domenica 6 marzo 2011

l’Unità 6.3.11
Le firme anti-premier portate a Palazzo Chigi dalle donne del Pd
L’8 marzo sul palco anche la leader dei Democratici tunisini Letta: «Tentano di delegittimarci ma con noi milioni di italiani» Bersani vuole proseguire la mobilitazione fino alle amministrative
di Simone Collini


Berlusconi? Ben Ali gli fa un baffo». Pier Luigi Bersani l’aveva detto, a fine gennaio, giusto nelle stesse ore in cui annunciava che il Pd avrebbe raccolto dieci milioni di firme per chiedere al premier di farsi da parte. E l’8 marzo, quando Rosy Bindi, la portavoce delle Democratiche Roberta Agostini e le altre donne della segreteria entreranno a Palazzo Chigi per portare una parte degli scatoloni contenenti le sottoscrizioni alla petizione «Berlusconi dimettiti», dal palco che sarà allestito nella vicina Piazza di Pietra parlerà anche Maja Jribi: non tanto perché donna, ma in quanto segretario del Pdp (Parti dèmocratique progressiste) che muovendosi in sintonia con la società civile tunisina ha costretto all’esilio Ben Ali.
Bersani parlerà dopo di lei, sfidando ad andare al voto un presidente del Consiglio che «è giudicato un grave impedimento per il Paese dalla maggioranza degli italiani». Il leader del Pd sa che il capo del governo ora può contare in Parlamento su una maggioranza che gli consente di evitare le elezioni anticipate, ma è anche convito che le amministrative di maggio possono dare una scossa di cui dovrà tener conto.
La mobilitazione per le firme anti-premier è la prima parte di questa campagna elettorale, che Bersani vuole giocare sul doppio valore del voto: «Per le città e per il Paese». E a poco servirà, nel suo ragionamento, l’attacco all’iniziativa portato dai vertici del Pdl e da quotidiani come “Libero” e “il Giornale”. Le firme false inserite on-line? Dice il vicesegretario del Pd Enrico Letta: «La sostanza è che ci sono milioni e milioni di firme di cittadini italiani determinati a mandare a casa Berlusconi nonostante l’azione di alcuni, che hanno cercato di delegittimare questa operazione». Se poi ci sono dubbi espressi da dirigenti del Pd, come il vicepresidente del partito Ivan Scalfarotto («raccogliere 10 milioni di firme non può essere l’unico modo che abbiamo per rappresentare l’indignazione degli italiani») o il sindaco di Bari Michele Emiliano («Berlusconi se ne frega delle nostre firme»), una risposta arriva dal capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini: «C’è un’opposizione in Parlamento, che stiamo facendo in modo determinato e propositivo, ma c’è anche una mobilitazione della società civile che deve far sentire la propria voce e deve dimostrare che l’Italia è ancora capace di indignarsi e di reagire».
La raccolta delle firme andrà avanti anche dopo che «le prime milionate» (Bersani dixit) saranno recapitate a Palazzo Chigi perché «dobbiamo continuare a dare agli elettori la possibilità di manifestare la propria volontà dice il responsabile Organizzazione del Pd Nico Stumpo che è la cosa che più ha fatto impazzire Berlusconi e i suoi accoliti». L’altra occasione che avranno sarà a metà maggio, quando andranno alle urne 13 milioni di italiani.

l’Unità 6.3.11
Sotto la pioggia Tutti intorno al monumento simbolo: un atto d’amore per i beni del Paese
Sul palco Susanna Camusso, Concita De Gregorio, Roberto Natale, archeologi e tecnici
Abbracciati al Colosseo per riprenderci la cultura
«Un atto d’amore per la cultura» lo ha definito Susanna Camusso, ieri a Roma per l’abbraccio al Colosseo. Sul palco, oltre alla segretaria di Cgil, Concita De Gregorio, Roberto Natale e tecnici dei beni culturali.
di Luca Del Frà


«La difesa della cultura è una battaglia per la libertà», taglia corto dal palco montato davanti l’arco di Costantino il segretario della Cgil Susanna Camusso. Di fronte a lei, al centro del Foro romano ci sono oltre un migliaio di persone che ieri nella capitale hanno sfidato la pioggia per partecipare all’iniziativa «Abbracciamo la cultura». Una distesa di ombrelli e giustacuori arancioni con sopra stampato il simbolo della manifestazione che ha poi «abbracciato» il Colosseo con una lunga catena umana. Una manifestazione di affetto per la cultura e di rabbia per lo sfacelo che le politiche culturali del Governo Berlusconi, un mix di tagli e demagogia, stanno portando a uno dei beni più importanti del nostro paese.
«Non ci ferma nessuno», aveva esordito poco prima aprendo gli interventi dal palco Concita De Gregorio, di fronte alle centinaia di persone intervenute malgrado il maltempo: al direttore de l’Unità il compito di tessere la tela degli interventi tra loro all’apparenza molto eterogenei perché «Abbracciamo la cultura» nasce dall’iniziativa di una coalizione che ha visto in prima fila la Cgil, l’Arci, Legambiente, Wwf, Assotecnici, Associazione nazionale archeologi e a cui hanno aderito circa un centinaio di associazioni tra cui la Fnsi e Movem09. Mentre anche a Padova, Siracusa, Matera, Selinunte altri simboli della cultura venivano abbracciati, nella capitale l’attrice Benedetta Buccellato parlava di regime senza mezzi termini: «Se il fascismo è durato vent’anni, il regime non di Berlusconi, ma del berlusconismo va avanti da trenta». I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ha spiegato Roberto Natale della Federazione Nazionale della stampa: «Che le ragazze dell’Olgettina siano le stesse che la televisione ci presentava nei talk show è il segno di come si voglia imporre una “cultura”. Oltre ai tagli all’editoria siamo di fronte alla surreale situazione che il primo aprile il presidente del consiglio Berlusconi potrà decidere se la sua azienda di famiglia, Mediaset, potrà comprarsi o no il Corriere della sera». Sul binomio tra cultura e informazione ha insistito anche Camusso: «C’è una cosa che lega le tante piazze del Paese in cui oggi si manifesta per la cultura: la politica del governo è orientata a tagliare gli strumenti che permettono di avere un’opinione propria. Difendere la cultura è dire che vogliamo un paese libero, democratico, in cui si possa partecipare».
Tra la folla Giovanna Melandri, Matteo Orfini e Vincenzo Vita del Pd, che rilancia una legge con il governo: «Per trovare subito i fondi sufficienti a evitare il collasso delle istituzioni culturali italiane, grandi e piccole». Oltre a Giulia Rodano, IdV, Cecilia D’Elia, assessore alla cultura della provincia di Roma.
Dal palco hanno parlato anche archeologi, tecnici del restauro e della manutenzione dei beni architettonici, davanti a una folla che non sembrava spaventata dalla pioggia. In mezzo a loro, con uno striscione pulito e ordinato come vorremmo fossero i nostri musei e siti archeologici ci sono gli «Idonei del Ministero dei Beni Culturali». Spiega una di loro: «Abbiamo vinto un concorso, dovremmo essere assunti per tutelare e illustrare al pubblico i nostri siti e i nostri musei. Ma oggi il ministero non fa assunzioni ed esternalizza tutto».
Non ha dubbi Concita De Gregorio: «Le piazze che si riempiono sono il segno che la gente si è ripresa la delega alla politica, è una responsabilità che è bene si tenga stretta prima che qualcosa cambi nel paese. Le manifestazioni che punteggiano il mese di marzo sono qui a dimostrarlo». La folla si avvia ad abbracciare il Colosseo: i finti centurioni e legionari romani che stazionano davanti all’anfiteatro sono perplessi, poi fanno il tifo anche loro. «Questo è un atto d’amore verso il nostro paese-cosìCamusso-echinonèin grado di capirlo deve andare a casa».

Corriere della Sera 6.3.11
«Spallata fallita»: pressing su Bersani perché cambi strategia
di Maria Teresa Meli


ROMA — No, la spallata, no! Nel Partito democratico ormai sono in molti (da Walter Veltroni a Massimo D’Alema) a non voler più sentire nominare questa parola che di certo non ha portato bene all’opposizione. E sono sempre di più quelli che vorrebbero che il Pd scendesse dal treno del movimentismo spinto (piazza, raccolta di firme e ancora piazza) per ricalibrare la propria strategia. Ma Pier Luigi Bersani non vuole fermare il convoglio in corsa. L’altra mattina, in un’atmosfera di gran riservatezza, l’ufficio di presidenza del gruppo al Senato si è riunito con il segretario. In quella sede Stefano Ceccanti (veltroniano doc) e Paolo Giaretta (Modem in quota Fioroni) hanno spiegato al leader che non si può continuare su questa strada, visto che le elezioni anticipate non sembrano più all’ordine del giorno. Ma anche il vicepresidente del gruppo, Nicola Latorre, ha espresso tutte le sue perplessità: «Così non andiamo da nessuna parte» . Bersani, però, è stato irremovibile: «Non darò nessun contrordine, intanto ora ci sono le amministrative e quindi l’impostazione non cambia» . Avanti tutta, dunque. Anche se persino D’Alema, che ha sempre appoggiato la linea del segretario, non sembra più tanto convinto: il Pd deve ripensare la sua strategia, è il ritornello che i parlamentari a lui vicini gli sentono ripetere sempre più spesso. Anche perché se non si ferma il treno il rischio è che poi si arrivi in qualche modo ad appoggiare i referendum. Con il risultato di regalare un’altra vittoria a Berlusconi, perché, come spiega Ceccanti, «il quorum non è raggiungibile e non lo sarebbe stato nemmeno con l’election day, e, comunque, dopo la sentenza della Corte il quesito referendario sul legittimo impedimento è inutile» . Senza contare che sul referendum il Pd potrebbe facilmente spaccarsi. Comunque, adesso che nel partito è stata appena siglata la tregua interna per le amministrative, nessuno dei leader affonderà più di tanto il coltello nella piaga. Ciò non toglie che le preoccupazioni siano molte. E che sia grande la spinta di chi vorrebbe che si ponessero da parte la piazza e i «no» pregiudiziali e che il partito andasse al confronto in Parlamento anche sulla giustizia, portando le proprie proposte. Per Veltroni il clima da «referendum contro Berlusconi va evitato» e il Pd deve «riscoprire la sua vocazione maggioritaria, la sua funzione di casa comune dei riformisti» , attraverso «un lavoro serio di innovazione culturale e politica» . Per l’ex leader molto probabilmente alle prossime elezioni Berlusconi non ci sarà più ed è quindi necessario rivedere la strategia. Ne è più che convinto un altro dei leader dei Modem, Beppe Fioroni: «Se continuiamo a fare solo dell’antiberlusconismo, finiremo sotto le macerie di Berlusconi. Dobbiamo rinnovare la strategia per dimostrare che siamo un’alternativa di governo. È inutile parlare ancora di spallata se poi Berlusconi non si dimette: diventa controproducente» . Come, del resto, rischiano di tramutarsi in un boomerang le firme raccolte, che martedì prossimo Rosi Bindi porterà a Palazzo Chigi. Dice il sindaco di Bari Michele Emiliano, che pure ha sottoscritto l’appello alle dimissioni sponsorizzato dal Pd: «Mi sento un po’ patetico perché Berlusconi se ne frega delle nostre firme» . E Ivan Scalfarotto, vicepresidente del partito: «Raccogliere le firme non può essere l’unico modo di rappresentare gli italiani indignati» . Più che perplesso Mario Barbi, deputato di rito parisiano: «Tutti i tentativi di spallata sono falliti: una riflessione su questa linea la dovremo pur fare» . Con conseguente cambio di leadership, lasciano intendere al Foglio i veltroniani Morando e Tonini. Ma anche un esponente della maggioranza del Pd, Francesco Boccia, braccio destro di Enrico Letta, ha qualche dubbio sulla linea e l’altro giorno confidava: «Finita la storia delle firme dovremo ricominciare a fare politica» . Il clima è tale da far riemergere lo spettro della scissione. Nei Modem gli ex rutelliani ci stanno pensando seriamente: aspettano le amministrative per decidere. E gli ex ppi della minoranza guardano all’Udc. Bersani, però, tira dritto: «Il frutto politico delle firme lo raccoglieremo alle amministrative» . Già, ma come, si chiede il direttore di Europa Stefano Menichini, che osserva: «Si può vincere a Milano e a Napoli?» . La domanda è retorica, la risposta ovvia.

il Riformista 6.3.11
Quesiti, firme, alleanze
Tregua rotta nel Pd veltroniani all’attacco
di Ettore Colombo

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il Riformista 6.3.11
«Fermiamoci, è più facile vincere all’Enalotto che ai referendum»


l’Unità 6.3.11
Intervista a Farhad Khosrokhavar
«No ai dittatori. Il vento democratico soffia anche in Libia»
Il sociologo franco-iraniano: «Il filo comune che lega le rivolte nel mondo musulmano è il rifiuto del potere autoritario. Non sarà risparmiato il regime di Teheran»
di Anna Tito


Enunciati giorni fa sul «Nouvel Observateur», per Farhad Khosrokhavar sono ben nove i pilastri dei movimenti democratici che fanno tremare il mondo musulmano, e non solo: il carattere secolarizzato delle rivolte: componente religiosa inesistente o marginale; la rivendicazione della dignità del cittadino, non più sacrificata sull’altare dell’Islam; il rifiuto dell’anti-occidentalismo assoluto; una maggiore accettazione della parità dei sessi, grazie alla partecipazione delle donne, in quanto cittadine, alle rivolte in corso; l’emergere delle nuove classi medie, impoverite per via delle politiche liberali a partire dagli anni ’70; l’assenza di una leadership vera e propria; il ricorso alle nuove tecnologie della comunicazione, che ha permesso ai contestatori di comunicare con un pubblico allargato e globalizzato; un nuovo panarabismo: non più antisraeliano, antidemocratico, antimperialista e terzomondista, ma ormai riconciliato con l’esigenza di democrazia; la rivendicazione della giustizia sociale: la «rivolta della fame» all’origine della richiesta di un prezzo calmierato del pane e dei generi di rima necessità.
Argomentando i nove pilastri delle rivolte arabe, lei faceva riferimento in particolare alle rivoluzioni allora in corso, quella egiziana e tunisina. Li ritiene validi anche per Paesi quali Bahrein e Yemen, dove si sono registrati scontri, e per la Libia che in questi giorni tiene il mondo con il fiato sospeso?
«Sì, anche se a livelli diversi. Mi sembra però importante che almeno vi compaiano gli elementi essenziali: la richiesta di democrazia, ovvero l’esigenza di un governo rappresentativo del popolo. In Bahrein ci si oppone alla dinastia sunnita al-Khalifa, che governa da più di trent’anni e detiene il potere in maniera del tutto arbitraria. Anche in Libia riscontriamo l’esistenza della dimensione essenziale, ovvero il rifiuto del potere autoritario, autocratico, nonché la rivendicazione democratica. Sia in Bahrein, sia nello Yemen e in Libia, il cambiamento di regime, ammesso che avvenga, non sarà immediato. I regimi autoritari, vista l’esperienza della Tunisia e dell’Egitto, si sono adesso organizzati per difendersi».
Lei ha anche affermato che una delle caratteristiche è la dimensione laica dei movimenti.
«Certamente, ed è presente in larga misura, poiché sia i libici, sia gli sciiti di Bahrein, sia gli algerini non si appellano alla religione, all’instaurarsi della shaaria, ma chiedono un potere che sia rappresentativo di tutti e soprattutto non corrotto. Anche nello Yemen, Paese fra i più poveri del mondo arabo, emerge una nuova tendenza, che definirei ‘post-islamica’».
Sono il più delle volte i giovani, spesso istruiti e non violenti, a dare il via alle rivolte, o rivoluzioni, sempre laiche, attualmente in corso. Lei che ha scritto libri quali L’Islam des Jeunes e Avoir vingt ans au Pays des ayatollah, cosa ritiene che sia cambiato nella loro percezione del potere e della religione?
«Negli anni ’80-’90 e anche 2000 i movimenti radicali si sono diffusi in nome della rivoluzione islamica, che prometteva di ristabilire il paradiso in terra, la giustizia sociale, la moralità. Ora ci troviamo in una fase nuova, quella del superamento dell’islamismo radicale, a cui le nuove giovani generazioni non fanno più riferimento nelle loro rivolte. I principi dell’Islam hanno lasciato spazio alla società civile e alla democrazia, valori che in passato potevano apparire imposti dall’Occidente, e che provengono adesso dall’interno delle società musulmane. Si contestano le vecchie dittature, ora rimesse in causa dalle nuove generazioni, anche con una tecnologia nuova, quella di twitter, grazie alla quale i regimi non riescono più a reprimere la comunicazione e l’informazione, come avveniva in passato. Anche questo aspetto mi appare di estrema importanza». Crede che il movimento in atto nel mondo arabo possa paragonarsi alla caduta del Muro di Berlino?
«Vi intravedo almeno due elementi di confronto: la ribellione ai regimi autoritari e la rivendicazione di rappresentazione popolare. Ma vanno considerate anche due differenze fondamentali: nel 1989 si combatteva l’Impero, quello sovietico, mentre nel mondo arabo non esiste un Impero ma Paesi governati da regimi autoritari; l’Occidente vedeva con favore il crollo dell’Impero sovietico, mentre ha sostenuto fino a oggi – o almeno visto con benevolenza i governi dei Paesi arabi, spesso vecchi e tarlati, come quelli di Mubarak e di Gheddafi».
In Libia, dove la repressione ha provocato migliaia di vittime, i manifestanti sono in grado di far durare il conflitto? È così difficile strutturare un’opposizione con un regime molto ‘sclerotizzato’?
«Proprio perché i movimenti non hanno un leader, il potere ha difficoltà a reprimerli; un dirigente politico lo si può ‘neutralizzare’, come è avvenuto in Iran. Dove non esistono leader, invece, ciò è pressoché impossibile, e i movimenti riescono a dilagare; ma una volta che questi hanno la meglio – e pensiamo all’Egitto e alla Tunisia va edificata l’intera struttura politica, ricorrendo inevitabilmente sia a quanti supportavano il vecchio regime, sia agli oppositori. Il passaggio risulta pertanto molto più delicato e difficile. Constatiamo che ormai la gran parte dei libici non vuol più saperne di Gheddafi, ormai del tutto ‘disconnesso’ dal suo popolo, anche se va affermando che da più decenni è quest’ultimo che comanda, ma conserva il potere in alcune città, grazie alla sua forza militare. L’opposizione resiste e va strutturandosi, nonostante il regime che tenta di strumentalizzare la contrapposizione fra sciiti e sunniti per sopravvivere, senza concedere nulla, di fatto; lo stesso avviene nello Yemen, con la divisione nord/sud».
Quindi questi regimi sono destinati a sopravvivere, anche se con difficoltà? «Per il momento sì, ma non a lungo termine: sono ormai in una condizione di estrema fragilità, non più credibili, delegittimati. Il mondo arabo si muove, e anche per i regimi che appaiono stabili al momento, quali il Marocco e l’Arabia Saudita, il vento prima o poi soffierà. Vedo l’avvicinarsi la fine delle dittature, inclusa quella iraniana».

Sociologo franco-iraniano (nato a Teheran nel 1948), insegna a Parigi all’Ecole des Hautes Eudes en Scienxes Sociales (Ehess), ed è autore di diversi saggi sul mondo islamico. I suoi interessi di ricerca si orientano verso la sociologia politica e delle religioni.

il Fatto 6.3.11
Il tesoro di Gheddafi non si tocca, governo italiano irremovibile
Per B. il pacchetto Unicredit (2,5 miliardi di euro) è del “popolo libico” Però chiede all’Europa un piano Marshall da 10 miliardi per aiutarli
di Giorgio Meletti


Il governo italiano non ha la minima intenzione di congelare i beni finanziari detenuti in Italia dal Colonnello Gheddafi. Una nuova riunione tenuta ieri dal Comitato presieduto dal direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, è servita solo a ribadire che tutti i guardiani del mercato finanziario (dalla Consob alla Banca d’Italia fino a tutti gli intermediari come la Borsa e le stesse banche) sono strenuamente impegnate nel cosiddetto monitoraggio.
 TUTTI CON il binocolo, stanno di vedetta per notare tempestivamente eventuali vendite di titoli Unicredit o Finmeccanica da parte del (rispettivamente) primo e terzo azionista, Gheddafi appunto.
Il comunicato pubblicato ieri sul sito del ministero dell’Economia è talmente chiaro (anche se solo in un certo senso) che val la pena riportarlo testualmente: “Il Comitato di Sicurezza Finanziaria (CSF) si è riunito oggi presso il ministero dell’Economia con l'obiettivo di verificare la corretta applicazione in Italia delle sanzioni decise dall’Unione europea della Decisione 2011 del 28 febbraio e rese operative a tutti gli effetti anche nel nostro paese con la pubblicazione del Regolamento 204 del 2 marzo scorso nel quale vengono indicati i nominativi delle persone per le quali sono congelati tutti i fondi e le risorse economiche appartenenti, posseduti, detenuti o controllati (art. 5)”. Secondo il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, quei quattro aggettivi usati nel regolamento europeo (appartenenti, posseduti, detenuti o controllati) non indicano la disponibilità a qualsiasi titolo dei beni nelle mani delle 26 persone indicate (Gheddafi, la sua famiglia e i suoi più stretti collaboratori) ma semplicemente le proprietà personali. Il pacchetto di maggioranza relativa (7,5 per cento) dell’Unicredit, per esempio, è diviso tra i portafogli della Banca centrale libica e della Libyan Investment Authority (Lia), due istituzioni finanziarie che per le autorità italiane sono perfettamente autonome una dall’altra, quindi anche da Gheddafi, per cui non scatta il tetto del 5 per cento di azioni Unicredit che vale per ogni altro comune mortale.
Berlusconi ha dunque gioco facile a trincerarsi nella posizione dichiarata nella tarda serata di venerdì scorso a Helsinki: “Occorre distinguere bene sulle partecipazioni della Libia in quanto popolo libico e le partecipazioni che invece sono attinenti a una famiglia: quindi staremo molto attenti a una distinzione”.
LA POSIZIONE del governo italiano è di grande imbarazzo. C’è una ragione non dichiarata per la quale il congelamento delle partecipazioni azionarie in mano al regime di Gheddafi sembra addirittura impensabile. La distinzione tra beni personali e beni “del popolo libico” dev’essere apparsa risibile a tutti i capi di governo occidentali (dall’americano Barack Obama alla tedesca Angela Merkel) che già alcuni giorni fa hanno provveduto a congelare tutto il congelabile, comprese le azioni “del popolo libico” nella società Pearson che pubblica il Financial Times.
A rendere abbastanza incomprensibile la posizione del governo italiano è la proposta, avanzata con molta enfasi a Helsinki dallo stesso Berlusconi, di un “piano Marshall” per aiutare economicamente i Paesi del Nordafrica (Libia compresa) che stanno compiendo il difficile percorso verso la democrazia. Il premier italiano vorrebbe che l’Europa mettesse in campo 10 miliardi di euro.
Se per Egitto e Tunisia la cosa ha un senso, nel caso della Libia si prefigura uno scenario quantomeno contraddittorio. Le istituzioni finanziarie libiche (Lia, Banca centrale, Lafico) detengono azioni di società italiane per circa 4 miliardi di euro. La Lia ha in portafoglio partecipazioni per almeno 60 miliardi di euro. Se sono “beni del popolo libico”, come dice Berlusconi, il popolo libico non ha problemi economici: dispone di un teso-retto stimabile in una o due volte il suo prodotto interno lordo.
CONCLUSIONE: il 7,5 per cento in mano libica è decisivo per gli equilibri azionari di Unicredit, e se il “popolo libico” volesse vendere il pacchetto (2,5 miliardi di euro) per risolvere qualche problema a casa propria sarebbe un guaio per il potere finanziario italiano. Il rischio è che i contribuenti debbano pagare ulteriori aiuti alla Libia (senza bisogno) per non compromettere gli equilibri di potere in Unicredit.

l’Unità 6.3.11
L’esercito dei contractors
tra super potenze e grandi multinazionali
Le compagnie militari private non sono solo al servizio dei dittatori Clamoroso il caso Iraq: in 8 anni gli Usa hanno stipulato 3000 contratti
di Umberto De Giovannangeli


Non solo arruolati da satrapi sanguinari, al soldo di dittatori africani che pur di mantenersi al potere garantiscono paghe sontuose, diritto di saccheggio e impunità ai mercenari al loro servizio. Oggi i mercenari si chiamano «contractors» e operano attraverso agenzie utilizzate il più delle volte da multinazionali e super potenze, per le quali compiono i lavori «sporchi» sotto copertura. Per cogliere la portata del giro di affari è il caso di soffermarsi sul fronte che negli ultimi anni ha rappresentato il «pozzo senza fondo» di denaro per le agenzie di «contractors»: l’Iraq. Incirca8anni-dal1994al2002gli Usa hanno stipulato oltre 3000 contratti con società mercenarie americane (Private Military Companies), per un totale che ammonta a circa 100 miliardi di dollari all'anno. Nelle sole forze militari in Iraq, i mercenari hanno rappresentato la
seconda forza in campo dopo gli Stati Uniti, per numero di unità impiegate, addirittura superiore a quelle della Gran Bretagna. Sempre in Iraq, l’80% delle sparatorie sono state causate da soldati privati che per primi aprivano il fuoco. (Blackwater, ora Xe Services).
Due agenzie private americane (CACI and L-3), sono state responsabili delle torture nelle carceri di Abu Ghraib. Una serie di rapporti indicano che guardie di sicurezza private hanno avuto un ruolo fondamentale in importanti operazioni della Cia come la detenzione arbitraria e i raid clandestini contro gli insorti in Iraq ed Afghanistan. Il salario degli assassini di professione non è semplice da definire e varia in base a diversi fattori. Secondo John Pike, esperto in materia di sicurezza, Gheddafi «ha promesso almeno 1.000 dollari a ogni mercenario, con un bonus di arruolamento pagato in anticipo». Ma società americane come Xe che «noleggia» ex-soldati della marina e dell'esercito per lavori militari privati nota il magazine americano Slate durante la guerra in Iraq pagavano ai loro uomini di livello più alto stipendi che si aggiravano sui 200.000 dollari l'anno.
Sempre i «contractors» sono stati protagonisti dei colpi di stato avvenuti in Africa ed in America Latina come quello in Guinea Equatoriale o in Ecuador. E sempre gli appartenenti alle «Compagnie militari private» sono stati in prima fila nei massacri perpetrati in Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Cyad, Zimbabwe... Le Private Military Companies americane di sono vincolate per contratto al solo Dipartimento di Stato Usa: il codice militare non vale per loro, ma solo per i dipendenti del Pentagono. Ecco perché le indagini su massacri gestiti dai mercenari finiscono in nulla: i killer sono protetti dall’attenuante dell’autodifesa. «Non è possibile – rileva Emanuela De Marchi in un documentato articolo su Diritto di critica conoscere il contenuto dei contratti conclusi dai governi (con riferimento particolare al Governo statunitense) e le compagnie private.
Gli scopi ed i tipi di contratti rimangono spesso sconosciuti. Non ci sono mai state sanzioni contro queste agenzie di sicurezza nonostante le prove esistenti circa la loro partecipazione diretta a gravi violazioni dei diritti umani. È come se fossero giustificate perché si tratta di “business”».
«Tra i silenzi di Washington accusa PeaceReporter il maggiore riguarda forse proprio la famigerata Blackwater, oggi ribattezzata Xe Services: è stato appena archiviato il caso di Andrew Moonen, ex mercenario in forza all’azienda, accusato di aver ucciso nel 2006 Raheem Khalif, guardia del corpo dell’allora vicepresidente iracheno Adel Abdul Mahdi. Moonen era già stato licenziato per «aver violato il regolamento sull’alcool e le armi da fuoco», ma ciò non ha impedito a Combat Support Associates, un’altra società alle dipendenze del Pentagono, di assoldare l’uomo per una missione in Kuwait. Per i mercenari, una sorta di immunità giudiziaria: che secondo il professor Andrew Leipold dell’Università dell’Illinois « rende difficile la perseguibilità di chi compie azioni criminose».
Solo in Afghanistan nel maggio 2010, erano presenti 26mila contractors, la maggior parte dei quali operavano al di fuori del controllo di qualsiasi governo. Anche se uccide civili innocenti, la Blackwater non paga. Anzi, viene pagata. E non è tutto: un rapporto di Jeremy Scahill su The Nation ha rivelato che l’agenzia mercenaria ha «venduto servizi d’intelligence clandestini alla multinazionale Monsanto». Lo riferisce Silvia Ribeiro su La Jordana, in un servizio ripreso da Megacgip, secondo cui la Blackwater, che resta    il maggiore appaltatore privato dei «servizi di sicurezza» di Washington, «pratica il terrorismo di Stato dando al governo l’opportunità di negarlo». Dietro le quinte, militari ed ex funzionari Cia «lavorano per Blackwater o società collegate create per sviare l’attenzione dalla propria cattiva reputazione». Alti profitti al riparo dell’agenzia: non solo per operazioni belliche, ma anche per servizi a beneficio di governi, banche e multinazionali: «Informazione e spionaggio, infiltrazione e lobbying politico». Altre compagnie di PMC (Private Military Company) sono nate negli anni Novanta e continuano ad operare. Tra di esse: la Sandline International (che ufficialmente annuncia la cessazione delle attività nel 2004), la Lifeguard, la Saracen, l'AirScan e molte altre. Pronti ad agire ovunque vi sia da condurre una «sporca guerra».

Corriere della Sera 6.3.11
Quando la legge decide della vita
di Ernesto Galli della Loggia


Per quanti sforzi facciano non riescono ad essere convincenti, i difensori dell’attuale progetto di legge sul «trattamento di fine vita» approntato dal governo, che domani arriva in Aula alla Camera. Sono principalmente due gli argomenti cui essi ricorrono per non riconoscere un valore vincolante né all’anticipata dichiarazione di volontà circa il trattamento sanitario a cui essere sottoposti quando non si è più in grado d’intendere e di volere (la cosiddetta Dat), né all’opinione di un «fiduciario» (che termine orribile! Non ce n’era un altro?) eventualmente indicato per quella drammatica circostanza; e quindi per lasciare l’ultima parola a un medico o, come dice adesso il testo emendato, a un collegio paramedico. Il primo argomento suona a un dipresso così: «Chi può davvero stabilire in anticipo, nel momento magari in cui sta ancora bene, quale sarà la sua volontà in un contesto ben diverso, quando per esempio dovesse trovarsi in agonia?» . C’è del vero in questa obiezione. Mi chiedo però a mia volta: chi mai, allora, appare più verosimilmente idoneo a decidere in sua vece? Il suo «fiduciario» , la persona da lui ben conosciuta, alla quale probabilmente lo legano affetto e amicizia, e alla quale egli si è comunque volontariamente affidato, ovvero un medico sconosciuto e che molto probabilmente nulla sa di lui, della sua personalità, del suo animo? Già, ma in questo modo— ecco il secondo argomento dei difensori del disegno di legge — privandolo di ogni diritto d’intervento autonomo si lede in misura inaccettabile il prestigio e la professionalità del medico. Devo dire la verità? Mi sembra un argomento risibile. Con lo stesso criterio, infatti, si dovrebbe allora proibire, ad esempio, il ritiro del mandato dato a qualunque professionista — avvocato, architetto, o chiunque altro— perché egualmente ciò lederebbe in misura insopportabile la sua professionalità. Andiamo! Il sospetto è che in realtà a «suggerire» al governo di legiferare nel senso ora detto siano state le autorità ecclesiastiche, preoccupate che il libero corso dato all’autodeterminazione dei singoli potesse celare il ricorso a questa o quella pratica eutanasica (preoccupazione perfettamente legittima e sulla quale personalmente concordo: purché però non diventi un’ossessione!), e invece convinte, sulla base dell’esperienza, di riuscire a influenzare con una certa facilità decisioni e comportamenti della classe medica. In realtà, se davvero la preoccupazione della Chiesa cattolica circa le Dat è quella che ho ora detto, mi pare che ci sia un mezzo assai semplice per tagliare la testa al toro: stabilire per legge che le Dat stesse non possano contenere alcuna disposizione in positivo, e cioè a fare checchessia, ma solo in negativo, a non fare. Se l’eutanasia è «ciò che pone alla vita un termine artificiale, che fa morire una persona prima che la vita sia giunta al suo termine naturale» (Buttiglione), allora mi sembra indiscutibile che lasciare per la propria fine la disposizione di non fare, equivalga per l’appunto a lasciare che la vita «giunga al suo termine naturale» . Il che tra l’altro avrebbe anche il vantaggio di non urtare in alcun modo la suscettibilità di alcun medico perché a questi non verrebbe imposta di fatto alcuna scelta terapeutica.
Del tutto diverso appare il problema dell’idratazione e alimentazione artificiali a soggetti non coscienti. In questo caso l’intervento del legislatore, come si sa, si è reso necessario per evitare il ripetersi della pazzesca sentenza sul caso Englaro da parte della Corte di Cassazione, che si arrogò per l’occasione il compito di istanza legiferatrice autorizzando la morte della ragazza. Il disegno di legge prescrive che l’idratazione e l’alimentazione artificiali siano in ogni caso obbligatori considerandoli non già terapie ma «forme di sostegno vitale» , e vietando altresì che la dichiarazione anticipata ne possa in alcun modo disporre. Salvo però aggiungere in un emendamento: «Ad eccezione del caso in cui le medesime (idratazione e alimentazione) risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche del corpo» . Ma chi giudica dell’eccezione? E soprattutto— fa notare uno studioso di vaglia di questa materia come il professor Paolo Becchi— in base a quali criteri o esami clinici si può accertare che «idratazione e alimentazione siano ancora efficaci nel fornire al paziente i fattori indispensabili alla sua sopravvivenza? Efficaci sembrerebbero proprio esserlo dal momento che altrimenti il paziente sarebbe già morto!» . Non solo: ma il medico che sospendesse idratazione e alimentazione non violerebbe con ciò stesso quel «divieto di qualunque forma di eutanasia» (compresa dunque anche l’eutanasia cosiddetta «passiva» ) che il disegno di legge solennemente proclama? Un disegno di legge, in conclusione, da rimeditare da cima a fondo per molti aspetti. Ad esempio ammettendo, come suggerisce sempre Becchi, che in certi casi pure idratazione e alimentazione artificiali possono divenire una forma di trattamento sproporzionato, e dunque configurare un inammissibile accanimento terapeutico. Da interrompere una buona volta, da interrompere anch’essi, dunque, per lasciarci finalmente in pace di fronte alla speranza e al mistero nell’ora della nostra morte.

il Fatto 6.3.11
Promesse di Santa Lucia
Ospedale a rischio chiusura dopo la cura Polverini Disperate le mamme di 180 piccoli pazienti
di Silvia D’Onghia


Andrea ci viene a chiamare mentre stiamo facendo la conoscenza di un’altra bambina, Stella: sette anni in carrozzina, gravissime difficoltà motorie e cognitive, di vista e di comunicazione. “Dov’è la giornalista?”, chiede Andrea alla dottoressa Morelli, che ci accompagna nel reparto pediatrico. La sua mamma vuole raccontarci la sua storia. Andrea è un bimbo di nove anni, che a causa di problemi di ossigenazione durante il parto ha difficoltà motorie. “Non cognitive, solo motorie”, racconta, appunto, sua madre Francesca: “Dalla nascita abbiamo cominciato a girare per l’Italia, siamo stati in cura da un professore di Bologna, poi siamo approdati al Bambin Gesù di Roma, ma ci siamo trovati malissimo. Una volta un medico mi disse: ‘Non si disperi, guardi in sala d’attesa quante mamme sono più sfortunate di lei. Come se io dovessi gioire del dolore degli altri’”. Da quattro anni Andrea viene seguito dall’equipe della Fondazione Santa Lucia, sempre a Roma, un centro di eccellenza nella riabilitazione neuromotoria.
 “SO CHE non guarirà – aggiunge Francesca – ma i miglioramenti nella deambulazione sono evidenti. Posso finalmente pensare a una vita normale. Ma se il Santa Lucia chiude mi dice cosa faremo?”.
Già, perché la Fondazione (che è anche un Ircss, Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico) da un momento all’altro rischia di chiudere i battenti. E la colpa non è di una cattiva gestione. La colpa è della politica, delle scelte e dei ritardi dell’amministrazione Marrazzo prima, Polverini poi. L’ospedale, che conta 325 posti letto (stanze a due letti con bagno, 20 metri quadri per posto letto e due televisori, oltre a tutto ciò che è necessario ai pazienti in carrozzina), vanta un credito di oltre 90 milioni con la Regione Lazio, da ente accreditato. Nel 2010 sono stati ricoverati qui 1400 pazienti neurologici (la maggior parte dopo un ictus o un coma) e 250 pazienti ortopedici, oltre alle 900 persone curate in day hospital. Il tutto insieme a innumerevoli progetti di ricerca (373 pubblicazioni in un anno) e alla formazione di medici e infermieri. Vengono qui pazienti da tutta Italia. Una specializzazione che, se non si interviene subito , rischia di morire.
LA POLVERINI che in campagna elettorale aveva indossato la maglietta con la scritta “Salviamo il Santa Lucia” promettendo di sbloccare la situazione ha infatti assegnato, con un provvedimento poi sospeso dal Tar, solo 200 posti letto di alta specialità neuroriabilitativa in tutta la regione, 160 dei quali al Santa Lucia. Ha poi escluso dall’alta specialità pazienti colpiti da ictus, paratetraplegie acute, malattie come la Sla. C’è anche un problema di tariffe: il ministero della Salute ha ribadito nel 2006 quelle in vigore dal 1996 (come se i costi non fossero nel frattempo cresciuti), e la Regione non si è mai dotata di un proprio sistema tariffario. “L’ex commissario Guzzanti aveva previsto per il Santa Lucia un acconto mensile di tre milioni e 800 mi-la euro, che bastavano a mala pena a coprire le spese – commenta il direttore generale Luigi Amadio – la Polverini l’ha prima portato a tre milioni, poi a un milione e 700 mila euro. Il costo annuo della struttura è di 65 milioni. Faccia lei i conti”. La direzione ha già presentato 40 ricorsi al Tar e ha incontrato la giunta già una ventina di volte. Tavoli definiti “tecnici”, che non hanno portato a niente. E così da qualche tempo a ribellarsi sono i pazienti, che hanno creato un presidio fisso sotto la sede della Regione e che, con una cadenza settimanale, invadono le vie di Roma in carrozzina.
Perchè, al di là dei numeri, sono i volti del Santa Lucia a raccontare quello che accade qui. “Non facciamo miracoli – ci spiega la dottoressa Daniela Morelli, che coordina il servizio pediatrico –. Sono tecniche riabilitative a disposizione di tutti”. E allora perchè l’istituto è considerato meglio di altri? “Perchè non abbiamo mai smesso di crescere: il personale è motivato, l’azienda finanzia i nostri progetti, l’equipe (medici, terapisti, psicologi, logopedisti, terapisti occupazionali, terapisti respiratori) lavora insieme. L’unica cosa che non ci dà pace è la domanda: ho fatto tutto per quel bambino?”.
MA ALLORA perché questa ostilità da parte della Regione? I maligni potrebbero pensare che la chiusura del Santa Lucia farebbe comodo alle tante altre strutture riabilitative romane nella mani degli “amici”. La governatrice il 10 febbraio si è affrettata a dire che, avendo firmato un decreto nel giorno della manifestazione dei pazienti, i problemi erano tutti risolti . Nel frattempo, però, Equitalia, per conto dell’Inps, ha bloccato il finanziamento di 160 mila euro da parte del ministero per un progetto di ricerca.
Il direttore sanitario, Antonino Salvia, ci accompagna a vedere la piscina (semi-olimpionica) e il campo di basket, illustrandoci i successi delle squadre del Santa Lucia. Perchè la riabilitazione deve partire dalla testa di chi ha subito un trauma, occorre garantire alla persone l’idea di una vita “normale” anche dopo un incidente, come dice la mamma di Andrea. Ma si vede che questo tipo di normalità alla Polverini serve solo come propaganda.

La Stampa 6.3.11
L’assemblea del popolo preoccupata dalle rivolte di piazza
Il premier cinese “C’è scontentezza”
Pechino dichiara guerra all’inflazione: “Ci destabilizza”
di Ilaria Maria Sala


La Cina continuerà a crescere, ma dovrà guardarsi dall’inflazione che minaccia non solo i redditi ma anche la «stabilità sociale». È il premier Wen Jiabao dinanzi alla plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo a spiegare che l’economia correrà ancora (più 8% rispetto al previsto 7%). Ma che pure l’inflazione — che si aggira da più di un anno intorno al 5% ufficiale rischia di zavorrare i progressi di Pechino. Così Wen Jiabao quasi «ordina» che il tasso di inflazione nel 2011 non dovrà varcare il 4%. Il premier ha anche annunciato un programma più ampio che prevede investimenti nell’educazione, nella sanità e nelle abitazioni popolari.
«Siamo consapevoli ha detto Wen che il nostro sviluppo non è al momento ben bilanciato, coordinato o sostenibile». Per questo, uno degli obiettivi di quest’anno e del Dodicesimo Piano Quinquennale appena inaugurato è quello di stimolare i consumi e la domande interna, e ridurre il consumo di energia del 16%. Obiettivi e analisi non hanno presentato grosse novità, i Paesi vicini asiatici della Cina sono invece inquieti per il forte aumento previsto del budget militare: più 12,7%, ovvero 91,5 miliardi di dollari. Cifra ufficiale ma da pochi ritenuta credibile. Gli analisti ritengono infatti che la Cina pubblichi un bilancio militare parziale, e che gli investimenti nel settore siano molto più alti. Come ogni anno, del resto, alla presentazione del bilancio della Difesa sono seguite rassicurazioni governative che «la Cina non rappresenta un pericolo per nessuno», e che l’aumentare del budget non significa che il Paese si prepari a diventare aggressivo.
Spiegazioni insufficienti per i vicini. Dal Giappone che ha più volte annunciato una revisione della sua strategia (e investimenti) in campo della sicurezza, all’India che in settimana ha alzato le spese belliche del 11 per cento. Al centro delle preoccupazioni di Giappone, India, ma soprattutto di Taiwan e Filippine è l’ambizione cinese di voler controllare il traffico nel Pacifico e nel Mar Meridionale.
Quest’anno l’Assemblea del popolo si riunisce in un’atmosfera particolarmente tesa causata dai numerosi arresti legati alle manifestazioni per una «rivoluzione dei gelsomini» invocata nel tam tam su Internet.
Quella in corso sarà l’ultima assemblea plenaria con l’attuale leadership. Il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao l’anno prossimo lasceranno, dopo 10 anni, strada a una nuova generazione di leader. E per Hu e Wen è tempo di bilanci. Com’è tradizione per i leader cinesi, infatti, sia Hu che Wen al momento stanno affinando il modo in cui vogliono che la loro dirigenza sia iscritta negli annali cinesi: e se nel passato leader quali Mao Zedong o Deng Xiaoping avevano coniato slogan di ampio respiro ideologico o economico, il pensiero politico dell’attuale dirigenza si è accontentato di rispolverare il concetto di «società armoniosa», e di mantenere ad ogni costo la «stabilità sociale». Impresa non del tutto riuscita alla luce delle continue manifestazioni pro-riforme nelle città. Ma soprattutto Hu non è riuscito ad arrestare il crescente divario fra i ricchi e i poveri nel Paese.
“Aumento record del budget per le forze armate che toccherà 91,5 miliardi di dollari”

l’Unità 6.3.11
Dal duce a Lenin, Angelica Balabanoff
Libertaria senza compromessi Così era la rivoluzionaria venuta dall’Ucraina che, in nome dei suoi principi, finì per mettersi al servizio dei despoti. Dal 1880 al 1965 una vita straordinaria. Una biografia ce la narra
di Bruno Gravagnuolo


Destino tragico e paradossale quello di Angelica Balabanov, la rivoluzionaria ucraina figlia di un ricco proprietario terriero ebreo, fuggita da Cernigov giovanissima alla ricerca di sé, e divenuta un’icona del socialismo rivoluzionario europeo a cavallo dei due secoli. Una vicenda che Amedeo La Mattina, giornalista de la Stampa ci racconta con rigore e minuzia esemplari nel suo Mai sono stata tranquilla. La vita di Angelica Balabanoff. La donna che ruppe con Mussolini e Lenin (Einaudi, pp. 314, euro 20). E il senso amaro di quel destino sta proprio in questo: aver creduto nei despoti nel segno di un’utopia libertaria e senza compromessi. Per poi restarne delusa e tradita, fino a consegnare quella sua utopia a ciò che da giovane massimamente detestava: il riformismo ministeriale (quello di Saragat). Maledicendo inerme e dimenticata quell’epilogo finale, pur senza nulla rinnegare delle sue scelte (a parte l’invocazione struggente in punto di morte alla madre dalla quale s’era strappata per vivere la sua vita).
DALL’OTTOBRE A SARAGAT
E però tra la sua nascita in Ucraina attorno al 1880 e la sua morte solitaria a Roma nel 1965 si consuma una vicenda straordinaria. Quella che ci racconta con finezza La Mattina. E dentro ci sono il socialismo nascente in Europa, le origini del fascismo, l’Ottobre 1917, e poi il fascismo la guerra, l’antifascismo. E un corteo di donne eccezionali che furono amiche di Angelica. L’anarchica Emma Goldmann, Rosa Luxemburg, Anna Kulisciov, Clara Zetkin. Fascino non secondario di queste pagine, filo d’Arianna tra le tragedie di un secolo.
Tra i pregi più importanti del libro ve ne è uno speciale: la capacità di illuminare il rapporto di Angelica coi despoti. E di raccontare la loro mente. Prima di tutto quella di Mussolini, che Angelica letteralmente tiene a battesimo a Zurigo attorno al 1902, tra emigrati e fuorusciti sovversivi d’Europa. A lei che già conosce i grandi del socialismo Turati, Labriola, Kautski Benito si presenta come un derelitto che si autocompiange. Spiantato senza arte né parte, rabbioso e disperato. Angelica non solo lo educa alla filosofia e al socialismo, ma lo persuade di valere qualcosa. E se ne innamora, divenendone presumibilmente l’amante. Potenziandone l’ego ferito. Vellicandone la mania di grandezza frustrata. Mussolini stesso lo riconoscerà parlandone da «Duce» con Yvonne De Begnac: «Senza la Balabanov sarei rimasto un piccolo fuzionario, un rivoluzionario della domenica». Angelica spinge via via Benito al successo. Alla vittoria massimalista nel congresso socialista di Reggio Emilia del 1912. E l’anno prima a un ruolo di primo piano contro la guerra in Libia. Fino alla direzione de l’Avanti! Ma nell’ottobre 1914 si consuma il tradimento: Mussolini passa alla «neutralità attiva» sulla guerra, e subito dopo all’interventismo. In più, nella vita di Benito, già sposato con Rachele, compare un’altra donna decisiva: Margherita Sarfatti. Altoborghese ebrea e «modernista»: sarà lei, a sua volta ripudiata dal Duce antisemita, a forgiare il Mussolini «novecentista» in arte, a fargli amare i futuristi e poi il «ritorno all’ordine» estetico. Sicché il risentito Benito può convertire l’irruenza plebea nel rivoluzionarismo conservatore e populista. Nel fascismo. Strana mescolanza di sovversivismo dall’alto e dal basso, per opera di un uomo marginale che ha di mira il potere, nella crisi dell’Italia liberale. Mussolini sommerso e salvato, fatto uomo e despota dalle donne. Potrebbe essere (anche) questa una delle chiavi del libro di Mattina sulla Balabanov, fonte più vera di tante altre sulla vera indole del Duce di Predappio: il trasformismo d’assalto e il mimetismo psicologico da zelig sovversivo.
IL RUSSOCENTRISMO
Quanto a Lenin, la vicenda è diversa. Angelica lo ammira e ne diffida: è probo, ascetico e tranquillamente feroce. Aderisce da socialista alla sue tesi comuniste, ma se ne dissocia nel 1921. Quando vede che quello bolscevico è un dispotismo russo-centrico, cinico e anche terroristico. Ostile ad ogni umanitarismo etico. Nondimeno Angelica resterà marxista e socialista, intransigente oltremisura (si oppone a Nenni e all’unità coi comunisti italiani). Assediata da spie di Mussolini (che ancora la temeva) emigra in America, e lì diviene testimone del socialismo libertario antiriformista. Al ritorno in Italia uscirà dal Psi per andare nel Psdi, da sinistra! Ennesima delusione e grande lezione «impolitica». Ma soprattutto grande testimonianza sulla scuola e la psicologia dei dittatori.

Repubblica 6.3.11
L’ultimo rogo delle donne
di Vittorio Zucconi


Era il 25 marzo 1911, un incendio divampò nella camiceria "Triangle Shirtwaist", a New York. Dei centoquarantasei morti, centoventinove erano ragazze: siciliane, russe, ucraine Le fiamme divennero simbolo dello sfruttamento femminile e cambiarono la coscienza americana. Ma soltanto oggi gli ultimi corpi delle sarte sono stati identificati: tre erano italiane
Uno storico, Michael Hirsch, ha ricostruito le identità mancanti inseguendo la sua ossessione, la "vittima numero 85": Maria Giuseppina Lauletti, vent´anni
Fu la più grande carneficina prima dell´11 settembre 2001 Le autorità inasprirono le pene sul lavoro a cottimo e vennero introdotte le famose scale esterne

Fu lo spaventoso crogiolo dell´immigrazione, la fonderia umana nella quale si fusero per sempre i corpi, le identità e le nazionalità dai quali sarebbe nata la New York che conosciamo. Erano soprattutto donne, italiane e ucraine, russe e palestinesi, rumene e irlandesi, le cucitrici che furono consumate insieme un secolo fa esatto nel rogo della camiceria "Triangle Shirtwaist" del Village, negli appena diciotto minuti trascorsi fra il primo grido di «Al fuoco! Al fuoco!» e lo spegnimento. Alla fine furono centoquarantasei morti, tutti fra i sedici e i ventitré anni, piccole schiave incatenate alle macchine per cucire e ai tavoli per il taglio della tela ai quali furono trovate fuse insieme. New York avrebbe dovuto attendere novant´anni, fino all´11 settembre 2001, per subire una carneficina più orribile.
Fu il rogo che cambiò e sigillò il destino di una grande città e di chi ci avrebbe vissuto e lavorato dentro, secondo un canovaccio terribile e ripetuto tante volte nella storia americana periodicamente illuminata da immensi incendi, nella Chicago dei mattatoi industriali, nella San Francisco degli avventurieri, nella Atlanta sconfitta dalla Guerra civile, nella New York selvaggia del primo Novecento, come se il parto doloroso di questa grande nazione avesse bisogno di un falò, per ripartire. Ma di storia, di destini da Roma di Nerone, di crogioli che scuotessero anche le autorità giudiziarie e politiche dal loro comodo, e spesso corrotto, laissez faire, alle centoventinove camiciaie e ai loro diciassette colleghi maschi nell´East Village poco importava.
A Bessie la russa, a Peppina e Concetta le italiane, a Fannie l´ucraina, vittime identificate a fatica e alcune soltanto ora e finalmente sepolte con un nome nel cimitero immenso dei "Sempreverdi" fra Brooklyn e Queens, da un ricercatore ossessionato da quell´incendio, importava soltanto guadagnare quello che il capo reparto decideva di pagarle alla fine di ogni giorno. Non c´erano salari fissi né contratti sindacali. Un dollaro, due al giorno, mai di più, per restare entro i costi previsti dai due proprietari della azienda: diciotto dollari ogni dodici camicie, un dollaro e mezzo a camicia.
Poche di loro, in quel palazzo di dieci piani a pochi passi da Washington Square, nel cuore del Village, chiamato Asch Building, parlavano inglese e capirono che cosa significasse l´urlo che risuonò alle quattro e quarantacinque di un pomeriggio di primavera 1911, il 25 marzo: «Fire! Fire!». Non che la comprensione immediata dell´allarme avrebbe potuto fare molta differenza per le donne e gli uomini che tagliavano, cucivano, lavavano, stiravano e stendevano le camicie. Lo sweathshop, la fabbrica del sudore, occupava tre piani, tra l´ottavo e il decimo, e l´ottavo era bloccato. Tutte le porte erano chiuse dall´esterno e le lavoranti controllate una per una alla fine del turno, perché non rubassero utensili, forbici, aghi, filo o pezze di prezioso cotone.
Il secchio d´acqua che un impiegato della contabilità, William Bernstein, tentò di rovesciare sul focolaio acceso, attingendo all´unico rubinetto funzionante nello stanzone, non avrebbe potuto nulla contro un incendio che trovò, forse per una cicca accesa, nei mucchi di scampoli accatastati sul pavimento, nelle camicie stese ai fili e già asciutte, nel legno del pavimento e dei tavoli, il combustibile ideale. I racconti dei pochi superstiti, come Bernstein che testimoniò al processo contro i due soci proprietari della "Camiceria Triangolo" condannati per omicidio, sono pagine tratte dall´immaginario infernale da catechismo.
Sono scene di donne già in fiamme che correvano cercando di sfuggire al fuoco che stava bruciando le gonne e i capelli, tuffi silenziosi e senza grida di altre che si lanciavano dalle finestre scegliendo il suicidio, fotogrammi di ragazzine «semplicemente impietrite», disse Bernstein, incapaci di muoversi e di reagire. Immobili nell´attesa certa e rassegnata di diventare torce viventi o di cadere asfissiate dal fumo. I vigili del fuoco che, incredibilmente, riusciranno a spegnere un incendio all´ottavo piano in appena diciotto minuti, troveranno sartine fuse con la macchina per cucire alla quale morirono abbracciate, come se non avessero voluto separarsi da quell´utensile che aveva dato loro un mezzo per vivere nella città dove erano approdate.
Molte di loro non sarebbero state identificate per decenni, le ultime per un secolo, come Elizabeth Adler, rumena di ventiquattro anni, come Maximilian Florin, russo di ventitré anni, come la "morta numero 85", una caduta ignota sepolta per novantanove anni con questa lapide, e sarà colei dalle quale partirà, quasi per caso, il cammino di uno storico appassionato di genealogia, Michael Hirsch, ossessionato dall´incendio che cambiò New York. La "vittima numero 85" sarebbe risultata essere la sorella di una giovane di diciassette anni sepolta in un altro cimitero, sotto una lapide che ricorda misteriosamente «la sorella uccisa», senza altre indicazioni. Da quella tomba, Hirsch sarebbe risalito a una pronipote ottuagenaria, pensionata in Arizona. Da lei, dai suoi confusi ricordi personali di prozie perdute all´inizio del Novecento, avrebbe scalato l´albero della loro storia e trovato un nome, nell´elenco delle impiegate della "Camiceria Triangolo", una scomparsa dopo il 25 marzo 1911. E da lì sarebbe risalito alla tomba del cimitero di Brooklyn, finalmente dando un nome a quei resti: Maria Giuseppina Lauletti. Siciliana di vent´anni.
Con lei, l´appello dei morti è stato completato. Sotto il monumento che ricorda quel giorno, sono stati scritti i nomi degli ultimi sei ignoti, Max Florin, Concetta Prestifilippo, Josephine Cammarata, Dora Evans and Fannie Rosen e un atto di pietà è stato scritto. Ma il vero memoriale al rogo delle cucitrici non è in quel cimitero. È nella carne viva della città, che la strage cambiò per sempre e che anche il più "casual" dei turisti può vedere, senza neppure saperlo. Il processo contro i due soci proprietari, che le autorità cittadine perseguirono con tutta la furia e la severità di chi sapeva di avere la coda di paglia politicamente infiammabile quanto quelle camicie, riscrisse e impose la normativa antincendio nella città cresciuta senza regole. Costruì e rese obbligatorie ovunque quelle scale esterne che oggi si vedono pendere dagli edifici più bassi e che ogni film poliziesco o di horror usa per gli incubi degli spettatori. Cominciò la bonifica dei tenement, quei termitai in affitto, come dice il nome, dove le onde umane dei nuovi immigrati si accatastavano una sull´altra facendo di New York all´inizio del secolo scorso la città più densamente popolata del mondo. I regolamenti per la bonifica dei tenement esistevano già da dieci anni, ma né il Comune, né la polizia, né la magistratura si erano mai dati la pena di farli rispettare, nel nome della crescita rapinosa e della generosità sottobanco dei signori dei termitai. E quelle ottantacinque ore di lavoro alla settimana che le ragazzine dell´ottavo piano dovevano subire apparvero, finalmente, intollerabili.
Gli scioperi degli altri schiavi delle macchine per cucire a Philadelphia, a Baltimora, nel Village e nel Garment District di Manhattan, che ancora esiste ma langue nella concorrenza impossibile dei nuovi schiavi che tagliano camice e abiti in Estremo Oriente, incontrarono l´appoggio di un pubblico che, fino a quel falò, preferiva schierarsi con chi offriva loro, a qualunque prezzo, un lavoro. Per anni, e invano, altri operai e operai dell´industria tessile avevano organizzato scioperi. E in un´altra fabbrica del sudore a New York, pochi anni prima, si sarebbe visto lo spettacolo inaudito e terrorizzante del primo sciopero indetto e organizzato interamente da donne. I ritocchi salariali e miglioramenti avevano appena sfiorato le ragazze della "Camiceria Triangolo", reclutate fra le più giovani, le più timide, le più docili immigrate dalla Sicilia, dai ghetti d´Ucraina e di Russia. Lo Asch Building è ancora lì dov´era nel pomeriggio del 25 marzo 1911, ribattezzato Brown Building e oggi parte della New York University alla quale fu donato. È un edificio poco interessante, nella banalità dello stile neo rinascimentale che disseminò di palazzi simili le città americane, e alle finestre dell´ottavo piano, oggi sede di rispettabili studenti e insegnanti di scienze, c´è qualche condizionatore d´aria. È un luogo un po´ freddino, poco trafficato, stranamente silenzioso nonostante la prossimità con Washington Square, il cuore del Village. Non entra in nessuna foto o videoclip ricordo del viaggio a New York. Si incrociano giovani, studenti, soprattutto studentesse, belle, serie, sorridenti, decise, occupate a vivere quel sogno che altre ragazze cucirono anche per loro, con la propria vita.

Terra 6.3.11
Sono solo un clochard
di Alessia Mazzenga

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Terra 6.3.11
Prometeo contemporaneo
a cura di Francesca Franco

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sabato 5 marzo 2011

l’Unità 5.3.11
Il Capo dello Stato al Cern : «Non si mortifichino i giovani ricercatori»
«Non devono essere sacrificati gli investimenti futuri»
«Preservare la ricerca Non si usi il machete»
di Marcella Ciarnelli


Riconosce di essere un “profano” e poiché «nessuno dei venti Capi di stato in carica è un fisico, forse potreste farci un corso accelerato». Il presidente della Repubblica, in visita al Cern di Ginevra, ha cominciato così, con una battuta che lui definisce anche “senso di umiltà” il suo saluto ai docenti ed ai ricercatori che svolgono il loro impegnativo lavoro nella cittadella della scienza tra Svizzera e Francia. Molti sono italiani, quasi “un'invasione”, 1.500 su seimila. Più del venti per cento è composto da giovani che hanno un contratto a tempo determinato. Ed è a loro, di cui ha ascoltato aspirazioni, speranze, delusioni, in rappresentanza di tutti gli altri che hanno intrapreso questa strada impegnativa ma piena di fascino e responsabilità, che Giorgio Napolitano ha detto della necessità, da lui più volte sollecitata a chi deve prendere le decisioni, dato che «non sono un presidente esecutivo ma avverto la necessità di rappresentare le aspirazioni di sviluppo del Paese» di investire nella ricerca, di non intervenire con tagli non meditati, pur nella indiscutibile necessità di ridurre il debito pubblico che pesa come un macigno che tutti devono collaborare a rimuovere, sulla possibile rinascita dell'economia del Paese. «Ritengo che in una fase di tagli della spesa pubblica occorra non intervenire con il machete e mettere sullo stesso piano tutte le spese». Ed ha aggiunto che ci sono «voci di spesa che non possono essere sacrificate in modo schematico e alla leggera» tanto più che i finanziamenti alla ricerca sono «un investimento per il futuro della nostra società, dei nostri giovani, della scienza». Napolitano ha domandato in modo retorico dato che lui la risposta la conosce bene, «se non si è più miopi nel trascurare il valore in sé della scienza o se si è poco lungimiranti nel sottovalutare le ricadute nella nostra vita quotidiana. Vorrei che non dovesse essere neppure portata questa giustificazione. Non so se Galileo Galilei fosse in grado di garantire immediate ricadute delle sue ricerche». Suona amara l'ironia di Napolitano che piazza Galilei l'ha appena attraversata dato che allo scienziato è stata intitolata quella su cui sorge il globo di legno, gigantesco simbolo del Cern. In questi mesi, molte altre volte il presidente ha messo in guardia il governo dai tagli lineari che non tengono conto di esigenze sacrosante testimoniate dalla passione e dal sacrificio di tanti giovani. Ma ha anche sollecitato i privati a fare la loro parte.
I giovani hanno ascoltato con attenzione il “profano” che poco prima si era seduto al computer ed aveva fatto domande ai ricercatori che lavorano al progetto Atlas. «Ho trovato pochi giovani motivati come quelli che si dedicano alla ricerca scientifica. Se noi mortificassimo questa vocazione per la ricerca commetteremmo un gravissimo delitto e non possiamo concedercelo». Sulla ricerca «è in gioco il ruolo dell'Italia nel mondo» in una fase storica «in cui si discute come il ruolo dell' Europa rischi di declinare». Ed allora è più che mai necessaria «capacità di distinzione per quello che può essere sacrificato e per quello che non può esserlo».

l’Unità 5.3.11
Professori, pretendete rispetto
Essere in piazza
di Sofia Toselli


Non c’è democrazia senza uomini e donne in grado di farla vivere e crescere. Questo è il compito prioritario della scuola pubblica. Per questo Berlusconi l’attacca. Il momento è difficile e il malessere degli insegnanti si taglia a fette. In una situazione così, se arriva alla scuola un’offesa ingiusta e spregevole da chi avrebbe, per responsabilità istituzionali, il compito di salvaguardarla, il malessere aumenta, l’irritazione esplode. In realtà si attacca la scuola pubblica, la scuola dello Stato, per quello che essa rappresenta, un luogo dove si cresce e si impara tutti insieme, dove non si fa differenza tra il ricco e il povero, tra chi è italiano e chi non loè,trailbiancoeilnero,trachiè credente e chi no. È spregiudicata irresponsabilità la delegittimazione degli insegnanti.
A chi torna utile il qualunquismo di chi parla della scuola come di un fenomeno di degenerazione sociale e culturale, con l’approssimazione superba e acritica di chi pensa che poiché la scuola è di tutti, tutti ne possano parlare?
E soprattutto, colleghi, dove siamo noi, insegnanti consapevoli, democratici, responsabili, vincolati indissolubilmente all’etica della nostra professione? È utile questa nostra rassegnazione? Sarà la nostra serietà a prevalere sulla delegittimazione? Io credo di no, che non sia sufficiente. Credo che occorrano risposte altrettanto penetranti e potenti. Ma per fornire queste risposte abbiamo bisogno che il nostro malessere e la nostra indignazione diventino visibili, palpabili. Testimoniamo perciò con la nostra presenza il 12 marzo l’importanza straordinaria del lavoro che facciamo. Meritiamo rispetto, pretendiamolo.

La Stampa 5.3.11
I valori del laico
di Gian Enrico Rusconi


In democrazia vale il principio secondo cui il credente può esporre nel discorso pubblico e quindi introdurre nel processo deliberativo posizioni che (formulate in codice religioso o no) non pregiudicano l’autonomia di comportamento degli altri cittadini che hanno convinzioni diverse o contrarie alle sue. Naturalmente vale anche il reciproco.
Da parte sua il laico deve falsificare l’inconsistente luogo comune che considera la laicità, nel migliore dei casi, soltanto una procedura o un metodo mentre la religione offrirebbe contenuti di senso sostanziali. Va fermamente respinta l’idea che la percezione del mistero della vita e della contingenza del mondo, l’emozione profonda davanti all’universo, il senso del limite dell’uomo siano prerogative del sentimento religioso. È sciocco scambiare come indifferenza verso il senso della vita la discrezione, la riservatezza, il silenzio che il laico prova dinanzi alla finitezza, alla miseria umana e alla morte.
La cultura laica rifugge da ogni omologazione culturale ma possiede una concezione della «natura umana» ragionevole e scientificamente fondata, a fronte di visioni antropologiche strettamente intrecciate con culture religiose storicamente debitrici a saperi pre-scientifici. Contrastando ogni forma comunitarista che fa appello a «tradizioni» o «radici» con pretese vincolanti, il laico fa valere il principio universalistico della cittadinanza costituzionale.
Tutto ciò è congruente con l’idea di democrazia intesa come lo spazio istituzionale entro cui tutti i cittadini, credenti, non credenti e diversamente credenti confrontano i loro argomenti, affermano le loro identità e rivendicano il diritto di orientare liberamente la loro vita – senza ledere l’analogo diritto degli altri. Che questo difficile equilibrio sia etichettato oggi come post-secolare anziché semplicemente laico poco importa. Ciò che conta è che esso sia garantito da un insieme di procedure consensuali che impediscono il prevalere autoritativo di alcune pretese di verità o di comportamento su altre. L’età post-secolare non può cancellare l’acquisizione essenziale della secolarizzazione: la piena legittimità etica del non credere, oltre che la legittimità e la plausibilità intellettuale del non credere.
Tutte le opzioni morali hanno pari dignità quando sono pubblicamente argomentate, accolte e sottoposte al vaglio dei procedimenti democratici nei casi in cui hanno rilevanza pubblica e richiedono di farsi valere come norme di valore giuridico. La libertà di coscienza individuale e la sua autonomia non sono affidate a insindacabili valutazioni soggettive bensì a motivazioni che sono aperte allo scambio di ragioni degli altri, accolte con pieno rispetto. Da qui la necessità di legiferare in modo da non offendere chi – nei meccanismi della rappresentanza – non riesce a far valere il suo punto di vista. Questa democrazia è definibile come laica nel senso che quando in essa si manifestano credenze e convinzioni incompatibili tra loro, ai fini dell’etica pubblica e delle sue espressioni normative, non decidono «verità sull’uomo» (riferite a una «parola di Dio» interpretata in modo autoritativo da un ceto di professionisti religiosi) ma le procedure che minimizzano il dissenso tra i partecipanti al discorso pubblico. «La verità» – se vogliamo usare questo impegnativo concetto – è contenuta nello scambio amichevole di argomenti che motivano le proprie convinzioni e nella lealtà di comportamenti che non sono reciprocamente lesivi. Chi accetta questo, realizza la cittadinanza democratica.
Questo brano è tratto da «Democrazia post-secolare» nella raccolta di Letture di Biennale Democrazia pubblicata da Einaudi.

il Riformista 5.3.11
L’anno zero del partito democratico
Tutto da rifare
Non basta più la santa alleanza. Il governo tecnico è archeologia. Le elezioni anticipate si allontanano. Il Pd si trova a dover ripensare da capo alleanze e strategie. E i guai non mancano: la mina referendum, le primarie a targhe alterne, il candidato premier che non c’è ancora, gli imbarazzi su tutti i temi che l’attualità impone, dalle vertenze Fiat al biotestamento. Il governo è paralizzato, ma non è con l’appellificio che i democratici si rimetteranno in pista
di Tommaso Labate

qui
http://www.scribd.com/doc/50068335

il Riformista 5.3.11
I democratici e il fantasma della vittoria
di Stefano Cappellini


il Riformista 5.3.11
il segretario si difende su firme e quesiti
Bersani: «Stare in piazza ci premierà»
di Tommaso Labate


il Fatto 5.3.11
Bagnasco e Bertone alla guerra degli ospedali pedatrici
Bambin Gesù di Roma e Gaslini, ma è una lotta di poltrone
di Ferruccio Sansa


Tarcisio Bertone contro Angelo Bagnasco. L’ospedale Bambino Gesù di Roma contro l’ospedale Gaslini di Genova. Il segretario di Stato (ex arcivescovo di Genova) e il presidente della Cei (suo successore nel capoluogo ligure), ultimamente si trovano spesso su posizioni diverse. Toni ovattati, ma nei corridoi vaticani si sa che le contrapposizioni sono nette. Rivelatore un episodio soltanto apparentemente locale: la rivalità tra i due più importanti ospedali pediatrici d’Italia. Uno, il Bambino Gesù, istituto vaticano dotato di extra-territorialità, che “riceve dallo Stato italiano 50 milioni l’anno”. L’altro, il Gaslini, istituto di diritto pubblico italiano (sebbene presieduto dal cardinale di Genova) che non riceve quattrini dallo Stato dal 2007 (ultimi i 36 milioni di Prodi). Una vicenda ospedaliera che nasconde una lotta di potere e di poltrone, con Bertone che si è portato a Roma manager e imprenditori amici, ma anche medici tra i più stimati strappati al Gaslini.
UNA POLEMICA che fino a pochi giorni fa era rimasta confinata nelle corsie. Poi ecco che Alberto Gagliardi (battitore libero del Pdl in contrasto con Berlusconi) ha portato la questione davanti al Consiglio comunale di Genova. Da lì la storia è giunta in Vaticano. Bagnasco ha dichiarato: “Speriamo che l’occhio responsabile di chi ha dovere di decidere consideri sempre meglio il ruolo del Gaslini che non è solo locale, ma nazionale e internazionale”. Il Gaslini è uno dei più prestigiosi ospedali pediatrici europei. Come ha ricordato il direttore generale, Paolo Petralia: “Secondo le valutazioni basate sull’impact factor siamo il primo Istituto di ricerca pediatrica per numero e qualità di pubblicazioni. Abbiamo 486 posti letto e 50 mila ricoveri l’anno, la metà da fuori Liguria, molti dal Sud. Siamo l’unico istituto italiano con tutte le specialità”.
DATI SIMILI vanta il Bambino Gesù: 40 specialità, 550 posti letto e 25 mila ricoveri (il 35 per cento da fuori Lazio). Chi vuole far curare al meglio un bambino quasi sempre si rivolge a uno dei due istituti (o al Meyer di Firenze). Che, però, oggi, in periodo di crisi nera per la sanità si trovano l’un contro l’altro armati. A Genova molti accusano di “concorrenza sleale” l’ospedale Vaticano. Due i motivi: “Il Bambino Gesù”, come ha ricordato il sindaco Marta Vincenzi, pur essendo ospedale vaticano “riceve 50 milioni l’anno dallo Stato”. Non solo: il Bambino Gesù gode di extra-territorialità. Gli stipendi hanno un trattamento fiscale vantaggioso. Lavorare per l’ospedale della Santa Sede conviene, soprattutto se i dipendenti prendono la cittadinanza vaticana con esenzione dalle tasse italiane. La storia racchiude anche altre pieghe. Tutto comincia quando Tarcisio Bertone diventa segretario di Stato e porta con sé nella Capitale un gruppo di fedelissimi. A cominciare da quel Giuseppe Profiti, toccato dal ciclone Mensopoli, che finì agli arresti domiciliari, ma fu sempre sostenuto dal cardinale, fino alla clamorosa iniziativa di farlo ricevere dal papa in visita a Savona nel mezzo dell’inchiesta. Profitti in primo grado è stato condannato a sei mesi di reclusione, ma l’inciampo non ha impedito a Bertone di nominarlo presidente dell’ospedale pediatrico, una sorta di ministro della Sanità vaticana. Ma Bertone ha fatto sbarcare a Roma anche imprenditori di sua fiducia. Come Gianantonio Bandera. A Genova ha costruito parcheggi per le parrocchie ed è stato nominato magistrato della Misericordia, la fondazione che amministra i beni della Diocesi per i poveri. Poi è entrato nella società che costruirà il nuovo porto di Santa Margherita al centro delle polemiche. A Roma Bandera sta realizzando un progetto caro al Vaticano, più contestato di quello di Santa Margherita: auditorium, uffici e laboratori per l’ospedale Bambino Gesù. Secondo Andrea Catarci (presidente dell’XI municipio), i 23 mila metri cubi sorgeranno sopra le catacombe di Santa Tecla, a due passi da San Paolo, “in una zona patrimonio dell’Umanità Unesco”.
NON BASTA: il Bambino Gesù, come ha ricordato Guido Filippi sul Secolo XIX, negli ultimi tempi ha “scippato” al Gaslini medici di punta. Profiti ha portato con sé Giacomo Pongiglione, direttore del dipartimento di Cardiologia del Gaslini, l’uomo che per primo al mondo ha trapiantato un cuore artificiale su un quindicenne. Poi è toccato a Paolo Tomà, direttore del dipartimento di Radiodiagnostica. Certo perché il Bambino Gesù è un ospedale prestigioso, ma forse pesano anche le leggi vaticane: ci sono i vantaggi fiscali e i diversi contratti di lavoro che Oltretevere consentono di mantenere in servizio chi ha superato l’età della pensione. Insomma, il segretario di Stato punta molto sul Bambino Gesù. E qualcuno a questo punto insinua che nella lotta tra gli ospedali dei bambini ci metta lo zampino anche la politica: Bertone, apertamente filo-berlusconiano, ottiene senza colpo ferire i 50 milioni l’anno di finanziamenti per il “suo” istituto. Bagnasco, appena più cauto con il premier, deve sudare sette camicie per il Gaslini. Sarà così? Certo la politica non risparmia nulla, nemmeno gli ospedali per i più piccoli. Il Bambino Gesù come il Gaslini. Basta ricordare quello che successe alla nomina del cda. Marta Vincenzi nominò Donato Bruccoleri, farmacista senza esperienza specifica e cugino di Totò Cuffaro, all’epoca ancora in auge nell’Udc (che doveva allearsi con il Pd per le elezioni regionali).
LA REGIONE invece scelse Raffaele Bozzano, anch’egli senza esperienza specifica e già socio di Franco Lazzarini (praticamente un gemello siamese di Burlando del Pd, che usava la sua auto e viveva in affitto nella sua casa all’epoca del famoso contromano in auto). Insomma, difficile trovare qualcuno che possa scagliare la prima pietra. Di sicuro c’è un paradosso: il Gaslini, ospedale italiano ai vertici mondiali, rischia di vedersi superare dall’ospedale della Santa Sede grazie agli aiuti dello Stato.

Tedesco: «la fattispecie del reato era pressoché identica e anche i fatti contestati a me e Vendola erano sovrapponibili al 90 per cento. Quindi sicuramente c’è un atteggiamento diverso dei giudici»
il Fatto 5.3.11
Tedesco al Tg1, parla di Vendola per avvertire D’Alema?
I dubbi dell’entourage del governatore pugliese. Sul senatore pende una richiesta d’arresto per l’inchiesta sulla sanità
di Stefano Caselli


Un’intervista di un minuto e mezzo in pieno telegiornale delle 20, buttata lì come se niente fosse, ma con il chiaro intento di parlare a chi deve sentire: “Ed ora l’inchiesta sulla sanità in Puglia annuncia stentoreo il conduttore parla al Tg1 il senatore Tedesco: per me e Vendola, due pesi e due misure dai magistrati”. Si dà per scontato che il telespettatore medio del Tg1 sappia di cosa si parli, che conosca la vicenda dell’ex assessore alla Sanità della Regione Puglia (dimessosi all’inizio dell’inchiesta nel febbraio 2009 prima di approdare in Senato pochi mesi dopo nelle file del Pd) su cui pende una richiesta di arresto (al vaglio della Giunta parlamentare per le autorizzazioni a procedere) per concussione, turbativa d’asta, abuso d’ufficio e concorso in falso, in quanto accusato di aver pilotato “le nomine – scrive nell’ordinanza il gip di Bari Giuseppe De Benedictis – dei dirigenti generali delle Asl pugliesi verso persone di propria fiducia” e di aver controllato “la nomina dei direttori amministrativi e sanitari in modo da dirottare le gare d’appalto e le forniture verso imprenditori a lui legati da vincoli familiari o da interessi economici ed elettorali”. Si dà altresì per scontato che il telespettatore sappia che nella medesima inchiesta durata oltre due anni è stato coinvolto anche il presidente della Regione Nichi Vendola, la cui posizione è stata archiviata come da richiesta dei pm dal gip Sergio De Paola.
LO SI DÀ per scontato perché di tutto questo non si fa cenno. Il telespettatore si trova sullo schermo un signore in maglione blu, che gira nervosamente tra le mani una pallina da golf, mentre dichiara che “la fattispecie del reato era pressoché identica e anche i fatti contestati a me e Vendola erano sovrapponibili al 90 per cento. Quindi sicuramente c’è un atteggiamento diverso dei giudici”. E fin qui tutto bene, è un indagato che si difende. Chi si aspetta domande che approfondiscano il tema rimane deluso. Non è per questo infatti che il senatore Pd, che attende il voto della Giunta per le autorizzazioni a procedere, si fa intervistare: “È un chiaro messaggio al suo partito, Vendola c’entra poco o nulla”, confidano dall’entourage del presidente della Regione. Così Tedesco, incalzato dalla domanda “In che rapporti è con Vendola?” ricorda come questi si siano interrotti “il giorno dopo la sua elezione a presidente, nonostante – precisa Tedesco – mi fossi espressamente impegnato a suo favore, interloquendo direttamente con il presidente D’Alema, che non era convinto di questa ricandidatura”.
Quindi una seconda domanda da ko: “In che rapporti è con il sindaco di Bari Emiliano?”. E qui il senatore liquida il primo cittadino (che in base alle intercettazioni della Procura di Bari, è molto critico con Vendola sull’opportunità di nominare Tedesco assessore alla Sanità a causa di noti conflitti d’interesse) come “l’altra faccia della medaglia del presidente; ti blandiscono, ti inseguono quando puoi essere utile, poi ti scaricano immediatamente”.
IL TELESPETTATORE del Tg1 ci ha capito poco o nulla, ma chi deve capire probabilmente capisce: “Citare espressamente D’Alema ed Emiliano – ancora dall’entourage di Vendola – è un modo per smuovere gli equilibri di potere del partito non solo pugliesi, per ricordare a tutti i parlamentari che sulla sua richiesta di arresto è opportuno valutare con molta attenzione come comportarsi”. E il messaggio è chiaro anche alle altre forze politiche: Tedesco si è autosospeso dal Pd ed è già transitato al gruppo misto, e secondo alcuni, il passo verso il gruppo dei “Responsabili”, l’autentica stampella stampella di B., non sarebbe impossibile.
Il Pd, sulla questione Tedesco, si gioca una buona parte di credibilità. Dalle colonne dei giornali di Famiglia è partita la grancassa garantista in evidente funzione “anti-Ruby” (cui si accoda anche Piero Sansonetti, secondo cui “il Pd tornerà a vincere solo se salverà Tedesco”). Bersani non si sbilancia, dichiarando che i parlamentari voteranno “in scienza e coscienza e dal partito non verrà alcuna copertura, alcuna indicazione”.

Repubblica 5.3.11
La democrazia contro le oligarchie
di Gustavo Zagrebelsky


Dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza alla riduzione del potere nelle mani di élites
Il potere illegale e corruttivo del denaro di cui si occultano il possesso e la gestione per poter corrompere ogni altro ambito della vita sociale

Che sulla democrazia – come su ogni altra forma di governo – incomba il pericolo del disfacimento, è un dato d´esperienza che non può essere negato. Le forme di governo sono vitali se sono animate da un principio, un ressort, secondo l´espressione di Montesquieu. Il ressort della democrazia è la virtù repubblicana. Quando la molla è totalmente dispiegata e dunque non ha più forza da sprigionare, quello è il momento d´inizio della decadenza. La questione, gravida di conseguenze pratiche, è se l´esito finale del processo corruttivo sia o non sia inevitabile. Se non è evitabile, tanto vale rassegnarsi e, se mai, lavorare per il dopo. Se è evitabile, la democrazia come ideale politico non perde di valore, pur in presenza di difficoltà. Possiamo dire la stessa cosa prendendo a prestito l´espressione di Norberto Bobbio, "le promesse non mantenute della democrazia", e chiederci: queste promesse possono o non possono essere mantenute? (...) Che cosa possiamo rispondere a questa cruciale domanda? È necessario prendere atto di questo apparente paradosso: mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro dichiarata adesione alla democrazia, cresce e si diffonde lo scetticismo presso chi studia l´odierna morfologia del potere e presso coloro che ne sono l´oggetto e, spesso, le vittime.
Per secoli, democrazia è stata la parola d´ordine degli esclusi dal potere per contestare l´autocrazia dei potenti; ora sembra diventare l´ostentazione di questi ultimi per rivestire la propria supremazia. Presso i cittadini comuni, non c´è (ancora?) un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche. C´è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia che, sulla bocca dei potenti, per lo più trasmettono ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni. C´è, in breve, una reazione anti-retorica alla retorica democratica. Quando si sente esclamare con fastidio: "tanto sono tutti uguali" (quelli della cosiddetta classe dirigente), questo non significa forse che la democrazia ha perso di valore presso questi cittadini, che la considerano semplicemente la vuota rappresentazione o l´occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi? Una "teatrocrazia", è stato detto. L´esito potrà essere l´astensione o l´adesione passiva e routinaria: in entrambi i casi, un distacco. Lo scetticismo a-democratico dal basso fa da pendant alla retorica democratica dall´alto.
Il paradosso sopra segnalato si scioglie pensando alle capacità mimetiche o camaleontiche della democrazia, rispetto alle quali è imbattibile. Sotto le sue spoglie ideologiche si può comodamente annidare mimetizzandosi, cioè senza mettersi in mostra (questo è il grande vantaggio), perfino il più ristretto e il meno presentabile potere oligarchico. Le forme democratiche del potere possono essere un´efficace maschera dissimulatoria. È stato così in passato e così è anche nel presente. Basta consultare la storia. Essa ci dice che la democrazia, come parola, può contenere l´anti-democrazia, come sostanza. Anzi, oggi il potere antidemocratico ha bisogno di passare per la porta rassicurante della democrazia (...) Realisticamente o, come si dice, "sperimentalmente", dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza alla riduzione del potere in poche mani, nelle mani di élites. Gli studi in proposito sono numerosi; le loro teorizzazioni presentano diverse varianti e le conclusioni cui pervengono non sono necessariamente in opposizione alle esigenze minime della democrazia. Ma le cose cambiano quando dalle élites si passa alle oligarchie, anzi a quella che è stata definita la "ferrea legge delle oligarchie": una legge che esprime una tendenza endemica, cioè mossa da ragioni interne ineliminabili, sia della democrazia sia delle stesse élites. Questa tendenza è denunciata concordemente dai critici della democrazia, i critici sia di destra che di sinistra. Il che è quanto dire che la denuncia è corale e che coloro che proclamano l´ideale del governo del popolo sono o degli ingenui o degli impostori. La "ferrea legge" si basa sulla constatazione che i grandi numeri, quando hanno conquistato l´uguaglianza, cioè il livellamento nella sfera politica, cioè quando la democrazia è stata proclamata, e tanto più è proclamata allo stato puro, cioè come democrazia immediata, senza delega, per ragioni strutturali ha bisogno di piccoli numeri, di gruppi di potere ristretti. Non basta. L´oligarchia non è però l´élite. L´oligarchia si potrebbe dire così è l´élite che si fa corpo separato ed espropria i grandi numeri a proprio vantaggio. Trasforma la res publica, in res privatae. Poiché, poi, questa è una patente contraddizione rispetto ai principi della democrazia, occorre che queste oligarchie siano occulte e che esse, a loro volta, occultino il loro occultamento per mezzo del massimo di esibizioni pubbliche. La democrazia allora si dimostra così il regime dell´illusione. Il più benigno dei regimi politici, in apparenza, è il più maligno, in realtà. Il "principio maggioritario", che è l´essenza della democrazia, si rovescia infatti nel "principio minoritario", che è l´essenza dell´autocrazia: un´autocrazia che si appoggia su grandi numeri, ma pur sempre un´autocrazia e, per questo, più pericolosa, non meno pericolosa, del potere in mano a piccole cerchie di persone che possono sostenersi solo su se stesse.
(...) Le oligarchie nascoste di cui stiamo parlando, per il sol fatto d´essere tali, tendono naturalmente, anzi necessariamente, all´illegalità e alla corruzione. Poiché le oligarchie del nostro tempo sono costruite e finalizzate all´accaparramento di ricchezza sempre questo: pecunia regina mundi il potere di cui si parla oggi è il potere illegale e corruttivo del denaro di cui si occultano il possesso e la gestione per poter corrompere ogni altro ambito della vita sociale. È una tendenza "naturale", per l´ovvia, antropologica legge del potere che già Montesquieu ha chiarito, nella sua crudezza: chi detiene il potere, se non incontra limiti, è portato ad abusarne. Le oligarchie del nostro tempo non incontrano altri limiti se non quelli rappresentati da altre oligarchie. Ma l´abuso come limite all´abuso è semplicemente una complicazione dell´abuso. È anche una tendenza "necessaria", perché i regimi dei pochi sono incompatibili con la legalità uguale per tutti. Le oligarchie hanno bisogno di privilegi, cioè di leggi che valgono solo per loro, diverse da quelle che valgono per tutti gli altri. O, quanto meno, hanno bisogno che le leggi generali e astratte siano interpretate e applicate a loro in modo tale da non contraddire l´esistenza dell´oligarchia stessa. Ciò che occorre loro è una "giustizia dei pari", diversa da quella comune; un "foro speciale" non di giudici imparziali, ma di giudici amici. "Un´aristocrazia ha scritto Tocqueville, e noi potremmo senz´altro dire: un´oligarchia non potrebbe lasciarsi sfuggire i suoi privilegi senza cessare d´essere una aristocrazia". La legalità uguale per tutti lo si comprende senza spiegazioni è incompatibile con la divisione della società in appartenenti ed esclusi dal potere oligarchico. Quando, alla fine, nel senso comune si sommano due percezioni: l´estraneità al potere e la sua illegalità e corruzione, ecco la miscela esplosiva che può indurre a chiedere che la si faccia finita con la democrazia, se essa, in concreto, significa queste cose.
Che dire, allora? La democrazia è destinata a trasformarsi in oligarchia; l´oligarchia è in se stessa disuguaglianza di fronte alla legge; l´illegalità e la corruzione sono la conseguenza. Allora, dunque, alla domanda se le promesse della democrazia siano tali da non poter essere mantenute, la risposta sembra che debba essere: sì, non possono essere mantenute. Si fondano le democrazie e si mette in moto un processo destinato alla rovina delle società. Fermiamoci un momento, però, prima di questo passo fatale, del quale, se lo facessimo leggermente, ci dovremmo presto pentire, perché, abbandonata la democrazia, avremmo solo autocrazie e le autocrazie non sono un rimedio, sono anzi l´accentuazione dei mali.
(...) Potremmo forse dire così: la democrazia non è nel senso che non può essere l´autogoverno del popolo che si afferma durevolmente. È invece la possibilità istituzionalizzata, dunque resa stabile secondo procedure riconosciute e accettate, di combattere e distruggere sempre di nuovo le oligarchie ch´essa stessa nutre dentro di sé. Una definizione in negativo, dunque: qualcosa che si qualifica per essere contro un´altra. Da questo punto di vista, la democrazia è tutt´altro che un ideale impossibile. È invece una possibilità, cioè una serie di strumenti che spetta a noi di utilizzare, per tradurre in pratica l´avversione alle oligarchie. Se gli strumenti esistono e non sono utilizzati, non si può dire che non c´è democrazia, ma si deve dire che la democrazia (come possibilità) c´è e ciò che manca è la pratica della democrazia. Allora, la responsabilità dello scacco non deve essere addossata alla democrazia come tale, ma deve essere assunta da noi, incapaci di utilizzare le possibilità ch´essa ci offre. Se cediamo all´accidia della democrazia, è perché prevale sulla libertà morale il richiamo del gregge e la tendenza gregaria, che sono il lato biologico profondo degli esseri umani che l´avvicinano agli altri esseri viventi, come ha messo in luce Sigmund Freud nel suo studio sulla psicologia delle masse. Ma il gregge è una possibilità, non un destino.
(....) Diciamo così, a costo di cadere nell´enfasi: la democrazia vuole potenti gli inermi e inermi i potenti; vuole forti i giusti e giusti i forti. È per questo che i suoi nemici mortali sono le concentrazioni oligarchiche del potere. Contro le concezioni ireniche della democrazia, non possiamo pensare ch´essa sia il regime che definitivamente pone fine ai conflitti, eliminandone le cause. Il suo tempo non è quello in cui tutto è pacificato. Non è il regno dell´armonia, della giustizia e della concordia. È illusione che sia il luogo ove "il lupo dimorerà con l´agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera" (Isaia, 11, 1-9). Questo sarà, se mai sarà, il tempo messianico. Finché ci sarà politica, ci saranno conflitto, ingiustizia e discordia. La questione non è come eliminarli, ma come affrontarli.

Repubblica 5.3.11
Le profezie sbagliate sull’islamismo
Le rivolte archiviano lo scontro di civiltà per gli arabi è un nuovo ingresso nella storia
di Gilles Kepel


Mi ricordo una colazione al Club dei Professori di Harvard con Samuel Huntington, qualche anno dopo la pubblicazione del suo famoso articolo, poi del suo libro, sullo Scontro delle civiltà.
Avevo voluto vederlo perché, per elaborare il suo argomento, aveva usato fra l´altro il mio libro La rivincita di Dio. In quelle pagine spiegavo come, negli Anni Settanta, si fossero sviluppati i movimenti politici religiosi all´interno del Cristianesimo, l´Ebraismo e l´Islam.
Avevo voluto tracciare dei paralleli trans-religiosi fra quei fenomeni; dimostrare come, benché in modo diverso, ciascuno dei tre fosse nato in reazione alla crisi della modernità e del mondo industriale, all´indebolimento delle solidarietà sindacali e operaie dopo la scomparsa del lavoro in fabbrica, l´aumento della disoccupazione, e così via.
Paradossalmente, però, Huntington aveva attinto soltanto alla parte islamica del mio libro, usandola per argomentare il carattere eccezionale dell´Islam. Su questo aveva fondato una visione univoca dell´Islam senza capire che all´interno di quella fede si opponevano varie forze, si scontravano per controllarlo, o per imporre una divisione tra il riferimento laico e quello religioso nella lotta politica e nello spazio pubblico.
La discussione con lui quel giorno fu cortese, ma affiorarono posizioni radicalmente diverse.
Qualche anno dopo arrivò l´11 settembre 2001. Huntington conobbe un secondo trionfo: gli attentati di Al Qaeda, agli occhi di gran parte dei commentatori, convalidavano le sue tesi e il carattere assolutista dell´Islam; trasformavano la gran massa dei fedeli in seguaci di Bin Laden.
Dal canto mio, nel libro Jihad, ascesa e declino dell´islamismo, avevo cercato di spiegare che l´islamismo attraversava, appunto, un declino. Infatti, si era spaccato. Da un lato, vi erano i gruppi radicali destinati a usare sempre più la violenza, nella speranza che quella avrebbe svegliato le masse e innescato la rivoluzione islamica. Quei gruppi erano una versione musulmana delle Brigate rosse, o della Rote Armee Fraktion tedesca. Dall´altro lato, vi erano islamisti come l´Akp turco, pronti a partecipare al sistema politico, destinati poi a vedere la propria dottrina dissolversi nel pluralismo, e a riconoscere che la sovranità deriva dal popolo e non da Allah: la democrazia.
Il 12 settembre, mentre Huntington trionfava nei media, certi giornalisti francesi chiesero la mia rimozione dalla cattedra, tanto i miei scritti parevano a loro privi di senso.
Eppure oggi, che sono trascorsi 10 anni, quell´analisi mi sembra giusta. L´estremismo islamico, di cui Bin Laden era l´emblema, non è riuscito a trascinare le masse del mondo musulmano. Al Qaeda è ridotto a una setta priva di fecondità politica.
D´altro canto, i regimi autoritari e dittatoriali dei vari Mubarak e Ben Ali, ritenuti dagli occidentali "baluardi" contro l´estremismo islamico, sono anch´essi diventati obsoleti.
Oggi i popoli arabi sono emersi da quel dilemma stretti fra Ben Ali o Bin Laden. Hanno fatto di nuovo ingresso in una storia universale che ha visto cadere le dittature in America Latina, i regimi comunisti nell´Europa orientale, e anche i regimi militari nei Paesi musulmani non arabi, come l´Indonesia e la Turchia.
Di conseguenza, gli islamisti che proponevano la partecipazione politica all´interno di un sistema pluralista sul modello turco, oggi prevalgono, anche se in Egitto non sono stati capaci di imporre il proprio vocabolario politico, e sono costretti senza pregiudicare gli sviluppi futuri a seguire le rivoluzioni democratiche arabe, anziché invocare la sovranità di Allah.
Perciò, credo che il sociologo politico abbia avuto ragione rispetto a certi studi che riducevano la società a dei testi ideologici.
Molti, con grande ingenuità, ora scrivono che l´islamismo è scomparso, che gli arabi assomigliano agli europei o agli americani. La realtà, però, è più complessa. Gli arabi, infatti, stanno costruendo una modernità, esitante. Non è un caso che la prima rivoluzione araba sia avvenuta in Tunisia, e che lo slogan più celebre sia stato espresso in francese: "Ben Ali dégage", "vattene", ripreso fedelmente dagli egiziani in un Paese dove quasi nessuno parla più il francese. Gli egiziani l´hanno ascoltato su Al Jazeera ed è divenuto uno slogan rivoluzionario.
In Tunisia vi è un vero pluralismo culturale franco-arabo. Questo ci fa capire la vera natura delle rivoluzioni in corso: radicate nelle culture locali, e al tempo stesso nelle aspirazioni universali, con tutte le difficoltà che ciò comporta.

La Stampa 5.3.11
Libia. Il regime ha le armi gli insorti il coraggio
La valutazione dell’intelligence Usa: le forze lealiste hanno carri armati e jet ma sono poco affidabili. I ribelli sono determinati ma divisi e con mezzi scarsi
di Maurizio Molinari


Il regime di Gheddafi punta a riconquistare città e aeroporti con le armi pesanti, ma i suoi soldati sono svogliati mentre i combattenti ribelli sono molto motivati ma poco coordinati: è questa la radiografia dello scontro in atto in Libia come emerge dalle analisi dell’intelligence accumulatesi in questi giorni sulle scrivanie degli esperti militari americani.
Il conflitto, iniziato il 15 febbraio con le proteste a Bengasi e Tripoli, ha portato i ribelli a controllare almeno 22 centri, soprattutto sulla costa, dove si concentrano la popolazione e i terminal petroliferi. Il 23 febbraio Gheddafi ha preso atto della perdita di Bengasi, al Bayda, Ajdabiya, Darnah e Tobruk, ma da quel momento i ribelli hanno avuto difficoltà a spingersi a Ovest: il controllo di Misurata resta in bilico e il regime ieri ha vantato la riconquista di Zawiyah, a pochi chilometri dalla capitale.
A condizionare l’andamento dei combattimenti sono «le defezioni nei ranghi dell’esercito e la motivazione dei ribelli» spiega Jeffrey White, ex analista dell’intelligence in forza al «Washington Institute». Il collasso della coesione delle forze regolari si è manifestato a partire dal 17 febbraio, indebolendo la capacità del regime di frenare la rivolta, e la risposta di Gheddafi è stata la scelta di impiegare armi pesanti contro l’opposizione: carri armati, artiglieria, antiaeree e aerei, tanto ad ala fissa che mobile.
Sebbene l’iniziativa resti al comando dei ribelli che si è dato il nome di «Jaysh e Libi al Hurra» (Esercito per la liberazione della Libia), il regime dimostra di controllare importanti zone urbane nell’Ovest, riuscire a condurre operazioni militari complesse e poter far affluire rinforzi a lunga distanza. Ma con l’evidente difficoltà di riprendere le città perdute in Cirenaica, a dimostrazione che i soldati ammassati attorno alle zone ribelli falliscono per carenza di determinazione nell’affrontare gli scontri più duri. La tattica di Gheddafi è di assicurarsi il controllo o la riconquista non solo di centri urbani ma anche aeroporti e piste d’atterraggio, che gli servono per adoperare i jet, al fine di creare un’area sicura da Marsa al Burayqah nell’Est fino al confine con la Tunisia. Se jet, elicotteri, carri armati e artiglieria gli servono per tentare di riprendere i centri perduti, quando non vi riesce ricorre a cecchini, armi automatiche, gas lacrimogeni e pallottole di gomma per gettare scompiglio fra gli assembramenti di ribelli.
Tali operazioni sono affidate a cinque diversi tipi di unità militari ancora a lui fedeli: ciò che resta dell’esercito regolare, i commandos della brigata Khamis, dal nome del figlio che la guida, unità di miliziani, mercenari stranieri e non, civili filogovernativi con armi leggere. «I più efficienti sono i 10-12 mila uomini della 32ª Brigata guidata da Khamis spiega un funzionario militare perché bene armati e fra i quali non vi sono state defezioni».
I combattenti ribelli invece possono essere divisi in due tipologie: dimostranti dotati di armi leggere, come pistole, fucili e coltelli; soldati disertori, in alcuni casi intere unità, in grado di adoperare carri armati, artiglierie, armi anticarro, antiaeree e blindati abbandonati dai lealisti. «Molti di questi ribelli appartengono alle tribù Maghrebi, Zwaye, Zawawi, Faqri e Gebayli» spiega Derek Henry Ford della «Jamestown Foundation», secondo cui a guidare l’assalto a Tripoli è un generale disertore di nome Mahdi al Arabi «presunto cugino di Gheddafi». Ma i limiti di tale avanzata verso Ovest sono «carenza di organizzazione militare, scarsa potenza di fuoco e rivalità interne» commenta White, per il quale «i ribelli stanno dimostrando difficoltà nei tentativi di prendere Tripoli come anche di difendere alcune delle località catturate».
A sfidarsi, dunque, sono schieramenti con opposti elementi di forza e debolezza: Gheddafi ha armi pesanti e commandos ma un esercito bersagliato dalle defezioni, mentre i ribelli hanno combattenti determinati ma male armati e poco organizzati. Da qui la possibilità che lo scontro militare abbia tre esiti: il collasso del regime per effetto combinato della disintegrazione dell’esercito e dell’avanzata dei ribelli, una guerra civile prolungata alternata a possibili trattative, una riconquista progressiva delle aree perdute da parte del regime, sfruttando le rivalità interne alla coalizione di opposizione.
La scelta del presidente americano Barack Obama di fare appello ai militari per rovesciare il colonnello lascia intendere che la Casa Bianca sta puntando le sue carte sul primo scenario per scongiurare il rischio del secondo, ovvero uno stallo sanguinoso che il segretario di Stato Hillary Clinton ha evocato parlando di «rischio di una gigantesca Somalia» davanti al Congresso.
È dunque la terza ipotesi una riconquista progressiva della Cirenaica da parte di Gheddafi lo spettro di Washington, ma fra gli analisti militari c’è chi non la esclude ricordando che i libici sono «un popolo combattente», come dimostra il fatto che le ultime campagne militari in Libia durante la Seconda guerra mondiale videro le opposte forze in campo protagoniste di ripetute avanzate e ritirate attraverso gli stessi territori.

Corriere della Sera 5.3.11
Da Mussolini a Saddam, sanzioni arma spuntata
di Sergio Romano


Ma quelle che verrebbero applicate alla Libia di Gheddafi se il colonnello riuscisse a riconquistare la Cirenaica o, quanto meno, a consolidare il suo potere in Tripolitania, sono diventate, dopo la creazione della Società delle Nazioni e dell’Onu, le punizioni con cui la comunità internazionale manifesta la sua riprovazione per il comportamento di uno Stato e cerca di costringerlo a modificare la sua politica. La punizione, tuttavia, può essere più formale che sostanziale. Quando l’Italia invase l’Etiopia nell’ottobre del 1935, la sanzione più efficace, forse decisiva, sarebbe stata la chiusura del Canale di Suez alle navi italiane che trasportavano truppe e materiali verso le coste della Eritrea e della Somalia. Ma la Gran Bretagna, proprietaria e custode del Canale, volle evitare un gesto ostile che avrebbe pregiudicato i suoi rapporti con l’Italia quando non aveva ancora rinunciato ad avere con il regime di Mussolini un rapporto di buon vicinato. Gli Stati Uniti, d’altro canto, non interruppero le loro esportazioni di petrolio. Non erano membri della Società delle Nazioni, preferirono adottare una linea di stretta neutralità e ne dettero una prova inviando in Etiopia, sul fronte italiano, un osservatore militare che portò con sé a Washington, dopo la fine della guerra, un rapporto piuttosto elogiativo sulla condotta delle operazioni. Le sanzioni contro l’Italia furono quindi una sorta di boomerang. Le procurarono qualche tollerabile inconveniente e dettero al regime l’occasione per proclamarsi vittima di un complotto internazionale. Mussolini dovette in buona misura alle sanzioni lo straordinario consenso di cui godette sino al 1939. Pochi anni dopo l’America fece contro il Giappone ciò che aveva rifiutato di fare contro l’Italia. Alla fine di settembre del 1940 proibì l’esportazione di ferro e acciaio, nel luglio del 1941 congelò tutti i crediti giapponesi nelle banche americane. Roosevelt sperava che queste misure economiche, fra cui un embargo sull’esportazione di prodotti petroliferi, avrebbero costretto i giapponesi a moderare la loro aggressiva politica imperiale in Cina e nell’Indocina francese. Ma le sanzioni ebbero piuttosto l’effetto di rendere il Giappone ancora più bellicoso e di accelerare i suoi piani per il bombardamento di Pearl Harbor il 7 dicembre 1941. Durante la guerra fredda le reciproche sanzioni furono numerose. Nel 1950 gli Stati Uniti invitarono la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia, i Paesi Bassi e il Lussemburgo a sedere insieme in un gruppo di lavoro chiamato Cocom (Coordinating Committee) per aggiornare periodicamente la lista dei prodotti «sensibili» che l’Occidente non avrebbe venduto all’Unione Sovietica e ai Paesi satelliti. Allargato poi ad altri Paesi del blocco occidentale, fra cui il Canada e la Germania, il Cocom divenne il cane da guardia delle esportazioni occidentali verso l’universo comunista. Il sistema non impedì che qualche industria, anche italiana, riuscisse ad aggirare i divieti e dette uno straordinario impulso allo spionaggio industriale, ma la guerra fredda aveva regole che occorreva osservare. Meno giustificato e ancora oggi molto discusso è l’embargo che gli Stati Uniti proclamarono contro Cuba nel 1961. Quando Fidel Castro, in gennaio, chiese che Washington riducesse a sette persone il personale dell’ambasciata americana all’Avana, il presidente Kennedy interruppe le relazioni diplomatiche e dichiarò contro l’isola una sorta di guerra economica a cui si aggiunse in aprile una guerra per procura con lo sbarco nella Baia dei porci di una forza composta da 1600 esuli cubani. L’operazione fallì, ma l’embargo esiste ancora con qualche correzione a vantaggio delle esportazioni americane quando la potente lobby degli agricoltori chiede e ottiene dal governo il diritto di vendere il suo grano nell’isola. Oggi Barack Obama sarebbe probabilmente disposto ad allentare il nodo intorno al collo dell’economia cubana, ma il problema, per gli Stati Uniti, è ormai più interno che internazionale. Gli americani di origine cubana sono due milioni, risiedono soprattutto in Florida e rappresentano un blocco elettorale di cui occorre tenere conto. Di tutte le sanzioni proclamate contro uno Stato africano le più efficaci, a prima vista, furono quelle contro il Sudafrica e, in particolare, la legge votata nel 1986 dal Congresso degli Stati Uniti (il Comprehensive anti-Apartheid Act). Ma il governo di Pretoria resistette lungamente e cambiò la sua politica soltanto quando si accorse che la formula della separazione, adottata alla fine della seconda guerra mondiale, aveva provocato un’ondata di violenza che avrebbe distrutto la coesione nazionale e reso il Paese difficilmente governabile. Del tutto inutili e controproducenti furono invece le sanzioni decretate contro l’Iraq di Saddam Hussein, principalmente in materia di esportazioni petrolifere, dopo la prima guerra del Golfo. Fu evidente che le sanzioni affamavano gli iracheni, pregiudicavano le condizioni sanitarie del Paese (si dice che l’embargo abbia provocato la morte di 500.000 bambini) e non avevano alcun effetto sulla stabilità del regime. Ne approfittarono invece gli speculatori, i contrabbandieri e tutti quegli apparati dello Stato che favorivano le loro operazioni. La comunità internazionale decise di attenuarle con un programma chiamato «oil for food» (limitate vendite di petrolio contro cibo e medicinali), ma il sistema delle licenze finì per rendere il fenomeno della corruzione ancora più esteso e per contagiare persino le Nazioni Unite. Qualcosa del genere accadde nel caso della Serbia durante l’ultima fase delle guerre balcaniche: molti divieti, molto contrabbando e molti conti correnti aperti per gli uomini del regime soprattutto nelle banche dell’isola di Cipro. Quanto alle sanzioni contro la Libia dopo l’attentato di Lockerbie e contro l’Iran dopo l’elezione di Mahmud Ahmadinejad, sarebbero state efficaci, forse, se i due Paesi non avessero continuato a vendere, in un modo o nell’altro, i loro idrocarburi e se ciascuno di essi non avesse potuto contare su parecchi amici compiacenti. Non è un caso che in Libia, in Iran e in Corea del Nord i progetti nucleari abbiano fatto progressi proprio in epoca di sanzioni. Ho citato soltanto alcune episodi, scelti a caso fra quelli di cui abbiamo maggiore memoria. Ma credo che gli esempi bastino per qualche riflessione d’ordine generale. Se si propongono di soffocare l’economia di un Paese e di spingere la sua popolazione a insorgere contro l’odiato regime, le sanzioni falliscono generalmente lo scopo. Nell’economia globalizzata le merci e il denaro trovano sempre, come l’acqua, la crepa attraverso la quale è possibile passare. Il popolo minuto soffre, ma gli esponenti del regime possono sfruttare la fame dei loro sudditi e trarne un doppio vantaggio: economico, perché controllano le leve della distribuzione, e politico, perché possono dire alle loro società che il responsabile delle loro sventure è, «come sempre» , l’Occidente. Sergio Romano

Corriere della Sera 5.3.11
Il Grande Balzo in avanti del budget militare cinese
Crescita del 12,7%. La preoccupazione del Giappone
di  Marco Del Corona


PECHINO — Compito ingrato quello del portavoce. Persino per chi, come Li Zhaoxing, è stato ministro degli Esteri (e poco importa che si mormori abbia perso il posto per aver mal gestito il viaggio di Hu Jintao alla Casa Bianca nel 2006). L’esperto Li ieri ha dovuto rassicurare la comunità internazionale che la Cina non minaccia nessuno. Neppure se nel 2011 aumenterà il suo budget militare del 12,7%contro il 7,5%dell’anno scorso, quando rallentò rispetto alla precedente infilata di percentuali a due cifre. Portavoce dell’Assemblea nazionale del Popolo che si apre oggi col premier Wen Jiabao, Li ha insistito sulla natura difensiva dell’apparato militare cinese e del suo ammodernamento. «L’esecutivo — ha scandito — ha cercato di limitare le spese militari e le ha fissate a un livello ragionevole per bilanciare difesa nazionale e crescita economica» . Ci ha provato, Li. Ed è vero che l’anno scorso il bilancio degli Stati Uniti per la Difesa toccava i 700 miliardi di dollari, mentre la Cina nel 2011 stanzia 91 miliardi di dollari e mezzo per nuove armi e aumenti salariali (più 40%, anche). Il Giappone, però, non si fida, «non possiamo non sentirci inquieti» , ha dichiarato il titolare della diplomazia di Tokyo, Seiji Maehara. Il quale raccomanda a Pechino di «fare uno sforzo di trasparenza» . Valutazioni diffuse fra osservatori e analisti portano infatti a stimare la spesa reale circa il doppio di quanto annunciato, anche alla luce del fatto che la ricerca scientifica in Cina viene spesso utilizzata pure per impieghi militari. La settimana trascorsa, poi, non ha semplificato il lavoro di Li. L’ennesima puntata cinese nell’area delle isole Senkaku (che Pechino chiama Diaoyu) ha provocato il decollo di due F-15 nipponici; altri due aerei hanno impiegato le Filippine vicino alle isole Spratly (contese fra più Paesi anche per gas e greggio) dopo un attrito con i cinesi, mentre il Vietnam ieri ha protestato per esercitazioni (cinesi) sempre presso le Spratly. La Repubblica Popolare, le cui forze armate contano 2,3 milioni di uomini e donne, continua a non lasciare sereni i Paesi vicini, e non a caso in dicembre il Giappone ha annunciato un potenziamento delle sue forze di autodifesa. In più, si sa da poco che Tianjin ospiterà la struttura «più grande del mondo» per la produzione e la messa a punto di razzi. Tokyo scruta una Cina che teme aggressiva. Il ricorso alla carta del nazionalismo sui media cinesi viene gestito con alternanza di toni, ma all’esterno si rafforzano le suggestioni di uno sciovinismo montante. Nei giorni scorsi, una coppia di attori, Sun Haiying e Lü Liping, ha teatralmente chiesto l’ «hukou» (il permesso di residenza) delle isole Diaoyu (spopolate e rivendicate dal Giappone, che le controlla), mentre un popolare sito commerciale, Meituan. com, ha lanciato una lotteria per un buono da 22 mila euro da spendere in 8 ore «in un negozio qualsiasi della Cina, di Hong Kong, Macao o delle isole Diaoyu» . Provocazioni beffarde, scherzi a uso del pubblico. Ma non basta che Li Zhaoxing sottolinei come le spese militari siano solo il 2%del Pil e il 6%del bilancio dello Stato. Né che gli alti comandi sminuiscano i progressi dell’aereo invisibile J-20, come si leggeva ieri. La Cina che si arma fa un po’ fatica a trovarsi degli amici.

il Riformista 5.3.11
Pechino ha mire da superpotenza, spese militari +13%
Il budget per le Forze armate torna a crescere dopo la frenata dello scorso anno. È lo specchio di una politica estera sempre più ambiziosa. Sullo sfondo, il conflitto per il possesso di alcuni isolotti strategici
di Romeo Orlandi

qui

il Riformista 5.3.11
Apollo a spasso con Dioniso?
Giorgio Colli. Negli scritti giovanili, il futuro editore di Nietzsche torna alla simbiosi fra elementi opposti. Tipica del mondo degli antichi

di Marco Pacioni
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La Stampa Tuttolibri 5.3.11
La pariolina che ha scavato il comunismo
di Paola Decìna Lombardi


Castellina «La scoperta del mondo» di un’adolescente attraverso la politica
Privilegiata più per l’appartenenza a una famiglia triestina laica, anticonformista, mezza ebraica e di cultura mitteleuropea, che per abbondanza di risorse, avrebbe potuto restare «stupida... ancorata al ghetto di provenienza». La curiosità per una realtà che stava rapidamente cambiando l’ha invece spinta a guardare più lontano cercando le risposte che avrebbero arricchito di senso la sua vita. Dopo la pittura, per Luciana Castellina è stata infatti la politica la molla per La scoperta del mondo come recita il titolo del suo bellissimo libro costruito sul filo di un diario degli anni 1943-1947. Il periodo è cruciale e Castellina, prendendo spunto dalle annotazioni di allora, lo ripercorre senza retorica o censure, e a volte con humour.
La quattordicenne che vive gli eventi con smarrimento e superficialità, provando fastidio per l’invasione di vecchie zie e parenti ebrei nascosti in casa, qualche anno dopo sente che il vago antifascismo familiare non l’aiuta a capire e che i divertimenti del suo gruppo pariolino non le bastano. Compagna di classe di Anna Maria Mussolini, l’adolescente che ha visto a Villa Torlonia i primi film, nel prestigioso liceo Tasso, trova «un punto di riferimento centrale» che orienta i suoi interrogativi esistenziali. Mentre un professore come Giuseppe Petronio, socialista, l’aiuta «a dipanare la matassa ingarbugliata di scarsi e frettolosi apprendimenti», il nucleo clandestino di studenti collegati alla Resistenza romana la intriga. Di loro Citto Maselli, Lietta Tornabuoni, i fratelli Savioli -, si parla in gran segreto e anche lei vorrebbe agire, ma è «piccola» e troppo «pariolina».
Per Luciana Castellina, il noviziato comincerà nell’autunno del 1946. Introdotta dagli studenti comunisti del Tasso nel Fronte della gioventù, partecipa a riunioni e collettivi in cui si discute di questione sociale, visita mostre, frequenta giovani artisti impegnati come Dorazio e Perilli. Ora il suo mondo «stupidino e perbene, salta in aria», sostituito da quello «variopinto e iperplurale» che scopre nei viaggi organizzati dal Fronte a Parigi e Praga dove nell’estate del ‘47 si svolge il Festival mondiale della gioventù e si riunisce il Consiglio dell’Unione Internazionale Studenti. «L’esplosione di gioia di una nuova generazione... che in una babele di lingue, si racconta le proprie storie» è tale da spingerla ad «arruolarsi» nella brigata di volontari per costruire una ferrovia nella Jugoslavia distrutta. Nella cronaca di quei giorni, l’emozione dell’esperienza vissuta da una gioventù noncurante dei disagi e della fatica in nome dei grandi ideali è restituita con straordinaria forza.
Al ritorno, convinta che «guardare il mondo senza far niente» è immorale, Castellina diciottenne entra nel Pci. In termini di «obbedienza» e di «bigottismo» dei dirigenti di partito, il prezzo è alto ma la gavetta nelle borgate romane per «educare le donne» e l’incontro con il mondo dei diseredati sarà «una straordinaria esperienza di vita e di politica vera». A una lunga militanza «acritica», durata fino all’occupazione sovietica di Praga nel ‘68, seguiranno com’è noto l’espulsione dal Partito per «l’eretica fondazione de Il Manifesto » e il rientro nel 1985. Da allora, Luciana Castellina ha seguitato a «condividere la passione di cercare di cambiare il mondo» e a «scavare per il comunismo» come recita un bel manifesto augurale per i suoi ottant’anni.
Scritto per esortare i tre nipoti a non restare «chiusi nella gabbia asfittica del loro ceto», La scoperta del mondo oltreché racconto di una iniziazione alla vita risulta un’avvincente microstoria in cui tra patriottismo ed emigrazione, quotidianità borghese, fascismo, persecuzione razziale e liberazione, si sdipana la vicenda di tre generazioni.
“Un diario 1943-47: agli albori di una militanza «acritica» che sfocerà nell’eresia del «Manifesto»”

La Stampa Tuttolibri 5.3.11
Essere mogli a colpi di bastone
di Eugenia Tognotti


Violenza coniugale Storia di una concezione proprietaria del marito riconosciuta dal diritto
Nell’affresco di Tiziano compreso nel ciclo dei Miracoli di sant’Antonio da Padova è rappresentato un episodio raccontato dagli agiografi: un cavaliere, accecato dalla gelosia, aveva accoltellato la moglie, ingiustamente accusata di adulterio. Pentito per le funeste conseguenze della sua ira, aveva implorato il perdono del santo che, accogliendo la sua preghiera, aveva risuscitato la sventurata dama. Ma nel dipinto, la supplica dell’omicida, in ginocchio, è relegata in secondo piano. A dominare la scena è l’uomo che brandisce una spada affilata contro la moglie già a terra, urlante, le vesti scomposte, una gamba scoperta, il braccio sollevato in un’inutile difesa dalla furia del marito.
È l’immagine di quell’affresco riprodotta nella copertina del libro a introdurre Nozze di sangue , una storia della violenza coniugale da sempre a sempre. Rovistando nelle pieghe di codici, statuti, atti processuali, trattati e pastorali sul matrimonio, l’autore, Marco Cavina, storico del diritto, riesce a mettere a nudo «l’anima nera del matrimonio», arrivando al cuore della cultura e dell’immaginario che ha prodotto il patriarcato, la concezione proprietaria del marito sul corpo della moglie, l'accettazione sociale della violenza maritale. Per secoli, e fino al tramonto dell’ ancien règime , il potere correzionale dei mariti che implicava la punizione fisica delle mogli fu riconosciuto, se non nel diritto comune, nelle norme locali e accettato nelle consuetudini e nella prassi, soprattutto negli strati inferiori della società, permeati di cultura patriarcale.
Le sue radici erano nello squilibrio nella coppia, a dispetto di ogni affermazione di principio dei teologi sulla parità, la concordia e l’armonia coniugale, contro la quale s’infrangeva la reale subordinazione della moglie al marito, investito della funzione di istruire, ammaestrare e «correggere» anche a suon di ceffoni e legnate. «Buon cavallo o cattivo cavallo vuole lo sperone recitava un antico proverbio popolare buona moglie o cattiva moglie vuole il bastone».
Mogli riottose all’obbedienza e alla sudditanza, di scarse virtù domestiche, scialacquatrici, linguacciute o «di cattivi costumi», giustificavano nel senso comune la violenza maritale. Il discrimine tra intento correzionale e violenza era dato dai modi e dai mezzi usati: ricorrere alla cinghia non era lo stesso che mettere mano a un pugnale. Gli statuti cittadini medievali ponevano pochi limiti: quelli di Trieste, per fare solo un esempio, concedevano al marito di bastonare la moglie a piacere, purché non arrivasse all’amputazione di un arto o all’omicidio. Altri statuti lasciavano libertà di percossa, senza però arrivare all’«effusione di sangue». Neppure il cosiddetto «debito coniugale» era oggetto di uno scambio reciproco e paritario. Di fatto, la coazione sessuale faceva parte della potestà maritale ammessa nella quale rientravano due figure riguardate con indulgenza a tutti i livelli e destinate ad arrivare fino al XX secolo: lo stupro coniugale e il delitto d’onore, che godeva di un ampio consenso sociale.
Non che le legislazioni riconoscessero come un «diritto» quello di uccidere la moglie adultera. Ma, in concreto, l’impunità di cui finiva per godere il marito finirono per farne un diritto naturale patriarcale che autorizzava abusi e scelleratezze, tra cui quella di usare il delitto d'onore come paravento per sbarazzarsi della moglie: una prassi molto diffusa nella prima età moderna, denunciata e fermamente condannata dagli uomini di Chiesa. Va da sé che la fedeltà, imposta a entrambi i coniugi, era, di fatto, più vincolante per la donna. Ben diverse le sanzioni previste dalla normativa: rasatura, flagellazione, perfino morte per la moglie adultera, mentre il marito se la cavava con una multa o con una leggera pena corporale.
La storia della violenza coniugale è un fluire ininterrotto, lungo i secoli, di abusi e vessazioni, non sempre accettate con fatalismo e rassegnazione dalle mogli, che già dal Medioevo e nell’età moderna, trovano una sponda nella Chiesa e nell’azione delle istituzioni per frenare e punire gli eccessi della violenza maritale, di cui l’autore fornisce un impressionante «catalogo». Il rifiuto culturale di quest’ultima e la sua criminalizzazione tra la fine dell’Antico regime e il XX secolo hanno fatto piazza pulita, sul piano formale, di prassi accettate e giustificate per secoli. Ma le lunghe e forti radici del patriarcato sono dure da estirpare. Un certo modo di intendere la violenza coniugale è alle nostre spalle, ma «sulle leggi continuano a piovere le meteoriti sociali del vecchio ordine».
“«Nozze di sangue»: Marco Cavina mette a nudo l’anima nera del matrimonio nel corso dei secoli Un impressionante catalogo di vessazioni e abusi, un ampio consenso per lo stupro e il delitto d’onore”

La Stampa Tuttolibri 5.3.11
Lea Melandri. Quanti disastri fanno le madri
di Anna Bravo


Uomo/donna Tra psicoanalisi e femminismo Lea Melandri affronta il nesso amore/potere
Chi non conosce il lavoro di Lea Melandri troverà nel suo nuovo libro Amore e violenza una buona occasione per fare amicizia. O magari inimicizia. Perché l’autrice ha idee forti, e applicandole al «fattore molesto» della storia umana (il nesso amore/potere/violenza nel rapporto uomo/donna) accetta il rischio di apparire a sua volta «molesta» per lesa superficialità.
Lo scempio del corpo femminile è ormai ospite fisso nella cronaca, e una schiera di esperti ci invita a vederlo come un raptus , quasi che l’uomo fosse stato «rapito» da un estemporaneo Mister Hyde. Melandri risale invece alla «preistoria» di quella distruttività, l’antica e conflittuale dipendenza dalla madre, che nell’uomo si perpetua a dispetto delle negazioni, degli ausili psicologici e dei motti di spirito sulle mamme nazionali, italiana, ebrea, black e così via.
Composto di ampi saggi dai titoli un po’ rituali, ricco del pensiero psicanalitico e del patrimonio femminista, Amore e violenza affronta il suo tema muovendosi fra il vicino e il lontanissimo, fra la contemporaneità e lo spazio/tempo delle origini, per mettere a fuoco le teorie e le pulsioni sottese al binomio questione maschile/questione femminile. Può così rivitalizzare le domande classiche sul rapporto fra i sessi, compresa la più classica, spostata all’oggi: cosa chiede a una donna il civilizzato uomo moderno o postmoderno (parlo di un modello, non di individui). O anche: di quante donne ha bisogno il clan degli uomini per la propria manutenzione? Per esempio, sentiamo continuamente esaltare le doti femminili dell’empatia, della duttilità, del pragmatismo, come strada maestra verso un lavoro umanizzato: è la donna creativa. Se non che, quando qualcuna prova a applicare quei talenti, spesso incontra ostacoli tali da farle ridimensionare le aspettative: è la donna «normalizzata». Poi ci sono l’ancella, la manager-immagine e la manager addetta o costretta allo sfoltimento del personale; e altre ancora. Ne parla Luisa Pogliana in Donne senza guscio (Guerini, 2009).
Ma il punto è, spiega Melandri, che non basta aprire un ambito alle donne per femminilizzarlo, così come nel ’68 non è bastato dare valore al personale per femminilizzare la politica. Sarà difficile cambiare finché si permette agli uomini di pensarsi, sotterraneamente, come gli eredi universali della razionalità. Visione pessimista? Per verificarla è sufficiente scorrere gli organigrammi aziendali, politici, accademici. Sarà difficile cambiare finché la conflittualità femminile resta debole.
E qui scatta il nesso con la preistoria: titolare originaria dell’umanizzazione è la figura materna, accogliente, paga del suo ruolo. La madre mette ordine nei cassetti del marito/figlio, non decide l’ordine delle sue giornate; e non per questo apre un contenzioso con lui. Antico modello duro a morire, in particolare in Italia, dove l’espressione Madre Coraggio non evoca l’arcitruffatrice di Grimmelschausen e Brecht, ma un prototipo di madre eroico/oblativa.
Grazie al suo sguardo lungo, Melandri può dipanare l’intreccio fra nuovo, falsonuovo, vecchio, similvecchio, che segna tutte le trasformazioni, ma in questo caso è complicato dal fatto che il rapporto uomo/donna sta nel tempo lineare della storia e contemporaneamente nel tempo ciclico della ripetizione. Con effetti a volte sconcertanti.
Oggi da un lato si ripropone l’esempio dell’emancipata anni cinquanta, portatrice di una femminilità rispettabile, contenuta, dotata di un cuore non troppo piccolo ma neppure tanto grande, scrive Carolyn Heilbrun, da sconfinare oltre il recinto familiare. È la donna affidabile, che presiede alla versione moderna del focolare e in più porta a casa lo stipendio.
Al polo opposto, avanzano figure che investono sulla bellezza e l’età giovane, offrono sesso in cambio di benefici privati (e pubblici), e dicono di aver fatto una scelta libera. Melandri le prende sul serio, si chiede cosa significhi l’adesione programmata al modello «riposo del guerriero». E la vede come un tentativo di volgere a proprio vantaggio, oltre che la legge dello spettacolo, la dilagante bramosia di giovinezza; come «una forma di emancipazione», sia pure perversa e discutibile. È il «femminile» che si emancipa «estremizzando il ruolo che si è visto assegnare: sessualità di servizio, ornamento, passatempo, attestato di potenza; il femminile» che si prende la sua rivalsa entrando nella sfera pubblica con una immagine vistosamente sessuata, eccessiva, impresentabile.
Fra i due poli ci sono molti altri modi di essere donna, e questa analisi della femminilità «a disposizione» non è il clou del libro. Ma va meditata, perché non è da tutti riconoscere il nuovo quando è sgradito, dozzinale e per di più alquanto triste. Che un vecchio carico di denaro e potere compri uno stock di 100 collane identiche per le sue ragazze non è solo questione di cattivo gusto; è la conferma della loro interscambiabilità.
“La figura parentale alle origini del «fattore molesto», del conflitto maschile/femminile, tra privato e pubblico Si impone una perversa forma di emancipazione, estremizzando il ruolo di sessualità di servizio, ornamento, passatempo”

La Stampa Tuttolibri 5.3.11
Ma oggi i sessi sono diventati più di due
Questioni di genere Perché il fatto biologico non ci basta per individuare l’essere umano
di Franca D’Agostini


Un uomo di Sydney cambia sesso, e viene iscritto all’anagrafe come donna. Dopo dieci anni si rende conto di non trovarsi bene nel nuovo sesso, e chiede e ottiene di essere dichiarato di genere neutro. Una donna dell’Oregon inizia una terapia ormonale e assume un’identità maschile. La sua compagna non può avere figli, dunque la donna interrompe l’uso di ormoni, rimane incinta, dà alla luce un bambino: chiede però di essere riconosciuta come padre e non come madre del neonato.
Di fronte a questi fatti, come si giustifica, per esempio, la decisione della Chiesa cattolica di escludere le donne dal sacerdozio? Donne? Siamo sicuri di sapere che cosa si intende con questo termine? D’altra parte: il 13 febbraio le donne italiane sono scese in piazza. Donne? Chi erano? A parte il fatto che nella protesta c’erano molti uomini, la questione di fondo è: come si configura il discorso femminista, di fronte alle mutazioni della specie e della conoscenza di sé, che spingono a riconsiderare ciò che intendiamo con donna, uomo, maschio, femmina?
La filosofia contemporanea ha fornito importanti aggiornamenti su questo punto, e il merito di Filosofia della sessualità di Vera Tripodi è mettere a disposizione dei lettori, in una sintesi estremamente chiara e accurata, i risultati di una teorizzazione che dura almeno da una ventina d'anni su questi temi di base.
Il punto di partenza del libro è la questione sesso-genere, o meglio: la metafisica dei generi. Le domande sono ben note. Che cosa caratterizza l’essere donna di una donna? Può bastare il fatto biologico di possedere certi caratteri sessuali primari e secondari, e la famosa coppia cromosomica xx?
Il «genere», ossia la determinazione «donna» che isola gli individui dotati di certe caratteristiche fisiche ma, nota assennatamente Tripodi: «nella vita di tutti i giorni assegniamo un sesso a un individuo senza alcuna ispezione delle sue parti intime» e impone ad essi certi comportamenti, è solo una «costruzione sociale»?
La seconda sezione del libro riguarda la domanda «Perché due sessi non sono più sufficienti?», e qui l’analisi si apre a considerazioni biologiche e antropologiche. Sono interessanti in particolare le discussioni sulla proposta di riconoscere cinque sessi diversi. La terza sezione riguarda la questione del rapporto sesso-razza, e la quarta ricostruisce il famoso dibattito sulla pornografia, avviato negli Anni 80 da Catherine MacKinnon e Andrea Dworkin, e introduce le più recenti acquisizioni sul tema.
Il lavoro di Tripodi non ha obiettivi politici. La dominante nel testo è metafisica. Ma vale la pena riflettere sulle ricadute che una ricognizione di questo tipo potrebbe avere sul piano politico.
In effetti, la teorizzazione femminista ha registrato divergenze profonde, proprio nella messa a punto del soggetto «donne». Nella ricostruzione di Sally Haslanger ed Elizabeth Hackett (nell’importante raccolta del 2006 Theorizing Feminism ), abbiamo: un femminismo in largo senso egualitarista, che mira a ridurre la differenza tra maschile e femminile; un femminismo ginocentrico o differenzialista, che mira a rivendicare valori femminili; un femminismo detto della dominanza (alla Catherine MacKinnon) che non si pone il problema di chi siano le donne e che cosa le renda tali, ma mira solo a lottare contestualmente contro la sopraffazione e la discriminazione.
Tuttavia sappiamo che la politica pura, senza basi teoriche, lascia aperti molti problemi. Per esempio: Pieranna Garavaso e Nicla Vassallo, nella loro sintesi del 2007 sulla Filosofia delle donne (Laterza) notavano che la storia della filosofia è dominata da uomini, «e forse per questo sembra che la musica non cambi mai». Già: ma come dovrebbe cambiare? C’è davvero qualcosa di diverso nel pensare come donna, o no? Le differenzialiste dicono di sì, e alcune di loro, per esempio Luisa Muraro, ritengono che il pensiero femminile sia meglio. Ma siamo sicuri che quel meglio di cui parla Muraro sia proprio delle donne, come soggetti biologici e/o sociali, o non piuttosto di un ideale antropologico, che si può chiamare «pensiero femminile», ma che è condiviso da molti uomini (e oscuro a molte donne)?
Il problema è che il femminismo ha vissuto del pensiero «maschile» (se esiste una cosa di questo tipo), dunque ne condivide perfettamente l’attuale incertezza teorica e politica. Da questo punto di vista non sarebbe male ricominciare dalla questione «chi siamo?», per una volta unendo le forze.
“Come la «Filosofia della sessualità» definisce «chi siamo» nel contesto sociale, politico, antropologico”

La Stampa Tuttolibri 5.3.11
Che in noi risuonino le gioie e i dolori altrui
Empatia Elogio del co-sentire di Max Scheler: arriva dagli Anni 20 una proposta di salvezza
di Ermanno Bencivenga


La simpatia o empatia è di moda. Mentre si allarga la meritata fama del gruppo di ricercatori italiani che hanno scoperto e studiano quei neuroni specchio che ne costituiscono il fondamento biologico, Jeremy Rifkin, in un libro edito quest’anno in Italia da Mondadori ( Civiltà dell’empatia ), trova in essa una speranza di salvezza tanto promettente e perentoria quanto, qualche anno fa, era per lui l’idrogeno. Ma la popolarità è spesso di ostacolo a un'analisi dettagliata e profonda; giunge quindi a proposito la nuova traduzione di un classico testo sull’argomento, Essenza e forme della simpatia , di Max Scheler (nella sua seconda edizione originariamente pubblicata nel 1923), curata con rigore linguistico e storico da Laura Boella.
Il pregio principale del lavoro di Scheler consiste nella precisa tassonomia da esso offerta di una costellazione di fenomeni certo collegati ma decisamente distinti, che il discorso comune e anche quello filosofico tendono a confondere tra loro. A un estremo di tale spettro troviamo il «ri-sentire» e il «rivivere», caratteristici «dello storico di valore, del romanziere, dell'artista drammatico»: in essi «cogliamo effettivamente la qualità del sentimento altrui senza che questo venga trasferito a noi o che un sentimento reale e uguale venga prodotto in noi». Questo rivivere è qualcosa di più di un semplice giudizio intellettuale, ma si situa ancora «nella sfera del comportamento conoscente» e non comporta alcuna partecipazione al sentire dell’altro.
Dimostrano maggiore partecipazione il contagio affettivo, come nel caso dell’«allegria in una locanda o a una festa», e le varie modalità dell’«unipatia (o identificazione) del proprio io individuale con un altro», un’accentuazione o «per così dire un caso limite del contagio»: il rapporto di una tribù primitiva con il suo totem, gli antichi misteri religiosi, la suggestione ipnotica, vari comportamenti infantili e schizofrenici, l’atto sessuale compiuto per amore in cui «entrambe le parti intendono tuffarsi in un’unica corrente di vita che non contiene più in sé nessuno degli io individuali separatamente».
Il genuino «co-sentire» ( Mitgefühl ) è al di là di questa fusione: mantiene l’altro come altro, come diverso da sé, e ne prova i sentimenti come suoi, senza identificarvisi. In questo modo, apre la strada all’amore, il cui «senso più profondo non è affatto di prendere e trattare l’altro come se fosse identico al proprio io», e lo riscatta dall’istinto: «È amore materno solo quello che supera questa tendenza [istintiva a riprendersi indietro il bambino] e mira al bambino come a un essere autonomo che lentamente dall’oscurità dell’organico sale a un livello di coscienza più alto». Chiudendo genialmente il suo discorso in un circolo (o una spirale?), Scheler annuncia che solo il co-sentire, il quale è «sempre fondato su un amore e senza amore cessa», è fonte di vera conoscenza, cioè di una comprensione specifica e particolare di ogni individuo: «Quanto più profondamente penetriamo un uomo, attraverso una conoscenza comprendente guidata dall'amore della persona, tanto più questi diventa per noi non intercambiabile, individuale, unico, insostituibile e non rimpiazzabile». La presunta sfera conoscitiva menzionata sopra, figlia del disinteresse e della neutralità, si rivela così non in grado di adempiere alla sua promessa.
Sono solo scampoli di un’indagine ampia e lucida, vigorosa e originale; ma bastano per illustrare come quella che si considera una soluzione possa non essere altro che il nome di un mistero. Dobbiamo dunque cercare le basi di una nuova convivenza, si dice, non nell’interesse personale, nella fede o nella ragione ma nell’empatia. Che cosa vuol dire? In una semplice capacità di drammatizzare l’esperienza altrui? In un’unione mistica con la specie (del genere che Hegel, poco benevolmente, avrebbe chiamato una notte nera in cui tutte le vacche sono nere)? O facendo attenzione gli uni agli altri, mantenendo e rispettando la nostra reciproca diversità e insieme sentendo risuonare il nostro corpo e la nostra anima della gioia e del dolore dei nostri simili?
Scheler, quantomeno, ci dà un vocabolario in cui cominciare a porci queste domande.
“Una lucida analisi del filosofo tedesco: una nuova convivenza basata sul rispetto della reciproca diversità”

Corriere della Sera 5.3.11
I guasti del buonismo (inventato da Tolstoj)
I dialoghi sull’uomo di Vladimir Solov’ëv contro l’ipocrisia del politicamente corretto
di Ernesto Galli della Loggia


Chi di noi non è un convinto sostenitore dei diritti umani, del diritto internazionale, della composizione pacifica dei conflitti? E chi mai vorrebbe, od oserebbe, opporsi a una redistribuzione della ricchezza attuata «venendo incontro ai desideri dei poveri senza scontentare in modo sensibile i ricchi» ? Nessuno presumibilmente, dal momento che almeno qui in Occidente i punti appena enumerati non fanno altro che riassumere il pensiero dominante della nostra epoca, il suo senso comune. Proprio contro questo senso comune dell’epoca che è diventata per intero la nostra, ma che egli già intravedeva, Vladimir Solov ´ ëv scaglia i suoi strali avvelenati scorgendone e additandone l’origine e i risvolti a suo giudizio maligni. Con il che egli viene inevitabilmente a collocarsi ai nostri occhi in una posizione che dire ambigua è dire poco, e assume i contorni di un intellettuale maneggiabile solo con estrema cautela. Perché? Perché in sostanza il pensiero, il senso comune, della nostra epoca che tanto dispiacciono a Solov ´ ëv non sono altro che il pensiero e il senso comune della democrazia quale oggi la intendiamo e (più o meno) la pratichiamo. Sicché la conclusione appare obbligata: Vladimir Solov ´ ëv è un pensatore ostile alla democrazia, e il suo Breve racconto dell’Anticristo — che conclude i Tre dialoghi e dal quale sono tratti i capisaldi ideologici della nostra epoca che ho citato all’inizio— è un manifesto del pensiero antidemocratico. Nel giardino di una villa dalle parti di Cannes Solov ´ ëv immagina che s’incontrino cinque personaggi della buona società russa — un Generale, un Uomo politico, un giovane Principe, una Dama di mezz’età e un signor Z (che palesemente impersona Solov ´ ëv) — e che essi allaccino una fitta conversazione sulle cose del mondo, che il nostro autore finge di restituirci divisa in tre parti: per l’appunto I tre dialoghi. Il Generale non solo rivendica contro il pacifismo la dignità morale del mestiere delle armi e della guerra; ma osa addirittura menare vanto della spietata vendetta che le truppe russe al suo comando fecero in una guerra contro i turchi per punirli della strage ai danni di un villaggio armeno. L’Uomo politico, invece, è il portavoce del «progresso della cultura che domina il presente» . Egli sostiene che «oggigiorno il periodo storico della guerra è finito in Russia come dappertutto» (salvo forse nelle ultime contrade selvagge del pianeta), e afferma che invece di distruggere la Turchia bisogna piuttosto cercare di «incivilire i turchi con spirito di amicizia» . Nel terzo dialogo la scena è occupata dal giovane Principe. In lui Solov ´ ëv intende ritrarre la figura del perfetto (e per lui odioso) tolstojano: e cioè l’apostolo della non resistenza al male, di un cristianesimo senza Cristo e senza la Resurrezione, ridotto a compiacimento pauperistico e a pura precettistica morale. Collocato per ultimo, il dialogo annuncia il racconto dell’Anticristo da parte del signor Z, il quale ne accenna in una battuta, anticipandone il significato: «l’Anticristo… non sarà la semplice incredulità, né la negazione del cristianesimo, né il materialismo o qualcosa di simile, ma sarà l’impostura religiosa, allorché il nome di Cristo sarà sfruttato da tutte le potenze umane che nelle azioni e nello spirito sono estranee e direttamente ostili a Cristo e al suo Spirito» . E in effetti «Un’impostura religiosa» potrebbe essere un ottimo sottotitolo per il racconto dell’Anticristo. Certamente è la formula che agli occhi di Solov ´ ëv meglio riassume la situazione dell’epoca presente e la condizione fatta in essa al cristianesimo. Secondo una prospettiva storica, aggiungo, che a me sembra ben più complessa e problematica di quella offerta dai vari anticristiani e/o antidemocratici contemporanei del nostro autore. La differenza sta nel fatto che Solov ´ ëv si accorge, o comunque esprime il fondato sospetto, che forse non è per nulla vero che il cristianesimo sia effettivamente la religione della democrazia, la sua reale base ideologica. È preso dal sospetto (o forse bisognerebbe dire dalla certezza) che soprattutto non è affatto vero che la progressiva diffusione del «buonismo» democratico – mi si passi l’uso del neologismo, che però rende bene l’idea – cioè la progressiva diffusione di un insieme di mode, di luoghi comuni, di atteggiamenti ispirati a una sorta di convenzionale filantropismo, di obbligatorio virtuismo, è preso dal sospetto/certezza, dicevo, che tutto ciò non abbia molto a che fare con la verità della predicazione evangelica; che anzi ne sia una subdola contraffazione. Solov ´ ëv, insomma, mette a fuoco una profonda frattura realmente verificatasi nel corso dell’Ottocento. E cioè il fatto che il secolo — come ormai anche a noi è chiaro, al di là di ogni contraria apparenza — non ha assistito in alcun modo al trionfo dell’irreligiosità. Ciò che è accaduto è stato sì un grande attacco alla religione tradizionale, ma proprio da tale vuoto, innanzitutto per riempirlo, sono sorte un gran numero di nuove religioni, di fedi che al posto di Dio hanno collocato altrettante divinità posticce: la nazione, la classe, lo sviluppo economico. Naturalmente in ognuna di tali religioni laiche sono rimasti tratti dell’antica religione, ma in nessun’altra ciò è avvenuto come in quella che forse è stata la nuova religione di maggior successo: vale a dire la religione dell’Umanità, l’umanitarismo. Ed è questa fede atea, è l’umanitarismo, non il cristianesimo, la vera religione della democrazia. Per Solov ´ ëv il rappresentante per antonomasia di questo atteggiamento è Lev Tolstoj. Non il Tolstoj romanziere, evidentemente, ma il Tolstoj divenuto con il tempo una sorta di vero e proprio papa laico, firmatario a getto continuo di manifesti di protesta contro la guerra, contro il patriottismo, contro la violenza, contro la censura, contro la Chiesa (e anche contro il liberalismo parlamentare, per la verità: da non dimenticare); anticipatore di tutte le mode «bio» ed «eco» ; primo intellettuale e guru mediatico della scena europea, destinato nell’ultima parte della sua vita a essere seguito costantemente da qualche obiettivo fotografico e da una corte di seguaci qualunque cosa faccia: mentre lavora i campi (per sottolineare la propria vicinanza ai contadini), o mentre si fabbrica le scarpe da solo (per mostrare la propria vocazione alla vita semplice). Insomma il Tolstoj moderno intellettuale umanitario in servizio permanente effettivo: per molti versi iniziatore o comunque antesignano, noi diremmo, del «politicamente corretto» . L’Anticristo di Solov ´ ëv è una sorta di Tolstoj al quadrato. Si fa avanti sullo sfondo di una planetaria globalizzazione culturale, che assomiglia al «ripetersi en grand dell’antico sincretismo alessandrino» , e nel momento in cui l’Europa, appena liberatasi dal giogo del «mongolismo» asiatico, sta organizzandosi in Unione Europea (sic). «L’uomo del futuro» , come lo chiama Solov ´ ëv, possiede in misura incredibile talento, gioventù, bellezza, nobiltà, disinteresse, ma pur credendo nel Bene «non ama che se stesso» , ed è impegnato nel suo animo in una torbida, furiosa, competizione con la figura di Cristo, dietro la quale si staglia l’ombra di Satana: «Sono io, io, non Lui! Lui non è tra i viventi e non lo sarà mai. Non è risorto, non è risorto, non è risorto» . La sua fama — prosegue il racconto — si diffonde come un baleno in tutto il mondo in seguito all’enorme successo di un libro di straordinaria genialità che «mette d’accordo tutte le contraddizioni» : La via aperta verso la pace e la prosperità universale, titolo non certo casuale per gli echi allusivi che certo Solov ´ ëv ha in mente. Un titolo, altresì, che compendia di fatto il suo programma di governo una volta che «l’uomo del futuro» — il quale, apprendiamo, è «per professione scienziato nel ramo della balistica e per posizione sociale un ricco capitalista» — viene eletto prima presidente a vita degli «Stati Uniti d’Europa» , quindi «imperatore romano» , per poi dar vita niente di meno che alla «monarchia universale» , al dominio sull’intero pianeta. La «lega universale della pace» , il primato del diritto internazionale, il divieto della vivisezione («l’uomo del futuro» è anche un convinto vegetariano!), una semplice e completa riforma sociale grazie alla quale «ciascuno cominciò a ricevere secondo le sue capacità e ciascuna capacità secondo i lavori e i servizi» e per finire «l’eguaglianza della sazietà generale» : a completare questa sorta di eden il Grande Democrate aggiunge l’ultimo tassello, il requisito indispensabile di un compiuto regime di massa: i circenses. Nella forma— immagina Solov ´ ëv— di una specie di televisione ante litteram dovuta all’ «operatore di miracoli» Apollonio, capace di «captare e guidare a propria volontà l’elettricità dell’atmosfera» e così suscitare «i prodigi e le apparizioni più diverse e più sorprendenti» : insignito perciò a buona ragione del titolo di «cancelliere imperiale e gran mago universale» . All’imperatore del mondo manca ormai solo un’ultima impresa per realizzare il suo incontrastato dominio: la conquista del potere spirituale. E cioè la cancellazione del cristianesimo. È a questo punto, però, che la natura diabolica dell’Anticristo è costretta a smascherarsi e la situazione precipita verso il redde rationem. In un drammatico susseguirsi di colpi di scena, nel corso di un Concilio da lui appositamente convocato a Gerusalemme con il proposito di proclamarsi «unico difensore ed unico protettore» della religione cristiana, egli arriva a un passo dal realizzare i suoi intenti. Annichiliti dai poteri diabolici suoi e di Apollonio, nel frattempo nominato addirittura Papa, i massimi rappresentanti dell’ortodossia, del cattolicesimo e del protestantesimo, dopo aver denunciato pubblicamente la vera natura dell’Anticristo, appaiono ormai vinti e dispersi. Quando però avviene l’impensabile: il popolo ebreo, che peraltro «non era del tutto estraneo alla preparazione e all’affermazione dei successi universali del superuomo» , e che in precedenza si era spinto a riconoscerlo come il Messia, scoprendo la sua ennesima impostura, e cioè che egli non è neppure circonciso, si ribella. «Tutto l’ebraismo — scrive Solov ´ ëv, manifestando il proprio filosemitismo— si sollevò come un solo uomo e i suoi nemici scopersero con sorpresa che l’anima di Israele nel suo fondo non vive di calcoli e bramosie di Mammona, ma della forza di un sentimento sincero, nella speranza e il corruccio della sua eterna fede messianica» . È come se egli volesse farci capire che è lì, nel giudaismo messianico, l’inesausta riserva di quel monoteismo etico che, trasfusosi poi nel cristianesimo, ha impregnato di sé l’anima di tutto l’Occidente. Dalla rivolta del giudaismo, infatti, parte la riscossa che in breve condurrà alla rovina l’imperatore del mondo, il quale insieme alle schiere del suo esercito finirà la propria avventura demoniaca inghiottito in un lago di fiamme creato dall’improvvisa comparsa di un vulcano. Il racconto termina con la visione di Gerusalemme, nel cui cielo appare la figura del Redentore, mentre ebrei e cristiani, ricongiunti nella città santa, si accingono «a vivere con Cristo per mille anni» . A questo punto il dialogo sulle rive del Mediterraneo riprende anche se per poco, e noi veniamo a sapere che, guarda caso, il giovane Principe tolstojano ha abbandonato la riunione proprio nel punto del racconto in cui l’Anticristo veniva smascherato. È lo stesso signor Z, infine, che s’incarica di dare la spiegazione di quanto è stato narrato, ricorrendo a un banale proverbio: «Non è tutt’oro quello che luccica» , e aggiungendo: «Lo splendore di un bene artefatto non ha nessuna forza» . Non solo insomma la storia non contiene alcuna certezza di progresso, è dominata dall’ambiguità: ma tanto più lo è quanto più essa appare vicina a realizzare le attese migliori dell’umanità. Il demoniaco moderno – ormai la lezione del totalitarismo novecentesco ce lo ha insegnato – non è il Male in sé, bensì il Male abbigliato in altri panni, il Male travestito da Bene. Vladimir Solov ´ ëv è andato un passo oltre dicendoci che anche nei rassicuranti paesaggi della democrazia si aggira insidioso l’Anticristo, il compagno segreto delle nostre troppo laiche certezze.

Rossana Rossanda, nota comunista e Adriana Zarri, nota suora...
Corriere della Sera 5.3.11
Le parole dimenticate su madre Teresa
di Giorgio Montefoschi


Rossana Rossanda, del Manifesto, era amica di Adriana Zarri, la teologa vicinissima alle posizioni del Concilio Vaticano II scomparsa nel 2010. In una prefazione molto sentita a una raccolta di scritti della Zarri pubblicata da Einaudi, Un eremo non è un guscio di lumaca, la Rossanda racconta la sua amicizia con la teologa (incontrata durante la campagna del referendum sull’aborto) che viveva in un eremo in Piemonte, ma non era affatto fuori dal mondo (tanto da scrivere sullo stesso Manifesto e varie riviste, nonché partecipare — come ci informa la quarta di copertina del volume — alla trasmissione Samarcanda di Michele Santoro). In che consisteva questa amicizia fra una non credente e una donna votata a Dio? La Rossanda, almeno una volta all’anno, andava nella cascina dalle parti di Ivrea e, in mezzo alle bellissime rose che coltivava la Zarri, agli animali, al prezioso silenzio della solitudine, condivideva un’esperienza puramente umana. La sera, prima di mettersi a tavola con un bicchiere di vino, le due donne leggevano brani dell’Antico Testamento. C’era pericolo — come temeva il compagno ateo della Rossanda, Karol — che Rossana finisse a messa? Niente affatto. «Né lei cercava di convertirmi — scrive la Rossanda — né io di dissuaderla da quel che non provavo» . Un giorno, la Zarri fu costretta a lasciare l’eremo. Finì per qualche tempo in una casa d’accoglienza per tossicodipendenti. Rossana andò a trovarla. Adriana era tristissima e muta in mezzo a quei poveracci. Scrive la fondatrice del Manifesto: «Ricordo il volto smarrito di Adriana alla tavola comune, fra due adulti calorosi e alcuni giovani risentiti, incapaci di muovere un dito, infelicissimi e tetri. Ho pensato allora, con qualche malizia, che delle virtù teologali la mia amica ne aveva in sovrabbondanza due, fede e speranza, mentre frequentava a modo suo la carità, il suo amore essendo tutto per Dio e qualche grande causa, ma poco incline alla sofferenza dei singoli, che in verità non ha nulla di splendido» . Fin qui, tutto giusto e vero: alla carità ci invita San Paolo (che, a detta della Rossanda, la Zarri non frequentava tanto nelle sue letture), ma è un compito arduo, quando è vera, e non è detto che ogni essere umano — anche chi è custode di un’anima elevatissima e di pensieri liberi e profondi — sia in grado di sperimentarla con il proprio impegno e le proprie azioni. Ed è vero, verissimo, che la sofferenza dei singoli non ha nulla di splendido. Anzi, è respingente, orribile: mille miglia lontana dalle immacolate e perfette bellezze della natura, dei fiori, degli alberi, dei timidi conigli che si accoppiano innocenti in una stalla. Senonché, poche righe sotto, la Rossanda aggiunge (sempre a proposito di Adriana Zarri seduta a quel tavolo di sofferenti): «Non sarebbe mai stata come madre Teresa e le sue seguaci, delle quali diffidava e, come capii più tardi, non a torto» . Ora, oggi più che mai, è lecito diffidare di chiunque. Ma per quale motivo, oltre a tutte le persone abiette, a tutti i sepolcri imbiancati di cui l’eremita-teologa poteva a buon diritto diffidare, diffidava anche di una donna, come Madre Teresa di Calcutta che aveva speso la sua vita, insieme alle sue seguaci, per alleviare le sofferenze del suo prossimo, facendosi povera come i più poveri proprio per poter capire meglio il loro dolore? Cos’è che Adriana Zarri rimproverava a Madre Teresa e alle sue seguaci? Questo, la Rossanda — che in seguito si confermò in tale convinzione— non ce lo racconta. E, francamente, ci stupisce. Perché sarebbe stato corretto, nel riferire un pensiero così rilevante di una persona che non c’è più, fornirne almeno una motivazione. A meno di non voler alimentare il sospetto che la diffidenza della Zarri avesse le sue radici oscure — cosa che non crediamo — in una invidia della carità. Quanto alla Rossanda, lei che pensa di Madre Teresa di Calcutta? Sarebbe interessante saperlo. Insomma, sapere le due cose: i motivi della diffidenza sua e di quella di Adriana Zarri. Lo scriva, la Rossanda. Ci vuole poco.

Repubblica 5.3.11
L’immagionazione è finita
Se la tecnologia sogna per noi
Dalla fantascienza agli smartphone che fine ha fatto l´immaginazione?
di Maurizio Ferraris


Ma per progettare il domani è più utile fare tabula rasa oppure imparare a sfruttare al meglio l´enorme database del mondo digitale?
Forza, velocità, accelerazione, conquista degli spazi: ormai tutte queste variabili sono diventate arcaiche se applicate all´idea di avvenire

Tra i settori di Eurodisney, oltre quello del vecchio West, quello delle favole e quello delle avventure, ce ne sarebbe anche uno dedicato al futuro. Fatto di astronavi, invenzioni e sogni. Ma mentre il castello della Bella Addormentata conserva il suo smalto e la nave di Capitan Uncino non ha perso tutte le sue attrattive, il paese del futuro è chiuso da tempo per lavori: si sta studiando come "modernizzarlo". La sua ultima versione appariva decrepita, e richiamava un futuro passato, diciamo la Alexanderplatz della Berlino degli ultimi anni della Ddr. Da cosa dipende? Certo, nulla invecchia così rapidamente come il futuro, in un ambiente ad altissima accelerazione tecnologica. Ma perché nemmeno Disney riesce a immaginarsene uno davvero nuovo? Per capirlo conviene incominciare da quell´intreccio programmatico di realtà e immaginazione che è la fantascienza.
Nei film degli anni Ottanta (Flash Gordon, Blade Runner, i sequel di Guerre Stellari, Dune, Terminator, Alien, Robocop) pullulano le astronavi, i nuovi mondi, gli alieni, i cyborg (e non ci si trovava, a pagarlo un milione, un accenno al web, o agli smartphone, che ora colonizzano la nostra immaginazione). Molto cambia nei principali film di fantascienza anni Novanta, Strange Days, L´esercito delle dodici scimmie, Armageddon, eXistenZ, Contact, Gattaca, Matrix. Diminuiscono gli alieni e le astronavi, aumentano le inquietudini millenaristiche e il trasferimento dell´azione in una realtà parallela (è il caso del film di Cronenberg, eXistenZ).
In un film come Gattaca (1997) gli elementi fantascientifici sono ridotti all´osso, e il vero eroe è qualcosa che è già tra noi, nella scienza e nella vita, ossia il patrimonio genetico, che viene considerato un principio di selezione sociale. Soprattutto, quello che fa la sua comparsa è il grande codice dei computer, la sequenza verdastra di 0 e 1 che diventa l´emblema di Matrix, ormai nel 1999. E un film come Avatar, più che fantascientifico, è un racconto al servizio della nuova tecnologia 3D, dunque non immagina mondi possibili, ma ci parla piuttosto del nostro mondo, cioè del mondo che la tecnica ci ha consegnato. Così pure, in letteratura abbiamo lo steampunk e trionfa il fantasy, che propongono passati alternativi, anacronistici o ucronistici. Piuttosto che con un futuro in divenire abbiamo un andirivieni di viaggi nel tempo, una sindrome "paleofuturista" l´ha definita il giornalista americano Matt Novak.
Dobbiamo concluderne, come si diceva qualche decennio fa, che l´arido mondo della tecnica ha prosciugato l´immaginazione riducendola a pura previsione? No, è vero esattamente il contrario. Non solo la tecnica ha realizzato una quantità enorme di immaginazioni, ma, ancor più, sembra aver anticipato (e dunque, in questo senso, frustrato) ogni immaginazione possibile. Declassato da "avvenire" cioè da Promessa a semplice dimensione temporale, il futuro si conserva nei "future", che spesso sono titoli spazzatura, e si riduce infine a next, quello che viene dopo. I sogni dei visionari sembrano sopravanzati di un bel po´ dai sogni dell´informatica, dalla lussureggiante giungla di mondi possibili che ci viene offerta dai nostri smartphone, dai nostri tablet e dagli effetti speciali dei videogame. Si dirà che la situazione non è nuova: "ahimè la carne è triste, ho letto tutti i libri", scriveva Verlaine, e Nietzsche, più o meno nello stesso periodo, si lamentava che l´eccesso di conoscenza storica aveva trasformato gli uomini in "compendi incarnati", rendendoli incapaci di immaginare il nuovo. Ma qui c´è molto di più. Non si tratta di avere ruminato tutto il passato, di avere alle proprie spalle una enorme biblioteca. Piuttosto, si direbbe che nelle possibilità offerte dalle application si esaurisce anche tutta la sfera dell´immaginabile. Freud aveva detto che l´umanità aveva subito tre grandi ferite narcisistiche. La prima è stata la scoperta che la terra è tutt´altro che il centro dell´universo. La seconda è che l´uomo discende dalla scimmia. E la terza è che la coscienza è solo un´isola che emerge sul mare dell´inconscio. Forse si dovrebbe aggiungerne una quarta: non solo abbiamo delle macchine capaci di pensare ma, quello che in fondo è più umiliante, abbiamo delle macchine capaci di immaginare più e meglio di noi.
Che fare? Il rettore del Politecnico di Torino, Francesco Profumo, racconta che tra gli studenti sono stati creati dei gruppi di "intelligenze pure" molto richieste dalle aziende automobilistiche che hanno bisogno di "menti vergini" (capaci di sviluppare progetti innovativi ma prive di particolari competenze) da inserire nei gruppi chiamati a progettare l´auto del futuro. Questo perché nei centri di ricerca sono convinti (un po´ come Verlaine) che tutto sia stato ormai immaginato, e spesso anche realizzato a livello di prototipo. E dunque serve, in qualche modo, ripartire da zero.
Condivido appieno l´esigenza, ma non sono affatto sicuro che possano esistere, da qualche parte del mondo, intelligenze pure, menti vergini, e immaginazioni radicalmente creative. Piuttosto, ci sono delle menti con altre competenze, altre memorie, e dunque altre immaginazioni, rispetto a quelle di chi professionalmente progetta, ad esempio, automobili. A mio parere, per rilanciare l´immaginazione, per renderla davvero produttiva, si tratta, piuttosto che di fare tabula rasa, di cambiare enciclopedia, per esempio di far progettare automobili da storici dell´arte o da archivisti, a gente che abbia in memoria altri cliché, e che sia capace di sorprendersi e di sorprendere. Non è questione di ripartire da zero, ma, come nel film di Troisi, di ricominciare da tre, partire da un´altra topica e da un´altra immaginazione.
Da questo punto di vista, sono proprio le nostre application che ci possono insegnare qualcosa: l´enorme creatività, l´enorme produttività del mondo digitale nasce essenzialmente dal fatto che abbiamo a che fare con strumenti dotati di una memoria potentissima. In fondo, lo avevamo sempre sospettato: la grande immaginazione è sempre grande memoria, "memoria dilatata e composta" (diceva Vico) che "crea matrimoni illegittimi tra le cose" (come diceva, questa volta, Bacone). Il fatto che i greci considerassero Mnemosyne, la dea della memoria, come la madre di tutte le muse, la dice lunga sui legami che intercorrono tra memoria, immaginazione e creatività. La vera scommessa, per noi, non è quella di fare tabula rasa, tanto è impossibile, quanto piuttosto di imparare a convivere con l´enorme memoria (dunque anche l´enorme immaginazione) dei nostri smartphone senza lasciarci paralizzare, e anzi servendocene. Dopotutto, sarà anche vero che il nostro iPad potrebbe dire, proprio come l´androide di Blade runners, «ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare». Ma resta che si potrebbe sempre obiettare, facendo il verso ad Amleto, che ci sono più cose fra la terra e il cielo di quante ne sognino le application dei nostri telefonini.