lunedì 28 febbraio 2011

l’Unità 28.2.11
Sconfiggere le menzogne
di Mila Spicola


Dopo le accuse di corporativismo, di strumentalizzazione politica, di “fannullonismo” contro i docenti italiani, adesso è uscito allo scoperto: l’oggetto dell’odio del premier è la scuola statale come istituzione. Una rivoluzione ci sta tutta: è giunta l’ora di difenderci sul serio. Dobbiamo, tutti, difendere la scuola statale italiana dalle menzogne che la stanno sommergendo. Abbiamo bisogno di tutti voi. Abbiamo bisogno di un Benigni che davanti a venti milioni di italiani reciti con il suo splendido carisma: «Art. 33 L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»; «art. 34 La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita». Abbiamo bisogno di un’opposizione che, unita, metta la scuola in cima all’agenda politica e usi tutti gli strumenti parlamentari perché il premier ritiri (e parte le consuete smentite e i “fraintendimenti”) tutto quello che ha detto. Abbiamo bisogno di testimonial che difendano la scuola statale, che possano rompere il muro dei media: scrittori, attori, cantanti, registi, che ci raccontino il brivido di quel giorno, a scuola, nel capire con che dolcezza si può naufragare nell’infinito del pensiero e della libertà umana. Questo giornale dà lo spazio e l’opportunità per farlo. Abbiamo bisogno di tutti voi perché noi, gli insegnanti, in questi anni troppo spesso non siamo stati ascoltati. Abbiamo bisogno di donne e uomini consapevoli e informati, capaci di raccontare per intero la verità della scuola statale italiana tagliata e oltraggiata. C’è il perpetuo allarme del docente precario, ma ci sono anche masse di genitori preoccupati ai quali nessuno ha saputo dare voce.
Il nodo centrale è l’attacco alla democrazia e al libero pensiero attraverso l’attacco alla scuola pubblica. Attacco proseguito negli anni inesorabile, con troppi complici. Etiam si omnes ego non. In quanti, rispetto all’indifferenza verso la scuola, hanno saputo dire: «Io no»?
«La scuola italiana non educa», dice il premier (e detto da lui suona grottesco, surreale). Ma cosa vuol dire educare? La scuola fascista aveva come obiettivo principe l’«educazione dei giovani». La scuola statale italiana repubblicana, gioiello di una civiltà avanzatissima, la nostra, istruisce, forma e prepara i cittadini di domani attraverso la trasmissione di un bagaglio di conoscenze, di cultura, il più ampio, corretto, plurale, libero (persino di criticare i maledetti comunisti). Istruisce alla conoscenza delle regole e dei pensieri. Tutti e per tutti. Al plurale, mai al singolare. E lo fa meglio delle private. (Dati Invalsi: senza i funesti risultati delle competenze degli studenti delle scuole private la scuola italiana sarebbe più in alto nella graduatoria europea). Metteteci nelle condizioni di farlo al meglio, non al peggio. Il ministro Gelmini ha approntato una riforma che riflette l’odio e non l’amore per la scuola. Su ufficiale ammissione del suo premier, è fallita miseramente. Si dimetta, allora, e cerchiamo di realizzare una vera riforma che vada incontro alle esigenze del paese intero e dei suoi ragazzi.

l’Unità 28.2.11
La resistenza di insegnanti, studenti, sindacati, opposizioni dopo l’attacco di Berlusconi
Proposta di Franceschini: «Può diventare una grande manifestazione». Giulietti trova la data
La nuova piazza: «Il 12 marzo in difesa della scuola pubblica»
Il mondo della scuola insorto contro l’attacco rivolto da Berlusconi alla scuola pubblica: dalla Cgil all’Ugl, studenti, insegnanti. Franceschini: tutti in piazza il 12 marzo. Gelmini difende Silvio. Bersani: «Si dimetta».
di Natalia Lombardo


È rivolta fra insegnanti, studenti e sindacati, compresa l’Ugl, per l’attacco lanciato sabato da Silvio Berlusconi contro la scuola pubblica: nella sua pseudo-smentita conferma il concetto sull’«indottrinamento politico e ideologico» che farebbero i docenti. La ministra dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, invece di sentirsi colpita nel suo ruolo, difende il premier. Al punto che il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ne chiede le dimissioni: «Se la Gelmini fosse un vero ministro, invece di arrampicarsi sui vetri per difendere Berlusconi, dovrebbe dimettersi». Perché «la scuola pubblica è nel cuore degli italiani. Da Berlusconi arriva uno schiaffo inaccettabile, non permetteremo che la distrugga». E Dario Franceschini, Pd, da Twitter lancia la proposta di una manifestazione per «difendere la scuola pubblica dagli insulti di Berlusconi»: «Tutti di nuovo in piazza, come le donne il 13 febbraio, senza simboli e bandiere». Il capogruppo Pd accoglie «l’importantissima» disponibilità offerta da Beppe Giulietti per il 12 marzo, allargando la protesta in difesa della Costituzione. La Cgil scuola sciopererà il 25 marzo con i lavoratori pubblici, potrebbe replicare con lo sciopero generale proposto da Susanna Camusso. Anche ItaliaFutura, fondazione di Luca Cordero di Montezemolo, denuncia le «esternazioni in libertà» di Berlusconi «che i cittadini non possono sopportare» e «si attendono che faccia funzionare la scuola, non di demolirne la legittimità».
Mariastella Gelmini rispondendo a Bersani ribadisce il concetto sulla scuola dominata da postsessantottini: «Berlusconi non ha attaccato la scuola pubblica», dice come una scolaretta, «ma ha difeso la libertà di scelta delle famiglie». E rilancia: «La sinistra guarda alla scuola pubblica come a un luogo di indottrinamento ideologico. Bersani si rassegni: la scuola non è proprietà privata della sua parte politica».
La Rete degli studenti denuncia la «cancellazione» dell’istruzione pubblica da parte del governo, «altro che riforma», Gelmini e Tremonti hanno ridotto la scuola «a un cumulo di macerie». Gli insegnanti del Gilda bollano il «comportamento inaccettabile» del premier e ricordano che la situazione è opposta: «La scuola statale è un luogo di confronto pluralistico, mentre legittimamente la scuola privata è di tendenza e trasmette convinzioni religiose, politiche e filosofiche». Insomma, Berlusconi si rilegga «i saggi di Luigi Einaudi, che non era un comunista e difendeva il valore della scuola pubblica statale».
Uniti tutti i sindacati. Secondo Domenico Pantaleo, segretario della Flc-Cgil, «Berlusconi non ha né l'autorità morale né quella etica per parlare di scuola pubblica»; Giovanni Centrella, segretario dell’Ugl, ricorda «le gravi ristrettezze in cui operano i professori e le famiglie stesse». Francesco Scrima, Cisl Scuola, parla di «accuse generiche e strumentali agli insegnanti, a cui si continua a chiedere tanto e a dare troppo poco».
Dure critiche da tutta l’opposizione. Nichi Vendola, nella convention di ieri a Roma, spiega così l’attacco di Berlusconi: «È stata proprio la crisi della scuola pubblica e il trionfo delle sue televisioni ad aver accompagnato l’egemonia culturale di un quindicennio». Demolirla quindi è strategico, secondo il leader di Sel: «A queste classi dirigenti serve opinione pubblica narcotizzata».
Antonio Di Pietro insiste più sulla morale: «Sui valori e sull’istruzione Berlusconi non può dare lezioni, se c’è qualcuno che è stato un esempio negativo per i giovani è proprio lui». Anche Rosy Bindi è indignata sul piano morale: «Chi conclude incontri politici inneggiando alle sue indicibili abitudini notturne non è degno di pronunciare la parola famiglia», né di insegnamento, quando alla scuola ha «tagliato risorse, negato dignità agli insegnanti e impoverito i percorsi formativi». Per Italo Bocchino, Fli «sta dalla parte della scuola pubblica» nel solco di Giovanni Gentile e ricorda come alcune privare siano «un diplomicifio» o un lasciapassare per figli di ricchi.

Repubblica 28.2.11
Dal capogruppo pd la proposta, i promotori del raduno del 12 marzo dicono sì
"Ora in piazza, come le donne" l´idea di unirsi al Costituzione-day
di Marina Cavalieri


ROMA - Tra polemiche, battute, dichiarazioni, spunta anche l´idea della piazza. Circola il progetto di una grande manifestazione in difesa della scuola pubblica, senza bandiere di partito. Solo con il tricolore. «Tutti di nuovo in piazza, come le donne il 13 febbraio, senza simboli e bandiere, a difendere la scuola pubblica dagli insulti di Berlusconi». È questa la proposta lanciata su twitter da Dario Franceschini, capogruppo Pd alla Camera. Una manifestazione trasversale che sappia mobilitare il popolo della scuola, dai professori a cui si chiede di stare in prima linea alle famiglie che vedono tagliato il tempo pieno, agli studenti a cui si nega il futuro. La proposta non è stata fatta ancora in modo formale ma subito è stata ripresa e rilanciata: l´iniziativa potrebbe coincidere con la manifestazione del 12 marzo in difesa della Costituzione.
«L´assalto di Berlusconi alla scuola pubblica è un altro colpo alla Costituzione e al principio di uguaglianza. Non vi è dubbio che la giornata unitaria del 12 marzo "A difesa della Costituzione" potrà e dovrà mettere al centro dell´attenzione la difesa della scuola pubblica che è parte essenziale della Carta», commenta Giuseppe Giulietti, a nome del Comitato promotore della manifestazione del 12 marzo. «Sulla difesa della scuola pubblica dagli ultimi attacchi del premier c´è trasversalità e volontà di difesa comune. Le dichiarazioni, da quelle di Italo Bocchino a Nichi Vendola, da Antonio Di Pietro alla Federazione della sinistra e di tante associazioni, vanno tutte nello stesso senso». L´idea di una manifestazione trova favorevoli i Verdi: «Sull´istruzione pubblica è giusto, anzi è doveroso mobilitarsi e scendere in piazza perché da questo dipende il futuro del nostro paese», ha detto il presidente nazionale Angelo Bonelli.
Sono però divisi i sindacati della scuola. Favorevole la Cgil: «È un´idea giusta, può essere un momento di mobilitazione importante, gli attacchi alla scuola pubblica di Berlusconi sono anche un attacco alla Costituzione», dice Mimmo Pantaleo, segretario Flc-Cgil. Contraria invece la Cisl: «Di tutto ha bisogno la scuola meno che di contrapposizioni politiche, la scuola non può essere terreno di scontro», ha detto Francesco Scrima. Dello stesso parere Paolo Nigi, segretario dello Snals, sindacato autonomo: «Non vedo i motivi di una manifestazione per la scuola pubblica, il governo ha cercato piuttosto di ridare serietà e credibilità alla scuola».
E gli studenti? Dopo le mobilitazioni dell´autunno preparano nuove scadenze ma sul 12 marzo ancora non si pronunciano: «Come studenti non staremo fermi ma preferiamo essere noi a decidere le nostre mobilitazioni». Intanto, domani alle 17.30 davanti a Palazzo Chigi ci sarà un sit in difesa della scuola pubblica promosso dal Pd.

l’Unità 28.2.11
E ora giù le mani dal sapere:
la scuola è di tutti, è per tutti
È paradossale e inaccettabile che un presidente del Consiglio, chiamato a incarnare e tutelare la cosa pubblica, attacchi frontalmente la scuola pubblica e quindi milioni di persone che in questa credono e alla quale quotidianamente dedicano, in condizioni spesso molto difficili, la loro personale fatica: DIFENDIAMOLA.


Silvio Berlusconi parla di principi (da che pulpito!) e insulta la scuola pubblica e gli insegnanti. Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini invece di chiedergli conto e/o dimettersi, difende il premier andando ad infoltire la già nutrita pattuglia degli avvocati del premier.
Ma sono sono in tanti a indignarsi e a chiedere, non comizi, ma politiche a favore della scuola pubblica, cioè della scuola per tutti. Dal nostro giornale parte un appello e una raccolta di firme a difesa della scuola pubblica, e per dire che è inaccettabile oltre che paradossale che il capo di un governo attacchi frontalmente uno dei perni del Paese che rappresenta e che dovrebbe governare. Allo stesso tempo non si può stare zitti di fronte all’offesa portata a migliaia di insegnanti che, grazie a questo governo, hanno subito tagli alle retribuzioni e ai diritti e ogni giorno vedono deperire le loro scuole vinte dalla scarsità di risorse e avvilite da riforme inutili oltre che dannose.
L’appello (il testo è nella pagina a fianco) è stato raccolto da personalità della cultura, del sindacato, della politica. Aderiscono, tra gli altri, Don Luigi Ciotti , Marco Rossi Doria, Nicla Vassallo, Luca Formenton, Raffaele Cantone, Vittorio Lingiardi, Evelina Christillin, Chiara Valerio, Mila Spicola, Goffredo Fofi, Luigi Manconi, Fabrizio Gifuni, Moni Ovadia, Sonia Bergamasco, Pippo Del Bono, Vincenzo Consolo, Lirio Abbate, Emma Dante, Giancarlo De Cataldo, Roberta Torre, Mimmo Pantaleo, Benedetto Vertecchi, Beppe Sebaste. A questi primi firmatari (l’elenco completo su www.unita.it) si sono aggiunte in poche ore le firme di circa cinquemila lettori dell’Unità on line.

l’Unità 28.2.11
L’ultimo atto di un regime autoritario
L’offensiva contro la scuola pubblica
di Francesca Puglisi


Ora Berlusconi punta a distruggere il luogo dove si formano le coscienze, dove le menti imparano a ragionare liberamente e si sviluppa lo spirito critico. Ecco perché infanga gli insegnanti e taglia risorse e personale alle scuole dello Stato, dirottando soldi verso istituti elitari. È un regime autoritario che, anziché prendere il potere con le armi, lo afferra occupando le istituzioni. Difendere la scuola pubblica, il valore delle donne, la legalità, l'informazione libera e la Costituzione, è in realtà la medesima battaglia. È il diritto di “ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità”, come disse Calamandrei.
La pervicace e instancabile guerra di Berlusconi e dei suoi sudditi ministeriali Gelmini e Tremonti alla scuola pubblica, è la volontà precisa di chiudere il cerchio della sua azione politica: dopo aver preso possesso del 90% dei mezzi di informazione, dopo aver delegittimato in ogni modo la magistratura, dopo aver istituito un federalismo zoppo che favorirà le mafie internazionali, come già ricordava Raffaele Cantone qualche giorno fa a Napoli, ora quel che gli manca è debellare l'avversario più pericoloso: la scuola pubblica. Perché è lì che nasce il nemico di ogni dittatura, di ogni integralismo, di ogni illiberalità: il pensiero. Di recente, il presidente Oscar Luigi Scalfaro ci ha messo in guardia dal tentativo di sovversione dell’ordine democratico in atto, un tentativo che non viene fatto con i carri armati, ma con le televisioni e le leggi, entrambe asservite al potere di uno solo, mentre i cittadini sono lasciati soli, sempre più spesso in situazioni di forte disagio economico e sociale che ci riportano indietro di decenni.
Pensare dà fastidio al potere, perché, come cantava Lucio Dalla, il pensiero è come l'oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare... e questo non lo possono sopportare i Gheddafi, i Putin, i Mubarak e i Berlusconi d'ogni sorta e colore. La scuola fornisce non solo nozioni, ma soprattutto gli strumenti di analisi per crescere cittadini consapevoli. La scuola fa crescere insieme, valorizza le differenze, tiene uniti i bambini nella convinzione che saranno loro i mattoni per costruire il futuro. La scuola è l'oceano dove nuota il libero pensiero.
Oggi quest'Italia, geograficamente e simbolicamente al confine fra l'Europa e l'Africa, è a un bivio: se sarà capace di difendere la scuola pubblica, sarà capace di avere un futuro, altrimenti sarà condannata a un eterno passato, quello dove non ci sono presidenti ma dittatori, non diritti ma concessioni, non cittadini ma sudditi. Torniamo in piazza, in un'alleanza di popolo, come abbiamo fatto il 13 febbraio. Se saremo uniti, anche la nostra opposizione politica nelle istituzioni sarà più forte. Salviamo la scuola pubblica, mandiamoli a casa.

Repubblica 28.2.11
Il Cavaliere pronto a tutto per l´appoggio della Chiesa
di Nadia Urbinati


QUANTO CI COSTERÀ IN TERMINI DI BENI PUBBLICI come la legge, la scuola, i diritti individuali la sopravvivenza di questo governo? La domanda non è per nulla retorica visto lo stile da riscossa ideologica con il quale un presidente del Consiglio sempre più debole, in picchiata nei sondaggi, cerca di riprendere in mano le sorti della sua carriera politica.
Alla disperata ricerca di sostegno nei settori dell´opinione pubblica a lui più tradizionalmente vicini, il premier ha messo in cantiere un sostanzioso paniere di beni pubblici da offrire alle gerarchie vaticane in cambio di un appoggio. La cronologia non inganna. Il 18 febbraio la delegazione del governo italiano, guidata da Berlusconi incontra la delegazione vaticana con Bertone e Bagnasco. Al centro del colloquio i temi di politica interna e di cosiddetta etica: l´assistenza spirituale negli ospedali e nelle carceri, la legge sul fine vita, la scuola paritaria e il "quoziente familiare". Il vertice è cortese ma si svolge con qualche imbarazzo: non c´è, ad esempio, il faccia a faccia con il premier. "Non era previsto", fa sapere il Vaticano. Berlusconi deve cercare di recuperare punti nei confronti della gerarchia cattolica. Ed ecco il discorso di due giorni fa: dopo solo una settimana egli rende al Vaticano ciò che aveva promesso e nel nome della libertà dell´individuo di cercare la propria felicità e "farsela" con le "proprie mani", assesta una serie di colpi durissimi ai diritti di libertà e poi al bene pubblico della scuola, un diritto di cittadinanza prioritario.
Lo scambio con le gerarchie vaticane è nel solco dell´oliatissimo e secolare guicciardinismo gesuitico: si metta una pietra tombale sul vergognoso comportamento del premier in cambio di sostanziose concessioni sui diritti e la scuola confessionale (sofisticamente detta "privata"). All´autorità che ha il dovere legittimo di sottoporre la vita e la realtà mondana al giudizio morale nel nome di principi non compromissibili, come sono quelli del Vangelo, viene proposto di patteggiare su quei principi in cambio del ridimensionamento della scuola pubblica a favore della propria scuola di indirizzo religioso e dell´opposizione del Parlamento a ogni legge che cerchi di riconoscere le coppie omosessuali e che consenta l´adozione di bimbi da parte di adulti non sposati. Alla ricerca di una benedizione curiale il più immorale degli italiani si erge a educatore e modello di moralità, di sacralità e vocazione educatrice della famiglia. E tutto questo nel nome della libertà! La libertà dei genitori "di inculcare ai loro figli quello che essi vogliono" – come se i figli fossero proprietà dei genitori alla pari di un´automobile o di un´abitazione con la quale fare "quello che si vuole". Quel che a noi cittadini preme e deve premere non è come la Chiesa si comporterà di fronte alla tentazione di un "patto diabolico". Ciò che a noi preme soprattutto è l´uso di un bene pubblico – quindi non disponibile - per ragioni private, privatissime anzi.
Il premier in bilico sa quanto sia determinante l´appoggio della Chiesa. E´ allora disposto a dileggiare gli insegnanti (da molti dei quali ha tra l´altro ricevuto il voto tre anni fa) in una strategia retorica che serve a gettare discredito sulla scuola pubblica per poi preparare il terreno ideologico che giustifichi ulteriori decurtazioni di mezzi e risorse all´istruzione. Non a caso il Giornale di famiglia, ieri puntava tutto sulla strategia seduttiva del Cavaliere nei confronti dei cattolici: intervista al cardinal Bagnasco e ampio risalto al discorso di Berlusconi in prima pagina e nelle pagine due e tre. Sulla scuola, spiega Il Giornale, "Berlusconi gioca di sponda con la Santa Sede sostenendo di fatto la scuola privata. Perché, spiega, ‘gli insegnanti inculcano idee diverse da quelle che vengono trasmesse nelle famiglie´". In nome della libertà del premier – libertà dalla legge prima di tutto - tutti gli italiani dovrebbero vivere secondo le idee e le leggi che convengono al premier e a chi lo sostiene: questo è il senso della libera ricerca della felicità nell´Italia contemporanea.

La Stampa 28.2.11
Intervista al vescovo Negri: il male sono i Dico e le leggi laiciste
«La moralità del premier conta meno della famiglia»
«Il giudizio dipende dall’impegno per il bene comune»
di Giacomo Galeazzi


Da sempre alla Chiesa interessa ciò che un governante fa per il bene comune. Sul piano della condotta individuale indirizziamo a Berlusconi le stesse raccomandazioni rivolte a chiunque altro. Sui comportamenti personali il giudizio spetta solo a Dio». Il vescovo ciellino di San Marino-Montefeltro, Luigi Negri, esponente di primo piano della Cei e presidente della fondazione per il Magistero sociale della Chiesa, interrompe i preparativi per la visita del Papa nella sua diocesi e benedice il «clima costruttivo» tra le due sponde del Tevere: «Ci sono le condizioni per orientare cattolicamente la restante parte della legislatura verso i principi non negoziabili: vita, famiglia, libertà di istruzione». Il no del premier alle adozioni dei single e alle unioni gay (in contemporanea all’esortazione alla pacificazione tra i poteri contenuta nell’intervista del cardinale Bagnasco al «Giornale» della famiglia Berlusconi) sono «segnali positivi di disponibilità alla cooperazione per l’interesse generale dell’Italia». E «le incoerenze etiche di un governante non distruggono il benessere e la libertà del popolo, gli attacchi alla famiglia e alla sacralità della vita devastano la vita sociale».
Si aspetta più impegno del governo sui temi cari alla Chiesa?
«Ci sono margini per un’azione più incisiva dei cattolici nella vita pubblica. La democrazia non si fa con l’ingegneria costituzionale. Manca un rapporto equilibrato tra la politica e un apparato giudiziario autoreferenziale e indipendente nei suoi atti. Le priorità sono la salvaguardia della vita dal concepimento alla fine naturale, della famiglia eterosessuale (l’unica feconda), della possibilità per la Chiesa di svolgere l’azione formativa e culturale tra la gente».
Non imbarazzano gli scandali del premier?
«Se esistono reati tocca alla legge stabilirlo, è inammissibile condannare a priori. Un politico è più o meno apprezzabile moralmente in base a quanto si impegna a vantaggio del bene comune, cioè di un popolo che viva bene e di una Chiesa che operi in piena libertà. Non è edificante sentir evocare anche in ambienti cattolici l’indignazione, il disprezzo, l’odio verso l’avversario politico. A far male alla società sono i Dico, la legislazione laicista, la moralità teorizzata e praticata da quanti ci inondano di chiacchiere sulla rilevanza pubblica di taluni comportamenti privati».
Quale rischio teme?
«Una disarticolazione di poteri che la Costituzione vuole convergenti. La moralità personale è importante e Berlusconi va richiamato come tutti, ma nella sua storia la Chiesa interviene sulla promozione del bene comune e su ciò valuta un’autorità pubblica.In due anni e mezzo i cattolici potranno incidere di più sulla vita politica e sociale, per esempio contro i registri comunali delle coppie di fatto e il sì al farmaco abortivo Ru486: ci mostrano la moralità pubblica della mentalità laicista e anticattolica che caratterizza le “élites” ideologiche e politiche che pretendono di dominare il Paese».

Corriere della Sera 28.2.11
«Fine vita, meglio non votare questa legge»
Per Fiori si renderebbe «più profonda la spaccatura tra medici favorevoli e non» Il giurista Rescigno: su temi così laceranti c’è un’impostazione sbagliata
di  Paolo Conti


ROMA — Il confronto sul Testamento biologico e sul disegno di legge Calabrò che introduce «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento» si fa sempre più serrato. Il testo, approvato a palazzo Madama nel marzo 2009, arriverà in aula a Montecitorio il 7 marzo. dopo essere stato sottoposto all’esame delle commissioni parlamentari: ma sta già sta producendo i suoi effetti politici. Nel Pd, per esempio, c’è spaccatura tra laici e cattolici. Per i primi occorrerà votare comunque in funzione anti-governativa contro il disegno di legge anche se di fatto il testo introduce il principio della difesa della vita fino all’ultimo, invece per Giuseppe Fioroni e altri cattolici esistono «valori non negoziabili» e ci si dichiara pronti a presentare altri testi sui quali proporre la convergenza dei cattolici Pdl. Nel Pdl il portavoce Daniele Capezzone si chiede: «Ma davvero serve una legge?» Allineandosi così a una posizione già espressa da Giuliano Ferrara e Sandro Bondi per il Pdl e da Umberto Veronesi per il centrosinistra Oggi, su questo tema, intervengono due interlocutori di diversa radice culturale che da anni si occupano di bioetica e quindi anche di questioni legate proprio ai trattamenti del fine vita. Da una parte Angelo Fiori, emerito di Medicina legale all’università del Sacro Cuore per anni direttore con monsignor Elio Sgreccia della rivista di bioetica «Medicina e morale", » , membro del Comitato etico dell’Istituto Superiore di Sanità. Dall’altra Pietro Rescigno, emerito di Diritto civile a «La Sapienza» fondatore e direttore della rivista «Quaderni del pluralismo» , presidente della Commissione Bioetica dell’Accademia dei Lincei Il dibattito è apertissimo, siamo vicini alla discussione a Montecitorio. Però visto il testo, e analizzati i risultati di un lungo confronto, c’è chi sostiene che sarebbe meglio non legiferare in una materia così complessa, delicata, soprattutto piena di possibili eccezioni. Che ne pensate? Angelo Fiori: «Personalmente ritengo che a questo punto sarebbe molto meglio non votare alcuna legge. Sono convinto che la strada ottimale sia affidarsi ai medici che in certi frangenti così delicati si mostrano in gran parte ragionevoli e coscienti. Tanto più che, a mio avviso, al Testamento biologico ricorrerebbero pochi cittadini, così com’è accaduto con la donazione degli organi. Peraltro l’approvazione di una legge non farebbe che rendere più profonda la spaccatura tra medici favorevoli all’eutanasia e quelli che non lo sono» Pietro Rescigno: «Ho già scritto tempo fa che, soprattutto su temi tanto laceranti, se si teme l’approvazione di una legge sbagliata nella sua impostazione, com’è quella di cui stiamo parlando, allora è molto meglio non varare alcunché. Poi c’è un altro dato giuridico. Il Testamento biologico non contrasta con i principi del nostro sistema e quindi penso sarebbe comunque lecito e anche vincolante. Una volta polemizzai col mio amico Sabino Cassese il quale sostenne che, su materie di forte impatto, è meglio intervenire, magari male, che non farlo. Io penso il contrario...» In questa vicenda emergono diverse problematiche. Il diritto all’autodeterminazione e soprattutto la questione dell’idratazione e dell’alimentazione forzata nel caso di non coscienza del soggetto, vero elemento di divisione. Di fatto per il disegno di legge Calabrò alimentare e idratare non rientrano nel concetto di terapia ma di nutrimento e quindi non possono essere sottoposte a una dichiarazione anticipata di trattamento. Qual è la vostra opinione? Angelo Fiori: «Qui non c’è da essere cattolici o non cattolici, credenti o non credenti. Togliere il nutrimento o l’idratazione significa sopprimere vite umane per fame e per sete. Come ho scritto tempo fa sulla rivista "Medicina e morale", nei casi di Terry Schiavo e di Eluana Englaro la morte è stata deliberatamente procurata con la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione. La morte non si sarebbe verificata in assenza di questa condotta volontariamente omissiva perché non si trattava di malattie terminali. In più aggiungo che molti portatori di gravissimi handicap ricoverati per esempio al Cottolengo sono alimentati e idratati artificialmente. Portando alle estreme conseguenze questo ragionamento, potremmo immaginare che un domani si potrebbe decidere la sospensione delle "cure"perché rappresentano, mettiamo, un peso per la società. Infine vorrei porre una questione giuridica. Nel Testamento si introduce la figura del fiduciario che dovrebbe far rispettare le volontà del paziente in caso di suo stato di incoscienza. Ma come potrebbe un non medico, per esempio, imporre scelte terapeutiche a un medico?» Pietro Rescigno: «Questo disegno di legge non rispetta il principio di autodeterminazione e, come sostiene l’appello che abbiamo sottoscritto con Stefano Rodotà e altri, si viola chiaramente l’articolo 32 della Costituzione che vieta di fatto ogni trattamento contrario al rispetto della persona umana. E poi, secondo il disegno di legge, il medico viene legittimato a sovrapporre le proprie decisioni a quelle del paziente non cosciente. In quanto al merito della domanda. Nei Paesi in cui il Testamento biologico è stato adottato, e penso alla California tra i primi, nel concetto di "terapia"vengono intesi tutti i mezzi che possono sostenere artificialmente una vita umana. E lì trovano spazio sia l’idratazione che il nutrimento artificiale. In piena onestà posso anche aggiungere che la distinzione terapia-nutrimento è artificiosa perché, nei tanti confronti avuti con i medici su questo tema, mi sembra prevalente il concetto che nell’idea di "terapia"davvero sia comprensivo tutto ciò che sia adottato per "curare". Non vedo dunque perché idratazione e nutrimento non possano trovare spazio in un ordinamento italiano che regoli il Testamento biologico» .

l’Unità 28.2.11
Vendola non ha scadenze: «Candidato anche nel 2013»
Davanti a 4mila persone, lungo comizio del leader di Sel: «Io sono pronto, ma non saremo mai al governo con i finiani»
di Andrea Carugati


Quattromila persone ad applaudire, un’ora e mezzo di comizio dei suoi, torrenziale ed emotivo, per rimettere
Piero Fassino sarà il candidato del centrosinistra alle elezioni per fare il sindaco di Torino
in campo Sinistra e libertà. Le elezioni si allontanano, le primarie anche, la sua immagine è un po’ ammaccata dalle inchieste pugliesi, e Nichi Vendola rilancia. In un teatro tenda alla periferia di Roma, il governatore chiama a raccolta il popolo di Sel: «Siamo in campo», dice ai suoi. E mette in fila le parole-chiave del programma: tanta ecologia, dall’agricoltura biologica alla cura del territoio dissestato, riforma del welfare («Tassiamo stipendi e pensioni al 12,5%»), ruolo chiave dello Stato e dell’interesse pubblico, difesa della scuola pubblica. Cita a più riprese «i giovani» come protagonisti del «patto» per ricostruire il centrosinistra e l’Italia. Insolita la virulenza delle borbate a Berlusconi, a partire dall’attacco del premier ai diritti dei gay: «Altro che liberale, sei un bigotto!», urla Vendola tra gli applausi. «Se avessi un figlio gay quante sofferenze gli provocheresti? Vai a parlare dai cattolici per farti perdonare il “bunga bunga”, ma dov’è Gesù che scaccia i mercanti dal Tempio?». Al Pd un messaggio chiaro: «Proporre la Bindi alla guida della Grande coalizione non era una provocazione, se volete portare a palazzo Chigi un tecnocrate come Monti o Montezemolo noi ci opporremo con tutti i mezzi. Sul terreno del liberismo non ci avrete mai». E ribadisce: «Ok alla Grande coalizione per cambiare la legge elettorale e fare il conflitto di interessi. Ma noi in un governo politico con i finiani che vogliono privatizzare l’acqua non ci andremo mai». Solo un piccolo accenno alle inchieste pugliesi: «Lo so che lo stritolamento mediatico sarà permanente». E aggiunge: «Queste parole che stiamo dicendo sono un patrimonio collettivo, anche se questo leader si ritirasse». Significa un suo passo indietro? «Assolutamente no», risponde Vendola dietro le quinte. «Era una risposta a chi, nel Pd, mi definisce un fenomeno mediatico. Queste idee contano più della mia carriera pubblica». E se il voto si allontana? «Io sono pronto, ora, nel 2012 o nel 2013. Non ho mai scommesso su una data». Grande spazio alle «rivolte di libertà nel Mediterraneo». Vendola striglia la vecchia Europa «ipocrita e esitante», chiede di allargare l’Ue ai Balcani, alla Turchia, a Israele e Palestina, di costruire un «continente Euromediterraneo». E sull’«allarmismo» sugli sbarchi di profughi, chiude gridando alla destra: «Siete barbari, non c’è politica senza abbraccio a chi soffre. Sono fiero della mia Puglia che accolse migliaia di esseri umani dall’Albania».



l’Unità 28.2.11
Cambia il manuale diagnostico dei disturbi mentali Ed è subito polemica
Dal 2013 verranno escluse alcune patologie della personalità
di Cristiana Pulcinelli


Nel 2013 verrà pubblicata la quinta edizione del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5). Il manuale, a cura dell’American Psychiatric Association (Apa), è un punto di riferimento per chi si occupa di salute mentale in tutto il mondo. Rispetto all’ultima edizione, uscita 11 anni fa, ci sono modifiche importanti. In particolare, gli psichiatri americani propongono di escludere le diagnosi di alcuni disturbi della personalità, come quelli paranoide, istrionico, narcisistico e dipendente. La proposta ha già suscitato polemiche. L’ordine degli psicologi del Lazio giorni fa ha indetto una giornata di studio in cui si è discusso di un documento da mandare all’Apa per spiegare le ragioni del dissenso. «L’esclusione può avere ricadute pesanti – spiega Marialori Zaccaria, presidente dell’Ordine degli psicologi del Lazio – innanzitutto per la clinica: per noi queste patologie sono pane quotidiano. E patologie per le quali non ci sono farmaci, che richiedono la psicoterapia. Escluderle dal DSM-5 vuol dire escludere quella che è una prassi clinica consolidata». Senza considerare, dice Zaccaria, ricadute pratiche: eliminare il disturbo narcisistico significa, per esempio, non riconoscere ai pazienti la possibilità di essere rimborsati da eventuali assicurazioni per la psicoterapia.
Perché, dunque, se ne propone l’eliminazione? «Sicuramente per battaglie “ideologiche” tra modelli teorici – spiega Vittorio Lingiardi, psichiatra e docente alla facoltà di medicina e psicologia alla Sapienza di Roma in questo caso, tra sostenitori dell’approccio dei cosiddetti “Big Five Factors” e i sostenitori degli approcci psicologici sia dinamici sia cognitivi. Ma anche motivi legati ad aspetti economici e culturali. Le diagnosi eliminate sono quelle meno medicalizzabili o trattabili farmacologicamente? Oppure, per esempio, su una delle diagnosi a rischio di scomparsa, non si ravvisano più elementi di patologia in quello che molti di noi continuano a considerare narcisismo patologico o maligno, che poco ha a che vedere con il narcisismo sano?».


Corriere della Sera 28.2.11
Un despota o antico liberatore? Gheddafi imbarazza ancora la sinistra
di Paolo Franchi


Ma chi è Muhammar Gheddafi? Una «bestia immonda» , come lo definisce la lettrice Iglaba Scelgo? Un «dittatore sanguinario» , come scrive l’abbonata Mariletta Calazza? Oppure il «vecchio leone ancora spavaldo» nonostante la sua immagine sia quella «tristissima e patetica di un uomo obnubilato dalla solitudine» di cui scrive Luciana Castellina? O il leader «invecchiato» e travolto dalla propria «vanità» , certo, e però a lungo protagonista «non solo in Africa di uno straordinario tentativo di innovazione, che andava apprezzato e sostenuto» , che Valentino Parlato continua a difendere? Il manifesto sta, si capisce, dalla parte della rivolta. E neppure sta troppo a chiedersi, come fa invece Liberazione, se per caso quella libica non sia «una guerra civile sponsorizzata dalle potenze capitalistiche» . Ma su Gheddafi al manifesto si discute. Anzi, ci si accapiglia. E si tratta di una discussione che potrebbe diventare molto istruttiva, e anche utile. Sin qui, somiglia a un conflitto generazionale. A rifiutarsi al giudizio sommario (e in certi casi, come quello di Parlato, a chiedere quanto meno l’onore delle armi al colonnello) sono soprattutto i grandi vecchi del quotidiano comunista; e sono soprattutto, anche se non soltanto, i redattori e i lettori più giovani a indignarsene. Ha cominciato Luciana Castellina, ricordando che nel ’ 69, quando il «giovane tenente» prese il potere, «tutti gli anticolonialisti gioirono» , come avevano gioito per la vittoria di Nasser, «l’uomo che ha impersonato il sogno del riscatto arabo» , e ancor più per l’Algeria, qualcosa di assai simile, per la sua generazione, a quello che fu il Vietnam per la generazione del Sessantotto. Non c’è dubbio, scrive Castellina, «la ribellione del Maghreb e del Mashrak è sacrosanta» , ma non si può rappresentarla come l’esplosione del malcontento secolare di popoli che hanno conosciuto solo «fanatismo e oppressione» . Per chi sta a sinistra, e soprattutto per chi ci è stato, guardando alla Libia, all’Egitto, all’Algeria, la domanda (terribile) è tutta diversa: «Perché queste che non sono state rivoluzioni in senso proprio, ma certo straordinari sommovimenti popolari, sono finite così?» . Ecco, esattamente di questo sarebbe bene discutere. Non cancellando la storia, ma prendendo atto della durezza delle sue repliche. Lo scrive apertis verbis Rossana Rossanda. Che allarga la domanda a un fallimento ancora più clamoroso, quello delle rivoluzioni comuniste: «Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler stessa razza, tesi degli storici post ’ 89), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e d’altronde non fa che spostare la domanda. Perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader?» . Rossanda azzecca, almeno in parte, anche la risposta. La prima illusione tragica (ma anche, alla lunga, colpevole, aggiungerei) è consistita, scrive, nell’affidarsi «in presenza di masse incolte, a un’avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e (…) lo difende non solo dagli avversari, ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente"un nemico» . E forse corre rischi analoghi anche «la folla generosa ma atomizzata» che affolla e insanguina del proprio sangue le piazze in Paesi in cui «un dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l’articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto» . Anche «il problema delle rivolte arabe (…) è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo» . Irritati dalle provocazioni di Parlato, che al Sole24Ore ha detto di considerarsi tuttora «un estimatore convinto del colonnello» , i lettori del manifesto hanno scritto parecchie lettere contro di lui, riservando invece sin qui un’attenzione tutto sommato modesta all’intervento «menscevico» di Rossanda. Capita, di questi tempi, anche sul quotidiano diretto da Norma Rangeri, a chi si ostina a inerpicarsi in ragionamenti complessi, che non si lasciano imprigionare in un’immagine televisiva. Per quel che vale, la speranza è invece che la riflessione impietosa sollecitata da Luciana Castellina, e avviata da Rossanda, si allarghi, e non solo sul manifesto. Arrivando sin là dove nell’ 89 non aveva saputo o voluto arrivare. Una sinistra incapace di affrontare coraggiosamente i suoi ieri ha poco o nulla da dire sull’oggi. E ancora meno sul domani.

Repubblica 28.2.11
Il politologo Roy
"La primavera araba non si fermerà il popolo pretende la democrazia"
"Non dobbiamo intervenire con le armi a Tripoli ma sostenere le zone libere dal regime"
L´Occidente deve smettere di tifare per una transizione controllata e appoggiare questi ragazzi
di Francesca Caferri


ROMA- «È un processo irreversibile. Potrà anche vivere momenti di stop, ma ripartirà: il paragone più plausibile è quello con le rivoluzioni del 1848 in Europa». Il politologo francese Olivier Roy è fra i massimi esperti di Islam in Europa: e fra i pochi che, dal suo studio presso l´istituto universitario europeo di Fiesole, non si sia stupito quando il mondo arabo ha cominciato ad esplodere. Per questo le sue parole sul futuro di questo processo sono fra quelle da ascoltare con attenzione.
Professor Roy, scontri di piazza in Egitto e in Tunisia, incertezza e combattimenti in Libia: la primavera araba è già finita?
«No, non lo è. Siamo noi che dobbiamo capire cosa intendiamo quando parliamo di "primavera araba". Questo movimento ha due anime: è una rivolta e una rivoluzione. È una rivolta perché le manifestazioni non erano programmate e non sono ideologiche: non hanno dietro alle spalle leader, né partiti, né agende politiche. Vogliono una sola cosa: la democrazia. Ma è anche una rivoluzione perché vuole cambiare la società dal profondo e perché viene dal mondo reale: dai giovani, dall´oggi».
Quali sono le conseguenze di questa doppia anima?
«La conseguenza in questa fase è che ci troviamo di fronte a due generazioni con obiettivi diversi, a due culture opposte. In piazza sono scesi nuovi protagonisti: giovani arabi educati e non ideologici. Una generazione post-islamista che chiede cose come "dignità" e "rispetto". Ma il controllo delle leve del potere, in Tunisia e in Egitto lo hanno vecchi generali, che si ispirano a un´ideologia politica vecchia, tutta legata al concetto di autorità. Per loro lo Stato è potere e ordine: il vecchio dittatore è partito e ora è l´ora della transizione, che deve essere ordinata. Ma i manifestanti non mollano: vogliono la democrazia, ora. E non una transizione indefinita».
Quindi cosa accadrà?
«Dipende dai Paesi: sono abbastanza ottimista sulla Tunisia, perché la pressione della strada è forte. Meno sull´Egitto, perché il potere dei militari è molto più esteso. La Libia è una storia a parte, e posso solo sperare che l´Occidente non si metta in testa di intervenire militarmente: quello che sta avvenendo in quel Paese è una guerra civile. È giusto mandare aiuti alimentari e fare assistenza nelle zone liberate. Poi ci sono paesi sull´orlo, come lo Yemen. E altri, come l´Arabia Saudita, che hanno abbastanza risorse da distribuire per cercare di evitare che la bolla scoppi».
L´Occidente cosa deve fare?
«Togliersi i paraocchi con cui da 30 anni guarda al mondo arabo: quella paura del nemico Islam, quel modo di vedere ogni movimento in quella zona di mondo come frutto dell´estremismo. È uno schema vecchio, legato alla rivoluzione islamica in Iran: ma attraverso questo schema abbiamo giudicato ogni fenomeno legato a questa zona del mondo, dall´immigrazione alla politica. Oggi è tutto diverso: l´Occidente deve smettere di non credere nei giovani arabi. E deve smettere di tifare per una transizione tranquilla a scapito della democrazia, solo perché, come in Egitto, la transizione è guidata da un esercito pagato dagli Usa. Non ci sarà stabilità solo con la transizione, la stabilità arriverà con la democrazia: la gente vuole democrazia, occorre lavorare per mettere fine alla corruzione e promuovere lo sviluppo economico. Puntare a vere elezioni da cui escano parlamenti rappresentativi, che possano scrivere costituzioni vere».
Non è possibile invece che gli scontri di questi giorni dimostrino che l´Occidente ha ragione? Che i movimenti rivoluzionari siano troppo immaturi per governare il futuro?
«No. Questo è un processo irreversibile. È come il 1848 in Europa. Ci saranno degli stop, dei momenti in cui sembrerà di tornare indietro. Ci saranno reazioni violente: ma il processo che si è messo in moto è ineluttabile e non si fermerà».

l’Unità 28.2.11
Non parlate di Muro: il vento dell’Africa è come un nuovo ’48
Il paragone con il 1989 è fuorviante: le rivolte arabe ricordano quanto accadde nel XIX secolo in Europa
di Anne Applebaum


Ogni rivoluzione deve essere valutata all’interno del proprio contesto, ognuna ha un proprio impatto specifico. Le rivoluzioni si diffondono da un luogo a un altro. Interagiscono in maniera limitata. Il dramma di ogni rivoluzione si rivela separatamente. Ognuna ha i suoi eroi, le sue crisi. Per questo motivo, ognuna ha bisogno di essere narrata per conto proprio».
Potrebbe essere il primo paragrafo di una futura storia delle rivoluzioni arabe del 2011, invece è parte dell’introduzione di un libro sulle rivoluzione europee nel 1848. Nelle ultime settimane un folto numero di persone, me compresa, ha paragonato le folle di Tunisi, Bengasi, Tripoli e il Cairo alle folle di Praga e Berlino di due decenni fa. Ma c’è una differenza fondamentale. Le rivolte urbane che hanno portato alla fine del comunismo hanno seguito dinamiche simili perché scatenate da un singolo evento politico: l’improvvisa ritirata sovietica dal supporto del tiranno locale. Le rivoluzioni arabe, invece, sono prodotto di molteplici cambiamenti economici, tecnologici e demografici, e questi hanno preso forme e significati diversi in ogni nazione. In questo senso ricordano il 1848 molto più del 1989.
Per quanto siano stati ispirati generalmente da idee di liberalismo nazionale e democrazia, i dimostranti del 1848, in maggior parte provenienti dalla classe media, avevano obiettivi molto diversi da paese a paese, così come i loro contemporanei arabi. In Ungheria, chiedevano indipendenza dall’Austria degli Asburgo. In quella che oggi è la Germania, puntavano ad unire le popolazioni di lingua tedesca in uno stato singolo. In Francia, volevano far cadere la monarchia (di nuovo).
In alcune nazioni, le rivoluzioni hanno portato a macabre lotte tra diversi gruppi etnici. In altre sono state fermate da un intervento esterno.
In effetti, molte delle rivoluzioni del 1848 fallirono. Gli ungheresi cacciarono gli austriaci, ma solo per poco. La Germania non riuscì ad unificarsi. I francesi crearono una repubblica che cadde pochi anni dopo. Costituzioni furono scritte e poi gettate. Le monarchie abbattute e poi restaurate. Lo storico A.J.P. Taylor chiamò il 1848 un momento nel quale «la storia arrivò ad un punto di svolta ma non riuscì a svoltare».
Nel lungo periodo, le idee discusse nel 1848 si sono però infiltrate nella cultura e alcuni dei piani rivoluzionari del 1848 si sono alla fine realizzati. Al termine del diciannovesimo secolo, il cancelliere Otto Von Bismarck unì realmente la Germania, e la Francia diede vita alla Terza Repubblica. Le nazioni una volta dominate dagli Asburgo conquistarono l’indipendenza dopo la prima guerra mondiale. Nel 1849 molte delle rivoluzioni del 1848 vennero giudicate disastrose, ma viste da una prospettiva più lontana, quella del 1899 o del 1919, cambiarono aspetto e apparvero come l’inizio di un cambiamento di successo.
Nel mondo arabo stiamo vedendo persone diverse con obiettivi diverse prendere il controllo delle manifestazioni di piazza, ognuna delle quali deve essere certamente presa in considerazione “nel proprio contesto”, come lo storico scrisse del 1848. In Egitto, le decisioni prese dai militari possono avere un peso non minore delle azioni delle folle. In Bahrein, il conflitto tra Sunniti e Sciiti è chiaramente centrale. Il ruolo dell’Islam non è lo stesso in Paesi diversi come la Tunisia e lo Yemen.
In Libia, il regime ha già dimostrato di essere capace di usare violenza contro la popolazione, mentre altri Paesi non lo hanno fatto. Per quanto sia facile cadere nella tentazione di mettere tutte queste rivolte nello stesso calderone e trattarle come una sola “rivoluzione araba”, le differenze tra questi Paesi potrebbero finire per essere più importanti delle loro similitudini.
È altrettanto vero che, entro il 2012, alcune o forse tutte queste rivoluzioni potrebbero dimostrarsi fallimentari. Le dittature potrebbero venire reinstaurate, la democrazia potrebbe non funzionare, i conflitti etnici potrebbero trasformarsi in violenze etniche. Come nel 1848, un cambio del sistema politico potrebbe richiedere molto tempo e non avvenire attraverso rivoluzioni popolari. La negoziazione, come ho scritto qualche settimana fa, è generalmente un sistema migliore e più sicuro per trasferire i poteri. Alcuni dei dittatori di queste regioni potrebbero alla fine rendersene conto.
Inoltre, pensare al 1848 aiuta a trovare un certo equilibrio. C’è stato un momento, nei giorni più caldi della rivoluzione in Egitto, in cui mi sono trovata seduta nel mio soggiorno, a guardare in diretta Hosni Mubarak parlare agli egiziani. Potevo vederlo parlare, sentire la traduzione, e vedere le reazioni della folla: per un momento, era possibile immaginare di vedere la rivoluzione svelarsi in tempo reale. Ma potevo vedere solo quello che le macchine da presa stavano mostrando, e molte delle cose importanti erano invisibili. Ad esempio, gli uomini in divisa che negoziavano dietro le quinte.
La televisione crea l’illusione di una narrativa lineare e dà agli eventi le sembianze di una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine. La vita reale non funziona così; il 1848 non ha funzionato così. È utile considerare il disordine della storia, di tanto in tanto, perché ci ricorda che il presente non è diverso.

l’Unità 28.2.11
Il futuro dell’Egitto: un’altra Turchia o un nuovo Iran?
di Stephen Kinzer


Il regime corrotto e repressivo di un dittatore diventa insopportabile quando la gente capisce che la sua famiglia intende conservare il potere per sempre. A quel punto emerge un movimento popolare che abbraccia ogni strato della società. Ed infine, quasi d’incanto, la famiglia che ha tiranneggiato una nazione per decenni, svanisce nel nulla. La gente prova un sentimento di euforia e d’improvviso scorge possibilità prima impensabili per sé e per il proprio paese. Tutti vogliono la stessa cosa: la democrazia e un posto rispettato nel consesso delle nazioni. È un momento sublime e raro della storia.
È accaduto in Nicaragua nel 1979. In quell’anno di trasformazioni violente ero inviato in quel Paese e ho potuto vedere quanto rapidamente può svanire l’euforia della vittoria. Con ogni probabilità questo mese – il febbraio del 2011 – sarà ricordato come il momento di massima unità degli egiziani. L’esempio del Nicaragua dimostra che debbono goderselo finché dura perché è probabile che possa svanire alla svelta.
Il raffronto tra le due rivoluzioni non è esattamente calzante. Il dittatore dinastico del Nicaragua, Somoza Debayle, fu deposto da un movimento di guerriglieri mentre il presidente Hosni Mubarak è stato rovesciato dal dilagare delle manifestazioni pacifiche di protesta. E ci sono scarse analogie tra un poverissimo, isolato Paese di tre milioni di abitanti e un Paese che vanta una cultura millenaria, un tradizionale potere regionale e 85 milioni di abitanti, tra cui un ceto medio di proporzioni non indifferenti. E non di meno la ribellione in Nicaragua e in Egitto è figlia delle medesime frustrazioni e dagli stessi sogni idealistici. La rivolta del Nicaragua non ha dato buoni frutti. Il Paese è in pace, ma è più povero di prima e non ha avuto alcuno sviluppo democratico.
Cosa è accaduto? Ideologie tra loro in conflitto alimentate dall’inesperienza dei nuovi leader hanno portato ad una situazione di spaccatura nel Paese. I militari alla lunga si sono rifiutati di cedere il potere ai civili. E alla fine il Nicaragua ha subito una violenta divisione. Le fazioni in guerra hanno cercato appoggi militari dall’esterno e il Paese è diventato teatro di tremendi spargimenti di sangue. A quattro anni da una rivoluzione appoggiata dal 90% dei cittadini del Nicaragua, il Paese era alle prese con la guerra civile. L’Egitto corre rischi analoghi. Il dittatore non c’è più, ma le strutture politiche ed economiche da lui costruite, restano in larga parte immutate. Non è del tutto chiaro in che misura i militari sono disposti a cedere il potere ai civili. La società civile è debole e, con l’eccezione della «Fratellanza Musulmana», ci sono pochi gruppi organizzati. Per delineare il migliore e il peggiore degli scenari possibili che attendono l’Egitto basta dare uno sguardo ai Paesi confinanti. Se tutto andrà bene, l’Egitto potrebbe diventare la Turchia del mondo arabo: una democrazia aperta ad economia capitalistica, fondamentalmente filo-occidentale anche se fortemente conraria alle politiche degli Usa in Medio Oriente e governata da musulmani osservanti che riservano alla religione uno spazio nella vita pubblica.
All’estremo opposto c’è l’Iraq. Le divisioni tra clan in Egitto non sono pronunciate come in Iraq, ma in entrambi i Paesi, un lungo periodo di stagnazione ha impedito l’emergere di una visione comune degli obiettivi e dell’identità della nazione. Ben presto gli egiziani potrebbero sentirsi frustrati dal presunto tradimento della rivoluzione. Nel caso in cui l’Egitto avviasse un processo di pacifica transizione verso la democrazia, inevitabilmente diminuirebbe il potere dell’esercito. Una pacifica transizione verso la democrazia in Egitto indurrebbe anche i popoli degli altri Paesi arabi a giungere alla conclusione che si trovano dinanzi ad un bivio: autocrazia o libertà. Tuttavia i dittatori vogliono che i popoli giungano ad una conclusione diversa, cioè a dire che la scelta è tra autocrazia e terrore. Fomentando il terrore in Egitto potrebbero conservare il potere. Tutti e tre i potenti regimi religiosi del Medio Oriente hanno interesse a non far consolidare la democrazia in Egitto. Per l’Arabia Saudita e Israele, un Egitto pacifico e democratico sarebbe un rivale pericoloso nei confronti di Washington. Per l’Iran rappresenterebbe la fine dei suoi sogni di egemonia regionale. Tutti e tre questi Paesi auspicano un Egitto instabile e potrebbero essere persino disposti ad agevolare questa instabilità. Conflitti interni che diventano vere e proprie guerre civili per conto di Paesi stranieri: questa spirale ha distrutto l’unità nazionale in Nicaragua e, più di recente, in Iraq. Ed ora la medesima spirale minaccia l’Egitto. Le polemiche sul ruolo dell’esercito metteranno presto in pericolo l’unità nazionale di cui sembra godere al momento l’Egitto. La gente capisce che l’esercito è essenziale ai fini di una transizione pacifica, ma vuole anche limitarne il potere. Gli egiziani chiedono anche lo smantellamento delle corrotte strutture economiche del regime di Mubarak, ma iniziative in tal senso colpirebbero direttamente l’esercito che ha costruito una fitta ragnatela di investimenti e interessi economici con Mubarak e i suoi sodali. Inoltre i generali egiziani hanno rapporti molto amichevoli con i loro colleghi americani e israeliani e si opporranno ad eventuali richieste di drastici cambiamenti della politica dell’Egitto nei confronti di Israele.
Nel corso della storia pochissimi sono stati gli esempi di militari che si sono ritirati tranquillamente e spontaneamente nelle loro caserme cedendo il potere ai civili. L’esempio incoraggiante è quello della Turchia dove negli ultimi dieci anni gli elettori hanno notevolmente ridotto il potere in mano ai militari e i generali hanno accettato di farsi emarginare. Ma quel processo ha richiesto una generazione.
In Egitto l’esercito ha deciso di abbandonare Mubarak perché ha capito che per salvare il sistema era necessario sacrificare il suo dittatore. Tuttavia le centinaia di migliaia di persone che hanno riempito piazza Tahrir desiderano abbattere quel sistema. Non è forse così? Gli obiettivi comuni del popolo all’indomani della rivoluzione sono vaghi e confusi. In Egitto due gruppi sono convinti di aver rovesciato Mubarak. I dimostranti pensano che sia uscito di scena a seguito della pressione morale esercitata dalla folla. I comandanti militari, tuttavia, si attribuiscono il merito della caduta di Mubarak. Dal loro punto di vista, hanno organizzato un colpo di Stato per impedire una transizione dinastica e hanno approfittato delle manifestazioni di protesta servendosene come pretesto. Questi due gruppi hanno agende contrapposte e ben presto entreranno in conflitto. Se era necessaria una rivoluzione, allora non c’è ancora stata. E i generali faranno di tutto per impedire che ci sia. Può anche darsi che i dimostranti scendano nuovamente n piazza. L’Egitto sta per affrontare un periodo di instabilità. La Turchia è il suo sogno. Il Nicaragua e l’Iraq il suo incubo.

l’Unità 28.2.11
Intervista a Predrag Matvejevic
«Mediterraneo, l’Italia crede sia un peso»
Secondo lo scrittore l’Europa e il nostro Paese in particolare non vedono i vantaggi che derivano da una maggiore integrazione con i popoli vicini
di Umberto De Giovannangeli


Al Mediterraneo, alla sua storia, ai suoi popoli, alle sue tensioni, alle sue speranze, ha dedicato tre libri di grande successo: «Breviario Mediterraneo» (Garzanti), 11 edizioni, tradotto in 23 lingue, «Il Mediterraneo e l’Europa» (Garzanti), e il recente, «profetico», «Pane Nostro» (Nuova biblioteca Garzanti), uscito due mesi fa, alla vigilia della «rivolta del pane» in Tunisia. Per la sua sensibilità culturale, e per il suo percorso di vita, Predrag Matvejevic è lo scrittore che più e meglio può cogliere il senso e le pulsioni delle rivolte che stanno scuotendo il Maghreb e il Vicino Oriente. Guardando all’Italia, Matvejevic riflette amaramente: «Al di là delle belle parole, l’Italia è priva di una politica mediterranea adeguata. È nel cuore del Mediterraneo ma non sembra avere a cuore il Mediterraneo». Nella sua ultima fatica letteraria, «Pane Nostro», Matvejevic trasforma il più umile dei prodotti in una grande metafora, un ponte tra civiltà diverse, cresciute su sponde opposte dello stesso mare, ma accomunate da un retroterra culturale identico. «Una comunanza dice a l’Unità che gli eventi di questi mesi, di questi giorni, tendono a rafforzare, solo che se ne colga l’essenza più profonda». Una «essenza» di libertà.
Professor Matvejevic, qual è a suo avviso la portata degli eventi che dalla Tunisia alla Libia, dall’Egitto al Bahrein, stanno sconvolgendo la sponda Sud del Mediterraneo? «L’evento è comparabile con il grande sisma che si produsse in Europa con la caduta del Muro di Berlino nel 1989; un sisma che provocò la disgregazione dell’Urss e dell’impero sovietico. Allora assistemmo ad un effetto domino che segnò tutta l’Europa dell’Est, ed oggi lo stesso avviene in questo spazio che va dalla Tunisia all’Asia minore. Detto delle analogie, c’è però un differenza da rilevare...».
Quale?
«Sulla sponda Sud del Mediterraneo e nei Paesi arabi non abbiamo visto un Gorbaciov, né un Lech Walesa o un Vaclav Havel, vale a dire grandi personalità portatrici di una proposta concreta, di lungo respiro. A muovere le rivolte c’è stata una doppia “fame”: quella materiale, ad esempio in Tunisia – e qui c’è la coincidenza con il mio ultimo libro “Pane nostro” uscito due mesi fa – e una “fame” di diritti, di futuro. Ma questa seconda “fame” non ha ancora trovato personalità capaci di rappresentarla, di trasformarla in una visione strategica, in progetto. Vecchie nomenclature sono state spazzate via ma sulle macerie dell’”ancien régime” arabo stenta ancora a fiorire una nuova classe dirigente...».
In questo scenario, l’Europa?
«L’Europa ma più in generale l’Occidente, deve affrontare questo “sisma” prendendo atto delle sue responsabilità, della sua colpevolezza. Sappiamo che la Francia ha sostenuto Ben Ali, l’Italia Gheddafi, gli Stati Uniti soprattutto Mubarak. Scelte di comodo, miopi, che in nome della “Stabilità” sacrificavano principi e diritti che pure si sostenevano universali...».
Ed oggi?
«Oggi siamo di fronte a cambiamenti epocali. Tutti temiamo che l’islamismo radicale possa esercitare un pe-
so più grande rispetto ad altri movimenti non così ancora ben definiti, sia sul piano organizzativo che su quello identitario. In alcuni di questi Paesi, come l’Egitto, i movimenti islamici possono contare su un consenso del 30% della popolazione; un consenso che potrebbe accrescersi tra popolazioni che non hanno vissuto una sufficiente laicità. Ma questa “deriva” islamista può essere evitata non demonizzandola ma dando credito, stabilendo rapporti, riconoscendo che in questo “sisma” si muovono, sono attivi gruppi, movimenti che hanno scommesso sulla possibilità di coniugare Islam e democrazia, tradizione e modernità, e che cercano con l’altra sponda del Mediterraneo, con l’Europa un dialogo alla pari. Sta a noi non tradirli. Una cosa è certa: l’effetto domino non si fermerà. Esso potrebbe estendersi in altri Paesi dell’Asia e dell’Africa sub sahariana. Alcuni temono, e altri sperano, che si riproduca in Cina e in Corea del Nord...Sulla scacchiera mondiale, in un mondo globale, vediamo aprirsi crepe sempre più profonde ed estese che stanno cambiando la storia davanti ai nostri occhi, in tempo reale».
Di nuovo emerge il tema del ruolo
dell’Europa...
«Purtroppo l’Europa non si occupa del Mediterraneo. Abbiamo visto il fallimento della Conferenza di Barcellona dopo il naufragio della proposta del presidente francese Nicolas Sarkozy di dar vita a una Unione del Mediterraneo, proposta accolta male da diversi Paesi europei che pesano e molto, a cominciare dalla Germania. Per quanto riguarda l’Italia, il discorso si fa triste. Al di là delle belle parole, l’Italia è priva di una politica mediterranea adeguata. È nel cuore del Mediterraneo ma non sembra avere a cuore il Mediterraneo. Tutto viene vissuto in termini di minaccia e inserito in una logica emergenziale: i respingimenti in mare, le impronte digitati da prendere ai bambini rom...Sulla paura non si costruisce nulla di buono».
Un tratto caratterizzante, al di là delle specificità nazionali, del “sisma” maghrebino ed egiziano, è il protagonismo dei giovani...
«Ed è ciò che fa ben sperare. Perché i giovani coniugano valori e aspettative al futuro e non al passato. Ed è un discorso che non riguarda solo quei Paesi in cui si sono sviluppate le rivolte. Ed è un discorso che riguarda anche l’Italia. Io ho insegnato per 14 anni all’Università La Sapienza di Roma, e ho avuto modo di veder crescere, maturare, formarsi tantissimi giovani capaci, preparati, che per trovare la loro strada hanno dovuto cercarla all’estero. Questo fenomeno è ancora più grande sulla sponda Sud del Mediterraneo, dove tanti giovani hanno acquisito una cultura tecnologica moderna, anche nell’uso dei nuovi mezzi di comunicazione: Internet, Twitter, Facebook... Chiedono di poter realizzare le loro aspettative e si scontrano con regimi anacronistici, con gerontocrazie che hanno come ambizione quella di fermare il tempo...Lo scontento dei giovani è naturale. La loro rabbia è salutare. Come l’insopprimibile bisogno di cambiamento che li anima».

domenica 27 febbraio 2011

l’Unità 27.2.11
Bersani a Bologna in un incontro con Prodi: «Il premier è al tramonto, ma occhio ai colpi di coda»
Questo governo è riuscito in una sola impresa: «Siamo sui carri di carnervale di tutto il mondo»
«Berlusconi si è comprato la maggioranza in Parlamento»
Il segretario del Pd a Bologna in un incontro con Romano Prodi ha detto che Silvio Berlusconi è al tramonto ma che bisogna stare attenti ai colpi di coda. Non cade perché «si è comprato la maggioranza».
di Simone Collini


«Good speech». Gunter Verheugen si avvicina a Pier Luigi Bersani mentre la platea del teatro Manzoni di Bologna si va svuotando. L’ex commissario Ue, che è stato invitato dall’associazione Nens a questa edizione di «Manifutura» per discutere con Romano Prodi di politica industriale e prospettive dell’Unione europea, vuole complimentarsi con il segretario del Pd per il discorso che ha appena pronunciato dal palco. Ma c’è anche un’altra questione di cui vuole parlare il politico tedesco. Dall’inglese passa alla sua lingua. L’interprete che è al suo fianco traduce. «Allora, quand’è che finalmente ci liberate da Berlusconi?», dice con un sorriso appena abbozzato. Anche Bersani abbozza un sorriso, ma poi si fa serio. «È al tramonto, ma ci aspettano tempi difficili, anche dal punto di vista della tenuta istituzionale. Farà di tutto pur di non mollare». L’ex commissario europeo per l’Industria strizza gli occhi dietro le spesse lenti, avvicina ancora di più il capo a quello di Bersani, con l’interprete costretta a fare altrettanto, e domanda come sia possibile che non si sia ancora arrivati alle dimissioni. Il leader del Pd quasi lo sussurra: «Ha comprato la maggioranza». Adesso Verheugen gli occhi li spalanca, e Bersani continua spiegando che ormai non è neanche più soltanto questione di controllo delle televisioni o dei giornali di famiglia utilizzati per colpire chi può dar fastidio, perché l’obiettivo principale non è un consenso sempre più difficilmente ottenibile, ma la sopravvivenza in Parlamento con ogni mezzo. Parlano ancora un po’, poi il politico tedesco lo saluta augurandogli «viel Glück». Buona fortuna. Di nuovo si scambiano un sorriso, ma è piuttosto tirato.
TRA POLITICA E REATI
Bersani per ora non vuole calcare la mano su un premier che ha «comprato la maggioranza» pur di non farsi da parte. In pubblico continuerà a denunciare, come ha fatto anche ieri parlando al festival “Manifutura”, l'inadeguatezza di un governo che di fronte alla crisi economica «non dice la verità e narcotizza il Paese, che va col pilota automatico», non persegue una politica industriale e si affida a uno come Tremonti che «sarà pure un bravo filosofo, anche se ne dubito, ma non un bravo idraulico, perché non ha mai messo mano all'economia reale». Ma il leader del Pd è pronto a cavalcare anche pubblicamente la questione della «compravendita in Parlamento», convinto com'è che il caso di Gino Bucchino sia tutt'altro che isolato e che presto emergerà che «non si può più parlare di politica ma di reati».
Non c'è solo il fatto che la Procura di Roma abbia aperto un fascicolo su quanto denunciato dal deputato Pd eletto all'estero. Bucchino ha raccontato a Bersani che la proposta fattagli dal segretario di Rifondazione socialista Giuseppe Graziani (che ammette l'incontro ma nega di aver offerto soldi) per conto del coordinatore del Pdl Denis Verdini (che nega ogni coinvolgimento) di una ricandidatura e 150 mila euro in cambio del passaggio al gruppo dei “Responsabili”, sarebbe dovuta essere formalizzata da un notaio. Il che vuol dire che potrebbero esserci in giro degli atti notarili compromettenti, che al di là del segreto professionale ci potrebbero essere dei pubblici ufficiali pronti a denunciare un illecito, che l'azione della Procura di Roma potrebbe spingere altri parlamentari a rivelare di essere stati contattati per simili offerte. Per ora sono supposizioni, ma Bersani non avrebbe concordato con Bucchino l'idea di convocare una conferenza stampa a Montecitorio se non fosse sicuro che la sua uscita provocherà reazioni e avrà concrete conseguenze. Il leader del Pd però sa anche che la battaglia sarà dura e i «colpi di coda» di Berlusconi «pericolosi». Per questo vorrebbe che anche le classi dirigenti «si risolvano a parlare»: «Non è possibile né onesto limitarsi a dire che non si fanno le riforme senza tirare le conseguenze, e cioè che in questa situazione non si possono fare le riforme, perché il modello personalistico è impotente a prendere decisioni, avvitato com'è tra sondaggi e annunci, senza voler disturbare nessuno». E poi, se è vero che è interesse di tutti attirare investimenti esteri, difficilmente ci riusciremo finché l'Italia sarà rappresentata da questo governo che è riuscito solo in un'impresa: «Siamo sui carri di carnevale di tutto il mondo».

l’Unità 27.2.11
Intervista a Nichi Vendola
«La mia sfida? Costruire una grande forza di sinistra»
Il governatore della Puglia «Io con Bersani? Saranno loro a confluire in Sel Sulla sanità nulla da rimproverarmi. Ho sempre agito per l’interesse pubblico»
di Andrea Carugati


Sulla vicenda della sanità pugliese, Nichi Vendola tira una riga netta: «Non ho nulla di cui rimproverarmi, ho sempre e solo agito per tutelare l’interesse pubblico». E sulla politica nazionale si concede una seconda provocazione al Pd, dopo aver proposto Rosy Bindi alla guida di una larga coalizione. «Io entrare nel Pd? Il futuro è un mare aperto, e quel partito mantiene una natura incerta. Potrebbe essere il Pd a dover confluire in Sel, il tema vero è la costruzione di un grande partito di sinistra del 21esimo secolo, popolare, innovativo, unitario». Presidente, pensa che la sua immagine di innovatore e alfiere della questione morale non sia stata intaccata dall’inchiesta pugliese? «Penso proprio di no. Dopo una radiografia minuziosa di interi anni della mia attività di presidente sono arrivate due archiviazioni. Non ho mai minimizzato la questione morale, anche quando ha lambito la mia giunta. E sul rapporto tra politica e sanità, in Puglia abbiamo fatto una rivoluzione copernicana, costruendo un percorso che a fine aprile ci consentirà di nominare il nuovo management della sanità sulla base di criteri ipermeritocratici. E anche se la legge impone alla giunta regionale di nominare i direttori delle Asl, non ho mai praticato lo spoil system. Ho sempre e solo avuto la preoccupazione, direi l’ossessione, che fossero persone perbene, come emerge anche dalle intercettazioni».
Sembra che le elezioni nazionali si allontanino. Lei cosa farà? «Andrò avanti ponendo al centrosinistra i temi che per me sono essenziali. Il mio obiettivo è ricostruire la sinistra, il centrosinistra e l’Italia. Lo dico a Bersani con rispetto: la sinistra si è inaridita per l’incapacità di alzare gli occhi dal Palazzo, l’assenza di guizzi è un rischio mortale. Non ci si può presentare come buoni amministratori di condominio: evocare il cambiamento non è una favoletta per bambini. Considero molto vecchio il riformismo che non pone domande al modello ottocentesco di Marchionne».
Quindi porterà la sfida tutta sui contenuti? «L’obiettivo è costruire il nuovo centrosinistra e vivere il tema del compromesso necessario tra sinistra e moderati non come equilibrismo tattico o mediazione deteriore, ma mettendo al centro la fuoriuscita dalle vecchie e nuove forme di povertà. È possibile che le cose più di sinistra in Italia le debba dire il governatore Draghi?». Lei vede l’alleanza nel perimetro PdSel-Idv?
«Ho trovato la proposta di Grande coalizione imprudente e autolesionista perché poteva determinare l’implosione di quella nuova destra che è uscita dal berlusconismo ma non poteva essere attratta dal centrosinistra. E tuttavia, ascoltando le richieste che arrivavano, da D’Alema al Manifesto, ho detto sì alla coalizione democratica per riscrivere le regole, ma senza imbrogli. E l’imbroglio è l’idea di una coalizione tecnocratica, guidata da tecnocrati liberisti. Sono stato leale, ma sarò sempre all’opposizione di un’ipotesi del genere. Per questo ho proposto Rosy Bindi come candidato premier».
Uno sgarbo a Bersani...
«Niente affatto. Li ho presi sul serio e ho indicato il presidente del Pd, anche perché la violenza anti-femminile è un pezzo della crisi del Paese. È paradossale che sia stata letta come una proposta strumentale. E mi secca che anche la Bindi lo dica».
E se alla guida ci fosse Draghi?
«È un tecnocrate liberista. La transizione deve avere una guida politica, legata al tema delle regole. Le politiche economiche e sociali non sono neutre, se qualcuno pensa che la distruzione del welfare sia una mossa necessaria per contenere il debito pubblico io alzo un dito e me ne vado».
E le primarie? Che fine hanno fatto?
«Vedo che anche D’Alema ora considera la possibilità di una vittoria del centrosinistra nel formato PdSel-Idv. Questo ci riporta al tema delle primarie, che è ineludibile».
Da fare quando?
«Non ho il copyright, lo decideremo insieme agli alleati, non vorrei che tornasse la campagna su una sorta di mio ritornello petulante. Vorrei che, con le primarie, si parlasse di lavoro, di green economy, di questa Europa vecchia e arroccata nei privilegi, delle rivolte nel Mediterraneo. Vedo che Rutelli dice che io sono “conversazione e conservazione”. Questa politica da cicisbei è insopportabile: non c’è mai la sostanza, la società, solo il teatrino delle battute in cui io non intendo entrare».
Se non si vota lei e Sel rischiate di perdere questo “momento magico”... «Il successo di Sel risponde a una domanda materiale che c’è nel Paese, il bisogno di rappresentanza dei giovani e del lavoro. Intercettiamo un sentimento più largo della stessa sinistra. Io sono un interlocutore credibile anche per l’impresa del Nord, grande e piccola, perché dico loro la verità su innovazione, ricerca e ruolo del sindacato. Anche Fanfani e Donat Cattin avrebbero avuto parole dure verso lo stile Marchionne. I miei non sono discorsi da fortino ideologico».

il Riformista 27.2.11
Cambiare l’Italia. Oggi la manifestazione a Roma al Teatro Tendastrisce
Vendola rilancia la sfida al Pd per la leadership
Il governatore si difende sull’ultimo scandalo sanità in Puglia e ripropone le ambizioni: costruire un nuovo soggetto della sinistra assorbendo anche pezzi di democrat delusi.
di Ettore Colombo

qui
http://www.scribd.com/doc/49630783

Repubblica 27.2.11
Su Facebook il sindaco Emiliano replica alle accuse del governatore dopo l´arresto dell´ex assessore alla Sanità
"Caro Vendola, Tedesco lo hai nominato tu e non era del Pd"


BARI - «Caro presidente, le cose non stanno come tu dai qualche volta ad intendere». Michele Emiliano affida a Facebook la propria replica a Nichi Vendola. Al governatore pugliese, che lo accusa di avere, insieme con il Pd, fatto quadrato intorno all´ex assessore della Sanità, Alberto Tedesco, e contro di lui, il sindaco di Bari e presidente regionale dei Democratici replica con un po´ di disappunto. «Tedesco - dice Emiliano a Vendola - è stato da te nominato quando era solo il leader dei Socialisti autonomisti e non era né della Margherita né dei Ds. Questo non dimenticarlo mai. Solo due anni dopo, nel 2007, Tedesco ha aderito al Pd. Nei primi due anni chi ti aveva suggerito il suo nome?».
Proprio nel 2007, ricorda Emiliano, «nel corso del mio primo incontro con il presidente della regione Vendola, gli suggerii di spostare Tedesco ad altra delega diversa da quella della sanità a causa del suo conflitto di interessi. Vendola mi disse che i contraccolpi politici sarebbero stati imprevedibili». Infine, l´affondo: «Dopo qualche mese, Vendola mi disse che era pronto a sostituire Tedesco con il direttore della Asl di Bari Lea Cosentino. Mi dissi perplesso perché era noto a tutti il legame personale tra il presidente e la Cosentino. Vendola ascoltò il mio suggerimento. Col senno di poi, credo che tale prudenza sia stata premiata: anche la Cosentino è stata coinvolta in vicende giudiziarie». (r.lor.)

il Fatto 27.2.11
Un mondo senza testa
di Furio Colombo


È stata la vicenda libica ad agganciare l’attenzione costernata del mondo, è stata la violenza folle e crudele di un capo di Stato senza principi e senza scrupoli divenuto un sanguinario serial killer in questi suoi ultimi giorni di permanenza e di resistenza, una specie di Hitler ancora più folle che, si dice mentre scriviamo, sta pensando di bombardare le sorgenti del suo petrolio in modo da creare una morte immensa per tutti, chi lo ha sostenuto e chi lo ha combattuto fino alla fine.
In questo spettacolo di ferocia totale sono sembrate quasi normali le transizioni di regime avvenute in Egitto e Tunisia. Ma non lo sono. Sono Paesi in attesa di colmare un vuoto di identità, di governo e di futuro. E di tutto ciò per ora si intravede ben poco. Altri Paesi sono già nel tormento della rivolta che ormai chiamiamo “di popolo” ma che in realtà sono un fatto raro nella storia: la folla è pronta ma non c’e il leader. Nessuno chiama, nessuno guida.
Gli editori lo sentono già nell’aria: fra poco sociologi e politologi presenteranno saggi freschissimi per celebrare i due fatti nuovi: i popoli giovani si liberano da soli. E la tecnologia informatica consente un tipo di contatto, di persuasione reciproca e di autoconvocazione che prima non era mai esistita e che, d’ora in poi, sarà il percorso fatale dei grandi eventi politici di massa.
Stati senza governi
LA NOSTRA inevitabile attenzione, ammirata, ansiosa per ciò che sta accadendo in una parte molto importante del mondo arabo, l’offesa che proviamo per la stupida crudeltà di Gheddafi (e, per noi italiani la vergogna, di essere tuttora legati a Gheddafi da un trattato detto di “stretto partenariato” che ci vincola persino a dargli sempre ragione, come ha fatto il governo del nostro Paese) ci distrae da fatti che stanno accadendo in altri importanti parti del mondo.
Per esempio, l’Irak paese noncerto privo di ricchezza e potenza e importanza strategiaca è senza leader e senza governo, dopo regolari elezioni, da quasi un anno. Per esempio in Libano non riesce a emergere e a sopravvivere un leader capace di guidare, se non il Paese, almeno un credibile governo di compromesso. Per esempio in Somalia il mondo ha perduto la speranza che ci possa mai più essere un governo e uno Stato. Ma non consola il pensiero che tutto ciò avviene in Paesi senza tradizione democratica. In Europa c’è il Belgio. Non ha governo da 249 giorni. Sono diventate tipiche, infinite, colorate, nonviolente le dimostrazioni dei cittadini che vogliono stare insieme, ovvero si oppongono alla stupida idea di spezzare il Paese secondo le linee di divisione fra fiamminghi e valloni. Ma sopratutto una cosa balza agli occhi. C’e il Belgio, ci sono i Valloni e i Fiamminghi, ci sono partiti e le diverse proposte politiche ed economiche. Volendo c’e una politica estera, magari altrettanto grigia e nebbiosa come tutta la politica estera europea. Manca un leader. Non stiamo parlando della personalità che trasuda carisma e comunica consenso. Stiamo soltanto parlando di qualcuno capace – ma anche determinato – a tenere insieme due popoli che non sono davvero divisi, a formare un governo, a gestire una amministrazione e a far funzionare le istituzioni. C’e anche un re, in Belgio, dunque un di più di cerimoniale e di forma che può dare una mano alla buona volontà di mettersi alla testa del corteo. Ma non basta. Nessuno vuole guidare l’autobus Belgio, qualunque sia la strada da percorrere. Però se allarghiamo l’inquadratura vediamo che la situazione di marcia senza capo che sto descrivendo va molto al di la di singoli esempi o di grandi momenti che sembrano la storia ma che, senza una interpretazione (chi sono, chi li guida, che cosa vogliono, dove vanno a finire?) restano una vicenda oscura che molti esaltano e molti vedono come un pericolo. Per esempio: gli immensi e ostinati cortei studenteschi che hanno sconvolto per settimane l’Italia, comparsi dal nulla e finiti nel nulla. Di uno di quei cortei, a Roma, è rimasta l'immagine di un giovane che non è nè polizia nè dimostrante, ma colpisce in modo violento un altro giovane dimostrante con un colpo di casco al viso. Diciamocelo chiaro, ancora adesso non sappiamo chi era davvero l’aggressore e se siamo di fronte a un breve scatto di follia o a qualcosa di misteriosamente preordinato.
Ma le proteste operaie? Alcune, anche estreme, come l’arrampicarsi sulla gru di una fabbrica chiusa o abbandonata, come la minaccia di suicidio, estrema manifestazione spontanea, come l’esilio volontario di centinaia di operai nell’isola dell’Asinara, alternativamente ricordati e dimenticati, secondo i momenti e secondo i media.
Ricordiamoci che anche la più grande manifestazione mai avvenuta nell’Italia repubblicana, la manifestazione delle donne in più di duecento piazze di italiane, appena poche settimane fa, è nata da una grandiosa autoconvocazione da persone sconosciute a persone sconosciute.
Spinte dal basso
INSOMMA molto di ciò che sta accadendo nel mondo, una vasta dissociazione popolare da ciò che, al momento è il potere, una dissociazione allo stesso tempo clamorosa e prevalentemente nonviolenta, accade con una sorta di spinta dal basso che, in alto, non è accolta e non è attesa da nessuno. Anzi, nessuno si mette alla testa della nuova massa di cittadini (in genere i più giovani) che spontaneamente si è radunata.
Se ci si pensa bene, la domanda: qui chi è il leader? attraversa tutto il mondo. C’è, dentro questa nuova, imprevista situazione di masse che non hanno capi, una serie di domande che stanno al momento senza risposta.
Il capo manca perché, per uno strano e inedito fenomeno, non c’è, o perché è rifiutato? Il nuovo assestamento (strutture umane autoconvocate e libere dalla ricerca di un capo) si è formata - per ragioni che evidentemente ancora non sono state studiate – in una nuova psicologia e sociologia dei movimenti; oppure è la tecnica di connessione (la rete) che rende fluido e rapido il contatto orizzontale ma non ha interesse alla struttura verticale dell’auto-assemblea che sta nascendo, ovvero: metterci sopra un capo?
Se dunque qui si colloca la speranza e l’interesse per il nuovo che sta nascendo e che spontaneamente scavalca i turni generazionali di cui tanto si discute, esiste un diverso ma non infondato motivo di ansia. Che cosa accadrà se gruppi bene organizzati e del tutto separati dalla protesta si terranno pronti, in nome di interessi o di ideali che non conosciamo, a mettersi alla testa dei grandi movimenti spontanei nati dall rete? Ogni denuncia di questo genere al momento è strumentale. Chi vuole seminare il panico vede Al Quaeda come il leader delle folle in rivolta in tutto il Nord Africa. Chi ha interesse a screditare studenti e sindacati li riveste, ogni volta di pericolose intenzioni eversive. Resta il fatto che, tuttora, l’opinione pubblica, ma anche quella degli esperti ha una certezza (dalla rete nasce una aggregazione diversa di “popolo”) e un dubbio che a volte è un incubo: chi si impossesserà delle rivoluzioni in un mondo senza leader?

Repubblica 27.2.11
I profeti del cinismo
di Guido Crainz


La vera egemonia culturale degli ultimi anni ha avuto il segno del cinismo, ha scritto Michele Serra, ed è difficile dargli torto.
Perché quell´orientamento si è imposto? Attraverso quali percorsi e opzioni, ma anche attraverso quali sconfitte, rinunce, rese? Come invertire la tendenza? O meglio, come consolidare i segnali di opposta natura che iniziamo a cogliere?
Domande come queste possono apparire superflue se si rovescia ogni colpa su mali eterni e inguaribili degli italiani. Hanno molto senso, invece, se pensiamo che il prevalere del cinismo sia andato di pari passo con i processi di degenerazione della Repubblica e con l´incapacità di porvi argine. E che su questo crinale abbia messo radici profonde, con le quali dobbiamo fare i conti.
Quel prevalere ha trovato indubbiamente impulso - anche in questo ha ragione Serra - nel rifluire della tumultuosa stagione degli anni Sessanta e Settanta, e nelle macerie che essa ha lasciato. Lo ha trovato nel declino delle speranze e al tempo stesso nell´avanzare di processi profondi di corruzione e decadimento delle istituzioni: essi faranno la loro marcia trionfale negli anni Ottanta ma sono già evidenti nell´avvio del decennio. E´ nel 1980 che Italo Calvino scrive su queste pagine un Apologo sull´onestà nel paese dei corrotti che ha un avvio fulminante: "c´era un Paese che si reggeva sull´illecito". In quegli stessi mesi Massimo Riva vedeva profilarsi fra i miasmi di una corruzione senza precedenti il "Fantasma della Seconda Repubblica" e osservava amaramente: ogni giorno che passa si attenua la speranza che l´alternativa possa essere rappresentata da "un politico sagace e democratico, cresce il timore che possa farlo con successo qualche avventuriero senza scrupoli". Era, appunto, il 1980, e l´anno dopo Giuseppe Tamburrano scriveva un racconto fantapolitico ambientato nel 1984: prevedeva per le elezioni di quell´anno "una valanga di voti contro lo ‘Stato dei partiti´" (con il Pci "crollato al 21%", la Dc al 14%, il Psi al 7%) e "una maggioranza assoluta di uomini nuovi", eletti a furor di popolo per seppellire quel che restava della democrazia italiana.
Fantapolitica, come si vede, presto dimenticata nei ruggenti anni Ottanta. Un profondo corrompersi della politica (e la crescente disaffezione nei suoi confronti) andò allora di pari passo con processi che investivano per intero il modo di essere del Paese. Con il progressivo prevalere, appunto, della "società cinica" sulla "società civica", per dirla con il sociologo Carlo Carboni: un prevalere che portò con sé anche l´indifferenza crescente ai processi di corruzione, agli scandali, all´involgarirsi della comunicazione politica (cui il nuovo panorama televisivo offriva scenari e stimoli inediti). Il tutto favorito, naturalmente, dal deperire di alternative adeguate. Qualcuno osservò allora che con il "compromesso storico" la sinistra aveva smarrito il Progetto, e con Craxi il Candore: l´osservazione era un po´ impressionistica ma non del tutto infondata. Si giunse così al tracollo dei primi anni Novanta: improvviso e inatteso, ma non difficilissimo da spiegare. L´esplodere di Tangentopoli rivelò in realtà - lo sottolineava bene alcuni anni fa Barbara Spinelli - un vero disastro nazionale, che coinvolgeva la società e la politica. E fu un disastro, aggiungeva, anche per quel che non abbiamo imparato da esso. Per la lezione che non ne abbiamo tratto. Il mito di una società civile sana contrapposta a un ceto politico corrotto aiutò allora a rimuovere il deficit di moralità collettiva che si era accumulato. Favorì nuove illusioni, che trovarono in Bossi e in Berlusconi i loro araldi. Del resto, il favore popolare nei confronti di Mani Pulite cominciò a deperire quando l´estendersi delle indagini rivelò la fragilità e la labilità dei confini fra società civile e ceto politico: il primo ad avvertirlo fu un giudice, Gherardo Colombo. Il miracolo promesso dall´"uomo nuovo" di Arcore, inoltre, accoglieva pienamente al suo interno i modelli sociali e culturali che si erano delineati negli anni Ottanta. Permetteva ad essi di uscire rafforzati e non indeboliti dalla catastrofe etica che si era rivelata. E il Cavaliere non mancò mai di manifestare, coerentemente, la sua solidarietà a Craxi, sino alla beatificazione postuma (e sino ad ereditarne collaboratori e aedi). Altrettanto coerentemente - sia detto per inciso - l´articolo di Serra non è piaciuto a Giuliano Ferrara, che sul "Foglio" - dopo aver citato i "paradossali e moralistici elogi del malandrino" del suo giornale - ha dato una brillante dimostrazione di come si possano mescolare arbitrariamente fatti, categorie e concetti (in attesa della grande platea di Raiuno, in coda al Tg di Minzolini: evocando abusivamente, come negli anni Ottanta, una storica trasmissione di libertà, contrapposta al fascismo, di cui era proibitissimo l´ascolto). La stagione berlusconiana ha consolidato potentemente, insomma, modelli formatisi in precedenza ma il suo volgere al termine mostra l´interna debolezza di essi. Li rivela impietosamente a se stessi. Non è forse casuale che nei giorni scorsi sia naufragato un maldestro tentativo di trasferire le scene finali del Caimano nella realtà, davanti al Palazzo di giustizia di Milano. Altri tentativi potranno certo esser fatti con maggior impegno ma la capacità di mobilitazione populista era stata alimentata negli anni scorsi dal permanere di una qualche fiducia nel "miracolo" promesso dal Cavaliere. Ed è destinata a deperire assieme ad essa. Assieme alla riscoperta - anche all´interno della "società cinica" - che le regole non sono un´ingiusta vessazione ma una difesa essenziale, per tutti. Irrinunciabile, in crisi profonde come quelle che viviamo. Ha qui radici il crescente appannarsi della credibilità del premier, che trova ormai puntelli solo nell´assenza di alternative. Di qui, anche, l´importanza degli inaspettati e straordinari pronunciamenti collettivi che hanno fatto irruzione sulla scena dopo moltissimo tempo. Sullo sfondo di essi vi è il riemergere di una consapevolezza che sembrava dimenticata, sepolta dalle delusioni e dalle disillusioni. Una consapevolezza cui dava voce ancora Italo Calvino nel lontanissimo 1977, in un´Italia minacciata dall´offensiva terroristica e aggredita dai processi di degenerazione delle istituzioni: "Lo Stato siamo noi proprio perché lo Stato dà sempre più di frequente prova di non esistere. L´insipienza dei governi ci ha portati al punto in cui i problemi, lasciati aggravare, esplodono l´uno dopo l´altro (…). Lo Stato oggi consiste soprattutto nei cittadini democratici che non si arrendono, che non lasciano andare tutto alla malora". E´ necessario ancora partire da qui, ma sarà difficile andare molto lontano e molto in profondità se dal centrosinistra non verranno quei segnali di rinnovamento radicale che sinora non sono venuti. Se una "partitocrazia senza partiti" e da tempo afasica, prigioniera dei temi e dei tempi del premier, non inverte la tendenza, non contribuisce a mettere realmente al centro i nodi del Paese e la speranza di futuro. Anche facendo un passo indietro, volto alla sua stessa rigenerazione e rivitalizzazione. Anche pensando realmente a mettere in campo, in un domani non lontano, una ipotesi di governo fondata su figure di altissima autorevolezza e competenza. Un´ipotesi che abbia la credibilità e la forza per alimentare i fermenti positivi della società e per offrirsi ad essi come riferimento sicuro e affidabile.


l’Unità 27.2.11
Camusso: «L’Italia non è un Paese che chiude le porte»


«Non siamo un Paese che chiude le frontiere e si volta dall’altra parte perché faremmo un torto a noi stessi facendo finta che non ci sia la crisi», dice il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, che insiste: «noi siamo con Napolitano, che ha detto basta con gli allarmismi sui migranti. Servono parole vere, bisogna pronunciarsi contro i crimini contro l'umanità, il governo deve dirci che cambia la sua politica nei rapporti con gli altri Paesi». Camusso ripete: «il primo problema è fermare le armi ne il massacro» e poi «ci sarà da discutere davvero perché pagheremo gli effetti di una politica estera ed economica che ha scelto la strada delle alleanze con i dittatori e non quella delle relazioni internazionali». Al governo italiano, il segretario della Cgil chiede di «smettere di dire che il problema sono le povere persone in fuga dalla morte». Che «dicano invece come risanare l’economia del Paese: non ci può essere lavoro senza diritti, anche quei popoli migranti ci stanno chiedendo di aiutare ad affermare i loro. Il nostro obiettivo è far crescere i loro diritti, non ridurre i nostri».

l’Unità 27.2.11
Intervista a Laura Boldrini
«Basta allarmismi, aiutiamo Egitto e Tunisia a riceverli»
La portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: «Pensiamo all’emergenza umanitaria. Sbaglia chi grida all’invasione: dalla Libia non è arrivato nessuno»
di Rachele Gonnelli


C’è chi pensa sia esagerata, persino allarmistica, la stima di un milione e mezzo di immigrati in fuga dalla Libia e dal Medioriente. Lei cosa ne pensa?
«Non so su quale base Frontex abbia fatto le sue previsioni e come sia giunta alla conclusione che ci sono tra mezzo milione e un milione e mezzo di migranti in Libia e che in teoria potrebbero riversarsi da noi cercando di fuggire da una situazione di violenza generalizzata in quell’area. Ciò che in realtà sta accadendo è che un flusso di migranti sta attraversando la frontiera verso l’Egitto e la Tunisia. Credo che si dovrebbe allargare la lente, in Italia il dibattito è solo sulle ripercussioni che questo eventuale esodo biblico avrebbe sul nostro Paese. Siamo di fronte invece ad un problema umanitario e a un cambiamento di portata storica. Ringrazio poi il Capo dello Stato per il suo richiamo a non fare allarmismi, che rischiano di scatenare ansia nell’opinione pubblica e di generare un effetto boomerang. È bene ribadire che per adesso dalla Libia non è giunto proprio nessuno. Mentre in tre giorni in Egitto sono arrivate 17-18 mila persone, in gran parte egiziani ma anche libici e di altre nazionalità, e in Tunisia 22 mila persone, in gran parte tunisini, ma non solo.
Dovremmo aiutare Egitto e Tunisia invece di impaurirci per noi, è questo che vuole dire? «Tunisia e Egitto stanno assumendo una meritoria politica della porta aperta, improntata alla solidarietà. Le comunità locali alla frontiera vanno a portare tè, biscotti, acqua, panini. E lasciano le frontiere aperte. Il governo di Tunisi ha richiesto formalmente all’Unhcr di intervenire e abbiamo un team in frontiera con un aereo carico di beni di prima necessità per almeno 10 mila persone già atterrato in Tunisia. Al momento nessuno dalla Libia sta fuggendo verso l’Italia.
Questi sono i fatti. Ma in tv mi fanno domande del tipo: come faremo a salvarci da questa invasione? Invece di pensare ai bisogni umanitari, si parla di invasione. Poi, quando e se ci sarà un flusso di migranti, come faranno gli enti locali a gestire l’accoglienza se la gente non li vorrà perché li considererà degli invasori? È giusto essere preparati al peggio, cercare di ottenere fondi, fare sopralluoghi, ma usare toni troppo alti può essere veramente rischioso in questa situazione». Cosa ne pensa della proposta di attivazione dello status di protezione temporanea fatta dal direttore del Consiglio per i rifugiati?
«La direttiva europea lo prevede nei casi di arrivi in massa che per adesso non ci sono. Ad oggi da noi sono arrivati solo 6mila tunisini, una cifra assolutamente modesta. Sono stata una settimana a Lampedusa. Questi ragazzi sono qui prevalentemente per motivi economici e quasi tutti sono diretti in Francia o in Belgio. Non credono che il cambiamento del loro Paese sia reale, temono un crollo del turismo e un peggioramento delle proprie condizioni economiche. Solo una minoranza è fuggita per timore dell’instabilità e dei disordini e sono i richiedenti asilo».
Non crede dunque che siano profughi, ma solo migranti spinti da ragioni economiche? «No, questi tunisini lo sono soltanto in minima parte. Hanno espresso bisogno di protezione. Quanto alla Libia, la situazione potrebbe essere molto diversa, ma per adesso non sono ancora arrivati. C’è una gran confusione in questo momento. Per questo bisogna essere molto cauti. Per ora va sostenuta la politica delle porte aperte di Tunisia e Egitto. Intanto, l’ufficio dell’Unhcr ricevendo telefonate allarmate da parte di parenti di immigrati eritrei o dell’Africa subsahariana in Libia. Ne ho appena ricevuta una da Birminghan, un uomo che cerca suo fratello a Tripoli ed è disperato. Ecco, loro veramente in pericolo anche perché adesso vengono considerati dei potenziali mercenari dalla popolazione locale e per questo vengono aggrediti. Sono i più vulnerabili».
Per loro cosa si può fare?
«Non ho una risposta, bisognerebbe riuscire a metterli in salvo con una nave, un appoggio logistico. Ma sono decisioni che dipendono dalla volontà della comunità internazionale, non sta certo a me dirlo».

La Stampa 27.2.11
Chávez: solidarietà con il Colonnello
L’America Latina è spaccata: anche Cuba e il Nicaragua tifano per il regime libico
di Paolo Manzo


La crisi libica come il golpe contro Hugo Chávez del 2002. Il presidente del Venezuela torna alla carica nella strenua difesa del premier libico con questo paragone azzardato. Stavolta attraverso la tv che controlla direttamente, Telesur, dove il leader bolivariano è apparso reiterando l’invito a «non intervenire in Libia». Una posizione che vede il Venezuela in testa tra i Paesi dell’America Latina pro-Gheddafi.
Da un lato infatti nei giorni scorsi si sono viste posizioni durissime. A partire dal Perù, primo Paese al mondo ad annullare tutte le relazioni diplomatiche almeno «fino a quando parola del Presidente Alan García non cesserà la violenza contro il popolo». Molti altri governi latino-americani hanno criticato apertamente il regime di Gheddafi. Tra questi Colombia, Messico ed El Salvador. Un fronte cui si contrappone l’asse Venezuela-Cuba-Nicaragua. Chávez nei giorni scorsi sul suo Twitter aveva scritto: «Viva la Libia e la sua indipendenza!». Tanto che lunedì fonti dell’intelligence britannica riprese dal Foreign Office avevano addirittura indicato Gheddafi in fuga verso Caracas o, secondo Al-Arabiya, il Brasile. Notizie smentite prima dal ministro degli Esteri verde-oro Antonio Patriota e poi da quello venezuelano Nicolas Maduro che, però, aggiunge: «Si stanno creando le condizioni per giustificare l’invasione della Libia, e l’obiettivo principale è rubare il petrolio».
A dir poco sospetta è stata poi la copertura delle proteste in Libia di Telesur, che ha mandato in onda surreali servizi che raccontavano di una «calma assoluta a Tripoli», con accuse aperte ad Al-Jazeera, AlArabiya, Bbc e Cnn di «mentire». Paradossale che proprio ieri la troupe della tv chavista sia stata malmenata da poliziotti pro-Gheddafi.
Il Venezuela è da tempo grande sostenitore di Tripoli. Negli ultimi tre anni sono stati firmati oltre 150 accordi economico-commerciali. Chávez è stato ricevuto in pompa magna in Libia. Il motivo della strenua difesa del Colonnello oltre che economico è anche politico. Al di là delle ideologie, infatti, entrambi sono soliti aggrapparsi all’«imperialismo yankee» per nascondere problemi interni.
Un’altra ancora di salvezza latino-americana per Gheddafi è Daniel Ortega, il presidente sandinista del Nicaragua che gli ha augurato al telefono «pieno successo nella nobile battaglia per difendere la nazione». Tutto merito dei 300 milioni di dollari a interesse zero prestati dal Colonnello in persona. Più chiara, almeno dal punto di vista ideologico, la posizione di Cuba che, per bocca di Fidel Castro, ha definito «la peggiore ingiustizia di oggi» il «tacere di fronte ai crimini che la Nato si prepara a commettere contro il popolo libico».
In silenzio è stata invece finora la presidente brasiliana Dilma Rousseff. Il ministro degli Esteri Patriota dopo avere smentito l’ipotesi dell’asilo ha condannato le «violenze inaccettabili» anche se, secondo Al-Jazeera il Brasile, grosso partner commerciale di Gheddafi, «non sembra volere usare almeno per ora il suo peso diplomatico per risolvere la crisi».

La Stampa 27.2.11
Tahar Ben Jelloun
“Mondo arabo, non è una vera rivoluzione”
di Alain Elkann


«La cosa importante è che gli islamisti vengono tenuti fuori»

Tahar Ben Jelloun, la prossima settimana esce da Bompiani il suo nuovo instant book «La rivoluzione dei gelsomini. Il risveglio della dignità araba». Di cosa parla?
«Nella prima parte racconto diverse storie emblematiche. Come quella di Mohammed Bouaziz, un venditore ambulante di frutta e verdura della cittadina tunisina di Sidi Bouzid da cui è partita la rivoluzione. Lo scorso 17 dicembre si è ucciso dandosi fuoco al di fuori di qualsiasi tradizione musulmana. Si è sacrificato per colpevolizzare le autorità che non hanno capito l’ingiustizia di cui è stato vittima».
E il seguito?
«Riporto anche un fatto analogo successo il 4 gennaio 2011 a Alessandria d’Egitto: un trentenne, sposato con moglie incinta, è stato convocato dalla polizia che lo ha accusato di aver messo il 31 dicembre una bomba in una chiesa copta. Il ragazzo era innocente, lo hanno inutilmente torturato per farlo parlare e così è morto. La polizia ha gettato il corpo davanti all’ospedale, poi ha chiamato i parenti: “E se vi lamentate, vi arrestiamo”, gli hanno urlato in faccia».
Che cosa contiene la seconda parte del libro?
«Una serie di riflessioni, ma anche un certo numero di articoli e di analisi politiche sulla situazione del mondo arabo, da cui si comprende che è da tempo che io suono il campanello d’allarme sulla situazione del mondo arabo».
Parliamo in particolare del Marocco, il suo Paese. Cosa succede? E’ immune da quanto sta accadendo negli altri stati?
«La situazione è molto diversa. Il re Mohammed VI è amato dal popolo perché fa cose importanti. E poi sta offrendo al Paese una stagione del tutto nuova rispetto al regno di suo padre Hassan II. Ha avviato un processo di democrazia, rende le elezioni libere e ha concesso una certa libertà alla stampa, ha rinnovato il codice di famiglia, ha creato una commissione, “Unità e riconciliazione”, per indennizzare le vittime delle repressioni del passato. Senza dimenticare che ha costruito autostrade e porti lottando contro le bidonville. Ha permesso agli islamici di esprimersi in un contesto democratico, ma sa che le sue riforme non bastano».
E allora cosa può succedere?
«È attento a tutto: ha appena instaurato un comitato economico sociale come quello francese per lavorare in fretta sulle prossime riforme».
Intanto, però, ci sono state alcune manifestazioni...
«Sì, ma pacifiche. È vero, c’è stato un incendio in una banca del nord del Paese che ha causato alcuni morti, ma la situazione tutto sommato è sotto controllo. La gente chiede lavoro, ma il Marocco non è uno stato ricco. Il re ha dato vita anche a un comitato di lotta contro la corruzione».
Cosa succederà adesso nel resto del mondo arabo?
«Non ci sarà una vera rivoluzione, ma molti cambiamenti. In Marocco i politici cercheranno di non fomentare la rivolta araba che fa paura anche alla Cina».
E che ne sarà di Gheddafi?
«Il colonnello non sa dove andare, ucciderà più gente possibile e alla fine finirà per cadere. Penso che il governo italiano avrebbe dovuto evitare i recenti contatti con lui, e la stessa cosa vale per la Francia. Sono certo che i Paesi europei faranno più attenzione nel ricevere a cena i dittatori. Il popolo egiziano ha mostrato invece una grande maturità politica. L’importante è che queste sommosse vengono fatte tenendo fuori gli islamisti».
E Obama?
«In Egitto si è comportato bene, però adesso non sa più cosa fare. Hillary Clinton si è lasciata andare ad una dichiarazione forte contro Gheddafi. Però bisogna cominciare ad agire. Le dichiarazioni non bastano, ci vogliono i caschi blu». «Tutto ciò dà molto fastidio a Israele, ma credo che alla fine servirà a sbloccare la situazione».
Cosa succede invece in Giordania?
«Negli ultimi tempi è stata strapazzata, ma ha tenuto. Però deve continuare a fare riforme di sostanza».
E la Siria?
«È uno stato chiuso, controllato dalla polizia e dall’esercito al pari dell’Algeria, dove negli anni ci sono state numerose rivolte con centinaia di migliaia di morti. La Siria e l’Algeria saranno più difficili da far cadere».
Parliamo dell’Iran?
«È un’altra storia. E’ una dittatura religiosa con elezioni truccate. La situazione è difficile e bisognerà aspettare».
Che momento sta attraversando un intellettuale arabo come lei?
«Ho vissuto fasi storiche intensissime, nessuno pensava che ci si potesse sbarazzare delle dittature in Tunisia, Egitto e Libia. Ma dall’oggi al domani la vita non sarà certo magnifica. Dopo un primo periodo di euforia, la gente sarà delusa. Bisogna imparare a vivere in una democrazia. Però non ci saranno più, e questo è già molto importante, dittature totalitarie e cose orribili di quel genere. Quanto è accaduto servirà da lezione anche per i Paesi europei dove la corruzione è un fatto abituale».

Repubblica 27.2.11
La Libia Obama e la giravolta del cavaliere
di Eugenio Scalfari


LE RIVOLUZIONI dei popoli nordafricani e mediorientali hanno numerose differenze tra loro ma anche profonde analogie. Tra queste ce ne sono tre che meritano d´esser segnalate: sono guidate da giovani, hanno come primario obiettivo la conquista dei diritti di libertà e sono rivoluzioni laiche anche se nei paesi musulmani il loro grido di riconoscimento e di vittoria è spesso quello tradizionale "Allah è grande".
Bin Laden e il fondamentalismo talebano non potevano registrare una sconfitta storica maggiore di questa: Al Qaeda sperava d´essere alla testa di questo sconvolgimento storico; invece non ne è stata neppure la coda; semplicemente ne è rimasta fuori e non ha alcuna probabilità di inserirvisi. Lo sbocco finale è ancora incerto, in alcuni paesi dipende in larga misura dall´esercito e dai giovani ufficiali, in altri dalla nascente borghesia, in altri ancora dall´esistenza di forti legami tribali. Ma la conquista dei diritti di libertà (e di lavoro) spinge i rivoluzionari a guardare più verso ovest, cioè verso Occidente, che verso est. E non è un caso che ai giovani che hanno scacciato Mubarak dall´Egitto abbiano risposto i giovani e le donne iraniani che vorrebbero liberarsi dal giogo politico e culturale del regime khomeinista.
La stessa Israele è perplessa. Da un lato impensierita dalla caduta dei dittatori "moderati", dall´altro speranzosa di poter convivere con giovani democrazie prive di pregiudizi religiosi e storici.
Una convivenza competitiva ma non militare, una più equa diffusione del benessere, della divisione internazionale del lavoro e delle tecnologie che caratterizzasse tutta l´immensa regione che va dai due fiumi mesopotamici fino al Sinai, al Nilo, al Sahara libico e algerino, all´Atlante, a Casablanca. Forse sarà un sogno, ma le premesse ne stanno prendendo corpo. Molto dipenderà anche da come si comporteranno l´America di Obama e l´Europa. E meno male che Obama c´è!
Il Presidente americano ha legato il suo futuro politico al trionfo della democrazia nel mondo musulmano. Ne parlò un anno fa al Cairo e l´ha ripetuto adesso con chiarezza ancora maggiore. L´obiettivo è terribilmente ambizioso, molto di più di quello che portò alla caduta del Muro di Berlino. Sbaglia chi continua a proporre come metro il confronto tra Obama e Bush: il confronto attuale riguarda Obama da un lato e il pensiero unico del reaganismo dall´altro. C´è materia per riflettere e operare in un mondo multipolare che implica per tutti e per ciascuno una scelta di ruolo e di responsabilità.
* * *
La Libia è oggi l´epicentro delle ultime convulsioni, ma l´esito è ormai segnato: la fine di Gheddafi porterà purtroppo stragi e rovine ma politicamente è già avvenuta. Non esiste alcuna ipotesi alternativa a quella del suo esilio perpetuo e del giudizio sui crimini commessi. Molti osservatori europei si preoccupano del petrolio e del gas, degli approvvigionamenti e dei prezzi di mercato; ma si tratta di preoccupazioni poco significative. Di gas ce n´è fin troppo sul mercato, l´offerta è maggiore della domanda e gli operatori internazionali sono ben contenti che ci sia una diminuzione del prodotto. Per il petrolio è diverso, ma quello libico è uno dei peggiori per qualità e comunque rappresenta meno del 2 per cento dell´offerta mondiale.
Il prezzo si è impennato a causa della speculazione, ma non ha l´aria di tenere a lungo anche perché la monarchia saudita deve procurarsi nuovi titoli di benemerenza con l´Occidente e non ha alcun interesse a speculare al rialzo sui prezzi del greggio.
Ma il problema libico contiene due elementi di vera preoccupazione: la costruzione di una stabile democrazia e l´emigrazione nordafricana verso l´Europa, della quale le coste della Sirte costituiscono il pontile. Questi due elementi sono fortemente intrecciati tra loro ed è superfluo spiegarne le ragioni, tanto sono evidenti agli occhi di tutti.
* * *
La telefonata dell´altro ieri di Barack Obama al premier italiano è stata interpretata dai berlusconisti come un segnale di prezioso rafforzamento politico del premier italiano sullo scacchiere internazionale. Altri osservatori più distaccati si sono augurati che le opposizioni non si mettano di traverso e non operino contro il governo in un´azione che dovrebbe essere un obiettivo condiviso e "bipartisan".
Non temano e non si preoccupino questi osservatori: per quanto possiamo capirne, l´opposizione non sarà così meschina da privilegiare i baciamano di Berlusconi a Gheddafi rispetto all´interesse nazionale. Esiste un peso politico e strategico dell´Italia nella questione libica che fa premio su ogni considerazione e così avverrà. Quanto a Berlusconi, la spinta dei fatti e la pressione americana l´hanno rapidamente costretto ad una virata di 180 gradi, dal baciamano a Gheddafi alla condanna senza appello del Rais. Del resto, mai come nel caso libico, vale la distinzione tra Stato e governo e non è di poco conto la dichiarazione del nostro Presidente della Repubblica che non ha disgiunto il tema dei diritti di libertà ardentemente sostenuti dai rivoluzionari e la comune responsabilità europea sul tema dell´immigrazione di massa.
Napolitano rappresenta lo Stato e lo Stato per bocca sua ha parlato chiaro e netto. Il governo faccia la sua parte e le opposizioni la loro.
* * *
Il ministro Maroni si lamenta per la scarsa voglia dell´Europa di "spalmare" su tutti i Paesi dell´Unione la temuta ondata dell´immigrazione verso le coste italiane. La Commissione di Bruxelles si è dichiarata pronta a cogestire con il governo italiano la fase dell´accoglienza e i costi che essa comporta, ma ha escluso di poterci aiutare a "spalmare" gli immigrati.
Le ragioni di questa difficoltà sono due. La prima riguarda l´Unione europea, la seconda i singoli Paesi membri.
L´Unione – se richiesta dal Paese interessato – può agire in prima persona per gestire i problemi dell´immigrazione. Qualora il procedimento sia avviato, la gestione dell´Unione si farà con i criteri europei. Esistono in proposito almeno due direttive e Maroni dovrebbe conoscerle.
Proprio perché immaginiamo che le conosca e proprio perché non condivide i criteri dell´Unione, ha preferito agire direttamente e bilateralmente. I respingimenti in mare non sarebbero avvenuti nel modo in cui sono avvenuti se fosse stata l´Unione europea ad occuparsene. Invece sono stati Maroni e Gheddafi.
Quanto agli Stati membri, quasi tutti hanno obiettato che si potrà "spalmare" quando il rapporto "pro capite" tra immigrati e cittadini avrà raggiunto in Italia lo stesso livello esistente negli altri Paesi dell´Unione. Così l´Austria, così la Germania, così la Francia, così la Gran Bretagna, così l´Olanda e il Belgio, così molti altri dei 27.
Ci rendiamo conto che la Lega incontra notevoli difficoltà a condividere questi ragionamenti. A noi purtroppo sembrano chiari e razionali. Non per pregiudizio, ma per senso della realtà. Ma appoggeremo i tentativi del ministro dell´Interno di "spalmare" dove riuscirà a convincere gli interlocutori. Restando chiaro che chi di respingimento ferisce, di respingimento rischierà di perire.
Post scriptum . Mentre tutto questo accade c´è un problema che continua ad avvitarsi su se stesso e sul nostro Paese: l´economia non cresce, siamo al penultimo posto dei Paesi europei (salvati come sempre dalla Grecia), al quarantesimo nella lista della produttività e all´ottantesimo in quella della competizione. Ma si sta profilando un altro gravissimo rischio: l´inflazione combinata con la deflazione, una tenaglia che potrebbe far stramazzare un toro e figuriamoci un´anatra zoppa come l´economia italiana.
Fino a marzo la Banca centrale europea non si muoverà, ma è probabile e prevedibile che quando la primavera sarà in fiore la Bce alzerà i tassi di interesse con effetti negativi sul costo del debito pubblico e dei prestiti bancari. Forse sarà necessaria una manovra di bilancio con quel che ne seguirà sugli investimenti e sui consumi. Senza imposte patrimoniali ovviamente. A quelle ci dovranno pensare i Comuni per non chiudere i battenti per bancarotta.

La Stampa 27.2.11
Il Papa: “Un inganno l’aborto terapeutico”
“Le donne vanno aiutate e difese: invece sono mal consigliate dai medici e lasciate sole dai mariti”
di Giacomo Galeazzi


NON RISOLVE NULLA «Uccide il bambino, distrugge la donna, acceca la coscienza del padre, rovina la famiglia»

I padri non aiutano le madri a difendere la vita, l’aborto lascia «ferite profonde» e non è mai terapeutico quindi i medici non ingannino le donne. Il Papa denuncia i rischi connessi alla diffusione delle biobanche private per la conservazione del sangue cordonale a esclusivo uso autologo e condanna l’aborto come un «inganno» da cui le donne vanno difese. Quante hanno vissuto questo «dramma» vanno aiutate, raccomanda Joseph Ratzinger. Descrivendo uno «sfondo culturale» segnato «dall’eclissi del senso della vita», Benedetto XVI torna su un tema già tante volte affrontato con un messaggio diretto ed esplicito ai medici. A loro, infatti, si è rivolto ricevendo ieri in udienza l’assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita.
Bisogna difendere le donne da quella che non è mai «una soluzione» alle difficoltà, neppure di fronte a possibili problemi di salute del bambino. Un punto chiave che porta Benedetto XVI a dire senza mezzi termini che l’aborto non è mai terapeutico e non ci sono rischi legati alla salute del nascituro che lo giustifichino: «I medici non possono venire meno al grave compito di difendere all’inganno la coscienza di molte donne che pensano di trovare nell’aborto la soluzione a difficoltà familiari, la vita famigliare». Benedetto XVI ravvisa economiche, sociali, o a problemi di salute un quadro generale in cui «si è molto attedel loro bambino». nuata la comune percezione della gravità
Specialmente in quest’ultima situaziomorale dell’aborto e di altre forme di atne, «la donna viene spesso convinta, a voltentati contro la vita umana». Per questo te dagli stessi medici, che l’aborto rappreparla ai padri, che con la coscienza «talvolsenta non solo una scelta moralmente lecita offuscata, spesso lasciano sole le donne ta, ma persino un doveroso atto incinte». E si rivolge poi a tutta la società, “terapeutico” per evitare sofferenze al chiedendo di aiutare le donne che hanno bambino e alla sua famiglia, e un abortito. «È necessario che la società tutta “ingiusto” peso alla società». Al contrario, si ponga a difesa del diritto alla vita del l’interruzione volontaria di gravidanza concepito e del vero bene della donna». Pa«non risolve nulla, ma uccide il bambino, rimenti «sarà necessario non far mancare distrugge la donna e acceca la coscienza gli aiuti alle donne che, avendo purtroppo del padre del bambino, rovinando, spesso, già fatto ricorso all’aborto, ne stanno ora sperimentando tutto il dramma morale ed esistenziale». Il Pontefice è preoccupato anche dalle sempre più incombenti derive nella ricerca sulle staminali. Una problematica recente, posta dal progresso della ricerca che vede la Chiesa contraria a ogni forma di utilizzo delle cellule embrionali e favorevole a quella sulle cellule adulte e da cordone ombelicale. Benedetto XVI chiede «generosità nella donazione del sangue cordonale al momento del parto».
No, dunque, al profitto sulla conservazione di parti del corpo umano, che, sottolinea il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, «mette in pericolo la tradizionale politica solidaristica italiana in materia di sangue ed organi, con grave danno per i pazienti». La ricerca medico-scientifica «è un valore e un impegno non solo per i ricercatori, ma per l’intera comunità civile», riconosce il Papa. Il monito anti-aborto, evidenzia il direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian è «la voce della coscienza» per un «dramma lacerante che da sempre è purtroppo presente nella vita di molte persone, soprattutto donne, anche se il più delle volte viene rimosso». Stop agli stereotipi caricaturali di un Papa e di un cattolicesimo spietati, retrogradi e nemici di presunte libertà, se non addirittura di diritti». L’intervento del Pontefice sul trauma post-aborto e le banche di cordone ombelicale è «positivo, ragionevole, profondamente umano». L’angoscia conseguente l’interruzione volontaria di gravidanza «rivela la voce della coscienza e ad avvertirla in modo insopprimibile sono spesso le donne che l’hanno patito, mentre a essere offuscata è talvolta quella degli uomini, i quali spesso lasciano sole le donne incinte», sottolinea Vian. La qualità morale dell’agire umano «non è una realtà di fronte alla quale si possa restare indifferenti e soprattutto non è prerogativa di cristiani o credenti, ma un valore che accomuna ogni essere umano, dunque la Chiesa guarda con favore al progresso medico e scientifico purché rispetti il bene comune», raccomanda il quotidiano vaticano.

Corriere della Sera 27.2.11
Ma è un diritto rifiutare le cure artificiali
di Luigi Manconi


Caro direttore, non si tratta solo di una pessima legge. È una legge illiberale e statalista, invasiva e grossolana, che pretende di imporre una «bioetica di Stato» e di intervenire nella sfera più intima e delicata della persona, laddove «le questioni ultime» trovano il loro fondamento e conoscono la loro più dolorosa esperienza. Non esagero. Se quella normativa diventasse legge dello Stato, nutrizione e idratazione artificiali non sarebbero oggetto delle Dichiarazioni anticipate e, dunque, dell’esercizio di volontà del paziente. Potrebbe verificarsi, pertanto, la seguente situazione. Una persona capace di intendere e di volere, che avesse affidato a un notaio il proprio «testamento biologico» , non avrebbe alcuna garanzia che la sua volontà venisse rispettata. Se infatti avesse dichiarato di rinunciare a nutrizione e idratazione artificiali, una volta che si trovasse incapace di intendere e di volere, quei trattamenti sanitari (così definiti dalla comunità scientifica e dall’ordine dei medici) potrebbero venirgli imposti. E questo corrisponderebbe a una delle lesioni più gravi e irreparabili mai subite dal nostro ordinamento giuridico e dal fondamentale diritto all’integrità personale. Oltretutto un simile progetto rivela una assai angusta concezione della privacy. Di quest’ultima, si lamenta (non sempre a torto) la costante violazione, ma la si finisce per considerare solo come uno schermo — una sorta di vetro oscurato — a protezione dello spazio domestico e di quanto lì vi si compie. Mentre la categoria di privacy rimanda proprio alla dimensione profonda e costitutiva dell’identità umana e della sua intangibilità. E, dunque, la tutela dell’integrità del nostro corpo da interferenze altrui (tanto più quelle dell’autorità pubblica) rappresenta un bene preziosissimo. Per questa ragione una normativa che intervenga sulle questioni di «fine vita» deve essere la più intelligente e sensibile, capace di equilibrare diritto alle cure e diritto all’autonomia personale (e, quindi, anche alla rinuncia alle stesse cure), e di combinare «la sovranità su di sé e sul proprio corpo» (John Stuart Mill) con la valorizzazione del rapporto tra l’individuo e la rete familiare, i «mondi vitali» , la cura amorevole, nella fase della massima prostrazione e quando maggiore è il rischio dell’abbandono. Il disegno di legge all’esame della Camera, con la lievità di tocco di un fabbro ferraio, ignora tutto ciò a esclusivo vantaggio di una sorta di paternalismo terapeutico, che svuota le Dichiarazioni anticipate di qualunque qualità di vincolo per gli operatori sanitari. E anche «l’alleanza terapeutica» , giustamente evocata, perde gran parte del suo significato: essa ha un senso, infatti, solo se il dialogo tra medico e paziente prevede che quest’ultimo, fino a quando sia cosciente, possa confrontare le proprie ragioni, anche quelle della propria sofferenza (patita o temuta), con quelle della scienza. In realtà la sensazione è che questo disegno di legge corrisponda a uno scambio simoniaco tra la maggioranza di governo e una parte delle gerarchie ecclesiastiche. Queste temono a tal punto che possa diffondersi una «ideologia eutanasica» da sottovalutare alcune questioni cruciali. Come il fatto che quanto più crescono, anche attraverso il ricorso alle Dichiarazioni anticipate, la consapevolezza e l’autonomia del paziente e quanto più si riduce il «dolore non necessario » tanto più la domanda di eutanasia si fa residuale. Il rischio è un vero e proprio arretramento culturale nella dottrina e nella pastorale, ancora più evidente se si considerano le parole dette da Pio XII nel lontano 1957. Così il Pontefice: «La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente, anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita? Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì» . Se una simile affermazione venisse tradotta in un emendamento alla legge sulle Dichiarazioni anticipate, gli «atei devoti» e i «bacchettoni pagani» che affollano il centro destra, fieramente lo boccerebbero.

Repubblica 27.2.11
Storia dell´ombra da Platone alla modernità
La sottile linea scura tra noi e il corpo dell’anima
di Antonio Gnoli


Dal mito della caverna di Platone fino agli abbagli della Modernità, che conquistando la luce elettrica si era illusa di aver vinto per sempre il mondo degli spettri e degli incubi. In una mostra che a breve si aprirà a Modena, ecco rappresentata in oggetti, disegni e forme, la storia della compagna più antica che l´essere umano abbia mai avuto Fonte d´ogni paura, ma anche di arte, gioco e spettacolo

Tra i tanti significati che l´ombra riveste ce n´è uno che li sovrasta tutti: la metamorfosi dal visibile all´invisibile. Oliver Sacks ne L´isola dei senza colore ci racconta gli effetti di una malattia misteriosa che affligge una popolazione della Micronesia, ne ottenebra l´intelligenza, rendendo progressivamente ciechi o monocromi i suoi abitanti. Possiamo immaginare quest´isola come una terra di mezzo, sovrastata da ombre, alla stregua della Terra di Mordor nel Signore degli anelli in cui le tenebre hanno la meglio sulla luce; o Gotham City dove la vita si svolge all´insegna dell´oscurità. Lo sappiamo, le ombre appartengono alla nostra esperienza e alla nostra mente, alla nostra storia e alle nostre paure.
Ci sono secoli più bui di altri; capolavori - come il Don Giovanni - che dell´ombra si nutrono; ci sono quadri di Caravaggio, di Turner, di De Chirico che dell´ombra hanno fatto la sostanza più intima. L´ombra misura il tempo della meridiana. Ma può darci la misura ben più allarmante del nostro declino. Per le sue caratteristiche sfuggenti è più prossima alla notte che al giorno, alla morte che alla vita, alla vecchiaia che alla giovinezza, alla malinconia che alla gioia. Ma essa, al tempo stesso, può diventare fonte di ristoro. Nel suo elogio, Borges la paragona alla propria cieca vecchiaia: è un´ombra mite che non fa male e somiglia all´eterno, egli dice. Duemilacinquecento anni prima, Platone - il primo e convinto ombrofobo - coglie negli effetti dell´ombra l´illusione che essa possa conformarsi al vero. Da cosa gli deriva tanta acredine? Platone ragiona in termini sottrattivi: l´ombra, per le sue caratteristiche, pregiudica il più eletto tra gli organi: la vista. È un allontanamento o una mancanza di luce. O meglio, della luce ne dà una fioca rappresentazione. Però quelle statue - di cui i prigionieri della caverna colgono le sagome, come proiettate da un sole esterno - richiamano per singolare analogia quanto la tecnica realizzerà col cinema alla fine dell´Ottocento.
Il cinema è figlio della lanterna magica e della fotografia: della meraviglia e della realtà; dell´ombra e del vero. È come se Platone lasciasse il posto a una nuova forma di conoscenza (e di divertimento) nata da un diverso modo di percepire l´immagine. Nel cinema trionfano l´ombra della sala e le dissolvenze dello schermo. È la prima grande industria dell´immateriale. Non a caso Joseph Roth, ne L´Anticristo, definisce Hollywood «il paese delle ombre». L´ombra cinematografica sviluppa significati puntualmente inquietanti. Quella minacciosa del mostro di Dusseldorf o adunca e ingobbita di Nosferatu, ci avvertono di un disagio prossimo al terrore: nulla di buono si annuncia. Torna - sotto una forma diversa - la condanna dell´ombra: le si attribuisce il presagio di una morte prossima. Nel regno delle ombre sono in agguato i vampiri, lontanissimi antenati di figure che l´antichità aveva confinato nell´Ade. Dal regno dei morti - racconta il mito di Euridice - Orfeo tenta di strappare l´ombra dell´amata. Ma girando lo sguardo verso lei, la condanna all´invisibile.
Col tempo l´ombra diventerà una presenza familiare, una convivenza necessaria con il corpo e gli oggetti. L´illuminazione elettrica - segno eloquente di un progresso scientifico - placherà quel senso di turbamento che le ombre (soprattutto notturne) avevano scatenato. Non si può fare a meno della propria ombra. Come non si può fare a meno del denaro. Ne sa qualcosa Peter Schlemihl - protagonista del racconto di von Chamisso - che la vende al diavolo in cambio di una borsa piena d´oro. Se l´ombra è barattabile vuol dire che possiede le stesse caratteristiche della merce: ha un valore di scambio. E d´altro canto, la stessa merce - con i suoi geroglifici - custodisce un´ombra enigmatica che la allontana dal valore d´uso per esaltarne il segreto che custodisce. Le ombre circolano indisturbate. Si tratta di dar loro una patente di innocua rispettabilità. Per un verso le leggi dell´ottica ne spiegano il fenomeno: le osservazioni attorno alle eclissi attenuano lo sgomento che gli antichi provavano davanti all´oscuramento del sole.
Dall´altro, è la pubblicità a suggerire in che modo l´ombra allude al vero senza esserlo. Appartenendo alla categoria del somigliante, l´ombra può essere e non essere. Equivoca come un´immagine pubblicitaria, si concretizza nelle figurine e nei manifesti che reclamizzano - grazie alla tecnica delle ombre cinesi - cioccolata e formaggi. Un mondo di bambini - nelle fogge di adulti in miniatura - dispiegano con le loro manine ricomposte ombre di animali. Per invogliare al consumo, la merce - è quanto già accade negli expo universali - deve suscitare meraviglia e sogno. È distante la tersa e drammatica consapevolezza che Joseph Conrad esprime con La linea d´ombra. Nel romanzo si scorge il passaggio dall´età giovane all´adulta. E si tratta pur sempre di una linea invisibile e inafferrabile come un´ombra che inghiotte i nostri sogni, le nostre illusioni, nella bonaccia di un mare immobile.
La stessa evoluzione che conduce alla conquista della luce elettrica, la stessa idea di progresso che spinge la ragione a cercare regole e chiarezza, la stessa convinzione che le passioni debbano essere messe a tacere per quel tanto di ombroso e di torbido che esse rivelano, mostrano a quale smania di pulizia si lascia andare il Moderno. Ma la battaglia per distogliere il mondo dagli spettri, dagli incubi, dalle follie non è affatto vinta.
Occorrono pensatori forti e sospettosi per richiamare l´ombra alle sue complicazioni notturne, alle sue profondità ancestrali. La psicoanalisi riflette sugli incantesimi interiori, su ciò che l´inconscio continua a smarrire della propria identità. Prima Freud - con il lavoro sul perturbante - e poi Jung con l´archetipo dell´ombra scompaginano il quadro rassicurante di un individuo felice e conciliato. L´ombra estende nuovamente il proprio potere destabilizzante. Assume forme e toni che non ci aspettavamo. Torna sotto forma di simulacro (televisivo) e di segreto (politico). Quel tratto machiavellico dell´agire nell´ombra - perché il potere ama il nascondimento - sembra scontrarsi con le nostre coscienze. E se da noi oggi vigesse l´ombra di un governo, vorremmo che tutto tornasse alla luce del sole, senza ambiguità né resistenze, con la giusta trasparenza che si richiede a chi pretende di guidare il paese fuori dalle ombre.

Repubblica 27.2.11
Teatro, cinema e pubblicità l´invisibile non si nasconde
di Ambra Somaschini


Sagoma inquieta, seconda natura. Fuggevole, illusoria e mutevole, il lato oscuro di noi. L´ombra ci accompagna e ci divide, attrae e spaventa, dissolve l´io dal suo centro e lo ricompone come in uno specchio dalla consistenza volatile e nera. Le trame d´ombra sono state cucite insieme dall´antichità al Novecento, ora raccontate da una mostra e un catalogo al Museo della Figurina di Modena (curati da Roberto Alessandrini e Paola Basile, 4 marzo-7 luglio). Un mosaico di filosofia, teatro, cinema e pubblicità in una sequenza che porta dal mito della caverna di Platone fino al moderno che dissolve il soggetto e mette in crisi la centralità dell´uomo nell´universo.
La figlia del vasaio di Corinto, in Plinio il Vecchio, traccia sul muro il disegno del suo amore partito per un viaggio seguendo il segno di un´ombra proiettata da una lampada a olio. Il padre ne fa un modello d´argilla, scolpisce il suo pensiero. Le ombre platoniche sono sulla soglia che separa la luce dalle tenebre e le prime lanterne magiche sono le radici del cinema. Le ombre cinesi sono le antenate dei cartoni animati e le macchine per la silhouette costruiscono un universo mobile che si anima dietro i teli degli spettacoli popolari e diventa teatro. Il Settecento alle ombre si appassiona: le cineserie suscitano curiosità e il carattere delle persone si legge nelle sagome, mentre nell´Ottocento stampe e bolli chiudilettera svelano le forme dell´invisibile e le figurine semoventi rappresentano il lato oscuro del reale. Quello che Jung definirà la prima raffigurazione archetipa incontrata lungo il cammino della via interiore che porta a galla la coscienza e il nostro sé.
L´ombra diventa la seconda natura degli esseri, un´appendice che si vende e si confeziona, come quella cucita da Wendy per Peter Pan. Si separa dal corpo e ne riproduce la sagoma fatta come un sacco vuoto. Siamo nella modernità e le ombre diventano cinema con l´espressionismo tedesco e il noir americano e finiscono sui Notgeld, i biglietti-denaro di emergenza usati in Germania per fronteggiare la crisi economica. E conquistano vita autonoma nelle fiabe e nei romanzi. Scrive Oscar Wilde: «Ciò che gli uomini definiscono l´ombra del corpo non è l´ombra del corpo ma il corpo dell´anima. Mettiti sulla sponda del mare con la schiena rivolta alla luna e taglia via l´ombra dai tuoi piedi che è il corpo della tua anima, e dì alla tua anima di abbandonarti, e questa lo farà».

Corriere della Sera 27.2.11
Se il narcisismo non è più malattia Tra Italia e Usa il duello del lettino di Caravaggio
Psicologi riuniti a Roma contro le direttive americane: disturbo da curare
di Margherita De Bac


ROMA — Facile passare per narcisi. In una società dove prevalgono il culto dell’immagine e della visibilità, personaggi che non spiccano in modestia finiscono con l’essere speso accomunati al bellissimo giovane condannato nel mito ad amare solo se stesso per volere degli dei. Vanagloriosi, animati da super ego, esibizionisti, a volte sprezzanti nei riguardi del prossimo, prepotenti nel porsi al centro dell’attenzione. Tra i più inclini a manifestazioni di superiorità il campione di golf Tiger Woods, Kate Moss e una lunga carrellata di uomini politici, capi di Stato, star del palcoscenico. Dal passato riemergono i profili altezzosi di Oscar Wilde, Gabriele d’Annunzio e Lord Byron. Niente a che vedere con loro i veri narcisi, quelli patologici. Se ne è parlato ieri in un incontro organizzato dall’Ordine degli psicologi del Lazio, il più numeroso d’Italia, circa 15 mila iscritti. Giornata dedicata alla quinta edizione del Dsm (Diagnostic statistic manual), manuale delle malattie mentali, a cura dell’associazione degli psichiatri americani. Il più autorevole dei testi utilizzati per elaborare diagnosi, nato nel 1952. Dall’elenco dei disturbi della personalità è sparito, tra l’altro, il narcisismo. Solo una proposta, per il momento. La pubblicazione della cosiddetta Bibbia, la più prestigiosa tra quelle in circolazione, è prevista per il 2013. Chi non è d’accordo ha tempo fino al 20 aprile per inviare osservazioni. Gli esperti statunitensi basano la loro decisione su un dato statistico. Il narcisismo è ormai così epidemico da non poter essere ritenuto un problema mentale. È stato in un certo senso declassato a caratteristica «sana» di una società che impone certi eccessi comportamentali a chi vuole farsi avanti. Piovono critiche feroci. Alla riunione romana ha partecipato anche Jonathan Shedler, studioso americano, primo firmatario di un autorevole cartello di esperti che lo scorso anno ha lanciato un allarme sul futuro dei pazienti scippati della loro malattia. «Non si potranno più diagnosticare alterazioni comportamentali che minano profondamente le relazioni sociali e familiari» , protestano gli psicologi, annunciando un documento contro il Dsm 5 che verrà sottoscritto da «tutti gli appartenenti alla comunità professionale» . Vittorio Lingiardi, direttore della Scuola di specializzazione di psicologia clinica, figura di grande rilievo nel mondo accademico, avverte dei pericoli che ne deriverebbero per i malati di narcisismo e le loro famiglie: «Parliamo di individui con gravi problemi di regolazione dell’autostima. Una difficoltà che si esprime con manifestazioni di grandiosità e disprezzo nei confronti del prossimo. Questi pazienti causano profonda sofferenza a parenti, amici, colleghi e allo stesso tempo danneggiano se stessi. Pur di emergere infliggono del male, diventano crudeli nel manipolare gli altri» . Poi c’è l’altra faccia del narcisismo. Paura del giudizio degli altri con conseguente tendenza all’auto isolamento. «L’unica cura è la psicoterapia di tipo cognitivo, psicodinamico o psicoanalitico— continua Lingiardi —. I farmaci non hanno la priorità a meno che non siano presenti sindromi depressive. Ecco allora una domanda. È giusto classificare come diagnosticabile solo ciò che si può medicalizzare e curare con farmaci?» . Dal manuale diagnostico americano rischia di sparire, oltre al narcisismo, anche l’istrionismo (necessità di essere il centro dell’attenzione, tendenza a erotizzare le relazioni, pensieri fondati sul bisogno di impressionare più che sul ragionamento). Suscettibili al taglio i disturbi paranoici (visione di un mondo ostile, mania di persecuzione, atteggiamento di ostilità e aggressività) e di dipendenza (bisogno assoluto di dipendere da qualcuno, incapacità di assumere decisioni). Ma è la scomparsa del narcisismo che preoccupa il mondo della clinica che nella sua forma maligna può essere caratterizzata da manifestazioni psicopatiche.

Corriere della Sera 27.2.11
Ecco come riconoscerli
di Maria Laura Rodotà


«Vedi, io sono oggetto di un piccolo culto da parte dei lettori, perché sono quello che scrive meglio» , mi ha detto tempo fa un collega. Beato lui, ho pensato; non per via del culto, per via del suo narcisismo da simpatico italiano sbruffone, che gli consente di godersi i complimenti. Negli stessi giorni, mi è capitato di sedere in una riunione accanto a una collega bravissima, che ha fatto interventi micidiali, competenti e appassionati. Ogni volta che finiva di parlare, la elogiavo parecchio. Lei rispondeva con monosillabi incomprensibili, generalmente traducibili in «sgrunt» . Mi è dispiaciuto per lei, che come molte femmine italiane educate a essere modeste, non riesce a gioire apertamente delle lodi; né a farne un combustibile per futuri successi. Nel nostro Paese di galli cedroni va ancora così. E al netto delle preoccupazioni degli psichiatri, bisognerebbe pensarci su. Perché, al netto dei concittadini seriamente disturbati, la diffusione, accettazione e a volte glorificazione di individui dal «sé grandioso» è una piaga sociale. In una società che ha ormai pochi anticorpi sobri anti-narcisismo. Così, spesso, ci arrendiamo a personaggi che si sentono immotivatamente importanti, con deliri di onnipotenza e sfrenati desideri di status. Che pretendono continua ammirazione, pensano di poter ottenere qualunque cosa senza seguire le regole, usano gli altri senza rimorsi, sono incapaci di empatia. E sono abitualmente bene accolti, e abitualmente la fanno franca. Se maschi, più spesso. Perché molti uomini sanno usare il narcisismo come strumento per imporsi. Il che raramente riesce alla femmina narcisista. Che è malvista; dagli uomini in eventuale competizione, e dalle altre donne. Che non vedono quasi mai in lei una leader, come capita tra maschi coi più narcisi; e (inconsapevolmente, più o meno) cercano di danneggiarla. E forse dovrebbero fare il contrario. Alcune forme estreme di narcisismo maschile hanno avuto effetti rovinosi per il Paese (e per le vite personali di varie italiane). Un Risorgimento narcisista femminile— non sarebbe difficile, basterebbe apprezzare e apprezzarsi di più, e crederci— sembra una delle poche cure possibili. Per questo vale la pena di incoraggiare le narcisiste moderate che abbiamo, e coltivare la narcisista che è in noi (come se fosse facile, sgrunt).

l’Unità 27.2.11
Lo stupore dei tiranni: le vittime in rivolta non sono che ingrati
Da Giulio Cesare a Gheddafi passando per Hitler e Stalin neanche la fine imminente pare aprire gli occhi al dittatore che si sia illuso di essere amato Singolari coincidenze nelle ultime parole dette da personaggi molto diversi
di Bruno Gravagnuolo


Che i dittatori davanti al baratro del loro fallimento si rifiutino di vederlo, e si autoesaltino come martiri, è un’ esperienza storica nota. Meno noti forse sono i meccanismi psicologici che ne governano la mente in quei momenti di tragedia individuale e collettiva. La vicenda di Gheddafi, asserragliato nel suo bunker di Tripoli è perciò emblematica. In essa ci sono tutti gli ingredienti del potere dispotico in fase terminale. L’appello disperato all’antico carisma ferito, lo stupore: come nel Ceausescu balbettante sulla piazza di Bucarest. La denuncia del tradimento e del nemico interno ed esterno. La negazione ossessiva del fallimento. La fobica minaccia hitleriana di sterminio da infliggere ai «ratti» e ai «drogati» sobillati dai nemici. Infine l’autoesaltazione paranoica con il paragonarsi alla regina Elisabetta, delirante messaggio subliminale agli «occidentali»: gli aggressori con il quale il beduino Gheddafi si identifica e si misura. Tra pulsioni vendicative e piaggeria (come il rivoltoso rurale Mussolini, felice poi di indossare il frac e ricevere la nobiltà a Villa Torlonia).
È come se i momenti terminali del Potere assoluto ne rivelino la logica profonda e l’essenza. Proprio perché in quei momenti vengono a galla gli elementi friabili del Potere come autorappresentazione: il segreto stesso di quell’inganno totalitario che consiste nella capacità di autoingannarsi, ingannando e rassicurando per questa via i dominati e i sottoposti. La cui paralisi e servitù volontaria, cementata dal timore introiettato, è lo specchio in cui il despota riesce a sentirsi persino amato, oltre che temuto.
Ma ecco alcuni esempi di ultime parole famose prima di piombare nell’abisso, tutte con qualcosa di comune, a illustrare «l’irrealtà» del Potere morente colpito dalla realtà a lungo denegata che irrompe sulla scena. Narrano che Napoleone, nonché maledire spie inglesi e tradimenti, abbia pronunciato questa parole, prima di morire il 5 maggio 1821: «Francia, Rivoluzione, Esercito, Giuseppina». Era la sintesi dei suoi amori, trasmessa ai posteri. Qui l’accento batte sull’autoesaltazione maniacale, e sull’autogiustificazione. Quelle erano le cose che Bonaparte aveva amato, da cui aveva tratto linfa e che infine aveva tradito. Per onnipotenza e trasformismo cinico, in nome di un sè stesso divinizzato a eroe cosmico storico o «anima del mondo». Francia e Rivoluzione infatti a un certo punto le ridimensionò e fece a pezzi. Idem per l’Esercito, che distrusse con la folle campagna di Russia. Quanto a Giuseppina Beauharnais, sua sponsor nei salotti del Termidoro, la tradì per la ragion di stato... Autoesaltazione narcisistica in morte quindi. Con tanta negazione della verità e un briciolo di sincerità, se non altro nel riassunto di certe tappe.
Andiamo indietro di molti secoli.
Alla prima pugnalata ( non mortale) del congiurato Pubblio Servilio Casca Longo, Giulio Cessare esclama: «Scelleratissimo, che fai? Questa è violenza». Poi verrà il celebre: «tu quoque, Brute...». Ma, notevole sulle prime è lo stupore del tradimento e l’accusa di violenza, malgrado il fatto che Cesare fosse un campione (illuminato) di violenze di massa, di trame, illegittimità e congiure. Un campione decisionista pronto a divinizzarsi come Princeps, squarciando con uno sbrego «cesaristico» la Res Pubblica, e poi riempiendo l’orrore di quel vacuum con un Principato post-senatorio. Acclamato da legionari e plebe. E lo stupore in morte è il riemergere dell’abisso e del vacuum che si vendica (ci penserà Ottaviano a richiuderlo).
Torniamo alla Francia rivoluzionaria. Inizialmente Danton fiancheggia Robespierre. Poi se ne dissocia. Finisce, con queste parole al boia: «Tu mostrerai al popolo la mia testa, ne vale la pena!». Battuta nichilista di un uomo gaudente, certo più antiveggente in prospettiva dell’Incorruttibile. Eppure rivelatrice di una certa verità del Potere giacobino: ovvero la «Virtù» costruita sul Nulla dell’arbitrio. Sulla morte egualitaria prescritta a tutti in nome di un ideale tirannico e irragiungibile, sadico e autopunitivo. Ma ideale in grado di stabilizzare (e rilanciare grazie al Terrore) l’angoscia di quei giacobini minacciati dall’annientamento: carovita, guerra civile, complotti, Vandea.
Infine, ecco tre dittatori del Novecento. Hitler, Mussolini e Stalin. Anche il primo stava in un bunker. E nelle sue ultime ore nega maniacalmente la sconfitta. Impreca al tradimento, attende notizie sull’immancabile controffensiva in grado di rompere l’assedio russo a Berlino. Esalta la sua missione storica e la purezza del suo tentativo, che resta un compito eterno per i tedeschi: colonizzare l’est e liberare il mondo dagli ebrei. Poi predispone le sue volontà testamentarie: i suoi quadri ad una pinacoteca, il corpo suo e di Eva Braun bruciati. Nessuno lo contraddice, fuori e dentro il bunker. Tranne solo implicitamente Himmler e Goering, che tentano di salvarsi e negoziare la resa.
Più politiche le ultime esternazioni di Mussolini. Il 16 dicembre 1943, nel suo ultimo bellicoso discorso a Milano, ribadisce pari pari la sua missione salvifica epocale, la volontà di resistenza e contrattacco nella Valle Padana. Ma anche la malcelata speranza di bloccare gli Alleati per una pace onorevole. Nel 1926 aveva proclamato: «Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se muoio vendicatemi!». Simulerà di voler resistere, ma poi sceglierà la via della fuga travestito da tedesco. Ultimo sussulto d’onore, a Giulino di Mezzegra: «Mirate al cuore!». Melodramma, bugie, tragedia. Ma mai, nell’ultimo Mussolini, l’onestà di una rettifica, di un dubbio esternato. E perciò ancora una volta, anche nel Mussolini ultimo atto: mimetismo interiore, simulazione di ritorno alle origini socialiste. E magnanimità autoassolutoria su tutto. Incluso l’abbandono, senza combattere, dei suoi camerati. In virtù di una grandiosità narcisistica che si concedeva tutto. Di nuovo lo psicolabile Mussolini rivela la sua freudiana coazione a ripetere: autoesaltazione, e fuga dall’angoscia di morte e irrilevanza. Che lo avevano tormentato in gioventù. Fuga tramite la reinvenzione magica di sè. Infatti già pensava di processare, da sconfitto, i vincitori, o di farsi riabilitare dalla storia. Magari in un processo dinanzi agli Alleati, oppure dalla Spagna, dove tentò di rifugiarsi.
Quanto a Stalin, c’è poco da ricordare: un gesto. Solo il gesto minaccioso di una mano protesa nell’aria, mentre era agonizzante nel 1953. Il che dissuase i suoi uomini, per molte ore, dall’entrare in quella stanza, per timore di venir incolpati dal dittatore. Di averlo creduto morto anzitempo. E qui la paranoia dei sottoposti fa corpo con la paranoia del despota, a confermare un sistema di lunga durata in cui la forzatura della volontà di potenza si rivestiva dei superiori fini della storia. Incontrovertibili e senza limiti: «Dove c’è un uomo, c’è un problema. Nessun uomo,nessun problema...», diceva sempre Stalin.
In conclusione veniamo al nostro Bagaglino nazionale. Con quali parole e quali gesti si accomiaterà Berlusconi un giorno? Con le movenze della scena finale del film «Il Caimano»? Chissà. Forse, senza tragedia e con molto irritante patetismo, si riassumerà come uomo munifico e unto dal signore, ingiustamente defenestrato dai poteri forti (cosa che già fa). Che sbarrò la strada ai comunisti e che ha molto sofferto piuttosto che andarsi a divertire da qualche parte nel mondo. E ripeterà che le sue debolezze personali sono state ingigantite a dismisura. Insomma, da sconfitto si autocompiangerà: come un regalo all’umanità disprezzato dai suoi connazionali. Magari farà da vivo come Nerone morente: «Quale artista muore con me!». E però in fondo anche immaginare questo sarebbe fargli troppo onore. Come trattarlo alla stregua di un intelligente Danton. No, al più una battuta come quella, in chiave autoironica, potrebbe regalarla a Fede o ad Apicella. In pubblico, il Cavaliere farà sempre la parte dell’eroe ingiustamente disarcionato. Perché Berlusconi, Duce light del populismo privatistico baciato da consenso, si ama troppo seriamente e fino all’estremo sacrificio... per congedarsi in modo semiserio.

Corriere della Sera 27.2.11
Le rivoluzioni, eterne fabbriche di falsi
Dalla presa della Bastiglia al crollo del comunismo le menzogne hanno vita facile contro la verità
di Pierluigi Battista


Hanno detto che la «verità è rivoluzionaria» . Ma troppo spesso è vero il contrario: nei grandi tumulti è la menzogna la favorita. Assieme al suo alleato: il complottismo. Anche in Libia la sindrome del complotto si sposa alla fabbricazione di falsi. L’incapacità di capire che una rivoluzione non può essere solo cospirazione. O solo purezza di verità. Il paradosso è che in Italia stavolta è la stampa di destra a scagliarsi in invettive antiamericane, come l’esplosione di Tunisi, del Cairo, di Bengasi e di Tripoli fosse stata architettata nelle segrete stanze di Washington, attualmente occupate dall’arcinemico Barack Obama. Si legge sul Giornale: «teniamo presente che con la propaganda che stanno facendo in giro per il mondo il gioco è chiaro, togliere la Libia all’Italia (…) per accaparrarsi il petrolio libico, le infrastrutture e la posizione strategica» . Su Libero Bat Ye’or, l’autrice di un libro a suo tempo molto apprezzato da Oriana Fallaci, Eurabia, non ha esitazione a rileggere l’intera vicenda dell’ «89 arabo» secondo i canoni della più frusta retorica cospirazionista: «Mi sembra che queste persone abbiano avuto l’ordine di gridare "Vogliamo la libertà e la democrazia"» . L’ «ordine» ? E da chi? Ma naturalmente da chi tiene il bandolo del grande complotto musulmano per impossessarsi dei Paesi arabi e invadere l’Europa con una marea di immigrati infiammati dal verbo dell’Islam. Curiosa coincidenza: la stessa interpretazione viene rimodulata pro domo sua dallo stesso Gheddafi quando accusa Al Qaeda di «drogare» i giovani libici rivoltosi trascinati nelle piazze imbottiti di stupefacenti. «Chi c’è dietro?» è la domanda che il complottista mette sempre al primo posto, sostituendo con questo interrogativo inquisitorio la domanda che dovrebbe essere centrale: «che cosa sta accadendo?» . I cospirazionisti non possono neanche immaginare che nella rivolta delle capitali del mondo arabo non ci sia una centrale occulta, che tutto controlla e dispone nella penombra. A metà dell’Ottocento, di fronte all’incendio che divampò contemporaneamente in tante capitali europee nel ’ 48, l’opinione conservatrice, per spiegare questa sospetta e incomprensibile simultaneità, prese a bersagliare il Grande Nemico: cioè la massoneria, in tutte le sue varianti. Nel crollo repentino dell’Unione Sovietica e dei Paesi suoi satelliti dell’Est, era altrettanto difficile pensare a un collasso interno, all’autocombustione distruttiva di un sistema che sembrava infrangibile. Chi c’era «dietro» quel drammatico e spettacolare afflosciamento del gigante comunista? Oggi i siti online, il paradiso della comunità cospirazionista che si abbevera alle teorie più strampalate, abbondano di dietrologie e complottismi che accusano l’orco imperialista di destabilizzare i regimi arabi per i loro loschi interessi. È la gara alla sparata più conturbante, alla cospirazione più pazzesca. Ma il mondo online, quando nei giorni tumultuosi della Libia non c’era nemmeno l’ombra di un giornalista indipendente, questa volta è stato lo strumento di esagerazioni abnormi, incontrollate, clamorosamente false. La bugia ha trovato accoglienza nel mondo quando è saltato ogni filtro di controllo e di verifica. Gheddafi è un tiranno sanguinario disposto a fare strage dei libici che si ribellano, ma diecimila morti e cinquantamila feriti in un solo giorno sono una cifra che, a parità di ore di bombardamento aereo, non venne raggiunto né a Coventry né a Dresda. E poi le finte fosse comuni, riprese in un luogo che lo storico Angelo Del Boca ha identificato come un cimitero ampiamente noto. Finte fosse comuni, come quelle di cui si nutrì nell’ 89 la leggenda nera di Timisoara e che dovevano dimostrare l’incomparabile crudeltà del dittatore Ceausescu. Non era vero. Non che non fosse vera la crudeltà di Ceausescu, così come è incontestabilmente vera la forsennata ferocia del delirio repressivo che sta muovendo le mosse di Gheddafi. Non era vero, in quelle proporzioni, l’eccidio di Timisoara e non erano nemmeno veri, e qui lo slittamento nel macabro appare inevitabile, i cadaveri disseppelliti. La menzogna consustanziale ai grandi incendi rivoluzionari trova nell’inferno libico una dilatazione mai vista prima. Non è la solenne bugia che sublimò l’epopea della presa della Bastiglia, abitata quel 14 luglio da soli sette detenuti e difesa da un pugno di guardiani malamente armati. O lo sparo di cannone dell’incrociatore Aurora che nell’ottobre del ’ 17 diede grandiosamente il via alla presa del Palazzo d’Inverno, praticamente sguarnito e conquistato con pochi colpi, più la manifestazione di un colpo di Stato che la miccia di una grande sollevazione rivoluzionaria. Non è solo l’epico ritocco che i protagonisti sono soliti dare alle sommosse che hanno cambiato il volto del mondo. Stavolta, nel buio delle informazioni verificate, prima dell’arrivo della stampa internazionale, la menzogna è diventata orrore planetario istantaneo. Non c’era bisogno di esagerare: Gheddafi non è nuovo agli orrori di un dispotismo privo di freni. E non c’era bisogno dei complottisti per constatare come, ancora una volta, la verità è la prima vittima della storia. 

La Stampa 27.2.11
La leggenda della santa socialista
Angelica Balabanoff, la piccola rivoluzionaria “mai tranquilla”: una biografia di Amedeo La Mattina
di Enzo Bettiza


MAESTRA DI MUSSOLINI Gli insegnava il marxismo: un rapporto complesso, umano, sentimentale
AFFASCINATA DA LENIN Ma poi lo definì «scialbo e incolore» e divenne un’anticomunista di ferro

Angelica Balabanoff nacque in Ucraina da una facoltosa famiglia ebrea intorno al 1870 (la data esatta è sempre rimasta avvolta nel mistero) e morì a Roma il 25 novembre 1965. Dopo gli studi in Svizzera, Belgio e Germania, all’inizio del ’900 giunse in Italia, iscrivendosi al Psi, a cui rimase fedele anche negli anni del fascismo, quando riparò all’estero. Nel 1947 aderì alla scissione di Palazzo Barberini ed entrò nel Psli (poi Psdi) di Saragat (nella foto a lato, duranteun congresso negli Anni 50)

La prima pagina del libro (Amedeo La Mattina, Mai sono stata tranquilla , Einaudi 2011) comincia con la descrizione di un’alba d’inquietante agonia del 25 novembre 1965. «Una vecchietta sta morendo in un appartamento romano di Montesacro. Bacia nell’aria un volto che aleggia sulla sua testa canuta» sospirando, nel più accorato dei diminutivi russi, mamuška mamuška … La morente, di cui nessuno sarebbe in grado di precisare l’età inoltratissima, esala l’ultimo mormorio quasi ignota, dimenticata da tutti. È passato più di mezzo secolo dal giorno in cui, mentre abbandonava gli odiati privilegi della tenuta patrizia dov’era nata, venne colpita dallo struggente urlo di malaugurio che la mamuška , la madre padrona, una ricca vedova ebrea di Cernigov in Ucraina, le aveva scagliato addosso: «Tu sarai maledetta per tutta la vita e quando morirai mi chiederai scusa».
Non si sa bene se quella fuga dai territori zaristi verso il Belgio, dove allora si davano convegno illustri «sovversivi» e dottori di marxismo, avvenne negli ultimi due anni dell’Ottocento o ai primi del Novecento. Neppure si sa con certezza se la fuggitiva ribelle, la mezza russa Angelica Balabanova, con desinenza prussificata in Balabanoff, avesse meno o più di vent’anni nel momento della rottura con la facoltosa famiglia i cui beni e vantaggi la riempivano di vergogna e sensi di colpa. La sua vera data di nascita è rimasta sempre avvolta nel mistero. «Qualcuno scrisse Montanelli in un raro “coccodrillo” dedicato dalla stampa italiana alla scomparsa gliene attribuiva novanta, altri novantacinque. Forse li aveva dimenticati anche lei e comunque non le pesavano». La Mattina, biografo appassionato della vegliarda un tempo famosa, poi condannata da gran parte della cultura progressista alla damnatio memoriae , conclude così l’ultima delle sue ricche 370 pagine: «Questo libro è il merito che spetta a una donna che ruppe con Mussolini e con Lenin. Una “santa del socialismo” che diventò anticomunista e implacabile fustigatrice delle debolezze umane e politiche della sinistra italiana».
Il riscatto di memoria, che La Mattina dedica alla Balabanoff con lo scrupolo dello storico e il distacco descrittivo del giornalista, è basato non solo su una ricerca spregiudicata accuratissima, stipata di testi e documenti sottratti all’oblio e alla polvere degli archivi. Egli puntella il suo scavo certosino anche su incontri con personaggi che conobbero in presa diretta quella stranissima errabonda, mai placata, «mai tranquilla», spesso affamata e denutrita, sempre in fuga da se stessa e dalle sue molte patrie: la nativa Ucraina, la culturale Germania, l’insidiosa Francia, l’ospitale America, l’adottiva e amatissima Italia. Fra gli intervistati dall’autore primeggia un vecchio giornalista dell’ Avanti! , Giorgio Giannelli, «unico erede testamentario ancora in vita» e piuttosto incredulo o agnostico, come lo era Renzo De Felice, a proposito della diffusa vulgata che voleva o vorrebbe tuttora vedere in Angelica una delle tante concubine del giovane socialista Mussolini.
Eppure, uno dei nodi di questa biografia a più strati, che come un mare gonfio e profondo ne coinvolge altre maggiori e minori, è proprio nel rapporto complesso, pedagogico, umano, sentimentale, perfino logistico, tra la rivoluzionaria ucraina e l’irrequieto rivoluzionario romagnolo. Una buona metà, se non di più, della narrazione è incentrata infatti sull’incrocio biografico tra il giovanissimo esule in Svizzera, poi direttore dell’ Avanti! , quindi leader dell’ala rivoluzionaria del Partito socialista, e la meno giovane ma certamente più dotta Balabanoff che aveva letto moltissimo e parlava almeno cinque lingue. De Felice, sempre attento a frenare pettegolezzi e vulgate, non ha concesso spazio nel suo Mussolini il rivoluzionario alla probabilissima relazioneanche erotica tra l’allievo autodidatta e la prolifica maestra ucraina di marxismo, la quale, nella scia delle mode più estremiste dell’epoca, teorizzava e praticava l’amore libero.
Lo stesso De Felice aveva invece messo bene a fuoco, sul piano storiografico, l’incisiva e determinante influenza ideologica esercitata sulla formazione di Mussolini, oltreché dall’onesto Giacinto Menotti Serrati, dall’incalzante Balabanoff, che cercherà di sospingere l’ambizioso pupillo sulla strada di un maggiore approfondimento dottrinario del socialismo. Va detto che, per molti aspetti, l’aristocratica rivoluzionaria era una idealista tanto colta quanto ingenua. Sembrava non accorgersi, forse mentalmente confusa da sentimenti e istinti poco libreschi, che soprattutto Sorel era per Mussolini assai più importante di un Marx già contestato da Bernstein e limato dal grande Kautsky; sembrava non avvertire che le riflessioni sulla violenza, sullo sciopero generale, in una parola il sindacalismo rivoluzionario erano a lui, ideatore del primo fascismo che nasce come tronco deviato dalla sinistra anarchica e massimalista, assai più congeniali del materialismo storico e dialettico predicati dal profeta del Capitale . Non a caso Mussolini aveva ammirato Bakunin e tradotto dal francese qualche pagina di Kropotkin.
Ancora più tardi, negli anni antecedenti la Prima guerra, quando gli farà da spalla nella direzione dell’ Avanti! e lo appoggerà nella conquista delle principali leve del Partito socialista, la medesima Balabanoff, alleata ostinata e cieca, stenterà ad afferrare gli scatti della metamorfosi mannara di un Mussolini ormai maturo e sicuro di sé. Non intravederà l’ombra nera di Hyde accovacciata nel grembo del suo caro Jekyll d’estrema sinistra. Non capirà che il demiurgo moderno, narcisistico, di penna perentoria, d’oratoria tonitruante, di gestualità melodrammatica, in scaltra sintonia con l’infantilismo belluino delle masse stava ormai prevaricando e sbeffeggiando l’idealismo ottocentesco di lei educata agli slanci del populismo russo e alle certezze storicistiche del marxismo tedesco.
La «santa atea», come la chiamavano, non riuscirà in definitiva a comprendere che il Mussolini rampante, il Mussolini «milanese» dopo l’esilio svizzero, si era sempre servito di lei come di una comoda facciata massimalista nella lotta per il potere all’interno del socialismo italiano contro la destra riformista e salottiera dei Turati, delle Kuliscioff, dei Treves. Alla vigilia della guerra, allorché l’ultrasocialista si convertirà dal neutralismo all’interventismo e lascerà la guida dell’ Avanti! per fondare da un giorno all’altro Il popolo d’Italia , la Balabanoff si sentirà sconvolta e come travolta da un disastro esistenziale. Il primo numero del Popolo uscirà il 15 novembre 1914, qualificandosi per breve tempo «giornale socialista», ma esibendo sotto la testata una citazione napoleonica che sembra già covare in nuce il germe dei futuri Fasci di combattimento: «La rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette».

Corriere della Sera 27.2.11
Leonardo, Virgilio, Aristotele: tutto in Rete
di Armando Torno


La Biblioteca Ambrosiana di Milano è in Italia, per numero di manoscritti, seconda soltanto alla Vaticana. Ne custodisce circa 36 mila. Tra essi vi sono cose uniche al mondo, come il Codice Atlantico di Leonardo (nella foto, l’autoritratto) o le opere di Virgilio appartenute e appuntate da Petrarca (è il libro sul quale morì). Non soltanto: ecco il codice dell’antica traduzione siriaca della Bibbia (secoli VI-VII) comprendente anche l’apocrifa Apocalisse di Baruch, o un manoscritto vergato da Boccaccio con una versione trecentesca dell’Etica Nicomachea di Aristotele. Né mancano rarità per il testo di Omero o latine, arabe, copte, persiane, etiopiche, armene, ebraiche. Imanoscritti vivono una paradossale esistenza: essere custoditi e tendenzialmente mai toccati per non depauperarsi; essere letti e visti da tutti perché sono il tesoro della nostra memoria culturale. Si supera questa contraddizione con l’informatica di alto profilo. E l’Ambrosiana sta per rispondere all’appello fondando, accanto alla raccolte reali, una biblioteca digitale. Essa permetterà di accedere al patrimonio dei manoscritti da qualsiasi parte del mondo, servendosi di Internet, con la possibilità di avere immediata riproduzione di pagine o parti richieste. La digitalizzazione del corpus dei codici dell’Ambrosiana sarà annunciata nei dettagli alla fine di questa settimana e si conosceranno tempi e modalità dell’operazione che ha avuto una sponsorizzazione della Fondazione Cariplo. Gianantonio Borgonovo, direttore della Biblioteca e insigne studioso del mondo biblico, confida: «Spiegheremo questa rivoluzione senza precedenti, nella quale noi saremo i garanti di un patrimonio che tutti, attraverso la rete, stanno conoscendo. La biblioteca digitale diventa importante quanto gli stessi manoscritti ed eviterà che siano gli altri a gestire online questo nostro tesoro» . E ancora: «Diversamente avremmo rischiato di presidiare una biblioteca che conserva fisicamente i libri, ma non il loro contenuto» .

Il Sole 24 Ore Domenica 27.2.11
Sul crocifisso un muro divide le aule d'Italia
Un pamphlet di Sergio Luzzatto spiega perché toglierlo dai luoghi pubblici: non contro la Chiesa, ma in difesa della laicità dello Stato
di Michele Ainis


Perché lasciare uno spazio vuoto? Il secolarismo si difende anche con pareti piene disegni da ogni confessione
Negli anni si sono manifestate posizioni inattese a favore (Cacciar! e Ginzbnrg) o contrarie (don Milani)

Poverocristo o povero Cristo? Dobbiamo prendere partito per Marcello Montagnana (l'insegnante di Cuneo che andò sotto processo per aver rifiutato l'ufficio di scrutatore alle politiche del 1994, protestando contro l'esposizione del crocifisso nei seggi elettorali) o è giusto schierarsi per il simbolo dolente che campeggia in tutti i nostri edifici pubblici? Sergio Luzzatto sceglie decisamente il primo, ma senza mancare di rispetto nei confronti del secondo. Il rispetto del quale in Italia siamo orfani è piuttosto un altro: quello che andrebbe tributato al principio di laicità del nostro Stato. Lo professiamo a chiacchiere, però nei fatti ce lo mettiamo sotto i piedi. E a tale riguardo la vicenda del crocifisso è la più dibattuta, ma non la più eloquente. Ne è prova per esempio il finanziamento pubblico alle scuole private, che al 90 per cento sono scuole cattoliche: la Costituzione lo vieta espressamente, una legge del 2000 lo permette allegramente.
Sarà per questo, per la cifra di disperazione che ormai accompagna i laici nel paese in cui torreggia il Cupolone, che Luzzatto ha scritto un libro acre come zolfo, dove risuonano gli accenti del pamphiet. E dove riecheggia la storia di Montagnana insieme a quella dei coniugi Lautsi, che hanno ingaggiato una lunga battaglia giuridica e civile contro l'esposizione del crocifisso nelle scuole. Potremmo aggiungervi pure il giudice Tosti, che ha fatto altrettanto per espellere questo simbolo ingombrante dai muri delle aule giudiziarie, guadagnandone in cambio una sfilza di processi e di castighi. L'elenco è lungo. Ma è lungo anche l'elenco dei paladini del crocifisso, dove figurano intellettuali insospettabili come Natalia Ginzburg, donna laica e di sinistra. Nonché nomi importanti dell'intellighenzia cattolica italiana, quali Massimo Cacciari e Franco Cardini. Luzzatto ricorda ‑ con qualche grammo di perfidia ‑ che il primo viene dall'operaismo sessantottesco, il secondo dal neofascismo degli anni Cinquanta, però l'approdo è identico.
E quale arma dialettica viene brandita in questi casi? Un coltello a doppia lama, benché le due lame siano poi tutt'altro che affilate. In primo luogo ‑ s'osserva ‑ quella croce di legno non fa male a nessuno, è un dettaglio dell'arredamento pubblico sul quale i più passano via senza degnarlo d'uno sguardo. Curiosa questa difesa della rilevanza pubblica del crocifisso in nome della sua irrilevanza pubblica. Ma a sprezzo della logica, gli indomiti crociati ci rovesciano addosso una domanda: se è questione dappoco, allora perché tanto accanimento? Risposta: perché quand'anche fosse un solo uomo a sentirsene ferito, a venire sopraffatto da una religione dominante che lo esclude, uno stato democratico avrebbe l'obbligo d'aprire un ombrello in sua difesa. I diritti valgono per i deboli, non per i forti. Servono ai meno, non ai più. Specialmente quando entra in gioco la libertà di religione, che storicamente ha preceduto la stessa libertà di manifestazione del pensiero. Se fossero libere soltanto le parole di chi canta nel coro, sarebbe come stabilire in una legge che hanno diritto al vino esclusivamente gli ubriachi.
D'altronde lo ha dichiarato pure la Consulta, attraverso un nutrito gruppo di pronunzie che s'affaccia sul volgere degli anni Settanta: il principio di maggioranza non si applica alla sfera religiosa, e dunque è "inaccettabile" ogni discriminazione basata sul numero degli appartenenti ai vari culti. Non fu minoranza la stessa Chiesa cattolica? Venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli, anche se adesso qualcuno lo ha un po' dimenticato. Ma si può ben essere cattolici senza pretendere d'imporre al prossimo le insegne del papato. Ne è testimonianza don Milani, che tolse il crocifisso dalle pareti della scuola di Calenzano per cancellare ogni sospetto di pedagogia confessionale. Ne è testimonianza il gesto di Cesare Ruperto, ex presidente della Corte costituzionale: benché cattolico, all'atto del suo insediamento fece eliminare il crocifisso dall'aula delle udienze alla Consulta. Perché quello spazio è pubblico, di tutti. E perché la nostra carta afferma l'eguaglianza delle confessioni religiose.
Qui però s'affaccia l'altro argomento inalberato dai crociati: non è per le nostre idee particolari che sosteniamo il crocifisso obbligatorio, lo facciamo per il vostro bene, per difendere la storia della quale anche voi atei o miscredenti siete figli, e dunque per difendere l'identità che vi appartiene. Non è forse vero che riposate di domenica ("il giorno del Signore"), che contate gli anni a partire dalla nascita di Cristo? E allora il crocifisso è un simbolo civile, allora la laicità si nutre di valori religiosi: nel 2006 lo ha scritto anche il Consiglio di Stato.
Dev'essere per questo, per la santificazione dell'ossimoro operata dai nostri tribunali, che Luzzatto dichiara in ultimo tutta la sua sfiducia nel diritto. Dice: a breve arriverà un verdetto dalla corte di Strasburgo, ma tanto per noi non cambierà mai nulla. Sbaglia, perché la querelle si vince o si perde sull'altare della legge. Ma non è detto che la laicità reclami un muro nudo. Non è detto che la difenderà un divieto, come nella Francia che nel 2004 ha proibito il velo in classe, nel 2010 il burqa. Possiamo aggiungere, anziché togliere. Possiamo allestire un muro colorato, dove campeggiano i simboli d'ogni religione, e anche lo stemma di chi non ha religione. Quanto a noi laici, ci basterebbe il faccione corrugato di Voltaire.