lunedì 7 marzo 2011

Repubblica 7.3.11
L´intervista
"Non faremo passi indietro il patto col Terzo Polo si farà"
Bersani: la riforma Alfano? Diversivo populista
di Goffredo De Marchis


Se il suo orizzonte è la destra, gli facciamo gli auguri. Se vuole un´alternativa di centro, il discorso cambia
Il governo non arriverà a fine legislatura. Anche se Berlusconi userà tutta la sua determinazione per galleggiare
Non escludo affatto la mia candidatura per la premiership. Per il leader del maggior partito di opposizione oltre che un problema di volontà è un dovere d´ufficio

ROMA - La linea resta uguale: arrivare a un´alleanza «tra moderati e progressisti», tra il Terzo polo e il centrosinistra classico. «Abbiamo delle buone occasioni per realizzare questo incontro - spiega Pier Luigi Bersani -. Alle amministrative, nel passaggio dal primo al secondo turno. In Parlamento, con le battaglie sui temi costituzionali». E se nel Partito democratico qualcuno mette in dubbio la strategia, in vista di tempi lunghi per il voto, «deve con precisione indicare un´altra strada. I semplici dubbi non è che non aiutino me, non aiutano l´alternativa a Berlusconi». Il segretario del Pd parla anche della contestata raccolta di firme per le dimissioni del premier, costellata di sostenitori fasulli online, da Stalin a Hitler a Ruby. «Sono contento che abbia firmato Paperino. Credo invece che contro Berlusconi non firmerà mai la Banda Bassotti».
Fini è sicuro che quest´anno non ci saranno le elezioni anticipate. Lo pensa che lei?
«Non faccio previsioni. So però che le fasi non cambiano ogni 15 giorni. E la fase che stiamo vivendo è quella del tramonto berlusconiano. Sarà un crepuscolo che creerà tensioni drammatiche sul piano politico e istituzionale. Berlusconi si difenderà con tutte le energie per sopravvivere e alla fine del ciclo la ricostruzione democratica avrà bisogno di un concorso di forze. Sono parole che ho pronunciato un anno e mezzo fa. Non ho cambiato idea».
La "linea della fermezza", dopo la sconfitta del 14 dicembre e il voto più lontano, rischia di farle pagare un prezzo anche nel Pd?
«Sfortunatamente l´idea che le fasi cambino a ogni pie´ sospinto fa breccia anche nel centrosinistra. Pur non facendo pronostici, credo che il governo non arriverà alla fine della legislatura. Allora dico che il nostro campo si deve reggere su tre parole-chiave: tenuta, grinta e progetto. Berlusconi userà tutta la sua determinazione. Noi dobbiamo avere più grinta e più tenuta, non di meno. Nonostante la sua tenacia i sondaggi dimostrano che sta perdendo la presa sull´opinione pubblica mentre l´opposizione migliora la sua capacità di parlare ai cittadini. Eppoi si vota, altro che. A maggio dieci milioni di italiani vanno alle urne per le amministrative. A loro diciamo: vota per la tua città ma anche per il tuo Paese».
Ha detto che sarà un test nazionale. Se l´esito fosse negativo, si dimetterà?
«Non ci penso nemmeno a un esito negativo. So che si voterà in universo politico trasformato rispetto a cinque anni fa. Ma mi aspetto un buon segnale rispetto ai dati delle politiche, delle Europee e delle regionali. Sarebbe un messaggio nazionale».
Ci sono dubbi sull´autenticità dei dieci milioni di firme contro il premier. Online sono tantissime quelle taroccate.
«Fra quelle già raccolte e quelle che arriveranno ai milioni di moduli distribuiti alle famiglie l´obiettivo è raggiunto. Sapevamo che su Internet ci saremmo esposti alla goliardia del centrodestra. Ma chi vuole metterla in burla sbaglia. Abbiamo una certa esperienza di banchetti: non è mai stato così facile raccogliere adesioni. Il nostro compito adesso è tenere viva questa straordinaria partecipazione. I sondaggi confermano che per gli italiani Berlusconi è l´ostacolo alla soluzione dei problemi. E non parliamo dell´immagine all´estero. Nei rapporti con certi regimi ci vuole il senso della misura. Il baciamano a Gheddafi è parso l´omaggio a un dittatore non alla Libia. Oggi rischiamo di pagare un prezzo salato nel rapporto con quei popoli».
Il progetto del Pd è oscurato dalle incertezze sulle alleanze?
«Ho sempre detto che prima delle alleanze c´è il progetto di governo e che il Pd ha la responsabilità di proporlo. Abbiamo un pacchetto di riforme sociali e sulla democrazia. Da lì partiamo. La proposta politica del partito resta assolutamente ferma, si rivolge ai moderati e ai progressisti. Al momento giusto tireremo le somme. L´importante è che il Pd abbia questa impostazione generosa e aperta che ora viene compresa dai cittadini più ancora che dalle forze politiche».
La riforma della giustizia non è una legge ad personam. Il Pd può almeno aspettare il testo prima di emettere la sentenza?
«Le carte vanno viste, per carità. Il punto è che da 17 anni non vediamo mai niente di accettabile. Io non mi aspetto niente di buono. E nel frattempo ci sono nell´aria e in Parlamento ipotesi di ulteriori leggi ad personam che vanno inquadrate in un´offensiva generale del premier contro la magistratura alla quale ci opporremo. È la solita bandiera populistica di Berlusconi, il solito modo di non andare ai problemi concreti, la solita chiamata a un giudizio di Dio sulla sua persona. Le chiacchiere non possono nascondere che la giustizia è l´unico settore che non ha visto uno straccio di cambiamento a favore dei cittadini. La riforma è solo un grande diversivo e la ricerca di un terreno di scontro».
Sui referendum il Pd ha le idee chiare?
«Sì all´abrogazione del legittimo impedimento. Sì all´abrogazione della legge sul nucleare non per ragioni ideologiche ma perché siamo contro il piano del governo. Peraltro l´esecutivo ha appena fatto un danno alle energie rinnovabili, uno dei pochi settori in crescita, mettendolo nell´assoluta incertezza. Sull´acqua valuteremo. Abbiamo un progetto contro la privatizzazione, l´esito referendario ci porta verso una soluzione non convincente».
23 parlamentari del Pd hanno abbandonato il partito in questi tre anni. Non è preoccupato?
«Mi dispiace molto. Ma registro che nel Paese siamo compresi meglio. Lo dicono i sondaggi».
Scegliere subito il candidato premier darebbe una mano all´opposizione?
«Quando ci saranno le elezioni sarà chiaro lo schieramento e verrà definito il leader che come in tutte le democrazie deve emergere da un processo politico. Anche negli Stati Uniti si decide il candidato in ragione della scadenza elettorale. Una certa deformazione del concetto di leadership è il riflesso del berlusconismo che è in noi, come diceva Gaber».
Lei è sempre in campo?
«Non escludo affatto la mia candidatura. Per il leader del maggior partito di opposizione oltre che un problema di volontà è un dovere d´ufficio esserci. Questo non significa mettere la persona davanti al processo politico».

l’Unità 7.3.11
La politica ritorna nelle mani delle donne
Nel centenario della Festa è più forte il protagonismo femminile. Domani tante iniziative nelle piazze sull’onda della mobilitazione del 13 febbraio
di Jolanda Bufalini


Il fiocco rosa simbolo dell’8 marzo 2011 festaggia il ritorno delle donne alla politica. Almeno a giudicare da quello che si sente in giro, non c’è assemblea o comitato dove non si senta, dopo il 13 febbraio, la frase «facciamo come le donne». O a giudicare dai testi inviati al sito «Se non ora quando», piattaforma alle mobilitazioni cittadine. Politica intesa come problemi che aspettano soluzione, ingiustizie, discriminazioni, politica intesa come simboli («dobbiamo far rinascere l’Italia», proclama il comitato «se non ora quando») o come ribellione alla rappresentazione femminile nei media. Politica come autonomia e pluralità di soggetti che riconoscono la propria storia.
Sociale. Le donne di Foggia hanno scelto Candelaro, uno di quei quartieri popolari che sembrano terra di nessuno e sono brodo di cultura della criminalità organizzata. Anche a Pescara «Se non ora quando?», chiedono le donne, «Adesso» è la risposta.
Il sesso e il lavoro. «Bologna è città commissariata per vicende di sesso/potere/denaro. A Bologna si uccidono e si fa violenza a donne. A Bologna c’è un Centro di identificazione ed espulsione. A Bologna i nodi del reddito, del lavoro e del precariato riguardano moltissime donne», scrivono le bolognesi ricordando anche le rivolte in Egitto, Tunisia, Libia. E a Gela: «Le donne sono il 60% dei laureati, ma solo il 46% di chi lavora e guadagnano il 9% in meno degli uomini a parità di lavoro».
Susanna Camusso, primo segretario donna della Cgil eletta nell’anno del centenario della Festa, fa riferimento alla mobilitazione «per la dignità delle donne» del 13 febbraio, «una cosa molto importante», ora bisogna «articolare quelle parole, declinando la dignità anche come lavoro, cittadinanza, funzionamento del Paese».
Come fossi una bambola. Le fiorentine puntano il dito contro pubblicità e media: «Non è da oggi che ci dipingono come manichini muti, prive di intelligenza e personalità, disposte a farci spogliare e manipolare».
Riprendiamoci la notte. A Roma le molte iniziative che si svilupperanno dal mattino vedranno un momento corale a piazza Vittorio dalle 16, con performance su lavoro, sport, danza. La sera all’Ambra Iovinelli lo spettacolo Libere di Cristina Comecini (che sarà anche proiettato in molte città). Ma ci sarà anche un corteo notturno (ore 18 alla Bocca della Verità) dagli stessi collettivi che il 13 sono andati a Montecitorio per «restituire al mittente le leggi contro le donne fatte da centro destra e centro sinistra: le dimissioni in bianco, il collegato lavoro, la legge 40 , l’innalzamento dell’età pensionabile, il pacchetto sicurezza». Non si fa distinzione fra donne per bene e donne per male: «Vogliamo riappropriarci delle strade, della notte e delle nostre relazioni: rivendichiamo diritti, welfare e autodeterminazione».
Nelle istituzioni. C’è anche un 8 marzo delle istituzioni, il presidente Napolitano dedica la mattina alla «riflessione sulla condizione femminile». Al Senato sono in calendario per martedì le quote rosa nei CdA, le norme in favore dei figli delle madri detenute e la mozione (prima firmataria Vittoria Franco) per sensibilizzare le radio-tv pubblicheal rispetto delle diversità di genere. Sulle quote rosa nei CdA si va verso un accordo, dopo che il Pdl al Senato aveva bloccato tutto suscitando la rivolta delle donne per una legge che presentata e votata alla Camera dai due schieramenti.

l’Unità 7.3.11
«Studiate e siate libere...»
Lettere di Fawzia alle sue figlie
La vicepresidente della Camera bassa afgana parla di politica, guerra e della lotta delle donne E annuncia: «Mi candido alla presidenza»
di Ella Baffoni


Fawzia Koofi è giovane, bella, naturalmente elegante, mamma di due bimbe e ha energia da vendere. Tant’è che è da anni parlamentare, eletta senza aver bisogno della protezione delle quote rosa. In un paese maschilista, gestito da uomini, aveva sbaragliato i suoi avversari. «Merito delle donne dice anche le donne più povere, quelle che vivono nei villaggi e che devono fare tre o quattro ore a piedi per arrivare al seggio. Soprattutto loro credono nella possibilità del cambiamento, del superamento dell’ostilità tra etnie e della corruzione. Ne hanno bisogno».
Nascere in guerra, vedere invasioni e conflitti cambiare di protagonisti ma non spegnersi mai. Essere considerati una dukhatarak, insulto verso le donne che significa: vali meno di una femmina. E nonostante questo diventare il vicepresidente della Camera bassa, la Wolesi Jirga, avendo avuto la possibilità di studiare. Una volta parlamentare, Fawzia Koofi ha affrontato un altro rischio, quello di diventare oggetto di attentati e rappresaglie. Per questo ha iniziato a lasciare alle figlie delle lettere. «Dovevo andare a Kabul con un elicottero vecchio, insicuro e probabilmente obiettivo di razzi. Stavo per uscire quando mia figlia si è svegliata e mi voleva salutare. Le ho dovuto dire che era possibile non tornassi più, e le ho lasciato scritto cosa fare: siate libere, studiate, non abbiate paura... e non litigate tra voi. Non volevo che finissero in un villaggio a fare la moglie, magari in concorrenza con altre moglie e regolarmente picchiata. La vita di mia madre». Da quelle lettere nasce Lettere alle mie figlie il libro autobiografico che Sperling & Kufer ha appena mandato in libreria.
In questi anni, dentro e fuori il Parlamento, Fawzia Koofi ha combattuto per il diritto delle donne all’educazione, contro le torture e le violenze che si subiscono in carcere (suo marito è morto proprio per le conseguenze di una lunga carcerazione), contro le violenze sui bambini. «Ma non mi chiamate donna di potere. Il potere non è mai stato il mio obiettivo. Se riuscirò a cambiare la vita della mia gente avrò successo. E se riuscirò a battere la corruzione. Se verranno costruite scuole rurali, così che le bambine non debbano camminare per ore portandosi il perso dell'acqua per tutto il giorno, sotto un sole cocente. Le priorità del paese sono infrastrutture, sanità, educazione, qui bisogna investire evitando che i fondi vengano trasferiti all’estero. Il governo è corrotto, per il popolo afghano non viene fatto tutto il possibile».
Bisogna cambiare. Così Fawzia Koofi ha deciso che si candiderà alle prossime presidenziali, nel 2014. Una sfida coraggiosa per un paese in cui le donne sono chiamate al voto da una manciata di anni: «Ho fiducia nella mia gente, ho fiducia nelle mie possibilità. La società afghana è divisa in due. Una parte vuole diritti, libertà, progresso, leader onesti, un Afghanistan con un futuro. L’altra è dominata dal fanatismo estremista, integralista. Non sono talebani, no: ma leader autorevoli e tradizionalisti. Spero che il progresso prevalga, ed è possibile che l'Afghanistan abbia una donna presidente. Un azzardo, in un paese dominato dal maschilismo. So che dovrò affrontare molte sfide, soprattutto quella dei gruppi criminali e corrotti che sono al potere da 30 anni. Sono convinta però che la mia gente vuole un leader con una visione».
La famiglia è importante, e la sostiene. La ispira il ricordo del padre, che ottenne dal ministro del re Zhair una strada, nonostante l'opera fosse complessa e costosa. E lo fece portando a cavallo il ministro sul passo, facendolo scendere con una scusa e portandosi via il cavallo. Il ministro restò, solo e furibondo, tutta la notte senza riuscire a trovare la via del ritorno. Quando mio padre tornò a riprenderlo era ancora furibondo ma aveva capito: la strada era indispensabile, la strada si fece.

l’Unità 7.3.11
L’ex segretario del Pd su Facebook lancia l’appello per una manifestazione nazionale
Sostenere l’opposizione al raìs: «Inaccettabile stare a guardare chi vince. Dobbiamo agire»
Veltroni scuote i pacifisti: in piazza per i patrioti libici
Perché non vi è un movimento democratico a sostegno degli oppositori di Gheddafi? Se lo domanda Walter Veltroni che via Facebook lancia la sua proposta: una grande manifestazione nazionale di partiti e sindacati.
di Roberto Monteforte


È come se non ci riguardasse. Milioni di uomini e di donne, tanti giovani, che mettono a rischio la loro vita per ottenere democrazia e libertà a poche miglia dalle nostre coste e la sola nostra preoccupazione pare essere quella per la prevedibile «invasione» di profughi, per l’emergenza umanitaria. Eppure sono eloquenti le immagini trasmesse ogni giorno dai nostri telegiornali. Ma non scatta alcuna mobilitazione, alcuna solidarietà verso il movimento di opposizione a Gheddafi e al suo regime. È da questa amara considerazione che è partito l’ex segretario del Pd fondatore di Democratica, Walter Veltroni. «Perché nessuno scende in piazza al fianco dei patrioti libici?» si è domandato e ha rilanciato la sua domanda via Facebook, coinvolgendo quel «popolo della rete» che nei paesi del Nord Africa è stato protagonista della protesta, divenutarivoluzione sociale e di popolo.
CONTRO BUSH
Eppure non pare proprio che questo movimento che potrebbe essere «epocale» abbia trovato sponde, appoggi e solidarietà adeguati nel nostro paese e in Occidente. «Perché era così facile mobilitare giustamente milioni di persone contro Bush e gli americani per la guerra in Iraq e nessuno prova a riempire le piazze contro il dittatore Gheddafi?» osserva con preoccupazione Veltroni che ricorda anche le straordinarie manifestazioni a difesa della democrazia in Cile. «Oltre ad un piccolo sit in del Pd a Roma e ad uno delle associazioni, solo silenzio. Anche le coscienze di tutti noi sono rifluite dal mondo al “nostro giardino”?». È la sua amara constatazione. Troppo poco quella protesta organizzata lo scorso 22 febbraio dal Pd a piazza del Pantheon con il segretario Pierluigi Bersani, i capigruppo di Camera e Senato Dario Franceschini e Anna Finocchiaro e la presidente dell’Assemblea nazionale, Rosy Bindi. È un movimento di massa, ampio e democratico solidale con la protesta e la domanda di democrazia quello che auspica l’ex segretario dei Ds, che faccia da sponda al nuovo che avanza in Libia e sbarri politicamente la strada al rais. «Cedere all'egoismo e lasciare soli coloro che si battono, forse in modo confuso e contraddittorio, per la libertà sprona non è da noi».
SOSTENIAMO LA PROTESTA
Quindi lancia la sua proposta: «Perché i partiti democratici, i sindacati, le associazioni di massa non promuovono una grande manifestazione e una campagna di solidarietà?». «Il destino di quella parte del mondo ricorda dipenderà anche dal grado di vicinanza che sapremo garantire a chi si batte contro le dittature». «Se non ora quando?» è il suo monito. Quello che considera «inaccettabile» lo ha chiarito ai microfoni del Tg3 è «che il mondo aspetti solo di vedere chi vince». «Tempi mannari» li definisce. «Se Gheddafi riprenderà il controllo del Paese aggiunge sarà difficile tornare a parlarci come se nulla fosse». Condivide l'appello di Veltroni il senatore Ds Marco Follini. «In passato ha commentato la nostra generazione per molto meno ha protestato molto di più». Invoca «una scossa di tutta la comunità internazionale per fermare il massacro di Gheddafi» la presidente del Pd, Rosy Bindi.

l’Unità 7.3.11
L’istruzione pubblica è l’architrave dell’unità d’Italia
La scuola è un bene ad altissima rilevanza sociale per il Paese le dichiarazioni del premier sono un’offesa agli insegnanti Si delegittimano così i docenti e la libertà di insegnamento
di Luigi Berlinguer


L’esplosione della polemica sulle dichiarazioni del presidente del consiglio in merito alla "scuola pubblica" sottende una questione più profonda: non riguarda solo alcuni insegnanti, ma configura un'offesa rivolta al mestiere di insegnante. Giustamente l'Unità ha insistito sull'uso perverso del vocabolo inculcare. Viene delegittimata sia la funzione docente sia la libertà di insegnamento, evocando strumentalmente una contrapposizione insegnanti-famiglie nell'attività educativa: tutti ingredienti di un ritorno di barbarie autoritaria contro la stessa civiltà occidentale.
Sgomberiamo il campo da ogni possibile equivoco. La Costituzione contiene il dovere-diritto della famiglia di istruire ed educare i figli (art. 30) e, insieme, lo stesso dovere-diritto per lo Stato e per la scuola (art 33): due principi fondamentali che non possono essere messi artatamente in conflitto. Grazie all'autonomia delle scuole, nella nostra concezione educativa possono esistere progetti particolari, ovviamente all' interno di un comune indirizzo culturale nazionale. Per questo motivo è necessaria in ogni tipo di scuola una base comune e condivisa dell' idea di educazione ed istruzione. È lo Stato (artt. 33 e 117) che ne detta le norme generali, quelle culturali ma anche quelle deontologiche sulla delicata responsabilità educativa del docente. Quel tessuto connettivo ha due pilastri: il sapere e la cittadinanza: il che significa educare alla convivenza civica tra diversi attraverso il comune cemento della conoscenza.
La scuola dello Stato, in questi 150 anni, è stata architrave dell'unità linguistica e culturale e dell'unità tout court del Paese. Un vero e proprio "miracolo", rispetto all'italietta di allora, grazie alla qualità delle conoscenze scolastiche, sintesi della pluralità delle idee che la compongono. Affidare allora alla famiglia ed ai privati credo anche al di là dei programmi delle scuole paritarie un ruolo "fazioso" di scelta educativa di contrapposizione istituzionale, come invoca il premier, è particolarmente grave e rischioso, come ha avvertito la stessa autorità ecclesiastica. L'istruzione è un bene per un paese, bene supremo, ad altissima rilevanza sociale, per questo bene pubblico in sé. Nelle scuole dello Stato ed in quelle paritarie che la Costituzione tutela si è fatto obbligo, con una legge da noi provocata e voluta (n: 62, legge profondamente laica), di rispettare la funzione pubblica educativa ovunque la si eserciti. La resistenza a celebrare nelle scuole la festa dell'Italia il 17 marzo è un altro pericoloso indice di cedimento leghistico, ma anche di insensibilità rispetto all'altissimo ruolo dell'istruzione "nell'unificazione degli Italiani", insensibilità rispetto all'idea stessa di sistema nazionale educativo iniziato dal Risorgimento, suggellato dalla Resistenza e dalla Costituzione e compiuto dal nostro lavoro in tutti questi anni.
Oggi viviamo nella società della conoscenza. Lingua e sapere nazionali si cimentano con le lingue ed i saperi del mondo. Nel corso di questi 150 anni la diffusione della lingua nazionale e del sapere attraverso la scuola è valsa ad affrancare milioni di persone analfabete dalservaggio della fatica lavorativa solo manuale. Fino a considerare anche il lavoro come cultura. Taluni maitres à penser di diversi schieramenti contro la tendenza di tutto il mondo evoluto e democratico vanno ripetendo che gli idraulici devono fare gli idraulici, che si deve ripulire la scuola da quei giovani che, inadatti a studiare, devono essere sospinti a lavorare solo manualmente, manifestando ritorni arcaici e, peggio, stupidamente reazionari rispetto al cammino di questi 150 anni ed alla società contemporanea.
L'Italia e gli italiani sono il frutto dell'affermarsi di una lingua nazionale, delle manifestazioni di gioia per le vittorie della nazionale di calcio ai mondiali (così incomprensibile nell'ottica leghista), dell'affermarsi della grande trasdizione (italiana) del melodramma. E' uscito in questi giorni un bel volume di Angelo Guerraggio e Pietro Nastasi "L' Italia degli scienziati" in cui si concentrano 18 storie di studiosi italiani dal Risorgimento ai giorni nostri: la scienza in Italia è esistita, esiste, ed ha contribuito dal punto di vista culturale e sociale a questo nostro lungo cammino. Sono solo alcuni esempi significativi di come si formi una coscienza civica non ottusamente egoista e piccina. Oggi vogliamo tornare a Cattaneo e ad ipotesi di uno Stato articolato, autonomista di stampo federalista, ma con piena cittadinanza nel mondo globalizzato. L'istruzione, nella sua funziohe pubblica, ha dato un contributo determinante. Anche per questo va sostenuta, finanziata, protetta, anche se ormai è tempo di cambiarla profondamente nel suo impianto educativo.

l’Unità 7.3.11
Chi governa non può colpire al cuore un bene comune
È un’istituzione, va protetta dagli attacchi strumentali Non può essere merce di scambio, usata per compiacere chi controlla e trae vantaggi dall’istruzione privata
di Neri Marcorè


È vero che la scuola ha delle difficoltà e dei miglioramenti da compiere, la funzione di chi governa è quella di risolverne i problemi e sostenerne la solidità e lo sviluppo, non di attaccare, adulterare l'istituzione più preziosa di cui ogni stato dispone e su cui poggia il proprio avvenire. La scuola pubblica non va tirata a destra o a sinistra, è un'istituzione, e come tale va protetta dagli attacchi strumentali di qualsivoglia parte politica, perché istituzione significa anche patrimonio comune, al di sopra delle parti. La scuola pubblica non può essere merce di scambio usata per compiacere chi controlla e trae vantaggi diretti e indiretti da quella privata; sminuirla è un delitto, è mancanza di rispetto verso coloro che ci lavorano e ogni giorno affrontano un compito di enorme responsabilità con mezzi sempre meno adeguati. D'altronde la storia è storia, non si può riscrivere, e non si può restare in silenzio di fronte a chi pretende di farlo attraverso il controllo anche della scuola, lo stesso che sta cercando di plasmare il Paese a sua immagine e somiglianza, rinunciando dal principio, col proprio atteggiamento e operato, a essere il presidente di tutti. Così l'Italia si sta trasformando in un posto sempre meno felice e sempre più debilitato, avvilito, smarrito. E sono convinto di non essere in minoranza.

l’Unità 7.3.11
Intervista a Ibrahim Dabbashi, diplomatico libico ex vice ambasciatore all’Onu
«Non è guerra civile ma genocidio. Serve la no fly zone»
di U.D.G.


Se gli insorti vinceranno e il Colonnello spazzato via, sarà lui a ricoprire l’incarico di ambasciatore alle Nazioni Unite della nuova Libia. Il suo nome è Ibrahim Dabbashi. Diplomatico di lunga data, Dabbashi è stato vice ambasciatore libico presso l’Onu: incarico ricoperto fino a quando Dabbashi ha disertato denunciando che «il regime di Gheddafi ha già iniziato il genocidio contro il popolo libico». «La rivolta ha bisogno di un sostegno attivo, concreto, di quanti nel mondo credono che i principi di libertà e di democrazia siano davvero universali – dice Dabbashi a l’Unità – per questo è necessario attivare il più rapidamente possibile una “no fly zone” sulle città libiche per ostacolare l’arrivo di armi e mercenari». «Il tiranno Muammar Gheddafi – insiste il diplomatico libico – ha ammesso pubblicamente , attraverso i suoi farneticanti discorsi televisivi, quanto disprezzi la Libia e il popolo libico. Si tratta di fatto di una dichiarazione di guerra contro il popolo libico». Nei giorni scorsi Dabbashi ha rivolto un appello agli «ufficiali e i soldati dell'esercito libico, dovunque siano e a qualsiasi rango appartengano, ad organizzarsi e a muoversi verso Tripoli per tagliare la testa del serpente».
Riferendosi agli eventi che stanno sconvolgendo la Libia, c’è chi parla e scrive di una guerra civile in atto... «Non è così. Le cose vanno chiamate con il loro vero nome. E il nome che sintetizza ciò che sta avvenendo nel mio Paese è uno e uno solo: genocidio. Voluto, organizzato, da Muammar Gheddafi e la cricca di criminali che lo circonda. E di questi crimini dovrà rispondere davanti al popolo libico o a alla Corte penale di giustizia dell’Aja. Il tiranno non ha più alcuna legittimità a governare». Cosa si sente di chiedere oggi alle Nazioni Unite?
«È necessario giungere al più presto ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che dia il via libera alla realizzazione di una “no fly zone” per impedire ai mercenari assoldati da Gheddafi di continuare a far strage di quanti protestano e chiedono libertà dal tiranno. So che il presidente Obama è disposto a realizzare questa opzione. Occorre una cornice di legalità internazionale, un imput politico che solo il Consiglio di Sicurezza può dare. E deve farlo al più presto, se non si vuol essere complici del genocidio in atto nel mio Paese. Un genocidio voluto da Muammar Gheddafi».
Lei fino a poche settimane fa ha rappresentato all’Onu la Libia di Gheddafi... «L’ho fatto cercando sempre di fare l’interesse della nazione libica. Ma dopo il 17 febbraio (il giorno d’inizio della rivolta, ndr) e dopo i massacri orditi da Gheddafi, occorreva scegliere da che parte stare: con il popolo libico o con un tiranno che al popolo ha di fatto dichiarato guerra. Un tiranno che ha assoldato migliaia di mercenari per trucidare la propria gente. Non ho avuto un attimo di esitazione a scegliere».
C’è il rischio che la Libia si trasformi in una nuova Somalia? «Non è questa l’intenzione di coloro che stanno guidando la rivolta. Quella in atto, dal punto di vista degli insorti, è una “guerra di liberazione” e non di secessione. Altri potrebbero puntare alla “somatizzazione” della Libia per ragioni che nulla hanno a che vedere con i diritti del popolo libico, e molto con il petrolio. Ed è per questo che nei ripetuti appelli rivolti alla Comunità internazionale dal “Consiglio nazionale di transizione” si chiede la realizzazione di una “no fly zone” e l’apertura di corridoi umanitari, ma al tempo stesso si esprime contrarietà ad una presenza militare internazionale – anche sotto egida Onu o Nato – sul campo. Saranno i libici a liberarsi del tiranno e a decidere il proprio futuro. Quello per cui stiamo combattendo è uno Stato indipendente e democratico, e non certo un protettorato internazionale. Il popolo libico è fiero della propria identità nazionale».
Il Consiglio dei ribelli si dichiarato l’altro ieri il solo rappresentante della Libia, nominando presidente l’ex ministro della Giustizia, Moustapha Abdelljalil...
«Si tratta di un duplice segnale. Al popolo libico, perché sia certo che la nuova Libia sta già nascendo. E all’America, all’Europa, ai Paesi della Lega araba, a quanti siedono al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: in Libia non esiste un vuoto di potere. Il mondo ha con chi trattare».

l’Unità 7.3.11
Il Gattopardo arabo: cambiare tutto per salvare il petrolio
di Robert Fisk


Ho il triste sospetto che il destino di questi Paesi si deciderà ancora nei luoghi dell’oro nero e della corruzione

Il terremoto che ha sconvolto il Medio Oriente nelle ultime cinque settimane è l’esperienza più tumultuosa, sconvolgente e sorprendente della storia della regione dalla caduta dell’Impero Ottomano. Una volta tanto l’espressione “shock and awe” coniata per l’Iraq dagli alti comandi americani, calza a pennello.
I docili, supini, passivi, indolenti arabi si sono trasformati in combattenti per la libertà e la dignità invadendo un territorio che noi occidentali abbiamo sempre ritenuto nostra esclusiva riserva di caccia, nostro monopolio. Uno dopo l’altro i satrapi stanno crollando e le popolazioni che, pagati da noi, dovevano controllare stanno diventando artefici della loro storia. Il nostro diritto di interferire con le loro vicende (cosa che ovviamente continuiamo a fare) è scemato per sempre.
Le faglie tettoniche continuano a muoversi con conseguenze tragiche, imprevedibili e talvolta persino divertenti. Innumerevoli sono i potentati arabi che hanno sempre sostenuto di volere la democrazia in Medio Oriente. Re Bashar in Siria ha deciso di aumentare gli stipendi ai dipendenti pubblici. Re Bouteflika in Algeria ha improvvisamente revocato lo stato di emergenza. Re Hamad del Bahrain ha aperto le porte delle prigioni. Re Bashir del Sudan ha annunciato che non si presenterà alle prossime presidenziali. Re Abdullah di Giordania sta vagliando l’ipotesi di una monarchia costituzionale. E Al Qaeda se ne sta in silenzio. Chi avrebbe mai potuto pensare che il nostro vecchio barbuto che vive in una grotta sarebbe stato colpito all’improvviso, uscendo dal suo antro, dal bagliore della libertà e non dalle tenebre manichee cui era abituato dopo innumerevoli video lugubri trasmessi dalle televisioni di tutto il mondo?
In tutto il mondo musulmano ci sono stati numerosi martiri, ma nemmeno una bandiera islamista. I giovani e le giovani che hanno decretato la fine dei dittatori erano per lo più musulmani, ma erano animati dalla voglia di vivere non dal desiderio di morte. Sono credenti, ma a rovesciare Mubarak ci hanno pensato loro senza aspettare Bin Laden e i suoi proclami che ormai sapevano di stantio.
Ma stiamo attenti. Non è finita. Oggi proviamo una sensazione di euforia, ma ci saranno altri tuoni e altri fulmini. Il film horror di Gheddafi non è ancora terminato e la sua trama è il solito terribile mix di sangue e farsa cui siamo abituati in Medio Oriente. E il suo declino, inutile dirlo, è un segnale sinistro per i nostri patetici, meschini potentati. Berlusconi che per molti versi è già la spettrale parodia di Gheddafi Sarkozy e Blair si avviano a diventare più squallidi di quanto siano mai arrivati a pensare. I loro occhi hanno benedetto Gheddafi, l’assassino.
Ora è tutto un invitare l’Egitto a seguire il “modello turco”, vale a dire un gradevole cocktail di democrazia e di Islam sotto stretto, attento controllo. Ma se questo auspicio si avverasse, la conseguenza inevitabile sarebbe un governo militare, non amato e non democratico per decenni a venire. Come ha sottolineato l’avvocato Ali Ezzatyar: «I capi militari egiziani hanno parlato di minacce al modo di vivere egiziano facendo riferimento alla Fratellanza Musulmana. Sembra il ripetersi della storia turca». L’esercito turco per ben quattro volte nella storia della Turchia moderna ha invaso il campo della politica per far da pacere. E chi se non l’esercito egiziano sponsor di Nasser, sostenitore di Sadat si è liberato dell’ex generale Mubarak?
E la democrazia quella vera, nella versione che noi occidentali abbiamo finora così amorevolmente coltivato per noi nel mondo arabo non avrà vita facile né felice considerato il modo in cui gli israeliani trattano i palestinesi e considerato il furto dei territori della Cisgiordania. Dinanzi alla prospettiva di non essere più “la sola democrazia del Medio Oriente”, Israele ha disperatamente sostenuto con l’appoggio della monarchia saudita che era necessario tenersi la tirannia di Mubarak. A Washington, Israele ha cercato di fare leva sullo spettro della Fratellanza Musulmana e ha messo in azione la solita lobby della paura per spingere una volta ancora Obama e Hillary Clinton a prendere la decisione sbagliata. Al cospetto di quanti manifestavano per la democrazia, i responsabili di Washington hanno sostenuto gli oppressori fin quando hanno capito che era troppo tardi.
Desiderano una “transizione ordinata”. E basta la parola “ordine” per capire di cosa stiano parlando. Solo il giornalista israeliano Gideon Levy ha capito al volo: «Dovremmo dire “Mabrouk Misr!”!», ha detto. E Mabrouk Misr significa: congratulazioni Egitto!
Dedichiamo troppa poca attenzione a questa banda di principi autocrati e ladri. Li riteniamo arcaici, analfabeti quando si tratta di politica intesa nel senso moderno del termine, ricchi (sì, “più di quanto potesse sognare Creso”) e ci siamo messi a ridere quando re Abdullah si offrì di aiutare finanziariamente il regime di Mubarak al posto degli Stati Uniti, così come scoppiamo a ridere ora quando veniamo a sapere che il vecchio re ha promesso ai suoi sudditi 36 miliardi di dollari a condizione che tengano la bocca chiusa. Ma non c’è niente da ridere. La rivolta araba che finalmente ha cacciato gli ottomani dal mondo arabo ha avuto inizio nei deserti dell’Arabia dove i capo tribù si fidavano di Lawrence, di McMahon e del resto della cricca. Dall’Arabia è venuto il wahabismo, la pozione inebriante la cui terrificante e semplicistica dottrina faceva presa su tutti gli aspiranti musulmani e sugli aspiranti attentatori suicidi sunniti. I sauditi hanno promosso Osama bin Laden, Al Qaeda e i talebani. Non parliamo nemmeno del fatto che da lì vengono la maggior parte degli attentatori dell’11 settembre. E oggi i sauditi sono convinti di essere gli unici musulmani ancora in armi contro il mondo che cambia. Ho il triste sospetto che il destino di questa pagina tragica e farsesca della storia del Medio Oriente si deciderà nel regno del petrolio, dei luoghi sacri e della corruzione. State a vedere.
E ora una considerazione più leggera. Mi sono messo alla caccia delle citazioni più memorabili della rivoluzione araba. Si va dal «Torna presidente, stavamo solo scherzando» di un dimostrante egiziano al discorso in perfetto stile Goebbels di Saif el-Islam el-Gheddafi: «Dimenticate il petrolio, dimenticate il gas: ci sarà una guerra civile». Ma la citazione che preferisco, ancorché personale, è quella del mio amico Tom Friedman del New York Times che, unendosi a me per fare colazione al Cairo, con il solito disarmante sorriso mi ha detto: «Fisky, ieri in piazza Tahrir mi si è avvicinato un egiziano e mi ha chiesto se ero Robert Fisk!». Questa sì che è una rivoluzione.
(c) The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 7.3.11
La politica dei soldi: così l’Occidente si è inchinato ai raìs
di Anne Applebaum


I collegamenti tra Saif Gheddafi e l’establishment britannico sono un tipico esempio dei rapporti tra i ricchi dittatori e i politici occidentali. Ogni quotidiano britannico ha scritto di Gheddafi questa settimana, ma il Sunday Times ha di gran lunga le migliori immagini. Una fotografia del secondo figlio del colonnello Moammar Gheddafi, avvolto in una giacca bianca e un’impeccabile cravatta di seta, con una kefiah perfettamente stirata che fluttua elegantemente sulle sue spalle, è ben in vista su una delle pagine del giornale. Intorno, a cerchio, ci sono le fotografie dei suoi amici britannici e dei loro colleghi: Nat Rothschild, erede della celebre famiglia di banchieri, che ha organizzò un party per Saif quando completò il suo dottorato sulla “società civile” e “governo globale” alla London School of Economics; Sir Howard Davies, direttore della London Stock Exchange e uno dei delegati di Tony Blair per i rapporti economici con la Libia; Lord Peter Mandelson, un ex consulente di Blair, ministro e commissario europeo, oggi impegnato ad assistere «le compagnie per espandere il loro mercato oltre oceano»; il Principe Andrew, che promuove il commercio britannico all’estero; e ultimo ma non meno importante, il primo ministro Tony Blair in persona. Saif era popolare. Frequentava le feste del palazzo St. James e veleggiava su lussuosi yacht verso Corfù. Era anche ricco. Grazie ai suoi contatti, era diventato il collegamento attraverso il quale le compagnie britanniche gestivano i loro investimenti in Libia e tramite cui l’autorità per gli investimenti della Libia investiva nelle compagnie britanniche.
Per lo meno, questo era quello che faceva fino alla settimana scorsa, quando è apparso sulla televisione libica giurando che il regime sanguinario di suo padre avrebbe combattuto «fino all’ultimo uomo, l’ultima donna, l’ultimo proiettile». Improvvisamente, la faccia accettabile della tirannia libica è diventata inaccettabile. Sotto la patina dell’educazione occidentale si nascondeva uno psicopatico delirante.
Saif non è l’unico personaggio discutibile che ha frequentato i luoghi dove il denaro incontra la politica a Londra, oggi la vera capitale del capitalismo globale. Ogni lista di persone con cui il Principe Andrew ha recentemente pranzato rivelerà dozzine di simili bulli tirati a lucido: altri libici, kazakhi, kirghisi, e, naturalmente, gli onnipresenti sauditi.
Il denaro, anche il denaro straniero (e in particolare il denaro saudita), è sempre stato capace di comprare la possibilità di avvicinare e incontrare gli statisti occidentali. Ma nell’ultima decade, le proporzioni si sono spostate impercettibilmente. L’occidente democratico è diventato relativamente più povero, mentre alcuni mercati non democratici “emergenti” sono divenuti più ricchi. Tanto per essere chiari: i politici, gli ex politici, e gli aristocratici occidentali sono diventati molto, molto più poveri rispetto ai ricchi, ricchissimi uomini d’affari che sono emersi dagli Stati dell’Asia centrale, l’Europa dell’est e il medio oriente i cui conti bancari si sono ingigantiti grazie all’olio e al gas. Venti anni fa, nessun politico in pensione proveniente dall’Inghilterra o dalla Germania avrebbe guardato fuori dal proprio Paese per un posto di lavoro. Oggi, Blair è un consulente dei governi del Kuwait e degli Emirati Arabi Uniti, tra gli altri; Gerhard Schroeder, l’ex cancelliere tedesco, è nel libro paga di Gazprom, il gigante dell’energia russa.
È vero che ci possono essere ragioni legittime per mantenere contatto con i dittatori: Blair ha aiutato a persuadere Gheddafi a rinunciare al suo programma di armamenti nucleari nel 2003, e negli ultimi dieci giorni ha chiamato due volte il dittatore per chiedergli di smettere di sparare i propri cittadini. Non ha aiutato, come è evidente, ma tentar non nuoce. Ma non c’è nessuna giustificazione nel prendere i soldi dei dittatori o farsi amici i loro discendenti, soprattutto quando alla stesso tempo si gioca alla politica con i loro genitori. Questo non è solo un problema britannico, tra l’altro. Frank Wisner, il delegato statunitense mandato da Barack Obama per negoziare con Hosni Mubarak nei primi giorni della rivoluzione egiziana, lavora anche per Patton Boggs, uno studio legale che ha lavorato per il governo egiziano. È stato scritto che l’amministrazione si è infuriata quando Wisner ha inaspettatamente proposto che Mubarak “dovesse restare”, pochi giorni prima che fuggisse da Il Cairo. Ma c’era veramente motivo di essere sorpresi?
Nel frattempo, Michelle Alliot-Marie, il ministro degli Esteri francese, è stata licenziata dopo essere andata in vacanza in Tunisia durante la rivoluzione, aver volato su alcuni aeroplani appartenenti ad un amico del presidente tunisino, e aver aiutato suo padre a concludere un affare sul posto. Quando è tornata, ha delicatamente suggerito che i francesi avrebbero dovuto aiutare i loro amici nella polizia tunisina a sopprimere le rivolte.
Incrociando le dita, Alliot-Marie è la prima di tanti: se i governi occidentali vogliono avere un minimo di credibilità nel mondo arabo dopo le rivoluzioni, devono smettere di assumere persone, anche come “delegati”, che sono già state assunte da attuali o precedenti dittatori arabi. Blair dovrebbe dimettersi immediatamente dal suo ruolo di negoziatore informale nel medio oriente; al Principe Andrew si dovrebbe dire di restare a casa. I tanti Wisner del mondo dovrebbero essere rimandati in pensione.
Infine, per precauzione, le legioni di ex dipendenti statali oggi al soldo di uomini d’affari cinesi, russi o sauditi dovrebbero essere tenuti distanti dai loro vecchi posti di lavoro, tanto per essere sicuri. Quando arriverà la loro rivoluzione, potrete essere sicuri che si scoprirà che anche loro hanno amici imbarazzanti.

l’Unità 7.3.11
Qualcosa di nuovo anzi d’antico: il Mediterraneo
di Mario Soares


Fino alla Seconda Guerra Mondiale il Mare Nostrum era il centro della scena mondiale, poi l’asse si è spostato nell’Atlantico e infine nel Pacifico. I fatti del mondo arabo stanno riportando il pendolo sopra il vecchio mare
La partita è appena inziata e gli effetti potrebbero ancora estendersi ad altri Paesi come Iran e Siria. O persino Israele

Fino al termine della Seconda Guerra Mondiale, il Mediterraneo è stato il centro geostrategico del mondo. Dopo, con la Carta Atlantica firmata da Roosevelt e da Churchill e, ancora più tardi, con il Trattato dell'Atlantico e la nascita della Nato, creata nel 1949 per contenere l'espansione del comunismo, l'Atlantico ha preso, come importanza, il posto occupato dal Mediterraneo. Poco a poco. Successivamente, con lo straordinario recupero del Giappone, la guerra del Vietnam, l’emergenza della Cina e lo sviluppo dell’India, l’Oceano Pacifico ha iniziato a sfidare la preminenza dell’Atlantico. Sorprendentemente, oggi la storia ha compiuto un nuovo e spettacolare balzo, con il risveglio dei popoli del Maghreb e del Vicino Oriente. Si tratta di una rivoluzione multipla? Per alcuni aspetti è una rivoluzione totalmente originale, scatenata da giovani con l'accesso alle nuove tecnologie informatiche che si sono concentrati nelle strade e nelle piazze delle città per reclamare libertà, democrazia, per dire basta alla corruzione e ai dittatori che li hanno soggiogati per anni, anzi decenni. Come ha scritto Joschka Fischer, ex ministro tedesco degli Esteri, «tutta la regione arabo-musulmana è in tumulto», con vari barili di polvere nera pronti ad esplodere, forse con alcune eccezioni come l'Arabia Saudita e la Siria (credo solo per il momento), mentre Israele e la Palestina sono protagonisti di un altro conflitto che sembra eternizzarsi e che è stato la ragione per molte delle violenze scatenate in quest'area. È da notare che le ribellioni scoppiate finora tranne in Libia, un caso sui generis non hanno lanciato slogan contro il Nordamerica, l’imperialismo o Israele. Non denotano un’impronta religioso-islamica, né radicale né moderata. Reclamano valori e diritti universali e aspirano a nuovi orizzonti di progresso, in particolare per le giovani generazioni alla deriva, più preparata e ciò nonostante più arrabbiate per la disoccupazione. In Libia stiamo assistendo a una situazione particolarmente grave ed eccezionale, provocata da un pazzo furioso, Mohammar Gheddafi, che ha ordinato alla sua guardia pretoriana di uccidere i ribelli. È una specie di genocidio che finirà molto male, forse con il suicidio o con la morte del despota. Questi è stato abbandonato dai membri del Consiglio Rivoluzionario, dai militari, dagli alti funzionari e dagli ambasciatori. In Portogallo, il rappresentante di Tripoli ha detto che «nessuno che mandi mercenari contro il suo stesso popolo merita lealtà» e ha chiamato il regime «fascista, tirannico e ingiusto», mentre il suo omologo alle Nazioni Unite ha richiesto un intervento contro Gheddafi.
Comunque, persiste la domanda che tutti ci stiamo facendo: cosa succederà dopo la caduta del dittatore? La stessa domanda si ripete per tutti gli Stati in cui ci sono già state sollevazioni e i tiranni militari o civili, fino a re delle teocrazie esistenti hanno concesso diritti che, in alcuni casi, hanno moderato i manifestanti. Ma nessuno conosce la risposta, oltre al fatto che l'agitazione continuerà. Lo Stato chiave è senza dubbio l’Egitto, anche se non sul piano economico. È stato il suo esercito, alleato di Washington, che ha ordinato la repressione poliziesca che, all'inizio della rivolta, ha causato numerosi morti e che, ne sono convinto, ha protetto la vita dell’ex presidente Mubarak. Come evolverà l’Egitto e le sue poderose forze armate? Nonostante la promessa formale di “libere e giuste elezioni” per la presidenza e il Parlamento, tutto il processo continua ad essere aperto. Per esempio, con un governo civile al Cairo e con una presenza importante dei Fratelli Musulmani nel nuovo Parlamento: si manterranno le relazioni privilegiate con Israele? Israele è riuscito a restare incolume ultimamente con molta arroganza grazie al potere della lobby ebreo-statunitense. Ora dovrà riflettere seriamente sul proprio futuro, negoziare con la Palestina e probabilmente abbandonare le colonie per evitare di dover affrontare nuovi conflitti. Invece della forza militare, dovrà usare l'intelligenza diplomatica per dialogare. La persona meno indicata per fare tutto questo è l'attuale Primo ministro, Benjamin Netanyahu. La persona giusta, se davvero Israele volesse cambiare rotta, è invece l’ex-presidente Shimon Peres capace di vantare una esperienza indiscutibile.
Un altro grave problema è quello dello Stato teocratico iraniano, intollerante e oppressore, con un poderoso esercito e prossimo a dotarsi di armamenti nucleari, dove la brutale repressione contro le proteste della popolazione sono un pessimo segnale. Le manifestazioni non sono ancora arrivate negli emirati né nella maggiore potenza petrolifera, l’Arabia Saudita, dove il re, considerato intelligente e moderato, segue attentamente la situazione in tutta l’area.
Sul fronte occidentale, chi ha reagito in maniera migliore, con interventi rapidi e opportuni, rispetto ai ritardi e alla pochezza dell’Unione Europea, è stato il governo di Obama, in aperto contrasto con i propri avversari repubblicani che continuano lungo la linea obsoleta di Bush, quella per la quale «i tiranni, quando conviene ai nostri interessi, sono sempre nostri amici». In un mondo globalizzato, dove i diritti umani sono sempre più fondamentali, ostentare questa forma di realpolitik non ha proprio alcun senso.
(Copyright Ips) Traduzione di Leonardo Sacchetti
Mario Soares è stato Presidente del Portogallo dal 1986 al 1996; è stato inoltre Primo ministro per due volte

Corriere della Sera 7.3.11
L’Accademia che ha acceso il mondo arabo
Così, dal Qatar, un pediatra, un chimico e un ingegnere hanno ispirato la ribellione in Medio Oriente
di  Davide Frattini


DOHA— Le pentole calzate sulla testa dai rivoltosi in piazza Tahrir al Cairo. I consigli per la resistenza urbana di Per Herngren, giardiniere della pace svedese che pianta alberi di fico nelle basi militari e martellatore di armi che applica la sentenza biblica «dalle loro spade forgeranno vomeri, dalle loro lame, falci» . L’orgoglio e la strategia di Robert Redford nel film Il castello, gli slogan di V for Vendetta («Il popolo non dovrebbe temere il proprio governo, sono i governi che dovrebbero temere il popolo» ), i passi iniziatici alla Matrix: «Io posso condurti fino alla soglia, la porta devi varcarla da solo» . I tre fondatori dell’Accademia del cambiamento miscelano Internet e cinema, filosofia e scienza. Gli apprendisti stregoni di queste rivoluzioni arabe hanno più o meno trent’anni, sono di origine egiziana e hanno scelto il Qatar («perché sta già sperimentando le riforme» ) come base per diffondere le loro idee. Da Doha trasmette Al Jazeera, accusata dai regimi di fiancheggiare le ribellioni, e da Doha il pediatra, il chimico, l’ingegnere pubblicano i manuali che hanno ispirato i ragazzi del Medio Oriente. Traducono i discorsi di Lech Walesa e del Mahatma Gandhi, i diari di Henry David Thoreau, producono documentari sul movimento arancione in Ucraina, insegnano a costruire l’armatura per proteggersi dalla polizia antisommossa: il prototipo scelto sono gli scontri a Genova durante il G8, il video dimostrativo evidenzia gli scudi di plexiglas usati dai manifestanti come una falange romana e le bottiglie di plastica avvolte sugli avambracci con il nastro adesivo. «Ci siamo conosciuti nel 2004 e abbiamo deciso di lavorare insieme partendo da un’idea: la differenza tra le nostre carriere in Europa e la situazione in Medio Oriente. Le variabili più importanti sono le stesse (noi, il tipo d’impiego, gli obiettivi) eppure tutto dipende da un elemento: l’organizzazione della società. Che nei Paesi arabi blocca il progresso, così ci siamo chiesti come svincolare l’energia della gente» , racconta Hisham Morsi, oncologo infantile. Un anno dopo si svolgono le elezioni presidenziali in Egitto. «Per noi e molti altri sono state il vero test» , dice. Anche i giovani egiziani scesi in strada per 18 giorni fino alla caduta di Hosni Mubarak si avvicinano alla politica nel 2005 ed è allora che alcuni di loro incontrano la squadra dell’Akademyat al-Taghyeer, invitata al Cairo dall’organizzazione Kefaya (Basta). Ai seminari, partecipano i futuri leader della rivolta, come Ahmed Maher, che dopo quelle riunioni crea la brigata Gioventù per il cambiamento. «Fin dall’inizio abbiamo stabilito le regole: non vogliamo essere coinvolti nelle operazioni, non siamo attivisti. Offriamo consulenza e addestramento» , continua Hisham, che ha vissuto per dodici anni a Londra (è l’altra sede europea con Vienna, dove vive Ahmed Abdel Akim, due lauree: Chimica e Scienze Politiche). Il passaporto britannico e la dichiarata neutralità (almeno in manifestazione) non hanno risparmiato l ’ a r r e s t o a Hisham, portato via dagli agenti in borghese e lasciato in isolamento nella cella 75, bendato per quattordici giorni, mentre fuori il regime di Mubarak crollava. «Sono arrivato in Egitto il 31 gennaio, mi hanno fermato dopo dodici ore, per caso: ho commesso l’errore di andare nella zona sbagliata della città, proprio quello che sconsiglio ai nostri allievi» . Il primo libro scritto dal gruppo è intitolato La guerra con azioni non violente ed è ispirato alle teorie dell’americano Gene Sharp. «In strada è una battaglia, anche se non usiamo la violenza. Bisogna studiare le tattiche e prevenire le mosse del nemico» , spiega Wael Adel, l’ingegnere, che per il gruppo si occupa della comunicazione ed è tornato a vivere in Egitto. Il manifesto programmatico promette il «terremoto delle menti» . Il sisma intellettuale viene offerto anche attraverso corsi interattivi via Internet (l’iscrizione costa 15 euro) e lezioni dal vivo che dovrebbero portare a un diploma dopo un anno di studi. Sul sito, presentano le idee di Sanderson Beck, guru new age californiano, che scrive di Zarathustra e al presidente Barack Obama. Pure Hisham misticheggia, quando parla «del sogno collettivo concepito per quindici anni dagli egiziani, seduti davanti alla televisione o in poltrona a fumare la shisha. Senza fare nulla, senza muovere un dito, hanno immaginato il giorno della caduta di Mubarak e quella energia si è concentrata e materializzata l’ 11 febbraio» .

Corriere della Sera 7.3.11
Non tutti i tiranni sono cattivi ce ne sono perfino di benevoli
di Robert Kaplan


L ’ analisi si fonda sulle distinzioni, ma in questi giorni di ribellioni nel mondo arabo le distinzioni tendono a sfumarsi. Non tutti i tiranni sono cattivi, come proclamano alcuni neoconservatori, e non tutti meritano di essere rovesciati. Le differenze morali tra un dittatore e l’altro sono talvolta altrettanto vaste quanto quelle che corrono tra totalitarismi e democrazie. Esiste anche il despota benevolo e non è giusto voltare le spalle a figure di questo tipo che ancora oggi rimangono al comando di alcune nazioni. Una visione di finalità condivise, la legittimità riconosciuta, l’esistenza di un contratto sociale e la capacità di rendere la società più complessa sotto il profilo istituzionale — e quindi pronta ad accogliere maggiori libertà — sono le caratteristiche distintive dei buoni dittatori. Muammar Gheddafi, per esempio, non è nemmeno lontanamente paragonabile al sultano Qaboos bin Sa’id dell’Oman, il cui regno ha assistito a violente manifestazioni giovanili in questi ultimi giorni. E l’ormai deposto dittatore egiziano Hosni Mubarak, di stampo brezneviano, non può essere confrontato all’energico re Abdullah di Giordania. Il sultano Qaboos dell’Oman ha fatto costruire strade e scuole in tutta la regione rurale, promosso l’emancipazione delle donne e protetto l’ambiente. Ha governato finora secondo principi e finalità simili a quelli di tanti dittatori asiatici degli anni passati, come Deng Xiaoping in Cina, Lee Kuan Yew a Singapore e il più controverso Mahathir Mohamad in Malesia. Tutti costoro hanno saputo risollevare i loro Paesi dalla povertà favorendo la nascita di una classe media industriosa e ambiziosa. Come per i sovrani di Giordania, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, anche la legittimità del sultano Qaboos si fonda su un’antica tradizione, ma lo stesso non può dirsi dei despoti del Nord Africa, che hanno instaurato Stati polizieschi senza il minimo conforto della tradizione, tutti ugualmente privi di lungimiranza e senso del futuro della nazione. La legittimità si fonda su un contratto sociale che considera gli individui cittadini e non soggetti, e si pone il fine del progresso economico e dell’avanzamento sociale. I leader cinesi sanno che occorre stimolare una crescita economica di almeno 7 punti percentuali l’anno per evitare disordini popolari. Tuttavia, malgrado i successi, il contratto sociale si evolve di pari passo con l’evolversi della società: i cittadini, specie i giovani, accanto alla libertà economica reclamano anche la libertà politica. Per questo motivo la gioventù inquieta di Cina e Oman si distingue da quella del Nord Africa. Nel primo caso i giovani sono cresciuti nell’attesa di nuove aperture da parte dei loro governanti e quando le loro aspettative sono deluse, scatta la ribellione. In Tunisia e in Egitto, invece, si sono ribellati perché, costretti ad accettare sempre di meno, hanno saputo cogliere un momento di debolezza nel palazzo del potere per scatenare la loro furia. La Libia, poi, incarna un livello di megalomania e di disintegrazione sociale che non ha paralleli in tempi recenti e sembra anzi riaffiorare dall’antichità. Il colonnello Gheddafi non s’è curato di mettere in piedi valide istituzioni, come fanno i despoti benevoli. Negli Stati del Golfo, i meccanismi statali funzionano. Funzionano anche in Tunisia e in Egitto, anche se non con la stessa efficienza. In Libia non esistono nemmeno. Come aveva notato già negli anni Sessanta il compianto professore di Harvard, Samuel Huntington, più è complessa una società, più numerose sono le istituzioni necessarie per governarla. Compito del dittatore è quello di rendere la società più complessa sul piano gerarchico, in modo da favorire la crescita delle varie classi economiche e consentire ai cittadini di affrontare la mobilità sociale. È un compito favorito dallo sviluppo e dalla promozione delle libertà individuali. Ma il successo stesso del despota benevolo — la sua rinuncia alla tirannia — prima o poi spiana la strada alla propria caduta. La libertà politica deve sempre accompagnare un certo livello di complessità sociale. Il dittatore può evitare la tragedia al termine di un felice regno solo se saprà traghettare il popolo verso un nuovo governo evitando che la situazione precipiti nel caos. Nel corso della sua vita, ben di rado gli verrà riconosciuto questo merito. Solo oggi si comincia ad ammettere in Indonesia che il defunto Suharto, rimasto al potere per lunghissimi anni, contribuì a preparare il Paese a un decennio di reale ed efficace democrazia. Fu un tiranno corrotto, è vero, ma il suo governo produsse molti benefici per il popolo. Il sultano Qaboos capirà senz’altro che, nel favorire lo sviluppo sociale dell’Oman, il merito principale del suo governo sarà quello di consentire una certa misura di vera democrazia. Se riuscirà a placare l’opposizione con questa promessa, potrebbe diventare il Lee del mondo arabo, che ha saputo portare Singapore da livelli africani di sottosviluppo a uno tra i Paesi più ricchi al mondo. In un momento di rivoluzioni democratiche, questa potrà sembrare una proposta antiquata. Tuttavia, con il progressivo attenuarsi dell’infatuazione attuale, sarà chiaro a tutti che per sconfiggere la tirannia ci vuole molto di più che una chiamata alle urne. (traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 7.3.11
I tre scenari della crisi libica
di Angelo Panebianco


Per quanto essa sia elusiva, vaga e refrattaria a essere imprigionata in definizioni precise, dall’idea di «interesse nazionale» non si può tuttora prescindere. Nonostante i fiumi di inchiostro versati sui cambiamenti delle relazioni interstatali indotti dalla cosiddetta globalizzazione o, nel caso dei Paesi del Vecchio continente, dall’integrazione europea, l’interesse nazionale resta la principale bussola per coloro che devono decidere le politiche estere come per coloro che ne valutano gli effetti. Cruciali questioni di interesse nazionale, come tutti sanno, sono in gioco per l’Italia nella vicenda libica. A seconda degli esiti di quella crisi il nostro interesse nazionale verrà salvaguardato oppure gravemente danneggiato. Allo stato degli atti, sembrano essere tre i possibili esiti della crisi libica. Nel primo scenario, Gheddafi viene sconfitto, abbandona il potere e gli subentra una nuova classe dirigente che, nonostante grandi difficoltà, si rivela capace di tenere insieme il Paese e di ristabilire normali relazioni con gli altri Stati. Nel secondo scenario, la guerra civile si protrae a lungo e la Libia sprofonda negli inferi, finisce nel girone riservato agli «Stati falliti» , in compagnia di Paesi come la Somalia o l’Afghanistan. Nel terzo scenario, infine, Gheddafi riprende il controllo dell’intero territorio, Cirenaica compresa, al prezzo di un terribile bagno di sangue. Il primo scenario, ovviamente, è il migliore per la Libia ma anche per noi italiani. Si tratterà di stabilire relazioni con una nuova classe dirigente che, presumibilmente, avrà anch’essa interesse a un buon rapporto con l’Italia, che avrà bisogno dei legami economici con noi, tanto più nella fase della ricostruzione post dittatura. Avevamo, è vero, eccellenti rapporti con Gheddafi, il che ci renderà sospetti ai loro occhi, ma è comunque un fatto che, fra gli occidentali, non siamo stati i soli a coccolarlo. Il realismo imporrà ai nuovi dirigenti libici di non rinunciare a una cooperazione vantaggiosa per entrambi i Paesi. Gli altri due scenari, invece, ci danneggerebbero grandemente. Se la Libia diventasse uno Stato fallito, si trasformerebbe in una piattaforma adibita al trasferimento al di qua del Mediterraneo di fiumi di disperati, di caos, di criminalità e terrorismo, ossia dei frutti avvelenati che crescono sempre negli Stati falliti. E noi saremmo in prima linea, i primi a subirne le conseguenze. In uno scenario «somalo» diventerebbe prima o poi inevitabile un intervento militare della comunità internazionale volto a frenare il caos. Nonostante le insidie e l’alto rischio di fallimento a cui un intervento militare andrebbe incontro. Ma anche il terzo scenario, quello che prevede un Gheddafi di nuovo vittorioso in Libia, sarebbe pessimo per noi.
In politica internazionale l’ipocrisia è la regola. Fino a ieri tutti, non solo noi italiani, fingevano di non sapere che Gheddafi fosse un turpe dittatore che aveva sempre fatto strame di diritti umani. Lo fingevano i governi, i banchieri, il Consiglio dei diritti umani dell’Onu, persino la prestigiosa Lse (la London School of Economics and Political Science di Londra) destinataria di generosi finanziamenti libici, e tantissimi altri. Adesso però l’incanto si è rotto, adesso Gheddafi è un paria, un ricercato dell’Interpol, un possibile imputato del tribunale penale internazionale. D’ora in poi, fare affari con lui diventerà molto difficile. Se Gheddafi riconquisterà la Libia, per l’Italia saranno dolori, pagheremo un costo economico salatissimo. Per non parlare della difficoltà di ristabilire rapporti di cooperazione su materie sensibili come il controllo dell’emigrazione dall’Africa. La questione dei rapporti economici Italia Libia ha due facce. C’è, in primo luogo, il destino del centinaio di imprese che operavano fino a pochi giorni fa in Libia e il futuro ruolo dell’Eni. Adesso che anche noi abbiamo scaricato Gheddafi, un vendicativo dittatore di nuovo in sella potrebbe decidere di spazzarci via a vantaggio di meno scrupolosi concorrenti. La Cina, soprattutto, un Paese che non ha problemi a trattare con i peggiori dittatori, sarebbe certo lieta di subentrare alle nostre e alle altre imprese occidentali. E c’è poi la questione dei fondi sovrani, dei cospicui investimenti dello Stato libico in Italia (la presenza in Unicredit, Finmeccanica, Eni, il ruolo della Banca libica con sede a Roma, eccetera). Per ora, in omaggio alle direttive Onu, abbiamo congelato, come altri Paesi, i beni della famiglia Gheddafi e ci siamo dichiarati pronti, per bocca del ministro degli Esteri Franco Frattini, a congelare anche i fondi sovrani se ciò verrà deciso dall’Onu o dall’Unione Europea. Ma è un tema delicatissimo. Da un lato, sarà impossibile per noi non ottemperare alle eventuali richieste in tal senso degli organismi internazionali. Dall’altro lato, sarà di particolare danno farlo dal momento che i libici sono uno dei principali investitori sulla nostra piazza e, per giunta, un congelamento dei loro capitali sarebbe un pessimo segnale per altri investitori. In ogni caso sarebbe per noi una perdita secca e pesante. Posto dunque che non solo ai libici ma anche a noi conviene che Gheddafi se ne vada, si può constatare quanto siano state improvvide le dichiarazioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 26 febbraio secondo cui Gheddafi va processato di fronte al Tribunale penale internazionale, l’apertura di un procedimento a suo carico da parte del Tribunale dell’Aja, l’allerta dell’Interpol per impedire che egli e il suo entourage possano espatriare. Non bisogna mai mettere un dittatore che non ha ancora abbandonato il potere con le spalle al muro. Serviva un salvacondotto, non un processo. Magari Gheddafi è davvero pronto, come ha detto, a morire con le armi in pugno. Ma un salvacondotto, come alternativa al bagno di sangue, doveva comunque essergli offerto. E dovrà essergli offerto. Conviene anche agli entusiasti della cosiddetta «giustizia internazionale» . Per dimostrare che fra i suoi effetti perversi non ci sia anche quello di prolungare le sofferenze dei popoli.

Repubblica 7.3.11
Nelle crisi arabe c'è un nuovo inizio
di Nicholas Kristof


Un visitatore extraterrestre che fosse sbarcato sulla Terra mille anni fa probabilmente avrebbe pensato che a colonizzare l´America sicuramente non sarebbero stati gli europei, così primitivi, ma la più avanzata civiltà araba.
E il risultato sarebbe che noi americani oggi parleremmo tutti arabo. Ma dopo il 1200 circa il Medio Oriente si è preso una lunga pausa: è entrato in stagnazione economica e oggi analfabetismo e autocrazia la fanno da padroni. E mentre in tutta la regione dilagano le proteste per la democrazia, viene spontaneo porre una domanda fondamentale: perché c´è voluto così tanto? E un´altra domanda, politicamente scorretta: la ragione dell´arretratezza del Medio Oriente potrebbe essere l´Islam?
Il sociologo Max Weber e altri studiosi sostenevano che l´Islam, per le sue caratteristiche intrinseche, non si presta allo sviluppo di un´economia capitalistica, e qualcuno ha sottolineato in particolare gli scrupoli islamici nei confronti del prestito a interesse.
Ma è una tesi che non convince. Altri esperti fanno notare che l´Islam per certi versi è più propizio all´impresa di altre religioni. Il profeta Maometto era un mercante di successo, e aveva molta più simpatia per i ricchi di quanta ne avesse Gesù. E il Medio Oriente nel XII secolo era un centro globale della cultura e del commercio: se oggi l´islam soffoca la libera impresa, perché all´epoca non la soffocava?
Quanto all´ostilità verso il prestito a interesse, precetti analoghi si trovano anche in testi ebraici e cristiani, e quello che il Corano proibisce non è l´interesse in quanto tale, ma la "riba", una forma estrema di usura che può condurre alla schiavitù il debitore insolvente. Fino al tardo Settecento in Medio Oriente quelli che di mestiere prestavano denaro potevano essere musulmani, cristiani o ebrei, senza distinzioni. E oggi pagare gli interessi è una pratica abituale anche nei Paesi islamici più conservatori.
Molti arabi hanno una teoria alternativa sulla ragione dell´arretratezza della regione: il colonialismo occidentale. Ma è una spiegazione altrettanto capziosa, e anche inesatta. «Pur con tutti i suoi lati negativi, il periodo coloniale in Medio Oriente non ha portato stagnazione, ma trasformazioni importantissime; non ha portato diffusione dell´ignoranza, ma alfabetizzazione e istruzione; e non ha portato impoverimenti, bensì un arricchimento senza precedenti», scrive Timur Kuran, storico dell´economia alla Duke University, in un nuovo saggio frutto di ricerche meticolose e intitolato The Long Divergence: How Islamic Law Held Back the Middle East ("La lunga divergenza: il peso del diritto islamico nell´arretratezza del Medio Oriente").
Il libro del professor Kuran fornisce la spiegazione migliore del ritardo del Medio Oriente. Dopo un attento studio di antichi documenti aziendali, Kuran afferma, con argomenti convincenti, che la causa dell´arretratezza del Medio Oriente non è l´Islam in sé e per sé, e nemmeno il colonialismo, ma una serie di prassi giuridiche secondarie del diritto islamico, che oggi hanno perso totalmente rilevanza.
È una tesi complessa, che è impossibile riportare nello spazio limitato consentito da un articolo di giornale, ma uno degli impedimenti, per fare un esempio, era dato dal diritto ereditario. I sistemi occidentali normalmente trasferivano tutte le proprietà in blocco al primogenito, preservando i grandi latifondi. Il diritto islamico invece prevedeva una divisione dei beni più equa (compresa una parte che andava alle figlie), ma questo si traduceva in una frammentazione delle grandi proprietà. Una conseguenza di questo sistema era che non c´era un accumulo di capitale privato sufficiente a sostenere quegli investimenti necessari per mettere in moto una rivoluzione industriale.
Il professor Kuran mette l´accento anche sul sistema di partenariato islamico, usato normalmente come veicolo per le attività imprenditoriali. I partenariati islamici si scioglievano ogni volta che moriva uno dei soci, e quindi normalmente comprendevano solo un ristretto numero di soci, con conseguente difficoltà a reggere la concorrenza delle grandi corporation industriali e finanziarie europee, che avevano dietro centinaia di azionisti.
Lo sviluppo del settore bancario in Europa fece scendere i tassi di interesse a lungo termine nel Regno Unito di due terzi, preparando il terreno per la Rivoluzione Industriale. Nel mondo arabo questo successe solo con il periodo coloniale.
Simili impedimenti tradizionali nel XXI secolo non sono più un problema. I Paesi islamici ormai hanno banche, grandi aziende e mercati azionari e obbligazionari, e il diritto ereditario non rappresenta più un ostacolo all´accumulazione di capitale. Dunque, se la diagnosi del professor Kuran è corretta, il futuro dovrebbe essere roseo (e il boom economico della Turchia negli ultimi anni dimostra le potenzialità di una rinascita).
Ma c´è un problema psicologico. Molti arabi incolpano gli stranieri per la loro arretratezza, e reagiscono rifiutando la modernità e il mondo esterno. È una disgrazia che un´area che un tempo produceva una scienza e una cultura straordinarie (regalandoci parole come algebra) ora abbia livelli di istruzione tanto bassi, soprattutto per quel che riguarda le ragazze.
La crisi nel mondo arabo offre l´occasione per un nuovo inizio. Spero che ci sia un dibattito franco e senza infingimenti, da tutte le parti, sugli errori fatti, come punto di partenza per un percorso nuovo e con prospettive migliori.
I Fratelli musulmani spesso hanno usato lo slogan: «L´Islam è la soluzione». E per l´Occidente, la percezione inconfessata, di fronte al panorama deprimente offerto dal Medio Oriente, spesso è stata: «L´Islam è il problema». La ricerca del professor Kuran suggerisce che la visione più corretta, almeno per il futuro, è che l´Islam non è il problema né la soluzione, è semplicemente una religione; e questo significa che la pausa è finita, che non ci sono più scuse e che è tempo di ricominciare ad avanzare.
(traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 7.3.11
"Quando il popolo si desta Dio si mette alla sua testa"
di Mario Pirani


Molti gli interrogativi, per molti versi motivati, emersi ad un seminario dell´Aspen sui Servizi d´informazione; poche, però, le risposte esaurienti, anche se i partecipanti - bipartisan - erano di alto livello (da Massimo D´Alema a Gianni Letta, dal prefetto De Gennaro, direttore generale del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza al gen. Di Paolo, comandante della GdF, da alcuni fra i rettori delle principali università ai manager di qualche grande impresa). All´ordine del giorno figurava una prima verifica sul funzionamento della recente legge di riforma dei Servizi, nel complesso positiva, soprattutto per la netta suddivisione tra compiti interni e compiti esterni, anche se non ancora ben calibrato l´equilibrio tra le finalità operative preponderanti (contrasto al terrorismo e alla criminalità interna e internazionale, difesa dell´indipendenza e integrità dello Stato) e la tutela di una più vasta gamma di interessi nazionali (economici, scientifici e industriali).
Ma l´interrogativo cui nessuno riesce a rispondere è come abbia potuto verificarsi un sommovimento pari a quello che ha investito la sponda meridionale del Mediterraneo senza che nessun avvertimento lasciasse prevedere ciò che stava per accadere. Non solo come dimensioni ma altresì come natura, gruppi egemonici emergenti, contro poteri in atto, influenza o meno del fondamentalismo religioso (Fratelli musulmani) e della militanza risalente al "jihad" o addirittura ad "al Qaeda". Ed oggi, a più di due mesi da quando (il 17 dicembre) un giovane venditore ambulante tunisino, Mohamed Buazizi, si dava fuoco per protesta contro i gendarmi, innestando quella rivolta che avrebbe investito il mondo arabo dal Marocco al Golfo Persico con gli epicentri più dirompenti nella stessa Tunisia, in Egitto e, infine, in Libia, ebbene, da allora ancora nessuno riesce a dirci chi stia prevalendo, chi conduca il gioco, quali previsioni sia possibile azzardare.
Nessuna risposta si rivela esauriente ed è quasi automatico che i Servizi fungano da capri espiatori. Facile quanto probabilmente errato. Tanto è vero che se il più recente rapporto del Sis al Parlamento, giusto al primo esplodere dei fatti, si limitava a poche righe («il Medio Oriente resta un´area particolarmente sensibile, i cui equilibri risultano ulteriormente influenzabili dalle tensioni esplose nel vicino Nordafrica, dove, a partire dall´epicentro tunisino, i fermenti sociali e le aspirazioni al cambiamento, amplificati e condivisi sul web, dovranno misurarsi con tentativi di strumentalizzazione in chiave islamista e con il rischio di inserimenti di natura terroristica»), ciò non di meno non si ha notizia di nessuna analisi molto più approfondita, neppure nel quadro della collaborazione con altri Servizi internazionali, particolarmente attenti a questo settore, come la Cia o il Mossad. Vien da azzardare che la risposta non ci sia in quanto non poteva esserci, che previsioni precise non sono state elaborate in quanto dietro l´esplodere di massa della protesta non agivano gruppi individuabili impegnati nella attuazione di piani rivoluzionari.
Così come è avvenuto del resto nel 1989, con la caduta improvvisa del Muro di Berlino e il crollo, quasi senza colpo ferire, per un implosione tutta interna e non preordinata, dei regimi comunisti.
La storia insegna che a volte sistemi dittatoriali i quali si erano retti a lungo, oltre che sulla repressione, su consensi populisti, nazionalisti o di altra natura, accumulano nel loro seno un tale potenziale di protesta che, ad un certo punto, da nessuno preordinato, questo prorompe nelle forme di una rivolta.
Così il vecchio motto ottocentesco - "Quando il popolo si desta, Dio si mette alla sua testa, e le folgori gli dà" - si moltiplica grazie ai motori globali del web. Solo a questo punto i Servizi, se avranno saputo prendere a tempo rapporti utili con tutti i movimenti presenti nello scenario, potranno cominciare a capire come si disporranno le forze e a suggerire intelligenti interventi.

Repubblica 7.3.11
Il genio del poeta oltre la “Commedia”
di Vittorio Sermonti

Esce il primo Meridiano sulle opere minori di Alighieri. Per nulla secondarie rispetto al più celebre poema
Il libro emana una grande erudizione abbarbicata alla storia delle idee e della lingua
In queste pagine c´è molto della vita quotidiana degli esseri umani, specie quella dell´autore
Il tomo raccoglie le "Rime", la prosa della "Vita Nova" e il trattato "De vulgari eloquentia"

Alla vista di un libro di millenovecento pagine può affacciarsi una domanda, legittima anche se non proprio folgorante: «Ma questo da chi spera di farsi leggere? Su che target punta?»; domanda, cui ammicca la rispostina: «Be´, dipende». Nel caso in esame si tratta di un tomo sobriamente elegante, compattato da una legatura blu rifilata in oro, che consta - lo sfogli - di una vastissima introduzione generale in corsivo, tre introduzioni mirate, una cronologia, una ciclopica bibliografia, note, indici e tavole d´ogni natura, e di tre vecchi testi corredati da un tripudio di chiose in caratteri microscopici, genere «leggere attentamente questo foglio prima di assumere il medicinale». Il frontespizio fa: Dante Alighieri, Opere, volume primo: Rime, Vita Nova, De Vulgari Eloquentia. La pagina a fronte ci avverte il lettore che siamo al quarto di sei volumi dei Meridiani Mondadori, destinati a coprire tutta l´opera di Dante: i primi tre (rispettivamente Inferno, Purgatorio, Paradiso, con il commento di Anna Maria Chiavacci), usciti fra il 1991 e il 1997; gli ultimi due (Convivio, quinto; Epistole, Monarchia, Ecloghe, Questio ecc., sesto) in preparazione. La direzione dei tre volumi eccedenti la Commedia (dato il rilievo assoluto e l´instancabile genialità dei testi di Dante si capisce la rinuncia all´intestazione canonica "opere minori", per quanto a esser minori della Commedia non ci sarebbe da vergognarsi) figura affidata a Marco Santagata. Tanto per farsi un´idea dell´oggetto.
Ma visto che il crocchio dei dantisti di servizio e il manipolo di giovani volenterosi parauniversitari non sembrano, a occhio, commisurabili alla legione di quanti perseguono il piccolo scopo di riempire tutti gli scaffali sopra quel radiatore di termosifone con tutti i Meridiani Mondadori, andrà precisato che qui la domanda vuol riguardare solo quelli che questo libro lo leggeranno, anche se, magari, non tutto di fila.
Scopro le carte: il numero non riesco a immaginarmelo, ma più saranno ad abbandonarsi senza soggezione al godimento della lettura, meglio sarà: per loro, e anche per questo nostro paese a bagno in quest´epoca poveraccia.
Il libro, sia chiaro, emana una spaventosa erudizione, accanitamente abbarbicata alla storia, alle storie: storia della lingua, delle idee, delle istituzioni, della vita quotidiana degli esseri umani, con particolare riguardo per quella dell´autore. Ma tanta mole di notizie e riflessioni - e questo mi sembra ottima cosa - si sottrae alla tentazione che corre ogni storicismo troppo zelante: quella di stabilire le condizioni esterne e contestuali in forza delle quali un capolavoro non potrebbe essere altro che quello che ha finito per essere; quasi che da quelle condizioni lì quel capolavoro lì fosse irrevocabilmente deducibile. Tentazione inerziale e, nel caso della Commedia, singolarmente impraticabile, anche a circoscrivere la contestualità all´area di queste famose "opere minori".
In capo a una minuziosa ricognizione dei rapporti che sembrano intercorrere fra quelle e il poema sacro, leggiamo nell´introduzione generale: «Un buio impenetrabile (...) avvolge il momento di ideazione del poema e gli eventuali lavori preparatori. Da quella oscurità la Commedia sembra balzare fuori all´improvviso completamente formata nel progetto, dotata di uno strumento metrico (la terzina) mai prima sperimentato, ispirata a una poetica priva di precedenti, scritta in una lingua e in uno stile inusitati: (...) è come se Dante in pochi mesi avesse scoperto un altro mondo e, in maniera quasi istantanea, se ne fosse impadronito». In uno studioso della circospezione di Marco Santagata un´uscita del genere tradisce una magnifica onestà.
Un coriandolo del suo metodo investigativo: per indicare le "marche di eccezionalità" che designano l´iper-personaggio che Dante istituisce di sé in quanto perentoriamente contrassegnato dall´investitura profetica, Santagata spigola tre esempi. Il terzo insiste su due terzine del XIX dell´Inferno, famose per la pila di interpretazioni che ci si sono depositate sopra nei secoli e per la ruvida solennità che chiude la seconda terzina: «e questo sia suggel ch´ogn´omo sganni» (come dire: «Tanto, a scanso di equivoci, e il caso è chiuso»). Ricordiamo di che si tratta: a proposito dei fori tondi praticati nella bolgia terza, nei quali stanno incastrati a testa in giù i Simoniaci e sgambettano, Dante dice che gli sembravano quelli del Battistero di Firenze, fatti per loco d´i battezzatori: un foro dei quali lui aveva spaccato per salvare la vita a un che dentro v´annegava. Ma se i fori erano scavati nel marmo - ragiona Santagata spalleggiato da Mirko Tavoni - come avrebbe fatto Dante a spaccarne uno in quattro e quattr´otto? Già. Ma se correndo l´anno 1300, incluse nei famosi fori di marmo a contenere l´acqua lustrale c´erano, come pare proprio, anfore d´argilla, ecco che l´Alighieri poteva benissimo averne rotta una con le sue mani. Tutto qua? No: perché avendo Geremia, a rigor di Bibbia, frantumato un´anfora d´argilla davanti alla porta dei Cocci di Gerusalemme, per mostrare a cittadini dediti all´idolatria come il Dio che gli soffiava dentro avrebbe frantumato le mura della città e patrocinato la carneficina dei cittadini stessi, il gesto di Dante in Battistero, tirato in causa giusto nella bolgia dei Simoniaci (dati esplicitamente a fine canto per idolatre recidivi), sta a rivendicare per simbolo, sta a gridare per «figura» il suo status di profeta. Per dirne una su mille.
Infatti, come avverte Santagata, alla definizione dell´iper-personaggio Dante, contrassegnato da una eccezionalità radicale fin dai tempi del deliquio «paolino» che, a norma di Vita Nova, lo avrebbe folgorato «unenne» all´atto della nascita di Beatrice, concorre una costellazione di indizi che scoraggiano ogni pretesa di disegnare con esattezza i contorni dell´unicum che Dante crede e vuol farci credere di essere. Se fosse consentito assegnargli le prerogative geometriche che Alano da Lilla aggiudica al buon Dio, verrebbe da dire che Dante si affaccia protervo e abbagliante dentro la sua opera quasi fosse una sfera «il cui centro è dovunque, la cui circonferenza in nessun luogo». Certo è che l´eccezionalità che Dante esibisce di sé con una ostinazione sottolineata dalla reticenza è l´opposto della pretesa di esemplarità che amano accreditargli dantisti di scuola americana.
E nel constatare come la eccezionalità del personaggio si sovrapponga alla inimitabilità dello scrittore, mi torna in mente Mario Luzi che alla radio francese diceva qualcosa del genere: «Petrarca è il modello, Dante è la sorgente; i modelli si prestano ad essere imitati, le sorgenti no».
Ma allora, questa eccezionalità-inimitabilità di Dante, questo suo "elitismo ontologico" non è che ce lo renderà inaccessibile, inattuale?
Fermo restando che, grazie al cielo, rivendicare l´attualità di Dante non è fra le pretese di questo libro, ragionare come qui si ragiona che è impossibile avventurarsi nella sua cultura senza utilizzare tutte le risorse della nostra, ci intima l´idea che proprio per preservare Dante alla sua contemporaneità sarà bene rassegnarci alla nostra. E Claudio Giunta avvia la sua splendida introduzione alle Rime intimando al lettore che voglia accedere alla poesia (e alla poetica) di Dante lirico di liberarsi dalla nostra nozione di poesia, che la pretende «nel silenzioso ascolto di se stessi», in quanto rivolta «all´umana esperienza del lettore: una soggettività particolare che ne interpella un´altra». Le Rime di Dante, come e più deliberatamente di quelle dei suoi coevi, abitano un tempo dato, hanno dati destinatari, temi circoscritti (l´amore-coup de foudre, somatizzato in cefalea o addirittura in calvizie...), e la loro relativa incomprensibilità non collima col trobar clus dei tardi provenzali e tanto meno con gli ermetismi della poesia post-romantica, ma casomai con certi messaggi criptati di cui ignoriamo la password. Quanto alla rivoluzione formale che le cosiddette «Rime morali» attivano; come il loro allegorismo prefiguri quello della Commedia; come siano percorse da un ininterrotto tracciato narrativo governato da una ipocondria ad alto tasso simbolico e dalla centralità della Politica; come affidino le loro professa visionarietà alla sintassi del sogno: be´, questo e molto altro andrà commesso alla voluttuosa pazienza del lettore. Basterà segnalare come, definita l´esperienza dell´amore-caritas di Dante che mette «in gioco non solo la felicità individuale ma l´essenza stessa dell´uomo, il suo destino», l´autore postuli con energia l´idea che «il lettore odierno» riflettendo «su questi lontani antefatti (...) potrà tornare più consapevolmente all´oggi, perché riflettere serve a comprendere meglio non soltanto la vita spirituale di quell´epoca ma anche la natura dei sentimenti attuali e il modo in cui l´arte li rappresenta».
Ciò detto, cioè troppo e quasi niente, non ho spazio né, a dirla tutta, titoli sufficienti per recensire come merita il lavoro di Mirko Tavoni sul De Vulgari; e se è imperiosa la tentazione di fare scoop, spillando dal saggio introduttivo lo scrupoloso paradosso secondo cui Dante considera il latino in qualche modo discendere dall´italiano (dalle parlate italiane), o la notazione che il progetto linguistico elaborato nel trattato non prenderà corpo nella Commedia ma casomai nel Canzoniere del Petrarca, be´, non mi resta che vincerla, la tentazione. Tanto più che con queste cinquanta pagine la dantistica dovrà fare i conti per un bel pezzo.
Né ruberò tempo al lettore dicendo la mia sulla Vita Nova secondo Guglielmo Gorni, sull´ingegno del critico che riesce a far rabbrividire il testo che ausculta, sul coraggio intellettuale del filologo che cambia le carte in tavola a una tradizione testuale convalidata da studiosi di prestigio assoluto. D´altra parte, l´apparato di questa Vita Nova non si differenzia più di tanto dall´edizione Einaudi del 1997, e l´introduzione è limpidamente sobria. D´altra parte, Guglielmo, morto due mesi fa dopo un lunghissimo inferno, è anche il dedicatario di tutto il libro. D´altra parte, persone come lui, amici come lui, nella vita se ne incontrano pochi.
Ma la domanda iniziale è ancora inevasa, e la verosimile risposta gemma un´altra domanda: «Allora perché farlo, questo libro ingente?». Alla quale mi permetterò di rispondere con due versi di Antonio Machado: perché el hacer las cosas bien / importa más que el hacerlas. Far le cose bene è più importante che farle.

Corriere della Sera 7.3.11
Terrorismo: i delitti dimenticati
Quelle verità negate di una stagione «rovente e inquinata»
di Giovanni Bianconi


Francesco Ciavatta aveva 18 anni e frequentava il liceo, Franco Bigonzetti 19 ed era iscritto al primo anno di Medicina. Furono falciati dai colpi di una mitraglietta Skorpion, davanti alla sezione missina del quartiere Tuscolano a Roma, il 7 gennaio 1978. Un paio d’ore più tardi cadde Stefano Recchioni, vent’anni meno venti giorni, in partenza per il servizio militare, ucciso dalla pallottola sparata da un carabiniere nei disordini seguiti al duplice omicidio. Sono i morti. della strage di via Acca Larentia, due mesi prima della strage di via Fani in cui le Br sequestrarono Aldo Moro e annientarono i cinque uomini della scorta. Due anni dopo, 22 febbraio 1980, stessa città, quartiere Monte Sacro. Valerio Verbano, studente aderente ai collettivi comunisti autonomi, tornava a casa all’ora di pranzo. Ad attenderlo c’erano tre neofascisti che lo ammazzarono con una calibro 38 dopo una colluttazione. Ancora tre giorni e avrebbe compiuto 19 anni; i genitori, legati e imbavagliati dai killer, sentirono tutto dall’altra stanza. Sono passati più di trent’anni, ed è come se quei morti — dimenticati o rimasti in secondo piano, insieme a tanti altri, nella storiografia sugli anni di piombo — reclamassero oggi la loro dignità di vittime. E un po’ di verità finora negata, come la giustizia che non è stata fatta. Sono nomi poco famosi rispetto a quelli più o meno illustri assassinati dalle Brigate rosse, da Prima linea o dai Nuclei armati rivoluzionari, le bande che a sinistra e a destra hanno egemonizzato la lotta armata in Italia. Dopo vengono loro, caduti nella guerra fra «rossi» e «neri» combattuta parallelamente all’attacco terroristico al «cuore dello Stato» . Gioventù bruciata dalla violenza politica cominciata con botte e sprangate e finita a colpi di pistola e mitraglietta. Nomi per lo più dimenticati, che adesso qualcuno cerca di riportare alla ribalta. Un tentativo l’hanno fatto Valerio Cutonilli e Luca Valentinotti, autori di Acca Larentia, quello che non è mai stato detto (edizioni Trecento), in cui raccontano la morte di Ciavatta, Bigonzetti e Recchioni, che si sovrappone a quella di tanti altri ragazzi di destra ed estrema destra uccisi a Roma in quella troppo lunga stagione di sangue. Perché c’è un filo che li tiene insieme, giacché ogni delitto arrivava mentre si celebrava la ricorrenza di un altro, o durante gli scontri seguiti all’agguato precedente. Una catena che parte dal rogo di Primavalle (16 aprile 1973, la fine orribile dei fratelli Virgilio e Stefano Mattei, figli del segretario della sezione missina) e prosegue ben dopo Acca Larentia. E la stessa mitraglietta che falciò Ciavatta e Bigonzetti sparerà ancora: non più sui «topi neri» , come furono sprezzantemente chiamati dalla rivendicazione dei Nuclei armati per il contropotere territoriale, ma contro gli ultimi obiettivi delle Brigate rosse: Ezio Tarantelli, Lando Conti, Roberto Ruffilli. C'è molta passione e anche un po’ di retorica, nella rievocazione di Cutonilli e Valentinotti, ma ben si comprende il senso di voler onorare i morti. Che rivendicavano allora il diritto di essere di destra, e persino fascisti al tempo dell'antifascismo militante, così come oggi gli autori del libro rivendicano il diritto di quelle vittime ad avere giustizia. Invece non è accaduto, nonostante una «pentita» abbia dato indicazione e una persona sia stata arrestata con l’accusa di aver avuto fra le mani la mitraglietta assassina; s’impiccò poco dopo l’arresto, e l’indagine non portò a nulla. È lo stesso destino toccato a tanti altrimorti, di destra, di sinistra e persino di niente, colpiti per errore. Chi ha rivendicato l’omicidio di Valerio Verbano, ad esempio, accusò il giovane autonomo di essere il mandante dell’uccisione di Stefano Cecchetti, ammazzato davanti a un bar frequentato da «neri» al quartiere Talenti, anche se Cecchetti non era affatto «nero» . Verbano non solo non fu il mandante di quel raid, ma l’aveva pubblicamente criticato perché compiuto nella logica dello «sparare nel mucchio» . Eppure i suoi assassini l’avevano bollato con quel marchio. La storia del delitto Verbano è ora raccontata in due libri. Uno più biografico, Valerio Verbano, una ferita ancora aperta (Castelvecchi), di Marco Capoccetti Boccia, e uno più d’inchiesta, Valerio Verbano, ucciso da chi, come e perché (Odradek), di Valerio Lazzaretti. Entrambi gli autori narrano fatti e intrecci con una freddezza che ben restituisce il clima rovente e inquinato di quella stagione, e hanno l’obiettivo ambizioso di far riaprire le indagini su quest’altro assassinio senza colpevoli; l’inchiesta è effettivamente ricominciata, ma prima dei due volumi. Entrambi sono più giovani della vittima a cui si sono dedicati, come pure gli autori di Acca Larentia. Uomini che hanno attraversato da bambini o al massimo da adolescenti gli anni di piombo, e hanno deciso di ripercorrerli da grandi partendo da storie poco rievocate, ma ugualmente crudeli e significative di un periodo che ha segnato in maniera indelebile la storia d’Italia. E soprattutto rimaste senza verità e giustizia. Se i processi non sono arrivati a ricostruire tutto, almeno ci sono i libri a tentare di raccontare ciò che non va dimenticato.

Corriere della Sera 7.3.11
Quando l’uomo diventa buono
di Antonio Ferrari


È scomodo, e politicamente scorretto, sull’onda retorica del «Mai più!» che abbiamo ascoltato dappertutto anche quest’anno dire che è inutile illudersi: «Non riusciremo mai a debellare dalla storia il male che gli uomini commettono contro altri uomini. Nonostante il trauma di Auschwitz, i genocidi e i crimini contro l’umanità sono continuati nei gulag staliniani, in Biafra, in Ruanda, in Bosnia e altri ne seguono ancora» . Parole dure e giudizio spietato quelli di Moshe Bejski, scampato alla deportazione grazia alla lista di Oskar Schindler e fondatore del Giardino dei Giusti di Gerusalemme. Bejski, con laica convinzione, sostiene una verità particolarmente indigesta e amara: è impossibile sradicare completamente il male. È infatti facile riprodurne le condizioni e ottenere un tacito consenso (silenzio, indifferenza, non ci riguarda), spesso assai più ampio di quanto possiamo immaginare. Quando Hannah Arendt, che andò a seguire il processo contro Eichmann, scrisse per la prima volta della «banalità del male» , scatenando reazioni e polemiche velenose, riproduceva una sensazione autentica e intrisa di realismo. Ma che cosa fare, allora, per contrastare il male? Gabriele Nissim, scrittore e saggista, fondatore e presidente della Foresta dei Giusti, con sede a Milano, oppone al presunto ossimoro della «banalità del male» un altro ossimoro: La bontà insensata. È questo il titolo del suo libro, accompagnato da un sommario laconico («Il segreto degli uomini giusti» , Mondadori, pagine 266, e 18,50). È un ossimoro in verità preso a prestito da uno che giusto è diventato, Vassilij Grossman. Il quale sosteneva che la bontà insensata è quella «dell’uomo per un altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. È la bontà degli uomini al di là del bene religioso e sociale» . Grossman ha vissuto da protagonista la liberazione dei campi di sterminio, come giornalista al seguito dell’Armata rossa; e poi, da vittima, le persecuzioni staliniste. Grossman, con il suo esempio, ci tramanda l’idea che i giusti non sono eroi né uomini santi, ma sono coloro che un giorno, in un’ora, in un attimo, hanno salvato un essere umano, o hanno impedito che fosse compiuto un crimine, o hanno scelto di pagare il prezzo più alto alle loro idee. È quindi quasi logico che i giusti siano in generale uomini fragili, imperfetti come noi tutti, e attratti dai piaceri terreni: come Dimitar Peshev, il bulgaro che salvò dalla deportazione tutti gli ebrei del suo paese; come Raul Wallenberg, il donnaiolo svedese che strappò alla morte migliaia di israeliti. Oppure come il tunisino, frequentatore di case chiuse, che rischiò la vita per aver nascosto in casa sua centinaia di ricercati dai nazisti. Peshev, come Perlasca, come il console fascista italiano di Salonicco Guelfo Zamboni, tutti assai poco loquaci, hanno sempre risposto: «Ho fatto il mio dovere» . È una lezione, la loro, semplicissima e straordinaria. Anche se in un mondo intossicato dalle iperboli, spesso non fa notizia.

Corriere della Sera 7.3.11
La Lega critica i 150 anni ricordando Bava Beccaris
di Elsa Muschella


MILANO— Che il Tricolore e il Risorgimento non siano «sentimenti» padani è quasi un assioma cartesiano. Per dimostrarlo, ieri il quotidiano del Carroccio si è spinto alla ricerca di un fondamento storico alla radicata convinzione leghista che i festeggiamenti per l’Unità d’Italia equivalgano a un evento di assoluta inutilità e per di più contrario all’etica e alla stessa ragion d’essere dei lumbard. L’esito dell’impegno didattico è risultato essere Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924), il generale che nel maggio del 1898 comandò la piazza di Milano (foto) quando venne proclamato lo Stato d’assedio e in qualità di Regio commissario straordinario ordinò la repressione dei moti popolari. Scrive Roberto Ciambetti sulla Padania: «Bava Beccaris sparò sulla folla per reprimere la rivolta. Massacrò donne, bambini e soldati disertori. Umberto I di Savoia gli conferì la Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine militare di Savoia per il "grande servizio reso alle istituzioni". 17 marzo 2011: soffiando sulle candeline della torta sabauda, sventolando i tricolori, si festeggia anche il compleanno di questo stipendiato del terrore. E mentre gli altri festeggiano, spetta a noi un pensiero, una preghiera, per le vittime della repressione di allora e di ovunque, oggi, nel mondo» . A questa lettura inorridisce lo storico Giovanni Belardelli, 59 anni, professore di Storia del pensiero politico all’Università di Perugia: «È un’operazione francamente incommentabile. I 150 anni celebrano un Paese e ricordano che dentro quel contenitore temporale è avvenuta una sua storia, un lunghissimo percorso di avvenimenti positivi e negativi. È semplicemente ridicolo additare Bava Beccaris come il male rapportato all’Unità d’Italia, a nessuno è mai venuta in mente questa connessione. Se è un esempio di cattivo italiano che cerchiamo me ne viene in mente uno migliore del generale, e si chiama Benito Mussolini. Non si celebra il 17 marzo per Bava Beccaris né per Mussolini e neanche per Togliatti, De Gasperi o Pertini: ci celebriamo noi, festeggiamo la nostra storia. Tutto il resto è soltanto un’idiozia» .

Corriere della Sera 7.3.11
Il parroco: «Yara come santa Maria Goretti»
di  Cesare Zapperi


BREMBATE DI SOPRA (Bergamo) — Non una vittima qualsiasi, ma un esempio di virtù. Yara Gambirasio come Santa Maria Goretti: lo ha detto don Corinno Scotti ieri mattina nell’omelia della domenica. «Il suo sacrificio— ha spiegato il parroco— aiuta tutti a riscoprire il senso della verginità e della purezza, valori che sono stati fin troppo banalizzati» . Il sacerdote ha evocato la figura della giovane uccisa agli inizi del Novecento a solo 11 anni (due soli in meno della ginnasta di Brembate) durante un tentativo di violenza. Don Corinno ha così voluto ribadire la sua convinzione che il delitto di Yara abbia come sfondo un tentativo di abuso sessuale. Una ipotesi ritenuta molto plausibile anche dagli inquirenti, ma al momento tutta da dimostrare anche perché dai primi rilievi non sono emersi segni evidenti di violenza. Ai fedeli riuniti in chiesa il parroco ha anche lanciato una sorta di provocazione: «Preferireste essere i genitori di Yara oppure di chi ha commesso questo orribile delitto?» . Per poi aggiungere: «Non bisogna solo preoccuparsi che venga fatto del male ai vostri figli ma anche che i vostri figli non facciano del male» . Un modo per richiamare tutti alle proprie responsabilità. E forse anche un messaggio a chi potrebbe sapere qualcosa sull’assassino di Yara. Intanto è stata smentita l’ipotesi che sia stato realizzato l’identikit dell’assassino con dettagli su peso e altezza.

Repubblica 7.3.11
Se il mondo rinuncia all’arte di ricordare
di Marino Niola


Un terzo degli inglesi sotto i 30 anni non sa dire qual è il proprio telefono di casa senza consultare l´agendina del cellulare. Ormai solo un´infima minoranza di americani sa più di cinque numeri telefonici a memoria. Che bisogno c´è? Abbiamo dato in "outsourcing" una delle facoltà mentali più antiche e preziose dell´umanità: immagazzinare conoscenze, depositarle nella nostra materia grigia, per tirarle fuori quando servono.
Oggi per questa funzione esistono i computer, i motori di ricerca, le agendine digitali dei telefonini, gli iPad. Due terzi degli studenti americani non sanno la data della Guerra Civile che diede forma agli Stati Uniti attuali, un quinto di loro non ha la più pallida idea di chi fossero i nemici nella seconda guerra mondiale. Non è la crassa ignoranza del tipo tradizionale, questa è una sorta di perversa efficienza: perché faticare a memorizzare date, nomi, quando basta interrogare Wikipedia o Google per tirar fuori quel che serve in poche frazioni di secondo?
Stiamo delocalizzando la memoria. Proprio come facciamo con l´economia. Perché ormai le nostre fabbriche del ricordo sono altrove, sempre più lontane dal nostro corpo. A San Francisco o a Bangalore. Ma in compenso immediatamente accessibili e consultabili ventiquattr´ore su ventiquattro. Basta un click. E ci troviamo gettati in un archivio infinito, in una biblioteca di Alessandria digitale dove c´è di tutto. Ma non tutto. E inoltre questa immensità virtuale è a nostra disposizione ma al tempo stesso non è nostra. Ne abbiamo l´usufrutto ma non ci appartiene. Non solo perché internet è una immensa open source ma anche perché non sta dentro di noi. Semplicemente la usiamo quando ci serve, ma ha poco a che fare con il nostro cuore e la nostra mente. Ovvero con il ricordo. Che non a caso deriva dalla parola latina cor, cioè cuore. Come dire che ricordare nell´era pre-google voleva dire rimettersi qualcosa nel cuore. Tenerlo a mente. E dunque metabolizzare la realtà archiviando quel che sembrava importante, degno di essere conservato nelle teche della storia individuale e collettiva.
Personaggi come Pico della Mirandola e Giordano Bruno, uomini dalle sinapsi prodigiose, erano delle biblioteche viventi, ammirati e corteggiati da re e potenti proprio per la loro mostruosa capacità di ricordare per sé e per gli altri. Al punto che ci si chiedeva se non avessero fatto un patto col diavolo. Degli autentici fenomeni in grado di dominare uno scibile che, va detto, era molto meno vasto del nostro.
Noi invece, proprio perché siamo alle prese con un oceano di informazioni, di dati, di conoscenze, di curiosità, impossibili da padroneggiare e da tenere sotto controllo, abbiamo costruito strumenti che lo fanno al nostro posto. In fondo Google e Wikipedia sono diventati la memoria collettiva di un mondo senza collettività. Ciascuno vi accede individualmente e ciascuno contribuisce personalmente alla crescita di questi giganteschi stock di saperi, di nozioni, di notizie. Che sono e saranno sempre di più la nostra memoria remota, gli hard disk dell´umanità interinale. Quella che ha il ricordo liquido e leggero. Stiamo diventando tutti dei surfisti della memoria, planiamo da una info all´altra, scivoliamo sulle onde del web, cercando di restare in equilibrio tra il bisogno di acquisire aggiornamenti sempre maggiori e il pericolo di annegare in quel mare magnum. Tutto questo rende la memoria sempre più superficiale, occasionale, a breve termine. Non più la profondità del ricordo, con tutte le sue stratificazioni, i suoi monumenti-documenti individuali e collettivi. Ma uno zapping continuo tra un ricordino e l´altro, incentivato dagli smartphone, dal wifi, dagli abbonamenti flat.
Se la memoria, come diceva Cicerone, è la custode di ogni conoscenza, allora siamo decisamente entrati nell´epoca della conoscenza on demand. Ma quando si hanno a disposizione tanti giga di informazione su tutto e il contrario di tutto, la questione vera si sposta sul piano dei criteri e dei valori. Che cosa vale la pena di tenere a mente, di mettere nel proprio teatro della memoria? Quel che ci mettevamo fino a poco tempo fa? Per esempio le tabelline, il teorema di Pitagora, il Cinque Maggio, i dieci comandamenti, la data di Waterloo, le capitali del mondo, le declinazioni latine, i numeri telefonici. Tutti esercizi mnemonici su cui si era già abbattuto il diktat dell´antinozionismo. E adesso sono arrivati i new media a dare il colpo di grazia. Bisognerà dunque trovare un compromesso tra lo sforzo personale e la commodity digitale. Perché se serve a poco limitarsi a ripetere nozioni come pappagalli è molto peggio non averne più nessuna. E restare a bocca aperta, davanti a qualsiasi domanda. Come anatre mute. Palmipedi con palmare.

l’Unità 7.3.11
Il titolare degli Esteri Seiji Maehara lascia per 2000 euro ricevuti illegalmente in 5 anni
«Chiedo scusa per avere contribuito ad alimentare la sfiducia popolare nella politica»
Giappone, basta una mancia e il ministro si dimette
di Gabriel Bertinetto


Per una somma pari a 2180 euro, ricevuta illegalmente nell’arco di 5 anni, un ministro giapponese rassegna le dimissioni e chiede scusa alla nazione. Seiji Maehara era ministro degli Esteri da sei mesi.

Se vivesse in Italia e fosse membro dell’attuale governo, griderebbe al complotto e accuserebbe la magistratura comunista. Ma Seiji Maehara è, o meglio era sino a ieri, ministro degli Esteri in Giappone, e pur avendo illegalmente ricevuto una somma modesta (l’equivalente di 2180 euro in 5 anni), ha sentito l’obbligo di dimettersi e chiudere scusa ai concittadini.
ALL’OSCURO
«Mi scuso per avere contribuito ad accrescere la sfiducia pubblica in merito al rapporto fra politica e denaro, pur avendo io sempre perseguito l’obiettivo di una politica pulita», ha dichiarato Maehara nell’annunciare la rinuncia all’incarico. Invano il primo ministro Naoto Kan ha cercato di convincerlo a restare al suo posto. Ancora ieri mattina Kan dichiarava alla stampa che Maehara avrebbe spiegato tutto con chiarezza. Ma anziché spiegazioni il giovane ministro degli Esteri, 48 anni, ha preferito dare le proprie dimissioni.
La legge violata da Maehara è quella che vieta ai personaggi politici di ricevere denaro da cittadini stranieri. È da una cittadina sudcoreana che sono arrivate al ministro le somme percepite in varie tranches nell’arco di cinque anni. In totale 250mila yen (2180 euro). La donna ha 72 anni, e fa parte di quelle centinaia di migliaia di coreani che risiedono in Giappone dall’epoca della seconda guerra mondiale. È titolare di uno yakiniku, ristorante-barbecue, a Kyoto. Non è chiara la ragione dei versamenti, che appaiono modesti per essere considerati delle tangenti. Pur dimettendosi, Maehara ha detto di non saperne nulla: «Fino a quando questa storia non è emersa, ero del tutto all’oscuro delle donazioni fatte da questa persona».
CARRIERA FINITA
Contro il capo della diplomazia nipponica si era scatenata nei giorni scorsi una campagna dell’opposizione liberaldemocratica, che pensa di poter dare in questo modo il colpo di grazia al già traballante esecutivo del Partito democratico. «Deve assumersi le sue responsabilità», aveva dichiarato l’ex-ministro degli Esteri Hirofumi Nakasone. «Deve dimettersi», aveva fatto eco Yosuke Takagi, vice secretario generale del buddhista Nuovo Komeito. E a chi faceva notare che duemila euro in cinque anni sono una bazzeccola, il parlamentare liberaldemocratico Nobutaka Nachimura obiettava che «il problema non sta nella quantità».
La norma che proibisce finanziamenti esteri ai partiti ed ai suoi esponenti è finalizzata ad evitare il rischio di condizionamenti esterni sulle scelte di politica nazionale. La pena prevista è severa, non tanto per l’ammenda (500mila yen) quando per i tre anni di carcere che possono essere comminati a chi abbia deliberatamente infranto il divieto. Il condannato rischia anche di essere privato dei diritti elettorali attivi e passivi. Per questo a Tokyo tutti parlano di carriera politica precocemente finita per il giovane astro nascente del firmamento politico nipponico. Con i suoi 48 anni Maehara è piuttosto l’eccezione nel mondo
politico locale, tradizionalmente gerontocratico. Di lui si parlava come del futuro successore a Kan nella guida del Partito democratico ed eventualmente del governo.
SENZA MAGGIORANZA
Avendo perso nelle ultime elezioni la maggioranza assoluta alla Camera alta, il partito democratico non riesce a far passare la riforma fiscale che dovrebbe coprire i costi delle pensioni e del debito pubblico. Presto sarà alle prese con un’opposizione sempre più baldanzosa anche alla Camera bassa dove deve essere presentata la legge annuale di bilancio.
I Liberaldemocratici puntano ad una conclusione anticipata della legislatura, sperando di riprendere la guida del Paese, che è stata quasi ininterrottamente in mano loro dal 1955 al 2009. I sondaggi fotografano impietosamente la crisi del Partito democratico al governo. La percentuale di approvazione per l’attività dell’esecutivo diretto da Naoto Kan è scesa recentemente al venti per cento.

l’Unità 7.3.11
Lalezione di Tuvixeddu
La sentenza del Consiglio di Stato conferma che i beni storici sono un tesoro vincolato e da difendere. Anche nell’Italia di Berlusconi
di Vittorio Emiliani


di strategica importanza la sentenza con la quale la VI sezione del Consiglio di Stato, presidente Giuseppe Severino ha bloccato (per sempre, si spera) i 260 mila metri cubi di cemento nel cuore di Tuvixeddu (Cagliari). Così ne parla il Gruppo di Intervento Giuridico, uno dei ricorrenti al Consiglio di Stato: “il Colle di Tuvixeddu, dentro la città di Cagliari (quartiere di Sant’Avendrace) è la più importante area archeologica sepolcrale punico-romana del Mediterraneo, con utilizzo fino all’epoca alto-medievale. Oltre 1.100 sepolture, alcune con pareti dipinte, scavate nel calcare in un’area collinare digradante verso le sponde dello Stagno di Santa Gilla. Residuano alcune testimonianze di “vie sepolcrali”, quali la Grotta della Vipera ed il sepolcro di Rubellio”. Di fronte a questa descrizione, in un Paese civile, cosa t’aspetti che succeda? Che si istituisca un Parco archeologico con quanto serve per la migliore tutela e fruizione. Invece no: “In buona parte l’area sepolcrale è stata aggredita pesantemente dall’espansione edilizia di Cagliari e dall’attività di cava, proseguita fino alla metà degli anni ‘70. Numerosi reperti rinvenuti sul Colle di Tuvixeddu impreziosiscono il Museo Archeologico di Cagliari.” Negli ultimi anni i saggi di scavo e le stesse attività edilizie hanno portato alla luce nuovi reperti di rilevante interesse archeologico. Ma non ci si è fermati. “Vuoi una casa nel parco?”, chiedeva lo spot della potente impresa del costruttore Gualtiero Cualbu. E intanto progettava dei molto comuni condominii da ficcare fra le tombe di guerrieri punici e poi romani.
La storia è breve. Dopo la cava dell’Italcementi, arriva l’immondizia. Che indigna pure la stampa estera. Nel 1997 la commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali chiede, in modo argomentato, l’imposizione di un vincolo paesaggistico su Tuvixeddu. Nemmeno per sogno. Nel 2000 viene firmato l’accordo di programma fra la Regione, il Comune di Cagliari (centrodestra) e il costruttore Cualbu con interessi in tutta Italia e in Brasile. Insorgono Italia Nostra, Sardegna Democratica, Gruppo di Intervento Giuridico, Amici della Terra e altre sigle. Soltanto nel 2006, con la Giunta regionale presieduta da Renato Soru, si blocca questo “nuovo modo di abitare, pensare e vivere Cagliari” a spese del paesaggio e dell’archeologia. “Vincoli assurdi che danneggiano l’economia”, tuonano costruttori e centrodestra contro il vincolo apposto dal centrosinistra a difesa di quel patrimonio di tutti. Purtroppo il Tar annulla quella saggia decisione dando ragione a imprese e Comune. Soru e le associazioni sopra nominate ricorrono però al Consiglio di Stato vincendo ora la causa a Palazzo Spada.
Ma v’è di più. La sentenza emessa dalla VI sezione del massimo organismo di giustizia amministrativa contiene motivazioni di valore generale di alto interesse. Per prima cosa, “all’interno dell’area individuata, è prevista una zona di tutela integrale, dove non è consentito alcun intervento di modificazione dello stato dei luoghi e una fascia di tutela condizionata”. Nessuna ambiguità, quindi. Poi, un chiarissimo principio che vale per tutta Italia: “La cura dell’interesse pubblico paesaggistico, diversamente da quello culturale-archeologico, concerne la forma del paese circostante, non le strette cose infisse o rinvenibili nel terreno con futuri scavi”. Bene ha fatto quindi la Giunta Soru ad imporre col Piano Paesaggistico Regionale (redatto in base al Codice Urbani, poi Rutelli, sul Paesaggio) il “vincolo ricognitivo”, molto più vasto di quello archeologico essendo fondamentale la tutela del bene pubblico nella sua interezza. Ma l’area è stata già aggredita e in parte manomessa da alcuni palazzoni che la nascondono. Proprio per questo, sentenzia il Consiglio di Stato, “la situazione materiale di compromissione della bellezza naturale che sia intervenuta ad opera di preesistenti realizzazioni, anziché impedire, maggiormente richiede che nuove costruzioni non deturpino ulteriormente l’ambito protetto”. Principio essenziale in un Paese che tante bellezze paesaggistiche ha compromesso e imbruttito e che altre – grazie alla deregulation voluta da Berlusconi e al blocco della co-pianificazione Ministero-Regioni concesso da Bondi – ci si appresta a sfigurare per sempre fra cemento, cave e asfalto. Princìpi-cardine, con altri della sentenza, a cui si potranno ancorare quanti hanno a cuore la tutela del Belpaese che ci resta. Si capisce bene il fastidio del premier per gli organi costituzionali di controllo, che non si lasciano intimidire.

Corriere della Sera 7.3.11
I gladiatori strappati ai tombaroli sono dimenticati sotto i teloni
Reperti nascosti ai visitatori, le meraviglie abbandonate di Lucus Feroniae
di Sergio Rizzo Gian Antonio Stella


Chi ha a cuore i nostri beni culturali pianti lì tutto quello che sta facendo e corra a Lucus Feroniae. Entri nel cortile del museo e sollevi i teloni buttati sopra 7 pannelli del fantastico monumento funerario con figure di gladiatori strappato tre anni fa ai tombaroli vicino a quel sito archeologico abbandonato al degrado e alle sterpaglie. Resterà atterrito: è quello il modo di conservare un tesoro? Quel luogo sulla via Tiberina a pochi chilometri a nord di Roma è il posto giusto per rendersi conto della considerazione riservata al nostro patrimonio archeologico. Ti spezza il cuore, oggi, visitare ciò che resta del bosco sacro (questo significa Lucus) di Feronia, la dea alla quale era dedicato l’antico santuario celebre per le sue ricchezze e saccheggiato da Annibale nel 211 a. C., protettrice degli schiavi liberati e depositaria (secondo i suoi devoti) di grandi capacità taumaturgiche per lenire i dolori del corpo e dell’anima. Il grande centro religioso abbandonato probabilmente nel quinto secolo d. C. e scoperto per caso nel 1953 all’interno delle sue tenute dal principe Vittorio Massimo, proprietario del Castello di Scorano, nel comune di Capena, a poche centinaia di metri dall’Autostrada del Sole, è coperto da erbacce che nessuno falcia, arbusti che nessuno strappa. Un tempo era una cittadina romana che aveva un foro, la basilica, un anfiteatro, templi, botteghe, negozi e un complesso dell’età imperiale di terme che venivano riscaldate con il passaggio di vapori bollenti nelle intercapedini sotto il pavimento e dietro le pareti… Oggi la trovi solo se sai che esiste e hai la pazienza cocciuta di cercare lo sgarrupato cartello segnaletico difficile da individuare. Il comune di Capena, certo, si vanta di ospitare quelle testimonianze antiche. E apre la sua home page ricordando quanto scrisse Cicerone nelle sue Epistulae ad Familiares: «Si vis pingues agros et vineas perge Capenam» . Traduzione: Se desideri fertili campi e vigneti dirigiti verso Capena. Della storia del sito archeologico, però, c’è poco o niente. Per capirci: 3 foto di Lucus Feroniae, 3 dell’apertura di un parcheggio, 3 dell’inaugurazione di una nuova aula magna, 6 della nuova mensa scolastica, 12 del nuovo campo sportivo… I risultati si vedono: l’ingresso al sito archeologico e al museo è gratis, ma ciò evidentemente non basta a ingolosire gli sparuti turisti. Il massimo storico è stato toccato nel 2001, quando a Lucus Feroniae arrivarono addirittura in 3.934. Poi, inarrestabile, il declino. Fino ai 1.337 ospiti dell’anno scorso: una media di 3,6 visitatori al giorno. Umiliante. Tanto più dopo la scoperta nel 2007 del bellissimo monumento funerario decorato con bassorilievi di fattura incredibilmente accurata che raffigurano combattimenti fra gladiatori. Li aveva recuperati nelle campagne di Fiano Romano il Gruppo tutela patrimonio archeologico della Guardia di Finanza prima che venissero portati via per essere venduti chissà dove. All’estero, ovviamente. Come troppo spesso accade ai nostri tesori archeologici, dopo essere passati per le mani di qualche mercante senza scrupoli. Come li avevano visti, quei bassorilievi, i finanzieri si erano resi conto di essere davanti a uno dei salvataggi più importanti degli ultimi anni. Per la qualità, per lo stato di conservazione e soprattutto per la particolarità del soggetto. Ma anche per le dimensioni e la completezza del reperto. Era stato trovato per caso da tombaroli improvvisati durante lo scasso del terreno per la costruzione di una villetta. Senza dire niente alla Soprintendenza, quei predatori dell’arte perduta, come li chiama Fabio Isman nel suo libro omonimo, avevano smontato il monumento funebre sotterrandone i pezzi, tredici in tutto, in attesa di piazzarli sul mercato clandestino. Un progetto miracolosamente mandato a monte dall’intervento della Finanza. Non avrebbero prezzo, quei grandi pannelli, sul mercato internazionale delle antichità. Qualunque grande museo del mondo, orgogliosamente, li metterebbe in una posizione d’onore per esaltarne al massimo la bellezza. Non per nulla, quando i pezzi del monumento vennero trovati ci fu chi propose di portarli a Roma. Magari al museo nazionale romano di palazzo Massimo alle Terme. Venne fatta invece, in ossequio alla logica secondo la quale i beni archeologici devono restare nel luogo originario, una scelta diversa. E la Soprintendenza decise che quel tesoro venisse collocato al piccolo museo di Lucus Feroniae. Dove però potevano montare ed esporre al pubblico soltanto sei di quei blocchi: gli altri sette furono appunto appoggiati sotto un portico. Una beffa: tirati fuori dalla terra dove i tombaroli li avevano nascosti per finire sotto un telone. Era il gennaio 2007. Da allora non li hanno più mossi. Una scelta forse obbligata, data la mancanza di spazi di quel minuscolo museo. Ma incomprensibile per chi visita il posto e butta l’occhio su quei preziosi pannelli coperti dai teloni. Così come è incomprensibile la sciatteria di chi ha sistemato i sei pannelli esposti del bassorilievo senza uno straccio di cartellino che spieghi agli sparuti turisti in visita che cosa sono, da dove vengono, in che epoca furono scolpiti: nessuna informazione. Zero carbonella. Esattamente come per le grandi e bellissime statue senza testa né mani che fanno compagnia ai gladiatori. Reperti straordinari, rarissimi se non unici. La testa era intercambiabile: via via avvitavano sul tronco quella di chi in quel momento comandava a Roma. Una vergogna. Quelle statue rappresentano del resto la metafora della situazione in cui versa il patrimonio archeologico italiano. Un tesoro immenso. Senza una testa che a Roma se ne occupi davvero.

l’Unità 7.3.11
Realizzate nel 2006 Le IPS avrebbero scavalcato il problema etico
Nuove ricerche hanno evidenziato la pericolosità di queste cellule
Svanite le speranze: le staminali di laboratorio non sono sicure
Le speranze erano alte, ma ora sono svanite: le cellule staminali pluripotenti indotte, iPS, ottenute nel 2006 da un gruppo di ricerca di Kyoto, non possono essere usate a fini terapeutici.
di Pietro Greco


La speranza è svanita. O, almeno, fortemente attenuata. Le cellule staminali pluripotenti indotte, note agli esperti come iPS, ottenute nel 2006 dal gruppo di Shinya Yamanaka, dell’università di Kyoto, non potranno essere utilizzate a fini terapeutici. Non in tempi rapidi, almeno. E dire che solo cinque anni fa avevano realizzato il miracolo: mettendo d’accordo tutti fautori e detrattori della ricerca sulle staminali embrionali umane. Ma i risultati di tre diverse ricerche pubblicate su Nature ci rivelano il loro «lato oscuro». I nuovi risultati si aggiungono a quelli di altre due ricerche pubblicate il mese scorso e sono tutti univoci: le iPS ottenute finora in laboratorio sono diverse dalle cellule staminali umane (ES) e presentano anomalie sia a livello genetico che epigenetico che le rendono insicure per un uso terapeutico.
La storia è nota. Da molti anni lo studio sulle staminali alimenta la speranza di cura di molte e gravi malattie. Le cellule staminali, come si sa, sono cellule «Indifferenziate», capaci di trasformarsi in cellule «differenziate», che hanno cioè una precisa forma e una precisa funzione nei tessuti di un organismo. Ne conosciamo di due tipi. Le staminali adulte, che hanno una limitata capacità di trasformarsi. E le staminali embrionali, che per definizione hanno il dono delle totipotenza: si trasformano in ciascun tipo di cellula differenziata adulta, che nell’uomo sono oltre 200. E, quindi, in teoria potrebbero essere utilizzate per «sostituire» le cellule malate di un qualsiasi ammalato. Dal punto di vista terapeutico il limite delle (ES) è che non riusciamo a controllare il loro sviluppo. Se impiegate, potrebbero scatenare un tumore. Per questo le ES vengono ora impiegate per motivi di studio. Per capire come avviene la differenziazione cellulare. L’uso, anche per fini scientifici, delle ES è osteggiato in alcuni ambienti per motivi bioetici: il loro uso, infatti, comporta la morte dell’embrione da cui vengono estratte.
Per questo aveva suscitato grande speranza la scoperta del gruppo Yamanaka, che era riuscito a riprogrammare cellule adulte per farle ritornare a uno stadio di pluripotenza simile (ma non omologo) a quella delle staminali embrionali. Avremmo potuto utilizzarle a fini terapeutici senza suscitare alcuna remora morale.
Ora, nel giro di un mese, la doccia fredda. Le iPS non solo sono diverse dalle ES e, dunque, non possono sostituirle del tutto a fini di ricerca. Ma sono anche più pericolose delle ES e, dunque, non possono essere utilizzate con le tecnologie di cui disponiamo ora neppure per fini terapeutici. Le iPS ottenute in laboratorio, infatti, mostrano una frequenza di anomalie genetiche (sul Dna) ed epigenetiche (che non riguarda la sequenza del Dna) maggiore sia dei normali embrioni in sviluppo sia delle cellule ES fatte crescere in laboratorio. Generano un maggior numero di CNV, ovvero di alterazioni di parti del Dna; generano un maggior numero di mutazioni puntuali sul Dna e un maggior numero di aberrazioni cromosomiche.
Queste anomalie sono tali, come sostengono molti esperti, da consigliare l’uso delle iPS a fini di studio, ma da sconsigliarne l’uso a fini terapeutici.