione, Nancy Blomberg, curatrice del settore d’arte nativo-americana. Dai diciottomila pezzi della collezione museale (tra le più ricche al mondo), Blomberg ha scelto circa 700 opere: «Volevo far sapere che anche in questo campo ci sono fior di artisti, con caratteristiche ben precise». Il lavoro di identificazione è stato duro, un metodo di confronti e raffronti minuziosi e faticosi, più l’inevitabile dose di fortuna, a volte folgorante, come ha raccontato ancora eccitata per una recente scoperta. È il giugno scorso, e la signora sta sfogliando un catalogo della casa d’aste Bonhams & Butterfields, quando s’imbatte in due pitture a inchiostro e acquerello. Una raffigura la Danza del Sole della tribù degli Ute, l’altra la Danza dell’Orso della medesima tribù. La mano che ha eseguito le due opere nota immediatamente Blomberg è senz’altro la stessa di un’altra presente nella collezione del museo fin dagli anni Trenta, che però non reca indicazioni di sorta. Lei stessa ha mostrato il dipinto a varie tribù del Colorado, ma invano: nulla è emerso. C’è dell’altro: non è la prima volta che opere del misterioso autore che ha un tratto riconoscibilissimo le compaiono davanti agli occhi. Le ha viste nelle collezioni di altri musei, compreso il Peabody di Harvard.
«Nessuno aveva idea da dove venissero ha detto all’inviata del New York Times -. Ma il catalogo di Bonhams sì». Il catalogo non solo indicava che nel lato in alto a destra i due dipinti erano firmati con un nome, Fenno, ma citava l’articolo di un giornale dello Utah del 1911 (fornito insieme ai quadri da chi li aveva venduti alla casa d’aste), dove era narrata la brutta fine di Louis Fenno, «il più grande artista Ute», steso a revolverate da un tale W. T. Muse nel 1903 in circostanze mai chiarite. Di Louis Fenno oggi si potrebbe cominciare a tracciare un vero e proprio ritratto, ma le comunicazioni fra musei non sono facili come potrebbe sembrare. Anche se il tentativo di identificare gli artisti nativo-americani sta diffondendosi in tutti gli Stati Uniti per adesso sporadicamente, ma Nancy Blomberg fa già scuola manca un efficace coordinamento. Sicché opere di un artista «firmate» in un museo, continuano a essere anonime in un altro. Ormai, però, la macchina dell’identificazione si è messa in moto. I futuri studenti di storia dell’arte avranno molti nomi nuovi da imparare.

Corriere della Sera 13.2.11
La cultura in rovina e gli sprechi della casta
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella


«N on ci sta ’ o tempio greco antico? E noi lo facciamo nuovo nuovo!» . La luminosa idea folgora il consiglio comunale di Albanella, un comune salernitano nell’entroterra di Paestum il 28 novembre 2005. Detto fatto, votano una delibera ufficiale. Certo, in contrada San Nicola c’è un tempio vero, dedicato a Demetra, dea delle messi, del IV secolo a. C., mai portato alla luce nonostante gli archeologi chiedano da tempo immemorabile un po’ di fondi per gli scavi. Ma dite voi: perché tenersi dei vecchi ruderi marci se si può fare una bella cosa antica su misura? Varano così, per sfruttare un po’ di finanziamenti Fas (Fondo aree sottoutilizzate), il progetto di «un parco urbano a tema denominato "Megale Hellas"» che, ricorda il giornale «Positano News» , «prevede una spesa di 1.444.444,44 euro e dovrebbe inserirsi all’interno di un circuito turistico che consenta di "coptare"i turisti che annualmente si recano in visita al Museo archeologico della città di Paestum. Il progetto prevede la realizzazione di un anfiteatro sulla cui sommità sorgerebbe una riproduzione di un tempio realizzato in calcestruzzo armato rivestito in travertino» . (...) Macché: nonostante gli appoggi in consiglio regionale, il grande sogno del tempio dorico in calcestruzzo viene travolto dalle polemiche, dagli strilli di indignazione degli archeologi e dalle avvisaglie di un’inchiesta della Corte dei conti. Peccato. Perché sarebbe stato la metafora perfetta di come la cattiva politica, mentre dieci, cento, mille templi di Demetra sono abbandonati all’incuria e ai tombaroli, se ne sta chiusa nel tempio dei propri privilegi. Quanto costano ad esempio i voliblu dei ministri dei sottosegretari e di chi ricopre alte cariche istituzionali? A Londra vi basterebbe andare sul sito web di Downing Street: ci sono uno per uno tutti i viaggi all’estero fatti dai membri del governo che abbiano comportato per l’erario una spesa superiore alle 500 sterline. Dal 1997 a oggi. Vi si spiega se il ministro ha viaggiato in treno, con volo di linea, con un aereo del 32 ° squadrone della Raf o altro apparecchio a disposizione. Perché viaggiava. Chi c’era a bordo. (...) Qui no. Zero su Internet, zero sui documenti ufficiali, zero sui bilanci a disposizione dei cittadini. «Fate una richiesta ufficiale» . L’abbiamo fatta. Tempestando di lettere la presidenza del Consiglio. Cocciuti. Tutti i giorni. Lunedì, martedì, mercoledì... Per settimane.(...) Un muro inespugnabile. Finché, miracolo miracoloso, dopo due mesi, a gennaio 2011, è arrivata una risposta. Da incorniciare. Vi «si fa presente che le informazioni relative ai costi sostenuti dalla Cai» , cioè quelle più importanti perché riguardano i servizi segreti, «sono coperte da vincolo di riservatezza, che involge l’intera attività della compagnia area» . E che «per quanto concerne, invece, i dati ostensibili, si è in attesa delle risultanze che saranno fornite dall’Aeronautica militare, cui è stata inoltrata richiesta in tal senso» . Quindi? Amen. (...) Eppure, perfino le scarne informazioni concesse aiutano a capire. (...) Dall’insediamento del Cavaliere l’ 8 maggio 2008 al 31 dicembre gli aereiblu volano 3.294 ore: 411 al mese. Nel 2009, 5.931 ore: 494 al mese. Nei primi dieci mesi del 2010, 5.076 ore: 507 al mese. Confrontiamo su dati omogenei il 2005 dei record e il 2009? Nel 2005 c’erano al governo 98 persone, nel 2009 mediamente 61. Conclusione: nell’anno del primato costato complessivamente 65 milioni di euro, gli aerei del 31 ° stormo volarono 78 ore e 50 minuti l’anno per ogni membro del governo, nel 2009 per 97 ore e 15 minuti. Un aumento del 23,3%. Alla faccia di tutti i bla bla sui costi della politica e le promesse di tagli. (...) E i voliblu coi «servizi» ? Segreti. I costi totali? Segretissimi. (...) È questa sproporzione tra il Palazzo e tutto il resto che stordisce. (...) Ricordate la storia dello psichiatra Luigi Cancrini? Eletto deputato coi Comunisti italiani, sosteneva che gli spettasse oltre allo stipendio della Camera anche il vitalizio della Regione Lazio maturato dopo esser stato consigliere regionale per tre legislature. Era così sicuro di averne diritto da fare ricorso al tribunale civile di Roma. Scoppiò L’Italia, il Paese con più siti Unesco «patrimonio dell’umanità» , sta distruggendo la sua unica ricchezza: l’arte e il paesaggio. Al danno culturale va sommato quello economico. Eravamo i primi al mondo nel turismo, siamo scivolati al 28 ° posto. La politica? Troppo concentrata sui suoi privilegi per potersene occupare. Un quadro desolante raccontato in «Vandali» (Rizzoli, 18 e), l’ultimo libro degli inviati del «Corriere» Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Pubblichiamo qui uno stralcio dell’ultimo capitolo. fare il presidente regionale) dove nel frattempo è rientrato. Anno dopo anno, gonfia gonfia, la bolla dei vitalizi è diventata un problema abnorme: l’ente presieduto oggi da Renata Polverini ha speso nel 2010, per 179 vitalizi e 38 trattamenti di reversibilità, qualcosa come 16 milioni di euro. (...) Ancora più sconcertante è lo squilibrio tra i contributi che entrano dai consiglieri regionali in carica e quelli che escono per garantire una serena vecchiaia (vecchiaia si fa per dire, visti gli arzilli cinquantenni...) ai pensionati. Entrate: meno di 1,7 milioni. Uscite: 16. Quasi dieci volte di più. (...) Eppure alla Camera va perfino peggio: per ogni euro che entra ne escono 12. E al Senato peggio ancora che alla Camera: uno entra, 13 escono. Una vera catastrofe finanziaria: per i vitalizi degli ex onorevoli nel solo 2010 abbiamo speso 219 milioni. Molto più di quanto incassano in due anni tutti i nostri musei e siti archeologici messi insieme. (...) Non hanno dubbi, i nostri, sulla sacralità intoccabile dei loro privilegi. Lo conferma ciò che successe quando, nel dicembre del 2010, i deputati dell’Api Bruno Tabacci e Marco Calgaro un putiferio. E prese le distanze anche il governatore Piero Marrazzo: «I costi della politica sono già così alti che se riuscissimo a ridurne qualcuno faremmo cosa buona e giusta» . Sagge parole. In seguito allo scandalo che lo costrinse a dimettersi è arrivato però anche il suo turno. E allora non c’è stato più «costo della politica» che tenesse. Anzi, gli è sembrata cosa buona e giusta, archiviata l’avventura politica dopo appena quattro anni e mezzo da governatore e incamerata la liquidazione (31.103 euro per un solo mandato quinquennale) passare all’incasso anche per il vitalizio. Possibile? E da quando? Alla domanda di Giuseppe Rossodivita, il capogruppo radicale in Regione deciso a vederci chiaro, è stato risposto: dal 12 maggio 2010. Quando l’ex presidente, nato il 29 luglio 1958, aveva 51 anni. Quattordici in meno di quelli richiesti per andare in pensione agli italiani. (...) Non basta: grazie al fatto che quella prebenda mensile è un vitalizio e non una pensione, distinzione che fa salire il sangue alla testa ai lavoratori normali quale che sia il loro reddito, Marrazzo potrà liberamente cumulare i soldi con lo stipendio di giornalista della Rai (discreto se è vero che giurava di rimetterci, a proposero di reinserire nella riforma dell’Università un emendamento per dirottare 20 milioni l’anno dei rimborsi elettorali ai ricercatori, emendamento fatto passare miracolosamente al Senato da Francesco Rutelli in un momento di distrazione collettiva, ma prontamente abolito alla Camera. Venti milioni? Un quindicesimo del rimborso annuale? Mai! E la proposta, nonostante fossero giorni in cui destra e sinistra non si sarebbero accordate manco sull’uso o meno dell’ombrello in caso di diluvio, venne stracciata con il concorso di 45 deputati dell’opposizione. In linea con la tesi dello storico «tesoriere» della sinistra Ugo Sposetti. Che aveva liquidato l’idea come «indecente» . (...) Nessuno stupore. Su quello scoglio si era già schiantato pochi mesi prima Giulio Tremonti. Il quale, proponendo un taglio dei rimborsi ai partiti del 50%si era via via dovuto rassegnare a tagliare il 30%. Poi il 20%. Poi il 10%... E non subito. Ma a partire dal 2013 (future «politiche» ) oppure dal 2014 (future «europee» ) o addirittura dal 2015, prima scadenza delle «regionali» . Indecoroso. Tanto più che la stessa manovra contemporaneamente prevedeva di tagliare del 5%o del 10%gli stipendi pubblici più alti a partire da subito: dal 1 ° gennaio 2011. Un momento: non tutti gli stipendi pubblici. Non quelli, ad esempio, dei collaboratori più stretti del governo a Palazzo Chigi. Lo dice lo stesso bilancio ufficiale. Spiegando che il taglio tremontiano valido per tutti gli altri italiani «ha sollevato alcuni dubbi di natura interpretativa con specifico riferimento ai destinatari» . Quindi? Quindi, in attesa di capire bene, tagli congelati. Anzi, il capitolo di spesa per i compensi del segretario generale e i suoi facenti funzioni dovrebbe crescere nel 2011 da 430.000 a 520.000 euro. Come pure la voce che riguarda lo stipendio di Berlusconi, dei ministri senza portafoglio e dei sottosegretari alla presidenza: da 1,6 a 2,1 milioni. Cinquecentomila euro in più. Un aumento venti volte superiore all’inflazione. E non è l’unica impennata. Nel preventivo 2009 le spese di rappresentanza erano fissate in 200.000 euro. Sono quadruplicate: 800.000. Quelle per i convegni, i congressi, le visite ufficiali del premier erano stabilite in 900.000 euro: hanno passato di slancio i 6 milioni, più quasi 4 non previsti per «spese relative a eventi istituzionali anche di rilevanza internazionale» . Totale: una decina. Oltre il decuplo. Come di dieci volte sono aumentate le spese legali e le parcelle degli avvocati: un milione nelle previsioni, 10.651.000 euro nel consuntivo. Com’è possibile sbagliarsi di dieci volte? (...) Ed è giusto che i palazzi del Palazzo, a dispetto di tutte le promesse di sobrietà, continuino ad aumentare? Erano 15, nel 2007, gli edifici occupati dalla presidenza del Consiglio e dai suoi «allegati» . E sembravano già un’esagerazione. Macché: nel 2009 il patrimonio immobiliare si è arricchito di un nuovo stabile in via dei Laterani 36, un altro preso in affitto in via della Vite e un terzo ancora in via dell’Umiltà. Operazioni che hanno fatto lievitare nel 2011 da 10 a 13,7 milioni l’esborso per affitti. Un salasso aggravato da altri 8 milioni abbondanti spesi per «la ristrutturazione del padiglione centrale» di un palazzo in via della Mercede comprato in precedenza insieme con un altro stabile ancora sullo stesso marciapiede: ma separati da una stradina. Una seccatura: come passare dall’uno all’altro quando piove, senza bagnarsi o essere costretti ad aprire l’ombrello? Si farà un «collegamento ipogeo» . Cioè un tunnel sotterraneo. Costo previsto: 250.000 euro al metro. Per un totale di 2 milioni e mezzo. Uno in più dei fondi per gli «interventi per il restauro e la sicurezza della Domus Aurea e dell’area archeologica centrale di Roma»

Corriere della Sera 13.2.11
Quegli «scarabocchi» derisi da Togliatti
La guerra del Migliore contro le avanguardie che si ribellarono al realismo
di Mirella Serri


«Tornammo a Roma gonfi di gioia. A Parigi tutto era esaltante...» . Non stava nella pelle per l’entusiasmo, per dirla con le parole di Pietro Consagra, la pattuglia di artisti— Accardi, Attardi, Sanfilippo, Turcato, Dorazio — che si arrampicava nel dicembre 1946 su per le stradine di Montmartre. Negli studi si riempivano gli occhi con le forme e i colori di Arp, Picabia, Man Ray, quasi per rifarsi dei tanti anni di arte autarchica a cui li aveva costretti il ventennio. Dopo questa grande bouffe di dadaismo, surrealismo, espressionismo, Consagra esultava: «I problemi di Guttuso non saranno più i nostri» . Non l’avesse detto: mai profezia fu più sbagliata. La strada non era per nulla spianata per gli adepti del gruppo di Forma 1 — vi aderiva lo stesso Consagra — o per i seguaci di Spazialismo e Nuclearismo, di Mac e del Concretismo, di Otto pittori e per altri ancora le cui opere saranno esposte al Museo d’arte di Ravenna nella mostra «L’Italia s’è desta. Arte in Italia nel secondo dopoguerra, 1945-1953» . Tutti questi artisti, che attingevano slancio ed energie dalla modernità, dall’Europa e dalla tradizione delle avanguardie, si rifiutarono di mettersi al servizio dei linguaggi più realistici e di immediata efficacia comunicativa. E si ritrovarono, quasi senza volerlo, coinvolti in un duro confronto-scontro interno alla sinistra. Fu tutto un tintinnar di lame nello Stivale in quegli anni postbellici e anche scrittori, uomini di spettacolo, filosofi e musicisti furono impegnati ad alzare barriere e a ostacolare le pretese dei «compagni politici» , così li chiamava Elio Vittorini. Il romanziere, di accuse e di cavillosi distinguo sui confini del fare artistico, ben se ne intendeva. Protagonista, sulle pagine da lui dirette del Politecnico, dell’acceso dibattito con il segretario del Pci sull’autonomia della cultura, tra le sue tante colpe aveva anche quella di aver dato spazio al pensiero filosofico-analitico di Bertrand Russell e di Wittgenstein che andava per la maggiore anche a Vienna e Berlino. Un duello finito, come tanti altri, con scomuniche e gran discredito («Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato» , Togliatti sbeffeggiava così l’abbandono del Pci da parte dello scrittore). Per non esser da meno del leader comunista, Luigi Longo, sostenuto da Mario Alicata, invadeva anche lui l’area della speculazione più moderna: attaccava Studi filosofici di Antonio Banfi, rivista rea di aver dato credito all’esistenzialismo francese. Nemmeno l’ambito musicale venne risparmiato. Il Migliore, accapigliandosi con Massimo Mila sulle composizioni di Shostakovic inviso alle autorità sovietiche e sulle sperimentazioni dodecafoniche, sosteneva: «Chi ha detto che dei problemi artistici debbano occuparsi solo i competenti?» . E Mila: «Chi ha detto che se ne debbano occupare gli incompetenti?» . Intanto, prima ancora dello sbarco nella penisola delle traduzioni dello stalinista Ždanov sulla partiticità delle opere d’arte, gli aderenti a Forma 1 si proclamavano «formalisti e marxisti» senza riconoscersi nel realismo dei Carrettieri che cantano o del Contadino che zappa di Renato Guttuso. Non bastava. Anche loro finirono nel tritacarne dei veleni e delle accuse di tradimento e pure al commissariato, venendo alle mani per diversità di vedute politiche con il pittore siciliano e con il suo «alter ego» , come Consagra aveva ribattezzato il critico d’arte Antonello Trombadori. Nel 1948 Roderigo di Castiglia (alias Togliatti) dava il colpo di grazia ai cavalieri dell’astrattismo. La mostra dell’Alleanza della cultura a Bologna era una «raccolta di cose mostruose» , di «errori e scemenze» e di «scarabocchi» . Dopo tante baruffe, Lionello Venturi nel presentare gli Otto pittori si sentiva di dover esibire un certificato di fedeltà: «Non sono chierici che tradiscono» . L’Italia s’era appena desta e già si stava assopendo in un crepuscolo di diktat e di richieste agli uomini di cultura tirati per la giacca dell’impegno civile e colpiti spesso al cuore, nella qualità dei loro prodotti (realismo finì per diventare sinonimo di «socialismo innovativo» e astrattismo di «conservatorismo di destra» ). Claudio Spadoni, curatore di questa bella rassegna, nella premessa al catalogo rileva che queste tumultuose esperienze di nuova arte del dopoguerra sono state dimenticate o sottovalutate in una lunga «storia di pregiudizi negativi» . Non era un caso. Il colore di quegli anni, lo sosteneva Pier Paolo Pasolini riferendosi anche alle tele di Guttuso, era uno solo: «Il rosso dell’operaio e il rosso del poeta, un solo rosso» . Gli artisti che non privilegiavano una sola tonalità e attingevano, sempre metaforicamente parlando, dalla variegata tavolozza delle avanguardie europee, furono vittime anche di pregiudizi estetici sui loro «scarabocchi» non progressisti e dovettero aspettare di essere ripescati dai sottoscala a cui erano stati destinati.

Corriere della Sera 13.2.11
Proust, Verga e gli altri: la «letteratura» della malattia
di Franca Porciani


Il pensiero narrativo è, per sua definizione, il pensiero dell’incertezza, della singolarità, che realizza una prospettiva esistenziale. Che cosa può avere in comune con il ragionamento clinico che guida il medico nella formulazione di una diagnosi e, poi, di una cura? Poco, apparentemente, ma a un’analisi più attenta ci si accorge che il pensiero narrativo, costringendo a ripercorrere in forma letteraria i processi della costruzione mentale, non è lontano da quel gioco di intuizione, astrazione e sintesi che consente al medico di interpretare il disagio di una persona malata. Donatella Lippi, docente di Storia della medicina all’Università di Firenze, è talmente convinta della bontà di quest’idea da averla già tradotta in una strategia didattica per gli studenti di medicina; ora la espone in un volume, Specchi di carta, Percorsi di lettura in tema di Medicina narrativa, pubblicato dalla cooperativa editrice Clueb. Singolare la tesi della storica fiorentina, ma stimolante: lo studio della letteratura servirebbe alla formazione del medico per controbilanciare un sapere troppo tecnologico e riduttivo, favorendo l’inserimento della «nozione» in un vissuto di malattia dove il dato autobiografico diventa un elemento da non trascurare. Perché le malattie sono fatte di singole storie, non di categorie astratte e per curare i disturbi di un malato non basta spiegarli, è necessario comprenderli. Il volume raccoglie brani di letteratura italiana e internazionale attinenti alla salute e alla malattia e i commenti degli studenti cui sono stati proposti nell’anno accademico 2009-2010. Brani che scovano i punti deboli della medicina moderna. Come il sentirsi ridotto a «cosa» di Tiziano Terzani in Un altro giro di giostra (Longanesi): «A ogni stazione si esaminava un pezzo del mio corpo: il fegato, i reni, lo stomaco, i polmoni, il cuore. Ma l’esperto di turno non veniva a toccarmi o ad auscultarmi. La sua attenzione era rivolta esclusivamente ai pezzi e neppure ai pezzi in sé, ma alla loro rappresentazione, all’immagine che di quei vari pezzi compariva sullo schermo del computer» . O le difficoltà di comunicazione con i medici di Isabella Allende in Paula (Feltrinelli), una sorta di diario scritto durante il periodo trascorso accanto alla figlia in coma a causa della porfiria, una rara malattia genetica: «Ogni mattina perlustro i corridoi del sesto piano a caccia dello specialista per indagare nuovi dettagli. Quest’uomo ha la tua vita nelle sue mani e io non ho fiducia in lui, passa come una corrente d’aria, distratto e frettoloso, dandomi noiose spiegazioni sugli enzimi e copie di articoli sulla tua malattia che tento di leggere ma non capisco» . Ma c’è anche il senso di impotenza espresso da Giovanni Verga in Mastro Don Gesualdo (Mondadori): «Ma lo tenevano lì, per smungerlo, per succhiargli il sangue, medici, parenti e speziali. Lo voltavano, lo rivoltavano, gli picchiavano sul ventre con due dita, gli facevano bere mille porcherie, lo ungevano di certa roba che gli apriva dei vescicanti sullo stomaco» E lo sgomento di fronte alla morte annunciata, descritto da Marcel Proust in I Guermantes (Mondadori): «Quando la nonna non era sotto l’influenza della morfina, i suoi dolori diventavano insopportabili: ricominciava di continuo un certo movimento che le era difficile compiere senza lamentarsi poiché la sofferenza è in gran parte una specie di bisogno dell’organismo di prendere coscienza d’un nuovo stato che lo inquieta» . Come hanno accolto gli studenti l’esperimento letterario? Si dichiarano soddisfatti di aver affrontato la «fatica» di pensare alla malattia sotto un’angolatura diversa. © RIPRODUZIONE RISERVATA R Il libro: Donatella Lippi, «Specchi di carta. Percorsi di lettura in tema di Medicina narrativa» , Clueb, pp. 202, e 22

Repubblica 13.2.11
Così tre milioni di anni fa l´antenata Lucy si alzò in piedi
Scoperta in Etiopia la prova dei primi passi dell´uomo
di Elena Dusi


Il metatarso mostra che si era abbandonata la posizione da quadrupedi L´Australopithecus afarensis in grado di deambulare assai prima dell´Homo erectus

Il piede con cui l´uomo fece il più grande balzo della sua storia è stato dissepolto dalla polvere dell´altopiano etiopico. Gli antropologi che l´hanno trovato lo definiscono "una molla". La sua forma ad arco, risalente a 3,2 milioni di anni fa, in grado di spingere il corpo in avanti durante la deambulazione, è la più antica fra le prove che i nostri antenati camminavano in posizione eretta.
L´Homo erectus, vissuto tra 1,7 e 0,5 milioni di anni fa, conserva ancora il suo nome, ma non più il suo primato. I primi ominidi capaci di stare su due gambe e camminare in posizione eretta sono più antichi di uno o due milioni di anni. Ad alzarsi per la prima volta e scrutare l´orizzonte della savana è stato infatti un Australopithecus afarensis, vissuto tra 3,7 e 2,9 milioni di anni fa.
A questa specie apparteneva Lucy: la famosa donna primitiva il cui scheletro quasi completo (ma senza ossa dei piedi) emerse dalle stesse polveri etiopiche nel 1974. La sua età (3,2 milioni di anni) coincide perfettamente con la datazione del piede arcuato appena scoperto. Solo questa forma - che l´uomo non condivide con nessun´altra specie - permette di camminare in posizione eretta, sostengono i paleontologi e gli esperti in anatomia umana delle università dell´Arizona e del Missouri che su Science hanno pubblicato i risultati dell´analisi dei frammenti etiopici. Come una molla, il piede ad arco spinge il corpo in avanti durante la deambulazione e assorbe l´impatto quando la gamba calpesta il terreno. Nel corpo di Lucy è inoltre scomparso l´alluce lungo e molto flessibile che i primati usano per aggrapparsi ai rami degli alberi.
Del prezioso piede ad arco i ricercatori hanno dissepolto il quarto metatarso: una delle cinque ossa lunghe (quasi dieci centimetri) che si trovano al centro del piede, prima delle dita, esattamente dove la pianta forma un arco. Ancora oggi, nelle persone in cui la curvatura non è perfetta, il cosiddetto "piede piatto" provoca problemi di postura e deambulazione.
Il ritrovamento è avvenuto ad Hadar, in Etiopia, da quasi quarant´anni una vera e propria miniera per i paleontologi che studiano gli afarensis. Da qui infatti negli ultimi 15 anni sono stati dissepolti 250 frammenti appartenenti a circa 17 individui, tanto che lo scavo è stato ribattezzato "il sito della prima famiglia". Fra le ossa appartenenti a questa specie di ominidi robusta, sana, longeva e numerosa, fino a ieri era sempre mancato il tassello del piede. Qualcuno aveva già suggerito che gli afarensis fossero in grado di percorrere alcuni tratti di savana in posizione eretta. Un´impronta trovata in Tanzania, a Laetoli, era stata analizzata nei più minuti dettagli. E i ricercatori si erano convinti che a lasciarla nel fango fosse stato un ominide con il piede arcuato e la posizione eretta. Ma sulla paternità e sulla datazione (3,7 milioni di anni) di quelle orme gli scienziati non avevano mai trovato un reale consenso.
Solo l´analisi del piede di Hadar offre la prova del nove che l´uomo si è alzato oltre un milione di anni prima di quanto si ritenesse in passato, quando i paleontologi assegnarono il nome all´Homo erectus. «Sapere che Lucy e i suoi parenti avevano i piedi arcuati è un piccolo tassello, ma ci offre moltissime informazioni su dove questi antenati vivevano, cosa mangiavano, come evitavano i predatori. Lo sviluppo di questa forma del metatarso è stato un cambiamento fondamentale e dimostra che gli afarensis avevano definitivamente abbandonato la vita sugli alberi» spiega Carol Ward, l´esperta in anatomia dell´università del Missouri che ha analizzato il frammento.
Scherzando, i ricercatori suggeriscono che Lucy sarebbe stata capace di camminare con i tacchi, data la forma moderna ed efficiente dei suoi arti inferiori. In realtà gli afarensis, pur assaporando il piacere di spostarsi su due gambe nella savana, erano rimasti affezionati anche agli alberi e ai balzi di ramo in ramo. Spalle e braccia robuste, mani prensili dimostrano che la metà superiore del corpo, il viso e il cranio di Lucy portavano segni evidenti di un passato da scimmia. Ma ormai il suo sguardo aveva imparato a rivolgersi verso l´alto e non si sarebbe riabbassato mai più.