giovedì 3 marzo 2011

www.adifesadellacostituzione.it.

l’Unità 3.3.11
Prove di alleanza costituzionale Nel corteo dal Pda Fli, da Bersani a Vendola e Di Pietro
L’invito a Benigni e a Saviano sul palco Vecchioni e Neri Marcorè con Piccolo e Guerritore
In piazza il popolo tricolore per scuola e Costituzione
Sarà il C-Day. Tutti in piazza con in mano la Costituzione e il tricolore. «Mettetelo anche ai balconi». La prima a parlare alla piazza sarà Sofia Sabatino, che rilancia il nostro appello in difesa della scuola pubblica.
di Mariagrazia Gerina


Stavolta il popolo che scende in piazza, a Roma e in tutta Italia, indosserà semplicemente il tricolore. «Verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni», come recita l’articolo 12 della Costituzione. Sarà lei, che già campeggiava nei cortei viola del No-B Day, la protagonista, solenne e popolare, del 12 marzo, proclamato «C-Day», giornata della Costituzione. Da leggere, da portare in piazza, da regalare, da declamare. Da difendere dalle «randellate» del presidente del Consiglio. Perché a sessantaquattro anni dalla sua promulgazione è ancora lei la difesa più forte di tutto ciò che, essenziale per la democrazia, finisce sotto attacco. A cominciare dalla scuola pubblica.
E per questo sarà una ventenne, Sofia Sabatino, della Rete degli studenti, a salire per prima sul palco di piazza del Popolo. In nome dei milioni di studenti, insegnanti, assistenti scolastici, offesi, in una sola battuta, dal premier. Quale migliore riparo anche per loro della Costituzione? «Difendere la scuola pubblica e difendere la Carta costituzionale è una sola battaglia», spiega Sofia, rilanciando a tutto il popolo del 12 marzo l’appello de l’Unità. Una battaglia che parla a tutti, universale, senza colori. Ci vorrebbero Benigni o Saviano a darle voce, suggerisce a nome dei promotori Beppe Giulietti di Articolo 21. Un invito, più che un semplice auspicio. Lo sforzo è fare di quel palco, il poet’s corner della «Repubblica democratica fondata sul lavoro». Largo al “cantante-professore” Roberto Vecchioni, reduce da Sanremo, invitato a intervenire. E all’attore Neri Marcorè, volto popolarissimo del cinema e del piccolo schermo, che alla Costituzione ha già prestato voce e talento, con uno spettacolo teatrale a lei dedicato. Ci saranno Ottavia Piccolo e Monica Guerritore. E poi, silenzio. per ascoltare le parole del padre costituente Piero Calamandrei. Gli organizzatori sperano che possa essere sua nipote a introdurle alla piazza.
Resteranno giù dal palco i politici che hanno aderito alla manifestazione. Tanti, tantissimi. Escluso Pdl e Lega, ci sarà tutto l’arco parlamentare e non nel corteo che, a partire dalle 14, si snoderà da piazza della Repubblica a piazza del Popolo. Dai democratici del Pd, guidati da Bersani, Bindi e Franceschini, ai finiani di Fli, con Fabio Granata e Filippo Rossi (l’adesione alla manifestazione gli è costata la chiusura di Farefuturo webmagazine). Fianco a fianco con Antonio Di Pietro, Nichi Vendola, il Prc Paolo Ferrero, il verde Bonelli. Prove di allenaza costituzionale. Non mancherà l’Api, assicura Tabacci. E anche i centristi di Casini ci stanno riflettendo. «La difesa della Costituzione è nel nostro dna, ma decideremo domani (oggi ndr)», fa sapere Lorenzo Cesa. «Tutti sono benvenuti», dice Giulietti a nome di un comitato promotore che va da Articolo 21 al Popolo Viola, daa Se non ora quando alla Cgil, dall’Usigrai all’Anpi alle Chiese Evangeliche. E non c’è solo Roma. A Brescia, al popolo tricolore è stata negata piazza della Loggia, denuncia Sandra Bonsanti di Giustizia e Libertà: «Ce ne prenderemo un’altra».

il Fatto 3.3.11
La grande alleanza si fa in piazza
Articolo 21 lancia la manifestazione del 12 marzo
di Wanda Marra


Da Fabio Granata di Futuro e Libertà a Nichi Vendola di Sel: il 12 marzo in piazza “A difesa della Costituzione” le opposizioni ci saranno. E con loro nel corteo promosso da Articolo 21 dietro gli stessi colori, “uniti nella differenza” tanti altri: insegnanti e studenti, società civile dai diversi orientamenti, mondo sindacale e associativo. “Si tratta di un’iniziativa organizzata da un grande Comitato che mette insieme sentimenti diffusi che vanno oltre gli schieramenti, donne e uomini che non vogliono che la Costituzione sia messa da parte a colpi di randellate”, ha spiegato il portavoce di Articolo 21, Beppe Giulietti. In piazza scenderanno con un Tricolore e una copia della Costituzione. Simboli essenziali che rappresentano le basi stesse della Repubblica italiana, con i quali in molti dunque si sentono di sfilare. A presentare il corteo, che partirà alle 14 da piazza della Repubblica, a Roma, e arriverà a piazza del Popolo, ieri c’erano rappresentanti delle varie anime che danno vita alla mobilitazione. A partire dagli studenti in movimento in questi giorni a difesa della scuola pubblica, dopo gli attacchi all’arma bianca di Silvio Berlusconi: “La scuola è un tema centrale della Costituzione, un tema oggi negato”, ha spiegato Sofia Sabatino, portavoce della Rete degli studenti. A manifestare non sarà solo Roma, ma anche tante altre città, in Italia e in Europa: Londra, dove l’appuntamento è a Downing Street, Edimburgo, Praga. “Dobbiamo avere a cuore tutte le piazze ha sollecitato Sandra Bonsanti, di Libertà e Giustizia A Brescia, ad esempio, il comune ci sta negando piazza della Loggia”.
 Tante le adesioni al “C day” dal mondo dei movimenti e delle associazioni: il Popolo Viola (ieri presente anche in conferenza stampa), la Fnsi, la Chiesa evangelica. E poi, la Cgil, l’Arci, l’Anpi, le donne di “Se non ora quando”.
SARANNO presenti in molti dal mondo della politica: “La nostra adesione ha spiegato Massimo Donadi, capogruppo dell’Idv a Montecitorio nasce dalla consapevolezza che stiamo raggiungendo il massimo del cinismo”. Con la richiesta di sollevare conflitto di attribuzione e le “aggressioni alla Corte Costituzionale” la sensazione “è di essere alla vigilia di una campagna elettorale che il centrodestra intende giocare su uno scontro istituzionale finale”. Mentre Antonio Di Pietro sul suo blog, annunciando l’adesione del suo partito al corteo, ha sottolineato che subito dopo partirà la campagna referendaria. Di fatto di natura “politica straordinaria” ha parlato Fabio Granata. E dunque, la mobilitazione del 12 sarà “la risposta a ciò che abbiamo dovuto subire in questi mesi, dall'attacco ai magistrati alla scuola pubblica”. Per Futuro e Libertà è arrivata l’adesione di Angela Napoli e anche di Filippo Rossi, che si è visto chiudere proprio l’altroieri il suo web magazine, FareFuturo, come probabile effetto della faida interna ai futuristi. La goccia che fatto traboccare il vaso sarebbe stata proprio l’adesione al “C day”. “L'essermi impegnato culturalmente a destra mi ha insegnato il valore del patriottismo. Mi ha insegnato che il senso dello stato deve essere messo al primo posto, prima degli interessi personali e particolari”. Difficile pensare che in piazza ci possa essere Gianfranco Fini, che però è informato della presenza e dell’impegno dei suoi. Sulla necessità di rispettare “la filosofia di fondo” della nostra Carta ha insistito Bruno Tabacci dell’Api: “È la deriva presidenzialista” il vero “vulnus” alla Costituzione perché “non avremo una democrazia alla Obama. Il rischio è una finta democrazia alla Putin”. Tra le adesioni di politici, quelle di Pier Luigi Bersani, Rosy Bindi, Dario Franceschini e Anna Finocchiaro del Pd, di Paolo Ferrero (Federazione della Sinistra), Angelo Bonelli (Verdi), Claudio Fava (Sel). Insomma, da tutto l’arco delle composite opposizioni. Nessuna adesione ufficiale ancora dall’Udc, anche dai centristi dicono che alcuni di loro ci saranno. Gli organizzatori precisano che si tratta di un’alleanza per la manifestazione e non per le elezioni, o per il governo. Ma di sicuro è la prima “materializzazione” della “Grande alleanza”.
INTANTO si lavora al palco (anche se l’intento degli organizzatori è spostare l’attenzione sulle persone normali): a salirci saranno Roberto Vecchioni, Ottavia Piccolo a Monica Guerritore, Neri Marcoré. Roberto Benigni e Roberto Savia-no sarebbero i benvenuti, come dichiara Giulietti. Una nota, per finire: si tratta di una mobilitazione autofinanziata tant’è che la settimana prossima partirà sulla rete e su numerosi network radiofonici una campagna per trovare fondi.

il Riformista 3.3.11
Bersani soffre
D’Alema e Veltroni scettici sui referendum Ma ora è il biotestamento la vera frattura
DEMOCRATICA. Nuove grane per il segretario. Cresce il fronte astensionista sui referendum di Di Pietro. Riesplode il caso biotestamento. E sui dieci milioni di firme anti-Cavaliere.
di Tommaso Labate

http://www.scribd.com/doc/49915081

l’Unità 3.3.11
Immigrazione: il ritorno della politica
Dalla propaganda alla realtà
di Marco Pacciotti


Si è svolta, sabato a Roma, la terza riunione del Forum Immigrazione nazionale del Pd nato lo scorso maggio. Confesso che mi aspettavo una discussione incentrata sulla “emergenza immigrazione” come conseguenza di un imminente “esodo biblico” generato da quanto sta avvenendo nel Sud del Mediterraneo. Timori infondati. Gli interventi hanno riportato la giusta ammirazione per chi sta conquistando la propria libertà e la comprensibile preoccupazione per il dopo. Con forza si è sottolineato come l’Europa abbia la chance e il dovere di esercitare un ruolo centrale nella transizione ora e nella ricostruzione poi. Quella stessa Europa che fino a ieri ha preferito la stabilità alla libertà, dando il sostegno a quei regimi corrotti e violenti a scapito dei movimenti di opposizione. Il tutto condito dalla supponente certezza che in quei paesi mai sarebbero nate democrazie di tipo occidentale, sottovalutando per anni i segnali di insofferenza che pure arrivavano.
In tanti hanno sottolineato come le parole che profetizzavano biblici eventi siano smentite dai fatti: c’è semmai da chiedersi come mai i poco più di 5.000 tunisini e circa 50 egiziani finora arrivati abbiano mandato in tilt l’intero sistema di accoglienza. Colpevolmente impreparato nonostante fosse chiaro quello che stesse avvenendo a 70 chilometri da Lampedusa. Impreparazione a cui si è sommata inadeguatezza sulla scena internazionale. Anziché predisporre in sede europea le necessarie contromisure per gestire eventuali altri flussi più rilevanti, si è assistito a un maldestro scaricabarile e a un allarmistico crescendo di numeri. Stime poi ridimensionate a forse 50.000 possibili transfughi, ovvero meno dei 60.000 lavoratori stagionali ammessi col recente decreto flussi e molti meno delle centinaia di migliaia di profughi kosovari di qualche anno fa. Gestire anziché allarmare quindi, prevedere invece di stupirsi. Questo dovrebbe essere il modus operandi con cui affrontare una possibile emergenza. Si è ribadita la necessità di presentare le cose nella corretta prospettiva per evitare una percezione distorta dei fatti. Una realtà già seria, senza bisogno di inutili enfatizzazioni mediatiche ad uso propagandistico. In primis, evitando di parlare di emergenza immigrazione, poiché non esiste. Esiste invece una vasta comunità di nuovi italiani, donne, uomini e minorenni che nel nostro Paese vive ormai da tempo. Lavorando, andando a scuola, svolgendo vite regolari e tranquille. Nuovi cittadini che chiedono legalità e certezze. È questa l’Italia della convivenza, l’idea di Paese che a 150 anni dalla sua nascita vorremmo raccontare nella Conferenza nazionale sull’immigrazione che si terrà il 25 e 26 marzo a Roma.

l’Unità 3.3.11
Flessibilità in uscita Confindustria tentata dallo strappo del governo LaleaderCgil Non è questa la priorità, i problemi sono altri
Camusso ferma la Marcegaglia: non sognatevi di toccare l’art.18
Marcegaglia vuole affrontare il tema della flessibilità in uscita, Camusso frena: «Il pensiero corre subito all’art.18». La leader degli industriali sposa la linea Marchionne: possibile la deroga al contratto nazionale.
di La. Ma.


Emma Marcegaglia la butta là: il problema della flessibilità in uscita dal lavoro, dice convinta, «va affrontato». Sacconi plaude immediatamente, Susanna Camusso frena: «Il pensiero risponde corre subito all’articolo 18 e al tentativo, che ha in mente Sacconi, di destrutturazione dello Statuto dei lavoratori. Questo non ha nulla a che vedere con la realtà di oggi del Paese, con i problemi che dobbiamo proporci». Come dire, non è tempo di discutere di un tema che creerebbe peraltro solo ulteriori divisioni nel Paese. Ma la leader degli industriali non demorde, la polemica a distanza prosegue: «Credo che il problema del mercato del lavoro completamente duale e spaccato sostiene Marcegaglia vada risolto. C’è il problema di una flessibilità in
ingresso, forse eccessiva con strumenti che vanno tarati, ma c’è anche il problema di una flessibilità in uscita, che prima o poi va affrontato, non possiamo continuare a eluderlo». Il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi scatta subito: «Ha ragione Marcegaglia dice quando sottolinea l’esigenza di completare la regolazione del mercato del lavoro e dei rapporti di lavoro. Così come fa bene, dal punto di vista del metodo, a voler cercare su ciò un’intesa con le altre parti sociali».
La presidente di Confindustria è ad un convegno dedicato a contrattazione e cassa integrazione in Germania e Italia. Un parallelismo che non regge: la Germania, ricorda Marcegaglia, cresce a un ritmo del 3,6%, mentre l’Italia viaggia sull’1,3%, perché la crisi è stata affrontata in maniera diversa oltre che per differenze strutturali del sistema. L’Italia è ricorsa ad un uso massiccio della cig, «usata anche per coprire la disoccupazione», mentre in Germania «la cassa integrazione è usata per ridurre le ore di lavoro». E su questo, invita Marcegaglia, «si deve riflettere». Quanto alla cassa integrazione in deroga, «è stata utile perché con la crisi non è stato possibile riformare gli ammortizzatori sociali» ma «va vista come uno strumento eccezionale per gestire la crisi, altrimenti c’è il rischio che la ripresa arrivi e si continui a usarla».
MARCHIONNE DOCET
Altra questione, la deroga al contratto nazionale, possibile nell’idea di «sposare con la contrattazione aziendale un maggiore livello di produttività e pagare più salario», riprende Marcegaglia. Come Confindustria «stiamo ragionando sul tema dell’opting out», l’uscita temporanea di un’impresa dall’associazione alla quale è iscritta per contratti collettivi aziendali in deroga dei contratti nazionali. In altri termini, la strada seguita da Marchionne per Pomigliano e Mirafiori.
«Solo il 3% delle aziende usa l’opting out spiega la presidente di Confindustria una possibilità che in Germania c’è dal 2005. In un momento come questo di grande difficoltà dobbiamo avere la capacità di concordare, attraverso le relazioni sindacali, una serie di strumenti che consentano di aumentare i livelli di produttività e di avere salari più alti. Dobbiamo scegliere con i sindacati se questo percorso lo vogliamo gestire o subire. Come Confindustria chiude la presidente io lo vorrei gestire».

Repubblica 3.3.11
Parla Cofferati, dieci anni fa leader Cgil e paladino dell´articolo 18
"Macché tabù della sinistra Quella norma difende la dignità delle persone"
Siamo alla riproposizione ideologica di un falso obiettivo. È una classica fuga dalla realtà
di Roberto Mania


ROMA - Sono passati quasi dieci anni dalla battaglia del 2002 sull´articolo 18. Sergio Cofferati era all´epoca il segretario generale della Cgil e il "capo" del movimento a difesa dello Statuto. Oggi, dopo essere stato sindaco di Bologna, Cofferati è parlamentare europeo per il Pd.
L´articolo 18 continua ad essere un tabù per la sinistra?
«Non è mai stato un tabù. È sempre stata una norma a difesa delle dignità delle persone. È un diritto».
Eppure riguarda una minoranza dei lavoratori visto che lo Statuto si applica solo nelle aziende con più di quindici dipendenti.
«Allora perché i dipendenti delle piccole imprese, i lavoratori precari, i giovani parteciparono con tanta determinazione alla difesa di quella norma che non li riguardavano direttamente? Perché era evidente la posta in gioco: e cioè l´idea stessa del diritto del lavoro. E, insisto, il rispetto e la dignità di chi lavora. È bene ricordarsi poi che si parla del divieto di licenziamento senza giusta causa. Perché è questo che non è accettabile nella coscienza delle persone. Ora siamo alla riproposizione ideologica di un falso obiettivo. È una classica fuga dalla realtà. Poiché la realtà è drammatica, non viene affrontata e si parla d´altro. Con una crescita economica intorno all´1 per cento non si crea occupazione aggiuntiva. Vuol dire che chi è fuori dal lavoro non rientrerà e per i giovani non c´è nemmeno la prospettiva del lavoro temporaneo. D´altra parte, sono i dati dell´Istat che lo dicono».
Come pensa, allora, che si possa superare il dualismo del nostro mercato del lavoro, diviso tra chi ha tutte le tutele e chi ne ha pochissime?
«Questo è il momento delle riforme. Servono nuovi strumenti. Noi continuiamo ad applicare la cassa integrazione e i prepensionamenti che sono nati all´inizio degli anni Settanta. Il mondo è cambiato».
Qual è la sua proposta?
«Vanno riformati gli ammortizzatori sociali e introdotti nuovi strumenti. Per esempio è una proposta interessante quella di Tito Boeri sul reddito minimo garantito contro la povertà. Noi siamo tra i pochissimi Paesi europei a non avere uno strumento di questo tipo. Abbiamo ancora la cassa integrazione ordinaria e quella straordinaria, mentre ci sarebbe bisogno di elementi unificanti».
Resta il fatto che quasi nessun Paese ha una norma come quella dell´articolo 18.
«Se è per questo in nessuna nazione europea è stato sollevato il problema dei licenziamenti. Comunque ciascun Paese ha la sua legislazione e la sua storia».
Che cosa pensa dello Statuto dei Lavori proposto dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi?
«Penso che lo Statuto dei Lavoratori del 1970 sia una legge modernissima per concezione e anche per le soluzione adottate. C´è un sistema di diritti che viene riconosciuto. C´è, invece, da scandalizzarsi davanti all´idea che siccome non tutti godono delle tutele dello Statuto, allora queste si riducono a tutti. Nel 2003 la Cgil raccolse 6 milioni di firme per una legge di iniziativa popolare che estendesse la rete dei diritti, modulandola in base alle tipologie del lavoro. Dove è andata a finire?».

Repubblica 3.3.11
Se l´istruzione per tutti diventa un bersaglio
Piero Calamandrei l´aveva definita felicemente "un organo costituzionale". Essenziale per la cittadinanza
Nella società di oggi costituisce uno spazio insostituibile e irrinunciabile di confronto pubblico tra identità e culture diverse
L´attacco del premier provoca le proteste di insegnanti e studenti e riporta al centro della discussione una istituzione in difficoltà per mancanza di finanziamenti
di Stefano Rodotà


In pubblico, con toni veementi (esagitati?), il Presidente del Consiglio è andato all´attacco della scuola pubblica come luogo di cattivi maestri, dalla quale a buon diritto genitori liberi e pensosi vogliono tenere lontani i figli. Non è una novità. Per raccattare voti, Berlusconi non va mai troppo per il sottile. Ma una scuola allo stremo avrebbe meritato ben altra attenzione da parte del Presidente del Consiglio e della sua sempre fedele ministra dell´Istruzione (così ne avrebbe scritto Damon Runyon). Se una parola doveva venire, questa doveva essere di riconoscenza e rispetto per chi, in condizioni personali e ambientali sempre più difficili, svolge l´essenziale funzione della trasmissione del sapere e della formazione dei giovani. E anche di rispetto per gli studenti, ridotti nelle sue parole ad oggetti docilmente manipolabili, e che invece hanno mostrato di essere tutt´altro che inclini all´indottrinamento, di possedere sapere critico. Ma è proprio il sapere critico che inquieta, che turba il disegno di una scuola tutta e solo votata alla "formazione al settore produttivo"(queste le larghe vedute del Governo).
La scuola pubblica è un´altra cosa. Le sue ragioni sono oggi persino più forti di quelle che indussero i costituenti ad attribuirle valore fondativo, a costruirla come una istituzione affidata alle cure e agli obblighi della Repubblica, come ben risulta dalla severa lezione di diritto costituzionale impartita da Salvatore Settis all´inconsapevole ministra (Repubblica, 1° marzo). Le nostre società sono divenute più complesse, plurali nella loro composizione, attraversate da conflitti. Hanno per ciò bisogno di spazi pubblici dove le persone diverse possano incontrarsi, dialogare. Di fronte all´altro, infatti, non è più sufficiente la tolleranza. Oggi servono soprattutto riconoscimento, accettazione, inclusione. E per questo non bastano le buone parole, peraltro rare, i propositi virtuosi. Sono indispensabili istituzioni capaci di produrre le condizioni personali e sociali del riconoscimento.
Di queste istituzioni, di questi spazi aperti, la scuola pubblica è la prima e la più importante. Il mettere sullo stesso piano scuola pubblica e scuole paritarie annuncia il passaggio ad un sistema che produce scuole di "appartenenza" – cattoliche o musulmane, leghiste o meridionalizzate, per élites o per diseredati – e avvia un tempo in cui non è la libertà di ciascuno ad essere esaltata, ma nel quale il riconoscimento reciproco è sostituito dall´esasperazione della propria identità, il confronto dalla distanza dall´altro. Chiuso ciascuno nel proprio ghetto, tutti preparati a contrapporsi ferocemente l´un l´altro. Si rischia così una società nella quale nessuno è educato alla conoscenza degli altri, ma solo dei propri simili. Dove, dunque, il dialogo tra diversi diviene impossibile o superfluo, dove non solo la soglia della tolleranza si abbassa drammaticamente, ma si perde pure la possibilità di essere educati alla ricerca di dati comuni, che sono poi quelli che consentono di superare gli egoismi e di individuare interessi generali. Solo una scuola pubblica può trasformare la molteplicità in ricchezza.
Con espressione felice, Piero Calamandrei aveva parlato della scuola pubblica come "organo costituzionale". Proprio queste parole ci aiutano a cogliere un altro aspetto sconcertante dell´intervento del Presidente del Consiglio. Un organo costituzionale delegittima un altro organo costituzionale. Pure questa non è una novità. Non v´è più nulla nelle istituzioni che Berlusconi pensi che meriti d´essere rispettato, fuori di se stesso. Nel momento in cui la scuola viene indicata al disprezzo dei cittadini come luogo dove si "inculca" qualcosa, ecco costruita la premessa per giustificare il suo abbandono materiale, il taglio delle risorse, la mortificazione di chi lavora lì dentro – docenti e studenti. E, al tempo stesso, si dà nuovo fondamento al "dirottamento" dei fondi pubblici verso le scuole private.
Uso questa parola non per riaprire qui, come pure sarebbe doveroso, la questione della legittimità del finanziamento pubblico alla scuola privata, ma per porre un altro problema. Essendo indiscutibile l´obbligo dello Stato di istituire "scuole statali per tutti gli ordini e gradi" (art. 33 della Costituzione), nel momento in cui le risorse disponibili si riducono, quella chiarissima prescrizione costituzionale deve essere almeno intesa come criterio per la distribuzione delle risorse disponibili, sì che ai privati si dovrebbe arrivare solo dopo aver soddisfatto le esigenze del pubblico.
Si perde, altrimenti, proprio la qualità di organo costituzionale della scuola pubblica, il suo essere luogo di produzione della conoscenza, dunque di una delle precondizioni della stessa democrazia. Ma l´innegabile natura costituzionale della scuola pubblica, improponibile per una scuola privata che può esserci o non esserci, è specificata dal fatto che di essa la Costituzione parla subito dopo aver detto che «l´arte e la scienza sono libere e libero ne è l´insegnamento». Alla scuola pubblica si deve guardare come al luogo del sapere libero e disinteressato, che è la forma del sapere che costruisce il cittadino. Se l´attenzione, invece, è sempre più rivolta al "settore produttivo", si ha di vista una formazione tutta strumentale, fatalmente riduttiva, persino inadeguata a quelle esigenze di flessibilità culturale che oggi accompagnano qualsiasi lavoro.

Repubblica 3.3.11
Fu il centrosinistra degli inizi a portare l´età dell´obbligo a quattordici anni, aprendo così a tutti gli strati sociali la possibilità di accedere agli studi superiori, dai licei fino all´università
"L´ascensore sociale" della Prima repubblica
Così è cresciuto il nostro paese
di Miriam Mafai


Alla fine, a ripensarci adesso, non fu poi così male la nostra scuola ai tempi della cosidetta Prima Repubblica, quando al ministero di Viale Trastevere, comandarono quasi senza interruzione dal 1946 al 1997 uomini della Dc, da Gonella a Gui a Misasi fino a Rosa Russo Iervolino. Qualche battaglia, e non delle meno importanti, è stata vinta. Non fu poi così male la nostra scuola negli anni della Prima Repubblica se, grazie all´impegno dei nostri maestri e delle nostre maestre, si riuscì ad abbattere il tasso di analfabetismo che nel 1951 in Italia era ancora del 14% (con punte del 25% in Puglia e Sicilia e del 32% in Calabria) e si riuscì moltiplicare il numero degli studenti della scuola media che nel 1951 non arrivavano, in tutta Italia, a un milione e venti anni dopo sfioravano i tre milioni.
Non sarà stato merito dei vari ministri democristiani, ma grazie all´impegno dei suoi insegnanti, la nostra scuola pur nelle dure condizioni di quei tempi ha accompagnato e promosso, forse senza programmarla, la crescita del nostro paese. Eravamo allora un paese in movimento, nel quale erano possibili sogni e speranze. Penso alle centinaia di migliaia di contadini meridionali semianalfabeti che, emigrati a Milano o Torino, indicati spregiativamente come "marocchini", sognavano per i propri figli un futuro da operai. Ed erano migliaia gli operai di Torino o Milano che sognavano per i propri figli un futuro da tecnico o da ingegnere. Solo sogni? No, non furono solo sogni: quello che chiamiamo "ascensore sociale" bene o male per un certo periodo ha funzionato, anche grazie all´impegno ed alla fatica dei nostri insegnanti.
Una spinta decisiva in questo senso venne dalla prima vera riforma della scuola che, ereditata dal precedente regime, prevedeva dopo i cinque anni di elementare due percorsi alternativi: da una parte una scuola media con il latino per i ragazzi (e le ragazze) che si ripromettevano di proseguire gli studi fino all´Università. Gli altri potevano, volendo, frequentare un avviamento professionale o, ancora meglio, dare una mano a bottega o nei campi. Va ascritto a merito del primo centrosinistra, presieduto da Amintore Fanfani, avere cancellato per sempre quello che era stato definito un "marchio dei poveri al bivio dei dieci anni" istituendo una scuola media unica obbligatoria per tutti fino ai 14 anni. E senza il latino. Aspramente discussa e contestata la riforma avrebbe aperto a ceti che ne erano stati fino a quel momento esclusi le porte dell´istruzione superiore, fino, eventualmente, all´Università. Al ministero di Viale Trastevere c´era sempre un democristiano, naturalmente. Era Luigi Gui, un veneto personalmente assai poco proclive alle riforme, ma il clima politico era cambiato e la riforma, fortemente voluta e quasi imposta dai socialisti e dal loro uomo di punta, Tristano Codignola, alla fine nel dicembre del 1962 sarà approvata. Qualcuno definì quella riforma un miracolo.
Poi, nel corso degli anni fu la volta di altri provvedimenti, più o meno ambiziosi e condivisi, destinati a suscitare dibattiti e proteste. Nel corso dei quali mi vien fatto di pensare che bisognerebbe ascoltare di più le voci di coloro che nella scuola lavorano, gli eredi di quei maestri e quelle maestre che ai tempi della Prima Repubblica sconfissero l´analfabetismo e avviarono quell´ascensore sociale di cui oggi sentiamo la mancanza.

Repubblica 3.3.11
Ci sono i diplomifici a pagamento dove basta pagare la retta per non essere mai bocciati. E poi gli istituti di élite dove dovrebbe formarsi la classe dirigente e dove più che la conoscenza contano le conoscenze
L´esperienza di un professore
Per chi suona la campanella
di Marco Lodoli


La scuola pubblica vacilla sotto le bastonate del governo, sotto le radiazioni mortali delle televisioni e dei nuovi valori dominanti, disprezzata e vilipesa dal primo che passa e dal primo ministro. I professori sono piuttosto vecchi e giovani non ne arrivano, graverebbero troppo sul deficit; anche gli edifici spesso sono malridotti, sistemarli sarebbe un altro costo impossibile; i programmi spesso sono astrusi, frutto di tanti anni di astrattismi furibondi; i ragazzi sono confusi, a volte addirittura maleducati, imparano poco, pensano ad altro o a niente.
Eppure se vogliamo che l´Italia abbia un futuro, dobbiamo tenerci stretta questa scuola così malridotta e cominciare ad amarla di nuovo e di più, dobbiamo investire denaro e energie nell´unico laboratorio culturale che il paese possiede. Certo, ci sono le scuole private, e sono tante: ma vogliamo vederle un po´ più da vicino, vogliamo entrarci? Appena laureato ho lavorato alcuni anni in diplomifici preoccupati di una sola cosa: la retta mensile. Non c´era problema didattico o disciplinare che non potesse venir spianato da un assegno. Ricordo anche il volto attonito del gestore della mia prima scuola quando si rese conto che avevo rimandato in storia il rampollo di una nobile famiglia: «Ma quelli pagano, pagano! Lo capisci o no? Quelli ci mantengono a tutti quanti, anche a te che vuoi fare l´eroe! I soldi nella tua busta paga ce li mettono loro, è chiaro?». E gli studenti questo lo sanno benissimo, questi principi vengono loro inculcati – per usare un verbo alla moda – concordemente dai genitori e dalla scuola. Sanno di andare avanti spinti dal soffio di una mazzetta frusciante di banconote: do ut des, pagare moneta vedere cammello, tanto dal ministero non arriva nessuno a controllare.
L´educazione si snoda attorno a un solo comandamento: i ricchi se la cavano sempre, anche quelli decerebrati. Poi ci sono le scuole private d´elite, e anche queste stanno aumentando perché fanno promesse importanti. Qui non si tratta più di salvare i mentecatti, qui si tratta di preparare il club dei migliori. "Non conta la conoscenza, contano le conoscenze" questo è lo slogan implicito delle nuove scuole private, quelle con gli stemmi, i nomi inglesi, le divise stirate e inamidate. Qui ci si iscrive in una loggia che durerà nel tempo: ci si scambiano indirizzi, visite, week-end, sorelle e fratelli, qui si cementa la nuova classe dirigente. A volte c´è una spolveratina di cattolicesimo, zucchero a velo, ma di sicuro in nessun luogo al mondo le parole di Gesù valgono meno che qui: amore, fratellanza, carità sono solo carta da parati. Qui i cammelli passano in fila e al trotto nella cruna dell´ago. Le rette si aggirano attorno ai mille euro al mese proprio per fare selezione, per tenere fuori i miserabili. Quali valori sociali vengono inculcati nelle tenere menti dei vari Jacopo e Coralla? Non perdete tempo nella commiserazione, fate finta che tutto vada bene e andate avanti, il mondo vi aspetta!
Per tenere insieme la società c´è solo la scuola pubblica. È commovente vedere come i ragazzi italiani e i ragazzi che in Italia sono arrivati da lontano riescono a stare bene insieme, a capirsi, a spiegarsi, quanta solidarietà c´è tra tutti quanti, quanti discorsi crescono insieme e si intrecciano al futuro. Bisogna solo rendere la nostra scuola più bella, perché sia il fondamento di una società giusta: bisogna credere in questi ragazzi, proteggerli, farli crescere bene, anche se non hanno mille euro al mese da spendere.

La Stampa 3.3.11
Il pericolo è un altro Kosovo
di Marta Dassù


Uno stallo del genere, con tutti i pericoli che si porta dietro, era prevedibile. Il comportamento di Gheddafi non è poi molto diverso da quello di Milosevic, altro dittatore amico dell’Italia e che alla fine (1999) abbiamo bombardato, assieme agli impianti di Telecom a Belgrado. Il punto è che la gestione internazionale della crisi libica rischia di entrare in una spirale molto simile: dalle sanzioni economiche ai corridoi umanitari, fino ai bombardamenti militari. Siamo preparati a un esito del genere? La sensazione, guardando agli interventi occidentali degli ultimi due decenni, è che questo tipo di guerre moderne nascano appunto così: come guerre non dichiarate e forse neanche volute, ma che diventano inevitabili come ultimo anello di una catena di azionireazioni. Quale Paese in prima linea, molto più esposto di altri, l’Italia ha interesse a evitare che la risposta internazionale alla crisi libica ricalchi le stesse dinamiche. Perché l’esito sarebbe già scritto: finiremo per bombardare Tripoli.
Se americani ed europei decidessero di colpire sedi e strumenti del potere di Gheddafi, come si comincia a chiedere da Bengasi, le implicazioni sarebbero almeno tre.
Primo: diventeremmo alleati di una parte in conflitto, così come lo diventammo a suo tempo dei guerriglieri kosovari-albanesi. E’ una scelta politica che siamo intenzionati a compiere? Non è facile rispondere, anche perché non è chiaro, in realtà, come sia composta la galassia assai frammentata dell’opposizione cirenaica. Secondo: l’appoggio cinese e russo alla prima risoluzione dell’Onu è stato essenziale; ma è escluso che Pechino (e forse Mosca) possano votare a favore di un’azione militare, che sarebbe quindi essenzialmente americana ed europea. Dopo aver bombardato, gli occidentali sarebbero comunque oggetto del risentimento della popolazione locale: la gratitudine dei popoli liberati è merce rara. Terzo: l’uso della forza nei conflitti interni agli Stati non si esaurisce con il primo intervento. Crea anzi le premesse di una lunga presenza, militare e politica, trasformando nei fatti la «responsabilità di proteggere» - ossia un intervento motivato da ragioni umanitarie - in un semi-protettorato. A dodici anni dall’intervento in Kosovo siamo sempre lì, con i nostri soldati e i nostri soldi. E’ un onere che l’Italia e l’Europa sono pronte ad assumersi, in Libia?
Vista l’importanza di queste conseguenze, tentare prima strade diverse è ragionevole - ammesso che la violenza contro il popolo libico non torni a crescere rapidamente. Una parte della diaspora libica, ad esempio, sostiene che nella cerchia ristretta del Colonnello esistano ancora interlocutori possibili, pronti a fare uscire di scena Gheddafi e ad avviare trattative con il governo provvisorio. Un golpe interno, con appoggi internazionali, sarebbe in ogni caso preferibile - almeno come modo per liberarsi del raiss di Tripoli - a un intervento esterno. Nel frattempo, l’Italia dovrà comunque rafforzare gli sforzi umanitari, cercando di garantirsi un appoggio più concreto dell’Europa. Dovrà anche vagliare, con Stati Uniti e Lega Araba (che ha aperto all’Unione africana), l’opzione di una «no fly zone»: non come primo passo verso bombardamenti militari su più larga scala, ma per evitarli, impedendo una repressione tale da costringere a un vero e proprio intervento militare.
In conclusione: i costi e le implicazioni delle decisioni che stiamo prendendo devono essere chiari. Troppo spesso, di fronte alle crisi passate, l’Italia è stata trascinata - a volte nella giusta direzione, a volte meno - dalla spirale degli eventi. In questo caso l’Italia, viste le sue responsabilità particolari di fronte alla Libia, potrà tentare di influire sulle scelte collettive. Ricordando il punto sostanziale: a lungo termine, l’unica vera condizione per la stabilità della Libia è che sia retta dalla propria gente, invece che dai dittatori locali o dalle vecchie potenze coloniali.

La Stampa 3.3.11
Il noi delle donne da Facebook a piazza Tahrir
di Naomi Wolf Oxford


Tra i più diffusi stereotipi occidentali sui Paesi islamici ci sono quelli riguardanti le donne musulmane: occhi da cerbiatto, velate e sottomesse, esoticamente silenziose, eteree abitanti di immaginari harem, rinchiuse in rigidi ruoli di genere. Allora dov’erano queste donne in Tunisia e in Egitto?
In entrambi i Paesi, le manifestanti non avevano nulla in comune con lo stereotipo occidentale: erano in prima linea e al centro, nei notiziari e sui forum di Facebook, e anche al comando. In Egitto, in piazza Tahrir, le donne volontarie, alcune accompagnate da bambini, hanno lavorato costantemente per sostenere le proteste – dando un mano alla sicurezza, alle comunicazioni e all’assistenza. Molti commentatori hanno accreditato al gran numero di donne e bambini la complessiva notevole tranquillità dei manifestanti di fronte alle gravi provocazioni.
Altri cittadini diventati reporter in Tahrir Square - e praticamente chiunque con un telefono cellulare poteva esserlo - hanno rilevato che le masse di donne coinvolte nelle proteste erano demograficamente rappresentative. Molte indossavano il velo e altri segni di conservatorismo religioso, mentre altre ostentavano la libertà di baciare un amico o fumare una sigaretta in pubblico.
Ma le donne non servivano solo come lavoratrici di supporto, il ruolo abituale a cui sono relegate nei movimenti di protesta, da quelli del 1960 fino alla recente rivolta studentesca nel Regno Unito. Le donne egiziane hanno anche organizzato, elaborato strategie e riportato gli eventi. Blogger come Leil Zahra Mortada hanno affrontato gravi rischi per tenere quotidianamente il mondo informato sulla scena in piazza Tahrir e altrove.
Il ruolo delle donne nel grande sconvolgimento del Medio Oriente è stato tristemente sottovalutato. Le donne in Egitto non si sono limitate a «unirsi» alla protesta - sono state una forza trainante per l'evoluzione culturale che ha reso la protesta inevitabile. E ciò che è vero per l'Egitto è vero, in misura maggiore e minore, in tutto il mondo arabo. Quando le donne cambiano tutto cambia e le donne nel mondo musulmano stanno cambiando radicalmente.
Il più grande cambiamento è sotto il profilo educativo. Due generazioni fa, solo una piccola minoranza delle figlie delle élite ricevevano una formazione universitaria. Oggi, le donne rappresentano più della metà degli studenti nelle università egiziane. Sono istruite a usare il potere in un modo che alle loro nonne sarebbe stato difficile immaginare: pubblicando giornali (come Sanaa El Seif ha fatto, a dispetto dell’ordine del governo di cessare le sue attività), facendo campagna per i posti di leadership degli studenti; raccogliendo fondi per le organizzazioni studentesche e organizzando riunioni.
Oggi una consistente minoranza di giovani donne in Egitto e altri Paesi arabi hanno trascorso i loro anni formativi esercitando il pensiero critico in ambienti misti, con uomini e donne, e anche sfidando pubblicamente in classe professori maschi. È molto più facile tiranneggiare la popolazione quando la metà di essa è scarsamente istruita e addestrata a essere sottomessa. Ma, come gli occidentali dovrebbero sapere dalla propria esperienza storica, una volta che le donne sono istruite, diventa probabile che l’agitazione democratica accompagni il conseguente massiccio mutamento culturale.
Anche la natura dei media sociali ha contribuito a trasformare le donne in leader della protesta. Avendo insegnato le capacità di leadership alle donne per più di un decennio, so quanto sia difficile far loro affrontare e rivolgersi a una struttura organizzata gerarchicamente. Allo stesso modo, le donne tendono ad evitare l’iconografia che la protesta tradizionale in passato ha imposto ad alcuni attivisti - quasi sempre un giovane dalla testa calda con un megafono in mano.
In tali contesti - con un palcoscenico, un riflettore, e la necessità di parlare in pubblico - le donne spesso rifuggono dai ruoli di leadership. Ma i social media, attraverso la natura stessa della tecnologia, hanno cambiato l’aspetto e il senso della leadership. Facebook imita il modo in cui molte donne scelgono di vivere la realtà sociale, con connessioni tra le persone importanti tanto quanto la posizione di dominio o di controllo individuale, se non di più.
Su Facebook si può diventare un leader che conta solo creando un «noi» davvero grande. O si può rimanere allo stesso livello, concettualmente, di tutti gli altri nella pagina, non occorre far valere una posizione dominante o di autorità. La struttura dell’interfaccia di Facebook crea ciò che le istituzioni «reali», nonostante 30 anni di pressione femminista, hanno omesso di fornire: un contesto in cui le capacità delle donne di forgiare un potente «noi» e impegnarsi in una leadership di servizio possa far progredire la causa della libertà e della giustizia in tutto il mondo.
Naturalmente, Facebook non può ridurre i rischi della protesta. Ma, per quanto violento possa essere nell’immediato futuro il Medio Oriente, la documentazione storica di ciò che accade quando le donne istruite partecipano a movimenti di liberazione suggerisce che quelli che vorrebbero mantenere l’ordine con il pugno di ferro nella regione sono finiti.
Proprio quando la Francia iniziò la sua ribellione nel 1789, Mary Wollstonecraft, che era stata coinvolta nella testimonianza di quegli eventi, scrisse il suo manifesto per la liberazione delle donne. In America dopo che le donne ebbero aiutato a combattere per l'abolizione della schiavitù, misero all’ordine del giorno il suffragio femminile. Dopo che nel 1960 fu detto loro che «la posizione delle donne nel movimento è sdraiata» generarono la «seconda ondata» del femminismo - un movimento nato dalle nuove competenze delle donne e dalle loro antiche frustrazioni.
In ogni tempo, una volta che le donne hanno combattuto le battaglie per la libertà di altri, sono poi passate a difendere i loro diritti. E, dal momento che il femminismo è semplicemente una logica estensione della democrazia, i despoti del Medio Oriente si trovano di fronte a una situazione in cui sarà quasi impossibile forzare queste donne risvegliate a fermare la loro lotta per la libertà - la loro propria e quella delle loro comunità.
Copyright: Project Syndicate, 2011. www.project-syndicate.org TRADUZIONE DI CARLA RESCHIA

Repubblica 3.3.11
Io, giornalista "a lezione" dalla polizia così la Cina lotta contro la rivoluzione
Il vento della protesta terrorizza Pechino. Stretta sui cronisti stranieri
Regole surreali: per parlare con chiunque, ad esempio, serve un´autorizzazione
di Giampaolo Visetti


Da oggi, se desidero rivolgere la parola ad un cinese, devo chiedere il permesso alla polizia. Nove moduli da compilare, in orario d´ufficio. Scomodo, nel caso di un´urgente necessità, ma accettabile, dai tecnocrati della seconda potenza del secolo che all´improvviso si destano, misteriosamente assediati da un nemico invisibile.
Più difficile fare richiesta di parlare con qualcuno, casualmente, per strada, con tre giorni di anticipo su un incontro determinato dalla sorte. Che in Cina si debba presentire chi si incrocerà, prevedere la curiosità del momento e presentare al governo una domanda sulla fiducia? E se si fosse colti dall´improcrastinabile desiderio di salutare uno sconosciuto? Il funzionario dell´ufficio stranieri di Pechino è colto da una sete fastidiosa, mentre cerca di spiegare le nuove misure per la mia sicurezza. Il suo tavolo, nel seminterrato della caserma di quartiere, due piani sotto lo sportello che rilascia i permessi di soggiorno, è sgombro da qualsiasi oggetto di lavoro e invaso da bottiglie d´acqua lasciate a metà. Due agenti, ai suoi fianchi, sorridono e scrutano il muro. Un terzo aziona una telecamera e ci tiene a mostrare lo zelo con cui riprende le «lezioni di comportamento agli amici giornalisti occidentali». Non ce l´hanno con me. Sono uno qualsiasi tra i centinaia di convocati «per comunicazioni urgenti» nelle ultime ore. Il funzionario legge le istruzioni su un gobbo. Premette: «Quella che voi chiamate rivoluzione dei gelsomini in Cina non c´entra e non è oggetto di questo amabile colloquio. E poiché non sappiamo cosa sia, non sono autorizzato a parlarne». I poteri autoritari, quando smarriscono la certezza della loro onnipotenza, optano per l´assurdo.
Esibiscono un´efficienza ignota alle democrazie, ma incapace di respingere l´urto della semplicità, che inesorabile abbandona i loro atti. Sono due settimane che il Paese più stabile e controllato del pianeta lotta contro l´anonimo annuncio informatico di una rivoluzione priva di insorti. Può apparire strano: ma più la leadership si accerta che non uno si oppone, nemmeno in Internet, e più si convince che non può essere così.
Per rispondere di tale inaccettabile evidenza, in quanto soggetto a forze ostili, trascorro con la polizia di Pechino questa mattina che forse anticipa, anche in Asia, una casuale primavera. Nessuno osa pensare all´ipotesi che le «passeggiate per la democrazia», ogni domenica alle 14 nel cuore delle più importanti città, possano con le settimane raccogliere un numero crescente di appassionati dell´andare a zonzo in silenzio. Per il funzionario che mi ha svegliato alle sei e trenta il problema è questo: non deve succedere che domenica prossima, mentre sono annualmente riunite l´Assemblea Nazionale del Popolo e la Conferenza Consultiva del Popolo Cinese, migliaia di persone si mettano a bighellonare insieme nello stesso luogo di cento città della Cina.
O meglio. Spiega che se camminare equivale a protestare, allora anche Wen Jiabao si oppone a se stesso. Il suo compito è che, qualsiasi cosa accada, nessuno ne parli. Gli viene il dubbio di aver esagerato e si corregge: l´autorizzazione di tre giorni per interpellare, filmare o fotografare un cinese sarà obbligatoria solo in una serie di «luoghi sensibili». Inizia a leggere un elenco di molti fogli: piazza Tienanmen e Wang Fujing a Pechino, piazza Renmin e il Bund a Shanghai, e qui si ferma certo che il resto della Cina in Occidente risulti ignoto. Sta dicendo che, come nel 1989 e mentre al posto dei carri armati per le strade circolano Audi blu, il motore economico del mondo riprecipita, senza una ragione, nel coprifuoco. Potrò guardare le vetrine su Jianguomennei Dajie, ma non quelle un passo più in là. Dovrò fingere di non conoscere un vicino di casa davanti al mausoleo di Mao, ma sarà lecito cenare insieme a lui attorno al lago di Houhai. La domanda su come regolarsi nel caso sia un cinese a rivolgere la parola ad uno straniero, interrompe la lezione. «Lo vede - dice il funzionario - sono i giornalisti succubi dell´America che vogliono trasformarsi nella notizia e diventare una rivoluzione, per farsi pagare immagini che essi stessi animano». La tesi è che la "rivoluzione dei gelsomini", che dovrebbe infettare la Cina con il virus libertario che ammorba il Mediterraneo, sia l´accademico show del club dei corrispondenti in crisi d´astinenza. Dunque: no giornalisti no insurrezione. Non che abbia solo torto: ma basta un cameraman per espugnare la Città Proibita? «Voi che vivete qui - legge il funzionario - dovreste invece collaborare con le autorità a mantenere l´ordine».
Un´obiezione lo ferma. Perché, se i cinesi non desiderano diritti, libertà e giustizia, ma solo soldi, Internet da giorni è diventato inaccessibile, centinaia di persone sono state arrestate, il Paese è occupato dai soldati ed è stato censurato perfino il video in cui il presidente Hu Jintao intona la canzone popolare "Ma che bel fiore di gelsomino"? E perché io adesso sono qui? Entra nell´ufficio un uomo gonfio, in tuta da ginnastica nera, con gli occhi al pavimento e una borraccia rossa in man. È lo stesso che domenica scorsa mi ha pedinato per tre ore a Wang Fujing, che da giorni si addormenta ubriaco fuori di casa mia. «Per un po´ di tempo - sorride il funzionario mentre mi congeda - sarà il suo assistente. Se ha problemi, si rivolga a lui». La Cina pensa che la stabilità della sua contemporanea dinastia possa essere minata solo da una forza estranea, scatenata lontano. E se lo pensa, significa che lo sa.

Avvenire 3.3.11
Pedofilia: quanti speculano sul dolore della Chiesa?
di Massimo Introvigne


Un pamphlet di Agnoli ricorda che, accanto ai veri colpevoli, troppi innocenti sono finiti nel tritacarne

Una ricerca sociologica in Sicilia, presentata la settimana scorsa a Piazza Armerina, ha mostrato che la fiducia nella Chiesa cattolica, pur rimanendo maggiore rispetto a quella nelle istituzioni politiche, è scesa in modo preoccupante rispetto a precedenti indagini, soprattutto tra i più giovani. Il 61,5% di chi ha perso fiducia nella Chiesa afferma di essere stato influenzato in modo importante dalle notizie sui preti pedofili.
Questa ricerca siciliana conferma i dati di numerose altre indagini internazionali.
Benché altre notizie e altri scandali abbiano preso il posto dei preti pedofili sulle prime pagine dei giornali, la ferita inflitta alla Chiesa rischia di essere – se non permanente – almeno di lunga e complessa guarigione. Ma l’opinione pubblica è davvero correttamente informata sulle vicende dei preti pedofili? Ne dubita il giornalista Francesco Agnoli, di cui esce oggi in libreria Chiesa e pedofilia. Colpe vere e presunte. Nemici interni ed esterni alla Barca di Pietro (Cantagalli). Il testo raccoglie articoli in parte già pubblicati da quotidiani, che affrontano diversi aspetti della crisi in un modo appassionato e che non si vergogna né si scusa per il tono polemico. Non si può chiedere a un’opera di questo genere il rigore o la sistematicità di uno studio accademico, ma il lettore ne ricaverà tre informazioni non consuete e molto utili per avere un quadro più completo. La prima è che un numero impressionante di sacerdoti accusati di pedofilia è innocente. Accanto a casi su cui rimangono dubbi, vi sono preti certamente calunniati come il povero don Giorgio Govoni (1941-2000), che anch’io ho conosciuto, morto d’infarto dopo una durissima arringa del pubblico ministero e in seguito completamente scagionato dai giudici di appello e di Cassazione. E Agnoli elenca molti altri casi sconcertanti. La seconda è che soprattutto – ma ormai non solo – negli Stati Uniti la caccia al prete pedofilo è un enorme business per studi legali specializzati che si occupano solo di questi casi e che lavorano a percentuale, trattenendo per sé la gran parte dei risarcimenti milionari che riescono a ottenere, spesso con tattiche che per usare un eufemismo possiamo chiamare piuttosto disinvolte. La terza è che molti di coloro che più duramente attaccano la Chiesa sono stati, e talora sono ancora, alfieri di una rivoluzione sessuale che dal 1968 in poi ha giustificato ogni forma di sessualità 'alternativa', qualche volta non arrestandosi neppure di fronte alla pedofilia e alla giustificazione della vergognosa piaga del turismo sessuale di chi va a cercare minorenni nei bordelli della Tailandia o della Cambogia. I dati che Agnoli offre aiutano a riflettere. Il lettore avveduto userà per continuare la riflessione anche altre fonti. Un approfondimento del magistero di Benedetto XVI sul tema dei sacerdoti pedofili – su cui il testo si limita a qualche cenno – lo aiuterà a evitare ogni rischio di sottovalutazione di un problema che il Papa denuncia come assolutamente reale, vergognoso e drammatico. Ci sono le esagerazioni, le manipolazioni, i teoremi giudiziari infondati. Ci sono, purtroppo, anche i colpevoli. Agnoli non lo nega. E la Chiesa, come il Papa ha ricordato nel suo viaggio in Gran Bretagna, è chiamata –- mentre difende gli innocenti calunniati – a confessare senza reticenze anche la sua «vergogna» e «umiliazione» per i colpevoli, e il «profondo dolore per le vittime innocenti di questi inqualificabili crimini».

l’Unità 3.3.11
Lea Melandri esplora in un saggio le nuove forme di dominio annidate nelle relazioni più intime
La guerra trai sessi sembra stemperata dall’attuale spazio pubblico «femminizzato». Invece...
Inferni di famiglia: ecco dove nasce la nuova violenza
Amore e odio. Si compenetrano da sempre, a partire dalla nascita
Lea Melandri è una delle figure più note del femminismo italiano. Anticipiamo la sua prefazione al nuovo saggio edito da Bollati Boringhieri: «Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà».
di Lea Melandri


Il sussulto di dignità e l’invito che oggi, da schieramenti diversi, viene rivolto alle donne, affinché si ribellino all’immagine degradante con cui sono rappresentate dalla pubblicità e dalla televisione, non deve trarre in inganno. Il corpo femminile occupa la scena mediatica da molti anni, l’immaginario pornografico ha contaminato ormai ogni ordine di discorso e di linguaggio, l’esibizione e il voyeurismo, sapientemente amalgamati dai reality show, sono subentrati, se mai è esistita, alla fruizione passiva dello spettatore. Il risveglio improvviso di coscienze morali offese, di intelligenze femminili «umiliate» dalla mercificazione che si fa del loro sesso, è venuto al seguito di vicende che non potevano lasciare indifferenti, perché avevano come protagonista una delle maggiori cariche dello Stato, il presidente del Consiglio, e come materia scottante le prestazioni sessuali scambiate indifferentemente con denaro, carriere politiche o televisive. Di donne-oggetto, donne-immagine, donne-ornamento, chiunque abbia dato un’occhiata alla televisione, ne ha viste transitare sui teleschermi a flusso continuo, in fasce di orario protette e non protette, trasmissioni colte o di intrattenimento, filogovernative o di opposizione. L’uso del corpo femminile come abbellimento estetico o solleticazione erotica, da affiancare a una parola che resta pur sempre quella dell’uomo, si riconosce, al di là delle appartenenze politiche, per quel marchio d’origine che lo colloca, inequivocabilmente, dalla parte del sesso vincente.
Eppure, è come se l’evidenza che passa sotto gli occhi di tutti, quando per strada o alle fermate della metro alziamo gli occhi su un muro, quando accendiamo la televisione o sfogliamo un giornale, avesse avuto bisogno, per rendersi visibile, di una scossa dall’esterno, dal mondo stesso che la produce. Tale è stata la vicenda che ha visto implicati Silvio Berlusconi, veline ed escort. Per chi ha alle spalle un percorso ininterrotto di cultura e pratica femminista, è irritante sentir parlare di «silenzio delle donne», ma bisogna anche avere il coraggio di porsi interrogativi scomodi e imbarazzanti su quella che oggi appare vistosamente come una contraddizione: un movimento che ha dato alle donne una circolazione e una cittadinanza nel mondo finora sconosciute, ma che le ritrova inspiegabilmente «adattabili», poco inclini ad aprire conflitti, acrobate protese a sorreggere l’impossibile conciliazione tra due realtà fatte per restare separate, la casa e la polis, il corpo e il pensiero, la femminilità e la durezza virile, gli affetti e la complessità della vita sociale.
Lo spazio pubblico, che ha nel suo atto fondativo l’esclusione delle donne, si è andato sempre più femminilizzando, ma sembra al medesimo tempo diminuita progressivamente la conflittualità tra i sessi, proprio là dove l’impatto con saperi e poteri marcatamente maschili – l’economia, la politica, la scienza ecc. – faceva pensare che sarebbe riemersa con forza. Permangono pressoché inalterati luoghi storici, come la scuola e i servizi sociali, dove una predominante presenza femminile è garantita dalla continuità con quella «naturale» o «divina missione», che vuole la donna «madre per sempre, anche quando è vergine» (Paolo Mantegazza), oblativamente disposta alla cura, anche fuori dalle mura domestiche. Ma la femminilizzazione è andata oltre, spingendosi fin nelle pieghe del tessuto sociale, esaltata come fattore di innovazione e risorsa preziosa da un sistema economico, politico, culturale che risente del declino di antichi steccati tra sfera privata e sfera pubblica, natura e cultura, sessualità e politica: quelle linee di demarcazione che hanno permesso finora alla comunità storica degli uomini di pensarsi depositaria di un marchio di umanità superiore.
Sui giornali più vicini alla Confindustria, come Il Sole 24 Ore, non c’è giorno che non si elogi il valore D, il contributo di qualità relazionali che le donne possono portare ai livelli alti del management, in soccorso di un sistema produttivo sempre più flessibile e immateriale. Nelle professioni, e in generale nei rapporti di lavoro, si celebrano esempi eroici di «supermamme», capaci di eccellere allo stesso modo nella cura di un figlio e nella carriera. Ma dove il «femminile» è esploso, cogliendo di sorpresa chi aveva previsto un lento e faticoso approssimarsi delle donne all’autonomia da modelli imposti, è stato nei mezzi di comunicazione, in particolare nella televisione, nell’industria dello spettacolo e nel mercato pubblicitario. Il dibattito che si è acceso sulle veline e sulla folta schiera di avvenenti intrattenitrici che si muovono intorno a uomini di potere, flessibili al punto da passare con noncuranza da concorsi di bellezza alla Camera dei deputati, ha fatto gridare alla barbarie, temere la fine o il fallimento di un secolo di emancipazione. Anche in questo caso si tratta di giudizi approssimativi, lontani dalle analisi che il pensiero delle donne è venuto facendo su ciò che permane degli stereotipi di genere, al di là di cambiamenti evidenti del contesto sociale. Libertà, diritti acquisiti, non sembrano aver scalfito alla radice l’aspetto più accattivante dei ruoli sessuali, la complementarità, «quel profondo, benché irrazionale istinto» – come ha scritto Virginia Woolf – a favore della teoria che solo l’unione dell’uomo e della donna, del maschile e del femminile, «provoca la massima soddisfazione», rende la mente «fertile e creativa».
Di questo ideale ricongiungimento di nature diverse si alimenta l’amore di coppia e il suo antecedente originario, la relazione madre-figlio. Poco o per nulla indagate, queste zone più intime del rapporto tra i sessi ricompaiono oggi deformate sotto la maschera di una emancipazione che stentiamo a riconoscere come tale. Al posto della rincorsa omologante a essere come l’uomo, sono gli attributi tradizionali del femminile – le «potenti attrattive» della donna, di cui parlava Rousseau, e cioè la maternità e la seduzione – a essere impugnati come rivalsa, appropriazione di potere, scalata sociale. Se l’emancipazione del passato poteva essere vista come fuga da un femminile screditato, oggi è il femminile – il corpo, la sessualità, l’attitudine materna – a emanciparsi come tale e a prendere nello spazio pubblico il posto che compete a un complemento indispensabile della cultura maschile. Il patriarcato sta divorando se stesso, scricchiolano le impalcature su cui si è costruita la polis, alle donne, le escluse-incluse di sempre, si offre l’occasione per portare allo scoperto quel potere di indispensabilità all’altro di cui si sono fatte forti finora solo nel privato. La femminilizzazione della sfera pubblica ammorbidisce il conflitto tra i sessi e come nell’illusione amorosa fa balenare la possibilità di una «tregua». Ma, proprio come per l’amore, lascia aperto il dubbio che sia invece, come ha scritto Pierre Bourdieu, «la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile» del potere dell’uomo sulla donna. È necessario perciò tornare a scavare là dove si arresta il viaggio di Freud, l’«avventuriero dell’anima», il grande indagatore della felicità: in quella «roccia basilare» che è il «rifiuto della femminilità», l’inspiegabile intreccio di Eros e Thanatos, l’odio che nasce ogni volta dall’amore, nella vita personale come nella sfera pubblica.

mercoledì 2 marzo 2011

l’Unità 2.11
Il Pd al sit-in in difesa della scuola pubblica. Di nuovo per la festa della donna
Bersani: «Avanti con la mobilitazione, di fronte a tante adesioni il premier dovrà dimettersi»
«Abbiamo 10 milioni di firme E l’8 marzo torniamo in piazza»
L’8 aprile il Pd organizza la «notte bianca della scuola» in quattro città. Domani verrà presentato un dossier su tutte le leggi approvate dal governo che incidono negativamente sulle condizioni di vita delle donne.
di Simone Collini


Superata quota dieci milioni, ma «dobbiamo andare avanti con la mobilitazione». Pier Luigi Bersani riunisce la segreteria del Pd e detta la linea per le prossime settimane. La raccolta di firme per chiedere le dimissioni del premier pare stia superando ogni aspettativa. Al Nazareno stanno tornando indietro molti dei moduli inviati nei giorni scorsi a quattro milioni di famiglie, e la cifra preventivata da Bersani il giorno del lancio dell’iniziativa è già stata superata. Oltre alla simbolica consegna a Palazzo Chigi di tutte queste firme (dovrebbe entrare nella sede dell’esecutivo per consegnarne una parte Rosy Bindi), il Pd ha deciso di organizzare per l’8 marzo una vera e propria manifestazione, in Piazza di Pietra, a pochi passi dalla sede del governo, per chiedere le dimissioni di Berlusconi e per difendere la dignità della donna.
L’annuncio dell’iniziativa verrà dato dal leader del Pd domani in una conferenza stampa organizzata per presentare un dossier messo a punto dalla coordinatrice delle donne Roberta Agostini insieme ai gruppi di Camera e Senato: praticamente, una raccolta di tutte le leggi approvate dal governo che incidono negativamente sulla condizione delle donne sia sul fronte dell’occupazione che su quello dei servizi.
MECCANISMI DEMOCRATICI
Ma Bersani vuole mobilitare il Pd anche nella difesa della scuola pubblica, perché si tratta di un’altra «istituzione» finita nel mirino del premier e perché è convinto che si tratti di una battaglia in cui è possibile coinvolgere una fetta di cittadini molto più ampia di quella riconducibile ai soli militanti del partito. L’obiettivo è denunciare in Parlamento l’attacco ai «meccanismi democratici» (il voto di fiducia sul «federalismo salvaprocessi», il quarantesimo in neanche tre anni, è per Bersani la «certificazione che un cambiamento dei meccanismi democratici è già in atto»), ma cercando una forte sponda soprattutto tra la società civile. Il Forum Scuola del partito ha già tenuto nei mesi scorsi due grandi incontri con insegnanti, presidi, associazioni di familiari e di studenti, e in quelle occasioni è stato registrato una grande malessere nei confronti del governo.
«Il vento è girato», ha detto Bersani ai suoi, convinto che mai come ora Berlusconi goda di scarso consenso tra gli elettori, «e noi dobbiamo esserci».
MOBILITAZIONE SULLA SCUOLA
Per questo durante la segreteria si è deciso di investire il massimo delle energie sulla manifestazione del 12 a difesa della scuola pubblica. Il Pd ha anche deciso di organizzare per l’8 aprile «la notte bianca della scuola»: dal pomeriggio e fino a notte fonda si riuniranno in quattro città collegate via Web (Bologna, Milano, Torino e Napoli) insegnanti, studenti, personale ausiliario, e lì si farà la prova, ha spiegato Puglisi, «della scuola che vogliamo».
Un altro assaggio della mobilitazione del Pd sulla scuola c’è stato ieri, al sit-in davanti Palazzo Chigi a cui hanno partecipato Rosy Bindi, Anna Finocchiaro, Dario Franceschini e qualche centinaio di persone bagnate dall’inclemente acquazzone. «Le parole di Berlusconi sono state semplicemente un sigillo alla riforma Gelmini che è uno schifo», ha detto senza troppi giri di parole la presidente del Pd. «Berlusconi, da presidente del Consiglio, dovrebbe essere il primo difensore della scuola pubblica», ha osservato la capogruppo del Pd al Senato. E quello del Pd alla Camera: «Insultare la scuola pubblica è come insultare lo Stato».

il Fatto 2.3.11
Come abolire il Parlamento
di Furio Colombo


Da alcuni giorni il Fatto Quotidiano pubblica, in una rubrica di Caterina Perniconi, le “ore lavorate” ogni giorno dalla Camera e dal Senato. Deputati e senatori si sentono offesi perché in quelle ore (pochissime) non vengono incluse le attività delle Commissioni. È vero, ma qualcosa non funziona se quella attività, che pure a volte è intensa, non si riversa nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama. Succede questo. Berlusconi è stato molto abile nell’inventare una forma nuova di scardinamento costituzionale, ovvero, se tollerate l’espressione troppo usata ma non infondata, di colpo di Stato. In questo momento è imputato e si rifiuta di presentarsi al processo; è primo ministro e respinge tutte le regole di controllo e di garanzia previste dalla Costituzione;èlasecondacaricadelloStatoeattacca frontalmente la prima, il capo dello Stato.
Perché tutto ciò accada occorre fermare il Parlamento. Come? Ce l’ha insegnato l’on. Cicchitto. Occorre accusare direttamente e apertamente il presidente della Camera di incompatibilità fra carica istituzionale e ruolo politico. E chiedere le dimissioni immediate.
Ecco il gioco che Berlusconi sta giocando: Fini deve restare immobile, in equilibrio, al suo posto. E restano immobili anche coloro che, dai banchi della Camera, vorrebbero (dovrebbero) sostenerlo, per timore di rendere più facile l’ammutinamento della maggioranza contro Fini “che si deve dimettere” (già annunciato come evento prossimo e inevitabile da questo giornale). La caduta di Fini isolerebbe il Quirinale (è infatti l’obiettivo dei reparti speciali guidati da Cicchitto) e a questo fine sta già alacremente lavorando la Conferenza dei capigruppo, ovvero l’organo che, a maggioranza, decide sul lavoro (un’ora, due ore al giorno) del Parlamento.
A maggioranza, dunque Berlusconi. Ecco come è stato messo il laccio al collo alle Istituzioni democratiche italiane, parti buone e parti avariate di esse. Direte che manca una controffensiva. È vero, manca. Per questo e non tanto per il ridicolo e il pericolo della vita e delle opere di Berlusconi, le altre democrazie ci guardano perplesse. D’accordo, lui è lui (e la sua gente), e stanno distruggendo la democrazia senza più nasconderlo. Ma noi continueremo a restare, disciplinati e buoni, dentro il suo gioco? Ne va della vita repubblicana.

il Fatto 2..11
Vademecum dell’oppositore
di Paolo Flores d’Arcais


E allora voi cosa proponete di fare?”. È questo il commento più frequente, talvolta con sottinteso polemico ma spesso solo per disarmato accoramento, con cui i lettori del Fatto intervengono sul sito discutendo gli editoriali di analisi politica. In realtà di proposte concrete su questo giornale ne vengono avanzate molte, direttamente o indirettamente. Provo a riassumerle in forma sistematica, di piccolo “vademecum dell’oppositore democratico”. Infatti i sondaggi indicano per la prima volta che Berlusconi sarà (non “sarebbe”: sarà) sconfitto, ed è per questo che oggi non vuole che si vada al voto. Ma sarà bene non dimenticare come nel 2006 nel giro di poche settimane i partiti del centrosinistra riuscirono a dissipare ben 20 punti di vantaggio (e da quel quasi-pareggio sono nate le sciagure che ora stiamo   vivendo). Insomma, fare bene opposizione è più che mai necessario, perché i sondaggi per la prima volta fausti e favorevoli sono la conseguenza non solo degli scandali strutturalmente consustanziali al regime delle cricche, ma delle lotte che si sono intensificate in questi ultimi due anni. “Non mollare” con l’impegno d’opposizione è dunque la conditio sine qua non perché la buona novella di Berlusconi in minoranza non finisca una volta di più cancellata dagli “assist” dell’inciucio, dell’insipienza e delle sirene del “non demonizzare”. 
ECCO IL SINTETICO vademecum per un’opposizione democratica e vincente. In Parlamento, in primo luogo. Volendo, lo si può paralizzare, rendendo improcrastinabili le elezioni anticipate. L’ostruzionismo è impotente, infatti, se occasionale, limitato a questa o quella legge. Insormontabile, invece, dall’attuale debolissima maggioranza, se sistematico in entrambe le assemblee. Cioè se realizzato contro ogni provvedimento, in ogni commissione, in ogni occasione di dibattito in aula, senza nessuna tregua o eccezione. Chiedendo di continuo la verifica del numero legale, la discussione sull’esattezza del verbale, aprendo di continuo discussioni procedurali sul rispetto del regolamento, intervenendo sull’ordine dei lavori, chiedendo la parola per fatto personale ad ogni insulto ricevuto... e naturalmente con il mare degli emendamenti e degli interventi   sugli stessi (i cui tempi, in molte commissioni non sono contingentati). Se TUTTI i parlamentari di opposizione facessero sistematicamente TUTTO questo, la maggioranza soccomberebbe esasperata in poche settimane, anzi in pochi giorni. Molti dirigenti del Pd dicono che non è vero. Se sono in buona fede, perché non accettano due settimane di prova? Sul territorio, poi. Mi limito a due esempi. Ci voleva davvero molto per concepire un manifesto con la raccapricciante immagine   di Berlusconi che bacia l’anello a Gheddafi, e la scritta “baciamo le mani!”, oppure “compagni di merenda”, e un testo che, a seconda dei luoghi, si rivolgesse direttamente ai vari segmenti elettorali (all’elettore leghista, all’elettore moderato, ecc.) per chiedergli se è questo che intendeva con “tolleranza zero”, guerra a “Roma ladrona”, lotta ai regimi totalitari, e le altre infinite lepidezze delle campagne elettorali leghiste e del caimano? Manifesti del genere, se avessero coperto l’Italia, e fossero stati ripresi e martellati nei giorni scorsi in tv in qualsiasi intervento di parlamentari di opposizione,   non avrebbero allargato e radicato lo scollamento tra i partiti di regime e la loro sempre meno convinta base elettorale? Sono cose ovvie (ai vituperati “agitprop” della sinistra di un tempo ne veniva in mente uno a settimana), ma non si sono viste.
Secondo esempio (lo avevo fatto su questo giornale mesi fa, torna di nuovo attualissimo). Contro la legge sul cosiddetto “processo breve”, o quella sulle intercettazioni, scegliere alcuni dei casi più clamorosi di cronaca nera, che più hanno toccato la sensibilità anche dell’elettorato conservatore e reazionario, che sulle mazzette fa spallucce (le torture agli anziani del “Santa Rita” di Milano, alcuni episodi di stupro, di maltrattamenti di bambini negli asili: purtroppo i casi sono tantissimi c’è solo il doloroso imbarazzo della scelta), e per ognuno di essi fare un manifesto   che si rivolga direttamente all’elettore chiedendo: “Vuoi anche tu che il colpevole resti impunito?” e la spiegazione che la legge proposta, con nomi accattivanti e ingannevoli, e che Berlusconi e Bossi insieme sostengono, proprio quell’impunità garantirebbe.
MA ANCHE il singolo cittadino può fare opposizione vera. Concretamente e ogni giorno. Perfino chi è iscritto al Pd, ma riconosce quanto debole (eufemismo) sia l’atteggiamento dei suoi dirigenti, potrebbe intanto collegarsi con i tanti altri militanti scontenti, anziché mugugnare   in solitudine. Basta aprire pagine Facebook o collegarsi attraverso siti disponibili. Infine (ma primi in ordine di importanza) tutti i cittadini che sono scesi e continueranno a scendere in piazza: perché non danno continuità al loro impegno con una “opposizione fai da te”? Perché non realizzano un loro bricolage politico, fondando un club con gli amici, realizzando controinformazione, discussioni di approfondimento, iniziative locali di lotta (oltre ai manifesti di cui sopra)? Un tempo l’ostacolo era la sensazione di isolamento e di conseguente impotenza. Ma ora Internet consente di collegare tutto questo bricolage. Centinaia di club autonomi, con tutte le loro gelose diversità, ma in permanente dialogo e in solidale informazione/promozione delle reciproche attività, potrebbero essere la vera “spallata” al regime. Non chiedere più “che fare?”. Comincia   a farlo.
Il sito  www.micromega.net   si impegna nei prossimi giorni a mettere a disposizione tale strumento aperto a tutti e collegato con tutti i siti che vorranno aderire (oltre a uno strumento per i dissidenti Pd e a uno per i cattolici della “Chiesa dei fedeli” in rivolta contro la Chiesa simoniaca di Bertone e Bagnasco).

il Fatto 2.3.11
La scuola, a casa mia
di Evelina Santangelo


A casa mia c’erano molti libri e non erano sugli scaffali come parte dell’arredamento per fare scena. Si leggevano. C’erano i libri dei miei genitori, delle zie di mio padre e dei miei nonni paterni. Perché si erano succedute generazioni di professori di ogni disciplina. E quasi tutte le mie zie e i miei zii hanno continuato a svolgere orgogliosamente quello che ritenevano un compito tra i più delicati. A casa mia, quando si doveva fare un complimento a qualcuno, si diceva: “È una bella testa”. E se si faceva un apprezzamento che aveva a che vedere con la bellezza fisica si pronunciava sempre con garbo, per non offendere. A casa mia, quando i miei volevano sapere com’era andata a scuola, non ci chiedevano   “Quali competenze avete acquisito?”, volevano sapere cosa avevamo appreso, capito. Né era possibile esprimere un’opinione con arroganza, se si desiderava essere ascoltati.
A CASA MIA giravano molti ragazzi e molte ragazze tutt’altro che bacchettoni. Quando alcuni di essi li ho incontrati in seguito mihanno detto che, studiando latino e greco, frequentando la mia casa avevano imparato qualcosa che aveva a che vedere anche con la dignità umana e la libertà. Eppure ho sentito spesso dire a mio padre: “Non giurare mai sulla parola dei maestri, discutila, anche se ti sembra infallibile, soprattutto se ti sembra infallibile”. A casa mia, quando è stato ritrovato il corpo di Aldo Moro è stato un giorno di lutto. Come in molte famiglie d’Italia, ritengo. Perché, anche se i miei genitori   non erano democristiani, avevano rispetto per il profilo morale, umano e intellettuale di uomini come Aldo Moro. A casa mia, non si raccontavano tante barzellette. Si preferiva l’ironia, ritenuta dai miei genitori una delle manifestazioni più sottili e alte dell’intelligenza, soprattutto se si era capaci di esercitarla su se stessi. Una buona prassi per non incorrere in tutte le forme più ridicole dell’amor proprio. A casa mia, i miei, proprio perché erano professori,   non pensavano che la scuola fosse perfetta. Anzi ritenevano che avesse ancora molti limiti: il fatto stesso ad esempio che non fossero contemplati nei programmi i dibattiti in corso nella letteratura, nella storia, nell’arte, nella fisica, nelle scienze applicate... o almeno l’eco di alcuni di quei dibattiti,   pensavano costituisse un limite, non solo in termini di conoscenza, ma anche sotto il profilo politico e morale. A casa mia, certo, non si è mai apprezzato chi confonde un paese con un’azienda. Per una questione di evidenti priorità, se non altro. Essendo le priorità di un’azienda i profitti, a discapito di tutto il resto, se è il caso. Mentre le priorità di un paese democratico e della scuola in un paese democratico attengono alla qualità della vita associata, alla piena esplicazione   dei diritti e dei doveri civili, alla formazione di un’opinione pubblica capace di formulare giudizi, compiere scelte, sviluppare professionalità, cosa ben diversa dal plotone di esecutori di competenze che probabilmente andrebbero benissimo per selezionare il personale di un’azienda. A casa mia, mio padre – ho scoperto poi – diceva a noi figli quello che diceva ai suoi studenti: “Tutto può essere messo in discussione tranne la propria e l’altrui dignità, tranne essere uomini liberi in un mondo libero”. Così andavano le cose a casa mia dove i ruoli del professore e del genitore spesso si confondevano. 
A CASA SUA , signor presidente del Consiglio, cosa le hanno trasmesso, visto che coglie un tale abisso tra i valori su cui si fonda la scuola pubblica e i valori della famiglia, come se ogni famiglia non fosse “fatta a suo modo”, nel bene e purtroppo anche nel male, nella felicità e nell’infelicità, direi, forzando il Tolstoj di Anna Karenina. Né, perciò, la famiglia (nemmeno quella che sta bene a lei, signor presidente) può mai farsi misura su cui modellare la scuola pensata per tutti.

Repubblica 2.3.11
Il silenzio in aula per salvare la scuola
di Carlo Galli

nelle edicole (non disponibile su internet)

l’Unità 2.3.11
Testamento biologico
Quei regali bioetici al Vaticano
di Maria Antonietta Coscioni


Il calo di fiducia nei confronti di Berlusconi è ormai un dato di fatto, certificato anche dai sondaggi demoscopici. Visibilmente in crisi crisi politica governo e maggioranza di centrodestra, tentano di riguadagnare consenso giocando la carta dei cosiddetti temi «eticamente sensibili»; così, ecco l’attacco alle unioni di fatto, come a quelle di persone dello stesso sesso; il no alle adozioni da parte dei single, l'accelerazione dell'approvazione del testo sul biotestamento. Parallelamente il Comitato Nazionale di Bioetica, organismo di nomina governativa esprime parere favorevole all’obiezione di coscienza dei farmacisti che non vogliono vendere la pillola del giorno dopo.
Si avalla così il lavorio del ministro Sacconi, secondo il quale il ddl Calabrò che il 7 marzo prossimo approderà alla Camera metterebbe «in sicurezza, rispetto ai concreti pericoli di incursione di un magistrato ideologizzato, i comportamenti che nella realtà fattuale i cittadini realizzano nel nome di quella percezione del valore della vita che è e deve rimanere così radicata nella nostra coscienza collettiva». Linguaggio contorto per sostenere che non è la singola persona ad avere il diritto di decidere quando la sua vita non è più degna d’essere vissuta, ma lo Stato o i suoi delegati.
Una serie di cadeaux, insomma, che Berlusconi offre alle gerarchie vaticane, nel tentativo di recuperare quel consenso che il mondo cattolico gli nega. La delegittimazione della scuola pubblica per esempio, è il primo passo per poter garantire finanziamenti diretti alla scuola privata a cui sono già stati assicurati sostanziosi «contributi» e «sostegni». La partita, insomma, si sta giocando sul terreno della bioetica, della libertà di ricerca, la legge sul biotestamento.
Appare evidente che il governo e la sua maggioranza non hanno alcun interesse a cogliere gli aspetti scientifici della questione, e cioè che nutrizione e idratazione artificiali sono terapie mediche. Recentemente l’Ordine dei medici ha diffuso un documento in cui si ribadisce che sono trattamenti sanitari. Tutti i sondaggi certificano che almeno l’80% degli italiani, cattolici compresi, vogliono decidere del loro destino con l’aiuto del proprio medico e dei familiari a quali terapie sottoporsi o meno; e ritengono che sia giusto tutelare chi vuole usare ogni tipo di terapia in ogni caso, ma che debba essere anche rispettato chi quelle terapie le rifiuta ; e che una legge sul fine vita debba avere contenuti giuridici e non etici, perché questi ultimi ognuno ha il diritto di trovarseli da solo, secondo quello che gli detta la coscienza. Questi sono i termini della questione. Ed è questo fondamentale diritto di tutti e di ciascuno che va difeso, tutelato, conquistato.

il Fatto 2.3.11
Quando lo Ior difendeva i ricchi da fisco e comunisti
Un esposto del Codacons alla Procura di Milano riapre una pagina di storia vaticana che il papa vorrebbe chiudere
di Giorgio Meletti


La storia è complicata e apparentemente marginale. Però è molto significativa, e non a caso è finita sulla scrivania di Nello Rossi, il procuratore aggiunto della Repubblica di Roma, che dallo scorso settembre indaga per violazione delle norme anti-riciclaggio sullo Ior, la banca vaticana, alla quale sono stati sequestrati 23 milioni di euro al centro di operazioni definite dagli investigatori “sospette”.
L’ESPOSTO presentato da Carlo Rienzi, presidente dell’associazione dei consumatori Codacons, prende le mosse da una microscopica causa per sfratto finita in Cassazione dopo otto anni di lite. L’inquilino sfrattato, ricostruendo i passaggi di proprietà della casa presa in affitto nel 1978, ha scoperto che una notevole massa di beni immobili, di proprietà della famiglia Sacchetti, hanno fatto avanti e indietro in modo quantomeno acrobatico tra il portafoglio dei ricchissimi e noti proprietari e quello dello Ior. 
Tutto inizia nel 1973. La Tarquinia spa, società che conteneva una lunga lista di immobili della famiglia Sacchetti, decide di donare tutto il suo patrimonio allo Ior. La donazione è fatta dall’amministratore unico della società, Luigi Mennini, omonimo del Luigi Mennini che era braccio destro di monsignor Paul Marcinkus al vertice dello Ior e fu arrestato nel 1981 per il crac Sindona e nel 1987 per il crac Ambrosiano. Oggetto della donazione, tra l’altro, 800 ettari di terreni nel comune di Tarquinia (Vt) e   svariati appartamenti nella Capitale.
Secondo Rienzi si trattò di una donazione fittizia, e adesso toccherà ai magistrati valutare la fondatezza dell’accusa, mentre il senatore dell’Italia dei Valori Elio Lannutti ha presentato un’interrogazione parlamentare suggerendo che l’Agenzia delle Entrate valuti i profili di evasione fiscale di tutta la   vicenda. L’evasione fiscale non si prescrive.
Il punto è che tutto lascia pensare a una donazione con l’elastico. Nel 1988, quindici anni dopo la donazione, la Tarquinia spa ha lanciato un aumento di capitale da 200 a 775 milioni di lire, interamente sottoscritto dallo Ior con il conferimento di immobili provenienti dalla donazione della stessa Tarquinia. Lo Ior diventa dunque azionista di maggioranza della società.
Ma dalle carte faticosamente messe   insieme dallo studio Rienzi emerge che nel 1998, secondo un atto notarile, il signor Giulio Sacchetti risulta unico proprietario del capitale della Tarquinia srl, pari a 775 milioni come dieci anni prima quando azionista di maggioranza era diventato lo Ior.
IL CODACONS non è stato in grado di risalire al meccanismo con cui lo Ior è uscito dalla proprietà della Tarquinia. Forse una banale compravendita. In ogni caso Rienzi ipotizza, e quindi segnala alla Procura della   Repubblica di Roma, il reato di “omessa/parziale dichiarazione delle plusvalenze”. Infatti lo Ior, in base al Trattato tra Italia e Santa Sede del 1929 e a una serie di leggi conseguenti e successive, non paga nessun tipo di tassa sugli immobili: niente imposte dirette (sul reddito), niente Invim (tassazione del maggior valore) o imposta di   registro al momento della compravendita, e via esentando.
Secondo l’accusa di Rienzi (che rimane tutta da dimostrare) lo Ior avrebbe svolto in passato un ruolo prezioso per i grandi proprietari immobiliari vicini alla Curia vaticana: assumeva fittiziamente la proprietà dei beni in modo da sottrarli alle grinfie del fisco. Negli anni Settanta, secondo il presidente del Codacons, parcheggiare i patrimoni sotto l’ombrello del Vaticano serviva anche a esorcizzare i timori legati all’avanzata elettorale del Pci (timori forse ingiustificati, ma nondimeno presenti in larga parte della plutocrazia capitolina).
Lo scorso 30 dicembre il papa ha pubblicato un Motu proprio , equivalente a una legge, per adeguare la Santa sede agli standard occidentali in materia di “prevenzione e contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario”. La commissione cardinalizia che sovrintende alle attività dello Ior ha dato espressa delega al presidente Ettore Gotti Tedeschi per adeguarsi alle nuove norme della trasparenza papale.

il Fatto 2.3.11
Le prescrizioni del dottor Ratzinger
risponde Furio Colombo


Caro Furio, leggo e ascolto dovunque, domenica 27 febbraio, che il papa ha dato precise prescrizioni mediche (mediche, non teologiche) in tema di ginecologia. Ha fatto sapere che “l’aborto non è mai terapeutico”, esortando i medici a difendere le donne “dall'inganno”. Ma Ratzinger non era un teologo? Come può dare precisi e specifici ordini a donne incinte e medici invece di orientamenti e opinioni?
Mariastella

L’EVENTO di domenica avrebbe dovuto creare scandalo e, come esorta lo scrittore francese Hessel, indignazione fra tutti coloro che, in politica, nei media e nella vita medica e scientifica hanno responsabilità di fronte agli altri cittadini.   Infatti, credo, per la prima volta il papa affronta un problema medico tra i più complessi e, anche scientificamente, ambigui (nel senso che tutti i percorsi hanno allo stesso tempo un carico medico-scientifico e una responsabilità morale) con il linguaggio netto delle cose sicure e accertate. La frase che apre questa parte del discorso non è orientata alla legittima indicazione di una fede. No, è una dichiarazione che viene proposta come ovvia, qualcosa che deve essere evidente a tutti, e condivisa da tutti. In questo modo la religione cattolica, con il suo immenso bacino di sapienza e di esperienza, viene retrocessa al rango di particolari gruppi di credenti, che isolati dalla conoscenza e guidati solo dalla fede assoluta, impediscono le trasfusioni di sangue o si oppongono alle operazioni chirurgiche, anche urgenti, decidendo di scegliere la morte piuttosto che   violare il precetto. Va riconosciuto che questi gruppi religiosi non direbbero mai che “i medici devono difendere” qualcuno da accertati e condivisi fatti scientifici. Semplicemente invocherebbero il fatto che conta più la fede che la scienza. Uno scandalo tutto nuovo in quest’ultima dichiarazione del capo della Chiesa cattolica sta nel fatto che il Papa non si rivolge ai cattolici per dire loro che qualcosa non si deve fare, ma intende imporre a tutti una direttiva che non si discute. E poi non si rivolge ai medici cattolici ma ad ogni medico, come quando si dice, durante scontri cruenti, che un medico ha il dovere di curare tutti. Provo a riscrivere ciò che ha detto il papa in un linguaggio normale (ovvero di autorevole e rispettosa non ingerenza nelle leggi degli altri Paesi ). “Come i credenti sanno, la Chiesa cattolica non accetta e non ammette l'aborto per nessuna ragione, neppure in caso di eccezionale gravità medica. Tra la vita in pericolo della donna e quella del nascituro, la Chiesa prescrive di sacrificare la vita della donna. Poiché tale precetto potrà apparire in contrasto con urgenti esigenze mediche, noi diciamo ai medici cattolici e osservanti che non devono in alcun modo partecipare a una interruzione di gravidanza, neppure per   salvare la vita della donna in pericolo”. Un messaggio di questo genere è nel pieno e rispettabile (e rifiutabile) diritto del capo di una grande religione. Le parole usate da papa Ratzinger domenica scorsa sono invece una ingerenza pesante di un capo di Stato in altre giurisdizioni, e contengono istruzioni mediche errate e pericolose.

Corriere della Sera 2.3.11
Biotestamento in Aula dopo il sì a 5 emendamenti da maggioranza e Udc
di Mariolina Iossa


ROMA — La Commissione Affari sociali della Camera manda in Aula il disegno di legge sul testamento biologico con i voti favorevoli di Pdl, Lega e Udc. Contrari Pd e Idv. Il testo dovrebbe cominciare ad essere discusso lunedì 7 marzo ma potrebbe slittare di un giorno per dare più tempo per la presentazione degli emendamenti. Sono stati cinque gli emendamenti votati in commissione su proposta del relatore Domenico Di Virgilio (Pdl), a cui tocca ora limare il testo con le ultime modifiche e portarlo in Aula per l’avvio dell’esame. Accogliendo il parere della commissione Affari istituzionali, è stato soppresso il comma che stabiliva che in caso di controversie tra medico e fiduciario del paziente, a decidere fosse il collegio dei medici. Il parere di questo collegio non sarà più vincolante e quindi spetterà al medico curante l’ultima parola, anche nel caso in cui questa fosse contraria al volere espresso nelle cosidette Dat, le dichiarazioni anticipate di trattamento, del paziente in fine di vita. Inoltre, non ci saranno uffici dedicati nelle Asl per raccogliere le Dat e comunque non dovranno esserci spese per la finanza pubblica con l’entrata in vigore della legge. Non è stato accolto invece l’emendamento della Commissione Giustizia, presieduta da Giulia Bongiorno (Fli), che voleva rendere vincolanti le dichiarazioni anticipate di trattamento. Adesso tutta la battaglia politica su questo testo molto combattuto e trasformato rispetto a quello passato all’esame del Senato, si sposterà in Aula. I cattolici vogliono trovare un accordo almeno su alcune questioni, anche un accordo trasversale nonostante permangano forti differenze tra una Paola Binetti (Udc), che si oppone al «rifiuto totale delle cure» consentito dalla legge mediante le Dat in quanto, sostiene, «non è ammissibile quando manca la piena consapevolezza del malato» , e l’Api di Rutelli, che ha dichiarato di votare sì in Aula soltanto se ci saranno alcune modifiche, in particolare la «totale riscrittura del comma 5 dell’articolo 3, inaccettabile nell’attuale formulazione, che obbliga di fatto ad idratare ed alimentare ogni paziente fino alla morte» . Anche i medici cattolici concordano su questo punto. All’interno di Fli le posizioni differiscono. «Ci riuniremo e ne discuteremo con serenità» , ha detto Benedetto Della Vedova. Al leader di Fli, Gianfranco Fini arriva comunque la stoccata di Gaetano Quagliariello (Pdl) a proposito della sua lettura del catechismo contrario all’accanimento terapeutico da parte del presidente della Camera. «Fini legga i l ddl Calabrò, si accorgerà che dice la stessa cosa del catechismo sull’accanimento terapeutico: entrambi lo vietano» . Molto critico il Pd. Nelle parole di Livia Turco questa è una legge «ideologica, contro la volontà dei pazienti e dei medici» .

Corriere della Sera 2.3.11
Il Cortile dei Gentili per laici e credenti Il Papa si collegherà in diretta video
di Armando Torno


Due giorni di idee e cultura
Tra la Sorbona e l’Unesco

Il progetto Il 24 e il 25 marzo si terrà a Parigi il primo incontro internazionale del «Cortile dei Gentili» . Da una sollecitazione di papa Benedetto XVI è nata quest’idea che il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio Consiglio della cultura, sta realizzando Il programma A Parigi si incontreranno laici e credenti in due intense giornate, che si chiuderanno la sera del 25 con il collegamento del Papa sul sagrato di Notre Dame. Tra le personalità che interverranno: Jean-Luc Marion, Axel Kahn, Julia Kristeva, Fabrice Hadjadj, Rémi Brague e Giuliano Amato

Il Cortile dei Gentili che si svolgerà a Parigi il 24 e il 25 marzo, oltre a rappresentare un dibattito di portata mondiale tra laici e credenti, avrà un ospite di eccezione: papa Benedetto XVI. Il pontefice parlerà in diretta da uno schermo posto sul sagrato di Notre Dame, a conclusione delle due intense giornate, la sera del 25. È indubbiamente un gesto carico di significati, anche perché si rivolgerà idealmente a tutti coloro che hanno partecipato agli incontri, al di là delle loro idee o della fede che professano. Del resto, le manifestazioni di Parigi rappresentano l’inizio di un nuovo progetto culturale per la Chiesa. Con esso si realizza un invito — ma anche un desiderio— dello stesso pontefice. La Sorbona, l’Institut de France, l’Unesco, la medesima cattedrale celebrata da arte, letteratura, musica e alchimia diventeranno le casse di risonanza di un dibattito globale. E il tutto giunge in un momento nel quale la fede ha bisogno di mille verifiche e lo spirito laico si pone nuove domande, mentre gli scenari internazionali continuano a mutare e il sapere dell’uomo sta rivoluzionando mezzi di diffusione, valori, prospettive. Il regista di questa nuova fase è il cardinal Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio Consiglio della cultura, che dopo il Cortile dei Gentili di Bologna— un prologo ben riuscito di tutto il progetto — ora sta pensando ad eventi nelle grandi città del mondo. Il suo nome, tra l’altro, è noto anche perché in questi giorni è continuamente citato dai media per il possibile incarico a reggere la diocesi di Milano. Non è un mistero: il cardinale Dionigi Tettamanzi entro l’anno dovrebbe lasciare la cattedra di Ambrogio e già da qualche mese è in corso quel totonomine che vivrà di ipotesi e di smentite sino a quando non giungerà la decisione di papa Benedetto XVI. Certo, Ravasi si è anche espresso in diverse occasioni e ha quasi tracciato il profilo ideale del futuro arcivescovo di Milano. Se dovessimo raccogliere i frammenti da lui proferiti, potremmo riassumere in tre momenti le sue osservazioni. Il primo: la diocesi di Milano dovrebbe rappresentare la grande interlocutrice del mondo laico, rinnovando una tradizione che vanta illustri predecessori, verificando le esigenze per gli incessanti cambiamenti recati dagli ultimi decenni. I grandi problemi del nostro tempo, dai mutati confini della vita ai nuovi scenari economici, finanziari, scientifici e politici potrebbero qui trovare un laboratorio di dibattito per essere poi presentati alla Chiesa. Il secondo riguarda l’Incontro mondiale delle famiglie che si terrà a Milano nel 2012. Sarà un’occasione preziosa e l’evento fornirà anche l’occasione per meglio comprendere lo stato di questa realtà che, senza infingimenti, resta un punto di riferimento pratico ed economico oltre che sociale e religioso (l’Italia ha potuto reggere meglio la crisi grazie alla solidarietà sviluppatasi all’interno dei nuclei famigliari). Senza contare che la famiglia si è trasformata e, anche nel mondo cattolico, è altra cosa rispetto alle concezioni di qualche decennio fa. Il terzo è l’appuntamento del 2013 per i mille e settecento anni del cosiddetto Editto di Costantino, promulgato a Milano nel 313, con il quale era concessa la libertà di culto ai cristiani. Forse è meglio parlare di rescritto nato da un accordo, sul quale riflessioni e comunicazioni avrebbero spazio per affrontare i problemi relativi alla libertà di religione nel mondo, soprattutto i rapporti tra fede e politica, ma anche l’impegno degli stessi cattolici. E tutto ciò senza dimenticare che sullo sfondo c’è l’Expo 2015, che potrebbe trasformarsi in una tribuna formidabile per un arcivescovo che desiderasse comunicare e confrontarsi. Questo profilo ideale, sia detto a scanso di equivoci, il cardinale Gianfranco Ravasi lo ha proferito in diverse occasioni anche per rispondere a sollecitazioni della società civile. È innegabile che si avverte lo stile dell’uomo di cultura che sta lavorando al Cortile dei Gentili, ovvero a un laboratorio dove si pensa e si progettano scenari lontani dallo logica del «particulare» , cruccio italiano già cinque secoli or sono, durante i giorni di Francesco Guicciardini. Né va dimenticato che la Chiesa, grazie anche all’invito di un pontefice come l’attuale, sta ripensando al ruolo della cultura e una diocesi come Milano saprebbe giocare una parte di rilievo. Che dire in proposito? Potremmo prendere in prestito quel che Dostoevskij scrisse in diverse occasioni, senza mai stancarsi o pentirsi: la bellezza salverà il mondo. Basta cambiare il nome e sistemare i verbi: la cultura sta diventando indispensabile per salvare il mondo.



il Fatto 2.3.11
La piazza è una sola
Daria Colombo: “Inutili due manifestazioni separate l’8 marzo Non ripetiamo gli stessi errori fatti all’epoca dei girotondi”
di Elisabetta Ambrosi


“Un grandissimo dispiacere. Le divisioni hanno sempre portato male, dal ’68 in poi, ma purtroppo si tratta di un vizio che la sinistra ancora non si è tolta”. È amareggiata Daria Colombo, scrittrice, leader dei girotondi del 2002 (e moglie del neovincitore del festival di Sanremo Roberto Vecchioni), alla notizia che il movimento delle donne si presenterà spaccato in due diverse manifestazioni l’8 marzo prossimo. “Pensi che la protagonista del mio libro (Meglio dirselo, Rizzoli, vincitore del premio Bagutta 2011 per la miglior opera prima), si allontana da una certa militanza politica quando, ancora ragazza, scopre che la protesta seguita alla morte nel 1970 del giovane Saverio Saltarelli sarà organizzata in due cortei separati (“Ma mi dici come cazzo possiamo pensare di costruire un mondo decente se non siamo capaci di metterci d’accordo tra noi neanche davanti alla morte di un ragazzo?”).
Le divisioni c’erano anche all’interno dei girotondi di cui lei fu animatrice?
Certo che c’erano, anche se magari le occultavamo, pur andando in piazza a gridare unità. A parte l’amarezza, però, resta la certezza che la protesta di piazza svolge una funzione cruciale. I girotondi hanno passato il testimone, e oggi si chiamano onda, popolo viola, “se non ora quando?”. Ma si tratta della stessa cosa, il grido di chi non ne può più.
Forse la società civile che si divide fa paura, perché oggi sembra l’unica strada per produrre cambiamento. Insieme all’arte e alla musica.
La canzone di mio marito ha vinto   perché parlava a tutti. E anche se ho ben chiara la distinzione tra voto e televoto, credo che la distanza della politica dalla società sia inaccettabile. Come è inaccettabile che un iscritto a un partito sia tenuto in maggiore considerazione di un non iscritto. Io pretendo lo stesso rispetto del militante. I luoghi della politica sono tanti e tutti legittimi.
E possono essere anche inediti. Come le trasmissioni televisive che la sinistra ha sempre snobbato.
Come si può continuare a ignorare Ballando sotto le stelle quando abbiamo dati imponenti sugli italiani che si iscrivono alle scuole di danza? Naturalmente, a Sanremo non vado a mostrare il culo. Ci vado senza snaturarmi. È un’operazione giusta, anzi obbligatoria. Semmai abbiamo sbagliato a non farla prima. Abbiamo peccato di elitarismo.
E anche di cinismo. Un vizio degli ex sessantottini che oggi, come ha scritto Michele Serra, sembra avviato al tramonto, anche grazie ad artisti come Vecchioni, Benigni, Saviano.
Serra ha ragione. Gli intellettuali e i poeti oggi riescono meglio di altri a far sì che i sentimenti diventino patrimonio comune. Per troppo tempo la politica è stata divisa dal cuore: la politica è un grande atto d’amore, non è stata all’altezza dei tempi, non ha capito che servivano nuovi linguaggi. E nuovi strumenti.
Pensa alle primarie?
Sì, ma non solo. Ce ne sono tanti. Avevo proposto a Bersani, ai tempi della sua candidatura a segretario (che ho appoggiato), di creare per statuto un collegamento con le associazioni di volontariato, alle quali chiedere una consulenza permanente di settore da trasformare in proposta   politica. Non ne ho saputo più nulla.
Eppure l’emergenza antiberlusconiana sembra aver compattato nuovamente società civile e politica. Troppo tardi?
Sarebbe stato meglio farlo prima. Cerchiamo di non farci sfuggire questa occasione.
La spallata tanto attesa verrà dalla politica o dalla società?
Verrà quando entrambe capiranno che dovranno darla insieme. Da questo punto di vista, pur criticando i partiti, non nascondo che ci siano ottusità anche da parte dei movimenti.
Torniamo alle donne. Nel suo libro la protagonista è una moglie e madre che porta   tutto sulle sue spalle. Le femministe hanno sbagliato qualcosa?
Nel mio romanzo ho voluto raccontare la straordinarietà di una donna normale oggi in Italia. Il femminismo ha ottenuto molto, ma ha fatto anche degli errori. Ad esempio credere che si potesse fare tutto da sole.
Lei parla anche di errori educativi, come un eccesso di lassismo. 
Mi sembra che la rivoluzione del ’68 non sia stata sufficientemente descritta per come ha cambiato, in maniera irreversibile, la società italiana. In senso positivo, perché io ricordo che non potevo alzarmi da tavola senza che i miei genitori mi sgridassero. Ma anche negativo: quello dei genitori amici dei figli non è un buon modello. Produce confusione e sbandamento.
C’è stata un’incapacità di trasmettere il sapere da parte della vostra generazione?
Sicuramente occorre, oggi come ieri, prendere atto che i valori si trasmettono solo se si capisce che chi si ha di fronte è una persona diversa da te. “Non sono peggiori, sono solo diversi”, dice alla fine del libro la protagonista, parlando dei figli.
Suo marito si è detto commosso dei tantissimi messaggi di ventenni.
È vero. Basta con quelli che dicono che la speranza non cambia le cose. La speranza serve a tutti, e in particolare ai giovani, perché se gli togli la speranza li uccidi. Dire che il mondo non è uno schifo oggi è la cosa più importante.

l’Unità 2.11
Vicino alla conclusione l’inchiesta della procura di Milano. «Oltre 600 sigle falsificate»
Sit-in dei Radicali sotto il Pirellone: «Fondata la nostra denuncia. Consiglio illegittimo»
Formigoni a rischio «Non aveva le firme»
L’inchiesta della Procura di Milano sulle firme false sarà presto chiusa. Secondo i magistrati milanesi la lista di Formigoni non avrebbe raggiunto il quorum di firme necessarie per la presentazione delle liste.
di Claudia Fusani


«Il listino bloccato Formigoni non aveva il quorum di firme necessario per partecipare alle elezioni regionali». La procura di Milano sta per chiudere le indagini sulle liste elettorali delle regionali 2010. Questione di giorni, un paio di settimane e l’inchiesta sarà chiusa con la richiesta di rinvio a giudizio per chi è dato acquisito per l’accusa ha falsificato le firme. Tra gli indagati per falsità materiale (art.477 cp, pena prevista la reclusione dai sei mesi ai tre anni) non ci sarà il governatore Roberto Formigoni il quale magari poteva essere informato che qualcosa non andava nella compilazione di quelle liste ma certo non ha materialmente preso parte al falso. L’inchiesta quindi riguarda i volontari del Pdl e del listino Formigoni che, in qualità di pubblici ufficiali, hanno raccolto quelle firme che risultano essere dei clamorosi falsi.
Il pm Alfredo Robledo, che si è mosso sulla base dell’esposto denuncia dei Radicali, ha ascoltato da settembre a oggi un migliaio di persone e più di seicento hanno negato la firma che gli è stata mostrata. Un metodo di indagine empirico, senza perizie lunghe e costose: i cittadini firmatari (per legge le liste elettorali devono essere richieste, cioè firmate, da almeno 3.500 persone) sono stati interrogati uno ad uno. Nei giorni scorsi è toccato a Sara Giudice, dissidente del Pdl milanese e capofila della raccolta di firme per le dimissioni di Nicole Minetti, ed è stata lei stessa a rivelare di aver spiegato perchè quella firma sul listino bloccato Formigoni non è la sua.
La giunta e di conseguenza il consiglio regionale potrebbero essere presto dichiarati illegittimi. La sorte politica dell’assemblea non dipende dall’inchiesta penale ma da quella amministrativa che ora pende davanti al Consiglio di Stato. I Radicali, guidati da Marco Cappato ed esclusi dalle Regionali perchè non riuscirono a raggiungere la soglia delle 3.500 firme, presentano esposti e denunce dal 2 marzo 2010. Quello al Tar è stato bocciato e ora pende l’appello davanti al Consiglio di Stato sulla cui decisione non è escluso che possa avere un qualche peso la conclusione dell’indagine penale.
IL POLPO ROB
Il polpo Rob e il caso Firmigoni (in entrambi i casi si tratta sempre di caricature del governatore) sono stati ieri mattina, anniversario di quel primo marzo 2010 in cui lo scandalo firme cominciò a prendere forma, protagonisti di un vero e proprio show prima sui marciapiedi del Pirellone poi direttamente all’interno dell’aula del Consiglio regionale. Nicole Minetti, la venticinquenne igienista dentale ora indagata per sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione anche di minori (cioè Ruby), è assente. «Ha preso una settimana di vacanza» spiega l’avvocato Daria Pesce. Una settimana negli Emirati Arabi con la sorella per evitare il clamore delle udienze del premier e, più di tutto, quello per la chiusura indagini del troncone principale dell’inchiesta (dove è indagata).
Marco Cappato, il segretario dei Radicali Mario Staderini, il consigliere del Pd Pippo Civati e dell’Idv Francesco Panicuzzi e un gruppetto di militanti radicali hanno “occupato” l’ingresso del Pirellone con il polpo Rob, una testa di polpo raffigurante Formigoni dal cui collo uscivano lunghi e avvolgenti tentacoli di stoffa azzurra che stringevano gigantesche penne con su scritto “Firmigoni”. Un anno fa scadeva il termine per la presentazione delle liste in Lombardia. Da quel giorno, racconta Cappato, «per noi è stata chiara la truffa».
LA P3 E IL GIUDICE MARRA
A luglio 2010 quello che i Radicali andavano denunciando diventa un capitolo chiave dell’inchiesta della procura di Roma sulla presunta associazione segreta P3. Uno dei tentativi di inquinare le istituzioni da parte di Carbone, Lombardi e Martino riguardava infatti le pressioni sull’allora presidente della Corte d’Appello di Milano Alfonso “Fofò” Marra dal cui ufficio dipendeva la riammissione delle listino bloccato di Formigoni (che dopo una prima esclusione da parte della Corte d’Appello fu poi riammesso dal Tar). In quel listino, aggiornato all’improvviso tre giorni prima della chiusura delle liste, comparve Nicole Minetti «ma anche altri amici stretti del premier tra cui un ragioniere e un medico» puntualizza Cappato. Come dice Corrado Guzzanti, «anche Michael Jackson ha firmato quel listino».
Il governatore inveisce. «Ma chi sono i Radicali? Un gruppo di privati cittadini che berciano alla luna». L’inchiesta della procura, però, sta dando ragione a chi “bercia alla luna”.

l’Unità 2.11
Da Bologna a Trapani Cie in rivolta in tutta Italia
Centinaia di tunisini sbarcati a Lampedusa sono reclusi nei centri di espulsione mentre altri, liberi di muoversi, scappano in Francia
di Gabriele Del Grande


Tensione alle stelle nei centri di identificazione e espulsione di tutta Italia. La rivolta scoppiata al Cie di Bologna ieri mattina dopo l’occupazione da parte di un gruppo di manifestanti dei centri sociali non è un episodio isolato. Nella settimana scorsa si sono registrate proteste, incendi e tentativi di fuga anche nelle strutture di Torino, Modena, Bari, Brindisi e Trapani. L’ultima volta che i reclusi nei centri di espulsione si erano mobilitati in blocco in tutta Italia era stata nell’agosto del 2009, all’indomani dell’entrata in vigore del pacchetto sicurezza, che aveva prolungato il tetto massimo della detenzione nei centri da due a sei mesi. Stavolta però alla base delle rivolte ci sono le rivendicazione dei tunisini sbarcati nelle settimane scorse a Lampedusa, che in questo momento rappresentano la comunità più numerosa nei centri di espulsione.
L’inizio delle rivolte, un paio di settimane fa, ha coinciso con la fine dei trasferimenti dall’isola. All’inizio infatti, le autorità italiane trasferivano i tunisini nei centri di espulsione, per un totale di poco più di 300 persone. Poi però, quando i posti nei Cie si sono esauriti, hanno portato gli altri 4.000 nei centri di accoglienza per richiedenti asilo. Strutture aperte per definizione, da dove nel giro di pochi giorni in molti se ne sono andati e hanno po-
tuto raggiungere senza problemi la Francia. Questa disparità di trattamento, tra chi viaggia liberamente senza documenti su un treno per Parigi e chi invece si ritrova sei mesi in gabbia senza aver commesso nessun reato, è stata la scintilla che ha acceso il fuoco della rivolta nei Cie.
Il fuoco nel vero senso della parola. Almeno a Gradisca, in Friuli, dove gli incendi hanno letteralmente devastato il centro di espulsione. Dopo due giorni di rivolte, giovedì e venerdì scorsi, il Cie goriziano è letteralmente fuori uso. Resta una sola cella a disposizione per 105 reclusi, buona parte dei quali costretti a dormire per terra, nei corridoi e nei locali della mensa, con un solo un bagno a disposizione e niente doccia. Per ora nessuno sa che fine faranno. Sabato ne hanno rilasciati una trentina. Ma poi deve essere arrivato un contrordine dai vertici, visto che domenica hanno bloccato all’ultimo minuto il rilascio di altri sette reclusi. E che non si respiri una buona aria tra forze di polizia e ministero lo dice il fatto che domani il sindacato Ugl polizia ha indetto un sit in sotto la questura di Gorizia proprio per discutere del Cie di Gradisca. Ma ormai dal Friuli le proteste sono arrivate fino in Sicilia.
A Trapani ad esempio, dove il centro di espulsione sorge al secondo piano di un vecchio ospizio nel cuore della città. È forse una delle strutture più anguste del paese. Una serie di camerate che si affacciano su un ballatoio chiuso da una grata di ferro. E nient’altro. Nemmeno un cortile per l’ora d’aria. Qui la protesta è esplosa lo scorso 23 febbraio, quando i 40 tunisini di Lampedusa hanno iniziato a sfasciare tutto quello che avevano a portata di mano: mobili, suppellettili vari e vetrate delle finestre. Una settimana dopo, i vetri sono ancora rotti e nel centro soffia un vento freddo. Ma almeno non ci sono stati arresti ed è stato concesso ai reclusi di chiedere un permesso di soggiorno per motivi umanitari vista la situazione in Tunisia.
A Modena invece la protesta è stata inscenata domenica scorsa, quando i 42 tunisini trasferiti a Modena da Lampedusa hanno buttato i materassi dalle camerate nel cortile per poi incendiarli al grido di «Libertà!». Pochi giorni prima, un tunisino del centro espulsioni di Bologna si era cucito le labbra per protesta. Sempre domenica, i tunisini hanno appiccato il fuoco anche al Cie di Torino, al punto che per spegnere le fiamme sono dovuti intervenire i vigili del fuoco. In Puglia, invece, si contano gli arresti per fuga e resistenza a pubblico ufficiale. A Brindisi si è aperto ieri il processo contro i tre tunisini arrestati per la rivolta con fuga di venerdì scorso. E un processo simile inizierà presto anche a Bari, dove giovedì scorso c'è stato un tentativo di fuga finito con uno scontro tra la polizia e due dei trattenuti, entrambi finiti in manette.

l’Unità 2.11
I figli dei due leader dell’opposizione confermano: sono in prigione
Il governo respinge le critiche internazionali. «Non interferite»
«Mousavi e Karroubi liberi» Proteste e scontri a Teheran
Scontri a Teheran dove l’opposizione sfida polizia e milizie basiji per chiedere la scarcerazione dei suoi leader Mousavi e Karroubi. I figli confermano la notizia dell’arresto. Il governo al mondo: «Un affare interno, non interferite».
di Gabriel Bertinetto


Teheran reagisce con fastidio alle pressanti richieste internazionali di chiarire se i capi dell’opposizione Mousavi e Karroubi siano in carcere. Il portavoce del ministero degli Esteri Ramin Mehmanparast liquida la vicenda come un affare «puramente interno». «Nessun Paese ha diritto di interferire», afferma il portavoce dopo che il presidente del Paralmento europeo Jerzy Buzek ha aggiunto la sua voce a quella del governo Usa che lunedì aveva definito «inaccettabile» l’arresto. Buzek parla di «violazione grave dei principi fondamentali della democrazia e della giustizia».
La dichiarazione di Mehmanparast dimostra il nerovisismo delle autorità nel giorno in cui il movimento democratico scendeva nuovamente nelle strade di Teheran sfidando la repressione della polizia e delle milizie basiji. Non cortei, nessun maxiraduno, ma una miriade di assembramenti che si formavano e si scioglievano in vari punti della capitale, costringendo le forze di sicurezza a disperdersi in continui e frammentati interventi.
TESTIMONI OCULARI
Testimoni oculari riferiscono di scontri protrattisi lungo tutto l’arco della giornata. Tafferugli, pestaggi, arresti. Secondo i siti online Kaleme e Sahamnews, gli episodi più violenti sono avvenuti davanti all'Università di Teheran. Ma tentativi di raduno sono stati segnalati anche sulle Piazze Ferdowsi, Vali Asr e Vanak. Sahamnews scrive che due pullmini della polizia sono stati dati alle fiamme dai dimostranti sulla Piazza Enghelab.
Come accade quasi sempre da quando, un anno e mezzo fa, le autorità hanno messo il bavaglio ai media internazionali, molto di quello che si sa sugli eventi in Iran proviene dai siti online vicini all’opposizione. È da queste fonti che il mondo ha appreso dell’arresto di Mirhossein Mousavi e Mehdi Karroubi, i due candidati riformatori sconfitti due anni fa nelle fraudolente elezioni che riconfermarono Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica.
Il governo tace sulla sorte dei due leader dell’Onda verde. Solo il procuratore dello Stato Gholam Hossein Mohseni Ejehei entra nel merito, dichiarando all’agenzia semiufficiale Isna che i due non sono in prigione, e ammettendo solo che viene loro impedito ogni contatto esterno nel quadro di una serie di iniziative per impedire le proteste di piazza.
In altre parole, Mousavi e Karroubi sarebbero ancora agli arresti domiciliari. Il provvedimento fu preso quando i due chiamarono i concittadini a mobilitarsi per una manifestazione antigovernativa il 14 febbraio scorso. L’opposizione sostiene invece che Mousavi e Karroubi non sono più nelle loro abitazioni già da qualche giorno. Rinchiusi nel carcere speciale di Parchin. I figli stessi di Mousavi e Karroubi confermano l'incarcerazione dei loro padri e delle loro madri in una lettera -citata dal sito Kalemeinviata ai «leader religiosi» del Paese. «I nostri genitori non hanno commesso alcun reato ma hanno solo parlato di diritti e il loro imprigionamento è la migliore dimostrazione che sono nel giusto», si legge nel testo.

il Fatto 2.3.11
Tutti bloccano i soldi di Gheddafi. Ma l’Italia no
di Giorgio Meletti


imbarazzo del govrno per le quote strategche in Unicredit e Finmeccanica

Dopo il voto unanime del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che sabato scorso ha invitato tutti i governi a congelare i beni nella disponibilità di Gheddafi e della sua famiglia, hanno già attuato il blocco i seguenti Paesi: Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Germania, Svizzera, Austria. E l’Italia? Per ora no.
MENTRE LA CRISI politica libica si infiamma, la vicenda dei rapporti finanziari tra l’Italia e il regime di Gheddafi assume toni grotteschi. Basti solo l’esempio di Unicredit. La Libia detiene il 7,58 per cento delle azioni della prima banca italiana, per un valore di circa 2,6 miliardi di euro. “Tutto sotto controllo”, assicurano all’unisono il presidente Dieter Rampl e l’amministratore delegato Federico Ghizzoni. I quali però ammettono di non riuscire a parlare da una decina di giorni con il vicepresidente di Unicredit, il governatore della Banca centrale libica, Farhat Omar Bengdara. Non solo. Tutti i governi   hanno stabilito che non c’è nessuna distinzione tra i beni direttamente controllati dalla famiglia Gheddafi e quelli statali, che fanno capo alla Banca centrale, alla Lia (Libyan Investment Authority, quella che aveva come consulente fino a cinque giorni il presidente della Pirelli Marco Tronchetti Provera) e alla Lafico (Libyan Arab Foreign Investment Company   , azionista della Juventus): tutto è comunque nella disponibilità del Colonnello. L’Italia invece non ha ancora sciolto un dilemma che da mesi viene rimpallato tra Unicredit, Consob e Banca d’Italia: Banca centrale e Lia sono da considerare un soggetto unico o due distinti? Le loro quote sommate superano il tetto del 5 per cento per singolo azionista. Finora le autorità italiane hanno fatto finta di niente per consentire a Gheddafi ciò che nessun azionista italiano può permettersi.
Ieri, il direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, ha riunito la “Rete degli esperti del Comitato di sicurezza finanziaria”, per fare il punto sulle partecipazioni in Italia della Libia. Si è trattato di una “riunione tecnica”, per produrre “valutazioni” da portare all’attenzione del governo. In serata il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha convocato un vertice a palazzo Chigi invitando i ministri Frattini, Maroni, La Russa, Alfano, Sacconi, Romani   e Matteoli, oltre al sottosegretario Gianni Letta. Non invitato il ministro dell’Economia Giulio Tremonti.
Dall’imbarazzo di queste ore emerge come i cosiddetti “salotti buoni” del potere economico italiano abbiano fatto ricorso ai petrodollari di Gheddafi per puntellare la propria debolezza finanziaria. A parte lo storico sbarco nel capitale della Fiat (nel 1976 attraverso la Lafico) Gheddafi ha fatto il suo esordio del   nuovo corso nel 1997, quando prese il 5 per cento della Banca di Roma di Cesare Geronzi “dando un forte contributo alla ricapitalizzazione e al rilancio”, come ha rivendicato in seguito lo stesso Geronzi, rievocando l’incontro “nel deserto di Saba” con un Gheddafi che all’inizio non ne voleva sapere. Banca di Roma diventò Capitalia e poi si fuse con Unicredit. Gheddafi si ritrovo con le sue azioni diluite allo 0,87 per cento. Ma nell’autunno del 2008, quando la banca guidata da Alessandro Profumo era in ginocchio per la crisi finanziaria mondiale, gli italiani brava gente andarono a rompere nuovamente il salvadanaio del dittatore libico. Che ricapitalizzò Unicredit salendo prima al 4,23 e poi all 7,5 per cento. 
MENO DI UN ANNO fa il presidente uscente delle Assicurazioni Generali Antoine Bernheim rivelò un gustoso (si fa per dire) retroscena. Nell’autunno 2008 anche le Generali, bisognose di ossigeno, bussarono alla porta del Colonnello: “Con l’amico Tarak Ben Ammar (tunisino di ampie relazioni, ndr) eravamo arrivati all’accordo per far entrare capitale libico con un aumento di capitale riservato. All'epoca il titolo Generali valeva 20 euro, ci eravamo accordati per 25 ma un azionista aveva chiesto 29 euro, quindi il capitale libico non è affluito”. Traduzione: italiani brava gente volevano i soldi di Gheddafi, ma con   il sovrapprezzo, che lui avrebbe pagato volentieri, ma poi hanno esagerato con le richieste e il dittatore, dichiarandosi fesso ma fino a un certo punto, si è ritirato nella sua tenda.
Adesso sono tutti in imbarazzo, soci, questuanti, quello che gli baciava la mano. Gli altri Paesi congelano. Il governo americano ha trovato 30 miliardi di dollari, l’Austria ha bloccato nelle sue banche 1,7 miliardi di dollari, la Gran Bretagna, secondo indiscrezioni di The Times , ha frizzato 4,8 miliardi di dollari. La Svizzera ha trovato poco, perché nel 2008, dopo che arrestarono il figlio Hannibal, Gheddafi si innervosì e privò le banche svizzere di ben 6 miliardi di dollari. Il governo italiano studia la pratica. Con prudenza.

Repubblica 2.3.11
L'agorà araba
di Barbara Spinelli


Strane e nuove cose stanno accadendo nei paesi arabi. Strane e nuove anche per quel che dicono di noi, democrazie assestate ma incapaci di ricordare come nacquero, di chiedersi se ancora sono all´altezza delle promesse d´origine. Tutti i paesi europei sono sconvolti dai turbini nordafricani, ma è in Italia che lo sgomento s´accoppia a quest´inettitudine, radicale, di interrogare se stessi. È come se ci fossimo abituati, lungo gli anni, a pensare la democrazia in maniera monistica: come se il dominio, anche da noi, fosse di uno solo. Come se una fosse la fonte della sovranità: il popolo elettore. Una la legge: quella del capo. Una l´opinione, anche quando essa coincide con il parere di una parte soltanto (la maggioranza) della collettività. Monismo e pensiero unico cadono a pezzi oltre il Mediterraneo, ma da noi hanno messo radici e vantano trionfi. Tocqueville spiega bene, nei libri sulla Rivoluzione francese, le insidie delle prese della Bastiglia. Il Re fu sostituito da un potere solitario, illimitato, più efficace della Corona.
Quello del Popolo, uno e indivisibile. Un solo valore venne eretto a valore supremo, non negoziabile: quello della Ragione. L´Uno è il fulcro del pensiero monistico, e surrettiziamente ci addestra a pensare contro la democrazia. Fino a due non riusciamo a contare. La stabilità è l´idolo cui sacrifichiamo le primordiali aspirazioni democratiche. Forse è il motivo per cui i governanti europei, e gli italiani in sommo grado, faticano a capire i paesi arabi o l´Iran. Stentano a osservarli, a parlarne: non ne hanno il vocabolario, pur essendo i padri dei dizionari democratici disseppelliti oltre il Mediterraneo anche per noi. Cantileniamo il ritornello della primavera dei popoli, e non sappiamo più quel che accade, quando un popolo s´appropria del proprio destino. Quel che urge costruire, una volta distrutto il trono. Eppure basta guardare: non si riducono a questo, per ora, le rivoluzioni arabe. Non è un Popolo che si solleva, monolitico grumo di passioni che conquista il potere. Quel che vediamo sono le molteplici aspirazioni, il proliferare e differenziarsi di progetti, il bisogno –inaugurale in democrazia– di un regime regolato in modo da favorire tale differenziazione. Non il dominio del popolo è la meta ma la possibilità della disputa, la concordia nutrita di discordia.
Due sono le caratteristiche delle rivoluzioni arabe, che possono finir male o bene ma sono comunque esperienze della democrazia ai suoi albori. In primo luogo la scoperta dell´altro, del diverso, non più sotto forma del nemico che si odia o cui ci si assoggetta: dunque la scoperta di sé, di quel che io posso fare per sortire dal marasma. È significativo che la prima scintilla delle rivolte sia stata il suicidio del tunisino Mohamed Bouazizi, giovane venditore ambulante, il 4 gennaio. Il gesto ha annullato d´un colpo anni di suicidi-omicidi terroristi, e per la prima volta l´arabo insorge cominciando da sé. La seconda caratteristica è la scoperta di quanto sia prezioso, perché ci sia democrazia, lo spazio pubblico dove le varie idee s´incrociano, s´oppongono, sfociano in delibera. Nella Grecia antica si chiamava agorà: la piazza dove i privati s´incontrano, diventano cittadini che accudiscono la cosa pubblica oltre che la propria famiglia. Dove democraticamente decidono. Si decide votando a maggioranza, ma l´esistenza dell´agorà è il preambolo che dà spazio, dignità, legittimità al diverso.
Chi ha seguito su internet i tumulti arabi avrà visto le discussioni sterminate attorno a ogni articolo, appello. In assenza di un´agorà ufficiale (di una res publica), gli arabi scelgono internet e cellulari per parlarsi l´un l´altro come mai prima d´ora, per manifestare contro gli autocrati da cui erano manipolati, non governati. Il primo atto della democrazia è uscire di casa, contrariamente a quel che dice Berlusconi secondo cui la famiglia privata ti insegna tutto, e fuori s´aggirano scuri professori della scuola di Stato che inculcano nozioni devianti. Ha scritto Robert Malley sul Washington Post che Al-Jazeera è divenuta un attore politico di primo piano «perché riflette e articola il sentimento popolare. È diventata il nuovo Nasser. Il leader del mondo arabo è una rete televisiva».
Ma internet e Tv sono gli strumenti, non la stoffa delle democrazie nascenti. Altrimenti potremmo dire che anche da noi le Tv commerciali sono state levatrici di democrazia. Quel che le reti sociali arabe suscitano è la pluralità di opinioni e notizie, non l´emergere dell´etere privatizzato italiano; non la Tv a circuito chiuso di Milano 2 che s´estende alla nazione ed è emblema del quartiere sbarrato che gli americani chiamano gated community. Al-Jazeera e social network arabi abbattono i recinti, aprono finestre. Le aprono a quel che le nostre democrazie inventarono, quando nacquero anch´esse nel tumulto: la pluralità di idee, la separazione dei poteri, la convinzione che il potere tende a estendersi, se altri poteri non lo fermano e controbilanciano. Le apre infine alla laicità, tappa essenziale delle democrazie d´occidente.Naturalmente è possibile che i Fratelli musulmani, più organizzati dei manifestanti, abbiano il sopravvento. Ma gli ingredienti iniziali delle rivolte non sono in genere confessionali. Può darsi che le cerchie autocratiche si limitino a spostar pedine. Ma gli insorgenti, come si vede in Tunisia, sgamano presto e non tollerano gattopardi che fingono cambiamenti. Un esempio significativo è il documento pubblicato il 24 gennaio sul sito del giornale Yawm al-Sâbi´ ("Il settimo giorno"): un manifesto in 22 punti in cui si chiede la separazione tra religione e Stato, la dignità delle donne, il diritto di ogni cittadino (comprese donne, cristiani) di accedere alle massime cariche, tra cui la Presidenza. Il documento è firmato da una ventina di teologi e imam egiziani, ed è stato ripreso prima da Asia News e poi da più di 12.400 siti arabi. Ne parla da giorni Samir Khalil Samir, gesuita egiziano e professore in Libano e al Pontificio Istituto Orientale di Roma. Secondo Samir, i firmatari del proclama non sono soli: «Questo desiderio di operare una distinzione tra religione e Stato è un sentimento comune. La religione è una cosa buona in sé e non vogliamo ostacolarla, purché rimanga nel suo ambito, come una cosa piuttosto privata, che non entra nelle leggi dello Stato. Invece i diritti umani, questi sì! (...) E se la legge religiosa va contro i diritti umani, allora preferiamo i diritti umani anziché la sharia» (www.zenit.org). In Italia parole simili sono eresia, perché tutt´altro è lo spettacolo cui assistiamo: una regressione della laicità, della separazione dei poteri, della democrazia. Non stupisce che Berlusconi abbia difeso in principio i dittatori, temendo di disturbarli: non è la storia araba, ma la storia delle nostre democrazie che non arriva a interiorizzare. Metà del mondo entra in contatto con la democrazia, con le tesi di Montesquieu sul potere frenato da altri poteri, ma lui è fermo, a presidio dell´Uno e l´Indivisibile, in polemica costante con ogni potere di controllo (magistratura, Consulta, Quirinale). Mai come in queste settimane il suo esperimento è apparso superato: espressione di una democrazia impigrita, chiusa. Anche la sua idea di televisione non è agorà, inclusione del diverso. È un´opinione sola che grida dallo schermo della «scatola tonta» e ha l´impudicizia di presentarsi come Radio Londra armata contro tiranni. Non siamo certo gli unici ad arrancare dietro la primavera araba senza sapere perché arranchiamo: dimentichi dei patti coi tiranni, dei profughi respinti ai nostri confini e consegnati ai campi di concentramento libici, dell´Arabia tramutata in terra d´affari. Il ministro degli Esteri francese Michèle Alliot-Marie ha reagito all´inizio come Frattini, Berlusconi. Ma in Francia son bastati due mesi, e domenica il ministro ha dovuto dimettersi, spinto dal suo stesso partito.
Il discorso sui valori, caro al Premier quando inveisce contro la scuola pubblica, o contro l´adozione da parte di single o gay, o contro il diritto del morente a decidere se farsi o non farsi tenere in vita, è frutto di questo monismo non democratico. È una visione gradita alla Chiesa, che può ottenere potere (non in omaggio ai Vangeli ma a una sacralizzazione della stabilità degna del Grande Inquisitore) spartendolo alla maniera dell´Islam radicale: agli imam le moschee, i soldi, la signoria sulle anime; agli autocrati l´imperio politico inconfutato. L´orizzonte è quello dell´agorà negata: che trasforma l´inquilino della comunità protetta non in cittadino, ma in consumatore appeso alla scatola tonta, incapace di uscire e scoprire la Città.

l’Unità 2.3.11
Conversando con Mikhail Gorbaciov Premio Nobel per la pace
«In Russia realizzati progressi ma potrebbe arrivare il vento di rivolta del Maghreb»
di Matthew Bell


La prima cosa che si nota di Gorbaciov non è la famosa voglia sul capo bensí la mano delicata e bianca che stringe la mia. Gorbaciov, che compie 80 anni oggi, si è fatto la fama di chi risponde alle domande con gli aneddoti. Come biasimarlo, considerato quello che ha passato? È stato sconfitto politicamente, ha perso l’amata moglie, ma è più battagliero che mai e di recente ha criticato duramente il governo di Putin definendolo una vergogna per la democrazia. Nulla di nuovo per gli osservatori occidentali, ma per dire cose del genere in Russia ci vuole coraggio. «Ci sono stati momenti difficili, ma non si possono negare i progressi fatti», dice. «Ci sono giornali e riviste indipendenti. La situazione della televisione invece è pessima. È uno dei problemi principali. Ed è un problema centrale per lo sviluppo della democrazia».
Uno dei quotidiani dissidenti è «Novaya Gazeta» di cui Gorbaciov possiede il 49% del pacchetto azionario unitamente al proprietario Alexander Lebedev. Ci scriveva prima di morire Anna Politkovskaya. Ma allora perché alle elezioni del 2007 ha appoggiato Putin? «Quando Putin ha assunto il controllo del Paese, la Russia si trovava in gravissime difficolta», mi risponde. «Il Paese stava per disintegrarsi. In quel momento l’imperativo era la stabilità. Putin, magari sbagliando, magari ricorrendo a volte a metodi autoritari, ha operato in quella fase per il bene del Paese». Ma Gorbaciov non si tira indietro nemmeno quando è necessario riflettere sul suo passato. «Oggi chi ci governa sta commettendo lo stesso errore che commisi io all’epoca della perestrojka: un eccesso di fiducia. Non è facile riconoscere i propri errori, ma è necessario. Peccai di eccessiva fiducia e di arroganza e ne pagai le conseguenze». La perestrojka fu il tentativo coraggioso di liberare la gente dalla tirannia costruendo un nuovo ordine sociale, democratico ed economico. Ma comportò anche la fine del posto di lavoro garantito e l’improvviso incremento della disoccupazione rese Gorbaciov molto impopolare. Inoltre le sue riforme portarono alla parziale dissoluzione della vecchia Unione Sovietica. Oggi Gorbaciov rimpiange di non aver potuto portare a compimento il suo programma di riforme. Le rivolte in Tunisia, Egitto e Libia lo inducono a dire che «anche in Russia potrebbe accadere la stessa cosa, ma le conseguenze sarebbero molto peggiori». Certo da vecchio comunista non può non condannare l’ostentazione della ricchezza che caratterizza l’attuale classe dirigente russa. «Ho letto l’elenco delle proprietà di Roman Abramovich. Incredibile. È una vergogna».
La distribuzione della ricchezza in Russia non è cambiata di molto rispetto al 1917. Siamo alla vigilia di un’altra rivoluzione? «Non credo sia necessaria una rivoluzione», replica Gorbaciov. «Ma certamente la società deve cambiare. È necessaria maggiore giustizia e bisogna colmare le enormi sperequazioni che esistono. Ovviamente non sto proponendo una guerra ai ricchi. Ma è necessario motivare la gente per farla lavorare meglio. La parata di miliardari che abbiamo in Russia la dobbiamo a Boris Eltsin. Ora con la leva del sistema fiscale dobbiamo ridistribuire il reddito in maniera più equa». Sono anche finiti i tempi delle superpotenze e Gorbaciov se ne rallegra. «Non credo che questo debba essere uno degli obiettivi della Russia. Nemmeno Stati Uniti e Cina hanno bisogno di essere superpotenze. È un mondo diverso. Sono diversi i rapporti tra le nazioni. Occorre rinnovare la classe politica facendo largo ai giovani. Bisogna dare loro una chance nei media, in politica e in democrazia». Gorbaciov viene da una famiglia di agricoltori e non ha mai amato la ricchezza. Oggi si guadagna da vivere tenendo conferenze e scrivendo libri. «Lavoro per vivere. Mi sembra una cosa normale. È così che sono stato educato». sti arrivati alla vecchiaia lo distingue la sua capacità di continuare a ripensare il suo passato in termini critici. E lo sottolinea con una punta di orgoglio. Dell’Unione Sovietica una cosa che continua a tormentarlo è l’invasione dell’Afghanistan nel 1979. La guerra durò dieci anni, ma Gorbaciov nutriva delle perplessità fin dall’inizio e quando divenne segretario del Pcus, nel 1985, si attivò immediatamente per porre fine a quel conflitto. Gli ricordo che la Gran Bretagna si trova ora nella medesima situazione e Gorbaciov replica senza esitazione: «La presenza militare britannica in Afghanistan ha preceduto di molto quella sovietica tanto che all’epoca ci rimproverarono di non aver chiesto il loro consiglio. ‘Gli afgani sono un popolo molto particolare e non avreste dovuto intervenire’, ci dissero allora. È vero. Non è possibile una autorità centrale, nemmeno quella di un re. Le province si governano autonomamente. Noi alla fine capimmo che si era trattato di un errore e chiedemmo l’aiuto di tutti per potercene andare. È quello che dovrebbero fare oggi le forze della coalizione. L’ho ripetuto più volte agli americani. Ed è lo stesso consiglio che mi sento di dare al primo ministro britannico. Certo è facile dare consigli agli altri, salvo poi ripetere gli stessi errori». Gorbaciov è un personaggio molto popolare negli Stati Uniti. Tutti sanno che sul piano umano andava d’accordo con Reagan e parla molto bene di Barack Obama, ma non ha paura di dire cosa non lo convince. L’attuale guerra dell’America con l’Islam – sottolinea Gorbaciov – è il prodotto delle politiche degli Stati Uniti che hanno segretamente finanziato gli estremisti islamici negli anni ’70 e ’80 in Afghanistan per contrastare il nemico di allora: il comunismo. «Gli americani debbono accettare le loro responsabilità». Quello dell’Afghanistan è un tema di cui abbiamo parlato molto con gli americani insistendo sul fatto che volevamo un Afghanistan indipendente dopo il nostro ritiro. Ma mentre parlavamo, gli americani in segreto collaboravano con quelle stesse forze che oggi combattono. È stato una sorta di boomerang storico e politico».
Margaret Thatcher si fidava di Gorbaciov anche se in seguito ha detto che simpatizzava per Blair. Oggi Gorbaciov non nasconde il suo apprezzamento per Cameron. «Seguo con interesse il lavoro di Cameron», dice. «Condivido il suo programma teso a colmare il divario che separa i diversi gruppi sociali. Mi sembra un’idea molto democratica. Mi sembra che la Gran Bretagna sia pronta per la sua perestrojka, anche se non credo che i britannici accetterebbero mai questa parola per definire la loro politica». Il mese prossimo il suo ottantesimo compleanno verrà festeggiato con un Gala alla Royal Albert Hall con la partecipazione della London Symphony Orchestra diretta dal russo Valery Gergiev. C’è chi si è chiesto come mai Gorbaciov festeggia il suo compleanno a Londra e non a Mosca, dove vive e lavora, ma Gorbaciov non vuole replicare a queste malignità. Il giudizio che occidentali e russi danno di Gorbaciov è molto diverso. Le sue riforme erano lungimiranti, ma sul breve periodo provocarono disoccupazione e disordine politico. È il primo a riconoscerlo. «Lenin disse una volta che bisogna avere dei sogni», mi dice. «E per me Lenin e’ ancora una autorità. A cambiare il mondo sono sempre gli idealisti. Magari sarò invecchiato, ma ci credo ancora».
(c) The Independent Traduzione e adattamento di Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 2.3.11
Vento di rivolta anche a Pechino arrestati i dissidenti, censura sul web
Prime manifestazioni nel Paese, convocati i giornalisti stranieri
Mao insegnava come una scintilla brucia la prateria Oggi la scintilla si chiama Internet
I leader temono che il virus della libertà contagi anche le terre estreme dell´Est
di Giampaolo Visetti


PECHINO - Wang Fujing, prima strada dei negozi occidentali a Pechino, non è mai stata così pulita. Scorre a due passi da Tienanmen e nel 1989 fu usata per ammassare i carri armati del regime comunista prima della strage degli studenti. Anche piazza Renmin, cuore di Shanghai, viene sommersa dall´acqua più volte al giorno. La Cina è afflitta dalla peggiore siccità degli ultimi cent´anni, ma le autorità non risparmiano autobotti. Fingere una maniacale pulizia dei luoghi pubblici, o aprire cantieri improvvisi attorno a siti sospetti, è il sistema che le autorità della seconda potenza mondiale adottano da due settimane per scacciare, con i pedoni, lo spettro di una rivoluzione. Nessuno, in Cina e all´estero, annusa oggi un´aria da ribellione nel Paese simbolo della crescita, in cui tutti disperatamente confidano. La potenza di Internet rovescia però le dittature dell´Africa mediterranea, il domino democratico si estende nel Medio Oriente e i leader della nazione più popolosa del pianeta, esempio unico di autoritarismo di mercato, temono che il virus della libertà contagi anche le terre estreme dell´Est.
E´ la prima volta che una rivoluzione esordisce senza rivoluzionari, promossa solo dal loro fantasma elettronico. Ma per la leadership di Pechino, prossima alla pensione, la differenza non è sostanziale. E´ l´ultima generazione di capi rieducati da Mao Zedong, che insegnava come sia una scintilla a bruciare la prateria. Si svuotano dunque i laghi della capitale, per annegare preventivamente l´evocata "rivoluzione dei gelsomini", come è stata definita per tirare un filo che colleghi la Cina alle prime insurrezioni del 2011, in Egitto e Tunisia. Il popolo del web e le forze dell´ordine assicurano che l´onda della protesta si è alzata domenica 20 febbraio. I cinesi estranei al partito e all´esercito per ora non se ne sono accorti, ma nei palazzi del potere il misterioso allarme scatena una sorprendente isteria. Il primo appello sulla Rete a «manifestare pacificamente per chiedere democrazia, libertà e giustizia» dava appuntamento ogni domenica alle 14 nel centro di una ventina di città-chiave. E´ stato raccolto da poche centinaia di persone. Per il dissenso in esilio la ragione è semplice: la censura calata su Internet e sulla stampa governativa impedisce alla gente di sapere che anche in Cina, 62 anni dopo quella comunista partita dalle campagne, sta per scoppiare nell´etere una rivoluzione per cacciare i nipoti della Lunga Marcia. Anche per il potere il motivo per cui la ribellione cinese finora è essenzialmente mediatica, è elementare: nessuno o quasi vuole farla. La realtà è più complessa e spiega perché, in assenza di scontri, da un paio di settimane la Cina vive come se qualcuno stesse per infrangere la sua preziosa stabilità. Nella prima "domenica dei gelsomini" è stato difficile distinguere la folla impegnata nello shopping da quella scesa in strada per testimoniare un silenzioso dissenso.
Nessuno slogan, non uno striscione, nemmeno un insorto riconoscibile. A Pechino, fuori dal McDonald´s su Wang Fujing, alcuni ragazzi hanno lanciato in aria tre mazzi di crisantemi bianchi. In questa stagione in Oriente i gelsomini non sono fioriti, ma è bastata l´esibizione generica di fiori per essere picchiati e arrestati dagli agenti. Tra gli spettatori c´era "per caso" anche l´ambasciatore americano in Cina, Jon Huntsman, prossimo candidato repubblicano alle presidenziali. Passava di lì per mano con la figlia e ai funzionari del partito è andato il sangue alla testa. In poche ore la nazione, tutta concentrata a battere ogni primato di arricchimento, è riprecipitata nelle atmosfere sinistre dell´89, o delle più recenti repressioni contro il Falun Gong, in Tibet e nello Xinjiang, o contro chi solo stima Liu Xiaobo, ultimo premio Nobel per la pace. La "Grande Muraglia di Fuoco" è ricalata sulla Rete, censurando decine di parole, tra cui "Huntsman", o "gelsomino". Il governo ha scatenato la propaganda contro «le forze straniere ostili» e per chiarire a ognuno un concetto: la Cina non è il Nord Africa e la sola idea di una rivoluzione è ridicola. Nessuno ha osato sostenere il contrario ma il fuoco, stranamente, non si è spento. Nuovi appelli anonimi alla rivolta domenicale, dalla settimana scorsa a ieri, si moltiplicano sul web. Venerdì una decina di avvocati e un centinaio di dissidenti storici, sono stati arrestati senza motivo. Domenica scorsa Pechino, Shanghai e le più importanti città cinesi sono state blindate e allagate dall´esercito. Poiché i dimostranti latitavano, pattuglie e milizie se la sono presa con i giornalisti stranieri, accorsi in massa, e con allibiti passanti. La tensione, pur in assenza di fatti, continua a salire: domenica prossima migliaia di cinesi sono invitati a occupare silenziosamente il centro di oltre cento città e la rivoluzione che non c´è per il governo è come se ci fosse.
Nessuno può razionalmente spiegare cosa in Cina stia accadendo, ma descrivere questo anomalo dissenso elettronico, soffocato con l´antica violenza, non significa testimoniare che qualcosa di importante non si stia verificando. Il Paese cresce, ma inizia a sentire il fiato delle contraddizioni capitaliste. Il regime è saldo, ma nel pieno di una conflittuale e lunga fase di passaggio personale del potere. L´incubo Corea del Nord, dove l´effetto-Libia può realmente far implodere la dittatura famigliare dei Kim, da mesi toglie il sonno a Pechino. Tra poche ore si aprirà la sessione annuale del parlamento, pronta a varare la più profonda riforma nazionale dall´epoca di Deng Xiaoping. Nuovi interessi, esclusi e forze armate bussano alla porta vecchia del partito, ultimamente incline alle promesse. Sono centinaia di milioni di individui, armati di rivendicazioni opposte. Distanza e distinzioni da Tripoli, dopo che l´e-vaso del diritto alla dignità si è rotto, possono non rivelarsi più determinanti. Mostrare al mondo come si spegne una scintilla anche se non c´è, a un secolo dalla prima rivoluzione repubblicana, è l´estrema via alla stabilità con caratteristiche cinesi.

Repubblica 2.3.11
Si dimettono sempre i ministri degli altri
Quel gesto di dignità che in Italia è quasi sconosciuto
di Francesco Merlo


In Italia la furbizia viene giustificata come parte integrante del carattere nazionale 

La prima cosa che pensa un italiano per bene è «amici tedeschi, dateci il vostro (ex) ministro della Difesa che ha copiato e prendetevi Ignazio, che non copia». Questo per dire che zu Guttenberg ai nostri occhi è un grande. Infatti si è dimesso. E poiché ha copiato la tesi di Dottorato ha rinunziato anche al titolo di dottore che in Italia si attribuisce – meglio nell´abbreviata dottò – solo a chi non ce l´ha.
Del resto lo ‘zu´ di Guttenberg è un titolo vero di nobiltà di spada, mentre qui anche la nobiltà è di paga.
Di sicuro a 39 anni il barone tedesco è stimato dalle cancellerie di tutto il mondo mentre il nostro Bondi, per citarne un altro che non copia, è bollato all´estero, non senza una punta di (meritato) eccesso, come the killer of Pompei´s ruins. Ma, si sa, Bondi tiene famiglie, come il sindaco di Roma, quello della parentopoli, e come tantissimi professori universitari, con in testa il rettore della Sapienza, quel Luigi Frati che vanta il record di tre membri della sua famiglia, moglie e due figli, titolari di cattedra nella sua stessa facoltà.
I comportamenti che in Germania, Inghilterra e Francia portano alle dimissioni in Italia sono titoli per re-immissioni. Frati, per dire, solo dopo le denunzie di Tito Boeri su Repubblica e di Gian Antonio Stella sul Corriere venne finalmente eletto - olà - rettore: «Io sono per la meritocrazia», fu la sua prima dichiarazione.
Le dimissioni del resto non misurano soltanto la struttura morale dell´individuo, che può anche dimettersi per amor proprio, per senso di superiorità o «perché non ne potevo più», come ha detto Guttenberg che certamente in Italia avrebbe accusato i suoi accusatori, nel ruolo di vittima perseguitata di un paese dove nessuno avrebbe i titoli per fare vergognare nessuno.
Il titolo della ministra Gelmini - avvocato - non è falso come quello di Guttenberg, ma è astutamente dequalificato e forse è peggio perché nessuno lo può contestare: copiare ti espone molto di più che scappare a Reggio Calabria. Tanto più che la Gelmini ha impostato la propria battaglia politica contro la facilità di acquisire - svendere - titoli a Reggio Calabria e in tutto il Sud. Il punto è che le dimissioni misurano anche la dignità etica del luogo in cui ci si muove e il prestigio e la forza politica di chi (non) riesce ad ottenerle. Inutilmente furono chieste a Bassolino e alla Jervolino durante la prima emergenza dei rifiuti a Napoli. Pare che Guttenberg abbia commissionato quella sua tesi-truffa a un ghost-writer, certamente sa che la Sueddeutsche Zeitung di Monaco sta indagando: dimettersi, prima d´esservi costretti, è anche intelligenza ed eleganza.
E va detto che in Italia non appena si scopre un professore che ha copiato vengono fuori mille articoli in difesa del plagio e della furbizia, e le copiature diventano virgolette dimenticate e «faceva così anche Stendhal». E c´è chi è pronto a comporre la solita lode del malandrino, con l´idea che siamo antropologicamente levantini e dunque viviamo tutti di espedienti e di equilibri mercuriali e di illegalità e perciò copiare è una virtù purché ovviamente si sappia copiare. In questo modo il pur bravo comico Daniele Luttazzi ha derubricato a "citazioni" le tantissime battute rubate ai suoi colleghi americani e, poiché Berlusconi lo censurò insieme a Biagi e Santoro, ha forse surrogato l´originalità d´artista con le benemerenze politiche.
Al fondo c´è un´altra truffa culturale: vogliono farci credere che in Italia il galantuomo è un disturbato mentale, che un italiano non può mai dimettersi perché dismetterebbe la propria ontologia, insomma le dimissioni non sarebbero compatibili con il carattere nazionale. La verità è che non sono compatibili con le facce di bronzo e con le facce da schiaffi. Sono molte, è vero, nell´Italia dove non si dimette mai chi è dimissionario fisso dalla competenza, dalla verità e dalla decenza, non si dimette mai chi vive di ricordi inventati, chi porta con alterigia il suo titolo falso.

La Stampa TuttoScienze 2.3.11
Con Darwin nuovi spiragli sulla mente
Un’unica mente supera le barriere delle culture
di Maurilio Orbecchi


A partire da Darwin, e in particolare negli ultimi decenni, è cresciuto un campo di ricerca della psicologia che studia lo sviluppo della mente e che ha prodotto un florido dibattito e differenti discipline, tra cui l'etologia umana, l'ecologia del comportamento umano, la coevoluzione gene-cultura, la psicologia evoluzionistica. Benché le divisioni di scuola possano apparire essenziali per gli specialisti, sono in realtà marginali rispetto alla grande quantità di nozioni condivise. Tutte queste discipline ritengono che la mente sia in qualche modo un prodotto dell'evoluzione che ha lasciato i suoi segni sulla psicologia umana e sulle nostre scelte quotidiane. Allo stesso modo, i vari studiosi giudicano un grave errore credere che all'origine della psiche umana vi siano cause qualitativamente diverse da quelle che generano il comportamento animale. Il Nobel Niko Tinbergen sostiene che pensarla diversamente porterebbe a una situazione assurda: sarebbe come se su uno solo dei numerosissimi rami dell'albero evolutivo si trovasse una barriera con un cartello che recita: «Vietato l'accesso allo studio oggettivo: riservato agli psicologi!».
Le ricerche sull'evoluzione della mente confermano l'inesistenza di questa barriera e la necessità di partire dalla teoria dell'evoluzione, per chi vuole davvero conoscere la mente umana.
È perlomeno improbabile, infatti, che i meccanismi cerebrali che si sono formati in milioni di anni per risolvere problemi comuni abbiano smesso improvvisamente di far sentire il loro peso nella vita della sola specie umana.
Il dibattito, tra gli addetti ai lavori, verte su come la mente e la psicologia si sono formate nel corso dell'evoluzione e su quanto la loro origine influisca sull'uomo contemporaneo. Si cerca di capire se i meccanismi mentali del cervello siano adattamenti a condizioni ambientali del passato, prodotto collaterale di adattamenti precedenti o sviluppi casuali. Si discute sul numero dei meccanismi psicologici, sulla plasticità del cervello e su quanto gli stimoli ambientali influiscano sull'espressione psicologica dell’individuo e sul suo comportamento.
Secondo il paradigma denominato «Psicologia evoluzionistica», l'opera socio-culturale umana si presenta proprio come il tentativo di risolvere, a un livello sempre più sofisticato, i problemi comuni a tutta la vita animale. Il più importante è la necessità di ottenere il successo riproduttivo. È per raggiungere questo risultato che durante l'evoluzione si sono sviluppati il piacere sessuale e l'innamoramento, fonti primarie dei nostri interessi, delle nostre gioie e dei nostri dolori.
L'idea più seguita è che la psicologia umana non sia espressa tanto dai comportamenti dei singoli individui, molto variabili, quanto dai meccanismi psicologici che forniscono i prerequisiti dei comportamenti. Sarebbero questi a essersi formati nel corso dell'evoluzione e a venire poi configurati dall'ambiente culturale, in particolare nella prima infanzia. Questa doppia determinazione biologica e culturale significa che aspetti prima ritenuti di origine esclusivamente culturale, come la morale, il linguaggio, la razionalità e la bellezza, hanno invece radici biologiche comuni che sono alla base della mente umana.
L'importanza della psicologia collettiva è tale da caratterizzare lo stesso concetto di specie. Alcuni animali, come il cane, formano una specie a sé non per l'impossibilità di generare prole feconda con le specie più vicine, ma per differenti comportamenti, capacità e interessi. In breve, per la diversa psicologia che rende impossibile per i cani vivere nell'ambiente dei lupi, adottando il loro stile di vita, e viceversa. Se le varie specie animali sono caratterizzate da una medesima psicologia condivisa, non si comprende perché per gli esseri umani dovrebbe essere differente, come sostengono varie correnti psicosociologiche e psicodinamiche.
In generale, le ricerche sull'evoluzione della mente portano a conclusioni che evidenziano più fattori psicologici strutturali di somiglianza tra gli esseri umani, nonostante le molteplici culture di provenienza, che non differenze. Le diversità comportamentali fra gli appartenenti alle varie culture sono pertanto superficiali e derivano da una sovrapposizione educativa e ambientale che non riesce a eliminare la possibilità per gli esseri umani di riconoscersi e comunicare su valori psicologici comuni.

La Stampa TuttoScienze 2.3.11
La follia oltre re Giorgio
Gli “strani casi” che svelano gli interrogativi sull’autismo
di Giovanni Nucci


Giorgio Guglielmo Federico di Hannover (1738 – 1820) è stato re di Gran Bretagna e Irlanda. Nel 1765 cominciò a dare segni di squilibrio mentale: sull'origine della sua follia sono state avanzate diverse ipotesi. Secondo alcuni potrebbe essere stata una conseguenza della porfiria

L’unico che sembra avere una chiara percezione di quanto il regno di Danimarca sia profondamente corrotto, e quindi falso, è Amleto. E il regno, per proteggersi dalla minaccia che il principe rappresenta, lo addita come pazzo. Ma Amleto è davvero pazzo? Perché le premesse almeno all'apparenza ci sono tutte: visione di un fantasma del padre sui bastioni del castello, cogitamenti filosofici sull'esserci o il non esserci in quanto tali. Ora, la via d'uscita che sceglie Amleto è quella della finzione letteraria. Il che spiega un sacco di cose piuttosto interessanti sul piano delle malattie mentali.
D'altronde, considerando i limiti apparentati ai confini, ne viene fuori che, scrutando la malattia della mente, se ne può scorgere l'essenza: è come dire che la distorsione può mostrare la linearità potenziale. Ma questo spiega anche l'incredibile fortuna letteraria della follia, in generale, e dell'autismo (che ne è, per così dire, una delle migliori espressioni) in particolare. Da una parte perché l'obbligo di una prospettiva inusuale rende l'affetto da autismo un personaggio ideale: quale punto di vista migliore sulla corte inglese che la follia di Re Giorgio? E in secondo luogo perché la letteratura procede nello stesso modo: parte dai limiti del linguaggio, cioè dalle sue ambiguità, per mostrarne l'essenza, si muove dai confini del mondo per poterne descriverne la totalità. Così il Re Giorgio di Allan Bennett («La pazzia di re Giorgio», Adelphi) non si limita a raccontare la corte inglese, ma sconfina un po' in tutti i sistemi di potere. O come il racconto di Mark Haddon, «Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte» (già vincitore del premio Merck Serono nel 2004), più banalmente, certo, di Bennett o di Shakespeare, non mostra la follia del giovane protagonista autistico, ma la follia della società che il protagonista si trova, suo malgrado, a dover affrontare.
L'interesse scientifico di tutto ciò sembra, sinceramente, sfuggire. In realtà - come scopriranno i partecipanti al concorso «La Scienza Narrata» - è alla scienza che sfugge la comprensione della malattia mentale, e dell'autismo in particolare. E questo, probabilmente, perché la scienza si muove a partire dalle regole, e non dai limiti, o dalle eccezioni. Questo viene chiaramente mostrato dal bellissimo libro di Paul Collins, «Né giusto, né sbagliato» (Adelphi). Il commovente racconto di come due genitori scoprono, vivono, e poi accettano la diagnosi di autismo per il loro figlio Morgan, viene alternato al racconto della storia dei vari tentativi perlopiù disperati da parte della la scienza di spiegare, e comprendere, l'autismo. Le vicende di Peter ragazzo selvaggio nella Londra del settecento, le difficoltà di Freud a capire con cosa avesse a che fare, gli studi (e le cantonate) di Bettelheim negli Anni 60, nonché una serie di microbiografie degli autistici più celebri, o misconosciuti, che hanno attraversato la nostra storia, senza che noi probabilmente neanche ce ne rendessimo conto. Collins non lo postilla, ma Amleto, se era matto, era senza dubio autistico.

Corriere della Sera 2.3.11
E l’Amleto dell’antica Roma fondò il primato della legge
Così Bruto pose fine alla tirannia di Tarquinio
di Andrea Carandini


N el mondo antico gli ordinamenti delle città stato non erano votati da assemblee costituenti, ma dati da fondatori legislatori, in origine figure eroiche, semi-divine, come Romolo e Servio Tullio. Nei suoi primi 244 anni, Roma ha conosciuto tre fondatori, ai quali dobbiamo l’ordinamento secolare della città: Romolo (750 a. C. circa), Servio Tullio (550 a. C. circa) e Bruto (509 a. C.). Il potere costituente è per definizione arbitrario, dovendo istituire un ordine nuovo. Infatti i tre fondatori di Roma si autonominarono, ma fra Romolo e Servio Tullio i re Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio e Tarquinio Prisco — quest’ultimo non più un latino o sabino ma un greco-etrusco — furono re costituzionali, che erano affiancati da un consiglio e da un collegio sacerdotale e che governavano davanti a una assemblea popolare, assai reattiva. È questa la costituzione «mista» di Roma— un poco regia, un poco aristocratica e un poco democratica— che aveva il compito di garantire, subito dopo le fondazioni, la scomparsa dell’arbitrio e il bilanciamento tra i poteri. La costituzione di Servio Tullio sarà la costituzione che la Repubblica erediterà, salvo l’ingombrante e amata figura del fondatore, il quale infine avrebbe voluto riconsegnare l’imperium al popolo che glielo aveva dato. Ma non andò così. Come già Tarquinio Prisco, che tentò di aggiornare la costituzione di Romolo, Servio Tullio morì ammazzato, perché aveva sconvolto l’ordinamento tradizionale e voleva instaurare la Repubblica. Ad ucciderlo fu un nipote di Tarquinio Prisco, Tarquinio il Superbo, che nel 534 a. C. fondò per la prima volta una tirannia non costituente, totalmente arbitraria, aborrita da tutti i romani e dotata di volontà di potenza illimitata. Creò infatti un piccolo impero, anche oltre il Lazio, invadendo la Pianura Pontina, Eldorado di cereali, necessari a nutrire i poveri romani asserviti ai lavori pubblici: dalla Cloaca Massima al Tempio di Giove, Giunone e Minerva sul Campidoglio. Bastarono i venticinque anni del Superbo per inculcare ai romani terrore e odio per i tiranni. Accadde così che un finto idiota fondasse la Repubblica, ispirandosi all’ultimo volere di Servio Tullio. Ma chi era il finto idiota? Era una figura che ci ricorda Amleto, il finto pazzo che tramò una vendetta. Apparteneva alla famiglia dei Giuni, ma da parte di madre era un Tarquinio anche lui. Tarquinio il Superbo, che aveva preso il potere con il terrore, aveva ucciso suo padre e suo fratello, ma lui, ancora piccolo, era stato risparmiato. Chi suggerì al bambino di fingersi idiota per sopravvivere? La favola di una tata? Saputo del giovane parente idiota, il Superbo lo ospitò nella sua casa: con le sue stupidaggini avrebbe trastullato i tre principini. Un giorno lo scemo raccolse piccoli fichi immaturi caduti in terra, immangiabili, e li deglutì conditi di miele... Ma negli intervalli della finta insania, il giovane Giunio, soprannominato a corte Brutus, che significa «idiota» , imparava tutto della vita e del potere, chiuso negli «atri odiosi di un re crudele» (come Marziale descriverà la Domus Aurea del tiranno Nerone). Roma era allora nella condizione in cui si trovavano nel dicembre scorso l’Egitto, la Libia e la Tunisia. Bastò un evento che la rivolta d’un tratto deflagrò. Sesto, figlio del Superbo, giovane depravato che aborriva le caste donne, stuprò Lucrezia, moglie di suo cugino Collatino. Lucrezia, per sempre insozzata, come allora si riteneva, si uccise, chiedendo vendetta. Era giunto il momento che Bruto attendeva. Rivelò le ragioni della sua idiozia, estrasse il pugnale dal seno della matrona e su di esso lui stesso, il marito, il padre e l’amico Valerio giurarono che avrebbero cacciato i Tarquini da Roma, che la «cosa pubblica» , finalmente libera, sarebbe stata affidata a due consoli, nell’ordine costituzionale di Servio Tullio finalmente resuscitato. I romani votarono concordi la Repubblica e le giurarono fedeltà, anche per i discendenti. Fu il loro primo atto di cittadini liberati dalla monarchia, rivelatasi anticamera della tirannide. Bruto e Collatino furono i primi consoli. Allora per la prima volta la legge fu uguale per tutti, al punto che, avendo i figli congiurato contro il nuovo ordine, Bruto li condannò e li fece decapitare davanti a sé, senza una lacrima. Da allora e per la prima volta bastò essere giudicati anche soltanto «aspiranti» al regno, per essere estromessi dalla comunità e consacrati agli dei. Al contrario della democrazia ateniese, che finì come un potere assoluto dei più e non durò più di tre o quattro generazioni, la Repubblica di Roma durò quasi mezzo millennio, fino al principato di Augusto. Tutti i repubblicanesimi successivi, dai Comuni medievali alla Repubblica francese, si ispirarono a Roma, per cui Bruto divenne il simbolo universale della libertà. La costituzione mista repubblicana offrì il massimo di garanzie possibili prima dell’invenzione dei poteri divisi ed arbitrati da un capo dello Stato neutrale, che sono invenzioni esclusivamente moderne. Ma come la libertà dei moderni (fare nel privato il proprio comodo), definita per la prima volta da Benjamin Constant, si aggiunse— non si oppose— alla libertà degli antichi (praticare le virtù civiche), così il costituzionalismo garantista non sarebbe nato nel Settecento se nella precedente millenaria esperienza dell’Occidente non si fosse consolidata l’idea che la legge deve essere più forte anche dei più forti cittadini e che l’aspirare ad essere più forti della legge è un tradimento dello Stato. Ecco allora che la figura di Bruto, oggi trascurata, torna ad ispirarci. Non abbiamo forse bisogno, oltre ai comodi privati, di patria e di virtù repubblicane? La storia insegna che a minacciare la libertà di tutti non sono solo gli uomini arbitrari già arrivati al potere, ma anche coloro che aspirano a una signoria, seppure in un quadro formalmente repubblicano. Oltre al potere arbitrario dobbiamo pertanto temere anche il potere enorme, con il suo seguito di genuflessioni e favori.

Corriere della Sera 2.3.11
L’arbitro Abelardo così affrontò la contesa tra i monoteismi
Lo sforzo di conciliare fede e ragione
di Luigi Accattoli


A ll’inizio di luglio del 1141 Pietro Abelardo, in cammino verso Roma, giunge in Borgogna, nella grande Abbazia di Cluny. A Sens un concilio dei vescovi di Francia l’ha condannato come eretico ed egli si è appellato al Papa e per questo sta viaggiando verso l’Italia. Mentre sosta nell’Abbazia gli arriva la notizia che il papa Innocenzo II ha ratificato la condanna di Sens, l’ha scomunicato e gli ha imposto l’obbligo di «tacere per sempre» . Abelardo rinuncia al viaggio a Roma e muore a Cluny nove mesi più tardi, il 21 aprile 1142, di scabbia o di leucemia, riammesso in extremis nella comunione cattolica. Nei mesi passati a Cluny osserva il silenzio che gli è stato imposto, ma la sua intenzione non è quella del «perpetuo silenzio» , perché viene componendo l’ultima sua opera, la più matura e sinfonica, conciliante filosofia e teologia, Grecia, Gerusalemme e Roma: Dialogus inter Philosophum, Judeum et Christianum, ripubblicato ora dal «Corriere» nei «Classici del Pensiero Libero» , con il titolo Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano e la prefazione di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri. Dialogo immaginario, protagonisti che egli aveva dentro di sé e riusciva a far parlare con pari dignità. Opera incompiuta— Abelardo muore che la sta ancora dettando— essa è come un battello affidato un giorno al mare aperto e che ancora viene tracciando la sua rotta, nella mente di chi lo legge. «In una visione notturna vidi tre uomini che arrivavano per sentieri diversi» : è l’incipit affabulante del Dialogo. I tre si presentano ad Abelardo e l’informano che dopo aver «discusso a lungo» sulle rispettive fedi hanno deciso di ricorrere al suo «giudizio» . Qui dunque il maestro assume un ruolo super partes. Per nulla in dubbio sulla validità della propria dottrina, egli insedia se stesso come arbitro nel conflitto delle fedi e fa dire al filosofo del Dialogo: «Sappiamo che tu conosci bene sia la forza delle argomentazioni filosofiche, sia i fondamenti di entrambe le leggi» . Sempre quel filosofo più avanti afferma che a fare di Abelardo un arbitro «in grado di risolvere questa nostra contesa» sono tutti i titoli e la fama conquistati sul campo e c’è per ultima «quella tua mirabile opera di teologia che l’invidia non potè sopportare» . Allude al trattato Theologia Christiana, scritto nel 1132-34, dal quale gli avversari avevano tratto le proposizioni per le quali era stato scomunicato. Egli non riconosce valida la condanna. Non solo perché il suo ultimo protettore, l’ecumenico Pietro di Cluny, detto «il Venerabile» , gli ha aperto le porte dell’Abbazia e si è adoperato per la cancellazione della scomunica presso il Papa. Non la riconosce valida perché ritiene di non essere stato capito ed è sicuro che sarà riabilitato dai posteri, come infatti è stato. Orgoglioso e a volte temerario, Pietro Abelardo si segnala per una disposizione naturale alla disputa ed è tra i primi a istruire il metodo scolastico del vaglio di ogni opinione in campo prima di dare soluzione a una quaestio disputata (questione discussa). Antesignano in questo di Tommaso d’Aquino e del suo grandioso impegno a fare della teologia una scienza con un pieno statuto metodologico. Anticipatore di Tommaso egli è anche per il rapporto equilibrato che propone tra filosofia e teologia, in dialettica con la tendenza dei teologi mistici guidati da Bernardo di Chiaravalle, che fu il suo avversario. Di che apertura alare fosse capace il raziocinio di Abelardo lo si intuisce dalle pagine in cui mette in bocca all’ebreo— nel Dialogo— un’appassionata difesa della propria stirpe: «Non si sa di nessun altro popolo che abbia sopportato tante prove in nome di Dio quante noi ne sopportiamo continuamente» . Morto Abelardo a Cluny, Pietro il Venerabile ne manda il corpo a Eloisa, che ora è monaca ma che era stata sua allieva, amante e sposa e gli aveva dato un figlio di nome Astrolabio. Per l’audacia di quell’amore, Abelardo era stato evirato da tre sicari inviati dallo zio di lei Fulberto. Morta anche lei — due decenni più tardi — i due vengono uniti nella stessa tomba, che è anche oggi visibile nel cimitero del Père Lachaise a Parigi.

Corriere della Sera 2.3.11
Gli abusi dei governi (e i possibili antidoti) secondo Montesquieu
Come tutelare i diritti dell’individuo
di Dino Cofrancesco


Sono almeno tre le opere che hanno reso famoso Charles-Louis de Secondat, Barone de La Brède et de Montesquieu: le Lettere persiane (1721), le Considerazioni sulle cause della grandezza e della decadenza dei Romani (1734) e Lo spirito delle leggi (1748). La prima è una satira politica raffinata dell’Europa del primo Settecento, vista con gli occhi di due viaggiatori persiani, Rica e Usbek; la seconda è un’analisi non poco impegnativa delle ragioni che determinarono il crollo dell’impero romano, un tema particolarmente sentito nel Settecento — solo che si pensi alla monumentale Storia della decadenza e della caduta dell’impero romano di Edward Gibbon e, in Italia allo Zibaldone di Giacomo Leopardi, che cita a ogni piè sospinto le Considerazioni; la terza, infine, potrebbe definirsi una vera e propria cattedrale del concetto: innanzitutto, per la sua ambizione teorica, quella di fornire una nuova, complessa ed esauriente, teoria politica e in secondo luogo, per l’approccio decisamente «realistico» , che coniuga la ragione illuministica col richiamo all’esperienza della scuola inglese e scozzese. Sono molti i temi ricorrenti nelle opere summenzionate, ma anche in altre come le Riflessioni sulla monarchia universale in Europa (1734) e i Pensieri (sabato in edicola con il «Corriere» ): dalle forme di governo al potere e ai modi per limitarlo, dal rapporto libertà/legge all’etica cosmopolitica. L’asse portante del pensiero montesquiviano è l’ «esperienza eterna, che ogni uomo, il quale ha in mano il potere, è portato ad abusarne, procedendo fino a quando non trova dei limiti» , con il suo derivato: «Perché non si possa abusare del potere bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere» . È il fondamento antropologico di quella teoria dei «freni e contrappesi» che Montesquieu vedeva alla base della costituzione inglese e alla quale volle dare una sistemazione concettuale rigorosa con la divisione dei poteri— legislativo, esecutivo, giudiziario— sulla cui apparente chiarezza e reale complessità ha richiamato l’attenzione Giuseppe Bedeschi nella prefazione ai Pensieri in edicola con il «Corriere» . Da due secoli si vede nel barone di La Brède un esponente del liberalismo «moderato» , se non del conservatorismo, e quindi un maître-à-penser da mettere «in soffitta» . Fu Benjamin Constant— e prima di lui illuministi come Condorcet— a far rilevare l’aspetto premoderno del suo pensiero. «Quello che mi importa— si legge nei Principi di politica (1806)— non è che i miei diritti personali non possano essere violati da un certo potere, senza l’approvazione di un altro potere, ma che questa violazione sia interdetta a tutti i poteri» . In sostanza, è indifferente che sia affidato a uno solo o a pochi o a molti un governo che possa mettere le mani su tutto. La critica investe la stessa definizione di libertà come «diritto di fare tutto quello che le leggi permettono» correlato alla «sicurezza» o all’ «opinione che si ha della propria sicurezza» . Anche qui il mero rispetto della legge eliminerebbe la violenza arbitraria e imprevista, ma non quella legale, che potrebbe essere fortemente lesiva dei diritti individuali. Oggi la ripresa di tali obiezioni costituisce il segno di un liberalismo imprigionato nella «teoria normativa» e incapace, per diffidenza verso lo storicismo, di fare i conti con la «realtà effettuale» e di vedere come Constant e Montesquieu si ponessero su piani diversi, ma complementari. La preoccupazione del primo era: cosa può fare il governo e da cosa deve astenersi se si vogliono salvaguardare i diritti dei cittadini; la preoccupazione dell’altro era: quali sono le costellazioni di potere che garantiscono de facto che quei limiti non vengano superati. Per il liberale Montesquieu, scrive Raymond Aron, «lo scopo dell’ordine politico è quello di assicurare la moderazione del potere con l’equilibrio dei poteri» . Nell’Inghilterra del XIII secolo si aveva un bel parlare di «libertà civile» : se i Comuni non avessero potuto contare sulla potenza dei baroni, non si sarebbe avuta la Magna Carta. Nel liberalismo di Montesquieu s’intravvede l’ombra di Machiavelli, che il buonismo imperante vorrebbe esorcizzare.

Corriere della Sera 2.3.11
Lorenzo Lotto
Gli enigmi dei ritratti che trasfigurarono l’arte in psicologia
di Carlo Bertelli


Il primo ritratto che conosciamo di Lorenzo Lotto è quello di Bernardo de’ Rossi di San Secondo, vescovo di Treviso. È il 1504. Due anni prima il vescovo ha subito un attentato ispirato da quanti — Girolamo Contarini, che rappresenta la Serenissima, tra gli altri— resistono alla sua strenua difesa delle prerogative della chiesa trevigiana. Il vescovo è visto dal basso, sullo sfondo di un drappo d’onore di velluto verde al di sopra del quale si delinea una striscia di cielo. La luce radente attraversa i suoi trasparenti occhi azzurri e scende a registrare uno per uno tutti i bottoni dell’abito talare, per arrestarsi al pugno che stringe un rotolo di pergamena. Nell’indice è l’anello con lo stemma del casato. Non sappiamo se Lorenzo Lotto condividesse le intenzioni del vescovo, ma certo il busto che ha dipinto è la rappresentazione di un’autorità inscalfibile. Vi è poi ancora una dichiarazione più esplicita: il ritratto era protetto da una tavola, dipinta sempre da Lorenzo Lotto, che, come in un rebus o in un sogno inesplicabile, enuncia le ambizioni del vescovo: l’albero dei de’ Rossi, stroncato da un fulmine, germoglia di nuovo. La composizione allegorica è del tutto diversa dal ritratto. Non più luci radenti e ombre nette ma un’atmosfera umida, che deve molto a Giorgione. Intanto Lotto ha scoperto una via del ritratto sino allora sconosciuta. Non è più il ritratto documentario, che registra anni e abiti del ritrattato, bensì un’immagine dell’uomo che lo colloca per segni misteriosi nell’universo mondo. È del 1506-8 il ritratto di un giovane sdegnoso, chiuso nell’abito e nel cappello neri, contro un drappo operato bianco orlato di verde. Il drappo è scostato quel tanto che permette di scorgere una lucerna accesa. Una storia ben nota a Venezia voleva che un’icona di Gesù, che i Greci avevano nascosto in una nicchia nel- le mura di Edessa, onorandola con una candela accesa, si era miracolosamente riprodotta grazie a quella luce. È del miracolo della pittura che ci vuol parlare questo ritratto impenetrabile d’un giovane sconosciuto? Poco dopo Lorenzo Lotto si trovò a Roma, a lavorare con Raffaello nelle stanze vaticane. Dovette essere lui a far conoscere a Raffaello le grandi novità della pittura veneziana (come spiegare altrimenti la Roma in fiamme nella Stanza di Eliodoro?), mentre Raffaello, affidando a lui di finire gli arazzi nella volta della sala, gli apriva la strada alla prossima avventura: il disegno delle tarsie di Santa Maria Maggiore a Bergamo. Sarebbe stata la più appassionata e continua invenzione di enigmatiche imprese di tutto il Cinquecento. Ormai l’esplorazione delle psicologie, nei ritratti di Lorenzo Lotto, è inseparabile dal dispiegamento di enigmi, come nella luna che accompagna Lucina Brembati. Nello stesso tempo, il tono sommesso del doppio ritratto di Giovanni Agostino e Nicolò della Torre, se confrontato con il ritratto del vescovo de’ Rossi, ci pone davanti alla nuova clientela del Lotto: non vescovi, né papi, non principi né condottieri, ma un mondo di provincia, percorso dai nuovi turbamenti delle coscienze provocati dalla Riforma. Davvero, che cosa penserà Elisabetta Rota, mentre ha la visione del congedo di Gesù dalla Madre? Come van Gogh dipingeva il ritratto del postino, così Lotto ritrae il proprio padrone di casa o la melanconica dextrarum iunctio di Marsilio Cassotti e della moglie Faustina. Il giogo che un cupido maliziosamente sorridente impone agli sposi non sembra leggero. Nel 1527 i 10 ducati per il ritratto di Andrea Odoni, il colto e facoltoso collezionista, amico dell’Aretino, con casa affrescata da Girolamo da Treviso, segnano la grande diversità tra Venezia e la provincia. Con gesto eloquente, Odoni ci mostra una statuetta di Artemide Efesia, che allora passava per un’allegoria della Natura. Le anticaglie raccolte sono un’evasione e un rifugio. Il volto non esprime il soddisfatto orgoglio del fortunato collezionista, ma una malinconia invincibile. Nel ritratto d’un giovane aristocratico, sempre eseguito a Venezia, le cedole chiuse e il libro dei conti spalancato, le chiavi abbandonate sul forziere, sembrano indifferenti a colui che è perso in altri pensieri. A lui si rivolge interrogativa una lucertola di bronzo, mentre un anello e i petali d’una rosa sfiorita accennano a una storia che solo lui e Lorenzo Lotto sapevano. Della modernità di Lotto ritrattista ha dato testimonianza Giulio Paolini, che ha intitolato un ritratto giovanile del Lotto giovane che guarda Lorenzo Lotto, cogliendovi quel colloquio infinito tra pittore e modello che è il segreto dei suoi ritratti.

Repubblica 2.3.11
La versione di Giuda
Il grande traditore come specchio dell’uomo
di Gabriella Caramore e Gustavo Zagrebelsky


Anticipiamo un estratto da Giuda – Il tradimento fedele (Einaudi)
La controversa figura dell´apostolo è il tema di un saggio sotto forma di dialogo tra il costituzionalista e la studiosa di teologia
"Si presta a interpretazioni diverse: denuncia il ‘giusto´ per mero danaro, ma è anche il capro espiatorio, coadiutore di Dio nell´opera di salvezza"
"Agisce avvolto nell´ombra e, a differenza di altri dei dodici, non pare desideroso di farsi notare. I Vangeli gli dedicano pochissime parole"

GABRIELLA CARAMORE. Innanzitutto, perché "Giuda"? Da dove nasce il suo interesse personale per quell´"uno" dei dodici che tradì Gesú?
GUSTAVO ZAGREBELSKY. La domanda è coinvolgente e, in certo senso, intima. Ricordiamo entrambi il momento in cui l´idea di parlare di Giuda ci parve promettente, per un dialogo su cose importanti. Non immaginavo che l´attenzione sarebbe finita per spostarsi da una vicenda di duemila anni fa, intrecciata col processo e con la morte di Gesù di Nazareth, a un´interrogazione su noi stessi. Come per tutte le grandi narrazioni bibliche, è però inevitabile che questo accadesse anche per la figura di Giuda. Così, lei ora mi chiede perché è interessante per me. Il che significa proporre Giuda come uno specchio in cui siamo invitati a guardarci senza nasconderci ciò che vediamo, cioè a non mentirci. Naturalmente, la risposta – anch´essa – è "per me", cioè valida per me. Per altri, non saprei. Diano la loro risposta.
Credo di poter dire così: si tratta innanzitutto del fascino del personaggio che si è cucito, o al quale è stato cucito addosso, l´abito dell´abiezione. L´abiezione ci porta alla conoscenza più autentica dell´essere umano. Ricorda l´uomo del sottosuolo dostoevskjiano? Quando sinceramente ci si rivela nell´abiezione, si è senza dubbio più sinceri, e quindi interessanti, di quando ci si mostra nel nostro lato più pulito, degno di stima e considerazione. Chi indossa o colui al quale è fatta indossare una divisa da santo è di solito più artefatto, se non addirittura falsificato, di chi si rivela nella sua bassezza. Non che manchi anche un esibizionismo dell´abiezione, ma certo Giuda non può essere accusato di questo. Nessuno dei suoi gesti è descritto come se fosse stato compiuto per essere notato, per fare scandalo, per passare alla storia. Altri, tra i dodici, indulgevano talora alla vanità. Giovanni, per esempio, anche a giudicare da quel che dice di sé nel suo Vangelo, doveva essere un grande vanesio. Giuda, il contrario. Nessun beau geste da parte sua, non nel bene e nemmeno nel male. Non vuole lasciare un´impronta di sé, non cerca di diventare un eroe agli occhi di chi gli sta attorno, o semplicemente di assumere e rappresentare una sua parte in una "storia". Agisce avvolto nell´ombra e, a differenza di altri dei dodici, non pare affatto desideroso di farsi notare. È così appartato che i Vangeli, al di là della vicenda del tradimento di cui è protagonista, gli dedicano pochissime parole alquanto insignificanti, oltre che non certo lusinghiere. La sua morte è un suicidio disperatamente solitario. Sarà pure un caso di damnatio memoriae da parte degli altri seguaci di Gesù, registrata dai Vangeli per ragioni dettate da esigenze di fondazione della fede e coesione dei fedeli. Ma questa mancanza di esibizione conferisce indubbiamente al suo profilo il pregio dell´autenticità. In certo senso, dobbiamo dargli credito. Almeno questo, povero Giuda! Perciò, come ogni figura dell´autenticità umana, anch´egli ci interpella immediatamente. E, anche se l´interpello si manifesta nell´abiezione, ci pone tuttavia di fronte a una possibilità che dobbiamo riconoscere essere implicita nella nostra condizione di esseri umani.
Ecco un primo motivo per fermarci a riflettere un poco sulla sua figura, direi: sulla "maschera" che ci è offerta di lui, indipendentemente dalla questione della veridicità storica della sua vicenda, una questione che, in effetti, è stata sollevata. Credo che nel corso di questa conversazione ci accadrà di parlare di un "Giuda, fratello nostro". Ecco, allora, la risposta alla sua domanda: un nostro "doppio" che ci svela un lato di noi che non amiamo vedere e, tanto meno, mettere in mostra.
CARAMORE. Torniamo ancora per un momento a considerare l´abiezione. È vero che i personaggi negativi incuriosiscono più di quelli positivi, ma, prescindendo dall´interesse morboso, qui ci troviamo di fronte a un tipo di abiezione particolare: il tradimento. Giuda è un "traditore", anzi "il" traditore. E il tradimento è una forma sottile, nascosta, di abiezione.
ZAGREBELSKY. Sì. Il tradimento è sempre nascosto. Il traditore si dissimula. Agisce in modo tale che il tradimento non traspaia, tramite la simulazione dell´amicizia e della fedeltà. Anche in questo il racconto del tradimento di Giuda assume un andamento simbolico attraverso il bacio, il bacio del traditore. Nessun altro segno sarebbe stato altrettanto efficace, nella costruzione del paradigma del traditore come figura d´ipocrisia. Naturalmente, anche il bacio, come ogni altro elemento della narrazione evangelica, si presta a interpretazioni diverse. Sarà necessario ritornarci. Quello anzidetto è solo il significato, per così dire, più facile, e forse anche banale.
CARAMORE.E quello più profondo? Più difficile? Quello che ci fa guardare alla figura di Giuda come all´abisso che si nasconde in ciascuno di noi?
ZAGREBELSKY. Perché il tradimento di Giuda non potrebbe parlare a noi di noi? Forse perché si tratta del tradimento del giusto per eccellenza, del figlio dell´uomo o del figlio di Dio, in una vicenda svoltasi duemila anni fa che, secondo la fede cristiana, è irripetibile? Forse perché il "tradimento" di Giuda assume significati che trascendono gli accadimenti puramente umani, significati che nessun nostro tradimento potrebbe avere? I Vangeli, però, non parlano della passione e della morte di Gesù come eventi interamente guidati dal soprannaturale. Perciò gli esseri umani che vi compaiono, non operano come marionette mosse dall´alto, su un palcoscenico che non potrà mai più essere allestito.
Le grandi figure e le grandi vicende bibliche si prestano così a interpretazioni su piani diversi. La stessa cosa è anche per Giuda. Ai lati estremi, mi pare si possa dire, c´è l´interpretazione di lui come uno degli intimi del Signore, divenuto sordido traditore del "giusto" per mero danaro. Al lato opposto, troviamo l´identificazione in lui dell´atteggiamento dell´umanità intera, di fronte al divino che entra nella storia. In mezzo, sta l´immagine della disperazione, del capro espiatorio del primo gruppo di discepoli, dell´uomo posseduto da satana, del rappresentante del popolo ebraico nel rifiuto del messia, oppure dell´amico di Gesú, suo complice, del coadiutore di Dio nell´opera della salvezza, dell´iniziato alla conoscenza delle verità ultime...: una gamma d´interpretazioni, talora anche contraddittorie, che portano con sé giudizi diversi, nella quale la fede conta solo parzialmente. È difficile non trovarvi un posto anche per noi. Naturalmente, la figura dell´abiezione, con quella connessa della disperazione, è la più facile da comprendere e quindi la più diffusa. Non per questo, però, è la più banale, almeno per chi creda che ci sia più verità nell´abiezione e nella disperazione che nella santità e nella pacificazione con se stessi.

Repubblica 2.3.11
"La scoperta del mondo", autobiografia di Luciana Castellina
Quell’adolescenza tra i Parioli e il Pd
Diario antieroico degli anni 1943-48 vissuti tra arte, feste, incontri, viaggi e impegno
di Simonetta Fiori


Un diario può rivelare molte cose, specie se riaffiora quasi settant´anni dopo dal cassetto di una protagonista irregolare della sinistra italiana. Quaderni annotati da un´adolescente tra il 1943 e il 1948, quando il mondo cambiava faccia e la storia non rinunciava ai suoi colpi di scena. Ma quello di Luciana Castellina è un racconto antieroico, che ritrae un´educazione sentimentale nutrita di passioni, curiosità e leggerezza del vivere, a tratti anche svagata e frivola. E nel confronto con tanti mémoires al maschile anche bellissimi - in cui l´autore sembra sapere sempre tutto, governa fino all´ultimo le proprie scelte - qui prorompe quella sincerità spietatamente femminile nel definirsi ignare e inadeguate rispetto agli appuntamenti della storia. «A me innanzitutto il Pci ha evitato di restare stupida», annota l´autrice nelle ultime pagine. Solo una donna poteva scriverlo, o almeno scriverlo così. La scoperta del mondo, che sarà presentato oggi a Roma alle 18 al teatro Tordinona da Alfredo Reichlin e Nichi Vendola, è stato candidato al premio Strega (nottetempo, pagg. 296, euro 16,50).
Quello di Luciana Castellina è un percorso anomalo, figlia d´una famiglia borghese di radice ebrea, cresciuta nel conformismo dei Parioli insieme a una madre molto poco conformista, Lisetta, a sua volta segnata dall´eccentricità della Mitteleuropa triestina. Cospiratore antiaustriaco il nonno materno Adolfo Liebman, compagno d´avventura di Oberdan; famiglia della microborghesia milanese laica e socialista, quella dei Castellina, che però ha meno influenza. Se la vita è l´arte dell´incontro, l´adolescente Luciana sa coltivarla con sapienza, ma soltanto molto più tardi riuscirà a trovarne il senso.
La fine del fascismo, il 25 luglio del 1943, la sorprende a casa Mussolini, a Riccione, dove sta giocando a tennis con la sua compagna di classe Annamaria, primogenita del Duce. La Resistenza, per lei, è solo un messaggio nascosto sotto le suole dello zio Memmo. I volontari di Salò non le paiono tremendi ma solo malinconici. Bisogna aspettare il suo ingresso nel ´44 a casa Apicella perché la ragazza dei Parioli guardi con occhi diversi comunisti e azionisti. E poi la scoperta dell´arte, di Mafai e Guttuso; e quella lezione su Picasso al Tasso, su incarico del Pci, che sarà il suo primo gesto politico. Arriveranno presto i primi viaggi a Parigi e Praga, la costruzione della ferrovia nella Jugoslavia di Tito, il lavoro nelle periferie, l´incontro con gli intellettuali dell´Unità, tra cui il futuro marito Alfredo Reichlin. Ma la Castellina non tralascia di annotare anche la fatuità della sua vita festaiola tra il ´45 e il ´46, le serate in maschera dove lei vestita da finlandese viene "comprata" dal giovane Carlo Aymonino. O la civetteria esercitata con Roger Vadim, futuro marito di Jane Fonda. Si deve essere divertita, e anche molto, l´autrice di questo diario. Negli anni di Botteghe Oscure l´avrà vissuta come una colpa. Oggi che può raccontarlo, ostenta imbarazzo, ma sotto sotto ne gode.
Come tutte le memorie di quella generazione, nata tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, anche La scoperta del mondo può indurre in lettori più giovani un´inconfessabile invidia. Epoca di ferro e fuoco, ma anche stagione di passioni e furori, in cui la felicità individuale coincide con la felicità collettiva. Una condizione negata alle generazioni che seguono, come scrive nell´introduzione anche la figlia Lucrezia Reichlin. Felicità doveva essere il titolo del diario. Poi ne hanno scelto un altro, forse per non esagerare.