giovedì 24 febbraio 2011

La Stampa 24.2.11
Opposizione e strategie
Lento ma costante recupero nelle percentuali delle intenzioni di voto
Bersani cambia passo e va in prima linea
Nuova campagna di immagine per il segretario Pd che non vuole farsi trovare in ritardo in caso di voto
di Fabio Martini


SONDAGGI Lento ma costante recupero nelle percentuali delle intenzioni di voto
SIMBOLO Determinato a non mettere il suo nome sul logo del partito

Lui lo dice con un tono che non lascia spazio a ripensamenti: «Io, il mio nome sul simbolo del partito non lo metterò mai». Il cognome sul logo, no, ma la faccia sui manifesti del proprio partito, Pier Luigi Bersani ce l’ha messa e la rimetterà. Certo, la campagna di poster nei mesi scorsi, era stata segnata da qualche ironia sulla postura esibita nelle foto (il leader era seduto su uno sgabello), ma le critiche non hanno smontato il segretario del Pd, che ha concesso il bis e infatti il 28 febbraio una marea di manifesti coprirà i muri di tutta Italia. Con una parola-chiave che farà da filo rosso: «Oltre». Alludendo ad una nuova stagione che - si immagina, si spera - «oltre Berlusconi». Fra due mesi e mezzo, invece, sugli scaffali di tutte le librerie comparirà il primo libro-intervista di Pier Luigi Bersani. Titolo “Per una buona ragione”, editore Laterza. Un libro con (relativamente) poca politica e molto Bersani, con la sua giovinezza, le sue idee sulla vita, sulla religione, sulla morale. Una doppietta che lascia trapelare per la prima volta una intenzione di investire sul personaggio Bersani, che - in questo diversissimo da Walter Veltroni - finora è sempre stato refrattario ad ogni tipo di «effetto speciale».
Oltretutto nelle ultime settimane diversi sondaggi hanno incoraggiato Bersani. Sia quelli relativi alla quotazione del Pd (la percentuale delle intenzioni di voto è in modesta, costante crescita), sia quelli che si riferiscono ad una ipotetica leadership Bersani che - esattamente come Casini e lì c’è la sorpresa - batterebbe Berlusconi in un ipoteco scontro a due. Certo, il segretario emiliano del Pd è un personaggio atipico nella società dello spettacolo politico. Racconta il suo braccio destro Stefano Di Traglia: «Lui riceve in anticipo i sondaggi del martedì, ma poi il giovedì può capitare che ti chieda: “Scusami, ma che diceva quel sondaggio?” Bersani punta sulla forza del messaggio politico e pensa che occorra farsi trovare in posizione al momento della battaglia elettorale. Al resto crede poco».
Esemplari le vicissitudini che hanno portato alla decisione di fare un libro, a sinistra strumento di autopromozione da quando, negli anni Ottanta, Veltroni fece da apripista, poi imitato da D’Alema e Fassino. Quando era ministro alcuni editori chiesero a Bersani di fare un libro, ma lui aveva sempre risposto di no, «un libro è una cosa seria, merita approfondimento». Anche stavolta l’idea gli è stata suggerita: dal giornalista del “Messaggero” Claudio Sardo, che ha proposto come co-autore lo scrittore Miguel Gotor. Dopo averci pensato, Bersani ha acconsentito. Anche nella prossima campagna dei manifesti l’iniziativa pare non sia stata sua. Lo hanno convinto con l’argomento, suffragato da ricerche ad hoc, che la sua faccia è «vendibile» e lo hanno fatto scendere dallo sgabello. Bersani ha chiesto che la parola-chiave fosse «Oltre». Allusione, ma senza riferimenti precisi, al nemico di sempre.

l’Unità 24.2.11
Susanna Camusso ha ottenuto dal Direttivo il mandato a continuare la mobilitazione
Sabato la marcia del lavoro a Venezia, il 25 marzo lo stop della scuola e del pubblico impiego
Cgil verso lo sciopero generale contro l’inerzia del governo
La Cgil è pronta a proclamare lo sciopero generale, il primo sotto la guida di Camusso, il quinto contro il governo Berlusconi che continua a latitare: nessuna politica industriale, fisco sempre più iniquo, meno lavoro.
di Fe. M.


La Cgil va verso lo sciopero generale. Tempi e modi saranno decisi dalla segreteria di Susanna Camusso che ieri ha ottenuto il mandato dal Direttivo a continuare la mobilitazione che Corso d’Italia ha messo in campo e che, in alternativa, potrebbe concludersi con una manifestazione nazionale, ipotesi che appare tuttavia molto remota. La due giorni di discussione, rigorosamente a porte chiuse come non accadeva da tempo, si è conclusa con un documento che ha ottenuto 83 voti a favore e nessun contrario. La minoranza interna si è infatti astenuta (20 voti) : valutato positivamente il probabile ricorso alla più pesante delle proteste, reclamato con insistenza da mesi, gli esponenti della “Cgil che vogliamo” non sono riusciti però a spuntarla sui tempi, la proposta di proclamare lo sciopero entro aprile è stata infatti respinta. Se ne parlerà più in là, maggio se non giugno, comunque al termine delle iniziative in cantiere che vanno dalle marce per il lavoro (sabato quella di Venezia) allo sciopero del pubblico impiego e della scuola del 25 marzo, alla campagna di informazione nei luoghi di lavoro sui temi della rappresentanza e della democrazia.
IL GOVERNO NON RISPONDE
Incalzata fin dalla sua elezione, e prima di lei Guglielmo Epifani, Susanna Camusso non aveva mai escluso lo sciopero generale ma neanche aveva «ceduto» alle pressioni di piazza, soprattutto a quelle della Fiom, sottolineando in ogni occasione che la scelta del “se e quando” sarebbe spettata a tutta la confederazione e quindi al Direttivo. Condizione necessaria, la mancanza di risposte da parte del governo su una serie di proposte che vanno alla tutela dell’occupazione, alla salvaguardia dei diritti, all’adozione di una politica industriale di cui non si vede traccia. Si vede invece all’orizzonte un aumento delle tasse a danno di lavoratori dipendenti e pensionati, e si sono visti strappi su strappi: ultimo, l’accordo separato sul pubblico impiego concordato dal governo con gli altri sindacati in vertici più o meno riservati a Palazzo Chigi e dintorni, mentre la Cgil si è ritrovata davanti al fatto compiuto.
Lo sciopero, il primo della Cgil guidata da Camusso, a questo punto si farà, anche se manca la data. Ed è su questo che il dibattito in Corso d’Italia, già franco e senza peli sulla lingua, ha rischiato di trasformarsi in scontro. La minoranza aveva infatti chiesto che la protesta venisse proclamata entro aprile. Va registrata a proposito la dichiarazione del coordinatore dell’area, Gianni Rinaldini che parla di «avanzamento positivo per la dichiarazione dello sciopero», ma spiega che la sua astensione «ha un significato di un voto favorevole se lo sciopero si svolgerà entro aprile. Viceversa assume il significato di un voto contrario». Al momento comunque non lo è, e dopo la pesantissima divisione maturata all’ultimo congresso, il voto di ieri è stata la prima occasione per una convergenza sia pure parziale tra l’una e l’altra anima della Cgil.

l’Unità 24.2.11
Il mondo arabo si ribella ma non c’è traccia di Bin Laden
Per anni ci hanno detto che il fondamentalismo islamico avrebbe conquistato i paesi nordafricani e minacciato l’Occidente. Ma in piazza in questi giorni non si sono visti né fanatici né terroristi
di Loretta Napoleoni


Questa settimana a Londra si mormora che le nazioni disposte ad ospitare i dittatori arabi siano sempre meno e che costoro farebbero bene ad andarsene in fretta per evitare di ritrovarsi senza un rifugio. Al momento è anche libera l’isoletta a Tahiti dove Berlusconi conta di ritirarsi a vita privata, qualora anche lui fosse costretto a fare le valigie improvvisamente... Di venire in Europa o in America non se ne parla, anche se a Londra la stampa ha ritirato fuori le foto di Tony Blair che abbraccia Gheddafi in una delle tende reali del dittatore. Nel 2004 fu proprio Bush e Blair che organizzarono il rientro di Gheddafi nella comunità internazionale. Una rappacificazione che aprì i rubinetti del petrolio libico proprio quando il prezzo del greggio superava la barriera dei 40 dollari al barile. In cambio il regime libico accettò di abbandonare un misterioso progetto nucleare e pagò svariati miliardi di dollari in compensazione per l’attentato di Lockerbie, che però molti esperti di terrorismo considerano opera degli iraniani. Gheddafi si guardò bene dal consegnare agli inglesi l’assassino della poliziotta Ivon Fletcher, freddata durante una manifestazione fuori dell’ambasciata libica di Londra con un colpo di pistola partito da una delle sue finestre. Naturalmente del progetto nucleare libico, come di quello Iracheno, non si è mai trovata traccia. Che si trattasse di una delle tante invenzioni per terrorizzare gli occidentali durante la guerra al terrorismo islamico? È probabile.
Colpisce infatti l’assenza degli islamici spauracchio dell’occidente da un decennio nella rivoluzione popolare nel mondo arabo, un fenomeno che dovrebbe farci riflettere sulla scarsissima professionalità di chi ci governa, ad esempio il nostro ministro degli Esteri che all’indomani della fuoriuscita del tunisino Zine el Abidine Ben Ali dichiara che l’obiettivo prioritario è la lotta contro il fondamentalismo islamico e le cellule terroriste. Frase, ahimé, ormai tristemente famosa perché citata sui quotidiani di mezzo mondo.
Politici che ci hanno propinato un nemico fittizio mentre facevano affari con quello vero. Così mentre a Tunisi imperversa la rivolta, il ministro degli Esteri francese, Michelle Alliot-Marie prima offre il know-how del proprio Paese a Ben Ali e subito dopo poi abbandona le sue vacanze tunisine sul jet privato del socio in affari di quest’ultimo. Ma non basta, la sua famiglia ha da poco vinto un appalto edilizio tunisino siglato con uno dei soci di Ben Ali.
Anche il primo ministro francese Francois Fillion è stato travolto dalla rivoluzione mentre si godeva una vacanza nel Mar Rosso a spese di Mubarack. Ma le joint-venture dei nostri politici con i dittatori arabi erano solo le briciole di regimi in tutto e per tutto feudali. Nella residenza di Ben Ali è stata trovata una stanza cassaforte grande come una boutique, dentro c’era un tesoro simile a quello descritto nel Conte di Monte Cristo: Pile di diamanti, diademi, opere d’arte acquistate alle aste di Christie e Sotheby e così via. Il patrimonio immobiliare della famiglia Mubarack ammontava a 70 miliardi di dollari e nessuno saprà mai quanti soldi la Svizzera abbia congelato dai suoi conti e da quelli di Ben Ali. Sembra di leggere la trama di un blockbuster natalizio ed invece sono le notizie stampa.
Gli Islamici sono assenti perché sono sempre stati una piccolissima, irrilevante, minoranza ed anche a casa loro sono considerati terroristi. Chi cresceva nelle strade del Cairo o subiva la repressione di Gheddafi a Tripoli non aveva nessuna intenzione di immolarsi per l’ipotetico Califfato di bin Laden, lavorava nell’asfittico sottobosco dell’opposizione per distruggere regimi repressivi veri.
A chi ha fatto comodo sventolare la minaccia del terrorismo islamico? Non solo ai ministri che si facevano pagare le vacanze dai dittaori. Molte delle armi che oggi la Libia usa contro i propri cittadini portano in calce la scritta Made in England. Ed in un gesto disgustoso di realpolitick il primo ministro britannico David Cameron questa settimana è in visita nel Medio Oriente, ufficialmente per promuovere la democrazia, ma in realtà per firmare qualche nuovo contratto militare: ad accompagnarlo è una delegazione composta da otto rappresentanti dei massimi produttori di armi britanniche.
In Barhein i sauditi, che allo scoppio delle manifestazioni a Pearl Square, hanno subito inviato i propri carri armati per pattugliare la città e disperdere i dimostranti, hanno trasformato l’isola nella loro riserva finanziaria privata. A gestirla è la famiglia reale e una minoranza sunnita, grazie all’appoggio degli americani che fanno finta di ignorare l’esistenza della maggioranza shiita, che gode di diritti di cittadinanza “limitati”.
Dal Marocco allo Yemen, dalla Giordania all’Iran al posto degli esaltati religiosi che sognano di rivivere le battaglie di Maometto c’è un esercito di giovani che indossa jeans e scarpe da ginnastica, vive su Facebook, My space, YouTube e Twitter e al posto della sciabola usa il telefonino. Il 60% della popolazione nord africana e medio orientale ha meno di 30 anni, una percentuale che oscilla tra il 15 ed il 30% è disoccupata! Si tratta di valori in assoluto massimi al mondo. Ecco il vero pericolo: l’esplosione demografica. Secondo una studio della Population Action International, una società di ricerca statunitense, l’80% dei conflitti mondiali verificatesi tra il 1970 ed il 2000 sono avvenuti in nazioni dove il 60% della popolazione era sotto i 30 anni.
Il baby boom arabo e musulmano esiste da trent’anni eppure a Washington nessuno ci ha fatto caso. Troppo presi dalla vittoria della Guerra Fredda prima e dalla manipolazione della minaccia del terrorismo dopo, i nostri politici hanno messo la testa nella sabbia. Se i trilioni spesi per vincere una guerra inutile contro un terrorismo inesistente fossero finiti in progetti di sviluppo per assorbire questi giovani, se invece di concentrarci sul dittatore Saddam avessimo smesso di appoggiare tutti gli altri forse oggi l’asfalto delle piazze delle capitali arabe non sarebbe sporco del sangue di questi ragazzi.
Riflettiamo su questi punti quando nei prossimi mesi pagheremo prezzi sempre più alti per benzina e alimenti. Forse, anche per noi, è giunta l’ora di dire basta.

l’Unità 24.2.11
La caduta del muro arabo
L’effetto domino in atto nel Nord Africa ricorda quello europeo del 1989. Con una grave differenza: il prezzo pagato in termini di sangue
di Filippo Di Giacomo


Ascoltando le     notizie che attraversano il Mediterraneo state forse pensando al 1979? Ricordate che quell’anno, su un aereo messo a disposizione dalla repubblica francese, la democrazia sembrava viaggiasse verso Teheran con il sorriso (allora) bonario dell’ayatollah Khomeiny? Come andò a finire è cosa nota e forse per questo, quando il nostro attuale ministro degli Esteri, alle prime notizie da Bengasi, ha evocato lo spettro di un «emirato islamico in Cirenaica» nessuno di noi ha sussultato. Se poi avete avuto l’opportunità di leggere, sulla stampa internazionale, le analisi di politici meno impressionabili del titolare della Farnesina, vi sarete accorti che l’anno al quale veniamo invitati a ripensare è piuttosto il 1989, anno della primavera dei popoli dell’Europa dell’Est. Come allora, una serie di regimi fantocci, gusci vuoti di progetti e di idee, imputriditi da decenni di corruzione, assai lontani dai bisogni dei popoli che sostenevano di rappresentare, crollarono all’unisono, partendo dalla Germania dell’Est, con un liberatorio effetto domino. Ricordate l’Andreotti che, alle prime notizie tedesche, e al patriottico entusiasmo di Kohl, ironizzava dichiarando di amare talmente la Germania da preferirne due al posto di una?
In fondo oggi, ciò a cui stiamo assistendo ha molti numeri per ricordare quella feconda stagione europea. Ma se e quando verrà, la primavera araba sarà stata pagata, a differenza di quella vissuta nel nostro continente, dal sangue di centinaia, anzi migliaia di innocenti. La “qualità”, dei cosiddetti “regimi moderati” sulla sponda Sud del Mare Nostrum si dimostra dunque più sanguinaria, più totalitaria, più antipopolare persino di sistemi comunisti quasi feudali come quelli dell’Albania e della Romania. E ciò che agli arabi manca, emerge tragicamente in questi giorni. Nel 1989 infatti, i popoli d’Europa ebbero, in Occidente, una loro “quinta colonna” che parlava polacco e da Roma, utilizzando le potenzialità dell’allora nuova televisione satellitare, non risparmiava fatiche per convincere ad occuparsi più delle persone che delle preoccupazioni geopolitiche. Alla fine dell’ampia e conflittuale pagina per il recupero di metà continente alla storia di un’Europa comune, anche “l’errore croato”, cioè l’ansia di riconoscere la prima autonomia nazionale dell’ex impero socialista, ridiventa solo un episodio di una vittoriosa impresa politica. Durante la quale, tutti gli stati europei furono capaci di far prevalere gli interessi dei diritti umani su quelli delle royalties e degli oleodotti.
Tuttavia, ventidue anni fa, dopo la normalizzazione delle nuove democrazie, anche l’Europa fu pervasa da un primo fremito xenofobo. Ci fu persino chi mise in guardia i nostri governi per la probabile invasione di idraulici polacchi e manovali romeni a Parigi, Londra e dintorni. I macedoni e gli ukraini invece, non usarono le fontane di San Pietro come abbeveratoi, e oggi lavorano tranquilli nei nostri campi e sulle nostre montagne come contadini e pastori di greggi e nelle nostre case come custodi degli affetti, bisognosi di aiuto, a noi più cari. Alla lunga, come spiegano i demografi, stanno persino ridando forze alle nostre esangui strutture familiari, abituati come sono a famiglie dove i bambini sono tali, i nonni anche, gli zii e i cugini pure. A proposito di «emirati islamici nella Cirenaica»: ricordate la seconda conferenza dell’Onu sul razzismo e i diritti umani, organizzata e presieduta dalla Libia di un Gheddafi che, dal 2007 al 2009, era diventato (grazie agli italiani e alla Ue) campione di diritti umani nell’ordinamento internazionale? Sul web esistono ancora tracce di quella non memorabile assise, trasformata dal pittoresco colonnello in becera fiera dei peggiori sentimenti antisemiti e anti israeliani. Sarà pur lecito, a questo punto, notare che non abbiamo più alibi, e dunque ammettere che in questi lunghi anni le prime vittime di Gheddafi, Ben Alì, Mubarak e compagnia bella sono stati i loro concittadini? Non averne paura, soprattutto quando mettono a rischio la vita su barconi in fuga verso la speranza, dovrebbe essere un atto dovuto, un atto di giustizia. E certo non dovrebbe costituire motivo per poter mostrare i muscoli in tv, pensando che chi ringhia contro è più italiano di chi vorrebbe tendere loro la mano. Nel 1989 la televisione satellitare permise ai popoli europei di ascoltare, comprendere e aiutarsi. A sostenere i giovani del Cairo, di Tunisi, di Tripoli, di Sanaa e di tutte le città in protesta è stato il ponte dei social network, il nuovo strumento egualitario che la tecnologia fornisce alle “buone volontà” dei nostri tempi. Il mondo nuovo e integrato esiste già sul web. Meglio accorgersene in tempo.

La Stampa 24.2.11
Rivolte. La paura del contagio
Un dossier. Quattro articoli sulla situazione in Russia, in Cina, in Grecia e in Arabia saudita

qui
http://www.scribd.com/doc/49454379

da il Fatto 24.2.11
“Schizofrenico” all’ultimo stadio

di Stefano Citati
   “Negli anni ‘70, non molto dopo aver preso il potere, Gheddafi fu ricoverato per qualche tempo al Cairo in una clinica per curare la schizofrenia: a rivelare l’episodio fu lo stesso regime egiziano”, ricorda Magdi Allam - giornalista nato al Cairo (...)

l’Unità 24.2.11
«Denuncio il sindaco per omicidio»
Esposto di Luigi Manconi contro Alemanno. «Sapeva e rimase inerte»
Bimbi Rom, quegli allarmi che Alemanno ha ignorato
Esposto in procura presentato da Luigi Manconi, a nome dell’associazione “A buon diritto”, contro il sindaco Alemanno. Che avrebbe ignorato gli allarmi sul campo dove sono morti arsi vivi quattro bimbi rom.
di Mariagrazia Gerina


Cinque segnalazioni avvertivano del rischio nel campo abusivo dove sono morti carbonizzati
Esposto denuncia dall’associazione “A buon diritto” contro le negligenze del primo cittadino

L’esistenza del campo rom di via Appia gli era stata ripetutamente segnalata. La presenza di minori e il pericolo di un incendio anche. Insomma, il rogo della baracca in cui lo scorso 6 febbraio sono morti quattro bambini Fernando, Patrizia, Sebastian Mircea e Raul Vasile poteva essere evitato. Il sindaco Alemanno poteva, anzi, doveva intervenire per mettere in sicurezza quelle baracche ed evitare la tragedia. Per questo ieri Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A buon diritto”, lo ha denunciato alla Procura di Roma per omicidio colposo. Ricordando che già una indagine che pende sui genitori dei bambini, Manconi chiede ai magistrati di accertare anche le eventuali responsabilità del sindaco, chiamato a garantire l’incolumità dei cittadini.
Una denuncia circostanziata. Il cuore sono cinque segnalazioni ricevute dal gabinetto del sindaco nei mesi precedenti la tragedia. La prima risale al 4 maggio 2010. Il Comandante Vincenzo Senatore della Legione Carabinieri Lazio segnala al “Gabinetto del Sindaco” e al “IX Municipio” «un insediamento abusivo composto da 25 persone tutti di origine romena suddivisi in sette uomini e dieci donne e otto bambini, e come rifugio la presenza di otto baracche create con materiale ligneo e di fortuna». «Condizioni sanitarie pessime» e «alto il rischio di incendio perché gli occupanti utilizzano fornelli da campeggio alimentati da bombole di gpl, posizionati nei pressi delle costruzioni in materiale ligneo», scrive il comandante «in attesa delle determinazioni che si riterrà opportuno adottare». Attesa vana, annota Manconi: il gabinetto del Sindaco si limitò, il 10 maggio 2010, a darne notizia a varie figure istituzionali, senza farne discendere iniziativa operativa alcuna.
Il 13 maggio tocca all’architetto Mirella Di Giovane del IX Municipio dopo «avere verificato direttamente la gravità della situazione» ribadire «la pericolosità della situazione ... per la sicurezza dei suoi stessi occupanti» e chiedere «la bonifica dell’area», «dopo avere provveduto all’assistenza    alloggiativa per le famiglie e i minori presenti».
Il 21 maggio 2010 la Polizia municipale ci riprova indirizzando una lettera corredata di fotografie al Gabinetto del Sindaco e al direttore della Protezione civile, in cui segnala oltre alle drammatiche carenze igieniche il pericolo «per la sicurezza delle persone». Il gabinetto risponde, con una lettera firmata dalla dirigente Annamaria Manzi, che i vari uffici erano già stati avvertiti e invitati ad adottare «gli opportuni provvedimenti». Ma il 31 maggio la presidente del IX municipio Susana Fantino è costretta a scrivere direttamente al Sindaco Gianni Alemanno per denunciare che «a tutt’oggi non è stato fatto nulla». Il 7 dicembre, una relazione della polizia municipale, indirizzata tra gli altri al gabinetto del Sindaco, dopo un nuovo sopralluogo, ribadisce l’esistenza dell’insediamento abusivo, annotando la presenza di «un manufatto realizzato con materiali provvisori tavoli e teli di plastica» e «i segni inequivocabili della presenza di persone anche minorenni... giocattoli usati... varie vettovaglie e bevande ad uso alimentare».

l’Unità 24.2.11
4 domande a Luigi Manconi
«Il sindaco avrebbe potuto salvare quelle quattro vite»
di Ma. Ge.


N on una denuncia generica. «In questa vicenda ci sono gli estremi di una fattispecie penale che si è espressa nella inerzia del sindaco di fronte a ben cinque segnalazioni, dettagliate e univoche», ribadisce Luigi Manconi, presidente di “A buon diritto”.
Cosa avrebbe dovuto fare Alemanno? «Avrebbe dovuto rimuovere, come recita il codice penale, le condizioni che costituivano il pericolo non generico: nei rapporti dei carabinieri era segnalato con precisione il rischio di incendio».
Ci sono oltre 200 insediamenti abusivi, per tutti vale lo stesso rischio. «Gli insediamenti abusivi sono triplicati negli ultimi due anni in conseguenza di un piano nomadi che è solo un piano sgomberi: non è stato creato nemmeno un campo attrezzato e a nessuno dei rom allontanati viene data una alternativa abitativa se non a una minima parte che viene stipata nei campi già esistenti».
Cinque segnalazioni nessuna risposta: pensa che si tratti di una prassi ? «C’è da temerlo». Questo perché si pensa che infondo i rom abbiano meno diritti?
«La questione non riguarda solo i rom, in Italia tu puoi essere in questo territorio e non godere di un sistema di diritti di cittadinanza, è il caso degli stranieri, o goderne solo in parte, certo i rom e i sinti vivono ai margini di questo sistema. A Brescia il 17 febbraio il Comune ha ordinato alla polizia municipale di staccare l’elettricità in un accampamento dove viveva anche un bambino di 17 mesi che, affetto da una patologia genetica rarissima, viveva attaccato a un alimentatore elettrico. La tragedia è stata evitata solo perché il padre si è procurato un generatore elettrico. Si affronta la questione degli insediamenti come se fosse solo un problema di ordine pubblico. Mentre la tutela dei diritti di cittadinanza è il principale contributo alla sicurezza anche di chi rom non è».

il Fatto 24.2.11
La scuola per i nati bene
di Marina Boscaino


Nel discorso di accettazione della candidatura, aveva detto: “Questo è il momento di affrontare il nostro obbligo morale di garantire a ogni bambino un’educazione di primo livello, perché questo è il minimo che serve per competere in un’economia globale. (...) Recluterò un esercito di nuovi insegnanti, pagherò loro retribuzioni più alte e darò loro maggiore supporto. E, in cambio, chiederò standard educativi più elevati ed affidabili”. Il ministro Gel-mini ha detto di essersi ispirata a Barack Obama (tutto quanto fa spettacolo). Come ha raccontato Federico Rampini, il   Wall Street Journal ha evidenziato, dopo averle verificate, le cifre reali della strategia di risanamento del deficit pubblico Usa, che in 10 anni taglierà 1.100 miliardi.
COME SI PUÒ notare, i ministeri sono stati toccati dalla politica di austerità in misura diversa: Energia +18%, Reduci di guerra +11%, Dipartimento di Stato e altri programmi all’estero +8%, Tesoro +4%, Interni invariato, Difesa -3%, Sanità -3%, Casa -3%, Homeland Security (polizia, antiterrorismo) -4%, Lavoro -5%, Trasporti -9%, Agricoltura -14%, Giustizia -25%, Commercio -34%. La sorpresa: Istruzione, +21%. Per Obama ridurre le risorse alla scuola è   come “alleggerire un aeroplano troppo pesante eliminando proprio il suo motore”.
E noi? L’epoca dell’“epocale riforma” (quanto sono prodighi di aggettivi gli artefici delle riforme nostrane, come ha dimostrato ieri anche Alfano, con la sua “storica” riforma) si va sfilacciando in mille frammenti autoreferenti, bricolage di sopravvivenza   quotidiana. Annunciata da fanfare mediatiche, senza nemmeno scomodarsi a nobilitarla con parvenze di progettualità didattico-pedagogiche (tanto, come dimostra la realtà, non c’è bisogno di edulcorare la pillola per farla ingoiare), l’operazione ha fruttato allo Stato 8 miliardi in 3 anni e alla scuola 137.000 lavoratori in meno.
ALLE FAMIGLIE è imposto di mettere mano al portafoglio: se volete ciò che avevate, dovete pagare. Ma dovete pagare pure per reintegrare un miliardo e mezzo di euro che il ministero deve alle scuole e che non sembra aver intenzione di rifondere. Agli alunni – orpello   di questo progetto – tempo scuola ridotto, diritto allo studio leso, piani di studio incerti, variati di anno in anno. Contrazione generalizzata, che va a colpire i più deboli (e non è casuale) e in cui passano in secondo piano integrazione dei migranti, assistenza alla disabilità, potenziamento delle scuole a rischio, lotta alla dispersione, rafforzamento del segmento più debole della superiore (nel quali confluiscono svantaggi socio-economici, migranti, diversabilità), i professionali. Passano in secondo piano bonifica dall’amianto di 2400 scuole e edilizia scolastica in generale.   Alla prossima tragedia le prossime lacrime di coccodrillo.
Questa è una scuola per i nati bene, che in essa trovano uno strumento per rafforzare le possibilità di crescita culturale e sociale che hanno in famiglia. La scure dei tagli si è abbattuta: il prossimo anno l’ultima tranche, ulteriori 35 mila posti in meno. E così la “cura da cavallo”, annunciata da Gelmini-Tremonti nel 2008, avrà raggiunto   l’obiettivo. Il tempo della mobilitazione, che ha tenuto banco sui media per una brevissima stagione, si è consumato. I precari sono stati espulsi, gli altri si industriano per fare i conti con l’esistente, in un clima di stanchezza generale, mentre – al diminuire del quasi 2% degli studenti che frequentano l’insegnamento di religione cattolica – il numero di docenti di quella disciplina è aumentato del 14%.
LA “RIFORMA” è passata, portando con sé queste e altre conseguenze? Tutto come prima, per larga parte della scuola. Buon viso a cattiva sorte, adattandosi al millantato credito di un’amministrazione che non ha nemmeno la decenza di dare all’epocale riforma una minima facciata di dignità culturale.   Atavica e mimetica rassegnazione, frutto del decennale disinvestimento sulla scuola: non tocca a me, per il momento. Altro giro, altra corsa. La resistenza di pochi è goccia nell’oceano. Obama è lontanissimo.

l’Unità 24.2.11
36 anni fa moriva il fondatore di Giustizia e Libertà: la politica «giusta» era la sua scelta di vita
Dalla Sardegna al confino Ufficiale nella Grande Guerra, antifascista, nel dopoguerra socialista
La lezione di Emilio Lussu il cavaliere dei Rossomori
Aìsara procede nella pubblicazione della sua opera omnia. Ecco cosa ha da dirci ancora la figura cristallina e sempre «eretica» del fondatore di Giustizia e Libertà. Autore di libri vivi come «Un anno sull’altopiano»
di Nicola Tranfaglia


A più di trent’anni dalla sua morte, avvenuta a Roma il 6 marzo 1975, Emilio Lussu è praticamente sconosciuto alle nuove generazioni. Eppure i suoi libri Un anno sull’altopiano e La marcia su Roma e dintorni, entrambi pubblicati da Einaudi nel secondo dopoguerra, si possono leggere ancora per due qualità rare tra gli uomini che hanno dedicato gran parte della loro esistenza alla battaglia politica. E, come lui, prima tra carcere ed esilio, durante la dittatura fascista, poi nelle aule parlamentari del Senato e sulle piazze italiane per combattere la sua lunga opposizione ai governi repubblicani che non soddisfacevano le sue forti aspettative di giustizia sociale e di attuazione della Costituzione repubblicana approvata nel dicembre 1947.
STORIE DA FILM
L’uno e l’altro, infatti, sono racconti scritti con rara maestria, con una scrittura limpida e brillante, ricca di continue illuminazioni e di immagini capaci di evocare al lettore volti e paesaggi come si trattasse di un film. E, non a caso, tutti e due han-
no attratto l’attenzione di registi cinematografici che ne hanno preso spunto per le loro pellicole. Chi ha conosciuto Lussu ricorda ancora il suo aspetto fisico, era alto e magro con occhi acuti e penetranti, ma soprattutto la sua conversazione che rivelava, nello stesso tempo, la sua viva intelligenza, la sua passione politica e culturale, la sua fervida umanità maturata nelle trincee della prima guerra mondiale tra i contadini e i pastori della sua Sardegna. Era il «cavaliere dei Rossomori» come si sarebbe intitolata la bella biografia che gli dedicò dopo la morte Giuseppe Fiori. Era soprattutto un uomo limpido e dalla schiena diritta in tutte le situazioni in cui si trovò a vivere durante il ventennio fascista e nell’interminabile dopoguerra.
Nato ad Armungia, Nella Sardegna centro-meridionale, il 4 dicembre1890, laureato in Giurisprudenza a Cagliari, ufficiale della Brigata Sassari sul Carso, sull’Altipiano di Asiago e sul Piave, visse la guerra come grande esperimento di emancipazione nazionale dei contadini e dei pastori sardi. E subito dopo il conflitto si impegnò a fondo in politica come dirigente del movimento combattentistico sardo. Ma assai presto si rese conto delle caratteristiche del movimento fascista che pure voleva che tra il partito Sardo D’Azione, di cui lui faceva parte, e il partito Nazionale Fascista ci fossero aspetti di convergenza e di collaborazione e assunse posizioni intransigenti di opposizione a Mussolini e al suo governo.
Consigliere provinciale a Cagliari già nel 1920, fu eletto alla Camera nel partito Sardista l’anno successivo e rieletto poi nel 1924. Due anni dopo, il 31 ottobre 1926, di fronte all’assalto alla sua casa da parte di squadristi fascisti, uccise uno degli assalitori. Fu assolto per legittima difesa ma inviato al confino, dopo i dieci mesi di carcere preventivo in cui aveva contratto una grave forma di pleurite che l’avrebbe accompagnato per molti anni.
A Lipari conobbe Carlo Rosselli e Fausto Nitti e nel luglio 1929 riuscì a fuggire con i suoi due compagni a Parigi e insieme fondarono il movimento di Giustizia e Libertà. Un movimento che si ispirava all’antifascismo più intransigente e dove confluirono liberali, democratici, socialisti e qualche anarchico.
Lussu aveva conosciuto Antonio Gramsci e ne era diventato amico per il comune amore per la causa meridionale e quella contadina, ma con il partito comunista d’Italia i rapporti durante l’esilio non furono mai facili e a volte si arrivò a scontri e attacchi verbali reciproci. In Giustizia e Libertà Lussu fu uno dei maggiori dirigenti e ne rappresentò l’ala socialista, come avrebbe continuato a fare nella vita breve e tormentata della formazione nell’immediato dopoguerra.
C’era in lui l’inclinazione all’azione diretta, alla lotta insieme con quei contadini che, in carcere e in esilio, combattevano contro la dittatura di Mussolini e di un partito fascista che era andato al potere grazie alla complicità dello Stato liberale e delle sue classi dirigenti. I suoi discorsi toccavano il cuore dei giovani e degli umili e, nonostante le gravi malattie che negli anni Trenta lo costrinsero per molti anni al sanatorio e alle cliniche in Francia e in Svizzera, la sua figura di leader mantenne, durante tutta la sua esperienza parlamentare conclusa nel 1968, un grande rilievo nella sinistra italiana. Fu, soprattutto, un uomo d’azione che non si allontanò mai dalle lotte e dall’ambiente della sua giovinezza e volle restare sempre a sinistra, fino a lasciare nel 1964 il Partito socialista, deluso dall’azione dei governi di centro-sinistra, per approdare al Psiup.
La sua fede repubblicana e socialista rimase salda fino alla fine e lo condusse a una lotta accanita contro quel moderatismo italiano che riemerge in tutti i momenti di crisi dell’Italia repubblicana. Tre anni prima di morire, nell’ultimo suo intervento pubblico scritto su Mondo nuovo per lo scioglimento del Psiup, Lussu volle ricordare la Rivoluzione liberale di Piero Gobetti che aveva definito nel 1924 il partito Comunista d’Italia e il partito Sardo d’azione come i due movimenti rivoluzionari sorti dopo la guerra.
E, ricordando di aver rappresentato la sinistra socialista prima in GL e nel Partito d’Azione, poi nel partito socialista, aggiunse: «Questa essenza e questa coerenza io le porterò con me nella tomba. Con la speranza che in Sardegna i giovani non dimentichino questo modesto frammento di storia sarda uscita dalle viscere della nostra terra. Il che non ci impedisce di essere italiani, federalisti, socialisti e internazionalisti».

Corriere della Sera 24.2.11
La «fraternité» di Giddens Idee per la società globale
Non bastano le battaglie per la libertà e l’eguaglianza — più attenzione alle identità collettive e ai temi ambientali
di Michele Salvati


A più di quindici anni dalla pubblicazione, Beyond Left and Right resta un contributo importante al dibattito contemporaneo su destra e sinistra: come stanno cambiando le due grandi categorie del conflitto politico moderno in conseguenza dei mutamenti della società e dell’economia? E, soprattutto, in conseguenza della globalizzazione? Per rendersene conto basta confrontarlo con un altro libro sullo stesso argomento, pubblicato nello stesso anno (1994) e che ebbe un successo editoriale assai maggiore: Destra e sinistra di Norberto Bobbio. Quello di Bobbio è un esercizio di storia delle idee politiche, disciplina della quale il filosofo torinese era maestro. Anche se parte dal presente, dalla presunta irrilevanza attuale della nostra dicotomia, Bobbio guarda al passato, ai significati che ai due termini sono stati attribuiti, e va alla ricerca di una costante, di un elemento comune che li connetta: per la sinistra si tratterebbe dell’aspirazione all’eguaglianza, come molti lettori ricorderanno. Insomma, è una riflessione che si svolge prevalentemente sul piano dei concetti e delle idee, dei riferimenti storici vicini e soprattutto lontani, dei confronti con altri pensatori: se non ricordo male, una delle parole chiave del libro di Giddens, «globalizzazione» , neppure è menzionata. Oltre la destra e la sinistra è invece opera di un sociologo, di uno studioso della società e dell’economia, non delle idee. Certo, di un sociologo colto e che ha dato eccellenti contributi alla teoria sociale e alla filosofia politica: i riferimenti che si collocano su questo piano di discorso sono molto ampi e di grande interesse anche in questo libro. Ma l’oggetto centrale è costituito dalla società e dalle sue recenti trasformazioni. Ed è l’influenza di queste trasformazioni sugli obiettivi politici sostenuti da partiti che si proclamano di destra o di sinistra che è al centro degli interessi di Giddens. Non è, come in Bobbio, l’elemento costante che si può trovare nei concetti di destra e di sinistra durante i loro due secoli di storia, bensì le variazioni di significato che essi hanno subito o devono subire sotto l’impatto delle trasformazioni della società e dell’economia. Anzi, le variazioni di significato che stanno subendo ora, poiché sulle precedenti Tony Giddens non si sofferma: come non è animato da un interesse prevalente di storia delle idee, così gli è estraneo — in questo lavoro, almeno— un interesse storico in senso proprio, per le trasformazioni che anche nel passato hanno condotto a mutamenti negli obiettivi espressi da due parole che restavano sempre le stesse, destra e sinistra. È invece animato da un interesse politico: come può confrontarsi quella parte alla quale siamo soliti dare il nome di sinistra con le trasformazioni economiche e sociali in corso, come può adattarsi ad esse ed anzi governarle, imprimere loro un indirizzo desiderabile? Si tratta di un interesse che in questo libro è ancora latente e invece si manifesterà in modo aperto, pochi anni dopo, nel pamphlet sulla Terza Via, il manifesto del New Labour di Tony Blair. La Terza Via ha conosciuto il suo ciclo. I problemi cui cercava di rispondere sono però ancora con noi, anzi, si sono aggravati, e rendono Oltre la destra e la sinistra tutt’oggi di grande interesse. La mia reazione a una seconda lettura, quindici anni dopo la prima, è che il titolo del libro va preso sul serio. Anche se Giddens recupera non pochi materiali dalla sinistra tradizionale— più dalla sinistra liberale che da quella socialista— e anche se la proposta politica che illustra risulterà probabilmente più familiare a, e più condivisibile da, un lettore di sinistra che di destra, resta il fatto che egli esplora un terreno che in parte è inesplorato, in parte sta a cavallo tra i terreni rivendicati in passato da una o dall’altra delle due grandi categorie ordinatrici dello spazio politico. Da quando quelle categorie si sono affermate in Europa, con la Rivoluzione francese e con i governi costituzionali e parlamentari dopo di essa, esse hanno colto il conflitto principale che attraversava la politica all’interno degli Stati nazionali, quello tra le forze che spingevano per una sempre maggiore libertà ed eguaglianza dei singoli cittadini e le forze che resistevano a questa spinta in nome della tradizione, dei radicamenti comunitari, e per il timore che mutamenti troppo radicali alimentassero un disordine sociale intollerabile. Erano dunque di sinistra i partiti liberali per gran parte dell’Ottocento— sostenitori delle libertà borghesi contro la nobiltà, il trono e l’altare — e i partiti socialisti per gran parte del secolo successivo, sostenitori di una effettiva eguaglianza di opportunità per i ceti più poveri. Anche allora la dicotomia non coglieva appieno altre fonti importanti di conflitto politico, soprattutto quelle dovute allo scontro tra diverse identità nazionali, etniche, religiose, e comunitarie in genere. La sinistra non poteva coglierle, perché la sua origine nella modernità e nell’Illuminismo, e il suo individualismo congenito, non le consentivano di avvertire la forza di quei radicamenti. Essa dava per scontata, non problematica, quella fraternité che pur stava scritta sulla bandiera della Rivoluzione, e concentrava la sua azione su égalité e liberté, all’interno di un popolo assunto come omogeneo, all’interno di un «noi» non attraversato da conflitti identitari. E né la destra, né la sinistra potevano definirsi sulla base di un diverso atteggiamento verso la natura e le risorse che offre: queste erano up for grabs, pronte ad essere sfruttate dalle forze della modernità, del capitalismo… e del socialismo. Con la globalizzazione i conflitti identitari e gli scontri tra tradizionalismi non hanno fatto che crescere. E con il vorticoso sviluppo economico su scala mondiale il problema della disponibilità di risorse e la minaccia all’equilibrio dell’ecosistema non hanno fatto che aggravarsi e finalmente sono arrivati ad un livello di elevata— ma insufficiente, ahinoi— consapevolezza politica. Restano certo i problemi di eguaglianza e libertà sui quali lo scontro è colto appieno dalla dicotomia tradizionale, di origine illuministica. Ma un libro che dà un grande rilievo alle due prime aree problematiche, emerse con forza negli ultimi trent’anni; un libro che esplora altri conflitti e dilemmi di natura personale e interpersonale, giustifica appieno il titolo che Giddens gli ha dato, Oltre la destra e la sinistra. Lo giustifica anche se non dimentica il conflitto classico, in riferimento al quale i partiti di destra e di sinistra si sono definiti. Dopo di che è certo possibile che i partiti di sinistra, cambiando non poco i loro programmi, riescano ad assimilare il messaggio innovativo contenuto in questo lavoro. È quello che Giddens spera, e i legami del suo messaggio con il razionalismo illuministico della sinistra tradizionale sono forti e continuamente sottolineati. Ma non mi sembra uno sviluppo facile: se così avvenisse, che cosa resterebbe della destra? Potrebbero ridursi, i grandi partiti di questa parte politica, a sostenitori di un capitalismo senza freni, distruttore dell’ambiente? E insieme fautori di un tradizionalismo esaspera- to, confinante con il fondamentalismo? Si tratta di grandi forze politiche, anch’esse in larga parte figlie della modernità, e non credo che esse accetterebbero di confinarsi in una posizione politica così estrema e insostenibile, quanto meno nell’ambito dei paesi capitalistici avanzati. — più probabile è una forte convergenza di destra e sinistra verso posizioni piuttosto simili, di cauta gestione dei problemi che questo libro esplora. Così sta già avvenendo e Giddens sembra auspicare questo incontro e l’attenuazione dei tradizionali conflitti tra i due grandi schieramenti. Ma si tratta di sviluppi che cadono al di fuori delle tematiche che il libro affronta ed esigerebbero analisi politologiche di natura assai diversa, empirica e comparativa. Di questo libro colpisce l’ampiezza dell’impianto. Ampiezza del tutto inconsueta in analisi che trattano di destra e sinistra, le quali solitamente si limitano o alla storia delle idee, o a contesti geo-politici limitati, o alla ristretta gamma di problemi che affiorano alla superficie dello scontro politico: di questi tratta il lucido saggio di Norberto Bobbio. Nel libro di Giddens l’orizzonte è il mondo, l’insieme dei Paesi sviluppati e sottosviluppati che compongono questo nostro pianeta, e i rapporti tra di essi. Per criticare scherzosamente l’eccessiva ambizione di uno scritto a volte si dice che «tratta del mondo e dei suoi dintorni» : bene, questo è il caso di Giddens, e non intendo quella frase scherzosa come critica, ma come apprezzamento. Ancor maggiore perché all’ampiezza dell’orizzonte geo-politico si somma una grande ampiezza tematica. I temi trattati vanno da quelli tradizionali del conflitto destra/sinistra a quelli sui quali quel conflitto tradizionale ha meno da dire: l’arretramento del tradizionalismo e l’emergere dei fondamentalismi, i problemi della violenza, la crisi ambientale. In questa breve presentazione, oltretutto, non è stato possibile sottolineare la grande attenzione che Giddens presta a temi e conflitti sociali di base, non sorprendente in un sociologo: ai movimenti sociali, alle questioni attinenti la diversità di genere, ma anche, a livello ancor più micro, alle relazioni interpersonali e alla famiglia. In tutti questi ambiti egli mostra come la riflessività, gli sviluppi scientifici e la globalizzazione generino tensioni — crisi e opportunità— sconosciute in una società tradizionale e che inevitabilmente si riflettono in un contesto politico ancora organizzato secondo il tradizionale asse destra/sinistra. Come nel caso dei conflitti di tipo nazionale, etnico o religioso, o della crisi ambientale, queste tensioni sociali e interpersonali non si fanno facilmente ricondurre a quell’asse. Alcune sì, ad esempio la domanda di parità che proviene dal mondo delle donne, una classica domanda di eguaglianza. Altre meno: sempre restando in quel mondo, dalle donne proviene anche una domanda di riconoscimento della differenza, che non è facile conciliare con le tradizioni della sinistra. E come è possibile ricondurre all’asse destra/sinistra le questioni attinenti all’aborto, all’eutanasia, alla bioetica in generale? Nelle preoccupazioni e nelle aspirazioni delle singole persone si tratta di questioni importantissime e alle quali difficilmente la politica si può sottrarre. Uno dei grandi meriti di questo lavoro è di aver creato categorie e modalità di analisi che consentono di connettere quei problemi alla discussione politica in modo innovativo e senza forzature. Concludendo. Oltre la destra e la sinistra è un libro impegnativo, originale, provocatorio, mai banale. Può suscitare dissensi o perplessità. Mai noia. Sono pochi i libri che vale la pena di leggere con attenzione e criticare: questo è uno di essi.

Corriere della Sera 24.2.11
La rivoluzione che non ci fu Il sogno smarrito di Rosselli
Nemico del fascismo, ma anche della vecchia Italia
di Antonio Carioti


Nell’Italia repubblicana Carlo Rosselli non ha mai goduto di grande fortuna: comunisti e cattolici ovviamente non lo amavano, ma anche il Psi rimase a lungo distante dal suo «socialismo liberale» volontarista e non marxista, con forti venature mazziniane, per cui l’emancipazione dei lavoratori doveva avere innanzitutto un carattere morale. I due maggiori tentativi di recuperare l’esule fiorentino come padre nobile, uno compiuto da Bettino Craxi negli anni Settanta, l’altro da Walter Veltroni quando era alla guida dei Ds, si dimostrarono effimeri. Erano dettati dalla ricerca confusa e affannosa di riferimenti nuovi, una volta accantonati quelli del passato, ma non avevano alle spalle riflessioni solide. Qualcosa di serio si è visto invece di recente sul piano degli studi, per merito di autori come Mario Giovana (scomparso nel 2009), Paolo Bagnoli, Mimmo Franzinelli, senza dimenticare gli incontri annuali che si tengono a Torino sotto l’insegna «Cantieri dell’azionismo» , dove si dibatte regolarmente di Giustizia e Libertà (Gl), il movimento antifascista creato nel 1929 da Rosselli e poi confluito dal 1942 nel Partito d’Azione. A tutto ciò si aggiunge ora Nicola Tranfaglia, con l’opportuna iniziativa di riproporre e completare un lavoro uscito nel 1968 da Laterza. Il suo Carlo Rosselli dall’interventismo a Giustizia e Libertà, che si chiudeva con la fuga del protagonista dal confino di Lipari e la fondazione di Gl, confluisce ora nel nuovo Carlo Rosselli e il sogno di una democrazia sociale moderna (B. C. Dalai editore) che si spinge fino all’assassinio del dirigente antifascista, trucidato a Bagnoles de l’Orne nel 1937, assieme al fratello Nello, promettente storico, da sicari francesi di estrema destra aizzati dal governo di Roma. In particolare Tranfaglia, nella parte nuova del libro, evidenzia il motivo principale della scarsa influenza esercitata dal giellismo dopo la guerra. Il movimento di Rosselli, scrive, fu «un’esperienza di autentica rottura rispetto all’Italia prefascista» e «di profondo contrasto con il bolscevismo leninista e poi staliniano» . Il suo programma prevedeva una netta discontinuità rivoluzionaria non solo rispetto al fascismo, ma anche nei riguardi dell’assetto sociale che aveva prodotto la dittatura. «Sul piano della vecchia vita italiana e dei vecchi valori — scriveva Rosselli nel 1936 — per noi è inconcepibile non solo l’agire, ma l’esistere. O si arriva a una sovversione profonda; o, a meno di non rassegnarsi a diventare dei miserabili politicanti, è meglio allevar conigli o professar storia all’estero» . Il regime di Benito Mussolini non cadde però travolto da un moto insurrezionale interno, come immaginava e sperava Rosselli. Fu abbattuto da una congiura di palazzo, il 25 luglio 1943, in seguito alle ripetute sconfitte militari. A liberare l’Italia furono soprattutto le armate angloamericane e nello stesso schieramento della Resistenza militarono anche forze che in precedenza si erano alleate o comunque avevano accettato di convivere con il fascismo. L’idea della «rivoluzione democratica» perseguita dal Partito d’Azione (peraltro assai diviso circa i lineamenti che essa avrebbe dovuto assumere) fece dunque poca strada, tanto più che perfino i comunisti accettavano, almeno in via provvisoria, la prospettiva della continuità, preoccupati di legittimarsi in un Paese che — a Palmiro Togliatti era ben chiaro — difficilmente sarebbe sfuggito alla sfera d’influenza occidentale L’innegabile sconfitta storica dell’ipotesi politica giellista non basta tuttavia a squalificare le idee che l’animarono. Anzi Tranfaglia ne sottolinea l’attualità, correggendo di fatto il giudizio un po’ limitativo espresso nel 1968 sul libro in cui Rosselli, nel 1930, faceva i suoi conti con Marx, Socialismo liberale. La «crisi della democrazia occidentale» su cui rifletteva il leader di Gl era certo diversa dalle difficoltà di oggi, ma l’esigenza di conciliare libertà individuali e giustizia sociale resta un nodo irrisolto. © RIPRODUZIONE RISERVATA R Il libro: Nicola Tranfaglia, «Carlo Rosselli e il sogno di una democrazia sociale moderna» , B. C. Dalai editore, pagine 507, € 22

Repubblica 24.2.11
L’italia di Matteotti e quella di oggi
di Piero Ottone


Una biografia di Giacomo Matteotti (autore Gianpaolo Romanato, editore Longanesi: l´unica, incredibilmente, che sia mai stata scritta del deputato socialista assassinato nel 1924 dai fascisti) rivela analogie impressionanti, pur con tante ovvie differenze, fra allora e adesso. Vediamole.
Innanzi tutto, un po´ di realismo. L´Italia ha raccolto attraverso i secoli tante glorie, può vantare tanti meriti, ma nel contesto europeo, a partire dai giorni dell´unificazione, rivela gravi debolezze: è il malato d´Europa. C´erano ieri nella penisola, e permangono tuttora, vaste zone di squallida povertà, di sottosviluppo: c´era, e purtroppo c´è ancora, analfabetismo, corruzione, criminalità organizzata. Una saggia guida politica sarebbe il punto di partenza per guarire: ma il Paese non è abbastanza maturo per gestire con efficienza la democrazia parlamentare, che è la forma di governo più evoluta, e questa immaturità nazionale è una costante che perdura dall´inizio del Regno fino ai nostri giorni, con poche parentesi fortunate, come la Destra storica o gli anni del miracolo. Si cercano pertanto, periodicamente, correzioni o alternative: si fa ricorso a personaggi anomali, esterni al sistema. Ecco dunque la prima analogia: Benito Mussolini allora, e adesso Silvio Berlusconi.
Le differenze fra allora e adesso sono fin troppo evidenti. E affrettiamoci a indicare quella fondamentale: allora si instaurò una dittatura, che sopprimeva ogni libertà politica e di linguaggio; adesso, le libertà politiche sussistono. Annozero di Santoro, allora, non sarebbe stato immaginabile; adesso si trasmette, sia pure a fatica. E questo nostro giornale, nel quale appare oggi questo mio articolo, allora non sarebbe esistito. Insomma: allora c´era la dittatura, adesso c´è la democrazia. Ma l´analogia è nel fatto che quei vent´anni di Mussolini, e questi sedici (finora) di Berlusconi, hanno un protagonista anomalo, che dispone di un potere eccezionalmente vasto, e se ne serve per cambiare le regole nel suo interesse, a suo piacimento. Mussolini, nel 1925, cambiò la legge per instaurare la dittatura. Berlusconi l´ha cambiata, e tuttora sta tentando di cambiarla, per sfuggire ai processi. Lo scenario è diverso, ovviamente. Diversi sono i moventi. Ma la pulsione è la stessa.
E qui appare l´analogia più impressionante: il Paese ha accettato, adesso come allora, la violenza morale. Le persone che contano, gli intellettuali e gli imprenditori, i giornalisti e i professori, tutti coloro insomma che formano il così detto establishment, nel loro insieme si sono adeguati, gli uni incoraggiando, gli altri tollerando il demiurgo di turno, allora il figlio di un fabbro che aveva fatto carriera, adesso un costruttore edile che si è arricchito. Allora, i professori di università, con pochissime eccezioni, giurarono fedeltà al fascismo. Adesso, anche in questo scorcio di regime, fra scandali e ridicolaggini di ogni tipo, c´è ancora chi chiede gentilmente a Berlusconi di darsi, come si suol dire, una regolata, nella speranza che rimanga al potere a tempo indeterminato.
Giacomo Matteotti, allora, fu un´eccezione: fece parte di una minoranza esigua che non si adeguò. Ricco di famiglia, aveva viaggiato, conosceva l´Europa; si rendeva conto della nostra arretratezza rispetto ai grandi paesi del continente, sperava in un´Italia finalmente europea a tutti gli effetti, senza manganelli, senza olio di ricino. Sebbene fosse di temperamento tranquillo, attratto dagli studi oltre che dalla carriera politica, non rinunciò alla lotta contro il fascismo: fu, come giustamente lo definisce il titolo della biografia, un italiano diverso. Fu eletto nel 1924 in parlamento, diventò il segretario del partito socialista di indirizzo riformista. Sebbene molti, anche fra i compagni di partito, lo esortassero alla prudenza, il 30 maggio pronunciò un discorso di violenta opposizione, il primo in quella legislatura, in un´aula inferocita che lo interrompeva a ogni frase. Alla fine, esausto, quasi crollò sul banco, e a un collega (anche lui coraggioso) che si congratulava disse: «Però adesso voi preparatevi a fare la mia commemorazione funebre». Non ebbe neanche quella. Il 10 giugno su un lungotevere, mentre a piedi si dirigeva verso il Parlamento, fu aggredito, caricato su una macchina, ucciso. Il cadavere fu ritrovato mesi più tardi.
Analogie? No di certo, in questo caso: gli oppositori attuali non sono in pericolo. E ora più che mai si dimostra la verità del detto famoso, secondo cui, quando la storia si ripete, la prima volta è tragedia, la seconda è farsa. Allora ci furono le quadrate legioni, le aggressioni, infine la guerra: tragedia, appunto. Adesso ci sono i festini, le orge, le ragazze marocchine: farsa, più che mai. Altra differenza: allora si era all´inizio dell´avventura, che durò un ventennio; adesso siamo presumibilmente alla fine di quest´altra avventura (che già è durata, peraltro, un periodo di poco inferiore). Resta il fatto che le analogie, sia pure fra tante differenze, ci sono: e riempiono di tristezza.

Corriere della Sera 24.2.11
Hessel raddoppia A marzo esce «Impegnatevi!»


Mentre il libro Indignez-vous! supera il milione e 200 mila copie in Francia, resiste da quattro mesi in testa alla classifica e viene tradotto in 22 lingue (in Italia è uscito da Add), il 93enne Stéphane Hessel è pronto a replicare con Engagez-vous! («Impegnatevi!» ), conversazione con il giovane militante ecologista Gilles Vanderpooten, che uscirà il 10 marzo per le Editions de l’Aube. «Credo che l’impegno per l’ecologia sia altrettanto forte di quello che per noi era l’impegno nella Resistenza» , dice Hessel, protagonista del caso editoriale dell’anno. Il «Nouvel Observateur» pubblica alcuni estratti del nuovo manifesto. «Centinaia di migliaia di persone continuano a morire di fame malgrado le varie rivoluzioni verdi — scrive Hessel— che hanno fatto più male che bene. Oggi abbiamo bisogno di altre forme di agricoltura, e l’agro-ecologia è una delle soluzioni, perché si preoccupa dell’ambiente e dell’alimentazione. È quello che noi difendiamo con Agrisud (ong francese, ndr): un’agricoltura che possa nutrire i 10 miliardi di essere umani che popoleranno la Terra nei prossimi decenni» . S. Mon.

Corriere della Sera 24.2.11
La passionale femminilità di Elsa
«Sono piena di cose volubili, non chiare... ombre del mio carattere»
di Antonio Debenedetti


N ei romanzi della Morante c’è la presenza intimidente del talento, nei ricordi degli amici di Elsa c’è una donna che avrebbe voluto essere un poeta-ragazzo, nell’epistolario adesso in preparazione (e di cui si da qui per la prima volta notizia) i lettori troveranno finalmente Elsa scrittrice e donna. Ecco l’importanza decisiva della raccolta, ricca di circa 4.000 pezzi fra lettere, abbozzi e minute di lettere, che qualche giorno fa ho avuto il privilegio di vedermi squadernare davanti dal loro appassionato custode e curatore Daniele Morante. Questo insospettato patrimonio d’inediti, a tratti leggibile come una preziosa autobiografia involontaria, ci dice molto che non potevamo sapere sulla maggiore scrittrice del nostro novecento e aiuterà a conoscere un milieu letterario romano sporcato da troppi insulsi pettegolezzi. Aumenterà così il numero di quanti, una volta pubblicate queste pagine epistolari, si decideranno a parlare di «morantiani» e non solo più di «moraviani» . Lo ripeto a Daniele Morante, scrittore e linguista oltreché erede del copyright di Elsa insieme con Carlo Cecchi e Tonino Ricchezza, per sostenerlo nella fatica. Proprio con Cecchi è nata, tiene a sottolineare Daniele, l’idea dell’epistolario. «Accingendomi all’impresa, non mi rendevo conto dei problemi cui sarei andato incontro» sottolinea con stanchezza. E il suo stato d’animo si può capire. Da quattro anni Daniele lavora infatti a raccogliere, ordinare, schedare ogni rigo della nutrita corrispondenza della sua geniale zia. Finito il lavoro di raccolta, lo aspetta adesso quello non meno impegnativo della cernita. Quale criterio userà nella selezione? «Vorrei, attraverso le lettere, far capire quali furono i meccanismi amorosi che suscitarono intorno a Elsa fenomeni di vera e propria devozione» mi dice. L’idea è bella e cattura. Deciso a tutelare la natura segreta dell’autrice di Menzogna e sortilegio, Daniele mi fa vedere e non mi fa però leggere alcune perle del carteggio. In qualche caso, poi, mi lascia leggere ma mi chiede di non citare. Non vuole guastare l’effetto d’insieme, quando tutto sarà pubblicato: ci sono documenti epistolari relativi a Moravia, Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini, Natalia Ginzburg, Paolo Volponi, Leonor Fini, Italo Calvino e Tommaso Landolfi. I corrispondenti, fino a arrivare a Goffredo Fofi e Adriano Sofri, sono comunque moltissimi, citarli tutti sarebbe davvero impossibile. Che dire? A quanto ho potuto constatare Elsa si racconta, si analizza con una intensità che la poesia, inseparabile dalle sue parole, fascia sempre d’un pudore che non soffoca tuttavia una comunicativa passionalità. Obbedisco di malavoglia a Daniele davanti a una pagina, lasciata inconclusa, dove la giovane Morante scriveva (la lettera non fu poi spedita) a un giovane Moravia forse più impaziente che innamorato. Viene fuori, in quella minuta, una femminilità tempestosa, un temperamento singolare. Daniele mi autorizza a riportare solo un frammento di quello scritto indispensabile a ricostruire un menage dal peso più che rilevante nella storia letteraria del nostro ventesimo secolo. Elsa dichiara: «So di essere piena di cose volubili, fisiche, non chiare e forse quelli che a te sembrano dei segreti... sono soltanto ombre del mio carattere» . Tre righe appena che, a saperle leggere, nascondono però un bellissimo perché complicato racconto d’amore. Più avanti mi capita sotto gli occhi la «brutta» d’una lettera di molti anni dopo. Era scritta per Luchino Visconti, cui non venne tuttavia inoltrata. Vi si legge fra l’altro: «Senza tutto quel tuo feudalesimo tu saresti stato per me molto più bello» . Mai, stando a quanto ho potuto vedere, c’è l’ombra di un pettegolezzo. Elsa affida alla sua corrispondenza, non di rado destinata a rimanere segreta come un dialogo tra sé e sé giudizi critici molto severi o viceversa molto generosi quando in un’opera scorga il segno d’un autentico destino d’artista. Così, dopo aver letto Sipario ducale di Volponi, rimproverando garbatamente a quel nobile e complicato scrittore d’aver inviato il libro a Moravia e non a lei, gli dice tutto il suo entusiastico consenso. Parla senza remore di evento letterario e di sicura grandezza. Che dire in conclusione? «Elsa sa essere come nessuno amica dei suoi amici» ripeteva un critico che l’aveva conosciuta molto giovane e l’epistolario, che qualche studioso straniero già reclama, lo confermerà pienamente.

Corriere della Sera 24.2.11
Che cosa sente e pensa l’opinione pubblica
di Beppe Severgnini


C’ è un lato oscuro e complice negli italiani, recita il sottotitolo del nuovo libro di Ermanno Rea (La fabbrica dell’obbedienza, Feltrinelli). E noi ci ostiniamo a ignorarlo. Nessuno vuole sollevazioni in stile magrebino — ci mancherebbe altro! — ma un po’ di sana diffidenza verso il potere, questo sì. Molti di noi, invece, si bevono tutto. Anche il giornalismo governativo, un ossimoro che non stupisce i nostri liberali tuttifrutti, ma lascia basìto qualsiasi osservatore in buona fede. Sono venute a trovarmi tre giovanotte di Rai 5. Il programma si chiama La Banda del Book e prevede una visita domiciliare con esame dei libri del padrone di casa. Le ragazze si chiamano Costanza Melani, Silvia Saraceno e Simonetta Pieroni. Andandosene, propongono tre chiuse letterarie. Io ho scelto Mark Twain. Libertà di stampa (Piano-B Edizioni) finisce così: «Non facciamo altro che sentire, e l’abbiamo confuso col pensare. E da tutto ciò si ottiene solo un aggregato che consideriamo una benedizione. Il suo nome è opinione pubblica. È considerata con riverenza. Risolve tutto. Alcuni credono sia la voce di Dio» . Brillante intuizione, quella di Mark Twain, nato Samuel Langhorne Clemens (1835-1910). Noi sentiamo (con la pancia) invece di pensare (con la testa). Sentire è un processo immediato, pensare un esercizio prolungato. La gente non ha tempo né voglia di trovare le informazioni e trarre le conclusioni. Non solo in Italia: in tutte le democrazie. La mole delle notizie affatica e disturba. E noi non vogliamo essere disturbati. La politica l’ha capito. Utilizza perciò i temi, i modi e i tempi della pubblicità e dell’intrattenimento: poche informazioni gratificanti, al momento giusto. I candidati americani si svenano per acquistare spot televisivi; i politici britannici combattono per l’appoggio dei tabloid; Silvio B. mantiene il consenso attraverso semplificazioni che i media (posseduti e controllati) diffondono oltre il Five Million Club, i cinque milioni di italiani bene informati che parlano molto ma contano poco. Il conflitto d’interessi è cancellato dal voto! Affermazione seducente ma fallace, anche perché il voto può essere— anzi è— condizionato dal conflitto di interessi. Il giudice ultimo è il popolo! Suona bene, ma non c’è scritto nella Costituzione, che invece prevede la divisione dei poteri. La vita privata è sacra! Non sempre: di un leader dobbiamo valutare la coerenza, l’affidabilità, l’onestà, la responsabilità. Vi pago, dovete sostenermi! Sembra logico, non lo è. Giornalisti e calciatori del Milan, per esempio, fanno un altro lavoro. Chi ascolta s’innamora delle frasi col punto esclamativo (!). Chi pensa arriva alle obiezioni che seguono. Ma c’è poco tempo per pensare, nelle nostre vite complicate e ipercollegate. Ce n’è abbastanza per sentire, invece. Chi sa trovare il momento e il modo riuscirà a toccarci e a convincerci. Perché siamo informatissimi e disinformati, cinici e ingenui, sensibili e insensati, disarmati e presuntuosi. Siamo l’opinione pubblica. Mark Twain aveva capito tutto, Silvio Berlusconi pure.

Repubblica 24.2.11
Quando le rivolte popolari fanno tremare i regimi
Rivoluzioni il virus dei giovani
di Adriano Sofri


Quello che sta succedendo in Nord Africa e in Medio Oriente è una ribellione diffusa grazie anche ai giovani ed è simile ad altri episodi della storia, dal 1848 al 1989
Le sollevazioni sono una malattia infettiva dei giovani. Che hanno una tendenza alla prossimità, dalla quale in età matura si cerca di stare alla larga
Nelle sommosse ci sono le primavere e gli autunni. Ma quelle più effettive sono anche le più eccentriche e imprevedibili

La rivoluzione è una malattia della gioventù. Più esattamente, un´infezione della gioventù e di altre classi sociali losche, una malattia infettiva. Quando scoppia, tende a propagarsi in forma di epidemia. Soprattutto i giovani hanno una tendenza alla prossimità e alla confidenza, dalle quali nell´età matura si rifugge, per paura di smarrire la propria individualità e per l´orrore di scoprirsi troppo simili agli altri.
I giovani sono diversi fra loro, perché su loro non si è ancora chiuso un destino, dunque sono contenti di somigliarsi. L´aggettivo "contagioso" suona loro lusinghiero – un´allegria contagiosa, una contagiosa voglia di libertà – mentre spaventa gli uomini fatti, che si lavano continuamente le mani e curano meticolosamente le recinzioni, a costo di non accorgersi che non c´è più niente da recintare. Le rivoluzioni hanno le loro primavere e i loro autunni, ma i vecchi del potere ne sentono in ogni stagione il fiato sul collo: il potere è una permanente profilassi delle rivoluzioni possibili, innumerevoli, perché le rivoluzioni più effettive sono anche le più eccentriche. Come la rivoluzione libica, che quasi nessuno ha voluto prevedere – Gheddafi forse, perché è pazzo e perché è criminale. Affare del potere è arginare il contagio rivoluzionario drizzando un cordone sanitario. La messa a punto del cordone sanitario è attribuita al dottor Proust padre, rispetto al colera del 1866, ma l´idea politico-militare è praticata da sempre e, per restare all´età moderna, attorno alla Francia del 1789, all´Europa del 1848, alla Russia del 1917, a mezzo mondo del 1968, all´Europa del Centro e dell´Est del 1989, e ora al Maghreb e al Vicino oriente, le cui scintille sprizzano fino al Pakistan, il vulcano più micidiale, e alla Cina, colossale impero senza imperatore. Poiché le rivoluzioni dal basso sono contagiose, sono altrettanto vaste e deliberatamente epidemiche le controrivoluzioni dall´alto, che a volte le prevengono, altre volte le prendono a pretesto.
Un modo di sventare le rivoluzioni, o di dirottarle quando avvengano, è di contraffarle: per esempio, chiamandole Colpi di Stato. A volte il dilemma è autentico, come nel caso della differenza fra il febbraio e l´ottobre nella Russia del 1917. Altre volte rivoluzione e colpo di Stato sono abbastanza distanti, come il 14 luglio della Bastiglia dal 18 brumaio di Napoleone. Oggi per la Tunisia e l´Egitto e i prossimi birilli a cadere, il nome di Colpo di Stato usurpa la verità. Poiché la cosa bella delle rivoluzioni sono le rivoluzioni stesse, e la cosa peggiore, di norma, il loro indomani – la differenza che passa fra il sabato e il lunedì del villaggio – ogni volta di nuovo si è tentati di invalidare la speranza rivoluzionaria con la diagnosi infausta sul suo esito. "Come nell´Iran dello scià, e poi è venuto il khomeinismo"…
Le rivoluzioni non sono alberi condannati in anticipo dai loro frutti, salvo fare un´enorme ingiustizia ai protagonisti ogni volta nuovi. Il Colpo dei militari, o la soperchieria dei fondamentalisti organizzati, o qualunque infame esito postumo, non inficia l´anelito a libertà e giustizia che appare improvvisamente perseguibile e spinge i giovani all´emulazione, al più alto costo. L´argine elevato contro l´infezione rivoluzionaria è una misura della malafede o dell´avarizia di chi vive del privilegio. Tanto più di fronte a un´epidemia come questa, che rovescia una esausta storia di rivoluzionari senza popolo, in un popolo insorto senza rivoluzionari. Al contrario che nelle effimere "repubbliche sorelle" del giacobinismo 1796-´99, c´è qui il frutto del legame fra demografia e gusto di libertà – e telefoni cellulari e social network, va bene. Anche il contagio del 1848 e quello, poco meno che planetario, del 1968, furono affare di giovani e, soprattutto il secondo, di una classe mista di ragazze e ragazzi. Allora, c´era un nomadismo fisico, si andava là dove fischiava il vento – Curtatone, la Venezia di Manin, la Repubblica romana del ´49; e i concerti e il Quartiere Latino e la Praga di Jan Palach. Il 1989 fu altra cosa, fu la spinta finale che fece crollare un edificio mostruoso e minato, e autorizzò finalmente la gente a mettersi in strada e andare verso le vetrine illuminate. La gente ne aveva fatte tante, di rivolte sanguinosamente pagate (le rivoluzioni schiacciate nel sangue, come in Ungheria 1956, per castigo si chiamano rivolte), e aveva votato tanto "coi piedi".
Epperò non abbiamo voluto riconoscere che stavano votando coi piedi anche quelli che arrivavano da noi dall´altra sponda del Mediterraneo, rifiutati come banditi o accattoni. Ora, abbiamo tanta fretta di gridare all´arme per i profughi che minacciano di arrivare dal sangue della Libia da non ricordarci nemmeno di maledire i massacri; e da non pensare che niente può ridurre l´emigrazione della paura e della povertà come una rivoluzione riuscita. Ma siamo ancora al contagio. Vecchia storia: "Fare come in Francia", "Faremo come la Russia"… A Pechino, temono che la piazza Tahrir riporti alla memoria Tiananmen, e che si voglia "Fare come l´Egitto". I professionisti arrivano, dopo che le rivoluzioni sono esplose, militari o burocrati o arruffapopolo. Ma per ora siamo ancora al bello, o alla vigilia. Dipende anche da noi.

Repubblica 24.2.11
L’esperienza del crollo dell´Unione Sovietica
Il rischio e l’utopia
di Predrag Matvejevic


Le speranze e le illusioni rischiano di diventare delusioni Com´è accaduto in passato può succedere anche adesso Vent´anni fa nei Paesi dell´est è finita un´era, ma non è stato facile per loro ritrovarsi a essere un "mondo ex"

Ci chiediamo se gli eventi che in questo momento si susseguono nel mondo arabo e intorno ad esso possono essere comparati con quelli che hanno marchiato il crollo dell´Unione Sovietica e dei suoi satelliti? Alcune comparazioni sembrano, malgrado tutto, lecite e pertinenti. Ma alcune differenze rimangono tuttora presenti ed evidenti. Non abbiamo visto in Maghreb o in Mashrek un Gorbaciov salire sulla scena politica, né una "Primavera di Praga" con un "dissidente" come Václav Havel, neppure un Lech Wálesa ossia, fra i fedeli, un Karol Wojtyla. Esistono comunque numerosi giovani studiosi e intellettuali che hanno avuto incontri stretti e positivi con le acquisizioni della cultura occidentale, non solo scientifica o tecnologica, contatti con una specie di laicità alla quale la storia dei loro paesi non permetteva un accesso diretto e personale per tutti.
Quello che è senza dubbio simile e comparabile in ambedue le situazioni, quella dell´Est europeo e quell´altra del mondo arabo, è un terremoto internazionale e globale che si è prodotto – un sisma che si iscrive nella storia contemporanea e moderna. Sappiamo bene che occorre essere cauti usando alcune analogie troppo particolari. È forse più utile ricordare alcune messe in guardia provenienti dalle esperienze della cosiddetta "Altra Europa" di un po´ più di due decenni fa. Ci eravamo trovati in un ambito che perdeva la sua dimensione e richiedeva un altro statuto: ci eravamo trovati in un "un mondo ex", così l´abbiamo definito allora. Un ex-impero, un´ex-ideologia, alcuni tipi di ex-socialismo, quello dal "volto umano" oppure quello privo di volto. E di fronte alla tragedia della ex-Jugoslavia. Era legittimo chiedersi che cosa significasse, in quella situazione, essere "ex". Come uscire da quell´indefinibile e fatale stato di cose.
Alcune esperienze, viste e vissute durante o dopo lo sfacelo di questo "mondo ex", con le sue speranze e le sue delusioni, potrebbero riprodursi nel periodo che seguirà le rivolte o le insurrezioni attuali che si svolgono dal Marocco all´Egitto e oltre lo spazio mediterraneo. Ho dovuto evocarle tante volte dopo il crollo della ex-Jugoslavia, durante vari viaggi che avevo fatto sulle sponde arabe. Erano in qualche modo le confessioni fatte dinanzi agli alleati e amici: abbiamo creduto di conquistare il presente, e non potevamo controllare il passato; abbiamo visto nascere delle libertà e non sapevamo che farne o rischiavamo di abusarne; abbiamo difeso un retaggio nazionale, e poi dovevamo difenderci da esso; abbiamo denunciato la storia, e continuavamo ad essere invasi da essa; si imponevano le spartizioni e, infine, rimaneva ben poco da spartire; abbiamo voluto salvaguardare la memoria, e dopo tutti quei nuovi eventi la memoria sembrava punirci...
Così diventavamo in qualche modo eredi senza eredità, di fronte alle riedizioni del passato e del presente. Viene presto, forse troppo presto, il momento in cui le utopie e i messianismi trovano il loro unico posto tra gli accessori di un percorso incompiuto, irrecuperabile o almeno in parte – ahimè – inutile. Nel frattempo la lotta continua. Doveva esser così. La presa di coscienza non poteva e non doveva disarmarci. Non è scopo di queste righe spiegarlo di nuovo, ma informare quelli che non l´hanno vissuto e soprattutto quelli che lottano in questo momento. Sarebbe utile ai paesi oggi risorti nelle piazze pubbliche trovare e definire quanto prima un progetto positivo e comune, suscettibile di sviluppo e portatore di democrazia.

Repubblica 24.2.11
La forza della presenza
I ribelli senza armi
di Jean Daniel


Manifestazioni pacifiche: l´esempio algerino
Finora nelle piazze dell´Intifada araba non si sono visti né kamikaze né fanatici cultori degli attentati suicidi Questi insorti non uccidono: con la loro sola presenza lasciano ai nemici il peccato di commettere omicidi

La popolazione libica, che ha subito e continua a subire massacri di massa, poteva sperare, al pari dei manifestanti tunisini, egiziani e marocchini, di essere trattata con un minimo di rispetto, se non di compassione. Si può benissimo arginare una folla senza massacrarla: gli algerini ne hanno dato una dimostrazione magistrale. Tutti i ribelli della primavera araba hanno scelto le armi della non violenza per opporsi alle forze barbare della repressione.
Nella storia, sarà il colonnello Gheddafi, questo capo demente, sanguinario e caligolesco (che non ha mai smesso di ridicolizzare tutti i diplomatici dai quali è stato ricevuto nel mondo), a restare associato ai lutti della Rivoluzione araba. Perché in queste Intifada a mani nude colpisce soprattutto che gli insorti non hanno di fatto preso le armi, ma offerto il loro petto. Qui non si sono visti né kamikaze, né fanatici cultori degli attentati suicidi.
Questi insorti non uccidono, ma lasciano ai loro nemici il peccato dell´omicidio. Come se conoscessero le parole prestate da Albert Camus a uno dei suoi eroi: «Ogni volta che un oppresso pone mano alle armi in nome della giustizia, muove un passo nel campo dell´ingiustizia». Fino ai sanguinosi eventi della Libia, gli insorti hanno imposto l´immensa forza collettiva della loro sola presenza. Ed è proprio questo il punto che ci separa nettamente dai paladini dell´estremismo.
Il filosofo comunista Alain Badiou proclama che «un vento dell´Est spazza via l´arroganza dell´Occidente», e che «le sollevazioni dei popoli arabi sono un modello di emancipazione». Sia pure. Noi non siamo stati meno entusiasti di lui, e non meno di lui ci siamo mobilitati. Fin dal primo giorno abbiamo scritto: «Siamo tutti tunisini». Ma il nostro filosofo si preoccupa all´idea che potremmo rallegrarci del pacifismo dei manifestanti, e prestare loro il nostro ideale democratico!
«Vi sono stati morti a centinaia, e altri muoiono ogni giorno», ha proclamato con esaltazione, ancor prima che le vicende libiche gli dessero ragione. E ha aggiunto poi: «Non volevamo la guerra, ma non ci fa paura». In effetti, non sono del tutto certo che un comunista possa fare a meno di augurarsi quella violenza che secondo Marx è «la sola levatrice della Storia». Fu questo il tema di un appassionante conflitto tra Merleau-Ponty, autore di Umanesimo e terrore, e Albert Camus, che gli rispose con L´uomo in rivolta. E sono anche meno certo che i tunisini, per come li ho sempre conosciuti, si rassegnerebbero facilmente alla violenza.
Sabato scorso, a Tunisi si è svolta una splendida manifestazione di ecumenismo militante contro la violenza razzista: una folla di giovani, uomini e donne, velate o meno, ha proclamato un desiderio di laicità trionfante e, come temo fortemente per Alain Badiou, di ispirazione "occidentale", ma in ogni caso erede della nostra Rivoluzione.
All´Europa si pone di nuovo un grosso problema, già sollevato in primis dai french doctors: quello del dovere di assistenza e del diritto di ingerenza. In Iraq c´è stata ingerenza in nome dell´assistenza, con un´invasione e un´occupazione. Oggi, davanti agli eventi in Libia, la paura del precedente iracheno è tale che non si pratica né l´ingerenza, né l´assistenza.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 24.2.11
Beni culturali e paesaggio. Il libro di Rizzo e Stella su tagli, sprechi e degrado
di Salvatore Settis


Tagliente come un bisturi, la scrittura di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella affonda implacabile nel corpaccione malato dei Beni Culturali. Mitragliando decine di dati inoppugnabili, il loro ultimo libro (Vandali. L´assalto alle bellezze d´Italia. Rizzoli, pagg. 288, euro 18) passa dalla denuncia all´aneddoto, dal reportage all´analisi, dalle statistiche al confronto con gli altri Paesi, con risultati per l´Italia invariabilmente impietosi. Un esempio-simbolo della schizofrenia che viviamo è la Fescina, mausoleo romano in territorio di Quarto (Napoli), comune tanto fiero di tal cimelio da inalberarlo nel proprio gonfalone. Guai però se ci vien voglia di passare dall´araldica al monumento stesso: stentiamo a trovarlo fra «sterpi, erbacce, mucchi di vecchi materassi, poltrone sfondate, pannelli di eternit, lattine e pattume vario, una giungla di rovi». Chi facesse spallucce dicendo "cose che succedono al sud" è invitato a Leri (Vercelli), dove la tenuta Cavour è oggetto di depredazioni: «Dalla casa hanno portato via ogni cosa. Le porte, le tegole dei tetti, gli affreschi. Tutto. Hanno fatto a pezzi la scala interna per rubare i gradini di marmo. Tra i rovi che avvinghiano i muri, le tettoie pelate e le pareti a brandelli» resiste solo la targa che ricorda il conte di Cavour, la cui statua peraltro risulta decapitata. Insomma, Italia finalmente unita, da Napoli a Vercelli e oltre: unita nel degrado, nell´incuria, nel disprezzo della nostra storia, cioè di noi stessi.
Eppure Mario Resca, direttore generale alla Valorizzazione, spiega a ogni piè sospinto ("a ogni Pier sospinto", direbbe l´ex ministro dei Beni Culturali Vincenza Bono Parrino, di cui Rizzo e Stella evocano questa ed altre prodezze verbali) che la cultura rende. Peccato che lo dica con cifre sempre diverse: «Ogni euro investito in cultura genera un indotto 6 volte superiore» dichiara al Giornale dell´arte, «rende da 7 a 10» spiega al Giorno, «ne rende anche 10», proclama al Corriere, «rende da 6 a 12 volte l´investimento» si vanta sul Giornale, «rende 16 volte» discetta al Forum mondiale di Avignone. Cifre improvvisate e velleitarie, che tentano invano di nascondere il nulla di analisi e di progettualità. Nel giugno 2008 il neo-ministro Sandro Bondi dichiarò a Camera e Senato che «l´Italia è agli ultimi posti in Europa per la percentuale della spesa in cultura sul bilancio dello stato (0,28 per cento contro l´8,3 della Svezia e il 3 della Francia)», aggiungendo: «mi impegno ad invertire questa tendenza negativa». Meno di un mese dopo, Bondi incassò senza batter ciglio un taglio di 1 miliardo e 300 milioni, che quasi azzerava la capacità di spesa del suo ministero. Da un lato, la Valorizzazione (a parole) alla Resca, dall´altro lato i tagli (di fatto) alla Tremonti: messi insieme, questi due dati delineano una strategia davvero rivoluzionaria, la teoria economica made in Italy secondo cui si valorizza disinvestendo.
Ancor più drammatica è la situazione delle risorse umane: l´età media degli addetti ha sfondato il muro dei 55 anni, e nessun turn-over è in vista; anzi, il Ministero spinge i funzionari alla pensione anticipata. A Pompei è in servizio un solo archeologo; una deroga al blocco delle assunzioni era prevista nel decreto milleproroghe, ma è saltata senza alcuna reazione del ministro, troppo occupato a fare il poeta di corte. Invece di dotare Pompei di un organico decente, Bondi ha cambiato in un anno tre soprintendenti, peraltro esautorandoli, in nome dell´efficientismo manageriale, con commissariamenti affidati a prefetti in pensione o alla protezione civile. E che cosa han fatto i commissari? 102.963 euro spesi per censire i 55 cani randagi che infestano le rovine; due contratti a Wind (9 milioni) per le linee telefoniche e per un ridicolo video in cui le figure della Villa dei Misteri cantano in inglese (provare per credere: www.pompeiviva.it); 724.000 euro di contratto a un ateneo romano per studiare a Pompei lo "sviluppo di tecnologie sostenibili"; 6 milioni per distruggere il teatro romano sotto «cordoli di cemento armato e rozzi mattoni di tufo di un colore giallastro scuro».
Perché questo è il punto: si taglia sull´essenziale, si spende e spande sul superfluo. Le spese di Palazzo Chigi crescono nel 2011 di 30 milioni, 750 milioni vengono elargiti all´Alto Adige «proprio mentre i due deputati della Südtiroler Volkspartei decidevano di salvare Berlusconi con le loro determinanti astensioni alla Camera», si stanzia per il G8 alla Maddalena un miliardo di euro scippandolo ai Beni Culturali; per non dire della «piccola storia ignobile del portale italia.it», oltre 30 milioni di euro per allestire in sette anni un portale che risulta al 184.594° posto nella classifica mondiale. Questo rapporto perverso fra i tagli e gli sprechi è il frutto avvelenato della stessa economia di rapina che consegna il paesaggio in mano agli speculatori, in «un consumo del territorio abnorme, disordinato, sprecone, indifferente a tutti i rischi»; che in nome del federalismo demaniale prima regala ai Comuni edifici storici e aree protette, e poi li obbliga a svenderli per far quadrare il bilancio. Hanno ragione i migliori commentatori stranieri, per esempio sul New York Times o su Le Monde: «Pompei che crolla è metafora dell´instabilità politica dell´Italia, della sua incapacità di gestire il proprio patrimonio culturale». Perché a questo siamo giunti: devono essere gli stranieri a ricordarci la nostra tradizione e la nostra storia, e per riportare alla coscienza nazionale l´art. 9 della Costituzione ci vuole Barenboim che ne dà lettura alla Scala, Harding che fa lo stesso alla Fenice. Giocano sporco i finti Soloni che si stracciano le vesti per i tagli "necessari", dato il nostro enorme debito pubblico. Fingono di non sapere che altri Paesi (per esempio Francia e Germania), per uscire dalla crisi, investono in cultura e in ricerca. Fingono di dimenticare che l´Italia ha il record mondiale di evasione fiscale (attorno ai 280 miliardi di euro annui di imponibile evaso), che «la corruzione è una tassa immorale e occulta pagata con i soldi dei cittadini, almeno 60 miliardi di euro l´anno».
Degrado morale e civile, paralisi della politica, disprezzo della cultura sono aspetti complementari di uno stesso declino. Il disastro del paesaggio e dei beni culturali ne è potente metafora e sintomo macroscopico. Si sta finalmente destando la coscienza dei cittadini? Questo libro potrebbe, dovrebbe esserne segno e stimolo.

Terra 24.2.11
John Landis
«Berlusconi fa Animal House? Patetico. Ma l’opposizione?»
«Un’opera d’arte è sempre politica»
di Alessia Mazzenga

qui
http://www.scribd.com/doc/49454981

Terra 24.2.11
L’Europa ferma l’avanzata degli ogm
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/49454981

mercoledì 23 febbraio 2011

l’Unità 23.2.11
Pd: «Governo grave e inadeguato Percepiti come amici dei dittatori»
Le cose cambieranno, ha promesso Bersani a libici e tunisini con lui al Pantheon: «Il Pd guiderà il prossimo governo e promette ai popoli d’africa in lotta di riprendere insieme un cammino verso democrazia e benessere»
di Federica Fantozzi


Dal governo un atteggiamento «grave». Dal premier Berlusconi e dal ministro degli Esteri Frattini «un’iniziativa politica di drammatica inadeguatezza di fronte alla sanguinaria risposta di Gheddafi alla richiesta di democrazia da parte del popolo libico». La segreteria del Pd ieri con una nota ha criticato la reazione dell’esecutivo sugli accadimenti in Libia. Mentre scoppia la guerra del gas, Gheddafi paragona i rivoltosi a ratti da sterminare, si contano centinaia di vittime civili, bombardamenti e fucilate, si infiamma il Medio Oriente, l’esecutivo indugia-èladenunciadelPd-perle connivenze politiche e imprenditoriali che legano il Cavaliere al rais libico.
E ieri pomeriggio in piazza del Pantheon il partito di Bersani ha organizzato un sit in per fermare la repressione del Colonnello di Tripoli. Per incoraggiare la “primavera” dei Paesi islamici a noi più vicini. Ha detto il segretario Democratico:
«Per tradizione politica e per collocazione geografica, l'Italia è sempre stata un Paese guida per l'Europa nei rapporti con la sponda sud del Mediterraneo. Avremmo dovuto essere noi a dire all'Europa che cosa fare».
CONNIVENZE COL COLONNELLO
Non è accaduto, secondo Largo del Nazareno per le connivenze politico-affaristiche con Tripoli: «Invece
il governo è rimasto inerte, silente, nel tentativo troppo a lungo prolungato di non disturbare anche in circostanze così sanguinose un leader straniero considerato un amico personale. Noi una volta eravamo il paese che indicava la strada all'Europa per rapportarsi ai paesi dell' area mediterranea. Questi giorni invece dimostrano che la nostra politica estera ha perso il passo e che rischiamo di essere percepiti come una nazione amica del loro passato, proprio di quel passato che i giovani in lotta sulle piazze vogliono cacciare via».
Di qui la decisione di manifestare nel centro di Roma con parlamentari e militanti. Per «offrire un sostegno alle popolazioni che in questi Paesi desiderano aprire una fase di miglioramento della propria vita civile, economica, politica». Il Pd sottolinea l’importanza che sulla “primavera” dell'Africa del Nord e del Medio Oriente, nonché sulle ripercussioni per l'Italia sia dal punto di vista dei flussi migratori che sull’economia, ci sia un «confronto tra le istituzioni interessate ed il contributo nelle sedi parlamentari».
IN PIAZZA ARCI E CGIL
Al sit in hanno partecipato Bersani, la capogruppo al Senato Anna Finocchiaro, Rosy Bindi, Piero Fassino, Walter Veltroni, Giovanna Melandri, Valter Verini, Luigi Zanda, Tempestini, Oriano Giovanelli.
Lapo Pistelli ha introdotto gli interventi. C’erano anche esponenti di altri partito, da Ferrro a Nencini. Hanno aderito l’Arci, la comunità libica nella capitale, sindacati e partiti di opposizione tunisini. In piazza bandiere del Pd e della Cgil.
Il senatore Ignazio Marino ha chiesto quale sia la strategia del governo per fermare «un genocidio di violenza raggelante».
Marino ha puntato l’attenzione sui prossimi sbarchi di fuggitivi sulle nostre coste: «Abbiamo gli occhi del mondo addosso e i nostri ministri balbettano. Prima o poi Berlusconi chiederà a Gheddafi o teme di disturbarlo troppo?».
L’UE SI SVEGLI
Anche Bersani ha ricordato il do not disturb del premier al Colonnello, «quella frase ora è su tutti i giornali del mondo, che vergogna per l'Italia». Osservando che nei decenni scorsi i rapporti, non sempre facili, con la Libia e il Medio Oriente erano stati gestiti con «equilibrio», mentre il feeling tra Berlusconi e Gheddafi di cui il comune affidamento a bodyguard di sesso femminile è solo uno degli aspetti più flokloristici ha messo l’Italia in una posizione di sostanziale sudditanza.
Ma Bersani ha sottolineato anche le lacune nella strategia europea: «L'Unione europea è ancora un passo indietro rispetto ai problemi del Nord Africa. Si deve svegliare e spostare il baricentro verso il Mediterraneo, dove ci sono grandi prospettive ma anche grandi rischi. Bisogna imprimere una spinta politica vera verso il Mediterraneo». Fino all’auspicio, stavolta tutto di politica interna: ««Il Pd, che guiderà il prossimo governo del Paese, vi promette di riprendere un cammino comune di pace, democrazia e benessere».

l’Unità 23.2.11
Camusso: «Dal governo comportamento indecente Dica che è un genocidio»


Deve essere forte e decisa la nostra voce nel denunciare il comportamento indecente che il governo italiano ha tenuto fin dalle prime ore». Questa la denuncia che il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ha lanciato ieri nel corso della sua relazione introduttiva al comitato Direttivo, in merito a quanto sta accadendo in Libia.
«Il fatto che il governo abbia consentito la costruzione di una posizione unitaria europea sottolinea Camusso non lo giustifica dal fatto che continui a dire cose inaccettabili. Peraltro, la stessa posizione europea appare più moderata di quella assunta dall’Onu e troppo legata a vicende contingenti, piuttosto che a una sua necessaria funzione politica». Il segretario della Cgil punta quindi il dito contro la posizione espressa dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, che «continua a dire una cosa che non va bene: non si può dire, cioè, che ci sia equidistanza rispetto al fatto che lì possa esplodere una guerra civile. Perché non ci troviamo in presenza di un conflitto interno alla popolazione; in Libia si bombardano le masse nelle piazze e si usano le armi contro la folla». Per questi motivi, «un Paese democratico come il nostro dovrebbe dire con chiarezza che in Libia è in corso un genocidio e che vengono perpetrati crimini contro l’umanità e con altrettanta forza dovrebbe esigere che la si smetta di sparare sulla folla e che il dittatore se ne vada». Infine, quanto all’Europa, il numero uno della Cgil osserva: «Non può limitarsi a essere semplice spettatore o paladino ininfluente della libertà e della democrazia, ma dovrebbe proporre una piattaforma politica che, al di là delle posizioni “equidistanti” assunte dal nostro ministro degli Esteri, favorisca un effettivo processo di evoluzione di quel Paese e di quell’area verso una democrazia laica».

l’Unità 23.2.11
Intervista a Chantal Mouffe
«Il vento del Medio Oriente muterà la nostra idea di Islam»
La politologa: «Non credo che Libia e Tunisia diventeranno come l’Iran. Queste rivoluzioni possono avvicinare i nostri Paesi. Togliendo il “nemico” al populismo di estrema destra
di Federica Fantozzi


Politologa e filosofa, docente di teoria politica all’università di Westminster, Chantal Mouffe ha analizzato il successo dei movimenti populisti di estrema destra in Europa, lo sviluppo del terrorismo internazionale, e i recenti moti nordafricani. Haider, Le Pen, Bossi, Wilders. Perché l’Europa è sempre più populista?
«Alla base c’è la sostanziale somiglianza tra centrodestra e centrosinistra. Socialisti e conservatori si muovono verso il centro, hanno programmi simili, il confine si assottiglia. In assenza di una vera alternativa che risponda alla globalizzazione, la gente o si disinteressa di politica o crede nel populismo di destra: l’unico in grado di rispondere a domande emotive, di suscitare passioni».
L’Italia ha aspetti anomali?
«La Lega è paragonabile agli altri partiti xenofobi. Berlusconi è altro. È populista: si appella alla gente, bypassa le istituzioni. È buon amico di Gheddafi ma qui esistono i contrappesi istituzionali. Esprime però un conflitto di interessi incredibile e inaccettabile. In qualsiasi altro Paese europeo sarebbe stato costretto a dimettersi».
Perché da noi non succede?
«È un mistero. La pessima situazione della sinistra, forse il Vaticano. I giornali lo criticano, ma la gente non li legge. Si informano con le sue tv. All’estero sappiamo cose di Berlusconi che voi ignorate. La vostra percezione è modificata: c’è una berlusconizzazione delle coscienze, dei valori, del bene e del male. In pericolo non vedo le istituzioni ma la cultura democratica.
Cosa manca alla sinistra: idee o elettori? «Il progetto. Alternativo al neo-liberismo globale. È una crisi diffusa. La terza via di Blair non ha smontato l’eredità thatcheriana: le ha solo dato un volto umano. Ma la gente vuole qualcosa di diverso. Oggi l’unico modello è la Linke tedesca: una sinistra socialdemocratica non estrema, che aspira a governare. E Nichi Vendola, forse: come leader è il più promettente».
Sta dicendo che la destra, oggi, è più moderna? «Finchè la sinistra si identifica con la classe media, lascia scoperti molti settori delle classi popolari. Quelli più minacciati dalla globalizzazione, condannati a essere arcaici e retrogradi. La destra lo ha capito. In Francia il Front National avrà un risultato ottimo. Marine Le Pen è carismatica, intelligente, diversa dal padre. È radicale su diritti, laicità, giustizia sociale. Il problema è che individua nel nemico l’Islam creando xenofobia».
Tra la ridotta padana e il vento del Nordafrica: tra dieci anni l’Europa esisterà ancora? O sarà una fortezza?
«Proprio gli avvenimenti del Medio Oriente possono avere conseguenze cruciali. Cambierà molto. Non sappiamo come, ma dubito che Tunisia e Libia diventeranno come l’Iran. Il vento della democrazia può cambiare la percezione che abbiamo dei musulmani».
In che modo?
«Le nostre paure derivano dall’11 Settembre, da Al Qaeda. La trasformazione di Paesi a noi vicini può farli dimenticare o passare in secondo piano. Un impatto positivo delle rivoluzioni potrà avvicinarci. Certo, i movimenti populisti potrebbero adattarsi, come il virus agli antibiotici, e trovare nuovi nemici: cinesi, rom. Tutto dipenderà dallo sviluppo della sinistra a livello europeo e dalla sua capacità di azione coordinata nei vari Paesi». Sta sognando?
«Bisognerà pur cominciare. Siamo pronti per un mondo multipolare, dove l’Europa giochi un ruolo politico, non più appendice americana. Manca il populismo di sinistra: finora è stato visto in modo negativo, manipolativo. Errore: risponde legittime a istanze popolari. Noi contro loro. Una sinistra moderna contro il neoliberismo globale, banche, multinazionali. Lo Stato pubblico contro l’abuso di privatizzazioni. In Gran Bretagna volevano vendere la foresta di Sherwood: la mobilitazione li ha fermati».

l’Unità 23.2.11
Il Paese che difende i dittatori
Il caso Libia e la nostra politica estera
di Roberto Di Giovan Paolo


La vicenda della Libia mette in luce tutta la pochezza della nostra politica estera. Frattini ha sottovalutato i sommovimenti di popolo, prima in Tunisia e poi in Egitto, e non ha capito che anche in Libia il dado era stato tratto.
Il rialzo dei prezzi dei generi alimentari ha fatto da detonatore a una situazione sociale già da tempo compromessa, che non poteva essere tenuta sotto controllo dal dittatore di turno.
Con la Libia, l’Italia ha firmato accordi, ha considerato il rais un partner affidabile e di lunga durata, senza chiedere nulla in cambio sui diritti umani.
Il gerontocrate Berlusconi, per riprendere il Financial Times, ha saputo solo giocare la carta delle pacche sulle spalle. Per non dimenticare la politica dei respingimenti, considerata l’unica risposta a un malessere dell’Africa che non può essere arginato spostando il problema sempre più a Sud.
L’Italia non ha capito che è caduto un altro Muro di Berlino, e questa “sonnolenza” della nostra politica estera è ancor più grave visto che tutto quanto avviene a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste.
Una possibilità di reagire però c’è. E questo non solo da parte dell’Italia, ma anche dei Paesi della Ue. Servono investimenti in loco che facilitino un vero sviluppo, nell’interesse di tutto il popolo, e non opere fantomatiche e faraoniche come l’autostrada della Cirenaica in Libia, che alla fine porterà soldi solo nei forzieri delle imprese italiane. Ma la cosa più importante è fermare il traffico d’armi dall’Italia. Nel 2008 sono stati siglati accordi commerciali con l’Egitto per 38 milioni di euro e ne sono stati autorizzati altri 44. Nel 2009 le nostre esportazioni verso Il Cairo, solo per cannoni, pistole ed altri armi del genere per quasi un milione e 400 mila euro. Nel 2008, le spese militari della Libia sono ammontate a 1,1 miliardi di dollari e il 2% del nostro export di armamenti va proprio verso quel Paese.
Dobbiamo evitare di alimentare, politicamente ed economicamente, il dittatore di turno, come è successo con Gheddafi in Libia e Ben Alì in Tunisia, senza poi nemmeno preoccuparci di quale sia lo stato dei diritti umani in quel Paese, oppure ignorando, volutamente, che milioni di persone vivono in condizioni di povertà.
Insomma, dobbiamo fare il nostro ruolo di Paese europeo, capace di realizzare una rete di parternariati basati sulla credibilità, sulla capacità di creare benessere e giustizia sociale.

l’Unità 23.2.11
Il Vaticano chiama il Governo a rapporto «Sul testamento biologico serve legge»
Incontro inusuale ieri Oltrevere. Il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi dal segretario personale del Papa, monsignor Georg. Quaranta minuti per spiegare la posizione di Palazzo Chigi su testamento biologico e immigrazione.
di Roberto Monteforte


È in modo discreto che ieri in tarda mattinata il ministro del welfare, Maurizio Sacconi ha varcato il Portone di bronzo in Vaticano. Era atteso. A passo spedito ha raggiunto la Terza Loggia. Sì, perché l’ex socialista e fedelissimo del premier Silvio Berlusconi che si è guadagnato sul campo i galloni di interlocutore privilegiato delle gerarchie ecclesiastiche, non aveva appuntamento con i suoi «omologhi» d’Oltretevere. Un suo arrivo non era neanche nell’agenda della Segreteria di Stato. Era alla «terza loggia» del Palazzo apostolico, quella dell’«appartamento» papale, che il ministro Sacconi era atteso. Lo aspettava il segretario personale di sua santità, monsignor Georg Ganeswein, per discutere a quanto pare di testamento biologico e di immigrazione. Temi caldi. Affrontati venerdì scorso nel vertice di Palazzo Borromini, l’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, durante i colloqui ufficiali nell’anniversario dei patti Lateranensi tra il segretario di Stato, cardinale Bertone, il presidente della Cei, cardinale Bagnasco e il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi con i suoi ministri tenutosi in occasione della ricorrenza dei Patti Lateranensi.
L’INTERLOCUTORE EX SOCIALISTA
Le rassicurazioni avute non devono essere bastate a Benedetto XVI che deve aver incaricato il suo segretario particolare, monsignor Georg di approfondire andando alla fonte: chiedendo chiarimenti a persona fidata del governo. Deve essere stata una bella gratificazione per il ministro ex socialista vedersi prescelto, vista la corsa degli uomini Pdl ad accreditarsi Oltretevere come sponda credibile, autonoma e alternativa a quella classica, presidiata dal gentiluomo di «Sua Santità», Gianni Letta.
Sono stati necessari una quarantina di minuti per approfondire i punti di comune interesse. Subito dopo, sicuramente rinfrancato per il servizio reso, il responsabile del welfare è andato all’incontro fissato dalle Acli sulla «social card».
Dopo la vicenda Englaro, che ha visto il ministro scatenato per impedire che venisse interrotta l’alimentazione e l’idradazione forzata alla giovane Eluana per 19 anni in coma, la Chiesa si attende una legge sul testamento biologico che dia «sicurezza», che faccia argine e impedisca altre scelte simili. Vi sarà stato bisogno di chiarire, dopo lo slittamento a marzo della discussione del testo all’esame del Parlamento. Mentre sulla grande emergenza immigrazione resa acutissima con gli sconvolgimenti del nord Africa padre Georg può aver chiesti ragguagli prima della riunione di governo
prevista per la serata a palazzo Chigi con il premier Berlusconi e i ministri. Chissa se monsignor Georg ha ripagato la cortesia offrendo a Sacconi e magari affidandogli una copia da recapitare al premier, il testo del Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima. Vi avrebbe trovato spunti interessanti di riflessione. Soprattutto quando si mette in guardia dalla«tentazione dell’avere, dell’avidità del denaro, che insidia il primato di Dio nella nostra vita» e dalla «bramosia del possesso che provoca violenza, prevaricazione e morte, dalla «idolatria dei beni».

il Fatto 23.2.11
“Bloccare il Parlamento si può, basta volerlo” 

Flores d’Arcais rilancia l’appello: “Non dite che è impossibile”
di C.Pe.

IL GOVERNO Berlusconi e la sua maggioranza parlamentare obbediente “perinde ac cadaver”, è entrato in un crescendo di eversione che mira apertamente a distruggere i fondamenti della Costituzione repubblicana e perfino un principio onorato da tre secoli: la divisione dei poteri. Di fronte a questo conclamato progetto di dispotismo proprietario chiediamo alle opposizioni (all’Idv che si riunisce domani, al Pd che dell’opposizione è il partito maggiore, ma anche all’Udc e a Fli, che ormai riconoscono l’emergenza democratica che il permanere di Berlusconi al governo configura) di reagire secondo una irrinunciabile e improcrastinabile legittima difesa repubblicana, proclamando solennemente e subito il blocco sistematico e permanente del Parlamento su qualsiasi provvedimento e con tutti i mezzi che la legge e i regolamenti mettono a disposizione, fino alle dimissioni di Berlusconi e conseguenti elezioni anticipate. Se non ora, quando?
Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Dario Fo, Margherita Hack, Franca Rame, Barbara Spinelli, Antonio Tabucchi, Furio Colombo, Roberta De Monticelli e Marco Travaglio 

 “Una riunione solenne e separata di tutti i parlamentari dell’opposizione, nella quale, di fronte al paese, solennemente si giura che si utilizzerà ogni piega del regolamento per paralizzare i lavori delle camere fino alle dimissioni di Berlusconi, data l’emergenza democratica costituita da un governo eversivo. Questo lo hanno già fatto? Questo non cambierebbe nulla? Per favore!”.
Paolo Flores d’Arcais, primo firmatario dell’appello lanciato ieri dal Fatto Quotidiano, “Bloccate il Parlamento”, chiede nuovamente alle opposizioni un gesto politico a dimostrazione della loro volontà di combattere il governo Berlusconi, sul terreno parlamentare, con ogni mezzo. “Il pregio dell’appello lanciato dal Fatto Quotidiano è   la nettezza – spiega Michele Ventura, vice capogruppo dei deputati del Partito democratico – ci sono occasioni, come il milleproroghe in aula questi giorni, in cui è necessario fare ostruzionismo, e l’abbiamo fatto con forza, fino all’arrivo della lettera di Napolitano. Il governo sta scegliendo la strada dei decreti approvati con voto di fiducia perché non ha i numeri per gestire le votazioni in aula. Per passare dovrebbe tenere i membri del governo incollati ai banchi della Camera ma è impossibile”. Però, sostiene Ventura   “ci sono altri casi, come quando si discute il programma del rientro del debito da presentare all’Unione europea, in cui bisogna lavorare insieme. E poi c’è una parte del calendario in quota all’opposizione, e noi stiamo discutendo quali provvedimenti inserire, soprattutto di carattere economico e sociale, per dimostrare che ci occupiamo dei problemi dei cittadini, per marcare chiaramente la nostra differenza. Anche perché, con quel che sta accadendo nel Mediterraneo, sarebbe per noi necessario avere un governo autorevole che discuta con l’Europea di come sta cambiando il mondo arabo e cosa può comportare   per l’Italia”.
Ma c’è chi, come l’Udc, il blocco del Parlamento non lo prende proprio in considerazione: “Questi metodi sono pensati senza dubbio a fin di bene e per liberare il paese – afferma Roberto Rao, deputato del partito di Casini – ma una volta usati, chiunque può servirsene e noi non vogliamo creare il precedente. La lettera del capo dello Stato sul milleproroghe   ha dimostrato che la nostra Costituzione ha tutta la forza necessaria a evitare eventuali derive dittatoriali. Ci sono sicuramente forme di partecipazione democratica, come la piazza, che ci consentono di esprimere il dissenso. Di certo c’è che bisogna costruire un’alternativa politica che ci faccia battere Berlusconi se vogliamo arrivare alle sue dimissioni”. 
Un’alternativa è necessaria anche per Massimo Donadi, presidente dei deputati dell’Italia dei valori, che però sull’ostruzionismo non la pensa come l’Udc: “Noi l’ostruzionismo lo facciamo quanto più possibile e quasi sempre da soli – spiega Donadi – di certo l’appello della società civile è un’astrazione pienamente condivisibile ma solo in parte realizzabile. Dico così perché purtroppo oggi i regolamenti di Camera e Senato non ci permettono un blocco totale dei rami del Parlamento. Al   Senato è praticamente irrealizzabile. Quello che possiamo fare è chiedere ogni volta la verifica legale del voto, ma serve solo al rallentamento dei lavori, non al blocco. Mentre alla Camera possiamo farlo con i decreti legge, ma su richiesta della maggioranza il presidente può applicare la cosiddetta “tagliola” sospendendo le dichiarazioni dell’opposizione. Non è questo il modo in cui riusciremo a raggiungere i nostri obiettivi. Secondo me, infatti, l’unica cosa che farebbe crollare Berlusconi come un castello di carte sarebbe   la messa in campo di una vera alternativa, con la definizione di una coalizione chiara, con un programma condiviso e un leader che rappresenti tutti”.
Ma il promotore Flores d’Arcais non ci sta: “Tecnicamente potrebbero bloccare ogni ‘calendario condiviso’ (così decide il presidente). E poi fare filibustering nelle conversioni dei decreti, sull’ordine dei lavori, sui verbali, sul rispetto dei regolamenti. Certo, non si può fare se non si è convinti che siamo all’emergenza democratica...”

Corriere della Sera 23.2.11
L’anticonformismo contro le idee futili Ecco Schopenhauer
Un autore fiero di essere «inattuale»
di Armando Torno


Ha ancora senso leggere Arthur Schopenhauer nell’era degli sms e di Facebook? Nell’epoca in cui taluni filosofi dal fiato corto sostengono che le opere del pensiero hanno una scadenza come lo yogurt, i medicinali o i funghi sott’olio? C’è chi la fissa a dieci, chi a quindici anni; comunque sia, le riviste scientifiche che contano sono ormai online, giacché i dati discussi durano in genere qualche mese. Eppure, nonostante questo scenario, proprio oggi ha senso leggere e meditare Schopenhauer. Anzi, è autore da tenere sempre a portata di mano, sul comodino o accanto alla poltrona dove si dovrebbe consultare anche per qualche minuto, dopo aver spento la stupida televisione e quel ladro di tempo che è il computer. Arthur Schopenhauer (1788-1860) è completamente inattuale. Non provò alcun interesse per la patria, la politica, gli strilli dei bambini e il matrimonio, meno che mai per il prossimo. Non modesto, di pessimo carattere, disprezzò Hegel e gli idealisti, rideva dei filosofi di professione e non risparmiò strali ai professori, giacché era convinto che nelle loro testoline non possono entrare le grandi idee dell’umanità (usava espressioni più forti, ma non è il caso...). Non amava la vita mondana, anzi a tale proposito pizzicò Goethe: «Per lei l’attività letteraria è sempre stata cosa secondaria, mentre la cosa principale è stata la vita reale. Per me, invece, è il contrario. Per me ha valore e conta quello che penso e scrivo; invece quello che vivo personalmente e che mi succede è cosa secondaria, anzi me ne faccio beffe» (lettera del 3 settembre 1815). I suoi amori, a differenza di quelli fallimentari di Nietzsche, riusciva a celarli e a tenerli per sé. Fa impressione quel suo magnifico distacco dalle ginnastiche amorose, che espletava e non menzionava, indipendentemente dal fatto che l’oggetto delle sue attenzioni fosse una nobildonna o una signora con tariffa. Nel Curriculum vitae, dove avrebbe potuto accennare ai trastulli veneziani con Teresa Fuga, scrive soltanto: «Post undecim annorum continua litterarum studia, animum peregrinatione recreare statui» («Dopo undici anni di studi letterari, decisi di risollevarmi l’animo viaggiando» ). Da questo punto di vista fu comunque più umano di Kant, che tanto ammirava, il quale delle donne e del sesso non seppe mai cosa farsene. Riproporre Il giudizio degli altri di Schopenhauer, pagine che costituiscono il quarto capitolo dei noti Aforismi per una vita saggia, significa offrire un testo di riflessione sulla felicità; o meglio: un’operina che aiuta a difenderci da quello che gli altri dicono, pensano o scrivono di noi. Anche se è difficile spiegare perché ogni uomo si rallegri nel momento in cui riceve un’opinione favorevole («come il gatto, quando uno lo accarezza, fa, immancabilmente, le fusa» ), Schopenhauer consiglia di «moderare il più possibile» la sensibilità verso quello che giunge dal prossimo, siano cose positive o negative. Insomma, raffreddare entusiasmi e delusioni per non rimanere «schiavi delle idee altrui» . È un esercizio che il filosofo tedesco insegna con impareggiabile mestiere e in una nota sbugiarda i godimenti dei ricchi, che non dipendono da quello che possono o provano, ma dall’opinione che giunge loro: «Le classi più alte, con tutto il loro fasto, il loro lusso, le loro pompe, la loro magnificenza e i loro sperperi di ogni genere, possono dire: "La nostra felicità sta tutta fuori di noi: la sua sede sono le teste degli altri"» . Leggere Schopenhauer, così come Michel de Montaigne, aiuta a diventare adulti. Per questo uno dei pochi veri pensatori italiani del secolo scorso, Piero Martinetti, ha scritto nel suo Breviario spirituale: «Per apprezzare al suo giusto valore l’opinione altrui basta riflettere, come consiglia Schopenhauer, sulla superficialità e futilità dei pensieri, sulla bassezza dei sentimenti, sull’assurdità delle opinioni che si riscontrano nella maggior parte dei cervelli... E allora impareremo a vivere più per noi che per gli altri, con maggior sicurezza e naturalezza, con maggior preoccupazione per i mali reali: così guadagneremo non soltanto in tranquillità d’animo, ma anche in saggezza e in felicità» .

Corriere della Sera 23.2.11
I pensieri dinamitardi con cui Nietzsche demolì ogni certezza
L’unica parola d’ordine: andare oltre
di Nuccio Ordine


«C he cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state trasposte e adornate poeticamente e retoricamente e che, dopo un lungo uso, appaiono a un popolo salde, canoniche e vincolanti» : Friedrich Nietzsche ha meno di trent’anni quando inizia la sua straordinaria opera di demolizione sistematica di ogni forma di conoscenza. «A colpi di martello» , il giovane filosofo aggredisce norme e concetti di un sapere fino ad allora ritenuto consolidato: critica la nozione di verità, l’idea di civiltà moderna, le false visioni del rapporto tra vita e cultura; attacca frontalmente il cristianesimo e i sostenitori della democrazia e dei valori umanitari; rifiuta, senza esclusione alcuna, i secolari dualismi teorizzati dalla filosofia occidentale (forma-materia, anima-corpo, umano trascendente...). Nei tre saggi raccolti nel volume in edicola con il «Corriere» — La visione dionisiaca del mondo, La filosofia nell’epoca tragica dei greci e Su verità e menzogna in senso extra morale, tradotti da Sossio Giametta, che al filosofo ha dedicato importanti riflessioni — è possibile ritrovare alcune questioni centrali della filosofia di Nietzsche. Concepiti e scritti negli anni tra il 1870 e il 1873— quando non ancora laureato l’autore insegna filologia classica nell’Università di Basilea e quando scopre le opere di Richard Wagner e di Arthur Schopenhauer— questi testi si offrono al lettore come un’ouverture: le opposizioni apollineo dionisiaco ed essere-divenire, l’antistoricismo, il percorso solitario dei grandi uomini che fuggono la massa dei mediocri, il ruolo del dolore e del tragico nella vita, le menzogne della metafisica e le finzioni delle verità illusorie si configurano infatti come grandi temi che ritorneranno a più riprese, con diverse variazioni, nei successivi movimenti della filosofia nicciana. Ne La visione dionisiaca del mondo già appaiono le celebri categorie di «apollineo» e «dionisiaco» , che saranno poi risistemate nella Nascita della tragedia (1872). Non è vero che l’arte greca sia espressione di equilibrio e armonia. Dietro la maschera della serenità è in continuo fermento l’elemento vitale del mondo dionisiaco, fatto di istinti e di violenza. L’arte, per Nietzsche, trasforma questo magma incandescente nelle forme pacate e ordinate dell’apollineo. Nelle orge di Dioniso (che non hanno nulla a che vedere, è bene ricordarlo, con i miseri «festini» del nostro presente) le danze dei seguaci ricreano, nel fondersi di individuo e natura, lo stato primordiale che si concretizza nell’eterno ciclo di dissoluzione e rinascita. Solo l’arte greca compie il miracolo, traducendo il dionisiaco nell’apollineo, trasformando il fondo tragico e instabile dell’esistenza nelle forme stabili e rassicuranti della creazione artistica. Si tratta di un inganno che rende la vita più sopportabile. E sugli inganni si fonda soprattutto la creazione di norme e verità che vengono imposte all’umanità come assolute e oggettive. L’uomo, per Nietzsche, «si inventa una definizione delle cose uniformemente valida e vincolante e la legislazione del linguaggio dà anche le prime leggi della verità, giacché qui sorge per la prima volta il contrasto tra verità e menzogna» . Così l’essere umano, facendo passare «l’irreale per reale» , si presenta nelle vesti «di un grande genio costruttore che riesce a elevare su fondamenta mobili e per così dire sull’acqua corrente» . Nietzsche, insomma, critica tutte le promesse di stabilità e di eternità, ipocrite e false, che negano l’incertezza, la finitezza, la limitatezza dell’esistente. La vita non va vissuta in attesa di un futuro migliore o in contemplazione di un passato glorioso. La vita va vissuta nel presente, in un andare sempre oltre, senza avere paura del dolore e del mettere a rischio finanche la vita stessa. Parole di un filosofo o di un poeta? Di un reazionario o di un eversivo? Di un liberatore o di un oppressore? Il pensiero asistematico e paradossale di Nietzsche fa discutere la critica animatamente ancora oggi, con interpretazioni diametralmente opposte. Non a caso, lo stesso filosofo diceva di sé: «Io non sono un uomo, sono dinamite» .

Corriere della Sera 23.2.11
Frida, l’eroina che celava il suo mito
Incidenti e tradimenti dietro la popolarità e il destino della Kahlo
di Ida Bozzi


Come dopo ciascuna delle 32 operazioni chirurgiche che incisero il suo corpo, ancora una volta Frida è tornata. Ed è tornata a modo suo, attirando oggi come allora nella sua cerchia autori e autrici rapiti da una personalità che incarna il senso stesso della lotta, l’irrisione al potere— quello secolare o quello senza tempo della morte — e il grido umano della sofferenza. Almeno quattro novità librarie celebrano infatti, con diverse angolazioni, la vita e l’arte di Frida Kahlo: una biografia nota, celebrata già da libri e film, ma da conoscere ancora meglio, tanto è esemplare. Colpita da una paresi a nove anni, a diciotto anni frantumata, letteralmente, da un incidente d’autobus che le spezzò la spina dorsale e quasi ogni arto, Frida così straziata divenne la più nota pittrice del Novecento (non solo) messicano, attivista politica, madrina insieme al marito Diego Rivera di un cenacolo che comprendeva la Modotti, Eisenstein, Breton, ammirata da Picasso e da Miró, amata da Trotskij. Una donna che, come le disse Georgia O’Keeffe, sapeva dipingere parti, pianti, aborti, lacerazioni, cioè quel «qualcosa che non si guarda» , come racconta con passione il romanzo Il letto di Frida (traduzione di Elvira Mujcic, La Tartaruga, pp. 154, e 18) di Slavenka Drakulic. È interessante il romanzo della Drakulic (già cronista del mondo ex comunista e del conflitto jugoslavo) perché vuol cogliere la voce intima di una donna che definiva sé «la ocultadora» , colei che nasconde e che solo nei quadri si dipingeva come una colonna spezzata in un petto squarciato o una radice sanguinante. Dal letto di morte, a 47 anni, ormai immobile, senza una gamba, scossa dalla febbre polmonare che è solo l’ultimo dei disfacimenti del corpo, l’eroina delle pagine dalla Drakulic racconta, alternando la prima e la terza persona, l’incalzare del dolore: il dolore fisico, nascosto nella vita ed esposto invece nei rovi, nei teschi e nel sangue delle sue tele e quello interiore, l’amore disperato per il marito, maestro riconosciuto dei murales messicani e altrettanto riconosciuto dongiovanni, amante perfino della sorella di Frida, Cristina. La Kahlo ha compreso come «la sofferenza non si potesse esprimere a parole, ma solo con grida incomprensibili» , ha dipinto «quelle cicatrici perché anche gli altri potessero arrivare alla mia solitudine» : e nel libro, che intreccia frasi della Frida storica con lo scavo psicologico ardito dell’autrice, niente è più nascosto. Qui si spiegano «i foulard dai colori vivi» come tentativi di legare a sé il marito. impersonando per lui l’ideale del messicanesimo, la seduzione e il dolore carnale di un viso dolce nelle fotografie e severo nei dipinti, i molti amanti, la tortura della cancrena che trascorre dalle dita alla tela come una delle piante in cui i suoi autoritratti sono spesso avvolti. Fino alla comprensione suprema, sacrificale, dell’arte di Frida: «Per essere lei, aveva bisogno di questo corpo» . E tutta Frida ritroviamo nell’intenso monologo ¡ Viva la vida! di Pino Cacucci (Feltrinelli, pp. 77, e 8), accompagnato dai due scritti «Frida: momenti, immagini, ricordi sparsi» e «Amores y desamores» . Grido dopo grido, qui Frida racconta la sua vita con un ritmo incalzante, a cominciare da quel «corrimano di quattro metri» che «mi era entrato nel fianco» nell’incidente d’autobus: ma il testo teatrale di Cacucci mostra il sangue meticcio di Frida, le sue radici indie e individua nella convivenza di Frida e della sua pittura con la morte, la «Pelona» , la «cagna spelacchiata» , la «Morte irridente della mexicanidad» , l’anima stessa del popolo messicano («Mi piace pensarmi come Tlazoltéotl, dea azteca della purezza e della lordura» ). Spiegando, infine, con una nitidezza rara anche il senso della sua arte: «Perché l’arte non esprime la realtà. La fonda» . Un’arte che è divenuta un simbolo del Messico, spiega Cacucci: Frida aveva addirittura mentito sulla propria età per proclamarsi nata nel 1910, anno della rivoluzione. Un’arte che non smette di appassionare il mondo: dopo la mostra che ha attraversato l’Europa l’anno scorso (nel centenario della sua «falsa» nascita), si susseguono infatti le esposizioni dedicate alla pittrice della Casa Azul (a Baden Baden una permanente che dal 15 gennaio ha aperto anche una stanza dedicata al padre Wilhelm; a Istanbul fino al 20 marzo la mostra dedicata a Frida e a Diego Rivera, con le opere della collezione Gelman). La sua potenza simbolica si riverbera anche nel romanzo La caverna (Mondadori, pp. 580, e 21) di Barbara Kingsolver, in cui il protagonista, Harrison Sheperd lavora come assistente proprio per Frida Kahlo e il marito. Ma tra i libri in cui Frida ritorna c’è anche Mosche d’inverno (Sellerio, pp. 272, e 13) di Eugenio Baroncelli: la sua vita passa in uno dei lampi di Baroncelli, che scrive, evocando la Casa Azzurra di Frida, dove sono esposte le sue protesi e i suoi busti: «Se solo non fosse quello che è, una irrimediabile Camera delle Torture, sarebbe quello che sembra: una abbagliante Camera delle Meraviglie» .

Corriere della Sera 23.2.11
La meraviglia spiega l’enigma dell’evoluzione
di Edoardo Boncinelli


La scienza nasce dalla curiosità e si nutre di meraviglia. «Questo libro presenta le prove più importanti a favore della teoria dell’evoluzione. Chi si oppone al darwinismo semplicemente per motivi di fede non cambierà idea neppure di fronte a una gran mole di prove, perché la sua opinione non è basata sulla ragione. A chi è incerto o accetta l’evoluzione ma non è sicuro di poter giustificare la propria opinione, questo libro offre una breve sintesi per cui la scienza moderna riconosce l’evoluzione e la considera come un fatto innegabile. Ho scritto questo testo nella speranza di poter condividere con tutti, ovunque si trovino, la meraviglia che si prova di fronte al puro e semplice potere esplicativo dell’evoluzione darwiniana» . Queste parole poste all’inizio del libro Perché l’evoluzione è vera di Jerry A. Coyne (Codice Edizioni, p. 344, e 29) riassumono esaurientemente le intenzioni dell’autore e fanno appello a uno stato d’animo fondamentale per chi si accosta a tutte le avventure della scienza: la meraviglia. La scienza se ne nutre e prospera in ogni circostanza nella quale c’è da alimentare questo sentimento, che per definizione non si appaga mai: c’è sempre qualcos’altro da scoprire e di cui meravigliarsi. Il mondo è il palcoscenico di innumerevoli rappresentazioni e messe in scena delle quali osiamo ambire a comprendere l’essenza e a rintracciare il filo conduttore. Nei tempi più antichi era il cielo stellato con i suoi girovaghi figuranti e i suoi immobili riferimenti a stimolare primariamente la nostra curiosità e a muovere la nostra meraviglia, curiosità e meraviglia magicamente risvegliate oggi dalle immagini che ci vengono dai più moderni strumenti per scrutare il cielo anche a distanze siderali. Tuttavia esiste anche un più modesto ma esaltante palcoscenico terrestre dove nel tempo si sono succedute e date il cambio migliaia e migliaia di specie viventi, dalle amebe alle sequoie, dalle muffe alle antilopi, dai batteri patogeni ai ghepardi. Tante, tantissime specie sono comparse più o meno fuggevolmente, fra loro diversissime ma con la comune stimmata del nascere, crescere, riprodursi e svanire. Riesce difficile per chiunque credere — di qui la meraviglia— che tutte abbiano un’origine comune e che tutta questa immane differenziazione sia dovuta a semplici meccanismi che noi abbiamo compreso. Quello che più ci colpisce, come ricordato sopra dall’autore, è che tutto sia così semplice e che con due o tre principi naturali lo si possa spiegare. Anche per le persone più bendisposte verso la teoria darwiniana e neodarwiniana è questo l’ostacolo principale alla sua accettazione. «Tutto troppo semplice» dicono costoro e non si rendono conto del fatto che qualsiasi enigma della natura, dal moto dei pianeti alla formazione dei diamanti, dalla fioritura primaverile alla luce irradiata dalle stelle, una volta spiegato, assume una forma incredibilmente semplice. O perché l’universo è intrinsecamente semplice o perché la nostra mente è capace di comprendere solo il semplice. O per entrambi le ragioni. Scegliete voi.

Repubblica 23.2.11
È la matematica il grande motore della civiltà
di Piergiorgio Odifreddi


Il sistema oggi in vigore in Occidente è stato "inventato" in India nel V secolo e poi tramandato dagli arabi agli europei
Risultati geometrici, astronomici e architettonici molto importanti sono stati raggiunti da vari popoli in epoche e luoghi diversi
Un saggio di Bellos mostra come, dall´abaco alle tabelline, lo sviluppo dell´uomo sia legato al saper contare

Se avesse voluto apporre un´epigrafe al suo libro Il meraviglioso mondo dei numeri (pubblicato da Einaudi Stile Libero), Alex Bellos avrebbe potuto usare la duplice domanda del neurofisiologo Warren McCulloch: «Che cos´è il numero, che l´uomo lo può capire? E che cos´è l´uomo, che può capire il numero?». Perché il suo sterminato ed enciclopedico libro è appunto un tentativo, divertente e riuscito, di rispondere a entrambi gli interrogativi, e di mostrare come le storie del numero e dell´uomo siano in realtà intrecciate in maniera inestricabile, e i progressi e regressi dell´uno siano andati di pari passo coi progressi e regressi dell´altro.
L´espressione "mondo dei numeri" del titolo si riferisce dunque non soltanto al concetto oggettivo di numero da una parte, e alle sue rappresentazioni soggettive nello spazio geografico e nel tempo storico dall´altra, ma anche alle facoltà intellettuali dell´uomo. In particolare, al fatto che la scrittura alfabetica e la notazione numerica hanno sempre fecondamente intessuto, in teoria e in pratica, un rapporto di mutua stimolazione e derivazione.
Non stupisce quindi che il libro di Bellos sia in realtà una storia delle civiltà mascherata, osservata e raccontata dai complementari punti di vista del numero, delle cifre e del calcolo: tre aspetti di un´unica realtà, che costituiscono le versioni aritmetiche del pensiero, della scrittura e del linguaggio. Né stupisce che il libro mostri che, come le idee sono legate alla lingua in cui vengono espresse, e le parole sono legate alla scrittura con cui vengono registrate, così le varie civiltà abbiano affrontato e risolto in maniera diversa i problemi di definire filosoficamente i numeri, rappresentarli semioticamente e manipolarli matematicamente, rispondendo in maniera diversa alla domande su che cosa essi siano, come si possano indicare e come li si possa maneggiare.
Naturalmente, non tutte le civiltà hanno trovato "la soluzione" di questi problemi, che consiste in una ricetta che combina i seguenti quattro ingredienti. Primo, scegliere una base arbitraria ma conveniente: ad esempio, dieci. Secondo, indicare tutti i numeri positivi minori della base con segni differenti: ad esempio, le cifre da 1 a 9. Terzo, rappresentare i numeri maggiori mediante un sistema posizionale, in cui le cifre hanno un valore diverso a seconda di dove si trovano: ad esempio, assegnando allo stesso 1 il valore di uno, dieci o cento, e allo stesso 2 il valore di due o venti, nelle espressioni 1, 12 e 123). E quarto, aggiungere una cifra (ad esempio, 0) per rappresentare allo stesso tempo sia un posto vuoto nella precedente rappresentazione, sia il numero zero corrispondente a una quantità nulla.
Anzi, questa "soluzione" è il lascito culturale all´umanità di un´unica, grande civiltà: quella indiana della dinastia Gupta, che regnò nella valle del Gange e dei suoi affluenti tra il terzo e il sesto secolo della nostra era, ed è ricordata anche nella storia dell´arte per i suoi capolavori, primi fra tutti le pitture e le sculture delle grotte di Ajanta. La più antica registrazione dell´uso del sistema numerico indiano viene dalla Lokavibhaga: un´opera del 458, la cui datazione stabilisce un limite temporale superiore alla nascita del sistema numerico che oggi è universalmente in vigore nel mondo intero, dopo essere stato adottato dagli Arabi, e da essi tramandato agli Europei.
I quali, come ricorda Bellos, non soltanto l´hanno accettato con grandi e secolari resistenze, ma ancor oggi lo usano in maniera impropria. Ad esempio, privilegiando alcune potenze della base dieci come il mille, il milione o il miliardo, e non assegnando alle potenze intermedie nomi propri, bensì nomi composti come diecimila e centomila, o dieci milioni e cento milioni, che trattano quelle potenze come basi aggiuntive al dieci e macchiano la purezza del relativo sistema decimale. Una stonatura che invece gli indiani seppero evitare.
Come racconta Bellos, il massimo numero per il quale gli indiani coniarono un nome fu quello delle gocce di pioggia che potrebbero cadere in diecimila anni sull´insieme dei mondi, valutato dal Buddha in dieci alla centoquaranta e da lui chiamato asankhya: una parola sanscrita che significa letteralmente "innumerabile" o "incalcolabile". In Occidente soltanto Archimede poté competere con queste imprese: per rimediare alla pochezza della lingua greca, che aveva come massimo nome di numero la miriade, pari a diecimila, nell´Arenario egli inventò un modo sistematico per parlare di grandi numeri e lo applicò al calcolo del numero dei granelli di sabbia che potevano riempire l´universo, da lui valutato in dieci alla sessantatrè.
Ma non solo i Greci non avevano nomi per i grandi numeri: non avevano neppure le cifre, e usavano le lettere al loro posto. Poiché l´alfabeto classico aveva ventiquattro lettere, aggiungendone tre cadute in disuso essi ottennero un sistema di ventisette lettere, che divisero in tre gruppi di nove ciascuno: le prime nove per le unità, le seconde nove per le decine, e le ultime nove per le centinaia. Questo permise divertimenti come la composizione di poemi isopsefi, "a stesso calcolo", in cui tutti i versi avevano la stessa somma numerica delle lettere. O paranoie come la lettura simbolica di numeri quali l´apocalittico 666, variamente interpretato nei secoli come il nome di Nerone, Diocleziano, Lutero o il Papa.
Ma non facilitò le operazioni aritmetiche, per le quali si dovette ricorrere a vari tipi di abaco: una letterale "tavoletta" che poteva essere di sabbia, di cera o a gettoni, e che permetteva di compiere in maniera analogica le operazioni che il sistema indiano permette invece di fare sulla carta in maniera digitale, manipolando le cifre con l´ausilio delle "tabelline´´. Bellos ci narra che l´abaco fu usato, in qualche forma, da tutti i popoli che non possedettero un adeguato sistema numerico che permettesse di fare i "calcoli": una parola, questa, che significa letteralmente "pietruzza" (come nel caso dei calcoli al fegato o alla cistifellea), e richiama l´origine primordiale dei numeri.
È in queste molteplici origini che si trovano le tante albe del numero di cui trattano i vari capitoli del libro di Bellos. Il sistema sessagesimale additivo dei Sumeri, ad esempio, di cui rimangono vestigia nel nostro computo dei secondi in un minuto, dei minuti in un´ora e dei gradi in un angolo giro. Il sistema decimale posizionale dei Babilonesi, che introdusse lo zero come posto vuoto. Il sistema vigesimale posizionale dei Maya, che arrivò a considerare lo zero come numero indipendente. E soprattutto il sistema completo di tutti gli ingredienti degli Indiani, che condividono con i Babilonesi, i Cinesi e i Maya l´introduzione del sistema posizionale, con i soli Maya l´invenzione dello zero, ma con nessun altro l´intuizione della necessità di indicare in maniera indipendente tutti i numeri minori della base.
Analogamente all´evoluzione biologica dell´uomo, o all´evoluzione linguistica dell´alfabeto, non bisogna però guardare all´evoluzione numerica del sistema indiano come a una teleologia. Da un lato, infatti, la constatazione che solo una civiltà è arrivata alla "soluzione" mostra che quest´ultima non può essere vista come un´inevitabile necessità, e dev´essere piuttosto considerata come una fortunata contingenza. E, dall´altro lato, i risultati geometrici, astronomici e architettonici raggiunti rispettivamente dai Greci, dai Maya e dai Romani, che possedevano solo sistemi numerici parziali e incompleti, mostrano che il progresso matematico, scientifico e tecnologico può evolversi in direzioni multiple e complementari, di molte delle quali Il meraviglioso mondo dei numeri narra le affascinanti vicende.

Repubblica 23.2.11
I preraffaelliti
Burne-Jones e Rossetti innamorati dell’italia
di Cesare De Seta


Da domani, alla Galleria Nazionale d´Arte Moderna di Roma, i maestri inglesi dell´800 che si ispirarono ai grandi del nostro Rinascimento
C´è chi era cresciuto leggendo Dante e nei suoi lavori sognava di imitare Raffaello Tra i modelli tutti i pittori veneti, da Tiziano a Veronese
Tra i partecipanti al gruppo anche Ruskin che si era sempre interessato alla storia dell´arte del Paese studiandola direttamente a Firenze

William Mollard Turner (1775-1851) era figlio di un barbiere e divenne, nel corso di un´operosa vita, uno dei grandi protagonisti della pittura di paesaggio: fu anche fortunato perché il giovane John Ruskin (1819-1900), ancora del tutto sconosciuto, ebbe l´ardire di scrivergli perché l´accettasse come suo mentore e, difatti, ne divenne un sostenitore assai intelligente.
Il rapporto di entrambi con l´Italia fu strettissimo, e non vale contare le volte che, l´uno e l´altro, soggiornarono nella penisola. Erano convinti che l´arte vittoriana fosse un relitto del passato, e bisognasse ricrearla alla radice: le strade che perseguirono furono parallele e anche divergenti. Turner andò alla scoperta di Claude Lorrain, e si spinse ben oltre la frontiera che il pittore aveva sperimentato. Lo si vede bene nell´Arco di Costantino, 1835, dove il baluginare della luce si diffonde fino a mangiarsi la sagoma del monumento: dopo i primi soggiorni del 1819 e del ´35, tornò nel ´40 e nel ´46 e scoprì Venezia con memorabili tele e acquerelli in cui la pennellata fluida si sfalda del tutto. Sono paesaggi d´atmosfere che volgono le spalle a Canaletto.
Talune prove si vedono nella mostra Dante Gabriel Rossetti –Edward Burne-Jones. Il mito dell´Italia nell´Inghilterra vittoriana (fino al 12 giugno), curata da Maria Teresa Benedetti, Stefania Frezzotti, Robert Upstone (catalogo Electa). Ruskin che a Venezia fu legato da un´intensa passione, dedicandole pagine memorabili, seguì un itinerario diverso: andò alla scoperta del Medioevo, che aveva cominciato ad amare a Firenze, e i suoi disegni e acquerelli assai garbati testimoniano la passione per Beato Angelico, per i primitivi e per l´architettura medievale. Un lungo Medioevo quello di Ruskin che precorre quello teorizzato da Jacques Le Goff nel nostro tempo.
Fu questa propensione al Gothic Revival l´anello di congiunzione con la compagine dei Preraffaelliti: dinanzi all´ostentata opulenza dei vittoriani alla Alma Tadema, costoro scoprirono un mondo la cui sofisticata innocenza aveva una sua verità spirituale (Giotto e Crivelli fanno da contrappunto in mostra), intrisa di sensualità. La Confraternita si costituì a Londra nel 1848 per iniziativa di Hunt, Millais e Dante Gabriel Rossetti (1828-1882) che aborrivano la Royal Academy, la borghesia, l´industria e la metropoli. Contropelo rispetto ai gusti dominanti, Rossetti assunse ruolo leader nel gruppo. Suo padre insegnava italiano ed era un cultore di Dante, termine a quo di questo pittore-letterato che pose Raffaello ad acme della sua arte.
Angeli che guardano la corona di spine, 1848, rimandano per eleganza di tratto a Ford Madox Brown (1821-1898). Intorno agli anni Sessanta aderì al gruppo Edward Burne-Jones (1853-1898) che divenne dioscuro di Rossetti. Ruskin fu loro compagno di strada con la sua penna brillante e la conoscenza appassionata dell´arte italiana; altro amico fedele fu William Morris, socialista umanitario, scrittore prolifico e artista originale. Nel 1861 Burne-Jones dipinge il trittico con l´Annunciazione e Adorazione dei Magi, una tela ad olio di grandi dimensioni destinata a una chiesa Gothic Revival a Brighton progettata da Carpenter.
Nello stesso anno Rossetti dipinge un acquerello con Lucrezia Borgia: vestita come una dama del suo rango, si lava le mani per detergersi dal veleno destinato al marito, accanto ha una caraffa col vino venefico e un papavero, simbolo di droga: sul fondo, come nei dipinti fiamminghi, il padre e il marito avviato alla morte. Il Medioevo di Rossetti si spinge fino al Cinquecento veneziano, come si vede nella veste e nella capigliatura di Lucrezia. L´interesse suo e di Burne-Jones per la Borgia è sollecitato dal poeta Swinburne e dall´opera di Donizzetti più volte rappresentata al Covent Garden.
Frederich Leighton (1830-1896) ha toni più severi e la Nanna, 1859, è una statuaria ragazza della campagna romana che assomiglia molto a quelle dipinte dai tedeschi della Lukasbund. Il Medioevo è il filo che lega le due confraternite. Tornato in patria, Leighton dipinge una Signora nobile di Venezia e qui il registro cromatico e compositivo oscilla tra Tiziano e Veronese. Mentre Rossetti rende il suo omaggio a Dante con Beatrice, poi divenuta La Sposa, perché egli stesso si rende conto che il soggetto ha una femminilità assai lontana dallo Stil novo. La sposa è al centro di un serto di bellezze muliebri e, in primo piano, c´è un ragazzo moro come in certi affreschi di Veronese. La compagine volge decisamente verso il Rinascimento veneto e opere di Carpaccio, Tiziano, Veronese e altri fanno pendant in mostra: le opere di Rossetti – disegni, guaches, oli – sono ritratti di amiche sublimate dai toni letterari e mitologici: fino a Pandora, 1871, simbolica figura intensamente problematica, e Proserpina, 1878, regina dell´Ade, come spiega lui stesso in una lettera a Turner che ne possedeva una versione. Il frutto proibito in mano, in basso una lampada che brucia incenso, simbolo di divinità. La figlia di Giove e Cerere è bellissima, immersa nei pensieri e nei ricordi. La modella è quasi sempre Jane Burden, la moglie di Morris. Fiammetta, con una sfavillante veste porpora è già un´eroina Liberty: un gusto e una cultura patrocinata da William Morris che nella Red House ad Upton, progettata da John Web, aveva voluto creare una casa e una bottega medievale, all´origine delle Arts & Crafts. Gli intrecci amorosi tra i preraffaelliti sono tali che possono dar luogo a un romanzo o a un bel film di Ivory.