lunedì 21 febbraio 2011

Repubblica 18.2.11
la pillola dimenticata
Perché non si usa più la pillola
A 50 anni dall’esordio l’Italia scopre che la maggioranza delle persone non usa contraccettivi. E resistono i vecchi sistemi
di Maria Novella De Luca


Il 70 per cento delle persone con più di 18 anni ammette di non fare uso di contraccettivi. Colpa di fatalismo, ignoranza, scarsa informazione Così cinquant´anni dopo il nostro Paese dimostra di aver dimenticato la grande rivoluzione sessuale. O quasi
Dietro il rifiuto di usare contraccettivi ci sono il mito della spontaneità e la paura che ogni "barriera" tolga spazio all´amore
Resistono i metodi naturali di sempre E oggi come ieri la strategia più utilizzata è il "rapporto interrotto"
Si registra un aumento di aborti tra le ragazze più giovani, anche minorenni. E una recrudescenza dei contagi da Aids

Non piacciono alle ragazze né ai ragazzi. Non li usano né le donne, né gli uomini. Almeno nei grandi numeri. Almeno nelle statistiche. Contraccettivi, anno zero. Per i sessuologi dietro il pervicace rifiuto di usarli ci sarebbero il mito della spontaneità, della naturalità e la paura che ogni "barriera" possa togliere all´amore passione e bellezza. I ginecologi e gli andrologi dicono invece, e non senza apprensione, che si tratta di ignoranza, di inesperienza, ma anche di un bel po´ di irresponsabilità e di azzardo. Parliamo di sesso e di sessualità. E di contraccettivi, che in Italia vengono usati davvero poco. Agli ultimi posti in Europa.
Oltre il 70% della popolazione dai 18 anni in su e in età fertile ammette semplicemente di farne a meno. Magari per ricorrere poi con affanno alla "contraccezione d´emergenza". O peggio. Non importa se ormai la pillola è sempre più leggera, e si fanno strada addirittura i microimpianti, rivoluzionari dispositivi che vengono inseriti sotto la cute per avere tre anni consecutivi di contraccezione sicura. Nel nostro paese resistono invece i metodi naturali, tradizionali, quelli di sempre. E in particolare, oggi come ieri, la strategia contraccettiva più utilizzata è il "rapporto interrotto", l´amplesso che si spezza nel momento clou.
Il "rapporto interrotto" è la metodologia di pianificazione familiare tra le più antiche, ma che ha com´è noto alte possibilità di fallimento. Tra il 16 e il 25% è stato calcolato nella letteratura medica internazionale, e come rivela un dettagliatissimo libro appena uscito, "Contraccezione", edito da "L´asino d´oro", firmato da due ginecologi famosi, Carlo Flamigni e Anna Pompili.
Un libro-manuale che in duecento pagine ci restituisce la storia e il quadro attuale della contraccezione in Italia, analizzando alla luce delle più recenti scoperte scientifiche tutte le varie tecniche esistenti, da quelle ormonali ai microimpianti, dai preservativi maschili a quelli femminili, dalla spirale al diaframma, dal conteggio dei giorni alla pillola del giorno dopo. Di ogni metodo vengono indicati pregi, difetti, effetti collaterali, rischi, prezzi, ma anche false credenze e pregiudizi. Perché, a leggere i dati più recenti sul modo con cui ragazzi e ragazze, ma anche donne e uomini affrontano la sessualità in Italia, emerge che il profilattico è usato soltanto dal 28,4% dei maschi e la pillola dal 16,3% delle femmine, il coito interrotto dal 31,6% delle coppie, e tutto il resto è free, senza rete. Risultato: a cinquant´anni dall´epoca della grande rivoluzione sessuale in Italia, a mezzo secolo dall´arrivo dalla pillola, è boom di "contraccezione d´emergenza", mentre si registra, purtroppo, un aumento di aborti tra le ragazze più giovani, anche minorenni. E una netta recrudescenza dei contagi da Aids.
Spiega Carlo Flamigni, padre della fecondazione assistita in Italia, e oggi presidente onorario dell´Aied, l´associazione italiana per l´educazione demografica: «Lo scopo di questo libro è fare informazione. Perché nonostante il diluvio di notizie pseudoscientifiche che circolano, c´è un´enorme ignoranza sui temi del sesso, della sessualità, della contraccezione, ma anche di quelle scelte che possono poi compromettere la fertilità, e quindi l´arrivo di un figlio, quando si decide davvero di metterlo al mondo. La pillola fa paura perché, si dice, fa ingrassare, il preservativo perché si rompe, la spirale perché è un corpo estraneo, il diaframma perché è difficile: non esiste il contraccettivo ideale, tutti hanno controindicazioni ed effetti collaterali. Esiste però un "percorso contraccettivo" in cui ognuno può trovare la strada giusta per sé. La mancanza di informazione invece porta da una parte a vivere senza la percezione del rischio, ma dall´altro a sottovalutare le conseguenze della poca conoscenza. Quanti sono ancora oggi gli aborti clandestini delle minorenni? Ma nello stesso tempo, quante donne che rinviano fin oltre i 40 anni la gravidanza sono consapevoli che se a 20 anni il rischio di avere un bimbo down è di 1 su 1600, a quarant´anni la media è di un piccolo down ogni novanta nascite…».
Si fa sempre più strada infatti, tra i medici e i ginecologi, la convinzione che una serie di problemi legati oggi all´infertilità di coppia derivi proprio da comportamenti a rischio nella prima fase della vita sessuale, quella delle giovinezza vissuta "senza rete". I dati della Sigo, società italiana di ginecologia e ostetricia, dicono con chiarezza che gli italiani utilizzano poco i contraccettivi perché "li rifiutano" nel 53% dei casi, "non li conoscono" nel 38% delle risposte, o perché "non li sanno usare" nel 9% dei casi.
«E infatti qui torniamo al tema dell´informazione, anzi della disinformazione» aggiunge Anna Pompili, ginecologa e autrice con Carlo Flamigni di "Contraccezione". «Quante volte mi sento dire che il preservativo non è sicuro perché si rompe, ma quanti sanno utilizzarlo nel modo giusto? Ad esempio con l´accortezza di togliersi gli anelli prima di metterlo per evitare appunto che si laceri? Spesso nei colloqui mi rendo conto che quando passa il messaggio che la sessualità deve essere vissuta con serenità, vedo come le coppie si rilassano e accettano di aprirsi. Non credo infatti che agire sulla leva della paura, dello spettro delle gravidanze indesiderate - aggiunge Anna Pompili - sia la strada giusta. Basta vedere quello che succede in Gran Bretagna, dove c´è un numero di altissimo di parti tra le adolescenti, nonostante le campagne "terroristiche" del governo inglese. Anche se, e dobbiamo dirlo, in Italia gli aborti tra le giovanissime sono tornati a crescere, purtroppo anche in un´area clandestina, e così le malattie a trasmissione sessuale».
Infatti sono proprio le minorenni a ricorrere con più facilità alla cosiddetta contraccezione di emergenza, cioè la pillola del giorno dopo. Nel 55% dei casi le confezioni di questo farmaco vengono vendute a ragazze poco più che adolescenti. «A volte con orgoglio donne giovani ma anche adulte affermano: il mio uomo non mi permette di prendere la pillola perché fa male, ci pensa lui… E c´è molto dietro queste parole, proprio in termini di rapporti tra i sessi», sostiene Anna Pompili.
Eppure una recente e ampia inchiesta del Mulino sulla sessualità degli italiani condotta Marzio Barbagli, Giampiero Della Zuanna e Franco Garelli, ha dimostrato come e quanto oggi nell´amore uomini e donne siano più spensierati, liberi da convenzioni. Se non una rivoluzione, certo una "modernizzazione sessuale". E allora perché tutta questa diffidenza su pillola, condom, spirali e altro? Roberta Giommi, che dirige il Centro Internazionale di Sessuologia di Firenze, chiama in causa una serie di "difficoltà immaginarie". «C´è la convinzione che qualunque strategia preventiva tolga mistero e naturalità al rapporto, che per una donna o una ragazza non sia elegante presentarsi ad un appuntamento con il preservativo nella borsa, l´essere intelligenti nel sesso viene vissuto come un pensiero fastidioso. E purtroppo in questo - ammette Giommi - vedo una passività femminile ancora resistente, anche nelle ragazze. Quasi che il consegnare la scelta "protettiva" all´uomo sia un atto d´amore… Quello che mi stupisce poi è come mai alle generazioni più giovani sia stato trasmesso il concetto che fare esperienza è un diritto, ma non che anche il proteggersi sia un diritto. Il paradosso è che fino a 15, 20 anni fa la pillola veniva vissuta dalle donne come scelta di responsabilità, autonomia, sì, anche di liberazione». Oggi, dunque è come se si stesse tornando indietro. E se il preservativo viene vissuto con fastidio, la pillola viene guardata con sospetto quasi fosse un farmaco altamente nocivo. «Tutti elementi considerati "nemici" della spontaneità e del romanticismo - conclude Roberta Giommi - e la strada per poter parlare correttamente della contraccezione è davvero ancora lunga".

Repubblica 18.2.11
Se il sesso è una sconfitta per l’Italia
Visto l´andazzo pecoreccio perché non servirsene per fare quella propaganda anticoncezionale che da noi manca?
di Natalia Aspesi


Tutte quelle belle anzi bellissime signorine attualmente in gran fermento, causa magistrati che vogliono sapere delle loro simpatiche feste e dei loro illustri corteggiatori (clienti?, mah!), a quali gruppi appartengono? Al 28,4% (profilattico), al 16,3% (pillola), al 31,6% (coito interrotto) o addirittura al 15% (nessuno)? E sull´Isola dei Famosi le magnifiche ragazze già passate dal bunga bunga o in procinto di essere invitate a condividerlo, essendo spesso sotto i 25 anni, apparterranno a quel 27,5% che secondo le ricerche non sono mai andate dal ginecologo; e le gentili ospiti del Grande Fratello, capitasse mai una distrazione per la noia da recluse, faranno parte di quel 10% di italiane che ricorrono alla pillola del giorno dopo? Viviamo in una bizzarra parentesi storica, in cui pare che non si faccia altro che l´amore, possibilmente di gruppo, con frustini e berretti da poliziotto, su nelle alte sfere del potere e giù nei finti reality.
Forse anche tra la gente normale, tutti impegnati, per usare un termine probo, a scopare: le gerarchie ecclesiastiche non approvano, ma neanche disapprovano apertamente, con i toni frementi con cui attaccano invece preservativi e contraccettivi, quelli sì demoniaci e peccaminosi.
Praticamente non si parla d´altro, di sesso mercenario e no, sui giornali e in televisione, e allora ci si chiede: visto l´andazzo pecoreccio e guai a fare i barbogi moralisti, c´è il Ferrara antiabortista che ti mena, perché, anziché inutilmente deplorare, non servirsene per fare quella propaganda anticoncezionale che da noi non esiste, e se non sei una mamma sapiente e preveggente che porta le sue piccine dal ginecologo a 13 anni perché spieghi loro la rava e la fava, te le trovi gravide in un baleno? Secondo le statistiche riportate nel prezioso libro dei ginecologi Flamigni-Pompili, tre giovani su quattro sotto i vent´anni non utilizzano alcuna protezione sessuale durante i rapporti, e comunque in generale i contraccettivi vengono rifiutati dal 53% degli italiani, perché non li sanno usare o non li conoscono. Sapessero che Fabrizio e la sua fidanzata Belen, l´intraprendente Ruby o la svelta Nicole, il buon Emilio o la turbolenta Sara, persino il paterno Lele, guai a non uscir di casa con il loro contraccettivo (a ognuno il suo) in tasca, perché non si sa mai, può capitare qualche cattivo incontro, forse se ne saprebbe di più e se ne userebbero di più. Se ne sapeva di più cinquant´anni fa, quando apparve nell´inquieto universo femminile questo miraggio, una semplice miracolosa pillola che avrebbe permesso di non restar rigide di paura come baccalà conoscendo la vaghezza maschile, di non ritrovarsi sole a gestire una gravidanza rifiutata soprattutto dal disimpegnato partner, di sentirsi finalmente libere.
Ragazze e signore correvano nei consultori pubblici e privati che sorgevano come funghi, e pazienza se nelle parrocchie si tuonava contro, e certi padri sparavano alle figlie sorprese con la pillola in tasca, e c´era chi ne raccontava le tragiche conseguenze, dal cancro ai foruncoli. Insomma l´amore era una realtà, non una pornofiction o un´inchiesta giudiziaria: che dopo cinquant´anni in Italia non se ne senta quasi parlare, non si faccia ancora una seria educazione sessuale nelle scuole, si tuoni tuttora contro, chiudendo però gli occhi davanti alla pornograficazione di tutto, dalla televisione alla politica, fa parte delle tante sconfitte subite dalle italiane e dall´Italia.

l’Unità 21.2.11
Il Colle dice basta
«Il processo sarà giusto garantisce la Costituzione»
«Il Paese inizia a reagire ma lui è capace di tutto»
Dario Franceschini: «È questa la fase più pericolosa perché pur di mettersi in salvo Berlusconi con i suoi ripropongono iniziative devastanti»
di Simone Collini


Cominciamo dal messaggio lanciato al premier da Napolitano? Di Berlusconi che rilancia la legge sulle intercettazioni e la riforma della giustizia? O magari da Fli che perde un altro pezzo? Ma no, risponde Dario Franceschini, «partiamo da Sanremo». Sta scherzando? «Può sembrare una battuta ma non lo è». Il capogruppo del Pd alla Camera si prepara a un’altra settimana snervante, con un Parlamento «ridotto alla paralisi» e una maggioranza che «porterà in Aula tutte le porcherie che ha in cantiere, anche a costo di devastare tutto, solo per salvare Berlusconi». Un quadro a tinte fosche, nel quale però Franceschini individua un barlume di luce. Che viene da Sanremo? Sorride, e inizia a spiegare: «Negli ultimi mesi ho visto un’assuefazione preoccupante nel Paese. La capacità di reagire e indignarsi è apparsa affievolita, anche se confrontata con quella a cui abbiamo assistito tra il 2001 e il 2006 di fronte a vicende anche di minore gravità. Ecco, nelle ultime settimane, prima con l’iniziativa al Palasharp, poi con le grandi manifestazioni in tutta Italia a difesa della dignità della donna, abbiamo visto qualcos’altro. E poi negli ultimi giorni, a Sanremo, luogo nazionalpopolare per eccellenza, ci sono stati due episodi: 20 milioni di italiani che sono rimasti incollati davanti al televisore per ascoltare Benigni parlare di valori, unità nazionale, sacrificio per un’ideale, e poi la vittoria, grazie al televoto, di una canzone come quella di Vecchioni, tutta di valori. Può sembrare una sciocchezza? Forse per qualche addetto ai lavori, ma l’Italia è anche altro».
Però, anche se sta venendo alla luce questo «serbatoio forte di valori e di voglia di reagire», Franceschini non è tranquillo. «Adesso inizia la parte più difficile, perché più Berlusconi vede vicino il suo definitivo tramonto, più reagisce in modo sconsiderato. Non si può classificare nella categoria degli uomini politici normali,
che accettano di perdere per evitare di travolgere il Paese, la paralisi del sistema e lo sfracellarsi della propria coalizione. Berlusconi trascina tutto in un buco nero, solo per tentare di salvare se stesso».
Ecco perché per il capogruppo del Pd alla Camera è «difficile prevedere» cosa potrà succedere nelle prossime settimane. Certo, aggiunge, «le parole del Capo dello Stato pur come sempre in istituzionalmente corretto sono una sorta di richiamo nei confronti del premier». Basterà per dissuadere il premier e i suoi dal procedere su legge bavaglio, immunità parlamentare e quant’altro? Franceschini  si dice certo che «porteranno in Parlamento tutte le porcherie che hanno in cantiere, anche a costo di devastare tutto solo per salvare Berlusconi», ma si dice altrettanto convinto che «non riusciranno nell’intento». E se in qualche retroscena giornalistico si parla addirittura della tentazione che ci sarebbe nel Pd (soprattutto tra gli ex-Ppi) di aprire un confronto proprio sul ritorno all’immunità parlamentare, Franceschini esclude seccamente l’ipotesi di un’apertura: «Non è né sarà mai la linea del Pd. Non si può tornare indietro. Sarebbe folle prevedere l’immunità per 945 parlamentari per garantirla a Berlusconi. E poi se è sbagliata per Berlusconi è sbagliata anche per tutti gli altri deputati e senatori».
Circa le difficoltà che sta attraversando Fini, dice che non c’è da sorprendersi: «Sta combattendo a mani nude contro i carri armati». Anche con lui, per Franceschini, il Pd dovrà lavorare nel «dopo-Berlusconi». La road-map che delinea passa per un’opposizione che «non deve trascurare l’importanza della mobilitazione nella società», per la fine di una maggioranza che nonostante la compravendita «c’è solo nelle grandi occasioni voti di fiducia o su Berlusconi perché in aula a votare arriva tutto il governo, ma per il resto condanna il Parlamento alla paralisi», e poi per la necessità di aprire una «fase ricostruttiva»: «Un’ampia coalizione non è solo legata all’esigenza di battere Berlusconi. È che dopo di lui il Paese sarà pieno di macerie di tutti i tipi: economico, istituzionale, ma soprattutto morale. In questi anni c’è stato un rovesciamento della gerarchia dei valori, dall’unità nazionale in giù». Ricostruire con un uomo di destra, come Fini, e uno contrario al bipolarismo, come Casini? «Sì, perché riscostruire è un’operazione che non può fare una parte sola, si fa insieme agli avversari (naturalmente non quelli che hanno creato questa situazione) se vogliamo che dia frutti duraturi». Poi, dice, si può tornare alla «normale fisiologia democratica». E il tema di chi dovrebbe guidare questo ampio arco di forze? «Va in coda».

l’Unità 21.2.11
Politologi, cinismo e forza dei numeri
Tattiche, alleanze e strane critiche al Pd
di Renato Barilli


Non sono un    oppositore pregiudiziale del “Corriere della sera”, con cui ho collaborato per molti anni, e nessuno può dimenticare che un suo direttore, Paolo Mieli, a suo tempo aveva esortato i propri lettori a votare per Prodi. Da quelle colonne inoltre di recente due redattori fissi, Cazzullo e Stella, hanno difeso bene la causa dell’unità d’Italia contro i furori leghisti. Ma purtroppo quel foglio inalbera pure i fondi di Ernesto Galli della Loggia e di Angelo Panebianco, contrassegnati da un falso neutralismo, mentre tra le righe non mancano di recare stoccate micidiali alla causa del centrosinistra. Di questo difettuccio di Galli della Loggia ho già detto in altra occasione, ora mi sembra giusto controbattere un uguale reato di cui si è macchiato il fondo di ieri steso da Panebianco. Eloquente il titolo, “Gli alleati immaginari”, dove si accusa tutta la dirigenza Pd di illudersi di poter riunire in una santa alleanza l’intero arco delle forze antiberlusconiane, in vista di una prossima campagna elettorale. Ma un fine e astuto politologo come Panebianco, sa bene che questa ipotesi vale solo nel caso che il governo Berlusconoi cada e che, senza andare a elezioni anticipate, il Presidente Napolitano possa far nascere un governo di salute pubblica per alcune riforme urgenti e largamente condivise. Se questo non avviene, se si va davvero a elezioni anticipate, nessuno è così cieco e illuso, e per primo lo sa Panebianco, da poter contare su un cartello elettorale così vasto e indiscriminato, tutt’al più il Pd dovrà cercare di riunire attorno a sé le sparse membra della sinistra, da Idv a Sel, e nulla più.
Scatta allora l’ipotesi che prima o poi si debba andare alle famigerate elezioni anticipate di cui si parla da mesi, e che certo nessuno può escludere. Qui Panebianco imbocca subito il copione del compagno di cordata, deprecando anche lui che il Pd e la sinistra in genere non abbiano un candidato carismatico, peccato, gli manca proprio un Berlusconi del caso, magari con buona scorta di veline, minorenni e altro, tanto per rendersi più accetto all’opinione pubblica. Però, un momento, una figura di questa portata c’è, basterebbe rivolgersi a Vendola. In questo Panebianco diviene davvero un capolavoro di cinismo, in quanto sa bene che se l’intero fronte della sinistra si presentasse dietro quel volto, sicuramente simpatico, attraente, ma anche troppo spostato verso un estremo, l’insuccesso sarebbe assicurato, con grande giubilo dei nemici per la pelle della sinistra, di cui Panebianco è tra i primi, anche se in panni mascherati. Come può un candidato con alle spalle un pacchetto del 6% dei voti risultare preferibile a un leader espresso da un partito con un 25% dei potenziali suffragi? La forza dei numeri è tutto sommato superiore a quella delle immagini televisive.

Corriere della Sera 21.2.11
Pd in cerca di una nuova strategia E Bertinotti torna a fare il «regista»
di  Maria Teresa Meli


ROMA— Adesso che Pier Ferdinando Casini sembra preferire il viaggio in solitaria alla Santa Alleanza propostagli da Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, i vertici del Partito democratico sono costretti a rivedere la loro strategia. Tanto più che il rottamatore Matteo Renzi incalza. Il sindaco di Firenze in questi giorni girerà per tutta la Penisola. Per presentare il libro che ha scritto, certo, ma anche per un anticipo della sua campagna elettorale. Non quella per le amministrative del capoluogo toscano. Non è al rinnovo del mandato che punta Renzi, bensì al debutto nella politica nazionale. Le elezioni anticipate sembrano archiviate, e questo gli consente di avere il tempo e il modo per prepararsi al grande salto. Nel frattempo, al Pd, si cerca una nuova strategia. Non si possono chiedere ogni giorno le elezioni e le dimissioni di Berlusconi senza ottenere nessuna delle due cose. Alla fine il rischio è che la prosecuzione della legislatura e del governo vengano viste come una sconfitta del Partito democratico, anche se, ovviamente, così non è. Spiega un autorevole senatore: «Tutti noi parlamentari del Pd abbiamo la posta elettronica intasata di email di elettori che ci chiedono quando si va al voto. Ed è imbarazzante rispondere a tutta questa gente» . L’otto marzo, con tutta probabilità, il Partito democratico raggiungerà quota dieci milioni di firme per mandare a casa il premier, e sarà senz’altro un bel colpo di immagine. Ma non basta. Né sarà sufficiente la campagna che prenderà il via il 28 con affissioni in tutta Italia, video e spot. Il tema è «andare oltre» . Oltre il berlusconismo, naturalmente. Per il momento, però, il Partito democratico non riesce ad andare oltre la strategia fin qui seguita e fatica a trovarne una nuova. Anche perché il fallimento dell’ipotesi del Cln anti-Berlusconi pone nuovamente i dirigenti del Pd dinnanzi al solito problema: confrontarsi con quello che al momento sembra l’unico alleato certo, Nichi Vendola. Nella sinistra è tornato a giocare il ruolo di grande saggio, oltre che di suggeritore, Fausto Bertinotti. È a lui che si deve l’idea, quando si parlava ancora di Santa Alleanza, di lanciare la candidatura di Rosy Bindi alla premiership di uno schieramento siffatto. Non è di Romano Prodi, come pure si è detto, il copyright, bensì dell’ex presidente della Camera. E negli ambienti della sinistra si vocifera che Bertinotti abbia addirittura prospettato questa soluzione a Gianfranco Fini. È stata una mossa tattica, che ha spiazzato i dirigenti del Pd e li ha fatti litigare tra di loro. Quando poi Pier Ferdinando Casini ha bocciato questa grande ammucchiata, al quartier generale della Sel il commento di Vendola è stato: «Ottimo» . Ma l’ipotesi della Bindi serviva ancora, e infatti gli esponenti vicini al presidente della Regione Puglia hanno continuato a perorarla. Era il modo per far passare l’idea che i candidati alla premiership sono necessariamente molteplici e che solo le primarie possono decidere chi sarà la persona che guiderà lo schieramento alternativo a Berlusconi. «Io alle primarie non rinuncio: sono uno strumento di democrazia» , torna a dire Vendola. Già, le primarie sono uno strumento indispensabile per portare avanti il progetto che Bertinotti ha in mente. Un progetto che qualche tempo fa l’ex presidente della Camera spiegava con queste parole a Ritanna Armeni, giornalista, sua addetta stampa ai tempi in cui era il leader di Rifondazione comunista: «La sinistra, a cominciare dal Partito democratico, ha bisogno di un big bang, ha bisogno di distruggersi per potersi ricostruire. Vendola può favorire il big bang. Può scompaginare e sparigliare» . Dunque la posta in gioco per il Pd è alta e ritrovarsi senza Casini come alleato complica le cose perché rende inevitabile, e non rinviabile per troppo tempo, il confronto con gli alleati della Sel. Bersani lo ha capito ed è per questo che ultimamente non risparmia frecciate all’indirizzo di Vendola.

Corriere della Sera 21.2.11
Pannella: «Le escort non sono il Diavolo»
di Marco Gasperetti


CHIANCIANO TERME— «Siamo ancora qua» , dice con un sorriso Marco Pannella pensando a Vasco Rossi, tessera radicale numero 25 e alla sua «Eh, già» diventata l’inno del 39 ° congresso del partito (oggi transpartito), transnazionale e non violento. Non pensa soltanto al compagno Blasco, il leader radicale, ma anche un po’ al «capro espiatorio» Berlusconi con il quale ha accettato di discutere «scatenando illazioni» , dice. E soprattutto l’attenzione dei politologi che in quei contatti, dopo un amore iniziato anni fa e poi finito, vedono possibili nuovi accordi ipotizzando persino un sottosegretariato. Lui smentisce. «Io sottosegretario del governo Berlusconi? Una minestra riscaldata che noi non vogliamo mangiare» . La sensazione però è che tra governo e radicali sia in atto un riavvicinamento. Dietro le quinte del congresso di Chianciano, dedicato alle vicende internazionali e concluso con la speranza che la miccia del Nord Africa possa diventare una svolta contro le dittature avallate dall’Occidente, se ne parla diffusamente e si racconta di possibili nuovi incontri. Ad agevolare il dialogo la riforma della giustizia che i radicali chiedono, inascoltati, da sempre. Anche perché l’opinione dominante nel partito sembra essere quella che uno scandalo sessuale non può costare le dimissioni di un premier. Così ieri nella giornata conclusiva, Pannella ricorda le escort. «Che non sono il diavolo ma solo escort» . E aggiunge tra gli applausi: «Che palle questa storia» . Il segretario dei Radicali italiani, Mario Staderini, esclude un ingresso in maggioranza. Ma non nega una possibilità di votare buone leggi anche del governo di centrodestra. «Siamo liberi di dire sì a tutti i provvedimenti che condividiamo» . E forse la riforma della giustizia potrebbe essere tra questi.

l’Unità 21.2.11
Super anno elettorale Quello di ieri il primo test. Il partito della cancelliera perde più del 20%
I socialdemocratici per gli exit poll passano dal 34,1 al 50% e tornano al potere dopo10 anni
Amburgo, disfatta per Merkel Alla Spd maggioranza assoluta
Sonora sconfitta per il partito della cancelliera Merkel nelle elezioni ad Amburgo, primo test del «super anno elettorale». La Cdu perde più del 20%, la Spd fa il pieno e torna al potere dopo 10 anni.
di Gherardo Ugolini


Pessime notizie per la cancelliera Angela Merkel. Dopo dieci anni di amministrazione Cdu la sinistra socialdemocratica riconquista Amburgo in un turno elettorale di valenza locale, ma con inevitabili riflessi anche sul quadro politico nazionale. La Spd riconquista molti dei voti che aveva perduto negli ultimi anni fino a raggiungere – secondo i dati diffusi in serata dalla Tv tedesca – un trionfale 50% (rispetto al 34,1% della volta precedente): un risultato che le garantirà la maggioranza assoluta dei saggi e dunque la possibilità di governare da sola nella prossima legislatura.
LA RIMONTA
Dopo la vittoria di Hannelore Kraft in Nord Reno-Vestfalia, Amburgo è il secondo Land occidentale dove l’Spd ritorna al potere alla fine di un lungo purgatorio. Il merito va in gran parte alle capacità di Olaf Scholz, un riformista moderato e pragmatico, già ministro del Lavoro dal 2007 al 2009 nel governo nazionale di Grande Coalizione, che nella sua città ha recuperato i consensi dell’elettorato di centro puntando su alcune idee chiave quali la gratuità degli asili nido e un nuovo piano di edilizia popolare.
Per la Cdu il risultato è una debacle senza precedenti. Il candidato del partito cristiano-democratico, Christoph Ahlhaus, si è fermato a quota 20%: un tonfo rispetto al 42,6% di tre anni fa, al di sotto dei sondaggi della vigilia e peggior risultato di sempre in quella regione. Ahlhaus aveva preso in mano le redini del partito e del governo locale la scorsa estate, dopo le dimis-
sioni a sorpresa del popolare borgomastro Ole von Beust, ritiratosi a soli 55 anni dalla vita politica. Von Beust aveva guidato un’anomala e discussa coalizione formata da Cdu e Verdi, una formula sperimentale che secondo alcuni osservatori sarebbe potuta diventare utile anche per il governo nazionale. Ma nel caso di Amburgo i fatti hanno dimostrato che l’eterogeneità di quelle due forze politiche rende pressoché impossibile un’alleanza stabile e duratura. I liberali della Fdp sono riusciti a superare la soglia-sbarramento del 5% e ritornano nel parlamento del Land. Anche la Linke ha confermato col 6,5% dei voti la propria rappresentanza parlamentare. Bene, ma non troppo, i Verdi: hanno ottenuto l’11%, con un leggero miglioramento rispetto al turno precedente, ma certo molto meno di quanto si aspettavano. Soprattutto il risultato straordinario della Spd rischia di metterli fuorigioco quali possibili partner di governo. È iniziato dunque sotto i peggiori auspici per Angela Merkel il «super anno elettorale» che dopo Amburgo prevede in agenda altre sei elezioni in altrettanti Länder. Il trionfo socialdemocratico di Amburgo produce almeno due conseguenze immediate sul piano nazionale. Innanzi tutto sancisce l’abbandono, probabilmente definitivo, della possibilità di alleanze governative tra Cdu e Verdi, togliendo alla cancelliera una possibile opzione di riserva. In secondo luogo accresce la debolezza dell’attuale coalizione governativa nel Bundesrat, il secondo ramo del parlamento in cui sono rappresentati i Länder, dove per altro il blocco conservatore già aveva perduto la maggioranza assoluta.
La sconfitta di Amburgo si somma ai rovesci patiti nei giorni scorsi: le dimissioni di Axel Weber dalla Bundesbank (da molti osservatori interpretate come rottura con la cancelliera) e lo scandalo abbattutosi sul ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg, accusato di aver copiato molte pagine della sua tesi di dottorato e costretto perciò a rinunciare al titolo in attesa che si faccia chiarezza sulla questione.

Repubblica 21.2.11
Lo scrittore premiato con il Jerusalem Prize
McEwan: "Perché Israele deve rinunciare alla forza"
di Ian McEwan


Il discorso dello scrittore inglese alla consegna del prestigioso Jerusalem Prize, un riconoscimento che è stato accompagnato da molte polemiche

Sono profondamente commosso di ricevere questo onore, il rinomato Jerusalem Prize che premia la scrittura che promuove l´idea della "libertà dell´individuo nella società". In definitiva, la qualità di qualsiasi premio può essere giudicata soltanto dalla totalità dei premiati.
Il palmares di questo premio non ha pari al mondo. Molti degli scrittori ai quali avete consegnato questa onorificenza in passato sono da tanto tempo parte del mio corredo mentale, hanno plasmato il mio modo di intendere che cosa sia la libertà e ciò che può realizzare l´immaginazione. Non riesco a credere nemmeno per un istante di poter essere considerato all´altezza di illustri scrittori del calibro di Isaiah Berlin, Jorge Luis Borges o Simone de Beauvoir. E per un verso sono sopraffatto dall´idea che voi crediate che io lo sia.
Da quando ho accettato l´invito di recarmi a Gerusalemme, non ho vissuto giorni tranquilli. Molte organizzazioni, molte persone, in termini differenti e con livelli diversi di civiltà, mi hanno esortato a non accettare questo premio. Un´associazione ha scritto a un giornale nazionale dicendo che a prescindere da ciò che io penso in fatto di letteratura, della sua nobiltà, delle sue possibilità, non posso eludere l´aspetto politico della mia decisione. Con riluttanza, con amarezza, devo ammettere che le cose stanno proprio così. Provengo da un Paese che gode di relativa stabilità. Abbiamo forse anche noi dei senzatetto, ma abbiamo una patria. Quanto meno, il futuro della Gran Bretagna non è in discussione, a meno che essa non si frammenti per una devolution pacifica e democraticamente concordata. Non siamo minacciati da vicini intimidatori, né siamo stati trasferiti a forza. Nel mio Paese gli scrittori hanno il lusso di poter scrivere tanto quanto sta a loro a cuore di questioni politiche. Qui, per gli scrittori israeliani e palestinesi, la "situazione", ha matsav, è sempre incombente, esercita incessantemente pressioni, come un dovere, come un fardello o un´ossessione prolifica. Affrontarla è una lotta creativa, come è lotta creativa anche non affrontarla. In linea generale direi che tutte le volte che la politica penetra in ogni angolo dell´esistenza, allora qualcosa è andato profondamente storto. Nessuno può fingere che le cose vadano bene qui, quando la libertà degli individui - e ciò significa di tutti gli individui - è complicata per l´attuale situazione di Gerusalemme.
Una volta deciso che sarei venuto, ho chiesto consiglio a uno scrittore israeliano, un uomo che ammiro profondamente. È stato molto incoraggiante, ha esordito dicendo: "La prossima volta cerca di farti premiare dalla Danimarca". Alcuni di coloro che sono stati insigniti prima di me da questo premio hanno espresso le loro riflessioni davanti a un´assemblea come questa e hanno irritato alcune persone. Chiunque, però, è consapevole di un semplice fatto: istituendo un premio per filosofi e scrittori creativi, avete abbracciato la libertà di pensiero e di parola, e io considero l´esistenza del Jerusalem Prize alla stregua di un tributo alla preziosa tradizione di una democrazia delle idee in Israele.
Vorrei condividere con voi alcune riflessioni sulla forma del romanzo e sull´idea delle libertà dell´individuo, che avete scelto come tema del vostro Premio. La tradizione del romanzo al quale io lavoro affonda le proprie radici nelle energie laiche dell´Illuminismo europeo, durante il quale le condizioni personali e anche sociali dell´individuo iniziarono a essere oggetto di attenzione duratura da parte dei filosofi. Si affermò una classe sempre più ampia e relativamente privilegiata di lettori, che avevano il tempo non soltanto di riflettere sulla loro stessa società, ma anche sulle proprie relazioni intime, e costoro scoprirono che nei romanzi le loro preoccupazioni erano riflesse e approfondite. In Swift e Defoe, i personaggi erano messi alla prova dall´etica, e le loro società erano oggetto di satira, o giudicate tramite racconti di viaggio che erano o del tutto immaginari oppure basati su documentazioni reali. In Richardson, forse, troviamo il primo intenso resoconto a grana fine della coscienza individuale. In Fielding, agli individui sono conferite visioni panottiche di una società nello spirito di una commedia benevola e inclusiva. Infine, la meraviglia che corona il tutto: in Jane Austen il destino degli individui è rappresentato tramite una nuova modalità narrativa - poi tramandata alle generazioni successive di scrittori - uno stile libero indiretto, che permetteva alla attenta valutazione di una terza persona oggettiva di fondersi con un aspetto soggettivo vivace - tecnica che permetteva al personaggio-individuo del romanzo un maggiore spazio di crescita. Per tutto il diciannovesimo e ventesimo secolo, nelle opere di maestri quali Charles Dickens, George Eliot, James Joyce e Virginia Woolf, l´illusione letteraria del personaggio e la rappresentazione della coscienza furono maggiormente rifinite, con il risultato che il romanzo è diventato il nostro migliore e più sensibile mezzo di esplorazione della libertà degli individui. E tale esplorazione spesso rappresenta ciò che accade allorché la libertà è negata.
Questa tradizione del romanzo è fondamentalmente laica. Sono le coincidenze, o le macchinazioni umane - e non Dio - a decidere dei destini umani. È una struttura che è plurale, che perdona, che è profondamente curiosa delle mentalità altrui, di come deve essere poter essere qualcun altro. Riesce, con una sorta di attenzione e concentrazione divina propria dell´autore, ad accordare rispetto per l´individuo ai suoi protagonisti principali, di alta o bassa estrazione sociale, ricchi o miserabili che siano.
La tradizione inglese è soltanto una tra le molte, ma è profondamente legata a tutte le altre. Parliamo di una tradizione ebraica nel romanzo, tradizione vasta, complessa, ma tuttora condizionata da argomenti ordinari: un atteggiamento talvolta ironico nei confronti di un dio; l´accettazione della sottostante commedia metafisica e soprattutto, in un mondo di persone sofferenti e oppresse, la profonda simpatia per il personaggio-vittima; infine, la determinazione a offrire agli oppressi il rispetto che la fiction può conferire allorché illumina la vita interiore. Ne troviamo gli elementi nelle allegorie esistenziali di Nella colonia penale e del Processo di Kafka; nella tristezza e bellezza di Bruno Schulz; nell´opera di Primo Levi quando diede voce personale all´incubo della Shoah, che fece della crudeltà un´industria che resterà per sempre la misura estrema della depravazione umana o di quanto in basso noi si possa scendere. E ancora, nella fiction di I. B. Singer, che conferì dignità alle vite rattrappite degli immigrati; in termini diversi troviamo un tema parallelo in Saul Bellow, i cui protagonisti intellettuali e in agonia lottano invano e senza frutto per fiorire in una cultura materialistica e ingrata. La vittima, l´estraneo, il nemico e il reietto, un viso nella folla, diventa sempre un essere pienamente realizzato in virtù della grazia della polvere magica della fiction - una polvere la cui ricetta è per altro "segreto non segreto" - ovvero grande attenzione al dettaglio, empatia, rispetto.
Questa tradizione è vigorosamente sostenuta nella cultura letteraria di Israele, e questo sin dalla sua fondazione. Di recente ho avuto modo di scoprire Khirbet Khizeh di S. Yizhar, pubblicato nel 1949 - lo smagliante resoconto di un villaggio arabo raso al suolo durante la guerra del 1948 - e di una protesta che non abbandona mai la gola della voce narrante, mentre le case sono demolite e gli abitanti del villaggio sono portati via dalla loro terra. È un tributo a una società aperta che questo racconto per molti anni sia stato fatto leggere agli scolari israeliani. Khirbet Khizeh è tutt´oggi un´opera dolorosamente importante. Ma la questione morale è ancora attuale.
Ci sono molti scrittori che si potrebbero citare, ma permettetemi di parlare soltanto di tre personaggi di fama che si sono guadagnati l´amore e il rispetto dei lettori di tutto il mondo: Amoz Oz, Abraham Yehoshua e David Grossman. Si tratta di scrittori molto diversi tra loro, di idee politiche sovrapponibili ma lungi dall´essere identiche; scrittori che amano il loro paese, che hanno fatto sacrifici per esso e sono preoccupati per la direzione che esso ha imboccato, e le cui opere non sono mai prive di quella polvere magica fatta di rispetto e del dono della libertà agli esseri umani, arabi tanto quanto ebrei. Nelle loro lunghe carriere si sono opposti agli insediamenti. Loro e la comunità dei letterati più giovani di Israele sono la coscienza, la memoria e soprattutto la speranza del Paese. Ma io credo di poter affermare che tutti questi tre scrittori negli ultimi anni hanno visto che le circostanze facevano infrangere le loro speranze.
Mi piacerebbe dire qualcosa del nichilismo. Hamas - le carte costitutive del quale comprendono il velenoso falso dei Protocolli dei Savi di Sion - ha abbracciato il nichilismo dell´attentatore suicida, dei razzi sparati alla cieca contro le città. Ha abbracciato il nichilismo di una politica di estinzione verso Israele. Ma - volendo fare un unico esempio - è stato nichilista anche sparare un razzo contro l´abitazione indifesa del medico palestinese Izzeldin Abuelaish a Gaza, nel 2008, che ha provocato la morte delle sue tre figlie e di sua nipote. È nichilismo fare della Striscia di Gaza una prigione a lungo termine. Il nichilismo ha scatenato uno tsunami di cemento in tutti i Territori occupati. Quando gli illustri giudici di questo premio mi lodano per il mio "amore per la gente, la preoccupazione per il loro diritto all´autorealizzazione", paiono quasi esigere che io citi - e devo farlo - i continui sfratti e le demolizioni, l´incessante acquisto di case palestinesi a Gerusalemme Est, il processo del diritto al ritorno garantito agli ebrei ma non agli arabi. Questi cosiddetti "fatti sul terreno" sono una sorta di colata di cemento a presa rapida sul futuro, sulle future generazioni di bambini palestinesi e israeliani che erediteranno questo conflitto e lo troveranno ancor più difficile da risolvere di quanto sia oggi, come più difficile sarà affermare il loro diritto alla realizzazione personale.
Per l´umile ateo la situazione è abbastanza chiara: non appena le controparti di una disputa politica attingono la loro ispirazione primaria dai rispettivi dèi di parte, la soluzione pacifica si allontana. Non sono interessato, però, a controversie d´equivalenza. Nell´aria aleggia una grande ingiustizia, più che palese: molte persone sono state trasferite altrove e continuano a esserlo. D´altro canto, una democrazia eccellente è minacciata da vicini ostili, perfino al punto da essere minacciata di estinzione da uno Stato che presto potrebbe entrare in possesso di una bomba nucleare. La domanda più impellente è quella di Lenin: che si deve fare? Quando ci poniamo questa domanda, ci chiediamo anche: chi deve farlo? Chi ha il potere di intervenire? I palestinesi sono divisi, le loro istituzioni democratiche sono deboli o inesistenti. Il jihadismo violento ha dimostrato di autodistruggersi. Sono stati sfortunati, in quanto a leadership. Eppure, molti palestinesi sono pronti per una soluzione. Il loro intendimento è questo.
E Israele? Che lo si creda o no, c´è un calcolo per quantificare le energie creative di una nazione. Si guardi alle edizioni presenti in questa fiera del libro, ai numeri dei libri tradotti dall´ebraico e in ebraico, oppure al numero delle richieste di diritti d´autore andate a buon fine (sbalorditivo, per un Paese così piccolo), o ancora al numero degli studi scientifici citati, alle scoperte nelle tecnologie legate all´energia solare, ai concerti in tutto il mondo del Jerusalem Quartet che fanno sempre il tutto esaurito. L´indice dell´energia creativa è alto, e alte sono le capacità. Dov´è però la creatività politica di Israele? In che cosa i politici di questa nazione devono competere costruttivamente con gli artisti e gli scienziati israeliani? Di sicuro, non nel mix cementifero. Di sicuro, non negli ordini di sfratto. Abbiamo letto tutti i documenti fatti pervenire ad Al Jazeera. Di sicuro, questo non è il meglio che i politici israeliani possono fare, allorché soccombono a quello che David Grossman ha chiamato "la tentazione della forza", e allorché quasi con nonchalance mettono in disparte le considerevoli concessioni fatte dall´Autorità Palestinese.
In questo contesto, il contrario di nichilismo è creatività. La voglia di cambiamento, l´intenso desiderio di libertà personale che sta dilagando in Medio Oriente è un´occasione, più che una minaccia. Nel momento in cui gli egiziani hanno deciso in massa di riformare la loro società e di pensare in termini costruttivi, assumendo in pieno la responsabilità della loro nazione nelle loro stesse mani, sono stati e saranno meno propensi ad accusare altri, estranei, per tutte le loro disgrazie. È adesso, proprio adesso, il momento giusto per riavviare il processo di pace. La nuova situazione impone di saper riflettere politicamente e creativamente con audacia, non di ritornare all´amarezza di una mentalità da bunker, né di continuare ad andare avanti, dietro sempre più cemento.
Dopo la sua recente visita qui, la commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani ha dichiarato che sparare razzi contro Israele da Gaza è un crimine di guerra. Ha dichiarato anche che l´annessione di Gerusalemme Est viola le leggi internazionali e che Gerusalemme Est è continuamente svuotata dei suoi abitanti palestinesi. Ci sono alcune similarità da questo punto di vista tra un romanzo e una città. Un romanzo, naturalmente, non è semplicemente un libro, un oggetto materiale fatto di pagine e copertina, ma è un genere particolare di spazio mentale, un luogo di esplorazione, di indagine sulla natura umana. Analogamente, una città non è soltanto un agglomerato di edifici e strade. È anche un luogo mentale, terreno di sogni e contese. Tra queste due entità, la popolazione, le persone immaginarie o reali, lottano per il loro diritto a perseguire la loro auto-realizzazione. Lasciate che lo ripeta: il romanzo come forma letteraria nacque per curiosità e rispetto per gli esseri umani. Le sue tradizioni lo sospingono verso il pluralismo, l´apertura, un desiderio solidale di abitare la mente altrui. Non c´è uomo, donna o bambino, israeliano o palestinese, né di qualsiasi altra origine, la mente del quale un romanzo non possa ricostruire amorevolmente. Istintivamente, il romanzo è democratico.
Accetto con gratitudine questo premio nella speranza che le autorità di Gerusalemme - un giorno capitale di due Stati, spero - guardi al futuro dei suoi figli e ai conflitti che potrebbero teoricamente travolgerli, ponga fine agli insediamenti e alle invasioni, e aspiri creativamente alla condizione aperta, rispettosa, plurale del romanzo, la forma letteraria alla quale questa sera noi tutti rendiamo onore.
©Ian McEwan, 2011
Traduzione di Anna Bissanti

l’Unità 21.2.11
Due senatori Pd
Della Seta e Ferrante contro D’Alema: comprensivo col raìs


Due senatori Pd contro D’Alema che ieri in un’intervista al Sole 24 Ore ha criticato l’ipocrisia dell’Occidente sulla democrazia nei Paesi Arabi, ha chiesto a Gheddafi di fermare la repressione ma ha sollecitato l’Italia ad «incoraggiare» il rais a fare le riforme tenendo conto della protesta popolare . «È triste che in prima fila tra i difensori europei di Gheddafi vi siano due leader politici italiani, Berlusconi e D'Alema. È quanto hanno affermato ieri i senatori Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante. «In Nord Africa e in Medio Oriente sta esplodendo un movimento che nasce da una voglia insopprimibile di libertà, di democrazia». «Che Berlusconi di questo se ne infischi non sorprende. Che non lo veda D'Alema, il quale auspica che a guidare la transizione democratica in Libia sia lo stesso Gheddafi, è stupefacente».

l’Unità 21.2.11
«Silenzio è complicità. L’Italia condanni il raìs»
Il leader dell’opposizione in esilio: «La rivolta dilaga in tutto il Paese, il colonnello sta cercando di oscurarla L’Occidente deve schierarsi e fermare il bagno di sangue»
di U.D.G.


Hanno aperto il fuoco con le mitragliatrici dei carri armati contro una folla inerme. Hanno assoldato migliaia di mercenari pagandoli migliaia di dollari per ogni uomo, donna o bambino che uccidono. Impediscono ai giornalisti indipendenti di recarsi nelle città insorte. La Comunità internazionale non può assistere passivamente ai massacri che Muammar Gheddafi e i suoi scherani stanno compiendo. La Comunità internazionale deve intervenire e subito per porre fine a questo bagno di sangue. Fermate la mano del carnefice. Il silenzio è complicità». A parlare è uno dei leader dell’opposizione libica in esilio: Mohamed Ali Abdallah, vicesegretario generale del Fronte nazionale per la salvezza della Libia. Sarà un massacro, sarà un bagno di sangue se la comunità internazionale non interviene». «La rivolta – dice Abdallah a l’Unità – si è estesa dalle città della Cirenaica al resto del Paese, compresa Tripoli. Il regime prova a occultare questa verità, cerca di oscurare la rivolta, oltre che reprimerla brutalmente. Ma non riuscirà nel suo intento: il cambiamento di regime è inevitabile ed è molto vicino». La Cirenaica è in fiamme. Le notizie che riescono a filtrare parlano di scontri a Bengasi, Tobruk, Al Bayda, Darna. Quale sono le informazioni di cui dispone?
«La Libia intera, e non solo la Cirenaica, sta insorgendo contro il regime di Gheddafi. La repressione è spietata, brutale, molto più pesante di quanto è fin qui filtrato. I morti sono quasi trecento, i feriti più di un migliaio. Ed è un bilancio che cresce di ora in ora. A Bengasi i carri armati hanno sparato sui manifestanti, i più feroci sono i mercenari reclutati dal regime.
Ma la repressione non ha fermato la protesta che dalla Cirenaica si sta estendendo a tutta la Libia, raggiungendo anche la capitale, Tripoli».
C’è chi sostiene che il vero obiettivo della rivolta è determinare la seccessione della Cirenaica... «Non è così. L’obiettivo non è diverso da quello che ha mosso milioni di tunisini ed egiziani a scendere nelle strade: l’obiettivo è il cambiamento di regime. Ciò che la gente chiede sono diritti, libertà, democrazia, la fine di un regime dittatoriale».
Un regime guidato da un uomo, Muammar Gheddafi, riammesso dalla porta principale nella Comunità internazionale... «Diciamo che Gheddafi ha comprato questo ingresso, usando le ricchezze del Paese per fini personali. Ma nessun contratto miliardario potrà mai cancellare i crimini commessi dal regime».
Cosa chiedere alla Comunità internazionale e in particolare all’Europa? «Chiediamo di agire per fermare il massacro in atto. Chiediamo di fermare la mano del carnefice. Il silenzio è complicità con chi sta rispondendo con le cannonate alla rivendicazione di libertà della gente».
In Italia un importante esponente del Governo, aveva esaltato poche settimane fa il regime di Gheddafi come un modello di riformismo per il Maghreb...
«Che lo si ripeta negli ospedali di Bengasi, Al Bayda, Darna, Tobruk...pieni di cadaveri e di feriti di quanti hanno osato protestare! Dove sarebbe il “riformismo” di un regime che ha riempito le prigioni di oppositori, che fa della tortura una pratica costante...La gente non scambia un po’ di pane con la rinuncia ai propri diritti. Chi lo pensa calpesta la nostra dignità».
Da quando è esplosa la rivolta risulta sempre più difficile se non impossibile accedere a Twitter e Facebook dalla Libia, mentre le connessioni ad altri siti internet sono molto lente o impraticabili... «Il regime vuole oscurare la rivolta e soprattutto i massacri che sta perpetrando. Ai giornalisti e alle televisioni indipendenti è impedito di raggiungere le città che si sono sollevate. Facebook, Twitter, i siti internet sono le uniche finestre mediatiche aperte sulla rivolta. Il regime cerca di chiuderle a forza per mascherare i suoi crimini e impedire che il mondo conosca la verità. I governanti italiani affermano di avere buoni rapporti con il colonnello Gheddafi. Li usino almeno per chiedere che i giornalisti non al soldo del regime possano visitare gli ospedali, raccogliere testimonianze e raccontare ciò che hanno visto. L’Italia scelga da che parte stare: con chi reprime o con quanti si battono per la democrazia».

La Stampa 21.2.11
Intervista
“Le rivolte non si fermeranno ma i dittatori saranno spietati”
Molavi: più fragili le autocrazie legate all’Occidente
di Maurizio Molinari


DOPPIO VOLTO «In Iran e Libia i tiranni usano la forza senza remore Gli altri costretti a concessioni»

Sono i dittatori ad avere le maggiori possibilità di sopravvivere alle rivolte in atto in Medio Oriente». È la tesi di Afshin Molavi, l’islamista della New American Foundation di Washington divenuto uno degli analisti più popolari per la capacità che dimostrò nel giugno 2009 di descrivere e anticipare quanto stava avvenendo nelle strade dell’Iran. Gli abbiamo chiesto un’analisi comparata delle diverse rivolte in corso.
Che cosa accomuna le rivolte popolari in Medio Oriente? «La richiesta di dignità. Dal Cairo a Teheran la gente che scende in piazza chiede dignità politica con il rispetto dei diritti civili, dignità economica con politiche per combattere la miseria e dignità sociale con la fine dei privilegi delle élites e l’apertura di maggiori spazi per le donne nella vita di tutti i giorni».
E che osa invece le distingue? «La reazione dei governi. Lì dove ci sono delle feroci dittature, come in Libia o in Iran, il regime adopera la violenza senza limiti, fa stragi e resta in sella grazie alla repressione. Mentre dove a governare sono presidenti autocrati, come in Tunisia o in Egitto, questi tentano di reagire facendo concessioni e questo li porta ad essere rovesciati. È una differenza di reazione che è conseguente anche al legame dei singoli regimi con l’Occidente».
Sotto quale aspetto? «In Tunisia e in Egitto gli autocrati Ben Ali e Mubarak erano molto legati all’Occidente e dunque ne subivano le pressioni. Gheddafi e Ali Khamenei invece sono avversari dell’Occidente e dunque sono indifferenti a ogni richiesta o intervento da fuori».
Il Bahrein dove lo colloca? «Il Bahrein è un’autocrazia simile a quella egiziana. Molto legata all’America dagli accordi militari in base ai quali ospita la V flotta. Anche Marocco, Algeria e Yemen sono autocrazie legate da rapporti con l’Occidente. Come vediamo, stanno alternando concessioni alla piazza a diversi livelli di ricorso alla forza. Alcuni di questi autocrati potrebbero cadere. In Iran la situazione è tutt’altra».
Può farci un esempio concreto? «Ho parlato con alcuni degli studenti che negli ultimi giorni, e anche ieri, hanno manifestato a Teheran. Erano senza parole per il fatto che durante le manifestazioni a piazza Tahrir Mohammed el Baradei, leader dell’opposizione, è stato intervistato dalla Cnn per otto sere di seguito. Una cosa del genere in Iran è impensabile. Lì non solo i leader ma anche i semplici militanti dell’opposizione sono nell’impossibilità di comunicare. E i media stranieri non possono uscire dai loro uffici per lavorare».
Che cosa implica per l’Occidente il fatto che i dittatori hanno più facilità a sopravvivere? «Gli Stati Uniti, ma soprattutto l’Europa che in Medio Oriente conta di più, dovrebbero essere più duri contro i dittatori. Invece preferiscono alzare la voce con i loro alleati autocrati, in Bahrein o in Yemen, mentre scelgono il pragmatismo davanti alle stragi libiche o iraniane. È un doppio standard che potrebbe lasciare il segno nei giovani che manifestano».
Quanto conta l’Islam come molla per la mobilitazione? Meno di quanto non si creda. Se la gente protesta nel mondo arabo e non in Cina è perché, sebbene in entrambi manca la libertà politica, in Cina c’è una crescita economica. Ciò che fa la differenza è la fame, la miseria, la disoccupazione. L’Islam viene dopo. Se però in Tunisia o Egitto i partiti islamici sapranno proporre validi programmi economici, potrebbero presto arrivare al governo».
E se invece lo sviluppo economico continuerà a tardare? «È facile prevedere che le proteste torneranno».
Come spiega il fatto che in Tunisia e in Egitto, ad autocrati oramai caduti, le libertà politiche restino comunque lontane? «La caduta di un’autocrazia non significa l’avvento della democrazia. In Tunisia e in Egitto governano ancora élites economiche e militari. Potremmo andare incontro a uno scenario simile alla Russia, dove la democrazia è solo apparente».
Qual è il ruolo svolto da Internet nelle rivolte? «Le grandi manifestazioni in Tunisia e in Egitto si sono svolte il venerdì, il giorno della preghiera. Il network della moschea, o del bazar, conta assai più di Facebook, Google o delle email. La funzione di Internet è stata un’altra: informare all’estero su quanto stava avvenendo e dunque aumentare la pressione internazionale su Mubarak e Ben Ali, come sta avvenendo ora in Bahrein. Ma anche Internet conta meno contro le dittature: le immagini delle violenze a Teheran e Bengasi sono arrivate nelle nostre case ma l’impatto su quei regimi è stato scarso».

Repubblica 21.2.11
Fermiamo questo testamento biologico
Due anni dopo Eluana l´ultima battaglia sul testamento biologico
di Stefano Rodotà


Il rischio del "dispotismo etico", evocato a sproposito per inveire contro chi opera perché sia ricostruito quel minimo di moralità pubblica inscindibile dalla democrazia, si è già materializzato alla Camera dei deputati, dove è in corso la discussione sul progetto di legge che disciplina le modalità da seguire se si vogliono dare "indicazioni" per il tempo della fine della vita, ispirato non al principio di libertà, ma a quello di autorità. Se questa legge venisse approvata, ciascuno di noi perderebbe il diritto fondamentale ad autodeterminarsi, verrebbe espropriato del potere di governare liberamente la propria vita. Una politica incapace di guardare ai problemi veri della società si fa di colpo prepotente, si dichiara padrona dei corpi delle persone, pretende di impadronirsi davvero delle "vite degli altri".
Questo è il pezzo forte dell´ "agenda etica" del governo, rilanciata con evidenti finalità strumentali. Il presidente del Consiglio dichiara che «su temi etici e scuole cattoliche terrà conto delle indicazioni della gerarchia ecclesiastica», trasformando in offerta sacrificale i diritti dei cittadini, incurante di quel che dice la Costituzione. Dichiarazione ancor più inquietante perché seguita dall´intenzione di riformare la Corte costituzionale, che di quei diritti è custode. «La biopolitica è oggettivamente all´ordine del giorno» aveva detto un ministro tra i più impegnati su questo fronte, usando un termine, biopolitica, che descrive proprio il modo in cui il potere si fa governo dell´esistenza delle persone, sottomettendole, espropriandole della loro libertà. Un progetto autoritario, destinato a creare scontri su un terreno dove il rispetto delle scelte della persona dovrebbe essere massimo, dove la regola giuridica dovrebbe essere libera da ipoteche ideologiche.
Già l´aver usato una espressione come "agenda etica" è inquietante, perché rivela la volontà di imporre un´etica di Stato. Alla quale, però, sarebbe sbagliato contrapporre un´altra e opposta agenda etica. Deve essere invece ricordato quale sia il corretto "percorso costituzionale" da seguire, che è esattamente l´opposto di quel che prevede il progetto di legge attualmente in discussione, che riesce ad essere, al tempo stesso, ingannevole e autoritario. È ingannevole perché il suo titolo – che si richiama al consenso informato, all´alleanza terapeutica tra medico e paziente, alla rilevanza delle dichiarazioni fatte dalla persona per decidere sul come morire – è clamorosamente contraddetto dal contenuto delle singole norme. Il consenso della persona è sostanzialmente vanificato, perché le sue dichiarazioni non hanno valore vincolante e non possono riguardare questioni essenziali come quelle dell´alimentazione e dell´idratazione forzata, alle quali nessuno e in nessuna situazione potrebbe rinunciare. L´alleanza terapeutica si risolve nello spostamento del potere della decisione tutto nella direzione del medico. Le "dichiarazioni anticipate di trattamento" sono vere macchine inutili, frutto di un delirio burocratico che impone faticose procedure alla fine delle quali vi è il nulla, visto che sono prive di ogni forza vincolante.
Non siamo soltanto di fronte ad una "legge truffa", ma all´abbandono del lungo cammino che, partito dalle esperienze tragiche delle tirannie del Novecento che si erano violentemente impadronite dei corpi delle persone, era approdato all´affermazione netta della essenzialità del consenso dell´interessato. La persona, considerata prima come oggetto del potere politico e sottomessa alla volontà del medico, trovava così la sua libertà, la sua pienezza di "soggetto morale". Non è un caso che la prima dichiarazione dei diritti del nuovo millennio, la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, abbia voluto affermare, insieme, l´inviolabilità della dignità della persona e il rispetto del suo consenso libero e informato.
La riconsegna della persona e del suo corpo al potere politico e al potere medico, che sarebbe l´esito vero dell´approvazione del progetto di legge, è fondata su due affermazioni ideologiche. La prima: l´essere la vita "indisponibile", mentre è vero l´opposto, come dimostra l´ormai consolidato diritto al rifiuto e alla sospensione delle cure, che da tempo le persone già esercitano anche quando sono ben consapevoli che ciò può determinare la loro morte. La seconda: il divieto di rinunciare all´alimentazione e all´idratazione forzata, che le società scientifiche di tutto il mondo considerano trattamenti sanitari, ai quali dunque devono essere applicate le stesse regole generali. Proprio il voler trasformare queste affermazioni ideologiche e antiscientifiche in norme vincolanti tradisce l´intento autoritario della legge, l´inammissibile imposizione di un "obbligo di vivere".
Il "percorso costituzionale", allora. Che è netto, lineare. Nella sentenza n. 438 del 2008 la Corte costituzionale ha detto esplicitamente che esiste un diritto fondamentale all´autodeterminazione, congiunto all´altrettanto fondamentale diritto alla salute. Inoltre, nel 2002 e nel 2009 la Corte, come essa stessa scrive, «ha ripetutamente posto l´accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l´arte medica; sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere l´autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali». Le pretese del legislatore-scienziato, che vuol definire che cosa sia un trattamento terapeutico, e del legislatore-medico, che vuol stabilire se e come curare, vengono esplicitamente dichiarate illegittime. Più in generale, la Corte con la sentenza n. 471 del 1990 ha ribadito «il valore costituzionale dell´inviolabilità della persona costruito come libertà», che comprende «il potere della persona di disporre del proprio corpo».
E ricordiamo soprattutto le parole che chiudono l´art. 32 sul diritto alla salute: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». È una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, una sorta di nuovo habeas corpus, con il quale il moderno sovrano, l´Assemblea costituente, promette ai cittadini che non "metterà la mano" su di loro, sulla loro vita. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell´interessato. Il testo in discussione, dunque, è destinato ad essere dichiarato incostituzionale nei suoi punti essenziali, com´è già è accaduto all´altrettanto ideologica legge sulla procreazione assistita.
Tre domande finali. Perché la Chiesa italiana non ha assunto un atteggiamento analogo a quello delle Conferenze episcopali tedesca e spagnola che hanno dato il loro contributo all´approvazione di ragionevoli leggi sul testamento biologico? Perché al di qua delle Alpi questioni che altrove alimentano una grande discussione civile, diventano indiscutibili questioni di fede? Perché una maggioranza malata di "sondaggite" non tiene conto delle rilevazioni di Eurispes, che ancora di recente hanno confermato che il 77% degli italiani è favorevole al diritto di decidere liberamente sulla fine della vita?

l’Unità 21.2.11
Intervista a Tullio De Mauro
«Dalla Patria alla Matria. Ecco perché è la lingua che ci ha fatto italiani»
Il linguista: Un Paese paradosso il nostro, cementato nelle pagine dei capolavori letterari. E solo più di mezzo millennio dopo la «Commedia» diventato uno Stato
di Maria Serena Palieri


Massimo Cacciari dice che la sua devozione va non alla Patria, ma alla Matria. Cioè alla nostra madre lingua, l’italiano di Dante. E «il» linguista per antonomasia, Tullio De Mauro, stamattina al Quirinale parlerà appunto dell’Italia linguistica, dall’Unità alla Repubblica. Alla vigilia dell’incontro gli abbiamo rivolto alcune domande. A fronte dei 150 anni di Italia che festeggiamo oggi, ci sono, prima, sei secoli di storia di un popolo unito dalla lingua. È un'eccezione tutta italiana? E da cosa nasce? «La scelta del fiorentino scritto trecentesco a lingua che, sostituendo il latino, fosse lingua comune dell’Italia si andò affermando già nel secondo Quattrocento nelle nascenti amministrazioni pubbliche dei diversi stati in cui il paese era diviso e si consolidò poi tra i letterati nel XVI secolo quando sempre più spesso la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio cominciò a dirsi italiano e non più fiorentino o toscano. Spingeva in questa direzione l’aspirazione ad avere una lingua nazionale come già avveniva nei grandi stati nazionali europei. Rispetto alle altre parlate italiane, alcune già illustri come il veneziano o il napoletano, il fiorentino scritto aveva il vantaggio di una grande letteratura di rango europeo, il sostegno dell’attiva rete finanziaria e commerciale toscana, una assai maggiore prossimità al latino, che era la lingua dei colti. A questi soltanto, fuori della Toscana, e con la sola parziale eccezione della città di Roma, restò limitata la scelta. Mancarono ancora per secoli quelle condizioni di unificazione politica, economica e sociale e di sviluppo della scolarità elementare che altrove in Europa portavano i popoli a convergere verso l’uso effettivo delle rispettive lingue nazionali. Firenze e Roma a parte, l’uso dell’italiano restò riservato a occasioni più formali e solenni e alle scritture di quell’esigua parte di popolazione che poteva praticarle e leggerle. Tuttavia la tradizione letteraria dei colti fu un filo importante nella vicenda storica. Nell’Italia preunitaria, scrittori, politici, patrioti da Foscolo a Cattaneo e Manzoni, alla diplomazia piemontese, poterono additare a giustificazione storica della richiesta di unità e indipendenza dell’Italia l’esistenza di un’unica lingua nazionale. Ma non mancarono mai di sottolineare il fatto che l’uso dell’italiano era allora assai ridotto. È un tema ricorrente».
Quali sono le conseguenze di questa storia «al contrario»? «Senza riferimento alla lingua nazionale la stessa idea di unificare il paese e rivendicarne l’indipendenza forse non sarebbe nata».
Il 1861 quale tipo di Paese certificò, dal punto di vista linguistico? «Il 78% della popolazione risultò analfabeta. La scuola elementare era poco frequentata e mancava in migliaia di comuni. L’intera scuola postelementare era frequentata da meno dell’1% delle classi giovani. Secondo le stime la capacità di usare attivamente l’italiano apparteneva al 2,5% della popolazione. Un valoroso filologo purtroppo scomparso ha rivisto questa stima al rialzo, suggerendo che la capacità di capire l’italiano appartenesse all’8 o 9%». E 150 anni dopo?
«La scolarizzazione avrebbe potuto modificare la situazione del 1861. Ma, diversamente da quanto avvenne per esempio in Giappone, che negli stessi anni si avviava alla modernità e aveva condizioni scolastiche peggiori delle nostre, le classi dirigenti italiane puntarono su esercito e ferrovie, non sulla scuola. Alla fine del secolo il Giappone aveva portato alla piena scolarità elementare quasi il 100% della popolazione: in Italia siamo arrivati a questo soltanto negli anni sessanta del ‘900. Solo nel periodo giolittiano, a inizio ‘900, cominciò una forte spinta popolare all’istruzione, come riflesso della grande emigrazione verso paesi in cui leggere e scrivere era normale, e come conseguenza diretta del costituirsi di associazioni operaie e contadine e del Partito Socialista. I governi Giolitti risposero positivamente, le spese per edilizia scolastica e stipendio dei maestri passarono dai comuni allo Stato. La scolarità cominciò a crescere e anche crebbe la quota di prodotto interno lordo destinato alla scuola. Ma il processo si bloccò prima per la Grande Guerra, poi, dal 1925 in poi, per tutto il periodo fascista. All’inizio del suo cammino la Repubblica italiana si ritrovò con il 59,2% di analfabeti e senza licenza elementare, con un indice di scolarità di tre anni a testa, a livello dei paesi sottosviluppati. E con il 64% di popolazione consegnata all’uso esclusivo di uno dei dialetti, mentre l’italiano era usato abitualmente da poco più del 10% della popolazione (inclusi i toscani e i romani) e in alternativa con i dialetti da un altro 20% o poco più. Uscire da questa situazione parve una necessità a persone com Pietro Calamandrei o Umberto Canotti Bianco, ma anche ai padri costituenti, chenel 1948 “costituzionalizzarono” l’obbligo scolsticon gratuito per almeno 8 anni (è l’art. 34 della Costituzione). Ma la scuola elementare e la media hanno stentato a decollare fino agli anni settanta. La scuola ha fatto un lavoro enorme per sottrarre i figli e le figlie al destino di analfabetismo e mancata scolarità di padri e madri. Ha portato tutti i ragazzini alla licenza elementare negli anni settanta e ottanta, poi quasi tutti alla licenza media, infine, in questi anni, li ha portati per il 75% al diploma e alle porte dell’università. Ma non poteva cambiare da sola le strutture degli ambienti di provenienza degli allievi: la mancanza cronica di centri di pubblica lettura in oltre tre quarti dei comuni, la scarsa lettura di quotidiani, fermi, in percentuali di vendite, agli anni ‘50, la scarsa propensione alla lettura di libri. Per questa la parte femminile della popolazione, ha fatto moltissimo, assai più dei maschi, ma non basta». Nel gioco fra lingua e dialetti l'italiano è mai arrivato a essere “lingua di popolo”? O è rimasto lingua d'élite? «Oggi l’italiano è parlato dal 94% della popolazione, mai era stato tanto usato, solo il 6% resta ancorato all’uso esclusivo di uno dei dialetti. Ma la percentuale del 94% va sgranata e stratificata: il 45% parla abitualmente l’italiano anche tra le mura di casa, i l resto della popolazione lo usa in alternanza con uno dei dialetti o (per il 5%) delle lingue di minoranza. Ma attenzione, il multilinguismo, la persistenza di idiomi diversi non fa danno. Fa danno la dealfabetizzazione della popolazione adulta una volta uscita di scuola. Soltanto il 20% della popolazione ha gli strumenti minimi di lettura, scrittura e calcolo per orientarsi nella vita di una società moderna. La povera Mastrocola si agita per dire che dovremmo bloccare l’istruzione a 13 anni. Abbiamo invece bisogno di un grande sforzo collettivo di crescita culturale, qualche imprenditore comincia a capirlo, lo spiegano bene gli economisti e in un bel saggio recente Walter Tocci. Ma per ora la situazione è questa e un uso responsabile e sicuro della lingua è precluso a una gran parte del 94% che pure l’italiano ormai lo parla». Dal 1954 in poi, l'italiano ce l'ha insegnato nostra maestra televisione. Oggi la tv sul piano linguistico e civile che effetti produce?
«Sì, con le grandi migrazioni interne, l’industrializzazione e la crescente scolarità delle fasce giovani, negli anni ‘50 l’ascolto televisivo fu decisivo per sentire l’italiano usato nel parlare. Dagli anni ‘90 la rincorsa alla pubblicità ha imbastardito le trasmissioni senza che vi siano sufficienti contrappesi, il calmiere di una informazione seria e diffusa, la lettura. Oggi lavoriamo molto nelle scuole per insegnare i ragazzi la regola della “presa di turno” nel parlare, Poi apri un qualsiasi talk show o il grande fratello e vedi che quella regola è calpestata senza ritegno». Che effetto fa al linguista una Minetti (laureata) che intercettata dice “Ne vedrai di ogni. Ti devo briffare”? «Studio le registrazioni solo per obiettivi professionali, quindi per campioni statistici, e quelle di Minetti non mi sono per ora capitate».
E che effetto ha fatto al linguista il Benigni che spiega l'Inno di Mameli? «Un numero sterminato di anni fa, trenta, ricordo di avere cercato di spiegare che, come già per altri grandi comici, Totò anzitutto e Dario Fo, il comico di Benigni poggiava e poggia su una geniale intelligenza e una robusta, ampia base culturale. Benigni poi ci ha dato solo conferme. La sua “controlettura” dell’Inno di Mameli offre un modello raro e prezioso di come si debba e possa leggere la poesia, senza vibratini ed enfasi, come invece troppo spesso si fa. Di Benigni ricordo anche il memorabile discorso per l’avvio di pionieristici corsi di istruzione per gli adulti nel comune di Scandicci e la chiusa alta e paradossale, degna di Gramsci e don Milani: “Tutti vi dicono: fatti, non parole. E io vi dico invece: prima di tutto parole, parole, parole».

La Stampa 20.2.11
Intervista
“Amor patrio a sinistra? Uno stato di necessità”
Il filosofo Cacciari: c’è molta retorica, i progressisti sono spinti verso questi valori per contrapporsi alla Lega
di Mario Baudino


BENIGNI «E’ anche bravo e non fa danni, ma non basta»
STORIA NAZIONALE «La nostra debolezza è non avere un’identità come altri Paesi»

Il tricolore torna a sventolare, l’Inno di Mameli recitato da Benigni fa il record di ascolti di Sanremo, gli italiani sembrano riscoprire un calore nazionale inconsueto, mentre nel linguaggio della politica fanno irruzione le simbologie patriottiche, da destra come era abituale a sinistra, dove lo era meno. Nel linguaggio pubblico la riattribuzione di valore a simboli come la bandiera, a idee come quella di Patria e di Unità è a tratti addirittura spettacolare. Sta davvero cambiando qualcosa, anche nel profondo, nel sentimento del Paese? «A dir la verità, io proprio non me ne sono accorto» risponde Massimo Cacciari. Il filosofo ed ex sindaco di Venezia -, anima critica del centro-sinistra, gela gli entusiasmi.
Professor Cacciari, è tutta un’illusione?
«Queste cose non si misurano con il successo di Benigni, che per carità è anche bravo, va bene, non fa danno. Il problema è che in Italia l’amor patrio inteso come valore è appannaggio di una tradizione laico-repubblicana di matrice intellettuale. Sono posizioni minoritarie. Il centrosinistra è stato spinto quasi per necessità verso la rivendicazione di valori attribuibili in senso lato a Patria e Nazione, nel quadro di un confronto politico con la Lega. C’è molta retorica».
Sta dicendo che avvolgersi nel tricolore non basta?
«Sto dicendo che è evidente come la grande debolezza del nostro Paese sia di non avere un’identità nazionale, come accade in Francia o in Inghilterra. Che la nostra storia è stata segnata tragicamente da questa assenza. Ci pesa addosso come un macigno, ma non si supera con le prediche o le deprecazioni. Basta leggere il Leopardi del Discorso sullo stato dei costumi italiani , o la disperazione drammatica di Machiavelli».
La Prima Repubblica era assai poco «patriottica». Una generazione è cresciuta diffidando della retorica risorgimentale messa in campo dal fascismo.
«Il fascismo può aver aggravato la situazione, ma c’era già tutto nella nostra tradizione di Paese disunito. Una tradizione secolare. Un sentimento nazionale come quello del federalista Cattaneo e degli spiriti più nobili del Risorgimento è rimasto confinato a pochi».
Non vede novità, nemmeno piccoli segnali di cambiamento?
«Ma andiamo! La vera novità degli ultimi vent’anni, oltre all’individualismo esasperato, al cattivo gusto, insomma a Berlusconi, è la Lega: che è evidentemente tutto fuorché portatrice di un sentimento patrio. Fotografa una situazione di obiettiva disunità».
Questi cui assistiamo sono fenomeni di superficie?
«Non sono niente».
Però, lasciando stare per il momento Roberto Benigni, ci sono le canzoni, e hanno a volte la loro importanza. Penso a Viva l’Italia di De Gregori, che è del ’79. Sembrò quasi provocare un cambiamento di linguaggio, fra politica e cultura. Soprattutto a sinistra.
«Possiamo metterci anche Una notte in Italia di Fossati. Belle canzoni, ma hanno una tonalità melanconica, rappresentano il desiderio di un’Italia che non c’è».
Qual è il suo rapporto con l’Italia?
«Più che una Patria ho una Matria, che è la madre lingua: ovvero ciò che veramente ha prodotto questa nostra grande aristocrazia intellettuale, a partire dal Duecento. Ecco, la lingua conta. Dovremmo cercare di non distruggere anche quella. Quel poco di unità che abbiamo è opera sua, e le celebrazioni per il centocinquantenario dovrebbero innanzi tutto ricordare ciò che questa lingua ha creato. Sarebbe il tramite per avvicinarci davvero a una vera identità nazionale e politica».
Il suo rapporto con la Matria è cambiato con gli anni?
«Il mio amore per questa madre è enormemente aumentato. A vent’anni ero esterofilo, non pensavo per nulla all’italiano o all’Italia».
Neppure, come accadeva allora, per contestare il pur blando discorso pubblico sui valori patriottici?
«Non contestavo perché non me ne importava niente. Nella mia formazione la Patria è stata totalmente assente. E non solo nella mia. Quelli che oggi attaccano la Lega per il poco amor patrio dovrebbero riandare con onestà ai loro vent’anni, dove non troverebbero la minima traccia di questo amore».

l’Unità 21.2.11
L’anno zero dell’Italia
il Paese che ha dimenticato la ricerca
Il resto del mondo ci crede e produce economia, sviluppo, commercio, conoscenza. Noi siamo rimasti al palo. Arranchiamo anche su scala minore, in Europa. E l’alta tecnologia esce dalle nostre prospettive
di Pietro Greco


L’Italia investe ogni anno in ricerca industriale lo 0,5% della ricchezza che produce. È poco. Troppo poco. Sia rispetto all’ideale proposto dagli economisti per un’economia competitiva, fondata sulla conoscenza. Sia rispetto a quanto fanno in pratica agli altri paesi, a economia matura e economia emergente.
E per questo paga un prezzo salatissimo. Il prezzo del declino.
Che l’Italia investa poco in ricerca industriale sono i numeri a dirlo, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nell’era della conoscenza, gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S) hanno infatti un valore economico decisivo. L’ideale, sostengono gli economisti, è che un paese (o un gruppo di paesi, come l’Europa) investa in R&S almeno il 3% della ricchezza che produce. In particolare occorre che gli investimenti pubblici, diretti soprattutto verso la ricerca di base e la ricerca applicata, ammontino ad almeno l’1% del PIL, mentre gli investimenti delle imprese indirizzati soprattutto verso lo sviluppo tecnologico capace di creare innovazione di prodotto, oltre che di processo, raggiunga almeno il 2% del PIL. Gli investimenti pubblici italiani in R&S ammontano a circa lo 0,6% del Pil: siamo quindi al 40% dal livello ideale. Mentre gli investimenti delle imprese sfiorano appena lo 0,5% del Pil: appena un quarto del livello ideale.
Non si tratta, solo, di un gap di natura accademica. Le distanze sono enormi anche in rapporto al comportamento concreto degli altri paesi. In Italia investiamo in ricerca la metà esatta della media mondiale. Siamo, insomma, tra i fanalini di coda non solo d’Europa, ma del pianeta. A fronte del nostro 1,0% complessivo, infatti, l’Europa a 27 investe in media l’1,7%; la Gran Bretagna l’1,8%, la Francia il 2,2%; la Germania il 2,6%, la Svezia oltre il 3,2%. Fuori d’Europa gli Usa investono il 2,7%; il Giappone il 3,3%; la Corea del Sud il 3,4%. Tra i paesi a economia emergente la Cina l’1,6%, il Brasile l’1,1%, il Sud Africa l’1,0%.
Queste differenze sono enormi. Ma diventano addirittura eclatanti se la nostra analisi comparativa si focalizza sulla ricerca delle imprese. Che, abbiamo detto, sfiora appena lo 0,5% del PIL. Contro l’1,2% di Francia, Gran Bretagna e della stessa media europea, Contro l’1,8% della Germania o degli Stati Uniti. Per non parlare di Giappone o Corea del Sud, dove gli investimenti delle imprese in sviluppo tecnologico superano il 2,5% del PIL. In pratica le aziende italiane, a parità di fatturato, investono in ricerca il 60% in meno di un’azienda francese, inglese o europea; quasi il 75% in meno di un’azienda tedesca o americana; l’80% in meno di un’azienda giapponese o    coreana. Nn è un problema di cultura imprenditoriale. A parità di specializzazione produttiva e di fatturato, un’azienda italiana investe in ricerca esattamente quanto una tedesca o una coreana. Chi fabbrica divani in Italia ha la medesima cultura innovativa di chi li fabbrica a Taiwan. E chi lavora nell’aerospazio in Italia investe in ricerca quanto chi lavora nel settore dell’aerospazio in America.
È un problema di sistema paese. E il sistema manifatturiero italiano si caratterizza per avere un alto tasso di piccole e medie industrie. Ma soprattutto per avere una specializzazione produttiva nelle basse e medie tecnologie. Una vocazione che abbiamo coltivato nei decenni puntando sul basso costo del lavoro e sulla svalutazione competitiva della lira. Da a venti anni a questa parte questi due vantaggi competitivi sono venuti meno. Con la nuova globalizzazione una miriade di paesi può competere con noi sul costo del lavoro. Con il cambiamento della moneta dalla debole lira al forte euro, abbiamo perso la possibilità di azionare la leva monetaria.
Occorre, dunque, cambiare specializzazione produttiva. Cambiare il paradigma produttivo. E passare da una prevalenza delle imprese che producono beni a media e bassa tecnologia a imprese che producono beni ad alta tecnologia. Da venti anni non siamo capaci di imboccare questa strada obbligata. Ma è possibile farlo? Basta leggere gli ultimi rapporti sulla ricchezza procapite del Fondo Monetario Internazionale per rispondere a questa domanda. La Corea del Sud è per numero di abitanti (poco meno di 50 milioni) un paese solo un po’ più piccolo dell’Italia. Ebbene, nell’anno 2010 per la prima volta il reddito procapite dei coreani ha superato il nostro. Nel 1980 un coreano poteva contare, in media, su un reddito procapite pari a un quarto di quello di un italiano. Come ha fatto la Corea in trent’anni a recuperare il gap e a superarci? Cambiando la specializzazione produttiva della sua economia. Puntando sull’innovazione fondata sulla conoscenza. E la conoscenza è generata sia investendo in ricerca (in assoluto oggi la Corea investe oltre tre volte più dell’Italia), sia investendo in capitale umano. Nel 1980 i coreani avevano una percentuale di laureati rispetto all’intera popolazione molto basso, inferiore a quella dell’Italia. Oggi detengono il record mondiale dei laureati nella fascia di età compresa tra 25 e 34 anni: il 60%. Tre volte più dell’Italia. La Corea dimostra che è possibile cambiare la specializzazione produttiva di un paese grande come l’Italia in tempi relativamente brevi. Con effetti anche sociali tangibili. Venti anni fa la società Corea aveva un tasso di disuguaglianza (misurato con l’indice di Gini) superiore all’Italia. In questi venti anni la disuguaglianza in Corea è diminuita, mentre in Italia è aumentata. Risultato: oggi i coreani sono non solo più ricchi degli italiani, ma vivono anche in una società meno diseguale.

La Stampa 21.2.11
“Chaplin, il re dei vagabondi era nato da una zingara” Tra vita e cinema
La rivelazione del figlio Michael: “Scoprì la verità da una lettera e poi la seppellì in un cassetto”
di Andrea Malaguti


IN UN PARCO INGLESE La sua prima casa fu il carrozzone della regina dei gitani
LO «CHOC» NEL 1971 Il celebre attore, accusato di attività antiamericane, viveva nell’esilio svizzero

Dunque Sir Charles Spencer Chaplin, mimo, attore, regista, cantante, compositore, genio del Novecento e uomo-bambino, era uno zingaro. Il figlio Michael, in un programma registrato per Radio 4 che andrà in onda questa sera, racconta che quando suo padre ricevette la lettera dall’Inghilterra che gli svelava il mistero, rimase violentemente turbato. «Fece una cosa per lui del tutto inusuale: la conservò e non ce ne parlò mai più». Era il 1971 e Charlot, perché chiunque per strada lo chiamava così essendo ormai impossibile distinguere la maschera dal suo creatore, abitava a Vevey in Svizzera, diventata la sua residenza 20 anni prima, dopo che gli Stati Uniti gli avevano ritirato il permesso di soggiorno per supposte attività antiamericane. Erano i tempi del maccartismo e c’era qualcosa di ecumenicamente sovversivo nella inusuale dolcezza di un artista che diceva: «Canta, balla, ridi, vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che finisca senza applausi». E peggio ancora: «Credo nel potere del riso e delle lacrime come antidoto all’odio e al terrore». Frasi misteriose. Dunque pericolose. Dette da un saltimbanco con bombetta e bastone di bambù che detestava la società industriale e aveva fatto innamorare di sé un intero pianeta. Un monello o un grande dittatore?
«Papà si rigirò la lettera tra le mani seduto in poltrona e la lesse più volte senza parlare. Si alzò, aprì un cassetto, la chiuse a chiave e poi si mise a guardare lontano, fuori dalla finestra». Gli avevano appena restituito un pezzo della sua esistenza. Forse il più importante, l’inizio.
Confermando un sospetto che Chaplin aveva sempre avuto, l’estensore della missiva, Jack Hill, lo accusava di avere «mentito» quando nelle sue memorie aveva dichiarato di essere nato a Londra, a East Lane, nel sobborgo di Wolworth. «Se davvero vuoi saperlo, sei nato in un carrozzone, proprio come me. Un bel carrozzone. Apparteneva alla regina zingara, che poi era mia zia. Tu sei nato nel parco Black Patch di Smethwick. Come me, due anni e mezzo dopo». L’uomo racconta di essere figlio del capitano J.J. Hill (lo stesso cognome della madre di Chaplin), «un domatore di animali selvatici», e chiude la lettera precisando di non volere nulla per queste informazioni. «Arrivederci e buona fortuna».
Sei anni prima di morire il re dei vagabondi si rende perciò conto che quell’istinto insopprimibile a inseguire nuovi orizzonti, quella attenzione ossessiva per gli emarginati, quella impossibilità di omologarsi agli standard del bel mondo nonostante la straordinaria ricchezza accumulata nel corso di una carriera impareggiabile, aveva le sue radici in un accampamento gitano.
Michael racconta che quel giorno suo padre rilesse ad alta voce un’intervista rilasciata nel 1931 che spiegava la sua visione di Charlot. «All’inizio simboleggiava un gagà londinese finito sul lastrico, lo consideravo soltanto una figura satirica. Nella mia mente i suoi indescrivibili pantaloni rappresentavano una rivolta contro le convenzioni, i suoi baffi la vanità dell’uomo, il cappello e il bastone erano tentativi di dignità. E i suoi scarponi gli impedimenti che lo intralciavano sempre». Descrizione poetica ma fino a quel momento imperfetta. Chaplin, figlio di un guitto di teatro sempre sbronzo e di una mediocre cantante morta di turbe mentali, guardò il figlio. «Credo che in Charlot ci sia l’origine della mia vita. E del mio lavoro».
Il Black Patch Park di Smethwick, a cinque chilometri da Birmingham, è un posto mitico per gli zingari, che ne fecero la propria base a metà dell’Ottocento, prima di essere cacciati 60 anni più tardi. Adesso c’è una targa che ricorda quel periodo. E’ un luogo fatato, immerso nel verde, oggi pieno di turisti e di ragazzini che giocano a pallone, ma fino a 110 anni fa era attraversato da balli, fuochi, chitarre, matrimoni e racconti di viaggio. Esau Smith, signore dei gitani, morì a 91 anni lasciando il titolo di regina alla sua vedova: Henty. Fu lei a far nascere Charlot? Forse. «Non ho mai usato un copione, ho sempre avuto ogni cosa in testa, tutto ciò che mi serve per fare una commedia è un parco, un poliziotto e una ragazza carina», sosteneva sir Charles Spencer Chaplin, nato nel carrozzone di una regina zingara il 19 aprile del 1889. E il parco era quello di Black Patch.

La Stampa 21.2.11
Le autorità censurano il web e arrestano gli organizzatori
Cina, parte la rivoluzione dei gelsomini
Nata su Internet, la protesta sul modello egiziano viene soffocata dalla polizia
di Ilaria Maria Sala


Dall’Egitto alla Cina: l’ondata di proteste che sta modificando l’assetto politico del Medio Oriente ha ispirato anche alcuni attivisti per i diritti umani in Cina, che hanno cercato di organizzare ieri una protesta su scala nazionale che è stata chiamata «la rivoluzione dei gelsomini».
Malgrado il forte controllo che le autorità esercitano su Internet, l’idea della manifestazione si è diffusa tramite i servizi di micro-blogging di boxun.com (sito cinese con base negli Usa, censurato in Cina), Twitter (bloccato in Cina, ma accessibile a chi sa scavalcare il «muro di fuoco» della censura on line) e di quelli di sina.cn.com, un sito cinese accessibile dall’interno del Paese ma soggetto a frequente censura. Su quest’ultimo, di recente, le parole «gelsomino», e perfino «domani», infatti, sono state temporaneamente bloccate. Immediatamente, «tè al gelsomino» è divenuto l’ultimo tormentone del Web cinese, dove la satira riesce a rendere comica la sfida perenne contro i censori. Secondo gli internauti, la parola «gelsomino» sarebbe stata «armonizzata», in riferimento alla «società armoniosa» promossa dalle autorità e tradottasi in un inasprimento della censura.
La protesta prevedeva che in tredici città ci si recasse in luoghi predeterminati per degli assembramenti pacifici. Ma l’intenzione è stata intercettata anche dalla polizia, che ha compiuto numerose detenzioni preventive nella notte fra sabato e domenica, e che si è presentata in massa ai luoghi dell’appuntamento. A Pechino, nella strada centrale dello shopping, a Wangfujin, il punto di incontro era davanti a un McDonald, dove una folla numerosa ha aspettato sotto gli occhi di folti cordoni di polizia. Liu Xiabai, un giovane manifestante, è stato portato via a forza dalla polizia per aver cercato di mettere un fiore di gelsomino in un vaso di piante davanti al locale. Altri manifestanti sono stati detenuti a Shanghai e Guangzhou.
Un desiderio di protesta non legato a fatti specifici, ma ideali politici: le numerose proteste che hanno luogo quotidianamente nel Paese, infatti, sono di solito legate a fatti concreti e a realtà locali, e non aspirano a diventare movimento nazionale. L’avvocato Pu Zhiqiang ha commentato che «per quanto non si tratti di una richiesta di rivoluzione, la società cinese negli ultimi tempi è stata trasformata dalla corruzione e dalla illegalità, ed è solo logico che le persone abbiano voglia di protestare. Il governo dovrebbe consentire a queste voci dissonanti di esprimersi».
L’intenzione governativa sembra essere invece tutt’altra: proprio mentre si organizzavano i «gelsomini», il presidente cinese Hu Jintao faceva un discorso alla Scuola centrale del Partito Comunista, in cui esortava i militari a controllare maggiormente la popolazione, ricordando loro che, per quanto la società sia «stabile», la dirigenza nazionale e locale deve impegnarsi maggiormente per amministrare i conflitti sociali.

La Stampa 21.2.11
Le ragazze di Shanghai l’amore si misura in yuan
Fa scandalo il libro che le descrive calcolatrici, ciniche e ossessionate dal denaro
di Annemarie Evans


L’AUTRICE Mina Hanbury-Tenison dice «Le mie amiche hanno riso i loro mariti un po’ meno»
SESSO E CARRIERA Gli uomini si usano, ma è meglio farsi pagare gli studi che una vacanza di lusso
USA E GETTA Il «fidanzato d’avviamento» serve a imparare l’inglese e avere regali, poi lo si lascia

Mina Hanbury-Tenison ha due figli, di 8 e 1 anni. Sanno che la madre ha scritto un libro, ma «non sono autorizzati a leggerlo», racconta durante un rapido viaggio a Hong Kong dalla sua casa di Shanghai. Shanghai è il centro del suo racconto osé, una «guida» sfacciata, divertente o, in alternativa, del tutto volgare su come accalappiare gli uomini per diventare sempre più ricche e farsi una posizione. «Shanghai Girls: Uncensored and Unsentimental» (Le ragazze di Shanghai, senza censure e sentimentalismi) ha suscitato in Cina un mucchio di reazioni contrastanti. Ha fatto morire dal ridere le donne e infastidito alcuni dei mariti delle amiche dell'autrice a tal punto che almeno uno di loro si rifiuta di parlarle.
Perché dovrebbe sentirsi offeso? Ecco un estratto dal capitolo «fidanzati d’avviamento»: «Un fidanzato di avviamento non è necessariamente la persona che si vorrebbe portare a casa ai genitori o presentare ad altri uomini, in particolare a quelli che si potrebbe voler sposare. Un fidanzato d’avviamento può aiutare a imparare l’inglese o altre abilità che si desiderano. Può anche regalarvi vestiti, appartamenti, auto e gioielli che potete utilizzare per migliorare il vostro status».
«Qual è la merce di scambio? Sesso, spesso anche con tipi molto più vecchi e fisicamente poco attraenti». Storicamente non c’è nulla di nuovo in questo libro. Le donne si sono sempre messe con uomini più anziani e meno attraenti per interesse, da quando mondo è mondo. Hanbury-Tenison dice che il libro è il suo tributo alle donne di Shanghai che ha incontrato e al loro atteggiamento pragmatico verso l’amore. Ma con intento ironico. Si basa su aneddoti raccolti da donne di Shanghai dal suo arrivo in città nel 1996.
Hanbury-Tenison è nata Mina Choi a Seul, figlia di una coppia della Corea del Nord. Suo padre era un pastore metodista. «È morto», dice. «Avrebbe odiato il libro». Dopo la laurea in letteratura a Yale, si trasferisce a Los Angeles per tentare di diventare sceneggiatrice a Hollywood, ma in seguito si sposta con il marito inglese, mercante d’arte, a Shanghai. Tiene un diario di business per il Financial Times e una rubrica che racconta il suo punto di vista di straniera per il settimanale Oriental Weekly. Nel mezzo del dibattito sulle «madri tigre» che spingono i loro figli agli estremi, uno dei temi più trattati da Hanbury-Tenison è la mancanza di vita sociale dei bambini. «La quantità di compiti a casa rende loro molto difficile trovare un po’ di tempo per giocare con i compagni», dice, e questo, unito alla politica del figlio unico, produce bambini soli e socialmente isolati.
Il suo libro raccoglie le conversazioni iniziate nel 1997 con le donne di Shanghai, in primo luogo una donna di nome Lan Lan, che l’ha istruita su come andare avanti. «Penso che il mio volto asiatico, anche se sono culturalmente più occidentale, induca alla confidenza», spiega, «Pensano che fai parte della banda». L’autrice dice di Lan Lan: «Mi ha folgorato. In un momento in cui molti a Shanghai vivevano una grave crisi economica, questa donna aveva una vita favolosa, ed era così giovane. E anche così bella. Non c’erano tutti i ristoranti di lusso che hanno aperto negli ultimi otto anni. C’erano solo quattro posti dove si poteva prendere il tè del pomeriggio; lei andava in tutti. Economicamente era una potenza».
Con il tempo Hanbury-Tenison ha avuto modo di conoscere queste donne, tutte ricche e con un’ottima posizione sociale. Non sempre è d’ accordo con loro ma è riuscita a capire la loro attitudine pragmatica e tutt’altro che romantica verso le relazioni. «Le donne di Shanghai sono sempre in ascesa, sono mobili. Tuttavia, gli aneddoti riguardano gli Anni 80-90. Oggi i più ricchi sono i miliardari cinesi. Nel 1997, vi era una differenza enorme tra uscire con un ragazzo del posto e un uomo d’affari straniero. Ma ora non è così».
Hanbury-Tenison dice che le donne di Shanghai, cresciute in una città di commerci, capiscono il valore delle cose. Se da alcuni possono essere viste come estremamente calcolatrici, a lei piace la loro schiettezza. Il libro offre consigli su ciò che dovrebbe essere apprezzato da una ragazza di Shanghai: la biancheria sexy va bene, ma un orologio Longines è meglio. Due settimane di vacanza in Europa non valgono un finanziamento per un master aziendale. Dritte sul sesso: mentalità aperta, la flessibilità sessuale funziona bene; puntare sulle fantasie maschili; lasciar perdere le inibizioni e essere bravissime a letto.
Molto di ciò che Lan Lan e le altre donne hanno condiviso con l’autrice è ben noto a Shanghai, e questo è uno dei motivi per cui il libro non sarà tradotto in cinese, dice. Mentre le donne di Shanghai si considerano meglio piazzate delle loro omologhe di Pechino, i loro suggerimenti su come rimanere snelle, affascinanti e attraenti – senza scartare il ricordo alla chirurgia sono universali. Tuttavia, a una presentazione del libro, a cui hanno partecipato diversi cinesi, «questi uomini dicevano che avevo scritto cose a loro ben note e che era solo la punta dell' iceberg». «Fu molto interessante, si alzò questo ragazzo, avvocato laureato a Yale. Disse che alcuni ritenevano il libro discutibile, ma lui no: “Quando ho sposato una ragazza di Shanghai, tutti i miei amici hanno capito che ce l’avevo fatta, che potevo permettermela. Il trofeo finale”».
Alcuni hanno trovato l’idea del libro volgare e offensivo e si rifiutano di leggerlo, dice l’autrice. Lan Lan è al suo terzo marito e continua ad avere successo, anche se «è delusa da me. Sente che dovrei andare oltre, ma sono un po’ bohemienne e abbiamo etiche diverse. Lei dice che sono troppo onesta».
Copyright South China Morning Post traduzione di Carla Reschia

l’Unità 21.2.11
Intervista a Roberto Vecchioni
«Viva le differenze! La mia canzone contro il pensiero unico»
Il cantautore all’indomani della vittoria del Festival. Riflessioni, entusiasmo ed una certezza: «Non si tratta di obbligare gli altri a essere di sinistra, ma la la questione del futuro dell'umanità è quella, ce l’abbiamo come imprimatur»
di Roberto Brunelli


Professor Vecchioni, ma allora questa maledetta notte sta per finire? A Sanremo oggi è un nuovo giorno: tutto sembra cambiato rispetto a una settimana fa. Su questo palco sono passati Benigni, Gramsci, gli «sputtanamenti» del re e soprattutto il festival l’ha vinto Roberto Vecchioni, sull’onda del televoto. Bel paradosso dei tempi che vinca la canzone più politica mai sentita nella lunga storia del festival. Non è un caso: «Per il poeta che non può cantare, per l’operaio che non ha più il suo lavoro, per tutti i ragazzi e le ragazze che difendono un libro, un libro vero, così belli nelle piazze perché stanno uccidendo il pensiero, per il bastardo sempre al sole, per il vigliacco che nasconde il cuore...». Ha vinto il cantante più anziano, raccontano qui, forse il più giovane. E allora ripetiamo la domanda. Professore, davvero questa maledetta notte può finire? «Beh, in effetti io parlo del sogno eterno dalla notte dei tempi, di tutti gli artisti, di tutti i sognatori e tutti i democratici, di tutti lavoratori: continuare a sperare senza aspettare che le cose vadano da sole, che ci dobbiamo mettere forza e fatica. Vede, tutto questo è molto grande per me, ma in questa mia canzone l’ho trattato in piccolo, per così dire: una canzone è sempre una cosa minimalista, ma le cose minimaliste arrivano goccia a goccia al cuore della gente. Ho voluto eliminare ogni atto di presunzione, mettere da parte la cultura alta o troppo volante, che pure è stata tanta parte della mia vita. Non mi piace il pensiero mediocre, questo è ovvio: ma ho tentato di fare tabula rasa per dire parole che tutti capiscano, senza essere banale. Devo darla alla gente, la canzone, non mi basta più un teatro. Ho cercato di dire cose che nessuno ha detto in questo modo: una lezione di umiltà senza dover urlare, senza voce alta, senza obbligare il prossimo alle proprie idee. Non si tratta di obbligare gli altri a essere di sinistra, ma la questione del futuro dell’umanità è quella, ce l’abbiamo come imprimatur, da Caio Tiberio Gracco fino a Obama. Sono quelli i nostri sigilli». Ieri lei hai detto che le canzonette non esistono... «Quello che volevo dire che non esiste una differenza abissale tra canzone e canzone d’autore. La canzone è piena di momenti belli ma anche di zoppicamenti, piena di elementi commerciali e sottoculturali, ma ha dato anche delle prove vere, significative, che hanno unito l’Italia. Pensa a Volare, al Ragazzo della Via Gluck, canzoni popolari nel senso più puro del termine, laddove per popolo s’intende anche la borghesia, il ceto medio. La canzone d’autore ha forse un maggior rispetto della letteratura, però a volte dimostra un velo esagerato di presunzione».
A questo proposito, Morandi ieri immaginava che un giorno il festival potesse essere la rassegna di tutta la musica italiana, un po’ come per il cinema è la Mostra di Venezia, dove andavano i Visconti, i Rossellini... «È un sogno grandissimo il suo, però la comunicazione di una canzone è molto diversa dalla comunicazione di un film... il film è più vicino al romanzo, la canzone è il brivido di un attimo. Nel cinema i temi fondamentali sono sempre esistenziali, cose come il problema dell’uomo di fronte alla vita di tutti i giorni e di fronte all’aldilà. Ma puoi paragonare le canzoni d’amore alle canzoni dei partigiani, per esempio? Per le canzoni è diverso. Ci sono troppe differenze di genere: sarei d’accordo con l’idea di metter su una rassegna organizzata per sezioni...». Ascoltando «Chiamami ancora amore», sembra che lei abbia messo al centro tutto quello che la cultura di governo di questi ultimi anni ha sistematicamente colpito: la cultura, le donne, il valore delle parole, il lavoro...
«Giusto. Noi siamo animali feriti. E per noi intendo la gente di idee, i progressisti e quindi tanti. Vediamo che tutto è fermo, e invece il nostro destino di uomini è quello di andare avanti sempre, di cercare nuove idee: ecco perché dico che le idee sono il sorriso di dio. Ma noi abbiamo di fronte qualcuno che vuole dividere a società, qualcuno che vuole avere l’esclusiva delle idee, anzi le idee le deve avere uno solo... E invece la capacità di avere tantissime idee diverse è la più bella cosa del vivere sociale».
È rimasto sorpreso da questa affermazione del televoto? «Sono io che la sorprenderò: lo sa che la maggioranza dei messaggi che ho ricevuto in queste ore sono di ragazzi sotto i vent’anni? Non sono affatto dei rincoglioniti come generalmente si dice. È che bisogna parlare con loro, perché anche loro hanno fame di speranze».
Il berlusconismo ha occupato tutti gli spazi dell’immaginario popolare. Forse è il caso di ricominciare di riprendersi un po’ di quello spazio...
«Qui si è avvertito il segnale che la cosiddetta maggioranza silenziosa in un certo senso comincia a essere dalla parte nostra: bisogna sollecitare quelli che solitamente non si esprimono».
A proposito. È stato un festival strano, questo. Si sono sentiti Gramsci e Benigni, si sono sentiti Luca & Paolo spiegare che il collante di un paese è la responsabilità civile...
«È vero che sono uscite molte cose straordinarie da questo festival. Però vanno bene anche i balletti e gli ospiti stranieri che dicono cazzate: ci deve stare tutto il nazionalpopolare».
Parliamo di Benigni e quella frase sull’Italia «unico paese in cui è nata prima la cultura e poi la nazione»... «Assolutamente: il pensiero del Rinascimento era simile in tutta Italia, è vero. La nazione non è definita solo dalla geografia, ma soprattutto dalla cultura. Bisogna che gli italiani prendano fiducia nel prossimo: le inimicizie storiche che ci vengono dalla geografia e dalle diverse culture tra nord e sud, questo metterci sempre in sospetto, questo coltivare gli orticelli: lavorare per superare tutto questo è quello che deve fare un buon governo. Se non eliminiamo il sospetto, l’invidia sociale e culturale, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Pare incredibile, ma Sanremo è stata una piccola riprova di questo».
Scusi, professore, un’ultima domanda. Ma chi è il «bastardo che sta sempre al sole»? (Ride) «Non ce n’è uno solo. I bastardi al sole sono quelli che si nascondono, sono i grandi vecchi che stanno dietro a tirare i fili. ...sì, sto pensando anche a quella persona, ma non solo. Penso ai mafiosi, a molti grandi politici, ai grandi finanzieri, ai pesci grossi, a che mandano gli altri a rischiare».

Corriere della Sera 21.2.11
«Gay e succube della madre» Il duro Hoover secondo Clint
Eastwood dirige DiCaprio nei panni di Mr Fbi
di Guido Olimpio


WASHINGTON — J. Edgar Hoover, il primo direttore dell’Fbi, avrebbe pagato molto per avere un caso come il Rubygate. Minorenni, stelline, prostitute, donne in vendita, ricatti, filmati, politici, passioni e debolezze sessuali. Lui ci ha costruito il suo potere e la sua fama guidando il Bureau dal 1924 al 1972. Teneva le persone in pugno con dossier, bisbigli, pettegolezzi, foto compromettenti e buone informazioni. Ma era ben attento a proteggere i suoi affari personali. Hoover non voleva essere messo in discussione. Era lui a condurre il gioco. Teneva sotto scacco i presidenti, dava la caccia ai comunisti, metteva in galera i banditi e teneva d’occhio il dissenso. Con la legge o senza. Una scheda «confidential» ed eri segnato per sempre. Adesso Hollywood, in qualche modo, risponde. Clint Eastwood sta girando un film dedicato alla vita di Hoover dove si rilancia la teoria che il direttore dell’Fbi fosse gay, legato da un complesso rapporto con il suo assistente, Clyde Tolson. Il grande Clint però non vuole buttarla sullo scandalo: l’omosessualità del super poliziotto sarà trattata senza cadere negli stereotipi. O meglio, questo è quello che promettono. Per il ruolo di J. Edgar è stato scelto Leonardo DiCaprio, Armie Hammer è Tolson e l’affascinante Naomi Watts veste i panni di Helen Gandy, la segretaria personale di Hoover. La sceneggiatura è invece curata da Dustin Lance Black, un nome che dovrebbe essere una garanzia per un film di livello. Sulle inclinazioni sessuali di Hoover si è sempre speculato. Già negli anni 40 c’era chi osava alludere. Ma senza farsi sentire troppo perché lui— il boss— avrebbe potuto reagire in modo duro. Una biografia, uscita nel 1993, ha raccontato persino di un Hoover in abiti da donna e tacchi alti per partecipare a orge omosex. Rivelazioni che gli estimatori di Edgar hanno sostenuto fossero calunnie. Magari di qualcuno all’interno dell’agenzia che aveva un conto aperto con il capo o non era stato promosso. I dirigenti dell’Fbi, ovviamente, hanno sempre negato dando la colpa ai tabloid: hanno buttato fango, sono tutte invenzioni, spazzatura diffusa da criminali. A tanti è parso strano il modo di comportarsi di Hoover con Clyde Tolson, per lungo tempo il suo vice. Sempre insieme, al Bureau come in vacanza, al ristorante e nei locali alla moda. Vestivano in modo uguale e pensavano in modo uguale. Li hanno anche sepolti vicini. Una macchina da guerra impegnata nella difesa della sicurezza americana e del potere più grande, «la conoscenza dei fatti» . Una coppia capace di distruggere i nemici degli Stati Uniti ma anche chi era considerato pericoloso o scomodo. Raccoglievano una «storia» attraverso una fonte o con una vera indagine, poi la usavano al momento opportuno. E’ così che avrebbero messo in giro la voce che il candidato Adlai Stevenson fosse gay. E ancora peggio hanno fatto sul conto della first lady Eleanor Roosevelt. Avevano messo insieme un file compromettente su una sua presunta relazione lesbo. Ora che è passato tanto tempo, la mano di Eastwood proverà a tracciare un profilo inedito. Dopo tonnellate di film sul coraggio dei G-Men— gli agenti con la pistola— chiamati a dare la caccia a gangster e spie, l’obiettivo indagherà sul presunto grande segreto di Hoover e anche sui rapporti tra l’agente numero uno e sua madre. Nulla di strano, se non fosse che hanno atteso così tanto.

La Stampa 20.2.11
“L’omosessualità? Un male da guarire”
Monsignor Rigon, vicario del Tribunale ecclesiastico: “Ma se è incancrenita purtroppo non si può superare”
di Alessandra Pieracci


Secondo monsignor Paolo Rigon «non si nasce omosessuali»
«Nessuno nasce così, un aiuto può arrivare dalla psicoterapia»

Il nostro intento è quello di far passare un messaggio: il problema dell’omosessualità è indotto perché non si nasce omosessuali, salvo rarissimi casi di gravi disturbi ormonali. Bisogna dunque prenderla dall’inizio e allora si può superare con la psicoterapia. Ma se l’omosessualità è incancrenita è molto più difficile. Non c’è matrimonio che possa aiutare questa persona. Deve essere affrontata nella prima adolescenza, ne sanno qualcosa i nostri consultori».
Così monsignor Paolo Rigon, vicario giudiziale presso il Tribunale ecclesiastico della Liguria, ha spiegato nel dettaglio quanto appena sostenuto nella sua relazione alla cerimonia di apertura dell’anno giudiziario, presente il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei. Affrontando il tema dell’incapacità a essere fedeli come causa di nullità del sacramento del matrimonio, monsignor Rigon ha detto: «Il caso drammatico è quello dell’omosessualità che qualcuno spera di vincere o di mascherare appunto con il matrimonio, ma è un’illusione, non sarà possibile, in concreto, restare fedeli al coniuge».
Che cosa può fare allora un omosessuale? «Prendere coscienza della propria situazione e gestirla, ma non in senso sessuale, bensì impostando una vita gioiosa in modo donativo, senza coinvolgere un altro». Non è possibile la fedeltà tra due uomini? «In teoria tutto è possibile, in pratica sappiamo che non è così».
La giustizia ecclesiastica distingue tra due tipo di infedeltà, «l’atto positivo di volontà» e «una patologia». «Se il comportamento di un coniuge fedifrago è macroscopico - dice monsignor Rigon nella relazione che di anno in anno affronta uno dei motivi di nullità - c’è da pensare che vi sia qualche problema a livello psicologico o neurologico o psichiatrico, da valutare con una perizia».
I semi dell’infedeltà, secondo il vicario giudiziale, vengono gettati molto presto dalla pornografia: «La pornografia dilagante e invadente presenta la vita sessuale, tra l’altro in qualunque forma e manifestazione, come fine a se stessa, del tutto separata dall’affettività, ossia per puro piacere e divertimento». Altro aspetto di questo problema è appunto «quello della tendenza o del “genere”, di cui oggi si parla molto, in forza del quale si può anche giungere a scegliere come si vuol vivere la propria sessualità se in modo eterosessuale o in modo omosessuale o in alternativa o in simultanea».
Al di là della relazione ufficiale, il prelato è ancora più esplicito: «Nella ricerca del piacere sessuale fine a se stesso tutto va bene e si finisce con le ammucchiate e gli scambi di coppia che, come stiamo osservando, sono molto frequenti».
Invece la fedeltà è un valore assoluto. «Bisogna recuperare la categoria della fedeltà - è l’esortazione del presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco - anche sul piano della vita in generale, del lavoro, come la categoria che realmente consente nella ripetizione motivata dei propri doveri la costruzione dell’uomo. Anche in politica». Oggi «la fedeltà è una categoria come ben noto un po’ fuori moda dal punto di vista culturale, perché sembra sinonimo di noia, di prigione della libertà».
«Il contesto culturale che respiriamo pone al centro l’individuo, con le sue esigenze, con le sue emozioni, con i suoi desideri - conclude il cardinale - che sembrano essere diventati sempre più il criterio di giudizio per la vita concreta sia dell’individuo che della società che ne consegue, anziché mettere al centro la persona, con i suoi impegni verso le scelte assunte, nella sua dimensione essenziale costitutiva di relazionalità, non di auto referenzialità».

La Stampa 20.2.11
Ma il teologo lo condanna: “Una definizione azzardata”
La rabbia dei gay: «La Chiesa rimuove un tema di cui essa stessa è pervasa»
di Giacomo Galeazzi


«Rigon spera spera di estirpare l’omosessualità: certi monsignori non comprendono la natura umana e si lanciano in giudizi fuori dal tempo - protesta Aurelio Mancuso, cattolico e presidente di “Equality Italia” -. I tribunali ecclesiastici affrontano l’emersione della condizione omosessuale. Molti gay si uniscono in matrimonio poi non riescono a mantenere la condizione innaturale di coniuge eterosessuale».
Dunque, «l’ipocrisia è sconfitta, ma esplodono sofferenze e giuste recriminazioni da parte di chi era all’oscuro della condizione sessuale del coniuge», sottolinea Mancuso che chiede «perché la Chiesa rimuove un tema di cui essa stessa è pervasa, negando le determinazioni scientifiche invece di riconoscere che l’omosessualità non è una malattia e l’avversione nei confronti dei gay è la difesa di antiche superstizioni e pregiudizi».
Anche sotto il profilo teologico la questione è controversa. «Dubito che l’omosessualità sia un impedimento alla validità del matrimonio e quindi causa di nullità matrimoniale. È un discorso rischioso e facile da strumentalizzare per ottenere una dichiarazione di nullità, comoda e facilmente utilizzabile a volontà - osserva il teologo Gianni Gennari -. Definirla una malattia, poi, è un giudizio di tipo medico e tocca anche la psiche: non è compito di un uomo di Chiesa azzardare una definizione del genere». Nessun dubbio, invece, che «l’esercizio della sessualità in versione omosessuale è una violazione della legge morale ebraico-cristiana, dunque è infondato il richiamo alla sua “naturalità”».
Non tutto ciò che è o appare naturale è buono, precisa Gennari: «Per molti sono naturali l’ira e l’atteggiamento violento, ma le azioni che ne conseguono sono peccato». La natura umana «non è una natura perfetta, bensì segnata dal limite della peccabilità». Il catechismo parla di peccato originale. «Certe azioni verrebbero “naturali” (invidia, ira, appropriazione delle realtà e delle persone altre a scopo di potere) ma sono peccati», sottolinea Gennari. Perciò «dire che l’esercizio della omosessualità è peccato è parte del dovere di verità nell’ambito religioso dell’etica cristiana». Prova a mediare il vescovo di Mazara, Domenico Mogavero: «Gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati e contrari alla legge naturale, dunque in nessun caso possono essere approvati, ma ciò non significa che con le persone omosessuali non debbano trovare ascolto e comprensione nella Chiesa».

La Stampa 20.2.11
Intervista
Corpo a corpo con l’inconscio di Jung
Parla Samu Shamdasani, che ha curato l’edizione del visionario Libro rosso “Pagine cruciali per capire la sua opera”
di Alessandra Iadicicco


L’ESPLORATORE DELLA PSICHE «Vide la sua vita spezzata in due dal flusso di immagini che lo investì»
UN TESTO ESOTERICO «Raccoglie la materia prima e le intuizioni fondamentali rielaborate fino alla fine»

La ricerca di un tesoro, la scoperta di un segreto, l’apertura di un mistero. Questo è stato per Samu Shamdasani lavorare alla cura, alla traduzione e alla prima edizione mondiale del Libro rosso di Carl Gustav Jung. Pubblicato per la prima volta a Londra nel 2009 nella sua versione inglese e, l’anno successivo, nel resto del mondo (in Italia è uscito da Bollati Boringhieri), il testo esoterico contiene la visione del bagno di sangue europeo che assalì lo psicologo alla vigilia della Prima guerra mondiale. E il grandioso cosmo immaginifico perscrutato per anni dopo quella esperienza dal grande esploratore dell’inconscio. Chiuso nella cassaforte di una banca svizzera dopo la morte dell’autore, il capolavoro viene oggi alla luce come un oggetto davvero prezioso. Shamdasani, ieri a Torino, al Circolo dei Lettori, per una giornata di studio su «Jung e il Libro rosso », ci ha raccontato come vi si è accostato. Per maneggiarlo con grandissima cura.
Professor Shamdasani, come ha vissuto il corpo a corpo con un testo simile?
«Come dice Rilke, “ciò che conta è sopravvivere”. Jung vide la propria vita spezzata in due dal flusso di immagini che lo investì con le visioni narrate nel testo. E per me l’incontro con lo Jung del Liber novus - il cosiddetto Libro rosso - è stata un’esperienza analoga. Ho lavorato a questo progetto per tredici anni. Per portarlo alla luce ho dovuto vivere sulla mia pelle alcune delle esperienze che vi sono descritte. Metaforicamente si può dire che è davvero un libro scritto col sangue. E, oserei dire, curato col sangue. Per il rispetto della sua segretezza, il lavoro su questo testo mi ha costretto a troppi anni di forzata solitudine. Discutere poi i nodi della traduzione dal tedesco con Mark Kyburz e John Peck è stato per me davvero un sollievo. Il momento più bello fu quello in cui, alla tipografia della Mondadori a Verona, abbiamo visto uscire dalle presse la prima pagina stampata. Dopo tanti anni di attesa e di duro lavoro pareva impossibile che l’opera potesse mai vedere la luce».
L’originale, l’autografo su cui è basato tutto il suo lavoro, che aspetto aveva?
«Nel volume rilegato in pelle rossa e intitolato Liber novus Jung aveva scrupolosamente riportato, in caratteri calligrafici analoghi alla scrittura gotica, il contenuto dei sette taccuini neri in cui aveva steso la prima versione del testo. In più aveva aggiunto una tavola di abbreviazioni, le iniziali miniate, i margini decorativamente istoriati, i sontuosi disegni. Inizialmente le illustrazioni rappresentavano le scene descritte nel testo. Poi si fecero via via più simboliche, alludendo a un’ulteriore elaborazione della sua personale cosmologia. L’opera prende chiaramente a modello l’iconografia dei manoscritti medievali, un’epoca della storia dell’umanità che, secondo Jung, ciascuno rivive nello sviluppo della propria psiche. Ma l’opera che più assomiglia a una simile composizione di scrittura e figure sono i poemi visionari di William Blake».
Il Libro rosso è scritto in prima persona: può essere considerato un diario?
«Jung vi descrive il proprio più radicale confronto con l’inconscio. Racconta il periodo più importante della sua vita. Raccoglie le intuizioni fondamentali e la materia prima che fino alla fine avrebbe continuato a rielaborare e integrare. È il testo cruciale per capire l’intera sua opera. Ed è il libro in cui Jung ebbe il coraggio di sondare, affrontare ed esporre tutti gli aspetti dell’esistenza: il sublime e l’assurdo della vita».
E nella sua vita, professore, come è entrato un libro simile? Lei insegna a Londra storia della psichiatria, ma proviene dall’Oriente: com’è giunto all’opera di Jung?
«Sono nato a Singapore, ma sono cresciuto in Inghilterra. Ho incontrato Jung per la prima volta quando, adolescente, viaggiavo attraverso l’India in cerca di un maestro. La prima delle sue opere con cui mi cimentai fu il commento a Il segreto del fiore d’oro : per me la porta d’ingresso alla psicologia. All’epoca vidi il testo come la promessa di una possibile mediazione tra il misticismo orientale e la razionalità occidentale».
Com’è stato coinvolto nell’edizione del Libro rosso e come ha convinto gli eredi di Jung a pubblicarlo?
«Per anni ho compiuto ricerche storiche sulla formazione dell’opera junghiana e, nel 1994, mi fu assegnata la cura dei suoi seminari del ’32 su La psicologia dello yoga Kundalini . Fu allora che entrai in contatto con alcuni membri della famiglia Jung, avviai le mie ricerche in Svizzera e inaugurai il primo studio sistematico dei suoi scritti inediti, discutendo con la famiglia l’eventualità di pubblicarli. Studiando quelle carte, scoprii che Jung nel 1920 aveva fatto trascrivere da Cary Baynes il Liber novus e mi misi sulle tracce di quella copia. Nel ’96 la figlia di Baynes, Ximena de Angulo, mi scrisse di aver forse trovato in uno scaffale il libro che stavo cercando, e me ne spedì le prime pagine. Si trattava dell’unica parte del testo che fosse mai stata citata, così lo riconobbi al volo. Scoprii anche che Cary Baynes negli Anni 50 aveva ottenuto da Jung il permesso di spedire il manoscritto al suo editore, Kurt Wolff, e chiesi al figlio di costui se ne fosse in possesso. Mi rispose di aver donato l’intera biblioteca del padre alla Beinecke Library dell’Università di Yale, dove mi recai l’anno successivo e trovai la prima parte del Liber novus , compreso nei manoscritti originali dei Ricordi, sogni, riflessioni di Jung. Mostrai il testo agli eredi di Jung, ignari allora del fatto che quegli scritti fossero noti agli stretti collaboratori dell’autore, e che ne fossero circolate delle copie. Iniziarono così tre anni di confronti e discussioni in cui io fornii alla famiglia i documenti necessari a dimostrare che il Liber novus - pur scritto in prima persona e fitto di memorie e visioni personali - non era un documento privato bensì un testo destinato alla pubblicazione. La decisione di darlo alle stampe fu presa nel 2000, e a me fu affidata la sua cura. È stata una grandissima soddisfazione e l’inizio di un grandioso lavoro di scoperta».