martedì 1 marzo 2011

l’Unità 1.3.11
Bell’Italia che non si ferma più: l’8 per le donne, il 12 per tutti
Ancora lì, piazza del Popolo Per difendere la Costituzione
Il ponte rosa: «Incontriamoci ovunque, è il nostro risorgimento»
Il 12 marzo «Costituzione Day». A Roma corteo da piazza Repubblica a piazza del Popolo per difendere i diritti sotto attacco. Sul palco studenti e precari. Adesioni da Fli a Rifondazione.
di Andrea Carugati e Mariagrazia Gerina


«Costituzione Day, l’Italia s’è desta» è il titolo della manifestazione che il 12 febbraio attraverserà le strade della Capitale per difendere la Carta e tutti i suoi principi, a partire dall’equilibrio tra i poteri, la scuola pubblica, la libertà di informazione. Grande corteo da piazza della Repubblica e traguardo a piazza del Popolo, la stessa che il 13 febbraio ha ospitato la grande manifestazione delle donne.
L’idea della manifestazione è partita da Articolo 21, e via via si è allargata di promotori e adesioni, dall’Anpi alla Tavola della Pace, il Popolo Viola, la Rete degli studenti medi e gli universitari dell’Udu, gli artisti del Movem (Movimento emergenza cultura), Libera informazione di Don Ciotti, e uno schieramento di forze politiche «mai visto prima, dai finiani a Rifondazione», spiega Beppe Giulietti, portavoce di Articolo 21. L’attacco di Berlusconi alla scuola pubblica ha aggiunto un’altra caratterizzazione forte alla manifestazione, che sarà quindi anche una trincea in difesa dell’istruzione statale e dei suoi protagonisti, insegnanti e studenti. Ma ormai non passa giorno che il premier non attacchi qualche pilastro fondamentale della Costituzione, ieri è stata la volta del Quirinale e della Corte Costituzionale. «La nostra sarà una piazza a difesa delle istituzioni, dell’unità nazionale, dei diritti», spiega Giulietti. «C’è una convinzione, una preoccupazione condivisa che si voglia superare l’ordinamento costituzionale. Nel mirino non ci sono più solo giudici e giornalisti, ma anche il Parlamento, il Quirinale, la scuola, il mondo del lavoro. Il premier si propone di oscurare tutto ciò che non è riconducile a lui, ogni forma di controllo e garanzia. A rischio non sono solo alcuni poteri, ma i diritti di tutti i cittadini».
Hanno aderito i big del Pd, da Bersani a Franceschini e Bindi, Sinistra e libertà, Italia dei Valori, Federazione della Sinistra, parlamentari di centro come Bruno Tabacci ed esponenti di Fli come Fabio Granata, Flavia Perina e Filippo Rossi di Farefuturo. Ma non ci saranno politici sul palco. Ad aprire la manifestazione sarà una studentessa, tra gli ospiti attesi anche Roberto Vecchioni, cantautore ma anche insegnante per una vita, che ha già aderito all’appello de l’Unità a difesa della scuola. Molti i contatti in corso con artisti e intellettuali, da Roberto Benigni a Bernardo Bertolucci, Moni Ovadia, Monica Guerritore, Marco Paolini. Sul palco, spiegano Domenico Petrolo e Giorgio Santelli, del comitato promotore (www.adifesadellacostituzione.it) «anche altri “testimoni” dei diritti negati, di una Carta ancora non applicata nella sua interezza, a partire dai lavoratori precari». I promotori propongono di andare in piazza col Tricolore e una copia della Carta. Colonna sonora l’Inno di Mameli ma anche il Va Pensiero
«che non appartiene alla Lega ma alla storia del Risorgimento, dunque a tutti gli italiani», dice Santelli.
Previste altre manifestazioni satellite in altre città italiane ed europee, come Milano, Torino, Firenze, Bari, Trieste, Catania, Palermo, Catanzaro, Lecce, Aosta. E poi Londra, Parigi, Berlino, Barcellona. Un replay in grande stile del 12 febbraio, dunque. Ma anche un ideale sequel delle piazze sindacali, degli studenti, contro il bavaglio alle intercettazioni. «È una manifestazione senza padri», chiude Giulietti. «Abbiamo solo raccolto le domande di un vastissimo arcipelago».

Con il fiocco rosa fai-da-te al posto delle mimose. Al grido «riprendiamoci l’8 marzo» il comitato Se non ora quando? rilancia la rivolta del 13 febbraio. Stavolta al centro: lavoro e diritto alla maternità per tutte.
di Mariagrazia Gerina


C’è un ponte, ideale e concreto, tra la marea che il 13 febbraio ha invaso le piazze di tutta Italia e del mondo in difesa della dignità delle donne e il moto di rabbia che spinge a far ripartire il tam tam, a riconvocarsi di nuovo in piazza, il 12 marzo, per difendere, stavolta, la dignità della scuola pubblica. Quel gruppetto di donne apripista «non chiamatelo comitato centrale, per carità» che ha dato il la alla rivolta del Se non ora quando lo spiega richiamando l’attenzione, alla vigilia dell’8 marzo, su un dato concretissimo. Che sono soprattutto le donne con la loro presenza «massiccia, in qualche caso totale» nella scuola pubblica di ogni ordine e grado, ad affrontare «con straordinario impegno e dedizione, percependo stipendi bassissimi... uno dei compiti più delicati e decisivi per la comunità nazionale: l’educazione e la formazione delle nuove generazioni». Per «noi che abbiamo rivendicato rispetto e dignità per le donne, tutte», l’«incredibile e stupefacente», aggressione verbale del presidente del consiglio alla scuola pubblica ha anche questo «particolare rilievo», spiegano le promotrici del 13 febbraio, che aderiscono all’appello de l’Unità. E lanciano una sorta di gemellaggio con le piazze dell’8 marzo: «In tutte le iniziative non si potrà non esprimere solidarietà alle insegnanti e agli insegnati della scuola pubblica italiana».
Non sarà un secondo 13 febbraio, non ci sarà un’altra prova di piazza, ma l’adesione senza precedenti a quel tam tam dal basso dice che questo sarà un 8 marzo diverso da tutti gli altri. «Incontriamoci fuori dagli asili, nei parchi, nei luoghi di lavoro, nelle unviersità...», suggeriscono le organizzatrici del 13 febbraio, che in attesa di vedere come si autorganizzerà la rete presidi, flash mob, cortei, assemblee (loro il presidio lo hanno fissato nella multietnica piazza Vittorio, a Roma, da cui partiranno i pulmini con altoparlante stile «è arrivato l’arrotino...») lanciano come simbolo di questa nuova capillare mobilitazione un fiocco rosa fai-da-te, al posto delle solite mimose. Da appuntare al cappotto, da mettere sulla borsa o sulla macchina, da appendere ai semafori, ai pali, alle statue. A suggerire una specie di nuovo «risorgimento», guidato dalle donne. Al grido: «Rimettiamo al mondo l’Italia. Se non ora quando?».
Lavoro, interventi contro la precarietà, maternità come diritto di cittadinanza, indennità garantita a tutte e a carico della fiscalità generale, congedo di paternità obbligatorio, norme che impediscano il licenziamento “preventivo” delle donne. Il risorgimento rosa passa di qui, secondo le promotrici del Se non ora quando?, che suggeriscono di mettere questi temi al centro dell’8 marzo. Certo non ci sono solo loro. «Noi, collettivi femministi romani, organizzeremo una Street Parade da Porta Maggiore, per riprenderci la notte», si alza in piedi, Cinzia, 30  anni, di Donne Da Sud. «E non sono tanto d’accordo sul vostro appello, per noi 8 marzo è anche informazione nelle scuole, aborto, Ru486, la retorica del fiocco rosa è un po’ stucchevole».
Che il tentativo del comitato organizzatore di traghettare oltre il 13 febbraio la rivolta delle donne sia un work in progress è fin troppo chiaro. Però, rivendica la “futurista” Flavia Perina, è questo il bello. Lo spirito movimentista non va imbrigliato, dice rinnovando l’appello al dialogo anche alle donne del Pdl che si riuniranno in assemblea il 5 marzo. «La manifestazione del 13 è stata così bella perché ogni donna l’ha presa nelle sue mani», dice la Sel Cecilia D’Elia. Poi verranno le assemblee. E magari anche gli Stati generali delle donne, come suggerisce qualcuna. «Non avete idea azzarda una militante di cosa ci sia fuori di qui, in questo paese».

l’Unità 1.3.11
Pubblica Istruzione
Già in ventimila con l’Unità
E oggi sit-in a Palazzo Chigi


Ventimila firme all’appello dell’Unità in difesa della scuola pubblica in poche ore. Su unita.it, il nostro sito, hanno aderito studenti, insegnanti ma anche intere famiglie, ragazzi e pensionati, operai e intellettuali. Sono indignati, arrabbiati. Perché, scrive un lettore, «questa inaudita devastazione della scuola pubblica che è anche devastazione della democrazia».
E insieme alle adesioni dei cittadini continuano ad arrivare quella degli uomini e delle donne della cultura, della politica: Raffaele Cantone, il comitato Se non ora quando, il Cidi, Luisa Mattia, Loredana Lipperini, Roberto Vecchioni, Jovanotti, Neri Marcorè, Nichi Vendola, Moni Ovadia, Mario Martone, Marco Baliani, Giuseppe Montesano, Vincenzo Cerami, Giulio Scarpati, Emma Dante e tanti altri che di ora in ora firmano la nostra petizione e la rilanciano. E in attesa della grande manifestazione del 12, per oggi alle 17.30, il Partito Democratico ha promosso un sit-in sotto Palazzo Chigi (via del Corso, lato Galleria Colonna) in difesa di una scuola pubblica garanzia della libertà. Saranno presenti tra gli altri i capigruppo Pd di Camera e Senato, Dario Franceschini e Anna Finocchiaro e la presidente dell'assemblea nazionale del Pd e vicepresidente della Camera Rosy Bindi. «È inconcepibile che, nel pieno di un'emergenza economica e sociale come quella che stiamo attraversandocommenta la responsabile Scuola della segreteria Pd, Francesca Puglisiil governo, nelle persone del presidente del Consiglio e del ministro della Pubblica istruzione, taglino e smontino progressivamente il cuore del sapere e della formazione dei giovani».

l’Unità 1.3.11
Adesso basta, meritiamo rispetto
C’è una classe politica che offende e mortifica continuamente la scuola italiana. Contro la democrazia, contro la Costituzione
di Sofia Toselli


Adesso basta, basta insulti. La fatica di insegnare e apprendere, la fatica di crescere, merita rispetto, attenzione e cura.
E una classe politica che non è capace di capire questa verità elementare offende e mortifica continuamente la scuola italiana,con ogni atto e con ogni parola da quasi tre anni, fa al Paese l’offesa più grande.
Qui non si tratta solo di non investire sul futuro dei nostri figli, questo purtroppo gran parte dell’Italia lo ha capito da tempo, qui si tratta, se possibile, di vero e proprio disprezzo.
Tutti i giorni gli insegnanti sono impegnati, attraverso il confronto delle idee, nello sforzo di istruire e educare cittadini liberi, colti, capaci di pensiero autonomo.
Questo è il compito prioritario della scuola pubblica. Come si fa perciò a dire che gli insegnanti vanno contro l’interesse dei genitori?
In realtà si vuole attaccare la scuola pubblica per imporre omologazione, aggredire la Costituzione e in sostanza il futuro democratico del nostro paese.

l’Unità 1.3.11
Il 12 in piazza per il futuro di tutti
Vogliamo un Paese migliore, dove i diritti non siano privilegi e l’istruzione pubblica la base da cui costruire
di Sofia Sabatino


Siamo studenti e studentesse che vivono in un paese in cui le regole democratiche vengono continuamente messe in discussione proprio da chi invece dovrebbe difenderle. Abbiamo difficoltà a riconoscere l’Italia che ogni giorno viene narrata dai tg come qualcosa che ci appartiene, sentiamo forte il peso di un Paese che non ci considera soggetti attivi e pensanti,che si fa beffa del nostro profondo disagio e della nostra condizione di precarietà. Siamo studenti e studentesse che credono però che esista
un Paese migliore, che l’Italia non sia fatta soltanto da politici corrotti, imprenditori senza scrupoli, mafia e favoritismi. Ogni giorno ci impegniamo per cambiare questo Paese, partendo dalle scuole, dalle università e dai luoghi della formazione ed è per questo che per noi 150 anni di unità non sono una questione da poter liquidare con dibattiti sterili, sulla chiusura o apertura delle scuole e dei luoghi di lavoro il 17 marzo, su populiste questioni sulle differenze economiche e culturali tra Nord e Sud. Crediamo che 150 anni di unità vogliano dire 150 anni di diritti e di democrazia. Siamo quegli studenti che leggono, discutono e conoscono la Costituzione Italiana, che si emozionano quando sentono parlare i padri costituenti e i partigiani che hanno liberato e costruito un paese democratico. Gli stessi studenti che rabbrividiscono quando la Costituzione viene vista dai partiti e dalle forze politiche come qualcosa da osannare o calpestare a seconda dello schieramento. Crediamo che la Costituzione sia ciò che dovrebbe garantire le nostre libertà, i nostri diritti, la nostra democrazia. Assistiamo invece ad un Paese che va alla deriva, guidato da chi vede le leggi come uno strumento per garantire se stessi. Vogliamo scendere in piazza il 12 marzo come studenti, come giovani, ma soprattutto come cittadini di questo Paese per difendere i diritti, i doveri, i principi e i valori che la nostra Costituzione sancisce e che vorremmo vedere realizzati e non attaccati, smantellati, aggirati.
Scendiamo in piazza perché crediamo e vogliamo difendere la scuola e l’università pubblica, come valore fondante della nostra democrazia, come garanzia di libertà e parità per tutti. Scendiamo in piazza perché troppi ad oggi sono i diritti negati, i princìpi non rispettati. L’Italia è un Paese che dovrebbe garantire l’accesso ai saperi e il diritto allo studio per tutti e tutte, come sancito dall’articolo 34 della Costituzione. Invece viviamo un’Italia abbandonata sé stessa, dove i giovani non hanno un futuro e dove la formazione è considerata una spesa e non una risorsa.

l’Unità 1.3.11
Un paese fondato sulla scuola: così l’istruzione ha unito l’Italia
La nascita di un sistema scolastico nazionale, avvenuta dopo l’unificazione, fu la mossa decisiva per sconfiggere l’analfabetismo secolare ma anche per creare un senso nuovo di appartenenza
di Benedetto Vertecchi


L’imbarazzo    che in modo sempre più evidente le forze politiche di maggioranza manifestano nei confronti delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario della proclamazione dello Stato unitario sta avendo come conseguenza la rinuncia a considerare la ricorrenza come un’occasione per riflettere su che cosa è cambiato nel secolo e mezzo che ci separa dal 1861. Invece di porre l’attenzione sui processi di trasformazione che hanno interessato la struttura della popolazione e le condizioni della vita quotidiana, la cultura e le attività produttive, si sta assistendo all’evocazione più o meno convinta di eventi ormai lontani, ma che sembrano ancora più lontani se si prescinde dal coglierne le implicazioni su quanto è avvenuto nel seguito. Ne deriva che l’enfasi sia posta sugli eventi che segnarono il compimento del disegno unitario, e che restino sullo sfondo, o siano del tutto ignorati,
aspetti della realtà nazionale che costituivano un problema e che anche oggi richiedono risposte complesse. E sono risposte che suppongono interpretazioni non rituali dell’identità nazionale e del modo in cui tale identità si è venuta evolvendo.
Se oggi ricordiamo il 1861 non è perché in quell’anno qualcosa si è concluso, ma perché qualche altra cosa, ben più rilevante, quell'anno ha avuto inizio. È proprio ciò che nel 1861 ha avuto inizio la ragione dell’imbarazzo che si manifesta nella Destra al governo: lo Stato unitario ha avviato processi di trasformazione e di modernizzazione che nel tempo hanno prodotto i tratti distintivi della popolazione italiana, quei tratti che si vorrebbero negare col richiamo ad una fantasiosa antropologia localista per affermare altre supposte identità. Del resto, il raggiungimento dell’Unità nazionale di per sé non risolveva alcuna delle difficoltà che segnavano la vita quotidiana in un paese arretrato, in gran parte analfabeta, toccato ancora solo marginalmente dallo sviluppo dell’industria e dei trasporti. Semmai, disporre di più ampi riferimenti faceva apparire ancora più gravi questi limiti.
In quel contesto risultò evidente che lo sviluppo dell’istruzione avrebbe rappresentato una condizione centrale per la crescita sociale ed economica. Non che da questa consapevolezza siano derivati atteggiamenti unanimi e decisioni subito coerenti. Ma, anche se in modo incerto e contraddittorio, con l’Unità si avviava la costruzione del sistema scolastico italiano. La scuola sarebbe stata alla base del diffondersi di un nuovo sentire, nel quale il superamento di una condizione secolare di ignoranza appariva strettamente associato all’affermazione di un’idea di progresso. Alla crescita della scuola corrispose il diffondersi nelle diverse classi sociali della conoscenza della lingua italiana, prima limitata a poche aree del paese o agli strati favoriti della popolazione che avevano ricevuto almeno alcuni rudimenti di istruzione.
Fu ben presto evidente che le scuole sarebbero state uno strumento essenziale di crescita non solo per ciò che riguardava la diffusione dell’alfabeto, ma anche per modificare gli stili e le pratiche della vita quotidiana. Ben presto tuttavia si manifestò il conflitto che avrebbe a lungo caratterizzato lo sviluppo dell’educazione scolastica in Italia (più che in altri paesi) fra quanti sostenevano che la popolazione destinata a svolgere attività subalterne e ripetitive non avesse bisogno di istruzione e i sostenitori della sua necessità non solo ai fini produttivi, ma anche della vita sociale e politica. Al liberismo economico, che dominava lo scenario politico nello stato unitario lasciando che bambini e ragazzi fossero avviati precocemente al lavoro e dovessero subire le conseguenze della fatica fisica e della permanenza prolungata in ambienti malsani, si andava opponendo la consapevolezza che attraverso le scuole si sarebbe potuta ottenere una migliore qualità delle condizioni di esistenza. Anche se con lentezza, fu questa consapevolezza che finì con l’affermarsi. A scuola i bambini impararono non solo a leggere, scrivere e far di conto, ma ad aver cura del proprio corpo, a osservare alcune importanti norme igieniche, a eseguire esercizi fisici. Le scuole, soprattutto al livello primario, non si limitavano a incoraggiare comportamenti che avrebbero avuto ricadute positive nel seguito della vita, ma assumevano funzioni diagnostiche che sarebbe stato molto improbabile fossero svolte da altri: ai maestri si chiedeva di verificare i progressi nella dentizione, la crescita della statura, l'eventuale apparire di malformazioni nella struttura ossea, di ghiandole linfattiche, di lunette sulle unghie eccetera. Sulle cattedre comparvero le bottiglie di olio di fegato di merluzzo, che ebbero sullo sviluppo di più generazioni un ruolo altrettanto positivo dell’istruzione.
Chi consideri le caratteristiche attuali della popolazione italiana e le ponga a confronto con quelle che i documenti d'epoca indicavano come correnti negli anni attorno all'Unità non può che prendere atto che i cambiamenti intervenuti hanno mutato sostanzialmente il profilo sociale, culturale e fisico degli italiani. Certo, non tutto si deve solo alla scuola; o, meglio, non tutto si deve solo alla scuola, ma è certo che quanto oggi appare positivamente trasformato non avrebbe potuto esserlo senza la scuola.
L'imbarazzo che circonda l'anniversario del raggiungimento dell'Unità è più che mai evidente se si considera l'ostinazione con la quale i governi della Destra stanno cercando di contrastare il ruolo che la scuola, e in particolare la scuola dello stato, ha assunto nel progresso del paese e nel prodursi del profilo della popolazione italiana. La scuola ha proseguito e perfezionato il disegno unitario del Risorgimento, conferendo significato di cittadinanza all'uso della lingua e all'acquisizione della cultura tramandata dalla tradizione. Ridurre il ricordo del 1861 all'evocazione di eventi lontani, o respingere del tutto tale ricordo, non è possibile fin quando il sistema scolastico, per quanto mortificato da interventi poveri di interpretazioni e solo preoccupati di limitare la spesa, continuerà ad affermare il valore della scelta nazionale compiuta centocinquanta anni fa.

l’Unità 1.3.11
Credere, obbedire, inculcare
di Marco Simoni


Quando ho letto le dichiarazioni del Presidente del Consiglio sulla scuola pubblica «ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli» mi sono chiesto: ma che principi voglio “inculcare” io ai miei figli? Faccio già abbastanza fatica a spiegare che non si può guardare la Tv per più di venti minuti, e ho dalla mia la possibilità di impormi fisicamente spegnendo l’apparecchio, l’idea di poter quindi inculcare “inculcare”, non “spiegare”, “raccontare”, “suggerire” dei principi addirittura, mi sembra un impresa improba, impossibile.
In effetti, come tutti i genitori ho il desiderio che i miei figli mi seguano per alcune cose, per altre meno, e sarei gratificato nel testimoniare scelte che assomiglino alle mie; credo che il narcisismo abbia in questo un ruolo almeno pari alla convinzione che i principi che cerco di seguire siano giusti. Tuttavia, penso anche che alla fine faranno quello che vogliono. Le scelte che compiono i figli dicono qualcosa dei loro genitori e della loro scuola, ma dicono molto soprattutto di loro stessi. Non credo dunque di poter scegliere una scuola che “inculchi” alcunché, ma posso cercare di esporre i miei figli a conoscenze ed esperienze che li aiutino a dare significato alle scelte che compiranno.
Proprio in queste settimane ho conosciuto meglio i caratteri profondamente classisti della scuola pubblica inglese, in particolare nelle città come Londra, in cui le opportunità di una vita possono dipendere dalla scuola elementare che si frequenta. Le riforme del New Labour nel quindicennio passato hanno fatto molto, affrontando una situazione eccezionalmente grave, ma non sembra abbastanza. Tuttavia, così come è difficile migliorare una grande istituzione in difficoltà, è difficile affossare una istituzione forte, che dipende soprattutto dalla cultura, e dal lavoro di chi la scuola la fa.
Per questo, nonostante la mancanza delle attenzioni che meriterebbe, la scuola italiana rimane una straordinaria fonte di riflessioni sul Paese (basti pensare ai recenti libri di Paola Mastrocola e Silvia Dai Prà) e uno degli assi fondamentali su cui poter ragionevolmente basare il nostro futuro. Non si tratta di ignorare le sue sofferenze, che non dipendono come al solito solo dalla destra, ma di una considerazione fredda sulle forze dell’Italia, una delle quali secondo me è la sua scuola, pubblica, diffusa, di buona qualità e spesso eccellente. Ieri sul Sole24Ore Andrea Ichino ha spiegato il lavoro prezioso che sta compiendo l’Invalsi per capire quali scuole funzionano meglio e quali peggio: primo passo necessario per migliorare le seconde e assicurarsi che le prime continuino così.

l’Unità 1.3.11
Quanto vale una scuola
di Giancarlo De Cataldo


In Italia, l’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento. In Italia, la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e i gradi. In Italia, anche enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, purché senza spese per lo Stato. La legge fissa i diritti e gli obblighi delle scuole non statali e ha l’obbligo di assicurare la loro piena libertà e di garantire agli alunni lo stesso trattamento delle scuole statali. Sul piano operativo, in Italia la scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. Per questo motivo la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altri contributi assicurati per concorso.
Tutto quello che avete letto sinora proviene dagli articoli 33 e 34 della Costituzione. Era necessario, per i padri costituenti, stabilire la libertà d’insegnamento perché si usciva da una dittatura che aveva esercitato un controllo capillare sulla formazione dei giovani, vietando ogni forma di conoscenza non aderente ai canoni del regime. Se il quadro di riferimento è così chiaro, le recenti polemiche sulla scuola pubblica investono direttamente il disegno costituzionale. Un paio d’anni fa, d’altronde, autorevoli pensatori “liberali” si pronunciarono contro l’insegnamento della Costituzione nelle scuole, sostenendo che un testo “storico”, e dunque soggetto a modifiche nel tempo, non doveva diventare, attraverso l’insegnamento, oggetto di culto. C’è, insomma, una certa insofferenza per questa nostra Costituzione che è pensata per evitare, o almeno contenere al massimo, il rischio che un nuovo “pensiero unico”, imposto dall’alto, si impossessi delle coscienze, forgiandole a propria immagine e somiglianza.

Repubblica 1.3.11
La distruzione di un bene pubblico
di Salvatore Settis


È bello che l´onorevole Gelmini, nel commentare le dichiarazioni del presidente del Consiglio sulla scuola, abbia citato la Costituzione. Peccato che l´abbia citata a sproposito, capovolgendone il senso.
Secondo l´on. Gelmini, «Il pensiero di chi vuol leggere nelle parole del premier un attacco alla scuola pubblica è figlio della erronea contrapposizione tra scuola statale e scuola paritaria. Per noi, e secondo quanto afferma la Costituzione italiana, la scuola può essere sia statale, sia paritaria. In entrambi i casi è un´istituzione pubblica, cioè al servizio dei cittadini». Ma la Costituzione non dice questo, dice il contrario (art. 33). Dice che «la Repubblica detta le norme generali sull´istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». Che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Dice che «la legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali». L´art. 34 aggiunge che «l´istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita», e prescrive che la Repubblica privilegi, con borse a aiuti economici alle famiglie, «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi». La Costituzione stabilisce dunque una chiarissima gerarchia. Assegna allo Stato il dovere di provvedere all´educazione dei cittadini (obbligatoria per i primi otto anni) e di garantirne l´uguaglianza con provvidenze ai «capaci e meritevoli». Fa della scuola di Stato il modello a cui le scuole private devono adeguarsi, e non ipotizza nemmeno alla lontana due modelli di educazione alternativi e concorrenti. Ma come può esser mantenuta l´efficacia del modello, se la scuola pubblica viene continuamente depotenziata tagliandone personale e risorse, e per giunta irridendo chi ci lavora? Lo smottamento in direzione della scuola privata comincia coi governi di centro-sinistra (decreti Berlinguer del 1998 e 1999, legge 62 del 2000, governo D´Alema), e coi governi Berlusconi diventa una frana: si taglia la scuola pubblica e si incrementano i contributi alla scuola privata, sia in forma diretta che con assegni alle famiglie, e senza alcun rispetto per il merito degli allievi. A meno che il merito non consista, appunto, nell´aver scelto una scuola privata. Ed è dal 1999 (riforma Bassanini) che il ministero oggi ricoperto dall´on. Gelmini non si chiama più "della Pubblica Istruzione", ma "dell´Istruzione" (senza "pubblica"). Anziché inveire contro «la scuola di Stato dove ci sono insegnanti che vogliono inculcare negli alunni principi contrari a quelli che i genitori vogliono inculcare ai propri figli», ipotizzando una scuola pubblica dominata dalla sinistra, Berlusconi dovrebbe dunque ringraziare la sinistra per aver inaugurato con tanto successo la deriva in favore della scuola privata. Ancora una volta, l´uomo che per il suo ruolo istituzionale dovrebbe rappresentare lo Stato e il pubblico interesse agisce dunque come il leader dell´anti-Stato. A una Costituzione che assegna allo Stato il compito di dettare regole sulla scuola e di imporre ai privati il rispetto delle stesse regole (e l´onere di cercarsi i finanziamenti dove credono), si va così sostituendo, con l´applauso del ministro della già Pubblica Istruzione, una Costituzione immaginaria, nella quale "libertà" vuol dire distruzione della Scuola pubblica, vuol dire convogliare i finanziamenti pubblici sulle scuole private, vuol dire legittimare l´idea che nelle scuole pubbliche si «inculcano» principi antilibertari, mentre nelle scuole private tutto è automaticamente libero, perfetto, "costituzionale". Eppure nel riformare la scuola, uno dei pochissimi provvedimenti di un governo che ha il record dell´inazione e della paralisi, l´on. Gelmini si è fondata sull´articolo 33 della Costituzione, secondo cui «la Repubblica detta le norme generali sull´istruzione». E´ lo stesso articolo che, una parola dopo, stabilisce la centralità e la priorità della scuola pubblica, disprezzata dal presidente del Consiglio. Ma la "Costituzione materiale" di cui si va favoleggiando (cioè l´arma impropria con cui si vuol demolire l´unica e sola Costituzione, quella scritta) ha ormai come principio fondamentale il cinico abuso di quanto, nella Costituzione, può esser distorto a beneficio di una "libertà", quella del premier, che consiste nell´elogiare l´evasione fiscale in un discorso alla guardia di Finanza (11 novembre 2004), nell´attaccare ogni giorno la magistratura, nel regalare al suo amico Gheddafi cinque miliardi di dollari tolti alla scuola, al teatro, all´università, alla musica, alla ricerca, alla sanità, nel consegnare il territorio del Paese alla speculazione edilizia, nel legittimare col condono chi viola le leggi, nel creare per se stesso super-condoni, usando le (sue) leggi contro la forza della Legge. «Inculcare principi»: questa la concezione dell´educazione (pubblica o privata) che Berlusconi va sbandierando. Fino a quando lasceremo che «inculchi» impunemente nell´opinione pubblica l´idea perversa che compito di un governo della Repubblica è smantellare lo Stato, sbeffeggiando chi serve il pubblico interesse?

Corriere della Sera 1.3.11
Crescono i rischi di un conflitto con Napolitano
di Massimo Franco


Registrare l’attacco di Silvio Berlusconi allo «staff troppo puntiglioso» del Quirinale, e vedere che Giorgio Napolitano ora viene difeso perfino dall’Idv, fa un certo effetto. Dimostra quanto si siano sfilacciati e capovolti i rapporti fra presidente della Repubblica e Pdl, e quanto Palazzo Chigi soffra il controllo di legittimità sulle leggi, che spetta al capo dello Stato. Ma soprattutto, lascia intravedere una tensione latente sul modo in cui Napolitano e Berlusconi interpretano questa fase della legislatura e i suoi sviluppi. L’impressione è che al Quirinale non basti la blindatura numerica della maggioranza: è garanzia non di stabilità, ma di sopravvivenza del premier. Per questo, il capo del governo mal sopporta i rilievi nei confronti di misure come il cosiddetto «Milleproroghe» . In un momento normale, avrebbe accolto i suggerimenti e magari ringraziato; sentendosi in bilico, dice «sì» , ma poi dà sfogo alla frustrazione. Il Berlusconi che lamenta impotenza decisionale, mancanza di potere, e una sorta di «laccio» istituzionale teso a frenare la sua azione, scarica sull’esterno le difficoltà del centrodestra. Rievoca lo «spirito e la passione del ’ 94» , quando la sua maggioranza vinse per la prima volta le elezioni; e la nostalgia gli fa dimenticare che allora durò appena nove mesi. Il centrodestra si ruppe per la defezione della Lega, e lui si ritrovò all’opposizione. Oggi la situazione appare diversa. Napolitano è sempre stato considerato un interprete rispettoso del voto popolare e delle sue implicazioni. E dopo la rottura tra Berlusconi e il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha evitato di parteggiare per l’uno o per l’altro: con irritazione mal celata del Pdl, furioso per il modo in cui Fini interpreta il ruolo di terza carica dello Stato e per il suo rifiuto di dimettersi. Ma il viavai di parlamentari seguito alla spaccatura nel centrodestra è un fenomeno a dir poco ambiguo. Permette a Berlusconi di andare avanti, forte del patto con una Lega che concede il via libera «finché ci sono i numeri» : quindi non escludendo elezioni, che il premier però vede come una iattura con la crisi in atto nel Maghreb. Eppure manca un’agenda chiara per il resto della legislatura. L’ennesimo annuncio di una riforma istituzionale che prende di mira le prerogative degli altri poteri, solleva perplessità. Il Pd vede nella polemica «un attacco preventivo» . E Pier Ferdinando Casini dell’Udc ironizza su un Berlusconi «inseguito dai suoi processi» , che «se la prende con i magistrati e Napolitano» . È vero che il premier si definisce «disperato» . Ma continua a sospettare che esista «un patto fra Anm e Fini» per far naufragare la riforma della Giustizia. «Risibile» , reagisce il leader di Fli. Il Quirinale, invece, risponde alle accuse berlusconiane con un silenzio gelido e un «grazie» ufficioso: sentirsi dare dei puntigliosi nello sbandamento generale, viene percepito quasi come un complimento. Eppure, la distanza fra capo dello Stato e del governo è pericolosa: tanto più se diventa conflitto.

Repubblica 1.3.11
Per il costituzionalista Azzariti sono "inquietanti" le parole del capo del governo contro il presidente della Repubblica
"Si rompe l´equilibrio tra poteri dello Stato"
di Vladimiro Polchi


Queste tendenze di stampo populistico non potranno che accrescere le tensioni istituzionali già rilevate dal Colle
Il Cavaliere tenta di riversare sulla struttura istituzionale la crisi politica della sua maggioranza

ROMA - «Il premier continua nella sua opera di delegittimazione degli organi di garanzia. Ora non si salva più nessuno: Parlamento, giudici, Quirinale». Gaetano Azzariti, costituzionalista alla Sapienza di Roma, lancia l´allarme: «Si sta rompendo ogni equilibrio tra i poteri dello Stato».
Il problema per Silvio Berlusconi è che lo staff del capo dello Stato «interviene puntigliosamente su tutto».
«Il presidente del Consiglio ci ha abituato alle sue insofferenze, alfiere di una visione imprenditoriale, spesso estranea alla cultura costituzionale e delle garanzie. Ora il ragionamento si fa più pericoloso: tenta di riversare sui presunti difetti della struttura costituzionale, la crisi politica della sua maggioranza».
Cosa c´è di nuovo?
«Oggi Berlusconi non si limita più a criticare i singoli atti, ma tende a negare a priori le stesse competenze del presidente della Repubblica, del Parlamento e della magistratura. Calpesta così il ruolo degli organi di garanzia e perfino del supremo garante della Costituzione. Ed è proprio quest´ultimo attacco, quello al Quirinale, il più inquietante».
Perché?
«Che ci sia un garante della Costituzione, assistito dal suo staff, è la sostanza stessa del nostro sistema costituzionale. A maggior ragione l´attacco è grave, di fronte a un presidente della Repubblica molto attento all´equilibrio dei poteri, come si è dimostrato Giorgio Napolitano nell´ultima vicenda».
Si riferisce alla lettera sul decreto Milleproroghe?
«Sì, il presidente nella lettera inviata all´esecutivo pur descrivendo analiticamente delle forzature costituzionali nel testo non ha deciso per il suo rinvio. E´ intervenuto prima, proprio per impedire una grave crisi istituzionale, che il premier sembra invece fomentare, anche con questi ultimi attacchi che aprono un nuovo fronte».
Quale?
«Sembra che Berlusconi abbia rinunciato al rigoroso rispetto delle norme che sovrintendono alla nostra civile convivenza, per abbracciare politiche di stampo populistico, che non potranno che aumentare la tensione istituzionale. Tensione per altro già rilevata dal Quirinale».
Si riferisce ad un intervento preciso?
«Dopo l´incontro con Silvio Berlusconi dell´11 febbraio scorso, Giorgio Napolitano ha avvertito che l´esplosione dei contrasti istituzionali poteva mettere a rischio la stessa continuità della legislatura e invitava tutti gli attori politici allo sforzo di contenimento delle attuali tensioni».

il Riformista 1.3.11
Caro Ferrara, due o tre verità sull’immunità
di Emanuele Macaluso


il Riformista 1.3.11
Manconi spiega perché ha denunciato Alemanno
di Luigi Manconi


il Riformista 1.3.11
Benedette primarie
Fassino le salva Bersani le riforma
La vittoria dell’ex segretario Ds a Torino rilancia lo strumento affossato dal caos napoletano. Ora però il leader democratico pensa a un ritocco delle regole. E dalle parti di Vendola già si grida all’attentato
di Ettore Colombo

qui
http://www.scribd.com/doc/49762401

Corriere della Sera 1.3.11
Fine vita, regole ma senza ipocisia
Marino: la legge della destra è contro il buon senso
di Ignazio Marino


Caro direttore, c’è molta retorica e molta teoria da parte della politica quando affronta temi che solo nel nostro Paese si definiscono eticamente sensibili. C’è poca attenzione alla realtà, alle situazioni concrete con cui si scontrano le persone nella loro vita. Alla vigilia del voto del Parlamento sul testamento biologico, proviamo allora a partire dalla realtà, ragionando sulle situazioni che ogni medico, o chiunque abbia avuto un parente gravemente ammalato, ha sperimentato. Immaginiamo una donna di ottanta anni, con un tumore al seno e metastasi al cervello, ricoverata in coma in un reparto di terapia intensiva. Il suo corpo apparentemente continua a funzionare, i polmoni si gonfiano, l’intestino riceve nutrimento artificiale, il battito cardiaco è regolare grazie ai farmaci, ma sono le macchine e le sostanze chimiche che mantengono le funzioni dell’organismo. La medicina, nonostante gli straordinari progressi, a un certo punto si ferma, qualunque terapia diventa inefficace o inutile. Cosa fa allora un medico davanti a una situazione tragica ma molto diffusa come questa? Negli Stati Uniti, in Francia, in Australia, come in molti altri Paesi, il medico chiama i familiari, descrive la situazione, spiega, risponde, rispetta le lacrime che scorrono. Si discute, insieme, l’eventualità di interrompere tutte le terapie, lasciando che la vita si avvii alla sua fine naturale. Una decisione difficile ma assunta in piena trasparenza e rigorosamente documentata nella cartella clinica del paziente. Cosa accade invece oggi in Italia? Il medico chiama i familiari, spiega che il loro parente non riprenderà coscienza anche se le macchine continuano a mantenerlo artificialmente in vita. Fino a quando? Non si sa. Non ci sono decisioni da prendere perché nessuno, né il medico, né i familiari, né il paziente stesso può autorizzare l’interruzione delle terapie. Si piange ma si va avanti lo stesso, senza alcuna speranza. Molte volte i medici decidono ugualmente, perché vivono nella realtà. Sono costretti a compiere una scelta in solitudine, senza documentare nulla, perché se lo facessero potrebbero essere accusati di omicidio volontario. Sembra assurdo ma è così. È questa la realtà che rende necessaria una legge sul testamento biologico. E serve una legge semplice che rispetti tre principi fondamentali: le indicazioni che una persona scrive quando è nel pieno delle facoltà devono essere assolutamente vincolanti, in caso contrario non servono a nulla. Perché dovrei lasciare un testamento biologico sapendo che potrà essere disatteso? In secondo luogo è importante l’indicazione di un fiduciario, una persona che mi ama, di cui mi fido, e che in qualunque situazione prenderà le decisioni più giuste ascoltando il medico ma soprattutto rispettando la mia dignità e le mie indicazioni. Infine il ruolo del medico e degli infermieri. Certamente sono i più preparati ad affiancare e assistere ma non possono decidere in autonomia perché, anche se conoscono la medicina, tuttavia non conoscono il paziente, le sue convinzioni e potrebbero agire contro la volontà dell'ammalato. Contravvenendo così anche al loro codice etico. La legge proposta dalla destra è esattamente contraria a questi tre principi di buon senso: prevede che il biotestamento non sia vincolante, che il medico abbia la parola finale anche contro la volontà dei familiari o del fiduciario mentre obbliga i sanitari a somministrare idratazione e nutrizione artificiali sempre, senza valutazioni di merito. In fin dei conti si tratta di una legge voluta da una politica ipocrita, assolutamente lontana dalla realtà, non curante dei diritti degli individui e irrispettosa del ruolo dei medici e degli infermieri. È una legge che otterrà il peggiore dei risultati immaginabili, ovvero che sulle scelte che riguardano le fasi terminali della vita di ognuno di noi si finirà a discutere, e a decidere, in tribunale. Ignazio Marino Chirurgo, presidente commissione parlamentare d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale

Corriere della Sera 1.3.11
No all’accanimento legislativo
Rizzoli: nessun testo può decidere sul singolo caso
di Melania Rizzoli


Caro direttore, chi ha più di 50 anni non ha mai avuto, durante la propria giovinezza, un amico o un parente in stato vegetativo. È una condizione che fino a trent’anni fa non esisteva. Prima, infatti, si moriva e basta. Noi medici, invece, abbiamo imparato a rianimare i morti, e sempre più spesso li riportiamo in quella vita senz’anima che chiamiamo stato vegetativo. I morti non si dovrebbero rianimare. Se sono morti bisognerebbe lasciarli morire in pace. Il vero accanimento terapeutico avviene lì, solo in quel momento, all'arrivo in pronto soccorso del paziente acuto, in stato d'incoscienza o di coma, dove si fa di tutto per rianimarlo, senza risparmio di tecniche e di terapie, e tutto si fa in fretta, senza chiedere permessi o pareri a parenti che non ci sono quasi mai. La maggior parte delle volte infatti si tratta di incidenti stradali notturni, con traumi violenti, che spesso coinvolgono giovani estratti dalle lamiere senza documenti e genitori al seguito e gli specialisti di guardia negli ospedali eseguono egregiamente il loro lavoro, strappandoli per prima cosa alla morte imminente. In quei momenti nessun medico al mondo sa o intuisce o capisce se può esserci uno stato vegetativo in agguato. E nessuna macchina diagnostica può stabilirlo o suggerirlo. Lo stato vegetativo è una condizione funzionale del cervello, che insorge quando l’organo è stato per troppo e lungo tempo in sofferenza, in carenza di ossigeno, a causa dell’evento traumatico che lo ha determinato, ma diventa riconoscibile solo quando si esaurisce il coma, che, sovrapponendosi, lo aveva mascherato. Su cento pazienti rianimati, uno o due non riprendono coscienza. Sono quelli già clinicamente morti o ripescati sul filo della morte e che vengono riportati in vita. Sono persone che restano vive per anni con una grave disabilità neurologica, potenzialmente reversibile, e caratterizzata dall’assenza di comportamenti associati alle attività di coscienza. Di fatto sono pazienti incoscienti, ma clinicamente vivi, esenti da altre patologie, e, se giovani, con una lunga aspettativa di vita, senz’anima certo, ma con un elettroencefalogramma che mostra sempre segni di attività elettrica. Paradossalmente lo stato vegetativo è una condizione artificiale forzata, creata da noi medici su persone rianimate, ma nel momento in cui comprendiamo che questi sfortunati sono scivolati nell’incoscienza più profonda, cosa dovremmo fare, sopprimerli? Allora sarebbe meglio non rianimarli per niente. È l’unico modo per prevenire lo stato vegetativo persistente e per evitare qualunque forma di eutanasia mascherata. Nessun testo di legge potrà imporre al medico l’interruzione artificiale dello stato vegetativo, ridurlo a semplice esecutore della volontà del paziente e del suo legislatore contro le sue convinzioni etiche, mediche, scientifiche, deontologiche. Come nessuna legge potrà ignorare la libertà di ciascuno di noi di disporre del proprio corpo e della propria vita e violare il rispetto della persona umana. E la tutela della vita, considerata un bene indisponibile e garantita dalla nostra Costituzione, non può essere affidata interamente a forme di accanimento terapeutico e legislativo, che mai saranno in grado di decidere caso per caso e quello che è meglio per ognuno di noi in quell’ultimo momento. Forse, come ha detto più volte Umberto Veronesi, «meglio nessuna legge» piuttosto che una cattiva legge o un testo che si prepara ad accendere un clima da stadio e di regolamenti di conti, che nulla hanno a che fare con il fine vita e con la vita i tutti noi.
L’autrice è medico, deputato del Pdl

l’Unità 1.3.11
I due capi dell’opposizione sarebbero rinchiusi nella superprigione di Parchin
Secondo un sito di intelligence israeliano i due sono stati picchiati al momento dell’arresto
Repressione a Teheran In carcere Mousavi e Karroubi
I due leader dell’opposizione «verde» in Iran Karroubi e Mousavi prelevati da casa insieme alle mogli, forse torturati nella tremenda prigione di Parchin, vicono Teheran. Insorgono le cancellerie di Parigi e Berlino.
di Rachele Gonnelli


C’è grande apprensione in Iran per la sorte dei due leader dell’opposizione, Mirhossein Mousavi e Mehdi Karroubi, che già da settimane erano ad arresti domiciliari strettissimi insieme alle mogli. Le ultime voci dicono che sarebbero stati trasferiti in una prigione delle più dure, il supercarcere di Parchin gestito dai Guardiani della Rivoluzione dove normalmente vengono reclusi i detenuti accusati di spionaggio e attentato alla sicurezza della Repubblica islamica. Non solo. I due candidati riformisti usciti sconfitti nelle elezioni poi contestate dai giovani dell’Onda Verde, sarebbero stati picchiati e ridotti allo stremo delle forze. A dirlo è il sito di intelligence israeliano Debka, che cita fonti iraniane secondo cui i due sono stati prelevati dalle loro abitazioni nella notte, picchiati, infilati in grandi sacchi e trasportati a bordo di blindati nel penitenziario superblindato vicino Teheran. Le mogli dei due esponenti dell'opposizione sarebbero scomparse, probabilmente trasferite di forza in una località sconosciuta. Le fonti del sito d’intelligence affermano che, una volta giunti nel cortile anteriore del carcere, Moussavi e Karroubi non riuscivano a tenersi in piedi e avevano il viso striato di sangue. Sfiniti dopo settimane di arresti domiciliari nelle quali, essendo obbligati a mangiare il vitto fornito dalle guardie, per paura di essere avvelenati, avevano rifiutato di mangiare. Fin qui le informazioni d’intelligence che provengono da Israele.
Ma anche il sito di Karroubi, Sahamnews.org, conferma che il leader dell'opposizione è stato prelevato, insieme con sua moglie, giovedì notte dalla sua casa dove viveva praticamente recluso dalla ripresa delle contestazioni ad Ahmedinejad, lo scorso 14 febbraio. È stato un figlio di Karroubi, impossibilitato a parlare con i genitori da due settimane, a raccontare al sito dei seguaci del padre di aver raccolto la testimonianza di alcuni vicini di casa dei suoi. I vicini gli hanno riferito di aver visto otto grosse auto della sicurezza arrivare verso mezzanotte nel parcheggio e davanti all’ingresso. Hanno fatto montare qualcuno in una delle auto e lasciato la casa vuota, con le luci che da allora sono rimaste spente. Secondo la versione del sito dell’opposizione Kaleme Mehdi Karroubi, 73 anni, e le due mogli Fatemeh e Zahra Rahnavard, sarebbero stati prelevati e portati, nella prigione di Heshmatiyeh. Ma non è chiaro quando.
LE PROTESTE
Sono scarse e preoccupanti anche le informazioni a proposito di Mirhossein Mousavi. Venerdì il governo di Teheran ha detto al canale televisivo americano Cnn che Mousavi e Karroubi e le rispettive consorti erano stati portati «in un luogo sicuro». E ciò proprio poco dopo che il Grande Ayatollah Bayat-Zanjani aveva unito la sua voce a quella dell’ayatollah riformista Mohammad Khatami per protestare contro la condizione di sequestrati in casa dei due politici. Ieri, alle nuove notizie di arresti e persino sevizie e nel silenzio delle autorità iraniane, anche Francia e Germania hanno espresso «preoccupazione» per l’imprigionamento dei due oppositori. Il portavoce del Quai d'Orsay Bernard Valero lancia un’appello alle autorità di Teheran perchè liberino «tutte le persone detenute in modo arbitrario» e aggiunge che per quanto riguarda il programma nucleare, «l'Iran non ha mai interrotto le sue attività di arricchimento dell'uranio».

Repubblica 1.3.11
La primavera araba
di Tahar Ben Jelloun


Questa primavera in pieno inverno non assomiglia a nulla nella storia recente del mondo. Potrebbe far pensare alla rivoluzione dei garofani in Portogallo (novembre 1974), ma è diversa.
I popoli arabi hanno subìto e sono rassegnati da molto tempo. In generale, però, il Maghreb e il Machrek hanno questo in comune: l´individuo non è riconosciuto come tale. Tutto è organizzato in modo che l´emergere dell´individuo in quanto entità singolare e unica sia impedito. È la rivoluzione francese che ha permesso ai cittadini di Francia di diventare individui dotati di diritti e doveri.
Nel mondo arabo, ciò che viene riconosciuto è il clan, la tribù, la famiglia, non la singola persona. L´individuo invece sarebbe una voce, non un soggetto da sottomettere. Un individuo è una persona che ha da dire la sua e che la dice andando a votare liberamente e senza falsificazioni. In questo sta la base della democrazia – una cultura basata sul contratto sociale; si elegge qualcuno per rappresentare un popolo in un determinato periodo e poi o lo si rinnova nelle sue funzioni o lo si rispedisce a casa. Nel mondo arabo, i presidenti della repubblica si comportano come dei monarchi assoluti al punto che restano al potere con la forza, attraverso la corruzione, la menzogna e il ricatto. Bashar al-Assad è succeduto al padre Hafez al-Assad; Seif al-Islam è ritenuto il successore di suo padre Gheddafi, quando questi morirà; Mubarak ha ovviamente cercato di imporre suo figlio alla successione, ma con la rivoluzione di gennaio tutti i suoi piani sono saltati. Il principio è semplice: quando arrivano al potere, pensano di essere lì per l´eternità, che il popolo lo voglia o no. Per non indisporre troppo gli occidentali, instaurano una sorta di "democrazia formale", giusto una maschera per gli occhi di chi li osserva. Ma è tutto nelle loro mani e non tollerano alcuna contestazione, alcuna opposizione. Il resto del tempo, considerano il Paese come una loro proprietà privata, dispongono delle sue entrate, fanno affari, si arricchiscono e mettono i loro beni al sicuro in banche svizzere, americane o europee. Quello che è successo in Tunisia e in Egitto è una protesta morale ed etica. È un rifiuto assoluto e senza mezzi termini dell´autoritarismo, della corruzione, del furto dei beni del Paese, rifiuto del nepotismo, del favoritismo, rifiuto dell´umiliazione e della illegittimità che è alla base dell´arrivo al potere di questi dirigenti il cui comportamento prende a prestito molti metodi dalla mafia. Una protesta per stabilire un´igiene morale in una società che è stata sfruttata e umiliata fino all´inverosimile.
È per questo che non è una rivoluzione ideologica. Non c´è un leader, non c´è un capo, non c´è un partito che porta avanti la rivolta. Milioni di persone qualunque sono scese in strada. È una rivoluzione di tipo nuovo: spontanea e improvvisata. È una pagina della storia scritta giorno per giorno, senza una pianificazione, senza premeditazione, senza intrallazzi, senza trucchi. La responsabilità dei dirigenti europei è importante nel mantenimento di questi regimi impopolari e autoritari. Essi tacciono e lasciano fare usando due scuse: 1. pensano che Mubarak, come Ben Ali, sia lì per impedire che si stabilisca una repubblica islamica in stile iraniano; 2. pensano che non dicendo loro che devono rispettare i diritti dell´uomo, si assicureranno succosi affari. Su entrambe le cose si sbagliano.
La rivoluzione iraniana è stata possibile perché lo sciismo è strutturato gerarchicamente (himam, mollah, ayatollah ecc.). Per gli sciiti, l´islam è politico o non è (è questo che aveva dichiarato Khomeini al suo arrivo a Teheran). L´islam sunnita non ha mai pensato la pratica religiosa in modo gerarchico. Nel Corano si dice che nell´islam non ci sono sacerdoti. Né preti, né rabbini, né ayatollah. Sul piano politico, la società araba è attraversata da diverse correnti islamiche; la corrente fondamentalista non è il solo movimento presente in Egitto. Non c´è ragione di pensare che i fondamentalisti arrivino al potere, a meno che non si verifichi un colpo di Stato militare, il che vorrebbe dire che tutto l´esercito è fondamentalista, cosa assurda. Se c´è una democrazia, questo vuol dire che c´è multipartitismo, che ci sono differenze e opinioni diverse che si fronteggiano in un campo politico libero.
Quanto al secondo punto, gli occidentali chiudono gli occhi ovunque possano fare affari, che sia in Cina, in Libia o in Algeria. Ma da quando Barack Obama ha invocato il rispetto dei diritti dell´uomo davanti al suo ospite cinese, nel gennaio 2011, non è più possibile anteporre gli affari ai diritti dell´uomo. Tutto ciò è avvolto da ipocrisia e accondiscendenza. Abbiamo appena saputo che alcuni ministri francesi accettavano inviti in Tunisia, in Egitto, e facevano coppia perfetta con dittatori di cui sapevano tutto, compreso il modo in cui torturavano e facevano sparire gli oppositori del governo. Queste rivoluzioni di oggi avranno almeno un vantaggio: più niente sarà come prima. Quanto agli altri Stati arabi in cui sussistono gli ingredienti affinché qualcosa si muova e ci si ribelli, credo che riformeranno il loro sistema e saranno più vigili sul rispetto dei diritti della persona. Il cittadino non sarà più un soggetto sottomesso ad un potere arbitrario e sprezzante; diventerà un individuo con un nome, una voce e i suoi diritti.
Il testo è tratto da «La rivoluzione dei gelsomini - Il risveglio della dignità araba»
di Tahar Ben Jelloun (Bompiani, traduzione di Anna Maria Lorusso) esce il 2 marzo

Repubblica 1.3.11
"Io, marxista-leopardista tra impegno e disincanto"
Intervista al linguista Raffaele Simone
"Il nostro è un paese dove è diventato difficile distinguere il vero dal falso"
"Siamo rimasti quelli raccontati da Manzoni, passando da Don Rodrigo a Provenzano"


ROMA. Per affrontare in profondità la questione delle credenze è bene prendere in esame anche l´aspetto linguistico. Perciò il nostro terzo interlocutore è Raffaele Simone, ordinario di Linguistica Generale all´Università di Roma Tre e autore di importanti studi che spaziano tra storia, politica e trasformazioni culturali.
«Cominciamo col dire che in italiano, a differenza di altre lingue, si può credere a qualcosa o a qualcuno, ma anche in qualcosa o in qualcuno. A, in – queste due diverse preposizioni aprono una crepa semantica interessante. "Credere a" significa dare credito alle dichiarazioni verbali di qualcuno. "Credere in" ha invece una doppia valenza. Se io credo in un mio alunno, è perché penso che nel futuro farà belle cose, avrà fortuna. Confido nella speranza di una sua affermazione positiva. L´altro senso del "credere in" poggia invece con fiducia su ciò che qualcuno fa, asserisce o è. Se affermo di credere nella sinistra, per esempio, questo non implica che avrà fortuna o si imporrà, ma che i suoi valori e il suo progetto politico mi convincono».
Proviamo a calare queste distinzioni semantiche nell´Italia di oggi.
«Quanto al credere a qualcuno, gli italiani credono sin troppo. Siamo anzi un popolo di creduloni. Ovvero di persone che per una serie di motivi storici tendono a prendere per buono tutto ciò che viene loro raccontato. Anche perché abbiamo una scarsa cultura del dato di fatto. Ed è un fenomeno che si riflette poi sulle più diverse forme di "credulità": dalla magia superstiziosa al bigottismo miracolistico, per finire con il potente di turno, il quale può dichiarare ciò che vuole, tanto sa che sicuramente qualcuno gli crederà».
Passiamo al "credere in".
«Temo che non si creda in nulla, in senso proprio. I valori condivisi sono deboli e quelli forti mancano del tutto: penso all´idea di patria, storia, bene pubblico, istituzioni, memoria. Sì, ogni tanto vengono agitati in modo pretestuoso, ma senza incidere nella convinzione intima delle persone. Non sono uno storico, ma ormai tra esperienze, letture e incontri, qualche idea me la sono fatta. Tutto rimanda a quella triade diabolica, ancor oggi viva e vegeta, che fu raccontata con micidiale chiarezza nei Promessi sposi. E cioè: prima di tutto, marcata presenza straniera, che allora significava dominazione spagnola e oggi si manifesta in una colonizzazione culturale, oltre che economico- politica, dettata dalla globalizzazione. Secondo, centralità delle mafie: si è passati da don Rodrigo a Provenzano, ma la musica non cambia. Terzo, il ruolo strabordante della Chiesa. Queste tre entità hanno reso inutile credere in qualunque idea. Mentre invece si crede via via al potentato prevalente, per opportunismo, convenienza o paura. La vicenda politica degli ultimi vent´anni, in questo senso, è emblematica: è difficile pensare che la maggior parte degli italiani che dicono di credere in Berlusconi credano veramente in lui».
E dunque?
«Dunque ci deve essere qualcosa "sotto". Magari quella che nella Francia del tardo rinascimento veniva chiamata servitù volontaria, la bramosia di sottomettersi a qualcuno. Oltre, naturalmente, al desiderio di "dare una lezione a quelli lì". Che sono poi la sinistra, gli intellettuali, lo Stato».
Facciamo un passo indietro: Nicola Chiaromonte, da me eletto a nume tutelare di questo "viaggio", sostiene che nel tempo della malafede le menzogne utili sostituiscono le verità inutili.
«Una definizione che si attaglia perfettamente al nostro caso. Ormai tra ciò che si pensa, quel che si dice e come stanno effettivamente le cose, c´è una totale scissione. La percezione del reale, nel discorso pubblico italiano, si è talmente attenuata che si ha spesso l´impressione che i fatti si siano dissolti».
L´alterazione strutturale del rapporto vero, falso, fittizio, è un tema che lei tratta, su scala globale, anche nel suo libro Il Mostro Mite, edito da Garzanti. E torna quanto mai utile per indagare il tema delle credenze.
«Abbiamo vissuto contemporaneamente due curvature oppressive, che hanno avuto riflessi importanti in campo cognitivo: quella della globalizzazione e quella del berlusconismo, che ha potuto sfruttare il medium globale per eccellenza, la televisione, ormai completamente scollata dalla realtà. I molti che la mattina per prima cosa guardano i programmi di Rete Quattro o Canale Cinque non hanno più alcuna percezione della vita reale. Pensi a un programma come quello della De Filippi: un vero e proprio trionfo dell´irreale, un Truman Show dell´orrore. Quelli che ballano e si dimenano seminudi sono assolutamente irreali».
In un contesto come questo, lei a quali convincimenti si attiene? In cosa crede?
«Io mi dichiaro, solo con una sfumatura di scherzo, un marxista leopardista. Conosce questa etichetta?».
Se non sbaglio è di Sebastiano Timpanaro.
«Giusto. Filologo, storico, filosofo, tra le menti più acute che abbia avuto questo paese, Timpanaro ci ha offerto di sé questa definizione. Marxista, perché crede nei contrasti violenti della realtà sociale e cerca di combatterli; leopardista, perché accompagna la sua lotta con una forma di sostanziale scetticismo. E insieme confida in una riserva di energia mentale sufficientemente ricca da permettergli di agire. In sintesi: finché stiamo qui, sebbene sia tutto vano, diamoci da fare».
Se non altro per capire. Per riconoscere, ad esempio, le nuove forme di credenza.
«Centrali, tra queste, mi sembrano il culto del corpo e quello dell´anima. Il primo è cosa relativamente recente. L´operazione fitness, se portata alle sue estreme conseguenze, impone anch´essa quella falsificazione della realtà di cui si parlava in precedenza. Il mito dell´eterna giovinezza mi costringerà a guardarmi allo specchio, piena o pieno di silicone, riconoscendomi in una persona che non sono più io. Quanto al culto dell´anima, risale all´avvento della psicanalisi e si estende poi grazie a forme sempre più plebee di psicologismo dozzinale. La scuola occidentale odierna, e non solo quella italiana, è la più psicologizzata di tutta la storia. L´anima del bambino, la sua affettività, il suo vissuto, sono diventate preoccupazioni preminenti dell´istituzione scolastica. Del resto, anche il vago bisogno di religione e spiritualità va in questa direzione, in direzione del sincretismo. Io parlerei addirittura di "fusion": si pesca un po´ qua e un po´ là, nella speranza che qualcuno, o qualcosa, faccia stare meglio il fantolino che abita dentro di noi».
Prima parlava di scuola: tutte le credenze, buone o cattive, in teoria dovrebbero partire da lì.
«In teoria, perché oltre che del credere, bisognerebbe parlare anche del non credere. E alla scuola, struttura massimamente rappresentativa della razionalità occidentale, non crede purtroppo quasi più nessuno. Quantomeno in Italia: l´unico paese in cui chi lavora nella scuola goda di così poco credito collettivo. Cosa tanto più grave, visto che in epoca di globalizzazione, la scuola come sede propria della formazione, è stata scavalcata. Voglio dire, i ragazzi non sono interessati tanto a ciò che la scuola gli propone e impone, ma a quanto sperimentano altrove: droga, musica, ballo, sesso, viaggio, socializzazione. Se il compito della scuola occidentale era quello di offrire un sapere moderatamente razionale, ordinato e orientato a principi di spirito critico, con un minimo di formalizzazione, oggi, di fronte alla sua vertiginosa rovina, si accumulano molte esperienze, o surrogati di esperienza, ma nessun sapere. Si crede, non si crede, ma che cosa si sa?».




La Stampa 1.3.11
Nel casertano 30 minori accusano gli educatori
Villaggio dei ragazzi un inferno di abusi
di Antono Salvati


C'è chi ha raccontato di essere stato preso a calci e a pugni in testa. Chi invece ricorda di essere finito al pronto soccorso, con un taglio alla nuca e senza la possibilità di dire cosa fosse realmente accaduto. C’è anche chi dice di non essere mai stato picchiato perché «si faceva i fatti suoi» e chi pure ha preferito non dire nulla a casa perché alla fine il padre picchia peggio degli educatori. Storie diverse con un denominatore comune: i corridoi e le camerate del «Villaggio dei ragazzi» di Maddaloni nel Casertano, ente benefico nato alla fine della Seconda guerra mondiale per aiutare l’infanzia abbandonata e diventato una Fondazione in grado di ospitare più di 1500 ragazzi. Fondatore della struttura fu don Salvatore D’Angelo, scomparso nel 2000 e amico d’infanzia nonché consigliere spirituale del senatore a vita Giulio Andreotti, che dell’ente è membro del consiglio direttivo.
Se le vittime erano gli ospiti del convitto, i «carnefici» erano proprio gli educatori, coloro che avevano il compito di garantirne la cura, l’educazione e l’istruzione. Quattro di loro sono finiti agli arresti domiciliari con l’accusa di maltrattamenti aggravati, altri tre invece sono indagati a piede libero perché sospettati di abuso di mezzi di correzione. Discorso a parte invece per un’insegnante di scuola media, ai domiciliari con l’accusa di violenza sessuale su due ragazzini di appena undici anni. È accusata, si legge nell’ordinanza «di aver fatto stendere supini sul pavimento due alunni, entrambi di undici anni, e di essersi seduta dapprima sopra l’uno e subito dopo sopra l’altro, all’altezza dei genitali, e, quindi, aveva iniziato a prodursi in movimenti tipici di un rapporto sessuale».
L’indagine è nata nell’agosto del 2009, quando una fonte della polizia di Caserta raccontò delle terribili sevizie a cui erano sottoposti i giovani ospiti del «Villaggio dei ragazzi». Una trentina i ragazzi, dai sei ai sedici anni, ascoltati in presenza di uno psicologo, hanno descritto nei minimi particolari l’aria da carcere borbonico che si respirava nelle camerate del convitto. Non c’erano più nomi, ma epiteti: i ragazzi venivano chiamati «porci» e «handicappati» e quando andava tutto bene finiva lì. Ma bastava poco per scatenare la furia di alcuni degli educatori pronti, stando al racconto dei ragazzi considerato credibile dai magistrati della procura di Santa Maria Capua Vetere, a soffocare con pugni e calci qualsiasi segnale anche minimo di insubordinazione.

Terra 1.3.11
Primo Marzo. Siamo tutti migranti
di Luca Bonaccorsi

qui
http://www.scribd.com/doc/49762443

lunedì 28 febbraio 2011

l’Unità 28.2.11
Sconfiggere le menzogne
di Mila Spicola


Dopo le accuse di corporativismo, di strumentalizzazione politica, di “fannullonismo” contro i docenti italiani, adesso è uscito allo scoperto: l’oggetto dell’odio del premier è la scuola statale come istituzione. Una rivoluzione ci sta tutta: è giunta l’ora di difenderci sul serio. Dobbiamo, tutti, difendere la scuola statale italiana dalle menzogne che la stanno sommergendo. Abbiamo bisogno di tutti voi. Abbiamo bisogno di un Benigni che davanti a venti milioni di italiani reciti con il suo splendido carisma: «Art. 33 L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»; «art. 34 La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita». Abbiamo bisogno di un’opposizione che, unita, metta la scuola in cima all’agenda politica e usi tutti gli strumenti parlamentari perché il premier ritiri (e parte le consuete smentite e i “fraintendimenti”) tutto quello che ha detto. Abbiamo bisogno di testimonial che difendano la scuola statale, che possano rompere il muro dei media: scrittori, attori, cantanti, registi, che ci raccontino il brivido di quel giorno, a scuola, nel capire con che dolcezza si può naufragare nell’infinito del pensiero e della libertà umana. Questo giornale dà lo spazio e l’opportunità per farlo. Abbiamo bisogno di tutti voi perché noi, gli insegnanti, in questi anni troppo spesso non siamo stati ascoltati. Abbiamo bisogno di donne e uomini consapevoli e informati, capaci di raccontare per intero la verità della scuola statale italiana tagliata e oltraggiata. C’è il perpetuo allarme del docente precario, ma ci sono anche masse di genitori preoccupati ai quali nessuno ha saputo dare voce.
Il nodo centrale è l’attacco alla democrazia e al libero pensiero attraverso l’attacco alla scuola pubblica. Attacco proseguito negli anni inesorabile, con troppi complici. Etiam si omnes ego non. In quanti, rispetto all’indifferenza verso la scuola, hanno saputo dire: «Io no»?
«La scuola italiana non educa», dice il premier (e detto da lui suona grottesco, surreale). Ma cosa vuol dire educare? La scuola fascista aveva come obiettivo principe l’«educazione dei giovani». La scuola statale italiana repubblicana, gioiello di una civiltà avanzatissima, la nostra, istruisce, forma e prepara i cittadini di domani attraverso la trasmissione di un bagaglio di conoscenze, di cultura, il più ampio, corretto, plurale, libero (persino di criticare i maledetti comunisti). Istruisce alla conoscenza delle regole e dei pensieri. Tutti e per tutti. Al plurale, mai al singolare. E lo fa meglio delle private. (Dati Invalsi: senza i funesti risultati delle competenze degli studenti delle scuole private la scuola italiana sarebbe più in alto nella graduatoria europea). Metteteci nelle condizioni di farlo al meglio, non al peggio. Il ministro Gelmini ha approntato una riforma che riflette l’odio e non l’amore per la scuola. Su ufficiale ammissione del suo premier, è fallita miseramente. Si dimetta, allora, e cerchiamo di realizzare una vera riforma che vada incontro alle esigenze del paese intero e dei suoi ragazzi.

l’Unità 28.2.11
La resistenza di insegnanti, studenti, sindacati, opposizioni dopo l’attacco di Berlusconi
Proposta di Franceschini: «Può diventare una grande manifestazione». Giulietti trova la data
La nuova piazza: «Il 12 marzo in difesa della scuola pubblica»
Il mondo della scuola insorto contro l’attacco rivolto da Berlusconi alla scuola pubblica: dalla Cgil all’Ugl, studenti, insegnanti. Franceschini: tutti in piazza il 12 marzo. Gelmini difende Silvio. Bersani: «Si dimetta».
di Natalia Lombardo


È rivolta fra insegnanti, studenti e sindacati, compresa l’Ugl, per l’attacco lanciato sabato da Silvio Berlusconi contro la scuola pubblica: nella sua pseudo-smentita conferma il concetto sull’«indottrinamento politico e ideologico» che farebbero i docenti. La ministra dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, invece di sentirsi colpita nel suo ruolo, difende il premier. Al punto che il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ne chiede le dimissioni: «Se la Gelmini fosse un vero ministro, invece di arrampicarsi sui vetri per difendere Berlusconi, dovrebbe dimettersi». Perché «la scuola pubblica è nel cuore degli italiani. Da Berlusconi arriva uno schiaffo inaccettabile, non permetteremo che la distrugga». E Dario Franceschini, Pd, da Twitter lancia la proposta di una manifestazione per «difendere la scuola pubblica dagli insulti di Berlusconi»: «Tutti di nuovo in piazza, come le donne il 13 febbraio, senza simboli e bandiere». Il capogruppo Pd accoglie «l’importantissima» disponibilità offerta da Beppe Giulietti per il 12 marzo, allargando la protesta in difesa della Costituzione. La Cgil scuola sciopererà il 25 marzo con i lavoratori pubblici, potrebbe replicare con lo sciopero generale proposto da Susanna Camusso. Anche ItaliaFutura, fondazione di Luca Cordero di Montezemolo, denuncia le «esternazioni in libertà» di Berlusconi «che i cittadini non possono sopportare» e «si attendono che faccia funzionare la scuola, non di demolirne la legittimità».
Mariastella Gelmini rispondendo a Bersani ribadisce il concetto sulla scuola dominata da postsessantottini: «Berlusconi non ha attaccato la scuola pubblica», dice come una scolaretta, «ma ha difeso la libertà di scelta delle famiglie». E rilancia: «La sinistra guarda alla scuola pubblica come a un luogo di indottrinamento ideologico. Bersani si rassegni: la scuola non è proprietà privata della sua parte politica».
La Rete degli studenti denuncia la «cancellazione» dell’istruzione pubblica da parte del governo, «altro che riforma», Gelmini e Tremonti hanno ridotto la scuola «a un cumulo di macerie». Gli insegnanti del Gilda bollano il «comportamento inaccettabile» del premier e ricordano che la situazione è opposta: «La scuola statale è un luogo di confronto pluralistico, mentre legittimamente la scuola privata è di tendenza e trasmette convinzioni religiose, politiche e filosofiche». Insomma, Berlusconi si rilegga «i saggi di Luigi Einaudi, che non era un comunista e difendeva il valore della scuola pubblica statale».
Uniti tutti i sindacati. Secondo Domenico Pantaleo, segretario della Flc-Cgil, «Berlusconi non ha né l'autorità morale né quella etica per parlare di scuola pubblica»; Giovanni Centrella, segretario dell’Ugl, ricorda «le gravi ristrettezze in cui operano i professori e le famiglie stesse». Francesco Scrima, Cisl Scuola, parla di «accuse generiche e strumentali agli insegnanti, a cui si continua a chiedere tanto e a dare troppo poco».
Dure critiche da tutta l’opposizione. Nichi Vendola, nella convention di ieri a Roma, spiega così l’attacco di Berlusconi: «È stata proprio la crisi della scuola pubblica e il trionfo delle sue televisioni ad aver accompagnato l’egemonia culturale di un quindicennio». Demolirla quindi è strategico, secondo il leader di Sel: «A queste classi dirigenti serve opinione pubblica narcotizzata».
Antonio Di Pietro insiste più sulla morale: «Sui valori e sull’istruzione Berlusconi non può dare lezioni, se c’è qualcuno che è stato un esempio negativo per i giovani è proprio lui». Anche Rosy Bindi è indignata sul piano morale: «Chi conclude incontri politici inneggiando alle sue indicibili abitudini notturne non è degno di pronunciare la parola famiglia», né di insegnamento, quando alla scuola ha «tagliato risorse, negato dignità agli insegnanti e impoverito i percorsi formativi». Per Italo Bocchino, Fli «sta dalla parte della scuola pubblica» nel solco di Giovanni Gentile e ricorda come alcune privare siano «un diplomicifio» o un lasciapassare per figli di ricchi.

Repubblica 28.2.11
Dal capogruppo pd la proposta, i promotori del raduno del 12 marzo dicono sì
"Ora in piazza, come le donne" l´idea di unirsi al Costituzione-day
di Marina Cavalieri


ROMA - Tra polemiche, battute, dichiarazioni, spunta anche l´idea della piazza. Circola il progetto di una grande manifestazione in difesa della scuola pubblica, senza bandiere di partito. Solo con il tricolore. «Tutti di nuovo in piazza, come le donne il 13 febbraio, senza simboli e bandiere, a difendere la scuola pubblica dagli insulti di Berlusconi». È questa la proposta lanciata su twitter da Dario Franceschini, capogruppo Pd alla Camera. Una manifestazione trasversale che sappia mobilitare il popolo della scuola, dai professori a cui si chiede di stare in prima linea alle famiglie che vedono tagliato il tempo pieno, agli studenti a cui si nega il futuro. La proposta non è stata fatta ancora in modo formale ma subito è stata ripresa e rilanciata: l´iniziativa potrebbe coincidere con la manifestazione del 12 marzo in difesa della Costituzione.
«L´assalto di Berlusconi alla scuola pubblica è un altro colpo alla Costituzione e al principio di uguaglianza. Non vi è dubbio che la giornata unitaria del 12 marzo "A difesa della Costituzione" potrà e dovrà mettere al centro dell´attenzione la difesa della scuola pubblica che è parte essenziale della Carta», commenta Giuseppe Giulietti, a nome del Comitato promotore della manifestazione del 12 marzo. «Sulla difesa della scuola pubblica dagli ultimi attacchi del premier c´è trasversalità e volontà di difesa comune. Le dichiarazioni, da quelle di Italo Bocchino a Nichi Vendola, da Antonio Di Pietro alla Federazione della sinistra e di tante associazioni, vanno tutte nello stesso senso». L´idea di una manifestazione trova favorevoli i Verdi: «Sull´istruzione pubblica è giusto, anzi è doveroso mobilitarsi e scendere in piazza perché da questo dipende il futuro del nostro paese», ha detto il presidente nazionale Angelo Bonelli.
Sono però divisi i sindacati della scuola. Favorevole la Cgil: «È un´idea giusta, può essere un momento di mobilitazione importante, gli attacchi alla scuola pubblica di Berlusconi sono anche un attacco alla Costituzione», dice Mimmo Pantaleo, segretario Flc-Cgil. Contraria invece la Cisl: «Di tutto ha bisogno la scuola meno che di contrapposizioni politiche, la scuola non può essere terreno di scontro», ha detto Francesco Scrima. Dello stesso parere Paolo Nigi, segretario dello Snals, sindacato autonomo: «Non vedo i motivi di una manifestazione per la scuola pubblica, il governo ha cercato piuttosto di ridare serietà e credibilità alla scuola».
E gli studenti? Dopo le mobilitazioni dell´autunno preparano nuove scadenze ma sul 12 marzo ancora non si pronunciano: «Come studenti non staremo fermi ma preferiamo essere noi a decidere le nostre mobilitazioni». Intanto, domani alle 17.30 davanti a Palazzo Chigi ci sarà un sit in difesa della scuola pubblica promosso dal Pd.

l’Unità 28.2.11
E ora giù le mani dal sapere:
la scuola è di tutti, è per tutti
È paradossale e inaccettabile che un presidente del Consiglio, chiamato a incarnare e tutelare la cosa pubblica, attacchi frontalmente la scuola pubblica e quindi milioni di persone che in questa credono e alla quale quotidianamente dedicano, in condizioni spesso molto difficili, la loro personale fatica: DIFENDIAMOLA.


Silvio Berlusconi parla di principi (da che pulpito!) e insulta la scuola pubblica e gli insegnanti. Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini invece di chiedergli conto e/o dimettersi, difende il premier andando ad infoltire la già nutrita pattuglia degli avvocati del premier.
Ma sono sono in tanti a indignarsi e a chiedere, non comizi, ma politiche a favore della scuola pubblica, cioè della scuola per tutti. Dal nostro giornale parte un appello e una raccolta di firme a difesa della scuola pubblica, e per dire che è inaccettabile oltre che paradossale che il capo di un governo attacchi frontalmente uno dei perni del Paese che rappresenta e che dovrebbe governare. Allo stesso tempo non si può stare zitti di fronte all’offesa portata a migliaia di insegnanti che, grazie a questo governo, hanno subito tagli alle retribuzioni e ai diritti e ogni giorno vedono deperire le loro scuole vinte dalla scarsità di risorse e avvilite da riforme inutili oltre che dannose.
L’appello (il testo è nella pagina a fianco) è stato raccolto da personalità della cultura, del sindacato, della politica. Aderiscono, tra gli altri, Don Luigi Ciotti , Marco Rossi Doria, Nicla Vassallo, Luca Formenton, Raffaele Cantone, Vittorio Lingiardi, Evelina Christillin, Chiara Valerio, Mila Spicola, Goffredo Fofi, Luigi Manconi, Fabrizio Gifuni, Moni Ovadia, Sonia Bergamasco, Pippo Del Bono, Vincenzo Consolo, Lirio Abbate, Emma Dante, Giancarlo De Cataldo, Roberta Torre, Mimmo Pantaleo, Benedetto Vertecchi, Beppe Sebaste. A questi primi firmatari (l’elenco completo su www.unita.it) si sono aggiunte in poche ore le firme di circa cinquemila lettori dell’Unità on line.

l’Unità 28.2.11
L’ultimo atto di un regime autoritario
L’offensiva contro la scuola pubblica
di Francesca Puglisi


Ora Berlusconi punta a distruggere il luogo dove si formano le coscienze, dove le menti imparano a ragionare liberamente e si sviluppa lo spirito critico. Ecco perché infanga gli insegnanti e taglia risorse e personale alle scuole dello Stato, dirottando soldi verso istituti elitari. È un regime autoritario che, anziché prendere il potere con le armi, lo afferra occupando le istituzioni. Difendere la scuola pubblica, il valore delle donne, la legalità, l'informazione libera e la Costituzione, è in realtà la medesima battaglia. È il diritto di “ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità”, come disse Calamandrei.
La pervicace e instancabile guerra di Berlusconi e dei suoi sudditi ministeriali Gelmini e Tremonti alla scuola pubblica, è la volontà precisa di chiudere il cerchio della sua azione politica: dopo aver preso possesso del 90% dei mezzi di informazione, dopo aver delegittimato in ogni modo la magistratura, dopo aver istituito un federalismo zoppo che favorirà le mafie internazionali, come già ricordava Raffaele Cantone qualche giorno fa a Napoli, ora quel che gli manca è debellare l'avversario più pericoloso: la scuola pubblica. Perché è lì che nasce il nemico di ogni dittatura, di ogni integralismo, di ogni illiberalità: il pensiero. Di recente, il presidente Oscar Luigi Scalfaro ci ha messo in guardia dal tentativo di sovversione dell’ordine democratico in atto, un tentativo che non viene fatto con i carri armati, ma con le televisioni e le leggi, entrambe asservite al potere di uno solo, mentre i cittadini sono lasciati soli, sempre più spesso in situazioni di forte disagio economico e sociale che ci riportano indietro di decenni.
Pensare dà fastidio al potere, perché, come cantava Lucio Dalla, il pensiero è come l'oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare... e questo non lo possono sopportare i Gheddafi, i Putin, i Mubarak e i Berlusconi d'ogni sorta e colore. La scuola fornisce non solo nozioni, ma soprattutto gli strumenti di analisi per crescere cittadini consapevoli. La scuola fa crescere insieme, valorizza le differenze, tiene uniti i bambini nella convinzione che saranno loro i mattoni per costruire il futuro. La scuola è l'oceano dove nuota il libero pensiero.
Oggi quest'Italia, geograficamente e simbolicamente al confine fra l'Europa e l'Africa, è a un bivio: se sarà capace di difendere la scuola pubblica, sarà capace di avere un futuro, altrimenti sarà condannata a un eterno passato, quello dove non ci sono presidenti ma dittatori, non diritti ma concessioni, non cittadini ma sudditi. Torniamo in piazza, in un'alleanza di popolo, come abbiamo fatto il 13 febbraio. Se saremo uniti, anche la nostra opposizione politica nelle istituzioni sarà più forte. Salviamo la scuola pubblica, mandiamoli a casa.

Repubblica 28.2.11
Il Cavaliere pronto a tutto per l´appoggio della Chiesa
di Nadia Urbinati


QUANTO CI COSTERÀ IN TERMINI DI BENI PUBBLICI come la legge, la scuola, i diritti individuali la sopravvivenza di questo governo? La domanda non è per nulla retorica visto lo stile da riscossa ideologica con il quale un presidente del Consiglio sempre più debole, in picchiata nei sondaggi, cerca di riprendere in mano le sorti della sua carriera politica.
Alla disperata ricerca di sostegno nei settori dell´opinione pubblica a lui più tradizionalmente vicini, il premier ha messo in cantiere un sostanzioso paniere di beni pubblici da offrire alle gerarchie vaticane in cambio di un appoggio. La cronologia non inganna. Il 18 febbraio la delegazione del governo italiano, guidata da Berlusconi incontra la delegazione vaticana con Bertone e Bagnasco. Al centro del colloquio i temi di politica interna e di cosiddetta etica: l´assistenza spirituale negli ospedali e nelle carceri, la legge sul fine vita, la scuola paritaria e il "quoziente familiare". Il vertice è cortese ma si svolge con qualche imbarazzo: non c´è, ad esempio, il faccia a faccia con il premier. "Non era previsto", fa sapere il Vaticano. Berlusconi deve cercare di recuperare punti nei confronti della gerarchia cattolica. Ed ecco il discorso di due giorni fa: dopo solo una settimana egli rende al Vaticano ciò che aveva promesso e nel nome della libertà dell´individuo di cercare la propria felicità e "farsela" con le "proprie mani", assesta una serie di colpi durissimi ai diritti di libertà e poi al bene pubblico della scuola, un diritto di cittadinanza prioritario.
Lo scambio con le gerarchie vaticane è nel solco dell´oliatissimo e secolare guicciardinismo gesuitico: si metta una pietra tombale sul vergognoso comportamento del premier in cambio di sostanziose concessioni sui diritti e la scuola confessionale (sofisticamente detta "privata"). All´autorità che ha il dovere legittimo di sottoporre la vita e la realtà mondana al giudizio morale nel nome di principi non compromissibili, come sono quelli del Vangelo, viene proposto di patteggiare su quei principi in cambio del ridimensionamento della scuola pubblica a favore della propria scuola di indirizzo religioso e dell´opposizione del Parlamento a ogni legge che cerchi di riconoscere le coppie omosessuali e che consenta l´adozione di bimbi da parte di adulti non sposati. Alla ricerca di una benedizione curiale il più immorale degli italiani si erge a educatore e modello di moralità, di sacralità e vocazione educatrice della famiglia. E tutto questo nel nome della libertà! La libertà dei genitori "di inculcare ai loro figli quello che essi vogliono" – come se i figli fossero proprietà dei genitori alla pari di un´automobile o di un´abitazione con la quale fare "quello che si vuole". Quel che a noi cittadini preme e deve premere non è come la Chiesa si comporterà di fronte alla tentazione di un "patto diabolico". Ciò che a noi preme soprattutto è l´uso di un bene pubblico – quindi non disponibile - per ragioni private, privatissime anzi.
Il premier in bilico sa quanto sia determinante l´appoggio della Chiesa. E´ allora disposto a dileggiare gli insegnanti (da molti dei quali ha tra l´altro ricevuto il voto tre anni fa) in una strategia retorica che serve a gettare discredito sulla scuola pubblica per poi preparare il terreno ideologico che giustifichi ulteriori decurtazioni di mezzi e risorse all´istruzione. Non a caso il Giornale di famiglia, ieri puntava tutto sulla strategia seduttiva del Cavaliere nei confronti dei cattolici: intervista al cardinal Bagnasco e ampio risalto al discorso di Berlusconi in prima pagina e nelle pagine due e tre. Sulla scuola, spiega Il Giornale, "Berlusconi gioca di sponda con la Santa Sede sostenendo di fatto la scuola privata. Perché, spiega, ‘gli insegnanti inculcano idee diverse da quelle che vengono trasmesse nelle famiglie´". In nome della libertà del premier – libertà dalla legge prima di tutto - tutti gli italiani dovrebbero vivere secondo le idee e le leggi che convengono al premier e a chi lo sostiene: questo è il senso della libera ricerca della felicità nell´Italia contemporanea.

La Stampa 28.2.11
Intervista al vescovo Negri: il male sono i Dico e le leggi laiciste
«La moralità del premier conta meno della famiglia»
«Il giudizio dipende dall’impegno per il bene comune»
di Giacomo Galeazzi


Da sempre alla Chiesa interessa ciò che un governante fa per il bene comune. Sul piano della condotta individuale indirizziamo a Berlusconi le stesse raccomandazioni rivolte a chiunque altro. Sui comportamenti personali il giudizio spetta solo a Dio». Il vescovo ciellino di San Marino-Montefeltro, Luigi Negri, esponente di primo piano della Cei e presidente della fondazione per il Magistero sociale della Chiesa, interrompe i preparativi per la visita del Papa nella sua diocesi e benedice il «clima costruttivo» tra le due sponde del Tevere: «Ci sono le condizioni per orientare cattolicamente la restante parte della legislatura verso i principi non negoziabili: vita, famiglia, libertà di istruzione». Il no del premier alle adozioni dei single e alle unioni gay (in contemporanea all’esortazione alla pacificazione tra i poteri contenuta nell’intervista del cardinale Bagnasco al «Giornale» della famiglia Berlusconi) sono «segnali positivi di disponibilità alla cooperazione per l’interesse generale dell’Italia». E «le incoerenze etiche di un governante non distruggono il benessere e la libertà del popolo, gli attacchi alla famiglia e alla sacralità della vita devastano la vita sociale».
Si aspetta più impegno del governo sui temi cari alla Chiesa?
«Ci sono margini per un’azione più incisiva dei cattolici nella vita pubblica. La democrazia non si fa con l’ingegneria costituzionale. Manca un rapporto equilibrato tra la politica e un apparato giudiziario autoreferenziale e indipendente nei suoi atti. Le priorità sono la salvaguardia della vita dal concepimento alla fine naturale, della famiglia eterosessuale (l’unica feconda), della possibilità per la Chiesa di svolgere l’azione formativa e culturale tra la gente».
Non imbarazzano gli scandali del premier?
«Se esistono reati tocca alla legge stabilirlo, è inammissibile condannare a priori. Un politico è più o meno apprezzabile moralmente in base a quanto si impegna a vantaggio del bene comune, cioè di un popolo che viva bene e di una Chiesa che operi in piena libertà. Non è edificante sentir evocare anche in ambienti cattolici l’indignazione, il disprezzo, l’odio verso l’avversario politico. A far male alla società sono i Dico, la legislazione laicista, la moralità teorizzata e praticata da quanti ci inondano di chiacchiere sulla rilevanza pubblica di taluni comportamenti privati».
Quale rischio teme?
«Una disarticolazione di poteri che la Costituzione vuole convergenti. La moralità personale è importante e Berlusconi va richiamato come tutti, ma nella sua storia la Chiesa interviene sulla promozione del bene comune e su ciò valuta un’autorità pubblica.In due anni e mezzo i cattolici potranno incidere di più sulla vita politica e sociale, per esempio contro i registri comunali delle coppie di fatto e il sì al farmaco abortivo Ru486: ci mostrano la moralità pubblica della mentalità laicista e anticattolica che caratterizza le “élites” ideologiche e politiche che pretendono di dominare il Paese».

Corriere della Sera 28.2.11
«Fine vita, meglio non votare questa legge»
Per Fiori si renderebbe «più profonda la spaccatura tra medici favorevoli e non» Il giurista Rescigno: su temi così laceranti c’è un’impostazione sbagliata
di  Paolo Conti


ROMA — Il confronto sul Testamento biologico e sul disegno di legge Calabrò che introduce «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento» si fa sempre più serrato. Il testo, approvato a palazzo Madama nel marzo 2009, arriverà in aula a Montecitorio il 7 marzo. dopo essere stato sottoposto all’esame delle commissioni parlamentari: ma sta già sta producendo i suoi effetti politici. Nel Pd, per esempio, c’è spaccatura tra laici e cattolici. Per i primi occorrerà votare comunque in funzione anti-governativa contro il disegno di legge anche se di fatto il testo introduce il principio della difesa della vita fino all’ultimo, invece per Giuseppe Fioroni e altri cattolici esistono «valori non negoziabili» e ci si dichiara pronti a presentare altri testi sui quali proporre la convergenza dei cattolici Pdl. Nel Pdl il portavoce Daniele Capezzone si chiede: «Ma davvero serve una legge?» Allineandosi così a una posizione già espressa da Giuliano Ferrara e Sandro Bondi per il Pdl e da Umberto Veronesi per il centrosinistra Oggi, su questo tema, intervengono due interlocutori di diversa radice culturale che da anni si occupano di bioetica e quindi anche di questioni legate proprio ai trattamenti del fine vita. Da una parte Angelo Fiori, emerito di Medicina legale all’università del Sacro Cuore per anni direttore con monsignor Elio Sgreccia della rivista di bioetica «Medicina e morale", » , membro del Comitato etico dell’Istituto Superiore di Sanità. Dall’altra Pietro Rescigno, emerito di Diritto civile a «La Sapienza» fondatore e direttore della rivista «Quaderni del pluralismo» , presidente della Commissione Bioetica dell’Accademia dei Lincei Il dibattito è apertissimo, siamo vicini alla discussione a Montecitorio. Però visto il testo, e analizzati i risultati di un lungo confronto, c’è chi sostiene che sarebbe meglio non legiferare in una materia così complessa, delicata, soprattutto piena di possibili eccezioni. Che ne pensate? Angelo Fiori: «Personalmente ritengo che a questo punto sarebbe molto meglio non votare alcuna legge. Sono convinto che la strada ottimale sia affidarsi ai medici che in certi frangenti così delicati si mostrano in gran parte ragionevoli e coscienti. Tanto più che, a mio avviso, al Testamento biologico ricorrerebbero pochi cittadini, così com’è accaduto con la donazione degli organi. Peraltro l’approvazione di una legge non farebbe che rendere più profonda la spaccatura tra medici favorevoli all’eutanasia e quelli che non lo sono» Pietro Rescigno: «Ho già scritto tempo fa che, soprattutto su temi tanto laceranti, se si teme l’approvazione di una legge sbagliata nella sua impostazione, com’è quella di cui stiamo parlando, allora è molto meglio non varare alcunché. Poi c’è un altro dato giuridico. Il Testamento biologico non contrasta con i principi del nostro sistema e quindi penso sarebbe comunque lecito e anche vincolante. Una volta polemizzai col mio amico Sabino Cassese il quale sostenne che, su materie di forte impatto, è meglio intervenire, magari male, che non farlo. Io penso il contrario...» In questa vicenda emergono diverse problematiche. Il diritto all’autodeterminazione e soprattutto la questione dell’idratazione e dell’alimentazione forzata nel caso di non coscienza del soggetto, vero elemento di divisione. Di fatto per il disegno di legge Calabrò alimentare e idratare non rientrano nel concetto di terapia ma di nutrimento e quindi non possono essere sottoposte a una dichiarazione anticipata di trattamento. Qual è la vostra opinione? Angelo Fiori: «Qui non c’è da essere cattolici o non cattolici, credenti o non credenti. Togliere il nutrimento o l’idratazione significa sopprimere vite umane per fame e per sete. Come ho scritto tempo fa sulla rivista "Medicina e morale", nei casi di Terry Schiavo e di Eluana Englaro la morte è stata deliberatamente procurata con la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione. La morte non si sarebbe verificata in assenza di questa condotta volontariamente omissiva perché non si trattava di malattie terminali. In più aggiungo che molti portatori di gravissimi handicap ricoverati per esempio al Cottolengo sono alimentati e idratati artificialmente. Portando alle estreme conseguenze questo ragionamento, potremmo immaginare che un domani si potrebbe decidere la sospensione delle "cure"perché rappresentano, mettiamo, un peso per la società. Infine vorrei porre una questione giuridica. Nel Testamento si introduce la figura del fiduciario che dovrebbe far rispettare le volontà del paziente in caso di suo stato di incoscienza. Ma come potrebbe un non medico, per esempio, imporre scelte terapeutiche a un medico?» Pietro Rescigno: «Questo disegno di legge non rispetta il principio di autodeterminazione e, come sostiene l’appello che abbiamo sottoscritto con Stefano Rodotà e altri, si viola chiaramente l’articolo 32 della Costituzione che vieta di fatto ogni trattamento contrario al rispetto della persona umana. E poi, secondo il disegno di legge, il medico viene legittimato a sovrapporre le proprie decisioni a quelle del paziente non cosciente. In quanto al merito della domanda. Nei Paesi in cui il Testamento biologico è stato adottato, e penso alla California tra i primi, nel concetto di "terapia"vengono intesi tutti i mezzi che possono sostenere artificialmente una vita umana. E lì trovano spazio sia l’idratazione che il nutrimento artificiale. In piena onestà posso anche aggiungere che la distinzione terapia-nutrimento è artificiosa perché, nei tanti confronti avuti con i medici su questo tema, mi sembra prevalente il concetto che nell’idea di "terapia"davvero sia comprensivo tutto ciò che sia adottato per "curare". Non vedo dunque perché idratazione e nutrimento non possano trovare spazio in un ordinamento italiano che regoli il Testamento biologico» .

l’Unità 28.2.11
Vendola non ha scadenze: «Candidato anche nel 2013»
Davanti a 4mila persone, lungo comizio del leader di Sel: «Io sono pronto, ma non saremo mai al governo con i finiani»
di Andrea Carugati


Quattromila persone ad applaudire, un’ora e mezzo di comizio dei suoi, torrenziale ed emotivo, per rimettere
Piero Fassino sarà il candidato del centrosinistra alle elezioni per fare il sindaco di Torino
in campo Sinistra e libertà. Le elezioni si allontanano, le primarie anche, la sua immagine è un po’ ammaccata dalle inchieste pugliesi, e Nichi Vendola rilancia. In un teatro tenda alla periferia di Roma, il governatore chiama a raccolta il popolo di Sel: «Siamo in campo», dice ai suoi. E mette in fila le parole-chiave del programma: tanta ecologia, dall’agricoltura biologica alla cura del territoio dissestato, riforma del welfare («Tassiamo stipendi e pensioni al 12,5%»), ruolo chiave dello Stato e dell’interesse pubblico, difesa della scuola pubblica. Cita a più riprese «i giovani» come protagonisti del «patto» per ricostruire il centrosinistra e l’Italia. Insolita la virulenza delle borbate a Berlusconi, a partire dall’attacco del premier ai diritti dei gay: «Altro che liberale, sei un bigotto!», urla Vendola tra gli applausi. «Se avessi un figlio gay quante sofferenze gli provocheresti? Vai a parlare dai cattolici per farti perdonare il “bunga bunga”, ma dov’è Gesù che scaccia i mercanti dal Tempio?». Al Pd un messaggio chiaro: «Proporre la Bindi alla guida della Grande coalizione non era una provocazione, se volete portare a palazzo Chigi un tecnocrate come Monti o Montezemolo noi ci opporremo con tutti i mezzi. Sul terreno del liberismo non ci avrete mai». E ribadisce: «Ok alla Grande coalizione per cambiare la legge elettorale e fare il conflitto di interessi. Ma noi in un governo politico con i finiani che vogliono privatizzare l’acqua non ci andremo mai». Solo un piccolo accenno alle inchieste pugliesi: «Lo so che lo stritolamento mediatico sarà permanente». E aggiunge: «Queste parole che stiamo dicendo sono un patrimonio collettivo, anche se questo leader si ritirasse». Significa un suo passo indietro? «Assolutamente no», risponde Vendola dietro le quinte. «Era una risposta a chi, nel Pd, mi definisce un fenomeno mediatico. Queste idee contano più della mia carriera pubblica». E se il voto si allontana? «Io sono pronto, ora, nel 2012 o nel 2013. Non ho mai scommesso su una data». Grande spazio alle «rivolte di libertà nel Mediterraneo». Vendola striglia la vecchia Europa «ipocrita e esitante», chiede di allargare l’Ue ai Balcani, alla Turchia, a Israele e Palestina, di costruire un «continente Euromediterraneo». E sull’«allarmismo» sugli sbarchi di profughi, chiude gridando alla destra: «Siete barbari, non c’è politica senza abbraccio a chi soffre. Sono fiero della mia Puglia che accolse migliaia di esseri umani dall’Albania».



l’Unità 28.2.11
Cambia il manuale diagnostico dei disturbi mentali Ed è subito polemica
Dal 2013 verranno escluse alcune patologie della personalità
di Cristiana Pulcinelli


Nel 2013 verrà pubblicata la quinta edizione del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5). Il manuale, a cura dell’American Psychiatric Association (Apa), è un punto di riferimento per chi si occupa di salute mentale in tutto il mondo. Rispetto all’ultima edizione, uscita 11 anni fa, ci sono modifiche importanti. In particolare, gli psichiatri americani propongono di escludere le diagnosi di alcuni disturbi della personalità, come quelli paranoide, istrionico, narcisistico e dipendente. La proposta ha già suscitato polemiche. L’ordine degli psicologi del Lazio giorni fa ha indetto una giornata di studio in cui si è discusso di un documento da mandare all’Apa per spiegare le ragioni del dissenso. «L’esclusione può avere ricadute pesanti – spiega Marialori Zaccaria, presidente dell’Ordine degli psicologi del Lazio – innanzitutto per la clinica: per noi queste patologie sono pane quotidiano. E patologie per le quali non ci sono farmaci, che richiedono la psicoterapia. Escluderle dal DSM-5 vuol dire escludere quella che è una prassi clinica consolidata». Senza considerare, dice Zaccaria, ricadute pratiche: eliminare il disturbo narcisistico significa, per esempio, non riconoscere ai pazienti la possibilità di essere rimborsati da eventuali assicurazioni per la psicoterapia.
Perché, dunque, se ne propone l’eliminazione? «Sicuramente per battaglie “ideologiche” tra modelli teorici – spiega Vittorio Lingiardi, psichiatra e docente alla facoltà di medicina e psicologia alla Sapienza di Roma in questo caso, tra sostenitori dell’approccio dei cosiddetti “Big Five Factors” e i sostenitori degli approcci psicologici sia dinamici sia cognitivi. Ma anche motivi legati ad aspetti economici e culturali. Le diagnosi eliminate sono quelle meno medicalizzabili o trattabili farmacologicamente? Oppure, per esempio, su una delle diagnosi a rischio di scomparsa, non si ravvisano più elementi di patologia in quello che molti di noi continuano a considerare narcisismo patologico o maligno, che poco ha a che vedere con il narcisismo sano?».


Corriere della Sera 28.2.11
Un despota o antico liberatore? Gheddafi imbarazza ancora la sinistra
di Paolo Franchi


Ma chi è Muhammar Gheddafi? Una «bestia immonda» , come lo definisce la lettrice Iglaba Scelgo? Un «dittatore sanguinario» , come scrive l’abbonata Mariletta Calazza? Oppure il «vecchio leone ancora spavaldo» nonostante la sua immagine sia quella «tristissima e patetica di un uomo obnubilato dalla solitudine» di cui scrive Luciana Castellina? O il leader «invecchiato» e travolto dalla propria «vanità» , certo, e però a lungo protagonista «non solo in Africa di uno straordinario tentativo di innovazione, che andava apprezzato e sostenuto» , che Valentino Parlato continua a difendere? Il manifesto sta, si capisce, dalla parte della rivolta. E neppure sta troppo a chiedersi, come fa invece Liberazione, se per caso quella libica non sia «una guerra civile sponsorizzata dalle potenze capitalistiche» . Ma su Gheddafi al manifesto si discute. Anzi, ci si accapiglia. E si tratta di una discussione che potrebbe diventare molto istruttiva, e anche utile. Sin qui, somiglia a un conflitto generazionale. A rifiutarsi al giudizio sommario (e in certi casi, come quello di Parlato, a chiedere quanto meno l’onore delle armi al colonnello) sono soprattutto i grandi vecchi del quotidiano comunista; e sono soprattutto, anche se non soltanto, i redattori e i lettori più giovani a indignarsene. Ha cominciato Luciana Castellina, ricordando che nel ’ 69, quando il «giovane tenente» prese il potere, «tutti gli anticolonialisti gioirono» , come avevano gioito per la vittoria di Nasser, «l’uomo che ha impersonato il sogno del riscatto arabo» , e ancor più per l’Algeria, qualcosa di assai simile, per la sua generazione, a quello che fu il Vietnam per la generazione del Sessantotto. Non c’è dubbio, scrive Castellina, «la ribellione del Maghreb e del Mashrak è sacrosanta» , ma non si può rappresentarla come l’esplosione del malcontento secolare di popoli che hanno conosciuto solo «fanatismo e oppressione» . Per chi sta a sinistra, e soprattutto per chi ci è stato, guardando alla Libia, all’Egitto, all’Algeria, la domanda (terribile) è tutta diversa: «Perché queste che non sono state rivoluzioni in senso proprio, ma certo straordinari sommovimenti popolari, sono finite così?» . Ecco, esattamente di questo sarebbe bene discutere. Non cancellando la storia, ma prendendo atto della durezza delle sue repliche. Lo scrive apertis verbis Rossana Rossanda. Che allarga la domanda a un fallimento ancora più clamoroso, quello delle rivoluzioni comuniste: «Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler stessa razza, tesi degli storici post ’ 89), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e d’altronde non fa che spostare la domanda. Perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader?» . Rossanda azzecca, almeno in parte, anche la risposta. La prima illusione tragica (ma anche, alla lunga, colpevole, aggiungerei) è consistita, scrive, nell’affidarsi «in presenza di masse incolte, a un’avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e (…) lo difende non solo dagli avversari, ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente"un nemico» . E forse corre rischi analoghi anche «la folla generosa ma atomizzata» che affolla e insanguina del proprio sangue le piazze in Paesi in cui «un dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l’articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto» . Anche «il problema delle rivolte arabe (…) è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo» . Irritati dalle provocazioni di Parlato, che al Sole24Ore ha detto di considerarsi tuttora «un estimatore convinto del colonnello» , i lettori del manifesto hanno scritto parecchie lettere contro di lui, riservando invece sin qui un’attenzione tutto sommato modesta all’intervento «menscevico» di Rossanda. Capita, di questi tempi, anche sul quotidiano diretto da Norma Rangeri, a chi si ostina a inerpicarsi in ragionamenti complessi, che non si lasciano imprigionare in un’immagine televisiva. Per quel che vale, la speranza è invece che la riflessione impietosa sollecitata da Luciana Castellina, e avviata da Rossanda, si allarghi, e non solo sul manifesto. Arrivando sin là dove nell’ 89 non aveva saputo o voluto arrivare. Una sinistra incapace di affrontare coraggiosamente i suoi ieri ha poco o nulla da dire sull’oggi. E ancora meno sul domani.

Repubblica 28.2.11
Il politologo Roy
"La primavera araba non si fermerà il popolo pretende la democrazia"
"Non dobbiamo intervenire con le armi a Tripoli ma sostenere le zone libere dal regime"
L´Occidente deve smettere di tifare per una transizione controllata e appoggiare questi ragazzi
di Francesca Caferri


ROMA- «È un processo irreversibile. Potrà anche vivere momenti di stop, ma ripartirà: il paragone più plausibile è quello con le rivoluzioni del 1848 in Europa». Il politologo francese Olivier Roy è fra i massimi esperti di Islam in Europa: e fra i pochi che, dal suo studio presso l´istituto universitario europeo di Fiesole, non si sia stupito quando il mondo arabo ha cominciato ad esplodere. Per questo le sue parole sul futuro di questo processo sono fra quelle da ascoltare con attenzione.
Professor Roy, scontri di piazza in Egitto e in Tunisia, incertezza e combattimenti in Libia: la primavera araba è già finita?
«No, non lo è. Siamo noi che dobbiamo capire cosa intendiamo quando parliamo di "primavera araba". Questo movimento ha due anime: è una rivolta e una rivoluzione. È una rivolta perché le manifestazioni non erano programmate e non sono ideologiche: non hanno dietro alle spalle leader, né partiti, né agende politiche. Vogliono una sola cosa: la democrazia. Ma è anche una rivoluzione perché vuole cambiare la società dal profondo e perché viene dal mondo reale: dai giovani, dall´oggi».
Quali sono le conseguenze di questa doppia anima?
«La conseguenza in questa fase è che ci troviamo di fronte a due generazioni con obiettivi diversi, a due culture opposte. In piazza sono scesi nuovi protagonisti: giovani arabi educati e non ideologici. Una generazione post-islamista che chiede cose come "dignità" e "rispetto". Ma il controllo delle leve del potere, in Tunisia e in Egitto lo hanno vecchi generali, che si ispirano a un´ideologia politica vecchia, tutta legata al concetto di autorità. Per loro lo Stato è potere e ordine: il vecchio dittatore è partito e ora è l´ora della transizione, che deve essere ordinata. Ma i manifestanti non mollano: vogliono la democrazia, ora. E non una transizione indefinita».
Quindi cosa accadrà?
«Dipende dai Paesi: sono abbastanza ottimista sulla Tunisia, perché la pressione della strada è forte. Meno sull´Egitto, perché il potere dei militari è molto più esteso. La Libia è una storia a parte, e posso solo sperare che l´Occidente non si metta in testa di intervenire militarmente: quello che sta avvenendo in quel Paese è una guerra civile. È giusto mandare aiuti alimentari e fare assistenza nelle zone liberate. Poi ci sono paesi sull´orlo, come lo Yemen. E altri, come l´Arabia Saudita, che hanno abbastanza risorse da distribuire per cercare di evitare che la bolla scoppi».
L´Occidente cosa deve fare?
«Togliersi i paraocchi con cui da 30 anni guarda al mondo arabo: quella paura del nemico Islam, quel modo di vedere ogni movimento in quella zona di mondo come frutto dell´estremismo. È uno schema vecchio, legato alla rivoluzione islamica in Iran: ma attraverso questo schema abbiamo giudicato ogni fenomeno legato a questa zona del mondo, dall´immigrazione alla politica. Oggi è tutto diverso: l´Occidente deve smettere di non credere nei giovani arabi. E deve smettere di tifare per una transizione tranquilla a scapito della democrazia, solo perché, come in Egitto, la transizione è guidata da un esercito pagato dagli Usa. Non ci sarà stabilità solo con la transizione, la stabilità arriverà con la democrazia: la gente vuole democrazia, occorre lavorare per mettere fine alla corruzione e promuovere lo sviluppo economico. Puntare a vere elezioni da cui escano parlamenti rappresentativi, che possano scrivere costituzioni vere».
Non è possibile invece che gli scontri di questi giorni dimostrino che l´Occidente ha ragione? Che i movimenti rivoluzionari siano troppo immaturi per governare il futuro?
«No. Questo è un processo irreversibile. È come il 1848 in Europa. Ci saranno degli stop, dei momenti in cui sembrerà di tornare indietro. Ci saranno reazioni violente: ma il processo che si è messo in moto è ineluttabile e non si fermerà».

l’Unità 28.2.11
Non parlate di Muro: il vento dell’Africa è come un nuovo ’48
Il paragone con il 1989 è fuorviante: le rivolte arabe ricordano quanto accadde nel XIX secolo in Europa
di Anne Applebaum


Ogni rivoluzione deve essere valutata all’interno del proprio contesto, ognuna ha un proprio impatto specifico. Le rivoluzioni si diffondono da un luogo a un altro. Interagiscono in maniera limitata. Il dramma di ogni rivoluzione si rivela separatamente. Ognuna ha i suoi eroi, le sue crisi. Per questo motivo, ognuna ha bisogno di essere narrata per conto proprio».
Potrebbe essere il primo paragrafo di una futura storia delle rivoluzioni arabe del 2011, invece è parte dell’introduzione di un libro sulle rivoluzione europee nel 1848. Nelle ultime settimane un folto numero di persone, me compresa, ha paragonato le folle di Tunisi, Bengasi, Tripoli e il Cairo alle folle di Praga e Berlino di due decenni fa. Ma c’è una differenza fondamentale. Le rivolte urbane che hanno portato alla fine del comunismo hanno seguito dinamiche simili perché scatenate da un singolo evento politico: l’improvvisa ritirata sovietica dal supporto del tiranno locale. Le rivoluzioni arabe, invece, sono prodotto di molteplici cambiamenti economici, tecnologici e demografici, e questi hanno preso forme e significati diversi in ogni nazione. In questo senso ricordano il 1848 molto più del 1989.
Per quanto siano stati ispirati generalmente da idee di liberalismo nazionale e democrazia, i dimostranti del 1848, in maggior parte provenienti dalla classe media, avevano obiettivi molto diversi da paese a paese, così come i loro contemporanei arabi. In Ungheria, chiedevano indipendenza dall’Austria degli Asburgo. In quella che oggi è la Germania, puntavano ad unire le popolazioni di lingua tedesca in uno stato singolo. In Francia, volevano far cadere la monarchia (di nuovo).
In alcune nazioni, le rivoluzioni hanno portato a macabre lotte tra diversi gruppi etnici. In altre sono state fermate da un intervento esterno.
In effetti, molte delle rivoluzioni del 1848 fallirono. Gli ungheresi cacciarono gli austriaci, ma solo per poco. La Germania non riuscì ad unificarsi. I francesi crearono una repubblica che cadde pochi anni dopo. Costituzioni furono scritte e poi gettate. Le monarchie abbattute e poi restaurate. Lo storico A.J.P. Taylor chiamò il 1848 un momento nel quale «la storia arrivò ad un punto di svolta ma non riuscì a svoltare».
Nel lungo periodo, le idee discusse nel 1848 si sono però infiltrate nella cultura e alcuni dei piani rivoluzionari del 1848 si sono alla fine realizzati. Al termine del diciannovesimo secolo, il cancelliere Otto Von Bismarck unì realmente la Germania, e la Francia diede vita alla Terza Repubblica. Le nazioni una volta dominate dagli Asburgo conquistarono l’indipendenza dopo la prima guerra mondiale. Nel 1849 molte delle rivoluzioni del 1848 vennero giudicate disastrose, ma viste da una prospettiva più lontana, quella del 1899 o del 1919, cambiarono aspetto e apparvero come l’inizio di un cambiamento di successo.
Nel mondo arabo stiamo vedendo persone diverse con obiettivi diverse prendere il controllo delle manifestazioni di piazza, ognuna delle quali deve essere certamente presa in considerazione “nel proprio contesto”, come lo storico scrisse del 1848. In Egitto, le decisioni prese dai militari possono avere un peso non minore delle azioni delle folle. In Bahrein, il conflitto tra Sunniti e Sciiti è chiaramente centrale. Il ruolo dell’Islam non è lo stesso in Paesi diversi come la Tunisia e lo Yemen.
In Libia, il regime ha già dimostrato di essere capace di usare violenza contro la popolazione, mentre altri Paesi non lo hanno fatto. Per quanto sia facile cadere nella tentazione di mettere tutte queste rivolte nello stesso calderone e trattarle come una sola “rivoluzione araba”, le differenze tra questi Paesi potrebbero finire per essere più importanti delle loro similitudini.
È altrettanto vero che, entro il 2012, alcune o forse tutte queste rivoluzioni potrebbero dimostrarsi fallimentari. Le dittature potrebbero venire reinstaurate, la democrazia potrebbe non funzionare, i conflitti etnici potrebbero trasformarsi in violenze etniche. Come nel 1848, un cambio del sistema politico potrebbe richiedere molto tempo e non avvenire attraverso rivoluzioni popolari. La negoziazione, come ho scritto qualche settimana fa, è generalmente un sistema migliore e più sicuro per trasferire i poteri. Alcuni dei dittatori di queste regioni potrebbero alla fine rendersene conto.
Inoltre, pensare al 1848 aiuta a trovare un certo equilibrio. C’è stato un momento, nei giorni più caldi della rivoluzione in Egitto, in cui mi sono trovata seduta nel mio soggiorno, a guardare in diretta Hosni Mubarak parlare agli egiziani. Potevo vederlo parlare, sentire la traduzione, e vedere le reazioni della folla: per un momento, era possibile immaginare di vedere la rivoluzione svelarsi in tempo reale. Ma potevo vedere solo quello che le macchine da presa stavano mostrando, e molte delle cose importanti erano invisibili. Ad esempio, gli uomini in divisa che negoziavano dietro le quinte.
La televisione crea l’illusione di una narrativa lineare e dà agli eventi le sembianze di una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine. La vita reale non funziona così; il 1848 non ha funzionato così. È utile considerare il disordine della storia, di tanto in tanto, perché ci ricorda che il presente non è diverso.

l’Unità 28.2.11
Il futuro dell’Egitto: un’altra Turchia o un nuovo Iran?
di Stephen Kinzer


Il regime corrotto e repressivo di un dittatore diventa insopportabile quando la gente capisce che la sua famiglia intende conservare il potere per sempre. A quel punto emerge un movimento popolare che abbraccia ogni strato della società. Ed infine, quasi d’incanto, la famiglia che ha tiranneggiato una nazione per decenni, svanisce nel nulla. La gente prova un sentimento di euforia e d’improvviso scorge possibilità prima impensabili per sé e per il proprio paese. Tutti vogliono la stessa cosa: la democrazia e un posto rispettato nel consesso delle nazioni. È un momento sublime e raro della storia.
È accaduto in Nicaragua nel 1979. In quell’anno di trasformazioni violente ero inviato in quel Paese e ho potuto vedere quanto rapidamente può svanire l’euforia della vittoria. Con ogni probabilità questo mese – il febbraio del 2011 – sarà ricordato come il momento di massima unità degli egiziani. L’esempio del Nicaragua dimostra che debbono goderselo finché dura perché è probabile che possa svanire alla svelta.
Il raffronto tra le due rivoluzioni non è esattamente calzante. Il dittatore dinastico del Nicaragua, Somoza Debayle, fu deposto da un movimento di guerriglieri mentre il presidente Hosni Mubarak è stato rovesciato dal dilagare delle manifestazioni pacifiche di protesta. E ci sono scarse analogie tra un poverissimo, isolato Paese di tre milioni di abitanti e un Paese che vanta una cultura millenaria, un tradizionale potere regionale e 85 milioni di abitanti, tra cui un ceto medio di proporzioni non indifferenti. E non di meno la ribellione in Nicaragua e in Egitto è figlia delle medesime frustrazioni e dagli stessi sogni idealistici. La rivolta del Nicaragua non ha dato buoni frutti. Il Paese è in pace, ma è più povero di prima e non ha avuto alcuno sviluppo democratico.
Cosa è accaduto? Ideologie tra loro in conflitto alimentate dall’inesperienza dei nuovi leader hanno portato ad una situazione di spaccatura nel Paese. I militari alla lunga si sono rifiutati di cedere il potere ai civili. E alla fine il Nicaragua ha subito una violenta divisione. Le fazioni in guerra hanno cercato appoggi militari dall’esterno e il Paese è diventato teatro di tremendi spargimenti di sangue. A quattro anni da una rivoluzione appoggiata dal 90% dei cittadini del Nicaragua, il Paese era alle prese con la guerra civile. L’Egitto corre rischi analoghi. Il dittatore non c’è più, ma le strutture politiche ed economiche da lui costruite, restano in larga parte immutate. Non è del tutto chiaro in che misura i militari sono disposti a cedere il potere ai civili. La società civile è debole e, con l’eccezione della «Fratellanza Musulmana», ci sono pochi gruppi organizzati. Per delineare il migliore e il peggiore degli scenari possibili che attendono l’Egitto basta dare uno sguardo ai Paesi confinanti. Se tutto andrà bene, l’Egitto potrebbe diventare la Turchia del mondo arabo: una democrazia aperta ad economia capitalistica, fondamentalmente filo-occidentale anche se fortemente conraria alle politiche degli Usa in Medio Oriente e governata da musulmani osservanti che riservano alla religione uno spazio nella vita pubblica.
All’estremo opposto c’è l’Iraq. Le divisioni tra clan in Egitto non sono pronunciate come in Iraq, ma in entrambi i Paesi, un lungo periodo di stagnazione ha impedito l’emergere di una visione comune degli obiettivi e dell’identità della nazione. Ben presto gli egiziani potrebbero sentirsi frustrati dal presunto tradimento della rivoluzione. Nel caso in cui l’Egitto avviasse un processo di pacifica transizione verso la democrazia, inevitabilmente diminuirebbe il potere dell’esercito. Una pacifica transizione verso la democrazia in Egitto indurrebbe anche i popoli degli altri Paesi arabi a giungere alla conclusione che si trovano dinanzi ad un bivio: autocrazia o libertà. Tuttavia i dittatori vogliono che i popoli giungano ad una conclusione diversa, cioè a dire che la scelta è tra autocrazia e terrore. Fomentando il terrore in Egitto potrebbero conservare il potere. Tutti e tre i potenti regimi religiosi del Medio Oriente hanno interesse a non far consolidare la democrazia in Egitto. Per l’Arabia Saudita e Israele, un Egitto pacifico e democratico sarebbe un rivale pericoloso nei confronti di Washington. Per l’Iran rappresenterebbe la fine dei suoi sogni di egemonia regionale. Tutti e tre questi Paesi auspicano un Egitto instabile e potrebbero essere persino disposti ad agevolare questa instabilità. Conflitti interni che diventano vere e proprie guerre civili per conto di Paesi stranieri: questa spirale ha distrutto l’unità nazionale in Nicaragua e, più di recente, in Iraq. Ed ora la medesima spirale minaccia l’Egitto. Le polemiche sul ruolo dell’esercito metteranno presto in pericolo l’unità nazionale di cui sembra godere al momento l’Egitto. La gente capisce che l’esercito è essenziale ai fini di una transizione pacifica, ma vuole anche limitarne il potere. Gli egiziani chiedono anche lo smantellamento delle corrotte strutture economiche del regime di Mubarak, ma iniziative in tal senso colpirebbero direttamente l’esercito che ha costruito una fitta ragnatela di investimenti e interessi economici con Mubarak e i suoi sodali. Inoltre i generali egiziani hanno rapporti molto amichevoli con i loro colleghi americani e israeliani e si opporranno ad eventuali richieste di drastici cambiamenti della politica dell’Egitto nei confronti di Israele.
Nel corso della storia pochissimi sono stati gli esempi di militari che si sono ritirati tranquillamente e spontaneamente nelle loro caserme cedendo il potere ai civili. L’esempio incoraggiante è quello della Turchia dove negli ultimi dieci anni gli elettori hanno notevolmente ridotto il potere in mano ai militari e i generali hanno accettato di farsi emarginare. Ma quel processo ha richiesto una generazione.
In Egitto l’esercito ha deciso di abbandonare Mubarak perché ha capito che per salvare il sistema era necessario sacrificare il suo dittatore. Tuttavia le centinaia di migliaia di persone che hanno riempito piazza Tahrir desiderano abbattere quel sistema. Non è forse così? Gli obiettivi comuni del popolo all’indomani della rivoluzione sono vaghi e confusi. In Egitto due gruppi sono convinti di aver rovesciato Mubarak. I dimostranti pensano che sia uscito di scena a seguito della pressione morale esercitata dalla folla. I comandanti militari, tuttavia, si attribuiscono il merito della caduta di Mubarak. Dal loro punto di vista, hanno organizzato un colpo di Stato per impedire una transizione dinastica e hanno approfittato delle manifestazioni di protesta servendosene come pretesto. Questi due gruppi hanno agende contrapposte e ben presto entreranno in conflitto. Se era necessaria una rivoluzione, allora non c’è ancora stata. E i generali faranno di tutto per impedire che ci sia. Può anche darsi che i dimostranti scendano nuovamente n piazza. L’Egitto sta per affrontare un periodo di instabilità. La Turchia è il suo sogno. Il Nicaragua e l’Iraq il suo incubo.

l’Unità 28.2.11
Intervista a Predrag Matvejevic
«Mediterraneo, l’Italia crede sia un peso»
Secondo lo scrittore l’Europa e il nostro Paese in particolare non vedono i vantaggi che derivano da una maggiore integrazione con i popoli vicini
di Umberto De Giovannangeli


Al Mediterraneo, alla sua storia, ai suoi popoli, alle sue tensioni, alle sue speranze, ha dedicato tre libri di grande successo: «Breviario Mediterraneo» (Garzanti), 11 edizioni, tradotto in 23 lingue, «Il Mediterraneo e l’Europa» (Garzanti), e il recente, «profetico», «Pane Nostro» (Nuova biblioteca Garzanti), uscito due mesi fa, alla vigilia della «rivolta del pane» in Tunisia. Per la sua sensibilità culturale, e per il suo percorso di vita, Predrag Matvejevic è lo scrittore che più e meglio può cogliere il senso e le pulsioni delle rivolte che stanno scuotendo il Maghreb e il Vicino Oriente. Guardando all’Italia, Matvejevic riflette amaramente: «Al di là delle belle parole, l’Italia è priva di una politica mediterranea adeguata. È nel cuore del Mediterraneo ma non sembra avere a cuore il Mediterraneo». Nella sua ultima fatica letteraria, «Pane Nostro», Matvejevic trasforma il più umile dei prodotti in una grande metafora, un ponte tra civiltà diverse, cresciute su sponde opposte dello stesso mare, ma accomunate da un retroterra culturale identico. «Una comunanza dice a l’Unità che gli eventi di questi mesi, di questi giorni, tendono a rafforzare, solo che se ne colga l’essenza più profonda». Una «essenza» di libertà.
Professor Matvejevic, qual è a suo avviso la portata degli eventi che dalla Tunisia alla Libia, dall’Egitto al Bahrein, stanno sconvolgendo la sponda Sud del Mediterraneo? «L’evento è comparabile con il grande sisma che si produsse in Europa con la caduta del Muro di Berlino nel 1989; un sisma che provocò la disgregazione dell’Urss e dell’impero sovietico. Allora assistemmo ad un effetto domino che segnò tutta l’Europa dell’Est, ed oggi lo stesso avviene in questo spazio che va dalla Tunisia all’Asia minore. Detto delle analogie, c’è però un differenza da rilevare...».
Quale?
«Sulla sponda Sud del Mediterraneo e nei Paesi arabi non abbiamo visto un Gorbaciov, né un Lech Walesa o un Vaclav Havel, vale a dire grandi personalità portatrici di una proposta concreta, di lungo respiro. A muovere le rivolte c’è stata una doppia “fame”: quella materiale, ad esempio in Tunisia – e qui c’è la coincidenza con il mio ultimo libro “Pane nostro” uscito due mesi fa – e una “fame” di diritti, di futuro. Ma questa seconda “fame” non ha ancora trovato personalità capaci di rappresentarla, di trasformarla in una visione strategica, in progetto. Vecchie nomenclature sono state spazzate via ma sulle macerie dell’”ancien régime” arabo stenta ancora a fiorire una nuova classe dirigente...».
In questo scenario, l’Europa?
«L’Europa ma più in generale l’Occidente, deve affrontare questo “sisma” prendendo atto delle sue responsabilità, della sua colpevolezza. Sappiamo che la Francia ha sostenuto Ben Ali, l’Italia Gheddafi, gli Stati Uniti soprattutto Mubarak. Scelte di comodo, miopi, che in nome della “Stabilità” sacrificavano principi e diritti che pure si sostenevano universali...».
Ed oggi?
«Oggi siamo di fronte a cambiamenti epocali. Tutti temiamo che l’islamismo radicale possa esercitare un pe-
so più grande rispetto ad altri movimenti non così ancora ben definiti, sia sul piano organizzativo che su quello identitario. In alcuni di questi Paesi, come l’Egitto, i movimenti islamici possono contare su un consenso del 30% della popolazione; un consenso che potrebbe accrescersi tra popolazioni che non hanno vissuto una sufficiente laicità. Ma questa “deriva” islamista può essere evitata non demonizzandola ma dando credito, stabilendo rapporti, riconoscendo che in questo “sisma” si muovono, sono attivi gruppi, movimenti che hanno scommesso sulla possibilità di coniugare Islam e democrazia, tradizione e modernità, e che cercano con l’altra sponda del Mediterraneo, con l’Europa un dialogo alla pari. Sta a noi non tradirli. Una cosa è certa: l’effetto domino non si fermerà. Esso potrebbe estendersi in altri Paesi dell’Asia e dell’Africa sub sahariana. Alcuni temono, e altri sperano, che si riproduca in Cina e in Corea del Nord...Sulla scacchiera mondiale, in un mondo globale, vediamo aprirsi crepe sempre più profonde ed estese che stanno cambiando la storia davanti ai nostri occhi, in tempo reale».
Di nuovo emerge il tema del ruolo
dell’Europa...
«Purtroppo l’Europa non si occupa del Mediterraneo. Abbiamo visto il fallimento della Conferenza di Barcellona dopo il naufragio della proposta del presidente francese Nicolas Sarkozy di dar vita a una Unione del Mediterraneo, proposta accolta male da diversi Paesi europei che pesano e molto, a cominciare dalla Germania. Per quanto riguarda l’Italia, il discorso si fa triste. Al di là delle belle parole, l’Italia è priva di una politica mediterranea adeguata. È nel cuore del Mediterraneo ma non sembra avere a cuore il Mediterraneo. Tutto viene vissuto in termini di minaccia e inserito in una logica emergenziale: i respingimenti in mare, le impronte digitati da prendere ai bambini rom...Sulla paura non si costruisce nulla di buono».
Un tratto caratterizzante, al di là delle specificità nazionali, del “sisma” maghrebino ed egiziano, è il protagonismo dei giovani...
«Ed è ciò che fa ben sperare. Perché i giovani coniugano valori e aspettative al futuro e non al passato. Ed è un discorso che non riguarda solo quei Paesi in cui si sono sviluppate le rivolte. Ed è un discorso che riguarda anche l’Italia. Io ho insegnato per 14 anni all’Università La Sapienza di Roma, e ho avuto modo di veder crescere, maturare, formarsi tantissimi giovani capaci, preparati, che per trovare la loro strada hanno dovuto cercarla all’estero. Questo fenomeno è ancora più grande sulla sponda Sud del Mediterraneo, dove tanti giovani hanno acquisito una cultura tecnologica moderna, anche nell’uso dei nuovi mezzi di comunicazione: Internet, Twitter, Facebook... Chiedono di poter realizzare le loro aspettative e si scontrano con regimi anacronistici, con gerontocrazie che hanno come ambizione quella di fermare il tempo...Lo scontento dei giovani è naturale. La loro rabbia è salutare. Come l’insopprimibile bisogno di cambiamento che li anima».