domenica 20 febbraio 2011

Repubblica 18.2.11
la pillola dimenticata
Perché non si usa più la pillola
A 50 anni dall’esordio l’Italia scopre che la maggioranza delle persone non usa contraccettivi. E resistono i vecchi sistemi
di Maria Novella De Luca


Il 70 per cento delle persone con più di 18 anni ammette di non fare uso di contraccettivi. Colpa di fatalismo, ignoranza, scarsa informazione Così cinquant´anni dopo il nostro Paese dimostra di aver dimenticato la grande rivoluzione sessuale. O quasi
Dietro il rifiuto di usare contraccettivi ci sono il mito della spontaneità e la paura che ogni "barriera" tolga spazio all´amore
Resistono i metodi naturali di sempre E oggi come ieri la strategia più utilizzata è il "rapporto interrotto"
Si registra un aumento di aborti tra le ragazze più giovani, anche minorenni. E una recrudescenza dei contagi da Aids

Non piacciono alle ragazze né ai ragazzi. Non li usano né le donne, né gli uomini. Almeno nei grandi numeri. Almeno nelle statistiche. Contraccettivi, anno zero. Per i sessuologi dietro il pervicace rifiuto di usarli ci sarebbero il mito della spontaneità, della naturalità e la paura che ogni "barriera" possa togliere all´amore passione e bellezza. I ginecologi e gli andrologi dicono invece, e non senza apprensione, che si tratta di ignoranza, di inesperienza, ma anche di un bel po´ di irresponsabilità e di azzardo. Parliamo di sesso e di sessualità. E di contraccettivi, che in Italia vengono usati davvero poco. Agli ultimi posti in Europa.
Oltre il 70% della popolazione dai 18 anni in su e in età fertile ammette semplicemente di farne a meno. Magari per ricorrere poi con affanno alla "contraccezione d´emergenza". O peggio. Non importa se ormai la pillola è sempre più leggera, e si fanno strada addirittura i microimpianti, rivoluzionari dispositivi che vengono inseriti sotto la cute per avere tre anni consecutivi di contraccezione sicura. Nel nostro paese resistono invece i metodi naturali, tradizionali, quelli di sempre. E in particolare, oggi come ieri, la strategia contraccettiva più utilizzata è il "rapporto interrotto", l´amplesso che si spezza nel momento clou.
Il "rapporto interrotto" è la metodologia di pianificazione familiare tra le più antiche, ma che ha com´è noto alte possibilità di fallimento. Tra il 16 e il 25% è stato calcolato nella letteratura medica internazionale, e come rivela un dettagliatissimo libro appena uscito, "Contraccezione", edito da "L´asino d´oro", firmato da due ginecologi famosi, Carlo Flamigni e Anna Pompili.
Un libro-manuale che in duecento pagine ci restituisce la storia e il quadro attuale della contraccezione in Italia, analizzando alla luce delle più recenti scoperte scientifiche tutte le varie tecniche esistenti, da quelle ormonali ai microimpianti, dai preservativi maschili a quelli femminili, dalla spirale al diaframma, dal conteggio dei giorni alla pillola del giorno dopo. Di ogni metodo vengono indicati pregi, difetti, effetti collaterali, rischi, prezzi, ma anche false credenze e pregiudizi. Perché, a leggere i dati più recenti sul modo con cui ragazzi e ragazze, ma anche donne e uomini affrontano la sessualità in Italia, emerge che il profilattico è usato soltanto dal 28,4% dei maschi e la pillola dal 16,3% delle femmine, il coito interrotto dal 31,6% delle coppie, e tutto il resto è free, senza rete. Risultato: a cinquant´anni dall´epoca della grande rivoluzione sessuale in Italia, a mezzo secolo dall´arrivo dalla pillola, è boom di "contraccezione d´emergenza", mentre si registra, purtroppo, un aumento di aborti tra le ragazze più giovani, anche minorenni. E una netta recrudescenza dei contagi da Aids.
Spiega Carlo Flamigni, padre della fecondazione assistita in Italia, e oggi presidente onorario dell´Aied, l´associazione italiana per l´educazione demografica: «Lo scopo di questo libro è fare informazione. Perché nonostante il diluvio di notizie pseudoscientifiche che circolano, c´è un´enorme ignoranza sui temi del sesso, della sessualità, della contraccezione, ma anche di quelle scelte che possono poi compromettere la fertilità, e quindi l´arrivo di un figlio, quando si decide davvero di metterlo al mondo. La pillola fa paura perché, si dice, fa ingrassare, il preservativo perché si rompe, la spirale perché è un corpo estraneo, il diaframma perché è difficile: non esiste il contraccettivo ideale, tutti hanno controindicazioni ed effetti collaterali. Esiste però un "percorso contraccettivo" in cui ognuno può trovare la strada giusta per sé. La mancanza di informazione invece porta da una parte a vivere senza la percezione del rischio, ma dall´altro a sottovalutare le conseguenze della poca conoscenza. Quanti sono ancora oggi gli aborti clandestini delle minorenni? Ma nello stesso tempo, quante donne che rinviano fin oltre i 40 anni la gravidanza sono consapevoli che se a 20 anni il rischio di avere un bimbo down è di 1 su 1600, a quarant´anni la media è di un piccolo down ogni novanta nascite…».
Si fa sempre più strada infatti, tra i medici e i ginecologi, la convinzione che una serie di problemi legati oggi all´infertilità di coppia derivi proprio da comportamenti a rischio nella prima fase della vita sessuale, quella delle giovinezza vissuta "senza rete". I dati della Sigo, società italiana di ginecologia e ostetricia, dicono con chiarezza che gli italiani utilizzano poco i contraccettivi perché "li rifiutano" nel 53% dei casi, "non li conoscono" nel 38% delle risposte, o perché "non li sanno usare" nel 9% dei casi.
«E infatti qui torniamo al tema dell´informazione, anzi della disinformazione» aggiunge Anna Pompili, ginecologa e autrice con Carlo Flamigni di "Contraccezione". «Quante volte mi sento dire che il preservativo non è sicuro perché si rompe, ma quanti sanno utilizzarlo nel modo giusto? Ad esempio con l´accortezza di togliersi gli anelli prima di metterlo per evitare appunto che si laceri? Spesso nei colloqui mi rendo conto che quando passa il messaggio che la sessualità deve essere vissuta con serenità, vedo come le coppie si rilassano e accettano di aprirsi. Non credo infatti che agire sulla leva della paura, dello spettro delle gravidanze indesiderate - aggiunge Anna Pompili - sia la strada giusta. Basta vedere quello che succede in Gran Bretagna, dove c´è un numero di altissimo di parti tra le adolescenti, nonostante le campagne "terroristiche" del governo inglese. Anche se, e dobbiamo dirlo, in Italia gli aborti tra le giovanissime sono tornati a crescere, purtroppo anche in un´area clandestina, e così le malattie a trasmissione sessuale».
Infatti sono proprio le minorenni a ricorrere con più facilità alla cosiddetta contraccezione di emergenza, cioè la pillola del giorno dopo. Nel 55% dei casi le confezioni di questo farmaco vengono vendute a ragazze poco più che adolescenti. «A volte con orgoglio donne giovani ma anche adulte affermano: il mio uomo non mi permette di prendere la pillola perché fa male, ci pensa lui… E c´è molto dietro queste parole, proprio in termini di rapporti tra i sessi», sostiene Anna Pompili.
Eppure una recente e ampia inchiesta del Mulino sulla sessualità degli italiani condotta Marzio Barbagli, Giampiero Della Zuanna e Franco Garelli, ha dimostrato come e quanto oggi nell´amore uomini e donne siano più spensierati, liberi da convenzioni. Se non una rivoluzione, certo una "modernizzazione sessuale". E allora perché tutta questa diffidenza su pillola, condom, spirali e altro? Roberta Giommi, che dirige il Centro Internazionale di Sessuologia di Firenze, chiama in causa una serie di "difficoltà immaginarie". «C´è la convinzione che qualunque strategia preventiva tolga mistero e naturalità al rapporto, che per una donna o una ragazza non sia elegante presentarsi ad un appuntamento con il preservativo nella borsa, l´essere intelligenti nel sesso viene vissuto come un pensiero fastidioso. E purtroppo in questo - ammette Giommi - vedo una passività femminile ancora resistente, anche nelle ragazze. Quasi che il consegnare la scelta "protettiva" all´uomo sia un atto d´amore… Quello che mi stupisce poi è come mai alle generazioni più giovani sia stato trasmesso il concetto che fare esperienza è un diritto, ma non che anche il proteggersi sia un diritto. Il paradosso è che fino a 15, 20 anni fa la pillola veniva vissuta dalle donne come scelta di responsabilità, autonomia, sì, anche di liberazione». Oggi, dunque è come se si stesse tornando indietro. E se il preservativo viene vissuto con fastidio, la pillola viene guardata con sospetto quasi fosse un farmaco altamente nocivo. «Tutti elementi considerati "nemici" della spontaneità e del romanticismo - conclude Roberta Giommi - e la strada per poter parlare correttamente della contraccezione è davvero ancora lunga".

Repubblica 18.2.11
Se il sesso è una sconfitta per l’Italia
Visto l´andazzo pecoreccio perché non servirsene per fare quella propaganda anticoncezionale che da noi manca?
di Natalia Aspesi


Tutte quelle belle anzi bellissime signorine attualmente in gran fermento, causa magistrati che vogliono sapere delle loro simpatiche feste e dei loro illustri corteggiatori (clienti?, mah!), a quali gruppi appartengono? Al 28,4% (profilattico), al 16,3% (pillola), al 31,6% (coito interrotto) o addirittura al 15% (nessuno)? E sull´Isola dei Famosi le magnifiche ragazze già passate dal bunga bunga o in procinto di essere invitate a condividerlo, essendo spesso sotto i 25 anni, apparterranno a quel 27,5% che secondo le ricerche non sono mai andate dal ginecologo; e le gentili ospiti del Grande Fratello, capitasse mai una distrazione per la noia da recluse, faranno parte di quel 10% di italiane che ricorrono alla pillola del giorno dopo? Viviamo in una bizzarra parentesi storica, in cui pare che non si faccia altro che l´amore, possibilmente di gruppo, con frustini e berretti da poliziotto, su nelle alte sfere del potere e giù nei finti reality.
Forse anche tra la gente normale, tutti impegnati, per usare un termine probo, a scopare: le gerarchie ecclesiastiche non approvano, ma neanche disapprovano apertamente, con i toni frementi con cui attaccano invece preservativi e contraccettivi, quelli sì demoniaci e peccaminosi.
Praticamente non si parla d´altro, di sesso mercenario e no, sui giornali e in televisione, e allora ci si chiede: visto l´andazzo pecoreccio e guai a fare i barbogi moralisti, c´è il Ferrara antiabortista che ti mena, perché, anziché inutilmente deplorare, non servirsene per fare quella propaganda anticoncezionale che da noi non esiste, e se non sei una mamma sapiente e preveggente che porta le sue piccine dal ginecologo a 13 anni perché spieghi loro la rava e la fava, te le trovi gravide in un baleno? Secondo le statistiche riportate nel prezioso libro dei ginecologi Flamigni-Pompili, tre giovani su quattro sotto i vent´anni non utilizzano alcuna protezione sessuale durante i rapporti, e comunque in generale i contraccettivi vengono rifiutati dal 53% degli italiani, perché non li sanno usare o non li conoscono. Sapessero che Fabrizio e la sua fidanzata Belen, l´intraprendente Ruby o la svelta Nicole, il buon Emilio o la turbolenta Sara, persino il paterno Lele, guai a non uscir di casa con il loro contraccettivo (a ognuno il suo) in tasca, perché non si sa mai, può capitare qualche cattivo incontro, forse se ne saprebbe di più e se ne userebbero di più. Se ne sapeva di più cinquant´anni fa, quando apparve nell´inquieto universo femminile questo miraggio, una semplice miracolosa pillola che avrebbe permesso di non restar rigide di paura come baccalà conoscendo la vaghezza maschile, di non ritrovarsi sole a gestire una gravidanza rifiutata soprattutto dal disimpegnato partner, di sentirsi finalmente libere.
Ragazze e signore correvano nei consultori pubblici e privati che sorgevano come funghi, e pazienza se nelle parrocchie si tuonava contro, e certi padri sparavano alle figlie sorprese con la pillola in tasca, e c´era chi ne raccontava le tragiche conseguenze, dal cancro ai foruncoli. Insomma l´amore era una realtà, non una pornofiction o un´inchiesta giudiziaria: che dopo cinquant´anni in Italia non se ne senta quasi parlare, non si faccia ancora una seria educazione sessuale nelle scuole, si tuoni tuttora contro, chiudendo però gli occhi davanti alla pornograficazione di tutto, dalla televisione alla politica, fa parte delle tante sconfitte subite dalle italiane e dall´Italia.

 l’Unità 20.2.11
Il segretario alle delegate pd: «La rappresentanza di genere va prevista in una norma»
«Non voglio essere governato da un 74enne che in due mesi ha dato 185mila euro a una minorenne»
«Governo per metà di donne»
Bersani lancia la sfida del Pd
Il leader de Pd punta sulle donne, «protagoniste del cambiamento», per andare «oltre Berlusconi». L’8 marzo verranno consegnate a Palazzo Chigi le firme per chiedere le dimissioni del premier.
di Simone Collini


È andato alla manifestazione del 13 a Piazza del Popolo. Poi, seconda mossa, il giorno dopo ha scritto una lettera al Comitato promotore «Se non ora quando» chiedendo un incontro «per valutare insieme le azioni più utili da produrre nel Paese e nelle Istituzioni a sostegno della vostra battaglia, nel più totale rispetto della reciproca autonomia». E ieri, terza mossa, ha chiuso la conferenza nazionale delle Democratiche annunciando una serie di iniziative del Pd sia a livello parlamentare che di mobilitazione in piazza per dare il via a una sorta di rivoluzione rosa.
Pier Luigi Bersani è convinto che per andare «oltre» Berlusconi sia necessario combattere una battaglia anche di tipo «culturale», che porti a una «riscossa morale e civica». Così ha deciso di utilizzare il Ruby-gate non solo per condannare la concezione di mercificazione della donna che ne emerge, non solo per criticare i sedicenti «liberali» che pur di non attaccare il premier tirano in ballo la «libertà» di ognuno di disporre come meglio ritiene del proprio corpo, ma per rilanciare la questione femminile come elemento di «civiltà» di un popolo.
Per questo ieri, chiudendo la due giorni organizzata dalle donne del Pd al teatro Capranica di Roma, Bersani ha annunciato non solo l’impegno a dar vita a un governo composto per metà da ministri di sesso femminile, in caso di vittoria alle prossime elezioni, ma anche l’impegno del suo partito a promuovere una proposta di legge per rendere obbligatorio, chiun-
que si aggiudichi la maggioranza, questo equilibrio di genere. «La giusta rappresentanza delle donne, le cosiddette quote rosa, non possono essere solo una questione di testimonianza del Pd, devono diventare norma per il governo», dice definendo le donne «protagoniste del cambiamento» e ricordando che metà dei componenti della sua segreteria sono di sesso femminile. «O cancelliamo la norma sulla parità di genere in segreteria oppure pretendiamo che il governo nazionale sia metà uomo e metà donna. Dobbiamo pretendere una norma».
NON SOLO 8 MARZO
Bersani ragionerà insieme ai capigruppo di Camera e Senato Dario Franceschini e Anna Finocchiaro e insieme alla neoeletta portavoce delle Democratiche Roberta Agostini se sia più utile alla causa scegliere la via parlamentare o quella dell’iniziativa popolare (con loro penserà anche a come far muovere il Pd per rendere obbligatorio o comunque più utilizzato il congedo parentale per i papà, visti i risultati che ha prodotto nei paesi scandinavi): l’8 marzo verranno “consegnate” a Palazzo Chigi le firme raccolte per chiedere le dimissioni di Berlusconi e in quella giornata potrebbe essere lanciata la nuova mobilitazione.
Ma quale che sia la forma dell’iniziativa, il leader del Pd vuole giocarsi questa carta, nella battaglia per il consenso contro un centrodestra che giorno dopo giorno sempre più umilia l’immagine dell’Italia agli occhi del mondo.

il Fatto 20.2.11
Uno così lo cacciano anche in Ruanda
Là un ministro si dimette per delle foto imbarazzanti Qua il premier del bunga-bunga se ne frega, si rafforza e minaccia pm, giudici costituzionali e giornalisti
Per colpa sua il mondo ci ride dietro. Il “Financial Times” lo paragona ai dittatori africani. Ma in Italia, contro Berlusconi, una opposizione indecisa a tutto sa solo dire: “Vergogna”
Se manca la rivolta
di Paolo Flores d’Arcais


Immaginate il presidente Obama che, processato per concussione e prostituzione minorile, anziché rassegnare immediatamente le dimissioni, dichiara guerra alla Costituzione americana con leggi che mettono il bavaglio alla libertà di stampa e calpestano l’autonomia del potere giudiziario. Succederebbe il finimondo. O la signora Merkel, ancora al suo posto dopo essere stata sorpresa a ricevere telefonate di un prostituto brasiliano – sulla base delle quali ha imposto al capo della polizia di Berlino di rilasciare un prostituto marocchino minorenne accusato di furto – che si permette di insultare la Corte costituzionale e vara leggi contro giornalisti e magistrati. Succederebbe   il finimondo.
In Italia sta accadendo. Perché l’Italia evidentemente è già fuori dall’Occidente liberaldemocratico, è già ampiamente putinizzata, altrimenti sarebbe impensabile che gli stessi partiti di destra tollerassero simili infamie e che le opposizioni, dopo   aver alzato la voce per un istante, ricominciassero un tran tran di beata incoscienza e impotenza. Eppure nei prossimi mesi, senza una rivolta morale, parlamentare, elettorale, verrà assassinato quel che resta della nostra democrazia costituzionale nata dalla Resistenza.
Le opposizioni hanno fatto spallucce alla proposta di dimissioni in massa dal Parlamento, avanzata dal direttore di questo giornale, con la solita scusa che sarebbe “Aventino”, mentre sarebbe stato l’opposto: il gesto drammatico capace di costringere Berlusconi alla resa dei conti nel paese, anziché consentirgli quotidiani nuovi acquisti nel “mercato delle vacche” cui ha ridotto Camera e Senato. Queste “opposizioni” in realtà praticano già un “Aventino” di subalternità e indolenza, visto che di fronte a una conclamata “emergenza democratica” (come hanno finito per pigolare anche i loro dirigenti) non hanno ancora trovato il modo di proclamare solennemente l’ostruzionismo a oltranza dei lavori parlamentari, utilizzando ogni comma di regolamento per paralizzarne totalmente i lavori, e costringere per questa via il ritorno alle urne. 
Quanto al presidente della Camera, l’on. Fini userà i suoi poteri, che per regolamento sono enormi (il “calendario”, se non c’è unanimità tra i capigruppo, lo decide il presidente) in obbedienza al dovere di imparzialità, la cui unica bussola è la Costituzione stessa, o si piegherà alle pretese lanzichenecche ed eversive di una maggioranza raffazzonata con “milioni o altra utilità”, che intima la discussione immediata su leggi che meriterebbero le calende greche?

il Riformista 20.2.11
Il Vaticano vince l’imbarazzo e scende a patti col governo
Il retroscena. Incontro riservato tra il presidente del Consiglio e il cardinale che ha chiesto e ottenuto garanzie su biotestamento, scuole cattoliche e adozioni. Gli spauracchi delle gerarchie: «Fini ha nominato Della Vedova capogruppo, Casini è troppo debole, «il Pd premia i gay e pensa ai Pacs».
di Ettore Colombo

qui
http://www.scribd.com/doc/49186045

il Fatto 20.2.11
Accadde domani: se da noi finisse come in Egitto
di Dario Fo


Chi l’avrebbe mai detto che i moti d’Africa e il ribaltone politico iniziato nei paesi della costa mediterranea, sarebbe sfociato in un cataclisma a effetto domino del genere? Eppure è successo: ci troviamo alla metà del 2012, soltanto un anno e mezzo dopo la prima grande ribellione avvenuta in Tunisia, con la cosiddetta “Rivolta del Pane”: migliaia di cittadini di tutte le classi sociali hanno manifestato per settimane. Ci sono stati numerosi morti e feriti.
Subito appresso è esplosa la rivolta in Algeria, altri morti, altri feriti, poi a catena l’Egitto, Iran, Libia, Bahrein e Yemen e anche se apparentemente sembrava non entrarci nulla con le rivolte d’Africa, anche l’Albania.
C’è un fatto molto curioso da sottolineare: tutti i presidenti, in verità bisognerebbe chiamarli dittatori, che uno dietro l’altro si son trovati scacciati dal potere o costretti a fuggire con tutta la famiglia, affaticati nei loro gesti dal peso di lingotti d’oro rubati negli anni, risultano amici carissimi, quasi fraterni di Berlusconi. Tutti costoro sono stati per anni pubblicamente sostenuti e difesi, abbracciati, baciati davanti alle telecamere dal nostro presidente del Consiglio e nel momento stesso in cui la popolazione urlava “vattene” egli, Berlusconi, ha dichiarato che quei tiranni erano da ritenersi saggi e onesti governanti. Nello stesso istante centinaia di cittadini venivano falciati e trucidati dalla polizia organizzata dai sommi rais in questione. Queste rivolte a valanga sono, nella cultura islamica, segni di una tragica profezia che si va immancabilmente realizzando per tutti coloro che hanno fatto parte di questa corvé di sostegno reciproco. Ma Berlusconi   non lo sapeva, altrimenti avrebbe cominciato a farsela addosso fin da allora.
Appresso, nella primavera del 2011, cioè circa un anno fa, esplode la cosiddetta diaspora dei disperati: prima mille al giorno sono i profughi che sbarcano a Lampedusa e su altre coste della Sicilia, Calabria, Puglia eccetera. Il numero aumenta quadruplicando ogni settimana finché si raggiunge una vera e propria invasione con centinaia di migliaia di disperati che si rovesciano sulle coste di tutta la penisola. La polizia italiana, così come la Marina e le Forze armate, non sanno come arginare quella frana. Qualche scellerato del governo ordina un atto spietato di repressione: morti a volontà, più di un cittadino italiano reagisce indignato a quella strage, e molti dei soldati e marinai si rifiutano di eseguire. Anche la polizia è allo sbando, il governo ordina lo stato di emergenza. La destra e in particolare alcuni gruppi di scalmanati fascio-razzisti arrivano ad attaccare il palazzo del governo colpevole di non prendere decisioni  drastiche. Nelle città si assiste a scontri senza quartiere. L’esercito si rifiuta di prender parte a quella buriana senza senso, ma intervengono i corpi speciali e di nuovo sono scontri sanguinosi. Il governo si sfascia, molti senatori e deputati si dimettono seguiti dalla gran parte dei ministri e sottosegretari e a questo punto sorpassiamo tutti i vari stadi della rivolta e arriviamo al momento in cui si forma un governo popolare, al quale partecipano molti cittadini che niente hanno   a che vedere coi governi e coi rispettivi partiti. Si indice un grande referendum col quale si chiede di cancellare tutte le leggi, i decreti ad personam istituiti per favorire il presidente del Consiglio nei suoi processi. Il referendum ha un enorme successo ed ecco che in poche settimane vengono annullati, in quanto ritenuti anticostituzionali, il lodo Alfano, la Cirami, la legge Gasparri e tutte le varie leggi-scudo imposte dal governo Berlusconi. Inoltre questa legge è decretata retroattiva, per cui tutti i processi annullati per decorrenza dei termini e prescrizione, per archiviazione e amnistia vengono immediatamente riaperti. Si evince che Berlusconi dovrà presenziare ad almeno tre diverse sedute ogni settimana per cinque anni consecutivi. Ma ecco che ci si rende conto all’immediata che Berlusconi non c’è, non si trova: ogni cittadino è coinvolto nella   caccia al presidente nascosto. Vengono coinvolti anche i bambini e le suore, che si dimostrano le più accanite fra tutti i segugi. Nella caccia viene trovato Gasparri rintanato in un centro di prima accoglienza a Lampedusa e con lui c’è anche Maroni; in un convento di trappisti viene scoperto La Russa; Brunetta e Bondi vengono rintracciati in una comunità di recupero per tossicodipendenti, la Santanchè e la Meloni sono rintracciate in un circo equestre nelle vesti di domatrici di iene, e finalmente anche Berlusconi viene ritrovato... a giocare a carte con altri vecchi in un circolo dell’Arci alla Bovisa.
Ha inizio il primo processo, ma non si trovano i suoi avvocati: né Ghedini, né Longo, né Pecorella, e perfino Previti non si fa trovare. Gli incaricati dell’arma dei carabinieri si danno subito alla ricerca. I legali dell’ex presidente deposto sono tutti fuggiti all’estero, più di cinquanta avvocati che all’unisono si rifiutano di difendere il Cavaliere, anche per la ragione che un ordine della Finanza ha bloccato tutti gli averi del loro assistito e i beni privati, anche quelli a nome dei figli e parenti più o meno prossimi. Moltissimi sono i cittadini che vogliono assistere a quel giudizio. I responsabili del Palazzo di Giustizia hanno ritenuto di trasferire il processo al palazzetto dello sport, ma ecco che alla prima seduta la presenza della folla risulta incontenibile, quindi il processo verrà ripreso e riproiettato a reti unificate in Italia e all’estero. Berlusconi ha battuto tutti i record di popolarità, per non parlare degli indici d’ascolto. Peccato che non potrà godere delle quote pubblicitarie!
*Premio Nobel per la Letteratura

il Fatto 20.2.11
Sinistra alla rovescia
di Furio Colombo


Berlusconi deve dimettersi? Lo dice il diritto, la politica, il buonsenso e il mondo. Infatti le accuse sono per reati infamanti, uno dei quali prevede l’esclusione dai pubblici uffici. Il rinvio a giudizio ha già avuto luogo, e almeno una delle due accuse riguarda un fatto non solo ammesso e riconosciuto dall’imputato, ma votato come verità dal Parlamento: il presidente del Consiglio italiano ha effettivamente ingannato la polizia italiana dando notizie false e ordini che non poteva dare.
La politica non può avere per protagonista istituzionale e politico un persona, Silvio Berlusconi, che è sotto processo mentre il Paese è sotto possibile, forse imminente, forse inevitabile attacco finanziario. E la politica non può funzionare se il partito di maggioranza è in mano a un imputato – e fra poco protagonista di un processo – per   fatti gravi che comportano l’esclusione dai pubblici uffici. Ovvio che il buon senso suggerisca un autoesonero per evitare pericolo per il Paese e ridicolo infamante per la persona.
NON È propaganda, è cronaca e tutta la stampa libera del mondo lo dice, i commentatori più amici dell’Italia lo chiedono. I precedenti di fatti simili (in genere assai meno gravi) in altre democrazie indicano un comportamento unico: dimissioni, per impossibilità evidente di continuare nel proprio compito. Questo tipo di dimissioni non dipende dalla presunzione di colpevolezza o dalla probabilità di condanna, ma dalla necessità di evitare due rischi: coinvolgere il prestigio dell’istituzione nel processo che riguarda   la persona; e l’impossibilità di funzionare sovrapponendo i due ruoli di primo ministro e di imputato.
Qui nasce il caso Italia, che persino agli occhi di osservatori vicini e coinvolti come   tanti di noi, mantiene, oltre a ragioni squallide e (direbbe il ministro Giulio Tremonti) “mercatiste”, o a clamorosi errori politici, fatti più difficili da capire, e certo difficilmente spiegabili senza imbarazzo ai colleghi (giornalisti o parlamentari) di altri Paesi.
TENTERÒ di elencare i protagonisti della strana scena. Cominciamo da una constatazione realistica: quasi mai qualcuno prova da solo, e di   sua iniziativa, un irresistibile impulso a dimettersi. Però, se usiamo per confronto scene politico-giudiziarie simili alla storia italiana (dunque soprattutto gli Stati Uniti di Richard Nixon e di innumerevoli senatori e deputati americani, e le vicende di Israele, il a processo al presidente della Repubblica e al primo ministro, quasi nello stesso tempo e senza alcun risentimento politico o di opinione pubblica) notiamo che la richiesta pressante di dimissioni viene sempre esercitata sul personaggio istituzionale divenuto imputato, dal suo partito, dalla stessa gente, leadership, politici ed elettori della stessa parte politica dell’imputato. L’Italia sta meravigliando il mondo per il caso inverso, che non è tipico delle democrazie: il partito si mobilita intorno al leader imputato, dichiara immediatamente “politica” la chiamata in giudizio del loro leader. E crea le condizioni per un assedio   alla magistratura attraverso una rivolta di popolo. Siamo notati nel mondo per una situazione che non ha precedenti e non si lascia spiegare da normali teorie politiche. Non possiamo dire che questa situazione durerà, ma intanto   dura. Pensate alla frase, detta in conferenza stampa dal premier italiano: “Conto che fra poco saremo almeno venti di più nel nostro schieramento”. Non si stanno aspettando i risultati di nuove elezioni. Si sta parlando delle trattative apertamente in corso sotto il cielo dell’illegalità più sfacciata, ma anche sbandierata come un successo.
Negli stessi giorni, nelle stesse ore, le stesse fonti – che includono quasi tutte le televisioni   e, dopo un poco, persuadono anche i maggiori quotidiani allo stesso linguaggio – iniziano a sostituire le imputazioni del tribunale e la decisione   del processo immediato (che vuol dire prove certe) con la dizione “gogna mediatica”. A tutto ciò si aggiunge il militantismo fervido con cui si uniscono al cerchio stretto di difesa di Berlusconi quei dirigenti del Pdl che non solo si presentano come “cattolici” ma lasciano trapelare legami profondi, che qui funzionano come garanzia e come imprimatur: Compagnia delle Opere e Comunione e liberazione.
Lo strano e anomalo quadro della situazione italiana che salda la vita pubblica italiana in un unico blocco (ormai diciassette anni di governo diretto o indiretto, quasi ininterrotto, di Berlusconi) ha altri pezzi da esibire. Pezzi unici, come l’inaspettato e clamoroso sostegno di un importante magistrato che è stato presidente della Camera e fra i leader storici (teoricamente anche adesso) della sinistra, o almeno dell’opposizione italiana   . La voce è di Luciano Violante: “La pubblicazione degli atti giudiziari è un atto abnorme, una distorsione dei diritti. Credo che l’Italia sia un caso   unico in cui i media dedicano tanto spazio alle trascrizioni”. Evidentemente Violante non ha mai sentito parlare dei Pentagon Papers o delle trascrizioni delle registrazioni nella Casa Bianca di Nixon che hanno tenuto impegnati i grandi giornali americani per mesi mentre si preparava l’impeachment del presidente.
Ma ascoltate, lo stesso giorno (16 febbraio), ciò che ha da dire, sul quotidiano Libero, lo scrittore e giornalista “di sinistra” Giampaolo Pansa: “È iniziata la lunga vigilia dell’imputato Berlusconi. Sarà una   guerra nauseante che obbliga a una domanda: non ho mai votato per il Cavaliere. Ma adesso, se si andrà a votare, sarei propenso a diventare un suo elettore. Una nauseante guerriglia faziosa costringe anche me a dire basta!”.
RESTEREBBE da chiedere: che cosa è nauseante, l’incriminazione (che per la legge italiana è obbligatoria) o la notizia dell’incriminazione, dunque il lavoro dei media che in qualunque democrazia è considerato l’indispensabile garanzia dei diritti dei cittadini? E quale è il rimedio, il silenzio spontaneo o la censura, come proposto alla commissione di Vigilanza Rai dalla maggioranza berlusconiana? 
La vera meraviglia che occupa tanto spazio nella stampa e nelle tv del mondo non è più Berlusconi. È l’Italia. Non è in catene, benché privata di una parte importante delle sue libertà. I giudici non hanno ceduto. Perché sono inclini a cedere tutti gli altri? Non sentite che c’è già nell’aria una certa stanchezza, un “lasciamo perdere” che fa spazio alla “nausea” di Pansa e alle riserve giuridiche di Violante? Siamo sicuri che l’opposizione disponga soltanto di brevi ed educate dichiarazioni di dissenso (questa volta anche di condanna) nell’aula della Camera e del Senato, e poi si ritorna al lavoro? Quale lavoro, con un imputato di prostituzione minorile e di connesso abuso di potere, e con tutti i suoi complici?

Corriere della Sera 20.2.11
Se la televisione si sostituisce alle élite Come cambia l’antropologia italiana
Quell’Italia che vive nell’Isola dei famosi
di Ernesto Galli della Loggia


Non c’è alcuna prova decisiva né alcuna statistica inoppugnabile che dimostri che il nostro Paese stia andando a rotta di collo verso una sorta di analfabetismo di massa e insieme verso un dilagante involgarimento delle sue abitudini e dei suoi stili di vita o verso l’offuscamento di una certa tradizionale sensibilità al tempo stesso umana e morale. Così come non c’è alcuna prova che in tutto ciò la televisione e i suoi programmi c’entrino qualcosa.
Ci sono però a farcelo sospettare, anzi credere, la nostra percezione, viva, quotidiana; e la nostra intelligenza. Conteranno pure qualcosa! Per mille segni avvertiamo intorno a noi, infatti, che ogni giorno il senso della vita delle persone che abitano questo Paese, l’orizzonte dei loro sentimenti e delle loro emozioni, il loro rapporto con il passato, sono sottilmente ma ineluttabilmente distorti, svuotati, manipolati, corrosi, e poi ricombinati in modi nuovi dalla televisione. È un discorso trito e ritrito, questo sulla televisione? Figuriamoci se non lo so. Ma anche i discorsi sulla mafia o sull’evasione fiscale sono triti e ritriti. I problemi e i mali d’Italia non sono quasi mai nuovi, ahimè: è forse però un buon motivo, allora, per non parlarne? È nello spazio strabordante dei programmi d’intrattenimento che soprattutto si compie la manipolazione distruttiva dell’antropologia italiana. In quei programmi dove— pure senza arrivare ai livelli postribolari di cose come L’isola dei famosi o del Grande Fratello— si mischiano presentatori-guitti, comicastri, sound triviali, corpi seminudi, trovate quizzistiche da quattro soldi e torrenti di chiacchiere sul nulla. È da questa poltiglia che colano ininterrottamente dalla mattina alla sera nella testa di milioni di italiani modelli di comportamento posticci e spregevoli, disprezzo implicito per ciò che è intelligente e frutto di tenacia e di sacrificio, l’idolatria dell’apparire, l’ammirazione per tutto ciò che è esagerato, sgangherato, enfatico, superfluo, ai danni di ciò che invece è normale e appropriato. Non so se anche altrove esistano programmi così fatti e in tale numero: mi pare proprio di no. Quello che è certo è che in Italia l’effetto è stato ed è particolarmente devastante. La disgregazione delle grandi periferie metropolitane, una cultura popolare ritrovatasi a causa dell’urbanizzazione repentina e massiccia privata delle sue antiche basi, strati giovanili a cui l’acculturazione scolastica non dice e non dà più nulla, tutto ciò ha prodotto un vuoto in cui il modello turpe-televisivo ha trovato e trova facile modo di imporsi a suo piacere. Ma non bastano queste spiegazioni. Deve essere accaduto nel nostro Paese qualcosa di particolarmente rilevante e specifico, se in nessun altro luogo d’Europa si vede tanta televisione e così a lungo ogni giorno come da noi; se visibilmente essa ha un effetto così vasto e condizionante; se in nessun luogo d’Europa le più clamorose futilità televisive sono capaci di suscitare tanta attenzione e discussione come in Italia. Ciò che è accaduto è che da decenni, in realtà, la poltiglia televisiva costituisce il surrogato dell’egemonia culturale sulla società italiana che le sue classi dirigenti non sono più capaci non dico di esercitare ma neppure di immaginare. La rottura è avvenuta intorno alla metà dei Settanta, non a caso quando cominciò la lenta decomposizione del quadro politico-intellettuale della Prima Repubblica e iniziò, contemporaneamente, a proliferare la televisione commerciale. Da allora chi ha la direzione effettiva della vita spirituale italiana, chi sempre di più determina i suoi stili e il suo «discorso» , è la televisione. Ciò che ha la sua conferma nel fatto che in nessun altro Paese d’Europa come nel nostro il pubblico televisivo è così interclassista, copre tutti gli strati sociali, compresa quella che si dice l’élite. In Italia tutti vedono la televisione. E solo in Italia tutto ciò che non passa sullo schermo non esiste. Anche l’Unità d’Italia e il suo inno esistono solo se è la Tv che ne parla, sia pure per bocca di un teatrante geniale come Benigni. Tutti sono in certo senso costretti a vedere la televisione, perché alla fine vederla è, paradossalmente ma anche molto concretamente, il solo modo che esista oggi di essere italiani, di partecipare in qualche modo a una comunità culturale che altrimenti come tale non ha voce, né centro, né effettivi protagonisti nazionali. Considerazioni come queste che sto facendo si concludono in genere con la messa sotto accusa di Berlusconi quale artefice primo e massimo «utilizzatore finale» (politico) dell’egemonia televisiva. Ora, è vero che Berlusconi ha impiantato da noi la televisione commerciale: ma la pubblicità televisiva e la televisione commerciale fino a prova contraria esistono anche in molti altri Paesi. L’egemonia televisiva (a sfondo commerciale, certamente) è tutt’altra cosa: e non l’ha creata Berlusconi. Non è il frutto della malizia di un uomo, è il prodotto di una storia. È il prodotto della storia d’Italia: della fragile modernizzazione postbellica sempre più priva di una guida forte, della debole e superficiale scolarizzazione, della pochezza e dell’incertezza delle classi dirigenti, della progressiva latitanza della politica. Ed è per questo che oggi nella brutalità sommaria di quest’egemonia televisiva ci stanno dentro tutti, destra e sinistra. In una trasmissione di Santoro c’è una dose di approssimazione impudica, di aggressività e di cialtroneria italiota almeno pari a quella del peggiore palinsesto di Mediaset. E chi finge di non accorgersene è solo perché conta di prendervi parte per avere agio di aggredire il nemico di turno.

l’Unità 20.2.11
Le velleità e la realtà
di Luigi Manconi


Sarà pure logora l’immagine del cucchiaino che pretende di svuotare il mare, ma stavolta – davanti a quel Mediterraneo brulicante di fuggiaschi e alle goffe parole dei nostri governanti – può risultare pertinente: e, tuttavia, inadeguata a dare l’esatta misura della sproporzione tra l’enormità dei fatti e la gracilità delle risposte. Risposte di breve, brevissimo respiro se è vero, come è vero, che anche la parola d’ordine orgogliosamente rivendicata dell’azzeramento degli sbarchi si è rivelata un messaggio vaniloquente. Ne è uscita ridicolizzata, ad appena pochi mesi dal suo proclamato successo, la velleitaria “strategia del Mediterraneo” del Governo italiano. Come stupirsene? La politica dei respingimenti e del pattugliamento delle due sponde del Mediterraneo era destinata inevitabilmente per ragioni demografiche, economiche e sociali – al fallimento: ma Silvio Berlusconi, Roberto Maroni e Franco Frattini hanno provato a farci credere il contrario. O forse (il che, per certi versi, è persino più inquietante) erano proprio loro i primi a crederci davvero.
Viene da domandarsi: ma che giornali e libri leggono e a quali paper e dossier ricorrono, questi nostri statisti? Ignorando pervicacemente i dati di realtà e gli effetti dei processi di globalizzazione, hanno affidato l’intera politica per l’immigrazione a due
pilastri, la cui fragilità non ha tardato a rivelarsi: a) la chiusura delle frontiere dell’Italia meridionale e insulare; b) la sudditanza del governo nei confronti dei regimi dispotici dell’Africa settentrionale. Esemplare come sempre, tra inconsapevole umorismo nero e sgangherata politica estera, Berlusconi che, mentre la Libia insorge, dice di «non voler disturbare Mohamed Gheddafi».
Di quei due pilastri della politica per l’immigrazione, il primo ha ceduto immediatamente: il blocco degli sbarchi a Lampedusa ha prodotto l’incremento degli arrivi via mare in Sardegna, in Calabria e in Puglia e, attraverso itinerari più lunghi e pericolosi, in altre regioni. Questi flussi hanno una relazione diretta con i movimenti interni ai paesi di provenienza e si contraggono o si espandono in rapporto alle dinamiche dei blocchi di potere lì dominanti. La crisi che ha scosso e continua a scuotere paesi come la Tunisia, l’Algeria, l’Egitto, la Libia e altri ancora, ha effetti contraddittori: nel breve periodo, produce fughe collettive ma anche nuove ragioni per restare e costruire lì un futuro diverso. Nel medio e lungo periodo, determinerà grandi movimenti migratori: sia perché l’irrisolta crisi economica mondiale non offre adeguate soluzioni locali, sia perché le nuove generazioni non possono trovare in quei paesi risorse adeguate alle proprie crescenti aspettative.
I nuovi migranti saranno giovani e giovanissimi, provenienti da controverse esperienze di democrazia, con livelli medio-alti di istruzione ed elevate competenze tecnico-scientifiche, dotati di strumenti di informazione e comunicazione e titolari di una identità storico culturale, disposta alla negoziazione ma non alla rinuncia. La sfida che ci aspetta è, dunque, assai difficile. Meglio esserne consapevoli che affidarsi alle motovedette della Marina italiana.

l’Unità 20.2.11
Intervista a Massimo Livi Bacci
«Se salta il tappo libico emergenza in Europa»
Per il demografo un crollo del regime di Gheddafi nel caos causerebbe un esodo molto più massiccio rispetto alla fuga in corso dalla Tunisia
di Umberto De Giovannangeli


Se crollasse il feudo del Colonnello Gheddafi e nell’ipotesi che tale crollo sia rapido e non si traduca in una lunga e sanguinosa rivolta è pensabile che un nuovo regime voglia rispettare gli accordi presi con l’Italia, e il “tappo” mediterraneo tornerebbe al suo posto. In caso contrario una ripresa massiccia dei flussi irregolari sarebbe inevitabile e bisognerebbe attrezzarsi per “emergenze” assai più gravi e prolungate di quella tunisina». A sostenerlo è uno dei più autorevoli Demografi italiani: il professor Massimo Livi Bacci. Dopo la Tunisia, la rivolta nel Maghreb investe la Libia di Gheddafi. Se salta il «tappo» libico quali ricadute ciò potrà avere sulla dinamica e i caratteri dei flussi migratori nel Mediterraneo ?
«Se crollasse il feudo del Colonnello Gheddafi e nell’ipotesi che tale crollo sia rapido e non si traduca in una lunga e sanguinosa rivolta è pensabile che un nuovo regime voglia rispettare gli accordi presi con l’Italia, e il “tappo” mediterraneo tornerebbe al suo posto. In caso contrario una ripresa massiccia dei flussi irregolari sarebbe inevitabile e bisognerebbe attrezzarsi per “emergenze” assai più gravi e prolungate di quella tunisina (ammesso che questa si stia esaurendo). Va tenuto in conto, poi, la specificità libica, Paese piccolo demograficamente (7 milioni di abitanti) ma nel quale vive una massa di immigrati irregolari valutata tra uno e due milioni, assai superiore al numero totale degli irregolari degli altri Paesi nordafricani. Come tutti i Paesi la cui ricchezza è fondata sul petrolio, una parte considerevole della manodopera è immigrata. Gran parte proviene dall’Africa subsahariana e la Libia è il principale Paese di destinazione e di transito. Quindi, occhi puntati sulla Libia, per restituire l’Accordo bilterale al rispetto della Convenzione di Ginevra Gheddafi o non Gheddafi e per la funzione di terminale principale dei flussi africano diretti a nord».
In che termini l’Italia e l’Europa dovrebbero ripensare la loro politica verso quei Paesi in rivolta? «Va ricordato che i Paesi europei si sono mossi autonomamente, per quanto riguarda il controllo delle migrazioni Mediterranee, e delle acque atlantiche. A partire dalla metà degli anni ’90, la Spagna ha sviluppato una politica assai articolata per interrompere i flussi irregolari attraverso lo stretto di Gibilterra e tra la costa Africana e le Canarie. Tale politica si è basata su complessi accorche hanno riguardato il controllo delle partenze, la riammissione degli irregolari, la concessione di quote di ingressi legali riservate. E poi la messa in opera del “Sive” (Sistema Integrato di Vigilanza Esterna) per monitorare, seguire, intercettare il traffico marittimo, con mezzi aerei, elettronici, di intelligence. Questa politica è stata efficace ed ha ridotto notevolmente i transiti irrregolari. La politica delle intercettazioni e dei respingimenti concordata con la Libia si muove nella stessa direzione; a prescindere dalle violazioni del dettato della Convenzione di Ginevra sull’asilo (cui si potrebbe, e dovrebbe, porre rimedio senza rinunciare ai controlli e alla loro efficacia) per un anno e mezzo i transiti si sono notevolmente ridotti. Nel Mediterraneo orientale l’Agenzia Frontex nei limiti delle sue capacità, che sono modeste, e degli accordi con i singoli Paesi dovrebbe svolgere analoghe azioni di sorveglianza. Perché queste politiche siano accettabili ed efficaci occorre che sussistano varie condizioni. La prima è che ci sia la cooperazione dei Paesi di origine e transito della migrazione. Se questa viene a mancare come è avvenuto nella prima fase del cambio politico in Tunisia le politiche cadono. Gli accordi debbono essere convalidati dai nuovi governanti, che possono anche rifiutarsi di farlo, o chiedere modifiche, o moratorie, e comunque debbono esserci nuovi governi nel pieno delle loro funzioni. Gli oltre 5000 migranti dalla Tunisia approdati sulle coste italiane in pochi giorni, sono la conseguenza di una “finestra” che si è spalancata in conseguenza della rivolta. Occorre vedere come e quando essa sarà richiusa dal nuovo governo. Lo stesso discorso può valere per gli altri Paesi arabi del Nord Africa...».
E la seconda condizione?
Perché le politiche di contenimento dei flussi irregolari funzionino, è necessario che esse siano coordinate, e che non presentino discontinuità, anche geografiche. Occorre valutare non emotivamente il fatto che c’è una forte “domanda” di passaggi irregolari, e c’è quindi chi risponde a questa domanda fornendo il passaggio. Si tratta di traffico criminale ma anche della “fornitura di un servizio” che ha costi, rischi e quindi un prezzo (1000, 1500 euro per i tunisini sbarcati a Lampedusa). I traffici si spostano dove esistono smagliature o discontinuità nei controlli; gli sbarchi avvengono in nuovi tratti di costa; i natanti si specializzano; le rotte cambiano. Una terza condizione è che l’Europa coordini questa azione, sia negoziando gli accordi di cooperazione e riammissione, sia mettendo a disposizione di questi accordi adeguate risorse. La crisi finanziaria ha compresso i fondi per la cooperazione, ma occorrerà allargare i cordoni della borsa per proporre accordi convincenti».

l’Unità 20.2.11
Intervista a Yann Richard
«Dal Maghreb all’Iran la voglia di cambiare non ha un unico volto»
Secondo lo studioso francese si può parlare di un’ondata rivoluzionaria dovuta a una sorta di effetto domino, ma non bisogna trascurare le grandi differenze storiche, sociali, culturali ed economiche fra un Paese e l’altro
di Anna Tito


Ritengo, da storico, che possano prodursi ondate rivoluzionarie, come quella della Primavera dei Popoli del 1848 in Europa. In maniera analoga il contagio delle rivolte tunisina ed egiziana va estendendosi a Bahrein, Iran, Libia». Così all’Unità l’islamista ed iranologo francese Yann Richard. «Ma vanno evitate le generalizzazioni», avverte. Di quale tipo?
«Porto a esempio i casi delle rivoluzioni tunisina ed egiziana, che, a mio avviso non avranno il medesimo sbocco, almeno per il momento. L’esercito egiziano, gestendo potere, polizia ed economia, amministra il Paese con un certo equilibrio. Il contesto appare ben diverso rispetto al dibattito democratico ed alla partecipazione alla vita politica da parte della classe media tunisina. Quanto a Bahrein, si scontrano la comunità degli sciiti e quella dei sunniti: i primi si sentono oppressi e poco rappresentati, e alcuni di loro sono scesi in piazza nel tentativo di sbloccare un regime elitario e ostile alla maggioranza sciita. La Libia costituisce un caso ancora diverso, con un sistema del tutto sclerotizzato e corrotto, in cui Gheddafi, con i proventi del petrolio, può permettersi di comprare tutti – e sottolineo tutti i movimenti sociali».
Chi avrebbe interesse a una rivoluzione in Libia? «Credo che le élites, composte da quanti hanno lasciato il Paese per motivi politici e che auspicano un cambiamento, vedano di buon occhio la causa democratica, suscettibile di far esplodere questo impero protetto da muraglie d’oro massiccio. La Libia si trova collocata geograficamente fra Tunisia ed Egitto, e non può ignorare quanto accade alle frontiere. Il contagio appare inevitabile, specie da quando Gheddafi, in maniera demenziale, si disse disposto ad ospitare Ben Ali in fuga». Ritiene che l’Europa abbia delle responsabilità negli avvenimenti passati, e presenti, nel mondo arabo? «Attribuirei non poche responsabilità all’imperialismo occidentale. Per più decenni abbiamo dormito sonni tranquilli grazie alle solide dittature che governavano quei Paesi, in quanto ci proteggevano dall’islamismo, dalle rivoluzioni sociali, nonché da un’altra guerra con Israele. Ora paghiamo a caro prezzo il nostro torpore e la nostra miopia. Gli americani, ad esempio, sono in grave difficoltà: sull’Egitto Obama ha fatto il doppio gioco, in quanto non auspicava una rivoluzione, ma ha agito in modo che ne esplodesse una, finta però. Proviamo a immaginare che se ne scateni una vera, sociale e ideologica, simile a quella iraniana del 1979».
In Iran sia il regime sia le opposizioni hanno sostenuto le proteste in Egitto e in Tunisia. Come lo spiega? «Il regime ha sostenuto i diversi movimenti, e l’opposizione ha ripreso il tema, con una mossa poi risultata molto abile. Ma in realtà in Iran l’opposizione non esiste: la Repubblica islamica ha via via neutralizzato o annientato i diversi movimenti contestatari volti al rinnovo e all’apertura; per ultimo il primo Presidente riformista Khatami, al potere dal 1997 al 2005, ha cercato di liberalizzare un po’ il regime, ma troppo timidamente, e in tal modo ha fatto sì che durasse».
Può a questo punto, a suo avviso, esplodere il regime? «Non credo proprio, almeno per due ragioni, di cui noi occidentali siamo in parte responsabili: in primo luogo l’Iran vanta un’ottima situazione finanziaria; e poi la sua posizione viene sempre più consolidata dalla durata del conflitto palestinese, in quanto nel mondo musulmano gli iraniani, seppure in maniera del tutto strumentale, sono gli unici a sostenere davvero i palestinesi. Al Cairo, così come nelle banlieues parigine dove vivono molti immigrati nordafricani, Ahmadinejad è un mito, in quanto sostiene Hamas ed Hezbollah contro Israele».
Quali ritiene siano le prospettive del regime iraniano? «Tutto va piuttosto male, c’è rabbia per l’aumento dei prezzi, le ingiustizie sociali, la corruzione. Giovani, professionisti, ceti medi auspicherebbero un’evoluzione politica. Ma a mio avviso il regime è ancora molto forte, e può permettersi di minacciare l’impiccagione di personalità quali Mousavi e Karroubi, che non mi appaiono però buoni leader, specie Mousavi che negli anni ’80 rimase inerte dinanzi alla violenza politica del suo governo». Non riscontra nella rivolta iraniana una necessità di laicità dello Stato, un desiderio di farla finita con l’islamismo radicale?
«Dal 2009 i manifestanti anti-governativi chiedono una qualche separazione della religione dalla politica, ma mai si sono espressi apertamente contro la Repubblica islamica. Il pensiero laico in Iran esiste e progredisce, e gli eccessi della Repubblica islamica hanno guarito gli iraniani dalla fascinazione dell’Islam politico. Quindi, in caso di futuro ed eventuale cambiamento di regime, esso sarà piuttosto laico e pluralista. Ma per ora questa prospettiva mi appare prematura».

Corriere della Sera 20.2.11
«Alla fine noi musulmani porteremo la guerra a Gerusalemme»
di Lorenzo Cremonesi


DAL NOSTRO INVIATO ALGERI — «Un Medio Oriente democratico e islamico per forza di cose tornerà a fare la guerra con Israele. Mi sembra inevitabile. Non vedo come potrebbe andare diversamente. La Palestina è terra sacra per l’Islam, alla fine anche i Fratelli Musulmani in Egitto si lanceranno alla sua riconquista, con il sostegno di tutti noi» . Sdraiato sui tappeti in una casupola tappezzata di libri religiosi nel quartiere di Kalitous, una delle tante periferie povere della capitale, Alì Belhadj racconta per oltre due ore la sua visione per il futuro del Medio Oriente. Numero due del Fis, il Fronte di Salvezza Islamico (il numero uno, Abassi Madani, è in esilio nel Qatar), il movimento che nel 1991 aveva vinto le elezioni in Algeria e poi venne duramente combattuto dal governo laico con il sostegno dell’esercito, Belhadj da allora ha trascorso almeno 15 anni in cella. Oggi è in libertà condizionata. Sabato 12 febbraio era in piazza a manifestare contro il regime di Abdelaziz Bouteflika. Ieri gli è stato impedito. A 53 anni resta la bestia nera del fronte laico di protesta, che accusa i militari di esagerare la sua importanza per criminalizzare l’intero movimento. Il figlio ventenne, Abdelkahar, dall’ottobre 2006 è alla macchia, si pensa con le colonne di Al Qaeda operanti nel deserto magrebino, le stesse che rivendicano il rapimento della turista italiana Maria Sandra Mariani il 2 febbraio nell'oasi di Djanet. In quale veste lei si unisce alle manifestazioni? «Come semplice cittadino. Rispondo agli appelli dei movimenti democratici. Lotto per cambiare il sistema, abbattere questa dittatura corrotta che voi occidentali aiutate in ogni modo» . L’Occidente teme i gruppi islamici radicali come il suo. Come può rassicurarlo? «Ci temono perché non ci conoscono. Europa e Stati Uniti non ricordano che nel 1991 noi avevamo vinto le elezioni municipali in modo assolutamente democratico. Il popolo ci aveva scelto a grande maggioranza. Ma poi la dittatura militare ci ha cacciato. Con il vostro pieno sostegno» . Una delle paure oggi è che i partiti islamici possano cancellare gli accordi di pace firmati da Egitto e Giordania con Israele. Lei che farebbe? «Lo sceglierà il popolo, sarà una decisione libera. Io penso che comunque Israele sia paragonabile alla Francia coloniale in Algeria prima del 1962. Era un corpo estraneo, artificiale. Alla fine è stata scacciata. Ma, ci tengo a sottolinearlo, la nostra è una lotta politica contro Israele, non una campagna religiosa contro gli ebrei» . Lei parla di democrazia, però più volte gli estremisti islamici hanno sostenuto di non accettare i modelli politici occidentali. «Io credo al modello islamico dei primi califfati dopo Maometto. Da voi persino Jean-Jacques Rousseau e Churchill pensavano che la democrazia rappresentativa non fosse perfetta» . Eppure c’è una componente profondamente laica nelle rivolte delle ultime settimane. In Tunisia è fortissima. «L'Algeria non è la Tunisia. Da noi, come del resto in Egitto, le dittature hanno metodicamente perseguitato le forze religiose. Non abbiamo avuto modo di farci conoscere» . È pronto a condannare il terrorismo islamico? «Siamo contro la violenza. Io non ho partecipato al decennio del terrorismo in Algeria, allora ero in carcere. Ma in quei fatti lo Stato ha responsabilità dirette» . Nel Medio Oriente attuale qual è per lei il governo migliore? «Quello turco di Erdogan» . Se sapesse che suo figlio è tra i rapitori della turista italiana gli direbbe di liberarla? «Non so nulla di lui da molto tempo. Mi dicono persino che potrebbe essere in Francia» .

La Stampa 20.2.11
“L’omosessualità? Un male da guarire”
Monsignor Rigon, vicario del Tribunale ecclesiastico: “Ma se è incancrenita purtroppo non si può superare”
di Alessandra Pieracci


Secondo monsignor Paolo Rigon «non si nasce omosessuali»
«Nessuno nasce così, un aiuto può arrivare dalla psicoterapia»

Il nostro intento è quello di far passare un messaggio: il problema dell’omosessualità è indotto perché non si nasce omosessuali, salvo rarissimi casi di gravi disturbi ormonali. Bisogna dunque prenderla dall’inizio e allora si può superare con la psicoterapia. Ma se l’omosessualità è incancrenita è molto più difficile. Non c’è matrimonio che possa aiutare questa persona. Deve essere affrontata nella prima adolescenza, ne sanno qualcosa i nostri consultori».
Così monsignor Paolo Rigon, vicario giudiziale presso il Tribunale ecclesiastico della Liguria, ha spiegato nel dettaglio quanto appena sostenuto nella sua relazione alla cerimonia di apertura dell’anno giudiziario, presente il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei. Affrontando il tema dell’incapacità a essere fedeli come causa di nullità del sacramento del matrimonio, monsignor Rigon ha detto: «Il caso drammatico è quello dell’omosessualità che qualcuno spera di vincere o di mascherare appunto con il matrimonio, ma è un’illusione, non sarà possibile, in concreto, restare fedeli al coniuge».
Che cosa può fare allora un omosessuale? «Prendere coscienza della propria situazione e gestirla, ma non in senso sessuale, bensì impostando una vita gioiosa in modo donativo, senza coinvolgere un altro». Non è possibile la fedeltà tra due uomini? «In teoria tutto è possibile, in pratica sappiamo che non è così».
La giustizia ecclesiastica distingue tra due tipo di infedeltà, «l’atto positivo di volontà» e «una patologia». «Se il comportamento di un coniuge fedifrago è macroscopico - dice monsignor Rigon nella relazione che di anno in anno affronta uno dei motivi di nullità - c’è da pensare che vi sia qualche problema a livello psicologico o neurologico o psichiatrico, da valutare con una perizia».
I semi dell’infedeltà, secondo il vicario giudiziale, vengono gettati molto presto dalla pornografia: «La pornografia dilagante e invadente presenta la vita sessuale, tra l’altro in qualunque forma e manifestazione, come fine a se stessa, del tutto separata dall’affettività, ossia per puro piacere e divertimento». Altro aspetto di questo problema è appunto «quello della tendenza o del “genere”, di cui oggi si parla molto, in forza del quale si può anche giungere a scegliere come si vuol vivere la propria sessualità se in modo eterosessuale o in modo omosessuale o in alternativa o in simultanea».
Al di là della relazione ufficiale, il prelato è ancora più esplicito: «Nella ricerca del piacere sessuale fine a se stesso tutto va bene e si finisce con le ammucchiate e gli scambi di coppia che, come stiamo osservando, sono molto frequenti».
Invece la fedeltà è un valore assoluto. «Bisogna recuperare la categoria della fedeltà - è l’esortazione del presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco - anche sul piano della vita in generale, del lavoro, come la categoria che realmente consente nella ripetizione motivata dei propri doveri la costruzione dell’uomo. Anche in politica». Oggi «la fedeltà è una categoria come ben noto un po’ fuori moda dal punto di vista culturale, perché sembra sinonimo di noia, di prigione della libertà».
«Il contesto culturale che respiriamo pone al centro l’individuo, con le sue esigenze, con le sue emozioni, con i suoi desideri - conclude il cardinale - che sembrano essere diventati sempre più il criterio di giudizio per la vita concreta sia dell’individuo che della società che ne consegue, anziché mettere al centro la persona, con i suoi impegni verso le scelte assunte, nella sua dimensione essenziale costitutiva di relazionalità, non di auto referenzialità».

La Stampa 20.2.11
Ma il teologo lo condanna: “Una definizione azzardata”
La rabbia dei gay: «La Chiesa rimuove un tema di cui essa stessa è pervasa»
di Giacomo Galeazzi


«Rigon spera spera di estirpare l’omosessualità: certi monsignori non comprendono la natura umana e si lanciano in giudizi fuori dal tempo - protesta Aurelio Mancuso, cattolico e presidente di “Equality Italia” -. I tribunali ecclesiastici affrontano l’emersione della condizione omosessuale. Molti gay si uniscono in matrimonio poi non riescono a mantenere la condizione innaturale di coniuge eterosessuale».
Dunque, «l’ipocrisia è sconfitta, ma esplodono sofferenze e giuste recriminazioni da parte di chi era all’oscuro della condizione sessuale del coniuge», sottolinea Mancuso che chiede «perché la Chiesa rimuove un tema di cui essa stessa è pervasa, negando le determinazioni scientifiche invece di riconoscere che l’omosessualità non è una malattia e l’avversione nei confronti dei gay è la difesa di antiche superstizioni e pregiudizi».
Anche sotto il profilo teologico la questione è controversa. «Dubito che l’omosessualità sia un impedimento alla validità del matrimonio e quindi causa di nullità matrimoniale. È un discorso rischioso e facile da strumentalizzare per ottenere una dichiarazione di nullità, comoda e facilmente utilizzabile a volontà - osserva il teologo Gianni Gennari -. Definirla una malattia, poi, è un giudizio di tipo medico e tocca anche la psiche: non è compito di un uomo di Chiesa azzardare una definizione del genere». Nessun dubbio, invece, che «l’esercizio della sessualità in versione omosessuale è una violazione della legge morale ebraico-cristiana, dunque è infondato il richiamo alla sua “naturalità”».
Non tutto ciò che è o appare naturale è buono, precisa Gennari: «Per molti sono naturali l’ira e l’atteggiamento violento, ma le azioni che ne conseguono sono peccato». La natura umana «non è una natura perfetta, bensì segnata dal limite della peccabilità». Il catechismo parla di peccato originale. «Certe azioni verrebbero “naturali” (invidia, ira, appropriazione delle realtà e delle persone altre a scopo di potere) ma sono peccati», sottolinea Gennari. Perciò «dire che l’esercizio della omosessualità è peccato è parte del dovere di verità nell’ambito religioso dell’etica cristiana». Prova a mediare il vescovo di Mazara, Domenico Mogavero: «Gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati e contrari alla legge naturale, dunque in nessun caso possono essere approvati, ma ciò non significa che con le persone omosessuali non debbano trovare ascolto e comprensione nella Chiesa».

La Stampa 20.2.11
Intervista
Corpo a corpo con l’inconscio di Jung
Parla Samu Shamdasani, che ha curato l’edizione del visionario Libro rosso “Pagine cruciali per capire la sua opera”
di Alessandra Iadicicco


L’ESPLORATORE DELLA PSICHE «Vide la sua vita spezzata in due dal flusso di immagini che lo investì»
UN TESTO ESOTERICO «Raccoglie la materia prima e le intuizioni fondamentali rielaborate fino alla fine»

La ricerca di un tesoro, la scoperta di un segreto, l’apertura di un mistero. Questo è stato per Samu Shamdasani lavorare alla cura, alla traduzione e alla prima edizione mondiale del Libro rosso di Carl Gustav Jung. Pubblicato per la prima volta a Londra nel 2009 nella sua versione inglese e, l’anno successivo, nel resto del mondo (in Italia è uscito da Bollati Boringhieri), il testo esoterico contiene la visione del bagno di sangue europeo che assalì lo psicologo alla vigilia della Prima guerra mondiale. E il grandioso cosmo immaginifico perscrutato per anni dopo quella esperienza dal grande esploratore dell’inconscio. Chiuso nella cassaforte di una banca svizzera dopo la morte dell’autore, il capolavoro viene oggi alla luce come un oggetto davvero prezioso. Shamdasani, ieri a Torino, al Circolo dei Lettori, per una giornata di studio su «Jung e il Libro rosso », ci ha raccontato come vi si è accostato. Per maneggiarlo con grandissima cura.
Professor Shamdasani, come ha vissuto il corpo a corpo con un testo simile?
«Come dice Rilke, “ciò che conta è sopravvivere”. Jung vide la propria vita spezzata in due dal flusso di immagini che lo investì con le visioni narrate nel testo. E per me l’incontro con lo Jung del Liber novus - il cosiddetto Libro rosso - è stata un’esperienza analoga. Ho lavorato a questo progetto per tredici anni. Per portarlo alla luce ho dovuto vivere sulla mia pelle alcune delle esperienze che vi sono descritte. Metaforicamente si può dire che è davvero un libro scritto col sangue. E, oserei dire, curato col sangue. Per il rispetto della sua segretezza, il lavoro su questo testo mi ha costretto a troppi anni di forzata solitudine. Discutere poi i nodi della traduzione dal tedesco con Mark Kyburz e John Peck è stato per me davvero un sollievo. Il momento più bello fu quello in cui, alla tipografia della Mondadori a Verona, abbiamo visto uscire dalle presse la prima pagina stampata. Dopo tanti anni di attesa e di duro lavoro pareva impossibile che l’opera potesse mai vedere la luce».
L’originale, l’autografo su cui è basato tutto il suo lavoro, che aspetto aveva?
«Nel volume rilegato in pelle rossa e intitolato Liber novus Jung aveva scrupolosamente riportato, in caratteri calligrafici analoghi alla scrittura gotica, il contenuto dei sette taccuini neri in cui aveva steso la prima versione del testo. In più aveva aggiunto una tavola di abbreviazioni, le iniziali miniate, i margini decorativamente istoriati, i sontuosi disegni. Inizialmente le illustrazioni rappresentavano le scene descritte nel testo. Poi si fecero via via più simboliche, alludendo a un’ulteriore elaborazione della sua personale cosmologia. L’opera prende chiaramente a modello l’iconografia dei manoscritti medievali, un’epoca della storia dell’umanità che, secondo Jung, ciascuno rivive nello sviluppo della propria psiche. Ma l’opera che più assomiglia a una simile composizione di scrittura e figure sono i poemi visionari di William Blake».
Il Libro rosso è scritto in prima persona: può essere considerato un diario?
«Jung vi descrive il proprio più radicale confronto con l’inconscio. Racconta il periodo più importante della sua vita. Raccoglie le intuizioni fondamentali e la materia prima che fino alla fine avrebbe continuato a rielaborare e integrare. È il testo cruciale per capire l’intera sua opera. Ed è il libro in cui Jung ebbe il coraggio di sondare, affrontare ed esporre tutti gli aspetti dell’esistenza: il sublime e l’assurdo della vita».
E nella sua vita, professore, come è entrato un libro simile? Lei insegna a Londra storia della psichiatria, ma proviene dall’Oriente: com’è giunto all’opera di Jung?
«Sono nato a Singapore, ma sono cresciuto in Inghilterra. Ho incontrato Jung per la prima volta quando, adolescente, viaggiavo attraverso l’India in cerca di un maestro. La prima delle sue opere con cui mi cimentai fu il commento a Il segreto del fiore d’oro : per me la porta d’ingresso alla psicologia. All’epoca vidi il testo come la promessa di una possibile mediazione tra il misticismo orientale e la razionalità occidentale».
Com’è stato coinvolto nell’edizione del Libro rosso e come ha convinto gli eredi di Jung a pubblicarlo?
«Per anni ho compiuto ricerche storiche sulla formazione dell’opera junghiana e, nel 1994, mi fu assegnata la cura dei suoi seminari del ’32 su La psicologia dello yoga Kundalini . Fu allora che entrai in contatto con alcuni membri della famiglia Jung, avviai le mie ricerche in Svizzera e inaugurai il primo studio sistematico dei suoi scritti inediti, discutendo con la famiglia l’eventualità di pubblicarli. Studiando quelle carte, scoprii che Jung nel 1920 aveva fatto trascrivere da Cary Baynes il Liber novus e mi misi sulle tracce di quella copia. Nel ’96 la figlia di Baynes, Ximena de Angulo, mi scrisse di aver forse trovato in uno scaffale il libro che stavo cercando, e me ne spedì le prime pagine. Si trattava dell’unica parte del testo che fosse mai stata citata, così lo riconobbi al volo. Scoprii anche che Cary Baynes negli Anni 50 aveva ottenuto da Jung il permesso di spedire il manoscritto al suo editore, Kurt Wolff, e chiesi al figlio di costui se ne fosse in possesso. Mi rispose di aver donato l’intera biblioteca del padre alla Beinecke Library dell’Università di Yale, dove mi recai l’anno successivo e trovai la prima parte del Liber novus , compreso nei manoscritti originali dei Ricordi, sogni, riflessioni di Jung. Mostrai il testo agli eredi di Jung, ignari allora del fatto che quegli scritti fossero noti agli stretti collaboratori dell’autore, e che ne fossero circolate delle copie. Iniziarono così tre anni di confronti e discussioni in cui io fornii alla famiglia i documenti necessari a dimostrare che il Liber novus - pur scritto in prima persona e fitto di memorie e visioni personali - non era un documento privato bensì un testo destinato alla pubblicazione. La decisione di darlo alle stampe fu presa nel 2000, e a me fu affidata la sua cura. È stata una grandissima soddisfazione e l’inizio di un grandioso lavoro di scoperta».

Corriere della Sera 20.2.11
Il Grande Balzo cinese, 201 milioni di ricchi
Nel 2015 saranno pari alla popolazione di Italia, Francia e Germania messe insieme
di Paolo Salom


L’hanno preso in parola. O meglio, hanno preso le sue parole e le hanno trasformate in realtà. Che realtà: Deng Xiaoping diceva ai concittadini ancora intossicati dal pauperismo maoista, agli inizi degli anni Ottanta: «Diventare ricchi è glorioso» (zhifu guangrong). Trent’anni di riforme più tardi, i «ricchi» cinesi sono 95 milioni, più dei cittadini dell’intera Germania. Ma è il futuro che impressiona, quello che accadrà entro poco, almeno secondo un rapporto del centro studi di Confindustria. Nel 2015, infatti, cioè tra quattro anni, i benestanti della Repubblica Popolare — popolazione totale: un miliardo 350 milioni — saranno 201 milioni, ovvero quanti sono i cittadini di Italia, Francia e Germania messe insieme. La Cina dei ricchi batte i Grandi d’Europa, insomma. Ma il traguardo sarà superato e messo in soffitta nello spazio di un amen: nel 2020, i nuovi paperoni cinesi saranno 424 milioni, sempre secondo lo studio di Confindustria. E allora la popolazione eguagliata sarà quella dell’intera Europa Occidentale. Va bene, queste cifre da capogiro valgono fino a un certo punto. Va bene, in percentuale, i ricchi in Cina saranno sempre una minoranza in quell’immenso Paese. Però che minoranza. Con un reddito (a parità di potere d’acquisto) di 30 mila dollari, paragonabile a quello degli europei, questi cittadini potranno permettersi un livello di vita che ai loro genitori— non ai loro nonni— doveva apparire solo pochi anni fa non solo irraggiungibile ma, soprattutto, un’utopia. E non soltanto per motivi ideologici (che pure avevano la loro importanza nella Cina del passato). Oggi seconda potenza economica mondiale dietro gli Stati Uniti e davanti al Giappone, appena superato, la Repubblica Popolare si avvia a diventare da fabbrica del mondo a centro dei consumi mondiali. Un piccolo dato italiano che può aiutare a capire perché quando una farfalla sbatte le ali a Pechino noi tutti ne subiamo le conseguenze. Nel 2010, secondo la Coldiretti il valore delle esportazioni di vino italiano verso la Cina sono più che raddoppiate (+109%). Il mercato di putaojiu — il vino in cinese — è un’invenzione della Cina post-riforme. Un po’ come quello delle auto di lusso, Ferrari in testa (300 auto vendute nel 2010): da zero a valori miliardari in pochi decenni. Lo stesso vale per i prodotti agro-alimentari tipici del nostro Paese: qui l’aumento delle esportazioni verso l’Oriente di Grana Padano o Parmigiano Reggiano è a più 170%(la Coldiretti precisa che i volumi restano limitati, data la scarsa propensione dei cinesi verso i latticini), mentre per i diversi prodotti l’aumento delle esportazioni, in valore complessivo, è pari al 57%. Numeri, numeri, numeri. Dietro queste cifre, tuttavia, non si nascondono aride statistiche. Ma una realtà in divenire che, giustamente, ha portato a battezzare il ventunesimo secolo, il «secolo cinese» . Questi dati sottolineano come i nuovi ricchi d’Oriente diventeranno un’importante fonte di domanda mondiale e dunque, spiegano nel loro studio a Viale dell’Astronomia, un popolo di consumatori «molto rilevante per le imprese italiane, in particolare per i produttori di beni di fascia medio-alta, che devono fare i conti con la debolezza della domanda dei consumatori occidentali» . In base alle stime di Confindustria, nei prossimi dieci anni i consumi della classe benestante cinese dovrebbero passare dal 36%del Pil nel 2010 al 50%nel 2020, pari a 5.575 miliardi, ossia il 10,3%dei consumi mondiali. Aumentare il contributo dei consumi alla crescita del gigante asiatico è anche uno degli obiettivi prioritari del dodicesimo Piano quinquennale di Pechino per il periodo 2011-16. Tuttavia Confindustria avverte che la Cina è un Paese immenso e quindi «diventa essenziale per le imprese, non solo avere una stima della dimensione presente e futura della classe benestante, ma anche localizzarla, distinguendo tra province e tra aree urbane e rurali» . Insomma, va bene cercare di vendere buon vino e abiti firmati ai cinesi, ma attenti a non sbagliare destinazione. Nelle campagne aspettano ancora di entrare nell’epoca dei consumi: la rivoluzione borghese, lontano dalle città, non è ancora arrivata.

Corriere della Sera 20.2.11
Usa, il declino dei diritti sindacali
di Massimo Gaggi


Dopo il Wisconsin, l’Ohio, il Tennessee e l’Indiana. E nei prossimi giorni toccherà a Florida, New Jersey e Pennsylvania. Alimentato dal vento di bancarotta che spira su molti degli Stati dell’Unione, l’incendio dei diritti sindacali del pubblico impiego si sta propagando a tutta l’America. E apre un’inedita finestra sulle conseguenze che la crisi della finanza pubblica, ormai dilagante in tutti i Paesi avanzati, è destinata ad avere su trattamenti e istituti contrattuali che sembravano intoccabili. Chi ritiene che quello che sta accadendo negli stabilimenti industriali esposti alla concorrenza asiatica — dai capannoni della General Motors in Michigan a Mirafiori— non può riguardare in alcun modo i settori «protetti» del pubblico impiego dovrebbe dare un’occhiata a quello che sta accadendo negli Usa. Dove la chiave che potrebbe scardinare i meccanismi contrattuali esistenti non è la concorrenza dei Paesi emergenti «low cost» , ma la scelta di puntare sulla rabbia dei cittadini contribuenti: i più lavorano per un settore privato che ha già tagliato loro lo stipendio e talvolta anche la polizza sanitaria e i benefici pensionistici. Ora rischiano di dover pagare più tasse per consentire a insegnanti e dipendenti comunali di continuare a godere di trattamenti più generosi dei loro. Il «basta coi sindacati che negoziano tutto, anche la mutua: lasciamogli solo la contrattazione sul salario base» sembrava l’invettiva populista di un governatore appena eletto che da Madison, una minicapitale sperduta nelle pianure del Mid West, cercava il consenso della nuova destra radicale e rigorista dei Tea Party. I democratici avevano subito cercato di costringerlo sulla difensiva bollandolo come un Mubarak ammazza diritti. I loro deputati del parlamento del Wisconsin, poi, hanno abbandonato lo Stato per far mancare il numero legale al momento di votare la nuova legge sul pubblico impiego. Lo stesso Barack Obama è sceso in campo definendo quella del governatore «un’aggressione» . Scott Walker, però, non si è spaventato né per la sortita della Casa Bianca né per la rivolta degli 80 mila insegnanti che da quattro giorni paralizza le scuole dello Stato né per l’assedio di 25 mila manifestanti al palazzo del governo. Ha detto che terrà duro perché «la voce della gente che manifesta qua fuori non può prevalere sugli interessi del popolo del Wisconsin» al quale non si possono chiedere altri sacrifici per pagare i benefici delle categorie protette. Discorso coraggioso e non privo di una sua logica, ma con due punti deboli. Limitare i diritti negoziali alla paga base è sicuramente inaccettabile. Un confronto con l’Italia (dove, ad esempio, con la sanità «universale» non ci sono polizze di base da negoziare) non è facile. Comunque è chiaro che la crisi fiscale di amministrazioni pubbliche che non hanno più risorse da distribuire sta cambiando i termini del problema. Un’idea delle tendenze in atto la offre Vallejo, la città in bancarotta della California dove, come ha raccontato il Corriere qualche giorno fa, il sindaco (democratico) ha ottenuto una rivoluzione dei contratti del pubblico impiego che ora non contemplano più, ad esempio, scatti d’anzianità e indennità supplementari. Il secondo limite dell’iniziativa del Wisconsin è che Walker non ha avuto il coraggio di toccare il «sancta sanctorum» del pubblico impiego: pompieri e poliziotti. Garantiscono la sicurezza dei cittadini e la retorica pubblica li indica spesso come «eroi» , ma sono anche quelli con gli stipendi più elevati e vanno in pensione prestissimo: i loro diritti per ora non vengono toccati. Intanto, altri Stati si stanno muovendo nella stessa direzione: la decisione di John Kasich, neogovernatore repubblicano dell’Ohio, di seguire le orme di Walker sta incendiando anche questo Stato dove nel weekend sono state indette varie manifestazioni. In Tennessee una legge che abolisce i diritti di negoziazione dei sindacati degli insegnanti è stata già approvata dalla commissione senatoriale; presto verrà votata in aula dal Parlamento locale. Il governatore dell’Indiana Mitch Daniels (un possibile candidato presidenziale), sta preparando una misura simile. Daniels, che ha cominciato fin dal 2005 a «limare» gradualmente gli spazi negoziali nel pubblico impiego, una settimana fa, a Washington, si è preso l’ovazione della convention dei conservatori gridando che la nuova «Minaccia rossa» non è quella del comunismo ma quella che viene dall’inchiostro dei bilanci di Stati e governo federale. Che fra due settimane rischia di dover chiudere i battenti (stop delle attività non essenziali) se democratici e repubblicani non si metteranno d’accordo sull’aumento del tetto del deficit pubblico: un compromesso difficile (proprio ieri la Camera a maggioranza repubblicana ha approvato un pacchetto di tagli da 60 miliardi che il Senato ancora in mani democratiche e Obama non ratificheranno mai) che è reso ancor più problematico proprio dal «muro contro muro» innescato dalla battaglia del Wisconsin.

Corriere della Sera 20.2.11
I bulli costretti alla messa Se la fede diventa un dovere
di Marco Ventura


I l Tribunale dei minori di Mestre ha disposto per due minorenni di Bassano del Grappa, responsabili di rapina ed estorsione a danno di coetanei, un anno di «messa alla prova» sulla base del quale valutare se e quali pene infliggere loro. Si tratta di un provvedimento normale per la giustizia minorile. Ed è anche normale che la prova consista in un intenso impegno scolastico, nel volontariato e nella riconciliazione con le vittime, il tutto sotto la sorveglianza dei servizi sociali del Comune. E’ a questo punto che giunge la sorpresa: il Tribunale di Mestre ha aggiunto ai vari obblighi consueti, quello straordinario di andare in chiesa la domenica. Così, un caso che poteva essere come tanti altri diventa eccezionale e rimbalza alle cronache. Il dibattito si apre. Il nostro diritto minorile è avanzato e, salvo eccezioni, interpretato con scrupolo. Il periodo di osservazione è un istituto importante, che chiede al giudice fantasia e misura. Includendo la messa domenicale nella «prova» , il Tribunale di Mestre ha seguito lo spirito della legge o ne ha abusato? Ha innovato con saggezza, o ha divagato impropriamente? Di certo il giudice non ha pensato, come i primi critici hanno dato per scontato, che la messa domenicale sia «una pena» , un’afflizione, un’espiazione. Che dopo la sofferenza di un anno di funzioni religiose, i ragazzi ci penseranno due volte prima di ricattare nuovamente i compagni. Questa lettura offende l’intelligenza del magistrato ed è inverosimile. Il giudice ha invece concepito la messa come un corso di etica, un’istruzione alla convivenza civile, un’iniezione di morale. E’ in questo ragionamento, più sottile e plausibile, che sta l’errore. Anzitutto, nessun organo dello stato può definire il contenuto di un atto religioso, foss’anche definirlo positivamente quale «evento che migliora eticamente» . Secoli di civiltà ci mettono in guardia dalla blasfemia culturale e giuridica di uno stato che dice cosa è e a cosa serve la fede. La messa è dei credenti. Solo a loro spetta definirne la natura e la funzione. In secondo luogo, nessun organo dello stato può prescrivere un atto religioso. Qualsiasi vincolo imposto dallo stato alla piena libertà di un atto religioso viola i supremi principi della libertà religiosa e della laicità. Anche l’impegno della messa assunto dai minori di Bassano, magari con l’accordo delle famiglie, se sanzionato da un giudice, perde quel carattere di libertà che per il nostro ordinamento è carattere inalienabile di ogni atto di religione. Vi è una distinzione tra civile e religioso che neppure la buona fede e la generosità dei nostri giudici minorili possono ignorare.


La Stampa 20.2.11
Erika, a 10 anni dal massacro di Novi intravede la libertà
Entro la fine del 2011 potrebbe lasciare il carcere di Verziano Da mesi frequenta una comunità fuori dal penitenziario
di Grazia Longo


IL PASSATO "Per i giudici l’omicidio della madre e del fratello fu un dramma epocale
L’EDUCATRICE «È cambiata: è maturata ed è cresciuta anche emotivamente»

Le persone non si cancellano neppure con la morte, restano sempre le tracce. Nel cuore e nella mente di Erika De Nardo ci sono quelle della madre e del fratello che lei stessa ha ucciso, insieme al fidanzato di allora Omar Favaro, con 97 coltellate.
Dieci anni esatti domani. Omar, 27 anni, è un uomo libero da un anno. Erika, 26 anni, tra pochi mesi potrebbe lasciare il carcere di Verziano, periferia di Brescia. Il termine della scadenza è la primavera 2012, ma per effetto della buona condotta Erika potrebbe godere della liberazione anticipata. La prova è che da un paio di mesi esce dal carcere quasi tutti i giorni e va in una comunità alloggio. Un luogo protetto, lontano dalla curiosità e dalle attenzioni che potrebbero incidere sul suo recupero.
Un luogo per ricominciare a muovere i primi passi da donna libera, con il sostegno degli psicologi e degli operatori del carcere-modello di Verziano. In comunità Erika insegue una vita normale: parla, lavora, cucina come una ragazza qualsiasi. Al riparo dal rischio di essere di nuovo fotografata, com’è accaduto cinque anni fa quando la portarono a un torneo di pallavolo nell’oratorio di Buffalora, nel bresciano. La sua immagine ha molto colpito: bella, alta, i capelli lunghi raccolti in una coda, gli occhiali da sole. «Ha diritto a una vita normale?» è l’interrogativo di molti. «Sì, è una vittima di se stessa che deve reinventarsi» la risposta di altri. Suo padre, l’ingegnere Francesco De Nardo - un uomo che si è fatto da solo e che gode della stima di chi da anni lavora allo stabilimento di Novi Ligure della Pernigotti di cui è un dirigente - non l’ha mai abbandonata. L’ha incontrata una o due volte alla settimana in carcere, prima ai minorile Ferrante Aporti di Torino e il Beccaria di Milano, ora a Brescia. Qui un anno fa ha assistito alla laurea della figlia in filosofia, con una tesi da 110 e lode su «Socrate e la ricerca della verità negli scritti platonici».
Quella verità che la sera del 21 febbraio 2001 Erika e Omar cercarono di nascondere inscenando la pista degli albanesi. Quella verità che entrambi hanno cercato di «elaborare» nelle lunghe sedute di psicoterapia dietro le sbarre. «È sempre mia figlia», l’unico commento che Francesco De Nardo si sia mai lasciato scappare. Per il resto è una sfinge, un padre che vuole proteggere e aiutare l’unico pezzo della famiglia che gli è rimasto. Un solo punto fisso in un’esistenza sconvolta da un dolore troppo grande da raccontare. Ai funerali della moglie Susy Cassini, 42 anni, e del figlio Gianluca, 12 anni, fece preparare due corone di fiori: «Da tuo marito e tua figlia», «Da tuo padre e tua sorella».
Mentre quella figlia, quella sorella era già in carcere, arrestata dai carabinieri che avevano messo i microfoni e le telecamere nella sala d’aspetto della caserma: filmarono Erika che mimava le coltellate. I giudici hanno scritto: «Due omicidi che per l’efferatezza, per il contesto, per la personalità degli autori e per l’apparente assenza di un comprensibile movente, si pongono come uno degli episodi più drammaticamente inquietanti della storia giudiziaria del nostro Paese». Sono passati dieci anni. «Erika è cambiata, è maturata ed è cresciuta anche emotivamente - dice un’educatrice del carcere di Brescia, che chiede l’anonimato -. Sono migliorati anche i rapporti con le compagne che all’inizio la sopportavano poco per la sua notorietà e per la sua riservatezza. “Principessa” è l’unico nomignolo affettuoso che le avevano attribuito, sugli altri è meglio tacere. L’esperienza nella comunità è la conferma dei progressi. Nel 2006, dopo un anno che si trovava a Verziano, le fu vietata la libertà condizionale perché secondo il giudice non appariva “ravveduta"». Il professor Carlo Alberto Romano, docente di Criminologia all’Università degli Studi di Brescia, presidente dell’Associazione «Carcere e Territorio» della città, ha seguito Erika negli studi universitari.
«Ma non voglio dire nulla - esordisce - a parte il fatto che è stata molto brava e che ha dimostrato una buona capacità di studio. Spero solo che la sovraesposizione mediatica non le faccia male e non incida troppo sulle sue aspettative per il futuro». Prima dei permessi per recarsi in comunità, Erika lavorava in carcere, alla cooperativa «Carpe diem». La presidente Lidia Copeta non vuole parlarne se non per ribadire la buona volontà della ragazza «al pari di tante altre che assemblavano pezzi di rubinetteria o di plastica in cambio di un compenso». Il carcere di Verziano, costruito 25 anni fa, è un edificio basso verde oliva, con bagni e tv in ogni cella, colori vivaci alle pareti, polo universitario, 150 detenuti divisi tra maschi e femmine, laboratori, campo di calcio e di pallavolo. Erika ogni sabato pomeriggio, dopo aver visto il padre, partecipa alle partite di volley.
Le stesse a cui giocava un’altra giovane che, come Erika, ha ucciso all’età di 16 anni. Una delle tre ragazze di Chiavenna che nel giugno 2000 assassinarono suor Maria Laura Mainetti, con 19 coltellate, come sacrificio offerto a Satana. «Erika è una ragazza come tante altre che si sta impegnando verso una nuova vita - dice Alberto Saldi, responsabile dello sport e delle attività ricreative in carcere a cura della Uisp di Brescia -. Per la festa della donna abbiamo previsto un concerto. Durante quello dell’anno scorso Erika ballava timidamente insieme alle compagne, al ritmo rock del duo musicale che presta volontariato». La musica rock. La sera di dieci anni fa, nella villetta di Novi Ligure, Erika alzò il volume dello stereo al massimo. Per coprire le urla di sua madre e suo fratello.

La Stampa 20.2.11
“Vorrei solo diventare un fantasma”
Omar, il fidanzato, ha lasciato la cella da un anno: dimenticatemi


IL FUTURO «Non ho nessun progetto: penso a tirare avanti»
IL PENTIMENTO «Ho scritto al signor De Nardo per chiedergli il perdono»

Lo osservi mentre parla e pensi automaticamente tre cose. Ha ammazzato, insieme a una ragazzina, una donna e un bambino con quasi 100 coltellate eppure ha parole e modi gentili. Sembra più giovane dei suoi 27 anni. Ha paura.
Omar Favaro, l’assassino con la faccia d’angelo. Lui «il suddito», Erika «la regina», scrissero i periti del giudice all’epoca del processo.
Da un anno Omar è un uomo libero in lotta contro se stesso e contro tutti. Vuole dimenticare e, soprattutto, vuole farsi dimenticare. Accetta di essere intervistato a un solo patto.
«Non devi dire a nessuno dove abito e dove lavoro. A nessuno».
Promesso. «Forse qualcuno può pensare che non voglio raccontare la mia storia a colleghi o amici perché voglio una vita facile, ma non è così. Ho bisogno di non essere riconosciuto. Ne ho bisogno per andare avanti, per riuscire a vivere. Non potrei sopportare di stare accanto a persone che sanno quello che ho fatto».
Una cosa gravissima. «Lo so. Lo so benissimo. Non voglio parlare di quello però, perché la cosa l’ha organizzata tutta lei, io sono stato uno illuso. L’amavo tanto». Tra un po’ Erika esce dal carcere. Hai voglia di vederla? «No. Quello è il passato. Non torna più». Davvero non pensi più a lei? «Davvero. Non le porto rancore per quello che è successo. Spero che esca dal carcere e che possa elaborare anche lei come ho elaborato io. Spero stia bene». Elaborare. Parli usando un termine che utilizzerebbe uno psicologo o uno psichiatra. Sei ancora in terapia? «No, non più. Ma ne ho fatta tanta in carcere, mi è servita ad elaborare il male che ho fatto».
Ti sei perdonato? «Non posso perdonarmi per quello che ho fatto. E poi non spetta a me, qualcun altro può forse perdonarmi. Ma io no». Hai mai scritto al papà di Erika per chiedere perdono? «Preferirei non rispondere, sono cose private tra me e lui». Allora è vero che gli hai scritto? «E va bene, l’ho fatto. Questo lo posso pure dire. Ma non mi chiedere cosa mi ha risposto perché tanto non lo dico. È una cosa che deve stare dentro di me. Se vuole te la dice lui». Non credo sia possibile. In questi dieci anni non ha mai rilasciato un’intervista. «Appunto, quindi io non ho diritto di parola. Posso solo dire che sentivo il bisogno di implorare il suo perdono. E comunque non basta. Lo so che ho fatto una cosa terribile. Ma non voglio neppure tornare a ricordare quella sera, non mi va di parlarne». Dieci anni esatti da quel mercoledì sera del febbraio 2010. «Ci ho pensato anch’io. Mi aspettavo che si facesse avanti qualche giornalista. Ma io non voglio essere di nuovo sbattuto sul giornale. Qui dove vivo nessuno sa chi sono. E spero continui ad essere così». Non parli mai di quello che hai fatto? «Solo con i miei genitori. E poco comunque,perché loro sanno che ho bisogno di una vita normale. Senza l’aiuto dei miei genitori sarei impazzito, mi vogliono bene per davvero e me l’hanno dimostrato. Per me sono importantissimi».
Vivi insieme a loro? «No, da un’altra parte. Ho un bilocale tutto mio che costa poco. Dopo il carcere e tutto il resto era importante per me cercare di vivere come gli altri ragazzi della mia età».
Perché? «Mah, un po’ non è capitato, non mi sono innamorato di nessuna. Un po’ non mi va».
Hai paura di soffrire? «Sono cose mie».
A parte il lavoro, cosa fai? «Quello che fanno un po’ tutti i ragazzi della mia età. Vado al cinema, vado in discoteca, mi piace tanto ballare. Le serate in discoteca sono l’unico vero passatempo che ho. A parte le partite del Milan, che però guardo solo in televisione»
Hai progetti per il futuro? «Non in particolare. avanti». Sono in tanti a sostenere che sei uscito dal carcere troppo presto (la condanna a 14 anni è stata ridotta a 9 per effetto dell’indulto e della buona condotta, ndr). «Lo so che lo dicono. Ma 9 anni sono lunghissimi. E poi te l’ho detto: lo so che ho fatto una cosa tremenda». A parte il male che hai fatto non pensi mai che ti sei rovinato la vita? «Per questo ho bisogno di sparire nel nulla. Dimenticatemi. Anche tu, dimentica il posto dove mi hai incontrato. Ti prego». Una preghiera. Come quella di Susy Cassini poco prima di morire. «Erika ti perdono - le disse -, ma ti prego non fare del male a Gianluca». Livia Locci oggi è uno dei magistrati di punta del pool Fasce deboli della Procura. Ma dieci anni fa, davanti al Tribunale per i minorenni, sostenne l’accusa al processo contro Erika e Omar. Ricorda: «Fu l’esperienza più drammatica e complessa che mi sia mai capitata in ambito professionale».

sabato 19 febbraio 2011

Repubblica 19.2.11
Il governatore della Puglia l´aveva candidata. Risposta simile a quella data a Berlusconi dopo l´offesa
Premiership, la Bindi gela Vendola "Non mi strumentalizzi, c´è Bersani"
Frecciata a Renzi alla conferenza delle donne del Pd "Lui voterebbe solo se stesso"
di Alessandra Longo


ROMA - Passo spedito, tailleur scuro di taglio leggero con giacchetta corta, Rosy Bindi arriva alla Conferenza nazionale delle donne del Pd e chiude in un colpo solo il tormentone della sua candidatura a leader della cosiddetta «coalizione larga» aperto da Nichi Vendola: «Con Pier Luigi non abbiamo avuto bisogno di dirci molte parole. Non ci faremo certo dividere». Dunque il candidato premier per palazzo Chigi è Bersani, come prevede lo statuto del partito. Punto e basta: «Sono presidente del Pd e condivido molto questa regola e vorrei fosse rispettata da tutti. Si dà anche il caso che Bersani abbia tutte le qualità per guidare questo Paese oltre Berlusconi».
Lui, il segretario, è lì, sul palco, tra le signore (Rosa Calipari, Anna Finocchiaro, Roberta Agostini e Marina Sereni). Ascolta compiaciuto, prende appunti e, alla fine, si lascerà ritrarre abbracciato appassionatamente a Rosy: «Ha fatto un bel discorso, un discorso di squadra». Un discorso diviso in due parti. Nella seconda c´è Vendola nel mirino. Rosy si è sentita "usata" dal leader di Sel e non ha gradito: «Io ringrazio Vendola perché vedo che condivide la necessità di una grande coalizione per uscire da questa fase difficile e drammatica e accetta di fare un passo indietro. Ma i passi importanti si devono fare gratuitamente, evitando di trasferire i problemi in casa d´altri». Insomma, Vendola (il quale, per inciso, da Milano fa sapere che non ci pensa nemmeno a rinunciare alle primarie, ndr) sarebbe ricorso ad un´arma impropria. E Rosy lo sistema: «Devo ripetermi. Sono una donna che non è disponibile ad alcuna strumentalizzazione». Le stesse parole usate contro Berlusconi all´epoca di «Bindi più bella che intelligente». La platea le riconosce e applaude. Vendola, anche lui, lasci stare le donne...
Circolano rarissimi uomini in sala: Stefano Fassina, quasi nascosto dietro una colonna, Sergio D´Antoni, che trova l´idea di Bindi premier «una provocazione». E spira un venticello d´orgoglio. La manifestazione del 13 ha fornito autostima e ossigeno. Ma qui nessuna pensa di far fuori Bersani, che gode di largo gradimento, semmai la questione si pone in prospettiva. Rosy restituisce l´ipotetico scettro e avverte: «Molti in questi giorni mi hanno detto: "Magari Bindi premier". Io vorrei che lavorassimo tutte perché al posto di magari ci fosse la parola "finalmente"». Anna Finocchiaro, vestita di viola, si prende l´altra metà delle telecamere di giornata per confermare il trend: «Il candidato premier è il segretario, lo dice lo statuto. Dopodiché ritengo che il Paese è pronto per una leadership femminile». Intanto - dice la capogruppo al Senato - il 17 marzo invito tutte a mettere un tricolore alla finestra». Un modo per tenere vivo il movimento.
In mezzo a volti storici come Livia Turco, Barbara Pollastrini, Franca Chiaromonte, Giovanna Melandri, Valeria Fedeli, Paola Concia, ecco una massa di militanti parecchio agguerrite. Bindi le galvanizza, sotto gli occhi di un disciplinatissimo segretario: «Deve cadere anche in Italia il tabù per cui una donna non può diventare presidente del Consiglio». Se non ora, più tardi. Qui arriva la frecciata a Matteo Renzi, reo di aver definito la Bindi «una candidata per perdere»: «Spero di averlo tranquillizzato - dice la presidente del Pd - . So che Renzi voterebbe solo Renzi. Bisogna vedere, però, se il Pd voterebbe lui». A seguire selva femminile di buuh.

Repubblica 19.2.11
Una pillola sconosciuta
di Umberto Veronesi

La pillola è il male. Tutta la contraccezione è il male. O, nel migliore dei casi, è tabù. E così le donne sono state tradite. Le ragazze che si affacciano alla sessualità e le adulte che hanno vissuto la cosiddetta rivoluzione sessuale non sanno che la pillola non ha nessuna controindicazione per la loro salute, che non aumenta il rischio di tumore del seno, e ignorano che le protegge dall´altro temibile tumore femminile, quello dell´ovaio. Nessuno ha detto loro che la pillola anticoncezionale è lo strumento in assoluto più efficace che hanno a disposizione per evitare questa malattia, che colpisce quasi cinquemila donne ogni anno in Italia, con una mortalità ancora elevata. Eppure è dimostrato che il rischio si riduce del 60% non solo durante l´assunzione, ma anche anni dopo la sospensione. So per esperienza che se le donne sono informate e consapevoli di un progresso scientifico - e non solo medico - che protegge la loro vita e quella della loro figlie, lotteranno per averlo, e lo otterranno.
Se dunque dopo cinquant´anni dall´arrivo della pillola solo una minoranza ne fa uso, significa che le donne sono state mal informate o non informate. La pillola in Italia è stata ostracizzata. L´ hanno fatto i misogeni, perché la pillola è uno strumento offerto dalla scienza alla donna per sottrarsi ad un asservimento millenario al maschio. Permettendo di scindere il rapporto sessuale dalla procreazione, ne ha valorizzato i ruoli, al di là di quello materno. La contraccezione permette ad ogni donna di scegliere liberamente di amare un uomo, e fino a che punto amarlo, e di decidere insieme a lui - dunque come sua pari - se avere un figlio oppure no.
Ma, oltre all´aspetto di pensiero, la pillola ha una funzione di tutela della salute, che è passato sotto silenzio, o quasi, e per questo dico che le donne sono state tradite. La stessa legge 194, nata per "garantire il diritto alla procreazione cosciente e responsabile", è stata in parte tradita. Il suo obiettivo era ridurre gli aborti clandestini (che sono un grave pericolo per la salute, oltre che un dramma per la psiche ), spostando l´obiettivo da una cultura punitiva ad una cultura preventiva. I fatti ci hanno dato ragione perché il numero di aborti, dalla sua introduzione nel 1978, è drasticamente diminuito. Ma in realtà quella legge non è stata applicata nella sua totalità. Il punto chiave che impegna Stato, Regioni e enti locali a sviluppare servizi , informazione ed educazione per la prevenzione dell´aborto, di fatto è pressoché inapplicato. La 194 va allora ripresa in mano. Occorre potenziare subito la diffusione dell´educazione sessuale e della conoscenza dei metodi anticoncezionali nelle scuole, nel rispetto della multiconfessionalità e multietnicità della comunità attuale. La pillola va favorita, le sue proprietà anticancro vanno ben spiegate, e il preservativo, che difende da molte malattie veneree e infettive, deve essere considerato un elemento integrante del rituale del rapporto sessuale e un segno di rispetto e di amore nelle coppia, soprattutto se occasionale. Ci vuole conoscenza, coscienza e responsabilità , soprattutto da parte di noi uomini. Siamo ancora in tempo.

 l’Unità 19.2.11
Bioetica, chi ha paura del dialogo
di Maurizio Mori

L a lunga lettera di De Nigris a l’Unità è importante perché riconosce che la «Giornata degli stati vegetativi» indetta dal governo è stata un fallimento. Usare il 9 febbraio, giorno
della scomparsa di Eluana, come traino per sensibilizzare l’opinione pubblica non ha pagato. De Nigris riconosce anche che la scelta della data «può essere stata infelice». Qui il discorso si fa ancora più interessante, perché – come già rilevato da Luca Landò nella sua risposta – De Nigris è stato tra i suggeritori della Giornata in quella data, almeno a dire del sottosegretario Roccella. Non importa sapere se sul tema abbia cambiato idea o ci sia stato un fraintendimento. De Nigris ha ora una ottima occasione per raggiungere l’obiettivo che gli sta a cuore di «pacificare gli animi»: chieda pubblicamente al governo di cambiare la data, unendosi così al coro delle tante associazioni laiche come la Consulta di Bioetica, di autorevoli esponenti del mondo cattolico come Adriano Pessina e del volontariato, come Pietro Barbieri, presidente della Fish (Federazione italiana sostegno handicap, la maggiore associazione di volontariato del settore).
De Nigris accusa anche la stampa di aver calato la saracinesca del silenzio sulla Giornata: «Nessun giornale (a parte Avvenire) ha pubblicato un resoconto su quel dibattito», lasciando credere che la «materia sia soltanto una questione di parte». Fa bene a riconoscere che Avvenire è «di parte», ma non perché è della Cei, bensì perché, come la vecchia Pravda, presenta solo la «linea ufficiale» e non le svariate voci presenti nel mondo cattolico: sul tema ha silenziato le voci «dissidenti» dei già citati Pessina e Barbieri, per dare grande rilievo solo a quella di De Nigris. La fonte dell’elogio di quel tipo d’informazione «di parte» sembra poco congrua.
Ma poco sostenibile è anche l’accusa al «sistema mediatico» che avrebbe «bucato» la notizia costituita dalla presenza in Italia di famosi scienziati. Dove sta la «notizia»? Nell’ultimo anno quegli scienziati sono già venuti altre volte e non c’è nulla di nuovo: per il resto le solite cose a senso unico. La «notizia» ci sarebbe stata se la Giornata avesse previsto un reale dibattito tra posizioni diverse. Cancellato il pluralismo etico, la stampa libera non aveva nulla da segnalare.
Una proposta: De Nigris chieda al governo anche di aprire un tavolo paritario con le diverse posizioni per un confronto. Forse si riuscirebbe davvero a sensibilizzare sul tema come da tutti sperato, a pacificare gli animi e anche a trovare soluzioni condivise. Altrimenti si fa solo del trito vittimismo che ha un solo pregio: certificare il fallimento della prima Giornata degli stati vegetativi, che è stata la «Giornata del silenzio» come voleva Beppino Englaro.

l’Unità 19.2.11
Gengis khan colpisce ancora
Perché il «Dispotismo Orientale» è una delle chiavi della modernità? La risposta in un pamphlet di Arminio Savioli
di Bruno Gravagnuolo

Non era il comunismo, il fantasma che si aggirava per l’Europa nel 1848, l’anno in cui Marx ed Engels lo avvistarono nel celebre Manifesto del Partito Comunista. Il fantasma era un altro: quello del Dispotismo. Almeno a guardare la cartina geografica del tempo. Austria imperiale al centro, Turchia e Russia ad est, per non dire dell’immobile Cina e del Giappone modernizzante in Asia. E per non dire degli Usa, la giovane america del nord. Democratica (e schiavista) e nella quale Tocqueville già scorgeva il germe del «dispotismo democratico» o «tirannia della maggioranza. Perché tornare a parlare di dispotismo oggi, con riferimento
retrospettivo alle illusioni radicali di Marx ed Engels e anche ai timori del conservatore Tocqueville grande ammiratore al suo tempo del Nuovo mondo?
Presto detto. Prima di tutto perché il tema è attualissimo, se si pensa alle rivolte antidispotiche dei paesi arabi, al fenomeno del dispotismo «marx-capitalistico» cinese, al neoautoritarismo dispotico di Putin, con corredo di boiari buoni e boiari cattivi e incarcerati. E altresì se si pensa al dispotismo populistico, erede light e democratico dei tanti dispotismi fascisti, neotocquevilliano e mediatico, come quello berlusconiano (e con tratto sultanale, oltre che patrimonialistico). Nondimeno, c’è un motivo in più. L’uscita di qualche mese fa di un libro curioso, dal titolo bizzarro e dalla storia ancor più curiosa. È una sorta di manoscritto trovato a Saragozza, ma scritto senza artificio retorico dal suo rinvenitore stesso, che lo aveva lasciato ammuffire trent’anni orsono, salvo una revisione di dieci anni più tardi, senza esito di pubblicazione. L’autore è Arminio Savioli, ex inviato esteri di questo giornale, specialista dei paesi arabi, di Asia, Africa, America Latina. Gappista, soldato della divisione Cremona nel 1944, intervistatore di Castro in esclusiva (che lo minacciò scherzosamente di ficcargli una palla di piombo in testa, per avergli Arminio fatto dire troppo sul suo comunismo incipiente nel 1960). E il titolo? Eccolo: Marx o Gengis Kahn. Ovvero «Riflessioni sul ruolo della Russia e dell’Urss come portatore non sano del virus del dispotismo asiatico in Europa» ( Arlem editore, Via Gino Capponi 57, 00179, Roma, pp.119, Euro 12). Un libro scritto molto prima della caduta del Muro, e abbandonato alla critica roditrice dei topi (per dirla con Marx) ma che i topi(come con Marx!) hanno risparmiato. Perché il libro, pur non rivisto e aggiornato si ferma a prima della comparsa di Gorbaciov è attualissimo. E la tesi che inalbera è: il totalitarismo sovietico non è colpa di Marx ma di Gengis Khan, ovvero del «dispotismo asiatico», quello che attraverso l’orda d’oro e i mongoli plasmò la Russia dei Romanov, la Turchia, la Cina, tanti paesi arabi eredi dei turchi e anche tutti i satelliti dell’Urss. Insomma, scriveva Savioli a fine anni ’70 e primi ’80, non c’è mai stata nessuna «spinta propulsiva» dell’Ottobre 1917. Ma semmai una spinta autoconservativa dell’Impero zarista, eternato in nuove forme dai bolscevichi e da Stalin, al più nel segno di una emancipazione barbarica dell’arretratezza, e in grado di parlare al mondo coloniale e post coloniale (che a sua volta ha riprodotto un’emancipazione dispotica magari all’ombra del modello sovietico variamente riprodotto).
Mai dunque, per Savioli (come per Gramsci) l’Oriente col suo dispotismo gelatinoso, comunitario e «anti-società civile», poteva parlare all’Occidente, reso plurale e poliarchico dalla sua millenaria storia di conflitti. Mai di lì poteva nascere un socialismo quale che fosse, ma solo un quantum di emancipazione delle na-
zionalità extraeuropee, con molte illusioni e tragedie, inclusi i massacri staliniani e la satellizzazione di un pezzo d’Europa. La tesi non è nuovissima ma poco frequentata. Basata su un libro del 1957: Il Dispotismo Orientale di Karl August Wittfogel, comunista di sinistra tedesco, esponente della scuola di Francoforte, transfuga negli Usa, viaggiatore in Cina e divenuto anticomunista. Che cos’è in Wittfogel il «dispotismo», concetto che viaggia da Aristotele a Montesqueu, a Hegel e Marx fino ad Arendt e a Wittfogel? È una forma di governo e insieme una forma di produzione, tipica di popolazioni stanziali delle pianure «idrauliche».Talché come nell’antico Egitto, tecniche, scrittura, vie fluviali e canali, strumenti di produzione e terra sono di proprietà del despota, che li amministra con i suoi funzionari. Tutto, per dirla con Hegel appartiene all’«Uno» (divino e terrestre). Tutto è della comunità che si riassume nell’Uno dispotico, salvo il piccolo possesso individuale.
Dunque sistema di produzione comunitario, con la terra e acque lavorate in comune e a rigore senza schiavi né possessori privati di schiavi. Insomma grandi stati irrigui e sconfinati dove tutta la proprietà è del Principio Sovrano, a sua volta proiezione e involucro della comunità comunitaria e senza individui. C’è da meravigliarsi che Stalin, che ben conosceva il tema, proibisse ogni discussione a riguardo? Prima di Wittfogel anche Marx e Engels avevano pensato a lungo a tutto ciò, e tra il 1879 e il 1882si posero il quesito, sollecitati dai socialdemocratici russi: dal disfacimento dell’Impero dispotico russo si può salvare e usare, come mattone positivo e socialista, la comunità primitiva russa? Cioè, il «Mir» col suo comunitarismo, consentiva di saltare la fase capitalistica? Marx rispose: sì, immettendo tecnica e progresso nel Mir e facendo al contempo il socialismo in Europa. Ebbe ragione... il vecchio Marx «non marxista». E Lenin lo prese sul serio, anche se si appoggiò agli operai e alla spietata minoranza bolscevica. Ma il prezzo fu quello di ricadere nel collettivismo dispotico. E nel dispotismo orientale. Con Stalin al posto di Gengis Khan.


l’Unità 19.2.11
La Lega nasce razzista
di Marco Rovelli

Sarebbe bastato un rapido giro su Internet per ricordarsi che la Lega è un partito che del razzismo fa una delle sue ragioni sociali identitarie. È per questo che sorprende la speranza di dialogo insita nella lettera che Bersani ha inviato alla Padania, un giornale che è arrivato a scrivere: «Quando ci libererete dai negri, dalle puttane, dai criminali, dai ladri extracomunitari, dagli stupratori color nocciola e dagli zingari che infestano le nostre case, le nostre spiagge, le nostre vite, le nostre menti? Sbatteteli fuori questi maledetti!». È evidente infatti di che pasta sia il senso comune del ceto politico leghista: «Gli immigrati sono animali da tenere in un ghetto chiuso con la sbarra e lasciare che si ammazzino tra loro», diceva un consigliere comunale. Di basso livello, si dirà, mica rappresentativo. E allora ecco le parole di un senatore: «Gli immigrati? Peccato che il forno crematorio del cimitero di Santa Bona non sia ancora pronto». O ancora, il supremo Calderoli: «Un paese civile non può fare votare dei bingo-bongo che fino a qualche anno fa stavano ancora sugli alberi». O Bossi che fascistamente teorizzava sul progetto americano di «importare in Europa 20 milioni di extracomunitari» e garantire i propri interessi «attraverso l’economia mondialista dei banchieri ebrei e attraverso la società multirazziale». Forse il popolo leghista non è razzista davvero... Si può vedere allora, su youtube, quel popolo in visibilio quando Gentilini (quello che dichiara: «Extracomunitari? Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucile») comiziava: «Voglio la rivoluzione contro gli extracomunitari clandestini. Voglio la rivoluzione contro quelli che vogliono aprire le moschee e i centri islamici. No! Vanno a pregare nei deserti!», e via vomitando. E poi, si può sempre ascoltare la filantropica base leghista quando delira a Radio Padania.


il Fatto 19.2.11
Odio gli indifferenti
di Antonio Gramsci

Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. (...) I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e in-differenze di nessun genere. Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo. (...) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

La Stampa 19.2.11
E Ben Gurion ordinò “Sposate donne arabe”
Negli Anni 50 spie israeliane si mescolarono ai palestinesi
di Aldo Baquis

L’ADDESTRAMENTO In mesi di lavoro gli 007 si trasformarono in «profughi tornati dall’esilio»
IL FALLIMENTO Dopo qualche anno si capì che le «cellule in sonno» avevano esaurito il compito
I DUBBI DEI RELIGIOSI Gli agenti dello Shin Bet formarono nuove famiglie «Ma i figli sono ebrei?»

Un manipolo di agenti dello Shin Bet (sicurezza interna) fu spedito negli Anni Cinquanta, per volere del primo ministro israeliano David Ben Gurion, in una missione senza ritorno. Dovevano bruciare i ponti, dimenticare di essere ebrei, cancellare dalla loro esistenza le famiglie di origine, rinunciare ai cibi e alle tradizioni passate. Per amor di Patria, nella loro nuova vita avrebbero dovuto non solo parlare e pregare in arabo, ma anche sognare in arabo. Perché veniva ordinato loro di diventare «agenti in sonno» disseminati in aree palestinesi, all’interno di Israele. Un giorno, forse, si sarebbero rivelati utili alla Nazione.
Questa pagina di storia, finora sconosciuta in Israele, viene svelata adesso da una rivista di questioni militari, «Israel Defense», una pubblicazione che si annuncia di assoluto prestigio potendo vantare fra le sue firme un ex capo del Mossad (Dany Yatom), un ex capo dell’aviazione militare (David Ivri) e un ex capo della polizia (Shlomo Aharonishky).
Il primo numero della rivista uscirà solo la settimana prossima: ma per vie traverse il servizio sugli agenti «dormienti» è già planato sul tavolo di una pubblicazione ortodossa (Kikar ha-Shabat), che lo ha rapidamente divulgato con toni sensazionalistici. Anche perché dischiudeva una questione teologica scottante: se cioè i figli di agenti israeliani in missione segreta con donne arabe possano essere reputati ebrei. La complessa diatriba ha già incendiato diversi siti Internet religiosi.
La necessità per Israele di disporre di agenti capaci di muoversi a loro agio in ambienti arabi era risultata evidente già all’indomani della Guerra israeliana di indipendenza (1948-49), quella che per i palestinesi è invece la Naqba (il Disastro). Per controllare la cospicua minoranza araba rimasta in Galilea, nella zona centrale e nel Neghev fu subito imposto un «governo militare» che sarebbe durato fino al 1966. Ma Ben Gurion temeva che, con una operazione a sorpresa, gli eserciti arabi sarebbero riusciti egualmente a riassumere il controllo anche parziale di quelle aree. Da qui la necessità di disporre in zona, a tempo pieno, di uomini fidati, capaci di inoltrare informazioni di intelligence in tempo reale.
«Israel Defense» spiega che l’incarico di costituire un’unità «arabizzante» (Mistaaravim, in ebraico) fu affidato nel 1952 dal capo dello Shin Bet Issar Harel (uomo di assoluta fiducia di Ben Gurion) a un professionista della guerra segreta, Shmuel Moria. Il materiale primo non mancava: c’erano infatti giovani ebrei immigrati da Paesi arabi (ad esempio dall’Iraq) che si esprimevano fluentemente in arabo. Occorreva confezionare su misura per loro una nuova identità. In mesi di lavoro meticoloso nella sede dell’intelligence a Ramle (Tel Aviv) e poi negli uffici dell’ex comandante palestinese Hassan Salameh, gli immigrati ebrei si sarebbero gradualmente trasformati, giorno dopo giorno, in «profughi palestinesi rientrati dall’esilio forzato».
In questa storia, è forse questo l’aspetto che più induce all'ottimismo, gli agenti ebrei in breve tempo riuscirono infatti ad amalgamarsi al meglio nella società araba. Al punto che si pensò di passare alla seconda fase: ossia di indurli a sposarsi con donne arabe e a creare nuclei familiari. Sul piano operativo, un successo totale: israeliani e palestinesi non erano più distinguibili.
Ma col passare degli anni si moltiplicarono i mugugni. Le informazioni passate dagli agenti «in sonno» erano povere, e scarsamente interessanti. Inoltre stavano mettendo su prole. Gli ex agenti soffrivano al pensiero che i figli sarebbero cresciuti da palestinesi a tutti gli effetti: non era certo quello il loro sogno, quando erano immigrati in Israele.
Alla metà degli Anni Sessanta, scrive «Israel Defense», lo Shin Bet ammise di essere giunto a un binario morto. Convocò separatamente ciascuna delle coppie e spiegò l'inganno alle consorti arabe. Ci furono comprensibilmente scene di disperazione, manifestazioni di odio, crisi coniugali. Una delle donne portò il figlio ad Amman e si sposò con un fedayn palestinese. Gli agenti «in sonno», da parte loro, pur determinati a rientrare nell’Israele ebraica, non volevano essere strappati ai loro nuclei familiari.
Lo Shin Bet allora si accollò gli oneri finanziari. Continuò per molti anni a versare stipendi e offrì ai figli di quelle coppie di scegliere se volevano restare arabi oppure ricrearsi un’identità ebraica. Ma le ripercussioni dell'esperimento in laboratorio, secondo la rivista, si avvertono ancora oggi, mezzo secolopiù tardi: perché i figli di quelle unioni concepite a tavolino negli scantinati dello Shin Bet lamentano ancora problemi ricorrenti di identità.
Come ebbe a dire anni fa una recluta, appena impugnata la sua arma: «E io adesso su chi devo puntare questo fucile? Sulla mia famiglia palestinese, oppure su quella israeliana?».

il Riformista
Intervista al segretario Prc Paolo Ferrero
«Il patto a Vendola lo offro io dica no a Fini, il Pd ci seguirà»


Nichi sbaglia. Sel, l’Idv e la Federazione devono dire no alla grande alleanza con Fini. Il Pd cambierebbe subito idea»: il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, che fa parte del coordinamento della Federazione, non ha digerito l’apertura di Nichi Vendola al progetto democrat che mette insieme tutti, da Fli all’estrema sinistra, per battere Silvio Berlusconi.
Perché Vendola sbaglia?
Non si su cosa si crea questa santa alleanza. Il copyright è di Massimo D’Alema che pensava a una legislatura che modificasse la Costituzione. Un errore madornale, perché la Carta va difesa, salvaguardata e realizzata. Ma faccio un esempio più concreto. Fini è un iperliberista: che tipo di politica economica proporrebbe quest’alleanza? Il risultato sarà che si perderanno voti sia a destra sia a sinistra. Un dato non sfuggito a Casini che si è già tirato indietro. A mio avviso, c’è un errore di fondo: il progetto non è finalizzato alla costruzione della sinistra, bensì piegato ai giochi interni al centrosinistra, che vedono il Pd protagonista. Come testimonia la proposta di Rosy Bindi presidente del Consiglio. Idea degnissima, per carità, ma in realtà è solamente un giochino tattico. Che propone, allora? Vendola, Di    Pietro e noi dovremmo dire con una sola voce che no, con Fini non si va, a costo di andar da soli. Il Pd cambierebbe linea dopo due minuti. La proposta della grande alleanza è già finita. Per battere Berlusconi, basta fare uno schieramento di sinistra. La strada di Vendola e D’Alema, non è una via obbligata. Ne ha parlato con il leader di Sel? Non ce n’è stata occasione. E mi preme sottolineare che queste manovre di Palazzo non indeboliscono Berlusconi, anzi. Il nostro punto politico dovrebbe essere: come lo facciamo cadere? Io a Nichi propongo di proporre con noi al Pd una grande manifestazione nazionale delle opposizioni, per il 17 marzo, a rappresentare che l’Unità d’Italia è anche l’unità dei diritti civili e sociali che vogliamo mettere al centro della nostra politica. In questi mesi abbiamo visto in piazza operai, studenti, donne. Mancavano i partiti a raccogliere questa domanda. Dobbiamo incalzare il Pd a farlo con uno sviluppo lineare, con un patto tra le forze di centrosinistra e la nostra gente. Insomma, il problema è Fini.
È evidente. Fini è lo stesso di Genova, è stato al Governo con Berlusconi e ha votato tutte le sue leggi, dal collegato lavoro alle leggi vergo-
gna ad personam. Sia ben chiaro: io sono contento che Fini si sia separato dal presidente del Consiglio, è un evento di interesse strategico per la democrazia. Ma Fli non è un alleato possibile. Al pari, ben venga la nascita del Terzo polo, presupposto per mettere in discussione il bipolarismo devastante che ha consentito, da Tangentopoli in poi, di ridurre ulteriormente il rapporto con l’elettorato, e che ha permesso a Berlusconi di costruire il suo regime mediatico e populista.    S.O

l’Unità Lettere 19.2.11
Giordano Bruno
di Paolo Izzo

Ve ne dimenticherete anche quest' anno. O ci sarà appena un cauto trafiletto e qualche manipolo di eretici a ricordarlo in una rara piazza o strada a lui dedicate (dieci giorni fa, nella "sua" Napoli, nella via col suo nome, c'erano a celebrarlo topi e munnezza, che tristezza!). Nemmeno vi serviranno le recenti scoperte astronomiche su mille possibili sistemi solari, "infiniti mondi", come intuiva lui, mentre poco probabile è che anche in altro remoto universo ci sia un Vaticano... beati loro! Poi un giorno, che non sarà mai abbastanza presto,
ci si affannerà a dargli ragione per aver scommesso su un aldiquà di umanità umana e di verità naturale contro un aldilà di astrattezza violenta e di dogmatica disumanità. La stessa che "oggi" lo bruciò vivo, che fece santo colui che appiccò il suo rogo, che non ha ancora chiesto scusa (e sono passati 411 anni!) e che oggi brucerebbe, se solo potesse, eretici e streghe, testamenti biologici e fecondazioni assistite e coppie di fatto. Ma lui lo sapeva, con quella inconscia certezza che hanno soltanto i pochi genî ribelli che scoprono com'è, dentro, l'essere umano: sapeva di aver fatto tutto "quel che un vincitore poteva metterci di suo: non aver temuto la morte, non aver ceduto con fermo viso a nessun simile, aver preferito una morte animosa a un'imbelle vita" ("De monade, numero et figura", Giordano Bruno).