mercoledì 9 marzo 2011

Repubblica 9.3.11Le procure sotto tutela
di Barbara Spinelli

QUANDO giudichiamo il conflitto fra potere politico e giustizia, conviene sempre alzare gli occhi, guardare oltre i nostri confini, usare la memoria, per capire se davvero chi governa ha in mente una soluzione che migliora le cose o una regressione formidabile, dissimulata dietro finte promesse. La riforma della giustizia che Berlusconi proporrà giovedì è un caso esemplare, e se suscita tante apprensioni è perché non scioglie ma accentua i conflitti tra poteri pubblici, e anzi vuol devitalizzare parte di questi poteri. È una riforma che non perfeziona ma disprezza il nostro patrimonio giuridico, e l´idea che i poteri debbano esser molti perché non predomini uno solo. È una regressione che non solo mortifica la Carta costituzionale ma è in aperta contraddizione con princìpi giuridici che l´Unione europea chiede agli Stati di rispettare. Spesso la regressione avanza in tal modo: presentandosi come rivoluzionaria.
È osservando quel che accade in Francia che l´impressione di un indietreggiamento italiano si conferma vistosamente. Negli ultimi due mesi il malcontento dei magistrati francesi si è inasprito, e il loro obiettivo, non nuovo, si è fatto più che mai nitido: liberare infine pm e procure dal potere politico.
Succede così che il patrimonio italiano divenga un traguardo, nel preciso momento in cui Berlusconi vorrebbe ridurre l´indipendenza dei magistrati dalla politica. Se prima in Europa eravamo considerati all´avanguardia, nella separazione dei poteri, oggi rischiamo di trovarci in coda. Una miopia radicale verso il mondo, e l´indifferenza al peso che l´Europa ha nelle nostre vite (con le sue leggi vincolanti) sono alla radice di quello che può divenire un grave impoverimento: giuridico, democratico, della memoria.
Alla base di questa miope indifferenza c´è una doppia fallacia. Prima fallacia: l´idea che in democrazia la sovranità si concentri tutta sul popolo, che elegge governi e parlamenti non sottoposti al vaglio di poteri terzi. Seconda fallacia: la finzione di una sorta di autarchia giuridica e politica dello Stato-nazione, e l´ignoranza di un´Europa già in parte federale, che esercita sovranità parallele a quelle degli Stati grazie a leggi, politiche comuni, costumi democratici concernenti anche la separazione dei poteri.
L´idea che solo uno sia il potere decisivo - il popolo - è spesso scambiata con la democrazia ma non lo è, e l´Europa s´è unita con questa consapevolezza. L´illusione monolitica è un´eredità del 1789 - meglio: della sua estremizzazione giacobina, nazionalista - e spiega lo speciale malessere francese. Nella tradizione giacobina la giustizia non è un istituto indipendente, nonostante l´articolo XVI della Dichiarazione dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789: è l´arma del popolo sovrano, dell´esecutivo che esso elegge. Qui è il suo vizio d´origine, e ancor oggi il pubblico ministero francese non è al servizio di tutti ma mantiene un rapporto di dipendenza dal governo.
I magistrati riformatori in Francia non si limitano a invocare autonomia completa, ma si battono perché il paese interiorizzi la democrazia costituzionale di cui l´Europa è levatrice. È in questo quadro che reclamano un´autentica Corte costituzionale, e soprattutto l´indipendenza del pubblico ministero. Spetta a quest´ultimo l´obbligo di esercitare l´azione penale, come imposto dall´articolo 112 della nostra Costituzione: non alla politica, come accade a Parigi e come Berlusconi vorrebbe in Italia. Il 15 dicembre scorso la Corte di cassazione francese, interpellata sulla custodia cautelare, ha giudicato che «il pubblico ministero non è un´autorità giudiziaria indipendente», visto che "non garantisce l´indipendenza e l´imparzialità prescritte dalla Convenzione europea dei diritti dell´uomo", e dalla Convenzione Ocse sulla corruzione. Non a caso chi auspica l´autonomia dei pm comincia, in Francia, col cambiare le parole costituzionali. Nel titolo VIII appare l´"autorità giudiziaria". Molti (tra loro l´associazione Terra Nova, in un recente rapporto) esigono che il termine autorità sia sostituito da "potere giudiziario".
Con secoli di ritardo Parigi riscopre dunque la separazione dei poteri di Montesquieu, si libera del giacobinismo, è stanca di ridurre la democrazia al suffragio universale: «In Francia - dice il rapporto di Terra Nova - la giustizia non è più il potere indipendente, guardiano della libertà individuale, descritto da Montesquieu. È sotto tutela dell´esecutivo». Tanto più è soggetta «all´influenza di interessi privati e partigiani. È una giustizia parziale, a due velocità: clemente verso chi è protetto dall´esecutivo, sempre più speditiva verso chi non è protetto». È pensando con severa memoria la propria storia che i magistrati francesi si ribellano. Solo una Corte costituzionale e un pubblico ministero indipendenti possono divenire punti fermi, più durevoli delle mutevoli maggioranze. I governi sono mortali, in democrazia. Non la Costituzione e la giustizia.
Non è solo la storia nazionale a entrare in gioco, abbiamo visto, ma l´Europa che delle varie memorie ha fatto tesoro, trascendendole. È quest´ultima a preconizzare una giustizia più indipendente, prescrizioni non di comodo, infine la riforma più desiderata dagli italiani: processi più brevi per tutti, non per uno o per pochi. In particolare - lo ricordano da anni il giurista Bruno Tinti e Marco Travaglio - l´Europa chiede che le carriere del giudice e del pm non siano separate: che «gli Stati, ove il loro ordinamento giudiziario lo consenta, adottino misure per consentire alla stessa persona di svolgere le funzioni di pm e poi di giudice, e viceversa», per «la similarità e complementarietà delle due funzioni» (raccomandazione della Commissione anticrimine del Consiglio d´Europa, 30-6-00).
Nella riforma Berlusconi sono assenti queste norme costituzionaliste, ed è il motivo per cui di regressione si tratta. L´obiettivo è mettere le procure sotto tutela politica, duplicare il Consiglio superiore della magistratura neutralizzandolo, staccare la polizia giudiziaria dai pm assoggettandola al solo potere politico (forse la misura più pericolosa, perché in tal modo il governo ha in mano le chiavi per chiudere e aprire un processo penale). Ed è separare le carriere del pm e del giudice per degradare il pm a "avvocato dell´accusa", più vicino per cultura all´avvocato della difesa che al giudice: mentre con l´ordinamento attuale il pubblico ministero è tenuto a considerare anche gli elementi a discarico, non solo quelli a carico dell´imputato. Qui è la ragione prima per cui separare le carriere è un rischio. È un vero insulto ai Pm, spiega Tinti: "Il Pm tutela gli interessi della collettività, l´avvocato quelli del suo cliente. Per il Pm non è importante che l´imputato venga condannato; è importante che il colpevole venga condannato. L´avvocato difensore, lui sì, è uomo di parte", avendo per obbligo quello di " far assolvere il cliente oppure fargli avere la pena più ridotta".
Quel che ci si domanda è come mai l´Europa, pur avendo leggi e princìpi, conti così poco. In realtà essa difende i princìpi con estrema forza prima dell´adesione: i candidati devono avere giudici indipendenti e separazione dei poteri (se l´Italia fosse oggi candidata, certo non entrerebbe). Questo dicevano i criteri di Copenhagen fissati nel ‘93 per l´ammissione dei paesi dell´Est: i criteri non erano solo economici (esistenza di un´affidabile economia di mercato) ma anche politici e giuridici (presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, stato di diritto, diritti dell´uomo, rispetto-tutela delle minoranze). Ancor più stringenti sono i criteri nel caso della Turchia.
Con i paesi che sono già nell´Unione, invece, l´Europa è intimidita, inerte. Varcata la porta d´ingresso solo i parametri economici pesano, diventando addirittura un ombrello che ripara gli autoritarismi. Quanto più sei dentro, e rispetti i parametri finanziari, tanto più sei libero di fare quel che ti pare con la democrazia. Se solo volesse, l´Europa potrebbe agire, arginare. Il Trattato di Lisbona agli articoli 6 e 7 prevede interventi e sanzioni dell´Unione per quei Paesi dell´Unione in cui si verifichino gravi rischi per la democrazia e per la libertà. Ma sinora gli articoli non sono stati invocati né tantomeno applicati all´Italia. Eppure i rischi ci sono ormai davvero e sono seri. Si parla molto dell´assenza di anticorpi, in Italia. Ma l´Europa ha gli stessi difetti, pur possedendo strumenti e leggi per salvaguardare le proprie democrazie.

Corriere della Sera 9.3.11
Come si processano i potenti
Francia e Italia, due stili diversi
di Massimo Nava

I potenti sono processabili? I francesi se lo chiedono quanto gli italiani, dopo il nuovo rinvio del processo contro Jacques Chirac. Ed è fondato il sospetto che a una sentenza non si arriverà mai. Tuttavia, a differenza dei processi italiani, il rango dell’imputato fa abbassare anziché alzare i toni. E pur nella dialettica delle parti, si ha l’impressione che tutti sostengano con misura il proprio ruolo, compresi i giornali che hanno scelto il basso profilo. Senza megafoni, senza tentativi di delegittimazione. Chirac in passato ha definito fantasiose le accuse, ma non si è sottratto al giudizio e ha assicurato che sarà presente in aula. Ha evitato qualsiasi dichiarazione, tantomeno sul lavoro del tribunale. I magistrati non si sono fermati di fronte a pressioni di varia natura, hanno rispettato la regola dell’immunità per il capo dello Stato, ma poi sono andati avanti, senza riguardi per nessuno. Gli avvocati dei coimputati hanno sollevato dubbi d’incostituzionalità e ottenuto un nuovo rinvio. I legali delle parti civili hanno protestato perché si dilatano i tempi del processo. Chirac ha fatto sapere di non essere lui all’origine di questo nuovo rinvio. Ma lo stesso procuratore della Repubblica definisce «anacronistico» un processo che pure è giusto abbia luogo. L’opinione pubblica ha accolto con favore il fatto che nessuno, nemmeno un presidente della Repubblica, sia al di sopra della legge, però riflette sul rispetto che meritano l’uomo Chirac e l’istituzione che ha guidato per due legislature. L’opposizione, chiusa la stagione della lotta contro l’avversario politico, gli rende l’onore delle armi: è più incline alla benevolenza che ai ceppi. Non è questione di perdono, ma nessuno si nasconde l’epoca (gli anni Novanta, quando Chirac era sindaco di Parigi) e il contesto in cui il reato contestato è stato consumato, la zona grigia del finanziamento della politica. Se l’impunità dei potenti non conosce frontiere, lo stile forse sì.

l’Unità 9.3.11
 Intervista a Bijan Zarmandili
«Non è Bin Laden il grande vecchio
della primavera araba» Lo scrittore iraniano: «Il colonnello tira in ballo Al Qaeda ma il progetto jihadista è fallito Le piazze del Maghreb chiedono lavoro e futuro»
di Umberto De Giovannangeli

Gheddafi cita continuamente Al Qaeda, agita lo spauracchio qaedista, tirando in ballo Osama Bin Laden come il «grande vecchio» delle rivolte contro le satrapie mediorientali. In questa affermazione, in sé tragicomica, c’è, sia pure involontariamente, la sottolineatura della morta politica di Bin Laden e del progetto jihadista». A sostenerlo è Bijan Zarmandili, scrittore iraniano, da tempo in Italia, tra i più acuti analisti del mondo arabo e islamico. «Nelle piazze dei Paesi segnati dalla rivolta, non hanno bruciato bandiere americane o israeliane osserva Zarmandili ma i protagonisti di questa “Primavera araba” hanno rivendicato il lavoro, il pane, il futuro. E questa è una vera svolta, direi a prescindere dagli esiti che ciascuna di queste rivolte potrà avere in futuro...È difficile che Osama Bin Laden e i suoi accoliti possano egemonizzare Piazza Tahrir».
Nei suoi ripetuti show mediatici, Muammar Gheddafi ha sempre tirato in ballo Al Qaeda.... «Gheddafi dice che Al Qaeda fornisce di armi e droga gli insorti libici per abbattere il suo regime. Questa affermazione è tragicomica ma tira in ballo Osama Bin Laden come il “grande vecchio” delle rivolte contro le satrapie mediorientali. In questa affermazione ho l’impressione che ci sia, magari involontariamente, la sottolineatura della morte politica di Bin Laden, del fallimento del jihadismo e comunque dell’epilogo di una fase nel mondo arabo e islamico. Questo non significa ovviamente che bisogna smobilitare a livello politico e di intelligence, la lotta contro il terrorismo. Ma quello che sta avvenendo nel Maghreb, nei Paesi arabi, è una fase di svolta rispetto a quella dominata dai fattori religiosi, ideologici, che aveva creato un terreno fertile per l’integralismo religioso su cui aveva contato il terrorismo jihadista per conquistare terreno e radicarsi nelle masse arabe e islamiche. Quella fase è finita...». Siamo dunque dentro a una svolta epocale...
«Per molti versi sì. Le rivolte nel Maghreb e nel Vicino Oriente hanno fatto emergere per la prima volta, in modo prepotente e comunque con estrema chiarezza, le contraddizioni strutturali di queste società. Hanno chiesto al libertà, la fine della dittatura e della corruzione. E questa è una vera svolta, direi a prescindere dagli esiti che ciascuna di queste rivolte potrà avere in futuro. È difficile che Bin Laden e i suoi accoliti possano egemonizzare Piazza Tahrir (la piazza del Cairo divenuta il simbolo della rivolta egiziana, ndr). E credo peraltro che sia fuori luogo pretendere, come hanno fatto, ad esempio, Ahmadinejad e Khamenei, che le rivolte arabe siano la versione odierna della rivoluzione khomeinista. Ci sono molti segnali, invece, che indicano l’inizio di una fase inedita in quella parte del mondo arabo, caratterizzata dalle contraddizioni di società composite, complesse, difficilmente riducibili alle esigenze politiche dell’integralismo o del terrorismo jihadista. In questo senso, Osama Bin Laden è ormai morto».
L’Occidente ha consapevolezza di questa svolta di fase? «Barack Obama l’aveva in qualche modo adombrata, evocata, al Cairo quando parlò del “Nuovo Inizio” nel dialogo tra l’America e il mondo islamico.
Ma nel momento in cui quell’invito si è trasformato in una realtà in grado di mettere in subbuglio l’intera Regione, l’amministrazione Usa – come del resto molte cancellerie europee – si è mossa con grande imbarazzo, spesso in ritardo, e in questi giorni con la tragedia che si sta consumando in Libia, mostrando, di fatto, una colpevole indecisione che è il frutto dell’eredità del passato, di contraddizioni e ambiguità che hanno segnato tutti gli attori di una fase storica che si sta consumando: penso alle vecchie satrapie arabe, ma anche a molti degli attori europei e occidentali. L’unica novità sono le masse arabe che si sono rivoltate, rivendicando diritti e giustizia. Se vincono loro, in Egitto, in Tunisia, nel mondo arabo-islamico, dittatori come Gheddafi sono destinati a uscire comunque di scena, perché rappresentanti di un mondo che non c’è più».

l’Unità 9.3.11
«Basta con il dittatore. È stata questa la molla della nostra ribellione»
Il blogger libico: «Gheddafi sta attuando una repressione terribile a Tripoli. Chiediamo la libertà, non vogliamo avere più paura»
di Rachele Gonnelli

Vedo che il tuo gruppo segue da vicino gli avvenimenti in Libia e anche in Tunisia. Tu sei tunisino? «No, sono libico. Il mio nome è Atwair Azwam vengo da Khoms, 100 km a est di Tripoli e a soli 60 km a ovest di Misurata. Ora mi sto spostando a Malta, restando però in contatto con molti, ragazzi, adulti, donne e uomini, che sono rimasti in Libia».
Puoi raccontarmi come è scoppiata la ribellione? Qual è stata la molla? «In Libia ci aspettavamo questo vento di rivolta, da molto tempo. Gheddafi è un dittatore sanguinario. Nel tentativo di sottomettere di nuovo il popolo libico ci sta infliggendo enormi sofferenze. E anche in passato ha appeso i cadaveri degli studenti che protestavano nelle strade per spaventare la gente che avrebbe potuto appoggiarli. Quando suo figlio Saif è diventato adulto e ha cominciare a parlare di riforme, abbiamo detto “ok lasciamogli una possibilità”. Poi per anni nulla è accaduto. Era solo un gioco
di potere con suo padre. Dopo la rivolta tunisina, prima ancora rivolta egiziana, abbiamo deciso di organizzare il nostro 17Feb. Era molto difficile perché in Libia non esistevano partiti politici a cui appoggiarsi, a differenza che in Egitto e in Tunisia». Cosa rimproverate a Gheddafi? «Gheddafi e i suoi figli stanno facendo l’immaginabile e anche il non immaginabile per riprendere il controllo del Paese. Terrore dappertutto, rapimenti, uccisioni, comprano le persone perché stiano dalla loro parte. Carri armati ovunque, polizia in ogni angolo di strada, non si può nemmeno parlare ai media. Sta mettendo in atto una repressione terribile a Tripoli.».
Il Colonello ha dato la colpa ad Al Qaeda e anche i media internazionali parlano della presenza di salafiti nelle manifestazioni.
«Sia chiara una cosa, tutti sono d'accordo sul no a qualsiasi Stato estremista islamico. Il popolo libico è musulmano e ci sono anche musulmani più rigidi, senza dubbio, ma è gente pacifica in cerca di libertà e di buon rapporto, fecondo, con il resto del mondo, e ancor più con l'Italia. Non c’entra niente Al Qaeda. I salafiti sono una parte della nostra società, è normale che ce ne siano a Tripoli. Ma il loro numero è tale che, state certi, non controlleranno la Libia del dopo Gheddafi. La Libia è al 99% sunnita e segue la dottrina dell’imam Malik. I suoi insegnamenti sono alla base di tutte le scuole islamiche».
Come vorreste la Libia del futuro? Con quale forma di Stato? Qualcosa di simile ad una Loya Jirga afghana o ad un regime parlamentare di tipo occidentale?
«Ciò che vogliamo per il futuro è molto semplice: è la libertà, cioè non avere più paura. Va bene qualsiasi sistema democratico, ma certo una Loya Jirga non è nel nostro stile, nella nostra tradizione, e poi abbiamo bisogno di un sistema moderno».
L’Occidente cerca nuovi referenti, persone affidabili e riconosciute dal popolo che amministrino il petrolio. «La Libia è piena di persone così, ma molti hanno lasciato il Paese a causa di Gheddafi. Sono sicuro che siano pronti a tornare per sostenere la rivoluzione e assumere responsabilità difficili come quella di gestire il petrolio».
Cosa pensi del governo italiano?
«Silvio Berlusconi non è un bene per l'Italia. Abbiamo bisogno di aiuto e di un buon rapporto con il governo italiano ma non com’ è stato con Gheddafi. Il popolo libico non accetterà mai una simile relazione. Abbiamo bisogno di una relazione tra Stati, non di interessi personali tra potenti».

La Stampa 9.3.11
La cavalcata di Obama verso Pechino
di Paolo Mastrolilli

Nominato il nuovo ambasciatore Usa in Cina. Chi è?

Il nuovo ambasciatore americano a Pechino si chiama Gary Locke, è di origini cinesi, e fino a ieri faceva il ministro del Commercio. Una biografia che aiuta a capire almeno due cose: primo, l’importanza strategica che il presidente Obama attribuisce alle relazioni con la Repubblica Popolare; secondo, l’enorme vantaggio che un paese intelligente può ricavare dall’immigrazione, quando sa integrarla.
Obama, per rilanciare la sua economia, si è posto l’obiettivo di raddoppiare le esportazioni americane nel giro di cinque anni. Il primo passo logico è cercare di vendere più prodotti alla Cina, con cui gli Stati Uniti hanno un deficit commerciale record di 273 miliardi di dollari. Chi potrebbe aiutarlo meglio a raggiungere questo traguardo se non Locke, che quando era governatore dello stato di Washington aveva raddoppiato le esportazioni della sua regione nella Repubblica Popolare, portandole a 5 miliardi di dollari all’anno e creando così 280.000 posti di lavoro? Da qui si capisce la scelta di “retrocedere” Gary dal rango di ministro a quello di ambasciatore, ma si capisce anche perché lui ha accettato, forse pensando al suo predecessore George Bush padre, che cominciò la lunga marcia verso la Casa Bianca partendo proprio con lo stesso passo di rappresentante diplomatico a Pechino.
Del resto, ogni volta che va in Cina Locke viene accolto come una rock star. Il motivo è semplice: lui è cinese. Suo padre era nato nella Repubblica Popolare e la sua famiglia viene dalla cittadina di Taishan. Quando lo misero al mondo, a Seattle nel 1950, i suoi genitori gli diedero il nome cantonese di Lok Gaa Fai, e lui fino a cinque anni d’età non parlava nemmeno l’inglese. Ma di giorno lavorava nel negozio di alimentari del padre e di notte studiava, con voti così buoni da ottenere una borsa per l’università di Yale. Procuratore, avvocato di uno studio che si occupava di relazioni commerciali con la Cina, e nel 1996 eletto governatore dello stato di Washington, primo e finora unico asiatico a salire così in alto. Durante le elezioni del 2008 aveva appoggiato Hillary Clinton, ma Obama ha deciso di non farci caso: le sue qualità erano troppo utili, per lasciarlo in panchina a causa di una ripicca politica. E qui c’è la seconda lezione di questa storia, utile anche a noi italiani: l’immigrazione è sempre una risorsa, per chi sa usarla con la testa.

La Stampa 9.3.11
Rossi Doria, in Italia il riformismo è un’utopia
Fu tra i fondatori del Partito d’Azione. Una biografia spiega l’attualità del suo pensiero
di Marcello Sorgi

NELL’ESTATE DEL ‘43 Lo scontro fra i massimalisti di Emilio Lussu e i riformisti di Ugo La Malfa
Teorizzava un movimento di massa che vedesse gli operai del Nord e i contadini del Sud
Criticava quell’inadeguatezza delle classi dirigenti che è rimasta immutata

Manlio Rossi Doria (1905-1988) è stata una singolare figura di intellettuale, economista e politico. Prima comunista poi tra i fondatori del Partito d’Azione non ha mai smesso il suo impegno meridionalista Simone Misiani ne ha curato la biografia per Rubettino

Oltre a colmare un vuoto inspiegabile, a distanza di molti anni dalla scomparsa, la biografia di Manlio Rossi Doria (Simone Misiani, Manlio Rossi Doria un riformatore del Novecento , pagg. 722, euro 30, Rubbettino Editore), intellettuale, meridionalista, tra i fondatori del Partito d'Azione, tenta di dare una spiegazione alla difficoltà, per non dire l’impossibilità, del riformismo e dei riformisti in Italia. Prendendo a modello non solo un uomo, ma un’intera generazione di uomini e donne rilevanti, che trovandosi ad attraversare in qualità di antifascisti clandestini, e poi di protagonisti della politica, il passaggio tra la fine del fascismo e della guerra e la nascita della Repubblica, tentarono inutilmente di radicare nella nuova Italia un processo riformatore, rivelatosi, purtroppo, alla lunga e al di là della serietà delle loro intenzioni, impraticabile.
In questo senso sono illuminanti sia i materiali di prima mano documenti, lettere, bibliografia mai riordinati prima d’ora sia i capitoli centrali del libro, ambientati nei terribili quarantacinque giorni a cavallo tra il 25 luglio del Gran Consiglio del Fascismo che mise in minoranza Mussolini e l’8 settembre dell’armistizio con gli Angloamericani e della fuga del re Vittorio Emanuele III, della sua famiglia e del governo Badoglio da Roma. In una minuziosa ricostruzione che vede Rossi Doria entrare e uscire di galera, a Regina Coeli, insieme con i capi dell’antifascismo clandestino Pertini e Saragat da poco tornati dall’estero, l’avventura del Partito d’Azione si consuma nello scontro tra la sua anima massimalista, guidata da Emilio Lussu, e quella riformista di Ugo La Malfa, divise praticamente su tutto: il rapporto con socialisti e comunisti, la possibilità di collaborare con la monarchia, l’urgenza più o meno forte di insediare al governo il Comitato di Liberazione Nazionale e, più sullo sfondo, le prospettive di una situazione che da qualunque parte la si guardi appare «rivoluzionaria», con il Paese spaccato a metà, il territorio ancora occupato in parte dai tedeschi, che controllano Roma, e in parte da inglesi e americani, che stentano in un primo tempo a cacciare le truppe di Hitler, mentre il duce, liberato dalla sua prigione, è riuscito con l'appoggio nazista a rialzarsi e a fondare la Repubblica di Salò.
È in questo contesto che l’anima riformista del Pd’A finirà con il prevalere, ma anche con il restare schiacciata dall’asse tra i tre maggiori partiti saliti al potere dopo la Liberazione e la nascita della Repubblica. La discussione che si sviluppa all’interno del gruppo oltre a La Malfa, Lussu e Rossi Doria, Leone Ginzburg, Eugenio Colorni, Franco Venturi, Leo Valiani, Giorgio Agosti, Carlo Levi, per citare solo i maggiori e annotare la forte presenza torinese tra i fondatori è molto intellettuale. Le due anime, la radicale e la moderata, si sentono egualmente rivoluzionarie, ma hanno due modi diversi di intendere i loro compiti. In Lussu si avvertono le radici «sardiste» e il passato comunista. La Malfa e Rossi Doria pensano per l’Italia, piuttosto che a una continuazione della Resistenza armata, a una sorta di New Deal americano, con contadini e operai alleati in un grande partito di massa che gestisca la modernizzazione del Paese. E l’illusione di poter creare un largo consenso popolare su una prospettiva del genere dovrà presto fare i conti con l’approccio più ideologico e conservatore di socialisti e comunisti alleati nel Fronte Popolare.
Simone Misiani traccia di Rossi Doria un profilo da intellettuale e politico inquieto e anticonformista nato in una famiglia borghese, figlio di un medico di tradizioni laico-massoniche -, all’inizio comunista, ma allontanatosi presto dalla sua prima esperienza malgrado i rapporti stretti con Giorgio Amendola, che invano cercherà a lungo di farlo rientrare nelle file del Pci. Dal ’48 in poi, dopo l’esperienza azionista, Rossi Doria come meridionalista sarà impegnato nell’opera di trasformazione dell’agricoltura del Sud sfociata nella riforma agraria. E per i successivi trent’anni, dai Cinquanta agli Ottanta, sarà protagonista critico ma molto rispettato della vita del Partito socialista, partecipando alla stagione riformatrice del primo centrosinistra ma denunciandone al contempo i limiti e i troppi compromessi e restando sempre molto vicino a La Malfa.
L’eredità politica e culturale di Rossi Doria, raccolta nelle memorie, in centinaia di articoli e lettere e in un prezioso archivio a cui Misiani ha dedicato anni di studi, riguarda ormai più che le sue originali proposte riformatrici, legate al suo tempo, la critica dell’inadeguatezza delle classi dirigenti e dell’incapacità delle sinistre di costruire nel Novecento un autentico grande partito riformatore di massa. La lettura di questa biografia e delle considerazioni che accompagnano la vita di questo grande intellettuale e politico può aiutare a riflettere sui limiti e gli errori in cui il centrosinistra continua a dibattersi anche oggi.

La Stampa 9.3.11
E il meridionalismo oggi è fuori scena
di Giuseppe Salvaggiulo

Non è trascorso molto tempo da quando le banche popolari del Sud regalavano ai correntisti, in prossimità del Natale, ponderose antologie di Antonio De Viti De Marco, Tommaso Fiore, Francesco Saverio Nitti, Manlio Rossi Doria. Ora, se va bene, con gli auguri di felice annuo nuovo arriva un giallo di Carofiglio.
Il dibattito sulla crisi del meridionalismo è vecchio quasi quanto il meridionalismo, ma oggi si colora di nuove e più opache tonalità. Nel 150˚ compleanno di un Paese (dis)unito, il Sud è relegato a ospite scomodo, ammesso al modesto banchetto purché non disturbi. «Siamo al redde rationem», sintetizza Gianfranco Viesti, economista appena nominato presidente della Fiera del Levante e autore di Mezzogiorno a tradimento (Laterza). Come dice Beppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci, «l’idea che governare un paese costituzionalmente dualistico in nome della sua parte più forte fosse uno svantaggio per l’Italia, perché la rendeva più fragile dal punto di vista interno e più debole sul piano internazionale, era faticosamente entrata nella testa delle classi dirigenti nel secondo dopoguerra e c’è rimasta per trent’anni. Poi è uscita dalla scena politica e culturale». Ora il meridionalismo non solo è «ob scenus», ma addirittura reietto.
La politica è in altre faccende affaccendata, le università latitano, le case editrici perdono identità, i circoli culturali scompaiono, lo Svimez fatica a tenere l’ultima ridotta, l’Istituto per gli Studi filosofici di Napoli è costretto all’elemosina per non chiudere. Resiste la Banca d’Italia. Il sociologo Franco Cassano declina il pensiero meridiano in chiave anti-azionista. Mancano campagne di denuncia civile, come quella di Rossi Doria contro la Federconsorzi, forse per indifferenza forse per connivenza. Spiega Viesti: «Non è la voce che manca al Sud, ma il microfono. Prevale il teorema meridionale, un’interpretazione semplicistica per cui le risorse pubbliche sono inevitabilmente sprecate, non c’è più niente da fare, dunque meno soldi si danno meglio è. Questo teorema accattivante ma scientificamente infondato ha molti e diversi sostenitori da Panebianco a Ricolfi, da Tremonti a Enrico Letta e legittima le politiche redistributive a favore del Nord degli ultimi anni».
Viesti racconta che alla presentazione del suo ultimo libro Più lavoro, più talenti (Donzelli) nell’università Bocconi c’erano solo 12 persone, di cui 11 docenti. L’unico milanese andato ad ascoltare era Salvatore Bragantini, ex commissario Consob. Aveva preso la parola allibito per una Milano irriconoscibile, indifferente. Come la forza del meridionalismo consisteva nell’interloquire con le classi dirigenti settentrionali, così la sua crisi è una frana che si apre al Sud ma fa rumore e forse travolge soprattutto al Nord.

Corriere della Sera 9.3.11
Socialista senza Marx
Così Rosselli si ribellò a ogni determinismo
Sognava un risveglio etico dell’Italia
di Arturo Colombo

Carlo Rosselli, classe 1899, si trova a Lipari, condannato dal Tribunale speciale a 5 anni di confino, per aver aiutato (con Parri, Bauer, Ceva) a «trasferire» il leader socialista Filippo Turati all’estero; e lì, sull’isola, ha scritto, fra il 1928 e il 1929, la sua opera più nota, Socialismo liberale. Il manoscritto riuscirà a metterlo in salvo, dopo averlo nascosto nel pianoforte, prima della famosa fuga in motoscafo, nel luglio del ’ 29. Giunto a Parigi, otterrà di pubblicare la traduzione francese, curata da Stefan Priacel. In Italia apparirà solo nel 1945, quando ormai Rosselli non c’era più, assassinato a Bagnoles-de-l’Orne nel 1937 su mandato dei leader fascisti— insieme al fratello Nello— dagli uomini della «Cagoule» , un gruppo terroristico dell’estrema destra francese. Che Socialismo liberale costituisca un chiaro esempio di autentico «pensiero libero» lo si ricava subito, appena si prende atto che per Rosselli il socialismo non solo non deve identificarsi nel marxismo, e quindi nella sua componente materialistica, ma «è in primo luogo rivoluzione morale» : il che significa respingere quella specie di equivoco, di bestia nera del determinismo, da lui considerato fra gli aspetti più negativi della concezione marxista. Ecco perché Rosselli — pur dichiarandosi «socialista» — respinge l’idea (abbastanza diffusa nella sinistra durante la prima metà del Novecento) che basti ottenere dei mutamenti nell’ambito economico produttivo, per credere di avere risolti ipso facto i tanti mali che gravano su ogni società. E proprio questa tesi rosselliana provocherà un’immediata reazione, soprattutto da parte di chi continuava a guardare all’Unione Sovietica come alla vera patria del socialismo. Basta ricordare la durezza di certi giudizi di Palmiro Togliatti, che fin dal 1931 si scaglierà contro Rosselli, definendolo «un dilettante dappoco» e riducendo le «quattro idee» del socialismo liberale a un «magro libello anti-socialista e niente più» , a una «predica da pastore protestante» , con l’aggravante di un «piatto opportunismo reazionario» . Viceversa, se si comprende bene l’immagine del socialismo che, «colto nel suo aspetto essenziale,— scrive Rosselli— è l’attuazione progressiva dell’idea di libertà e di giustizia tra gli uomini» , occorre accettare la conclusione che un simile progetto, o programma, di socialismo è l’erede e il continuatore di quella idea liberale, giustamente considerata «rivoluzionaria» fin dai tempi di Locke e di Montesquieu, che proseguirà con John Stuart Mill e poi con Bertrand Russell e John Dewey: a loro volta, tutti esponenti del pensiero libero. Così, quando parla di «socialismo liberale» , Rosselli insiste sul «metodo democratico» e sul «clima liberale» , che costituiscono una «conquista fondamentale della civiltà moderna» , e quindi devono rappresentare un approdo irrinunciabile e definitivo anche per i socialisti: o almeno per quei socialisti che rifiutano e condannano «lo Stato caserma» , che un tempo si identificava nello Stato prussiano, ma che ha finito per assumere i tratti, più mostruosi e terribili, dei sistemi totalitari del XX secolo: sia quelli dell’estrema destra (tipo fascismo, e poi nazismo), sia dell’estrema sinistra, incarnata nel modello sovietico. In questa prospettiva Rosselli ci lascia un’indicazione preziosa, che vale anche oggi, fuori dagli schemi di parte (o dalle «appiccicature di partiti e partitelli» , come lui preferiva sostenere), perché costituisce un vigoroso appello a non rinunciare mai a impegnarsi e operare per rendere migliore, più libera e giusta, la società di domani, senza Lager né Gulag. Come diceva Norberto Bobbio, lo sostengono tuttora autorevoli pensatori liberal (bastano i nomi dello statunitense John Rawls, dell’indiano Amartya Sen, del nostro Salvatore Veca), che insistono sul binomio di libertà politica e giustizia sociale come mezzo indispensabile di sviluppo, di incivilimento, di progresso. A chi obiettasse che si tratta solo di un generoso proposito di minoranza, vale la pena di replicare con le parole di Rosselli: «Siamo pochi? Cresceremo. Siamo fuori del tempo? Sapremo aspettare. Verrà il nostro turno» .

Corriere della Sera 9.3.11
L’appello di Hannah: riscoprire la politica per amore del mondo
Una visione corale dell’impegno civile
di Simona Forti

T he Human Condition è il libro, pubblicato per la prima volta a Chicago nel 1958, che consacrerà Hannah Arendt a «classico» della filosofia politica. Tradotto in italiano nel 1964 col titolo Vita activa, dovrà attendere parecchi anni prima di trovare nel nostro Paese un’attenzione adeguata. All’inizio degli anni Sessanta, infatti, il nome dell’autrice rimandava quasi soltanto all’opera sul totalitarismo e alla polemica suscitata dal processo Eichmann. Poco si discuteva del contributo filosofico di questa pensatrice ebrea, allieva di Heidegger e di Jaspers, costretta a lasciare la Germania e a cercare una collocazione negli Stati Uniti. Dalla fine degli anni Settanta, in compenso, la fortuna e la fama dell’autrice decollano, senza conoscere, fino ad oggi, battute d’arresto. Saggi interpretativi, monografie dedicate ai vari aspetti dell’opera, edizioni critiche di testi non pubblicati in vita, faranno di Hannah Arendt una delle figure intellettuali più discusse e citate nella comunità scientifica. E, probabilmente, anche una tra le più banalizzate. Banalizzante, per esempio, è stata la recezione della sua opera Le origini del totalitarismo: per alcuni una lezione di storia troppo disponibile alle logiche della guerra fredda. In realtà, il senso profondo del libro, la sua originalità, consisteva esattamente nel riuscire a complicare l’alternativa postbellica tra democrazie liberali e totalitarismo, mostrandone l’intricata relazione genealogica. Il lettore che si trova oggi tra le mani per la prima volta Vita activa non dovrà incorrere in un errore analogo. Il legame tra libertà e azione politica, che sta al cuore dell’opera, non può essere letto come il semplice correlato di una teoria liberale. Così come i richiami costanti all’esperienza della polis non devono produrre l’impressione di un progetto volto a restaurare un modello del passato. Né nostalgica della politica greca, né semplice sostenitrice della difesa dei diritti individuali, la filosofia politica di Hannah Arendt è soprattutto l’esortazione a concepire il potere, e il soggetto che agisce, in maniera diversa dalle modalità tramandate dalla tradizione. Senza lo sforzo di questa radicalità di pensiero, ogni idea di politica rimane, a suo parere, imprigionata nel cerchio del dominio, destinata prima o poi a inciampare nella relazione verticale di comando obbedienza. Per questo non basta, per definire il senso arendtiano della libertà politica, ricordare che essa si riferisce a un agire orizzontale e plurale, il quale non può esprimersi attraverso la coercizione e la violenza, ma solo tramite il linguaggio. Allo stesso modo è riduttivo insistere su quell’idea di spazio pubblico, così cara all’autrice, come se si trattasse della mera ricerca di un’intesa intersoggettiva, del riconoscimento reciproco tra le diverse identità degli attori o dei gruppi che agiscono sulla scena. Certo, la sfida arendtiana è in primo luogo volta a ripensare la politica al di fuori del dominio, ma non come semplice limitazione del potere centrale a difesa dei diritti privati di libertà, ma esattamente come moltiplicazione delle fonti di potere e del potere stesso. Perché il potere, secondo Hannah Arendt, non è la facoltà di costringere il comportamento altrui. È invece l’espressione dell’energia che si sprigiona dall’azione, quell’energia che dà forma e significato alla vita del singolo e che la politica, con la sua dimensione corale e agonistica, moltiplica e potenzia. Vita activa, allora, più che al funzionamento dello Stato e delle sue istituzioni, risponde a una domanda di senso: come conferire significato alla vita, in modo che diventi la vita di qualcuno? Come riallacciare il legame tra politica ed esistenza fatto a pezzi nei regimi totalitari? A fronte dell’esito nichilistico della prima metà del XX secolo, essa rilancia la capacità formativa e performativa dell’agire; contro il risentimento nei confronti del nulla, invita a riscoprire l’ «amore del mondo» e la gioia dell’azione politica. Quella gioia dell’essere liberi che consiste nella possibilità di incominciare sempre da capo e insieme.

La Stampa Tuttoscienze 9.3.11
Da Proust alle neuroscienze
Il mix tra scienza e umanesimo crea il nuovo intellettuale
di Giovanni Nucci

Scrive Jonah Lehrer nella prefazione del suo libro «Proust era un neuroscienziato» (Codice edizioni): «Molto prima che Charles Snow lamentasse la triste separazione tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, Whitman studiava manuali di anatomia cerebrale e assisteva a interventi chirurgici raccapriccianti, George Eliot leggeva Darwin e Maxwell, la Stein conduceva esperimenti psicologici nel laboratorio di William James e la Woolf si documentava sulla biologia della malattia mentale. È impossibile capire la loro opera senza tener conto di queste relazioni».
Volendo mettere a fuoco l'interesse scientifico del libro di Lehrer, occorre concentrarsi sull' aspetto letterario: ciò che dice di importante sul piano della scienza lo dice, in realtà, quando sta parlando della letteratura. E l'inverso. Lo scopo di questo libro, però non è quello di screditare la scienza o nobilitare eccessivamente la letteratura e le arti. Il dato di realtà che Lehrer mostra è che la scienza e la letteratura sono medesime espressioni, per quanto diverse, del loro tempo. Può sembrare banale il fatto che Whitman, volendo dare al corpo la centralità che effettivamente avrebbe avuto nella sua poesia, studiasse e si documentasse di questioni mediche. Ma non si tratta semplicemente della ricerca che conduce un romanziere apprestandosi a scrivere un libro ambientato in un qualche mondo scientifico. Lehrer sta parlando di qualcosa di più sottile, e profondo. Il fatto che Withman, Cézanne, Proust o la Woolf abbiano cercato di raccontare il mondo, almeno dal loro punto di vista: e che del loro mondo faceva parte anche la scienza. Questo ovviamente accade sia in positivo che in negativo: non solo per l'artista che viene ispirato, e coinvolto, da una data corrente, o scoperta, scientifica; ma anche chi cerca di contrastarla e di opporvisi.
La conseguenza della frequentazione della scienza da parte di artisti e letterati è il fatto che spesso (o almeno nei casi che Lehrer analizza) le loro intuizioni hanno preceduto di parecchio le scoperte scientifiche. Proust aveva capito il funzionamento della memoria ben prima di quanto non abbiano saputo fare le neuroscienze. Naturalmente tutto ciò è spiegato nel libro di Lehrer con una certa scientificità, ma su un piano letterario. Alla fine è difficile dire se questo sia un saggio che parla di scienza o di letteratura: ed è il motivo per cui va consigliato agli studenti che partecipano al concorso «La Scienza Narrata»: la cosa migliore a cui può portare la lettura di questo libro è una sapientemente confusione tra l'ambito scientifico e quello umanistico.
Ne viene fuori che un vero intellettuale dev'essere ugualmente, e contemporaneamente, scienziato e umanista: un'umanista non può non essere interessato e coinvolto dalla scienza così come la sua epoca la sta celebrando; e uno scienziato non può in nessun modo permettersi di ignorare ciò che l'arte, la musica e la letteratura del suo tempo stanno producendo. I restanti, che siano scienziati, artisti, letterati o musicisti, non saranno mai all'altezza del loro mondo, perché ne avranno comunque omesso una metà.

La Stampa Tuttoscienze 9.3.11
In un meteorite del Polo Sud è racchiusa l’origine della vita
“Ha portato sulla Terra l’azoto, l’elemento base degli organismi”
di Daniela Cipolloni

Sandra Pizzarello è considerata una pioniera della «biochimica aliena»

Scoperta di una scienziata italoamericana «Una prova fondamentale: il sasso era sepolto sotto i ghiacci e quindi privo di contaminazioni»
In principio furono i meteoriti. Le rocce arrivate dallo spazio avrebbero sparso sulla Terra i semi che permisero alla vita di sbocciare, circa 3,5 miliardi di anni fa. L'origine «aliena» della vita è ben più di un'ipotesi affascinante. Dai ghiacci dell'Antartide sono riaffiorati antichissimi frammenti fossili del Sistema Solare, contenenti le molecole organiche che avrebbero «impollinato» la Terra e innescato il processo da cui si sono evoluti gli organismi viventi. «Abbiamo le prove per ritenere che gli ingredienti della vita siano potuti piovere dal cielo». Parola di Sandra Pizzarello, 78 anni, italiana d'origine, statunitense d'adozione, diventata «biochimica extraterrestre» quasi per caso E oggi considerata un’autorità del settore.
Nessuno meglio di lei sa far parlare i «sassi». Dall'ultimo meteorite finito tra le sue mani denominato «Grave Nunataks 95229» e scoperto in Antartide nel 1995 è riuscita a «spremere» l'azoto, elemento imprescindibile per la vita, onnipresente nelle cellule, dal Dna alle proteine. Era il tassello mancante del puzzle. «Abbiamo analizzato un meteorite primitivo, appartenente alla famiglia dei condriti carbonacei: era sepolto sotto la neve ed è rimasto incontaminato», racconta la scienziata nel laboratorio dell'Arizona State University, dov'è professore emerito. «Abbiamo sottoposto la polvere a temperature e pressioni elevate, ma neanche troppo, mimando così possibili condizioni della Terra primordiale spiega, dopo l’annuncio sulla rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” -. È scaturita un' enorme quantità di ammoniaca, formula chimica NH3, un composto senza il quale non si sarebbero formate le molecole organiche nel brodo primordiale». Nessun dubbio che gli atomi di azoto contenuti nell' ammoniaca siano di proprietà del meteorite: sulla Terra non esistono isotopi uguali.
Generazioni di ricercatori hanno sbattuto la testa sulla difficoltà di spiegare la presenza dell'azoto in quello scenario semi-apocalittico che vide nascere il primo organismo unicellulare: un pianeta caldissimo, coperto da una cappa di gas irrespirabile, bombardato da una raffica di asteroidi. Sandra Pizzarello ce l'ha fatta, all'apice di un'avventura umana e professionale che sembra un film (di fantascienza) per l'Italia. Nata a Venezia nel 1933 (di cognome da ragazza faceva Fabbri), laureata in biochimica all'Università di Padova, iniziò a lavorare in un'azienda farmaceutica. Poi arrivarono il matrimonio e i figli. Quattro. E Sandra lasciò tutto per fare la mamma. «Sono stata a casa 15 anni. Quando mio marito trovò un impiego negli Usa, ci trasferimmo e decisi di rimettermi in carreggiata racconta -. Per stare al passo mi specializzai in un settore nuovo. La Nasa finanziava ricerche sul meteorite di Murchison, caduto in Australia nel 1969. Vinsi l'assegno. In Italia non sarei mai riuscita a rientrare nell'università».
È l'«American dream» che si realizza. Sandra Pizzarello diventa una pioniera. Studiando il celebre meteorite, getta le basi dell'esobiologia, la teoria della provenienza extraterrestre dei mattoni della vita. «Le ricerche provarono che nel cosmo si possono formare molte molecole prebiotiche. Nel Murchison ne abbiamo individuate più di 5 mila, tra cui numerosi amminoacidi terrestri, come la glicina, l'alanina e l'acido glutammico spiega -. Tuttavia nessuna di queste mostrava un particolare vantaggio evolutivo». Per un certo periodo gli scienziati hanno quindi aggirato lo scoglio dell'azoto (a cui il meteorite Murchison non dava contributi), ipotizzando che l'atmosfera della Terra primordiale fossericca d'ammoniaca. «Il famoso “Esperimento Miller”, alla fine degli Anni 50, dimostrò che si possono creare amminoacidi a partire da semplici composti chimici immersi in una soluzione gassosa riducente, formata da metano, ammoniaca, idrogeno e vapore acqueo, e attraversati da una scarica elettrica prosegue la scienziata -. Oggi, però, i geologi sono più propensi a ritenere che l'atmosfera della Terra neonata fosse neutra, tendente all'ossidante».
Se cadono, così, le ipotesi che, nelle giuste condizioni, anche meteoriti come il Murchison avrebbero potuto accedere la scintilla della vita, i reperti rinvenuti in Antartide immacolati e completamente diversi dal sasso australiano, perché ricchissimi di azoto cosmico riaprono invece la partita. Sono la prima evidenza che l'impatto delle rocce spaziali tra 4.4 e 2.7 miliardi di anni fa abbia sprigionato l'agente mancante per avviare le reazioni chimiche necessarie. Rilanciando la teoria che siamo tutti un po' extraterrestri. «Ma c'è ancora tanto da scoprire», confessa Sandra Pizzarello. A 78 anni la «Signora delle meteoriti» non è stanca: «Ho voglia di divertirmi». E torna a immergersi nelle sue ricerche.

Repubblica 9.3.11
“Caotico, oscillante o in espansione scegliete il cosmo che preferite"
di John D. Barrow

Il celebre scienziato, tra i fautori della teoria del "multiverso", spiega le sue tesi. A partire dalle equazioni di Einstein e dai dati che oggi possiamo raccogliere grazie alla tecnologia
Fino all´inizio del XX secolo le teorie ubbidivano a visioni filosofiche religiose o artistiche
Resta la domanda: perché a un certo punto l´accelerazione dello spazio ha cambiato velocità?

Fino ai primi anni del ventesimo secolo, la cosmologia era più simile alla storia dell´arte che alla scienza. C´erano stili di universo. Si poteva immaginare, come nel passato, a che cosa dovesse assomigliare l´Universo. Ad alcuni piacevano i loro universi infinitamente antichi; altri volevano che la storia cosmica avesse un inizio preciso; altri ancora che il loro universo fosse ciclico, che avesse una crescita e una decadenza come il ciclo della vita e che ogni nuovo ciclo risorgesse come una fenice dalle ceneri del precedente. Tutte queste immagini avevano la propria origine in figure religiose, artistiche o filosofiche di come le cose dovrebbero essere. Le osservazioni raccolte sulle stelle e i loro movimenti spesso venivano adattate a un´immagine creata per altre ragioni.
Tutto questo cambiò nel 1915. Per la prima volta, la nuova teoria della gravità di Einstein, definita teoria generale della relatività, fornì delle equazioni le cui soluzioni erano interi universi. Fu una svolta. Pian piano, si trovarono delle soluzioni alle equazioni sull´universo di Einstein. Esse rivelavano che l´universo si starebbe espandendo, una possibilità confermata dalle osservazioni realizzate da Edwin Hubble e Milton Humason a Mount Wilson nel 1929. Si scoprì che ogni sorta di varietà di espansioni era possibile. Inizialmente, l´espansione sembrava sempre semplice e simmetrica, come una sfera che si espande, ma poi si scoprì che erano possibili anche degli universi in espansione a diverse velocità e con diverse direzioni e che erano ammissibili perfino degli universi rotanti che permettono di viaggiare indietro nel tempo. In The Book of Universes racconto la storia di tutti gli universi possibili rivelati dalle equazioni di Einstein. Fino ad oggi, sono state trovate solo alcune soluzioni a queste complicate equazioni e quando se ne scopre una nuova, spesso gli si dà il nome di chi l´ha scoperta. Abbiamo degli universi che si espandono e si contraggono, universi oscillanti; universi caotici; universi che hanno un inizio e una fine e universi che non hanno né l´uno né l´altra.
Nel 1965, i radioastronomi scoprirono la radiazione termica che si era predetto esistesse se l´universo si fosse espanso da un big bang estremamente caldo. Da quel momento in poi, i cosmologi si sono concentrati sempre di più sui processi fisici avvenuti nell´universo all´inizio della sua storia, alla ricerca di prove che confermino la nostra ricostruzione del passato. Fino al 1980, era chiaro che l´universo si stava espandendo in un modo misteriosamente simmetrico a una velocità molto vicina alla velocità minima necessaria per superare la gravità e continuare a espandersi per sempre. Le equazioni di Einstein avevano già fornito delle eccellenti descrizioni di questo stato di cose in una galleria di possibilità. Ciò che mancava era una spiegazione del perché l´universo avesse queste caratteristiche speciali e contenesse anche una speciale distribuzione di piccole irregolarità trasformatesi in galassie. Nel 1981, Alan Guth propose un nuovo modello di universo in espansione, nelle cui fasi primordiali ci sarebbe stata una breve scarica di espansione accelerata, definita "inflazione". Il risultato è molto significativo: potrebbe spiegare perché ci fu questa espansione simmetrica a quella particolare velocità che abbiamo visto e perché generasse delle piccole irregolarità casuali "stirate" dall´espansione fornendo così i semi dai quali si formeranno poi le galassie, dieci miliardi di anni dopo.
Questa sequenza di eventi avrebbe lasciato delle importanti variazioni spia nella radiazione termica rimasta nel cielo di oggi dall´universo primordiale. I nostri satelliti hanno trovato alcune parti dei modelli previsti. Vedremo se quest´anno il satellite Planck dell´Agenzia spaziale europea (Esa) riuscirà a trovarne altre.
Il fenomeno dell´inflazione ci conduce anche ad aspettarci che altre parti dell´Universo, dove non riusciamo a vedere per la velocità finita della luce, siano molto diverse dalla nostra parte visibile. Inoltre, il processo dell´inflazione si autoriproduce e qualsiasi regione che si gonfia creerà le condizioni per un´ulteriore inflazione di parti di quella regione. Questo processo di inflazione "eterna" non ha fine e non ha bisogno di avere un inizio. Cambia la nostra risposta all´antica domanda: "l´universo ha avuto un inizio?". La nostra porzione visibile dell´intero universo avrà avuto un inizio, ma l´intero "multiverso", composto di differenti regioni che si gonfiano tutte a velocità diverse, non ha bisogno di avere un inizio.
Nell´ultimo decennio, abbiamo costantemente raccolto delle prove che c´è stata un´era di inflazione 13,7 miliardi di anni fa, ma abbiamo anche scoperto che l´universo cominciò ad accelerare di nuovo 4 miliardi di anni fa, dopo essersi espanso per circa i tre quarti della sua estensione attuale. Questo cambiamento di marcia dalla decelerazione cosmica all´accelerazione viene descritto con straordinaria precisione da una delle soluzioni alle equazioni di Einstein trovate per la prima volta dal cosmologo belga Georges Lemaître nel 1927. Tuttavia, anche se l´universo di Lemaître è una bella descrizione, vogliamo sapere perché il nostro Universo cambiò marcia e cominciò ad accelerare qualche miliardo di anni fa. Perché, dunque? Un approccio molto in voga è quello di immaginare che il multiverso di regioni che possono emergere nello scenario dell´inflazione eterna copra tutte le possibilità e che ci sia capitato di abitare una di quelle regioni che cominciarono ad accelerare abbastanza tardi da permettere di evolversi alle galassie, alle stelle, ai pianeti e alla vita. Ancor più interessante potrebbe essere una nuova estensione della teoria di Einstein, sviluppata da Douglas Shaw e dal sottoscritto a Cambridge, che sta per essere pubblicata sulla rivista Physical Review Letters. Imponendo la limitazione della casualità in una cosmologia quantica siamo capaci di spiegare per la prima volta perché la recente accelerazione iniziò proprio in quel momento. Possiamo anche predire un´altra caratteristica molto precisa dell´espansione che i dati forniti dal satellite Planck saranno in grado di determinare. Dunque, la magica giara degli universi non si è ancora esaurita. Nei prossimi due anni vedremo molti nuovi dati che confermeranno o escluderanno una serie di possibili universi e ci aiuteranno a capire perché il nostro sia fatto così.
L´autore è professore all´Università di Cambridge e ha scritto The Book of Universes edito da Bodley Head (Traduzione di Luis Moriones)


Repubblica 9.3.11
I nuovi padri
La cultura  Lo psicanalista Massimo Recalcati "Così è cambiata la figura del padre"
“Dall’autorità all’affetto. Così è cambiato un simbolo
di “Luciana Sica

Lo psicanalista Recalcati racconta il suo ultimo saggio sulla metamorfosi dei ruoli nella nostra epoca
"La verità che può trasmettere è indebolita perché non vanta modelli universali"
"L´importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare"
"Ogni paternità è adottiva. Lo racconta anche Eastwood in Million Dollar Baby"

"Papi": è così che gli adolescenti di oggi chiamano il proprio genitore, con un nomignolo che suona come un sinonimo dello svuotamento di autorità della figura paterna. Per dirla meglio, con Massimo Recalcati: «La figura del padre ridotta a "papi", invece di sostenere il valore virtuoso del limite, ne autorizza la sua più totale dissoluzione. E riflette la tendenza di fondo della famiglia ipermoderna: entrambi i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli. Più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto, e dunque meno capaci di rappresentare ancora la differenza generazionale». Recalcati è uno psicoanalista, e lacaniano per giunta, eppure il suo Uomo senza inconscio ha venduto più di diecimila copie. Un successo dovuto alla capacità di raccontare i disagi della nostra civiltà senza un eccesso di tecnicismi scolastici.
Oggi esce il suo nuovo libro sulla paternità nell´epoca ipermoderna, sull´evaporazione del padre, secondo l´espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta. È un tema che incide sui cambiamenti della cultura occidentale, venendo a mancare il principio fondativo della famiglia e del corpo sociale – oltre a investire profondamente la condizione esistenziale di ciascuno. Già l´interrogativo del titolo allude a un vuoto difficilmente colmabile: Cosa resta del padre? (Cortina, pagg. 190, euro 14).
Cosa resta dell´uomo che assicurava l´ordine del mondo e della vita dei suoi figli?
«Certamente non l´ideale del Padre, il pater familias, il padre come erede in terra della potenza trascendente di Dio, e nemmeno il padre edipico celebrato da Freud come perno della realtà psichica. Non possiamo più ricorrere all´autorità simbolica del padre, che ormai si è dissolta: lo dicono gli psicoanalisti, i sociologi, i filosofi della politica... Si tratta allora di pensare al padre come "resto", non più Ideale normativo ma atto singolare e irripetibile, antagonista all´insegnamento esemplare, all´intenzione pedagogica. Quel che resta del padre ha la dimensione di una testimonianza etica, è l´incarnazione della possibilità di vivere ancora animati da passioni, vocazioni, progetti creativi. Seppure senza il ricorso alla fede nella parola dogmatica o attraverso sermoni morali».
Il padre è un uomo che sa ancora trasmettere il sentimento della speranza?
«È un uomo che dice "sì!" a ciò che esiste, senza sprofondare nell´abisso di un puro godimento distruttivo, senza rendere la vita equivalente alla volontà di morire o impazzire. La verità che può trasmettere è necessariamente indebolita, perché non vanta modelli esemplari o universali: la sua testimonianza infatti buca ogni esemplarità e ogni universalità, risultando eccentrica e anarchica nei confronti di qualunque retorica educativa. Quel che conta – e resta a un figlio – è come, nella buia notte di un mondo senza Dio, un padre mantenga acceso il fuoco della vita, non la manifestazione di una pura negazione repressiva, ma piuttosto la donazione della fiducia nell´avvenire».
In un rapporto che rimane del tutto asimmetrico?
«Assolutamente. Le farò un esempio molto semplice: l´insulto di un padre rivolto a un figlio può avere un effetto indelebile che il contrario non comporta in alcun modo... Quando Freud gli attribuiva il saper "tenere gli occhi chiusi", intendeva sottolineare il carattere "umanizzato" della Legge che rappresenta. Non ascoltare una parola insolente o non vedere un gesto osceno, a volte può essere la condizione per proseguire la partita... È il doppio compito della funzione paterna: introdurre un "no!" che sia davvero un "no!", e al tempo stesso saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione».
Famiglie monoparentali, ultracinquantenni che diventano mamme senza un compagno, coppie gay con figli, single con diritto all´adozione... C´era una volta lo schema edipico – sintetizzando: il padre "interdice" il godimento incestuoso e "separa" la madre dal figlio. Ma il mondo non sarà davvero "nuovo" e certi modelli ormai inservibili?
«Lo schema edipico continua ad avere il suo valore, se però si abbandona il teatrino familiare. Intesa come legame "naturale", la famiglia composta da una coppia eterosessuale e dai loro figli non è più il nucleo immobile dei legami sociali. Esistono organizzazioni sociali e culturali sempre più complesse, l´importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare che vuol dire umanizzare la vita, iscriverla in un´appartenenza, farla partecipare a una cultura di gruppo, darle una casa e cioè una radice, una disponibilità alla cura e alla presenza... Se non si può più trasmettere il vero senso della vita, è però ancora possibile mostrare di dare un senso alla vita».
Oltre a Freud e soprattutto Lacan, lei ricorre alla letteratura con Philip Roth (Patrimonio) e Cormac McCharty (La strada). E poi a quel cinema di Clint Eastwood che rompe appunto "l´ordine del sangue". Prendiamo Million Dollar Baby...
«Intanto ogni paternità, come amava ripetere Françoise Dolto, è sempre adottiva, è sempre un´adozione simbolica che trascende il sangue e la biologia... "Io voglio lei!". "Sarò il tuo allenatore!": Frankie riconosce il desiderio di Maggie di diventare un pugile professionista, di avere lui e non altri come allenatore, risponde alla sua domanda facendo eccezione alla propria etica ("Io non alleno ragazze!") e al funzionamento della sua palestra, frequentata solo da uomini. In questo modo l´atto della paternità si produce come rottura di un ordine universale: l´ordine della morale normativa, del sangue e della genealogia, l´ordine dei dogmi. Frankie accoglie Maggie, non l´abbandona come "una causa persa", alla fine sarà il suo infermiere, la sua luce, il suo padre amato».
Ma a cosa è legata oggi la funzione del padre?
«Se non può più essere legata al sangue, al sesso, alla biologia, alla discendenza genealogica, allora aveva forse ragione papa Luciani a sconvolgere secoli di teologia dicendo che Dio è anche madre».

La Stampa 9.3.11
Cézanne gioca a carte scoperte
Al Met di New York nelle sue tele la ribellione all’impressionismo e all’arte come mercato
di Ugo Nespolo

Ormai avvezzo a esser sommerso e quasi asfissiato da un giornaliero profluvio di mostre-monstre, vernici, fiere dell’arte, di quelle in cui si bada più alla quantità pur-che-sia e si è indifferenti all’odierna fame e sete di qualità e bellezza, precipito in una sorta di wonderland nel visitare in una tersa e gelida serata al Metropolitan Museum di New York la mostra «I giocatori di carte di Cézanne»
Perla di esposizione concepita e realizzata in collaborazione con la Courtauld Gallery di Londra questa mostra riunisce e mette a confronto per la prima volta la serie di dipinti che hanno per tema i Giocatori di Carte con un vasto e raro corredo di bozzetti e tele indispensabili per capirne il percorso e la portata creativa. Sono opere dipinte negli anni che vanno dal 1893 al 1896, gli ultimi della vita dell’artista (muore nel 1906) in cui concepisce e realizza un nucleo di tele che a mio parere posson essere considerate il manifesto teorico e pratico dell’antimpressionismo.
Volontariamente isolato ad Aix-enProvence Cézanne sembra mettere in atto, giorno dopo giorno, con la lentezza esecutiva che gli è propria, la più profonda e concreta reazione all’appiattimento e alla superficialità dei trionfanti ideali impressionisti e postimpressionisti. Vive silenziosamente la sua marginalità e proprio il ciclo di tele di questa mostra spiegano con chiarezza la chiave del suo clamoroso insuccesso commerciale.
Si può bene intuire come debba aver considerato i personaggi di George Seurat nient’altro che statiche sagome di cartone alla Grande Jatte e che tutte le credenze parascientifiche del tempo che portano al pointillisme non possano prendere il posto degli ideali di solidità, volume, meditazione, spazio monumentale, che gli stavano a cuore. Ad analizzare da vicino il contrasto di colori caldo-freddo, le bordature brune e nere tracciate con pennellate solide e sicure, si può quasi comprendere il suo sogno di rifare Poussin sulla natura e di riportare l'Impressionismo tra le braccia dei Maestri.
Merleau-Ponty chiarisce bene questo concetto dicendo che «…non serve a nulla opporre qui la distinzione di anima e corpo, di pensiero e visione dal momento che Cézanne ritorna all’esperienza primordiale…» e che attraverso l’uso dei colori caldi e del nero mostra come egli intenda rappresentare gli oggetti e i personaggi e «… ritrovarli dietro l’atmosfera». Mi sembra che questi modelli di giocatori-contadini siano come illuminati da dentro e che la loro fisicità riverberi una sorta di calma e luce interiore. Pare questa essere quella stessa calma che doveva guidare quest’uomo schivo ed appartato che detestava persino il contatto fisico e che aveva tramutato in odio e delusione la fraterna e sconfinata amicizia con Émile Zola reo di averlo raffigurato nel suo romanzo L’Oeuvre nei panni del pittore fallito Claude Lantier suicida di fronte alla rivelata incapacità di portare a termine un quadro.
La mostra m’illumina sulle ragioni dell’incomprensione e dell’insuccesso di un artista da considerare tra i maggiori della tradizione moderna e che si pone allo snodo tra l’eclissi dell’impressionismo dilagante e modaiolo e il nascente cubismo picassiano pronto a far propria quella lezione di meditata tridimensionalità e di nuovo spazio prospettico. New York è proprio il luogo adatto per ripensare all’ostracismo che ancora in tempi non lontani Clement Greenberg, il massimo critico statunitense e paladino della ricostruzione delle teorie artistiche fondate sullo storicismo-genetico, riservava a Paul Cézanne considerandolo un vero ostacolo al suo pensiero che voleva la storia dell’arte quasi un percorso lineare verso la conquista della planéité , quella sorta di smaterializzazione progressiva adatta e adattata a glorificare tra l’altro il trionfo non tutto giustificato dell’espressionismo astratto made in Usa.
La solidità «ontologica» di questi giocatori si erge davvero come un masso non valicabile sul glaciale binario di una forzata lettura storico-artistica lineare ed univoca. In queste sale animate da personaggi di masaccesca solidità non posso fare a meno di pensare all’epoca nostra che vive l’arbitrio e la pochezza del «tutto è arte» in quello che si è ormai avvezzi considerare un clima di noiosa avanzata postmodernità che produce per lo più un’arte «ininfluente», lontana dal sociale e del tutto schiava del mercato sempre pilotato.
Se l’opera di Monet Impression era servita a Louis Leroy a definire un movimento liberatorio lentamente scivolato nel superficiale e nel ripetitivo, la «cosalità» di Paul Cézanne è quella di dipingere «… come se non si fosse mai dipinto». Non si fatica a credere che dopo D.H. Lawrence la sua opera sconvolga e muti per sempre in profondo la poesia di R. M. Rilke. Elegie Duinesi eSonetti ad Orfeo ne mostreranno i segni ancora vent’anni dopo il 1907.

Corriere della Sera 9.3.11
La sfida di Pinault alla Biennale
Una riflessione su nomadismo e meticciato a Palazzo Grassi
di Paolo Conti

«Il Mondo vi appartiene» . Che slogan luminoso e ottimista, di questi tempi in cui la guerra è veramente alle porte di casa nostra e soprattutto si affaccia sul Mediterraneo. Eppure la frase tanto piena di speranza, e diretta alle nuove generazioni, viene dalla Signora dell’Adriatico, avamposto proprio del Mediterraneo, ovvero dalla Serenissima. Tra poche settimane Venezia riprenderà il suo ruolo di capitale mondiale dell’arte contemporanea. Tornerà la Biennale di Venezia (per venerdì è atteso l’annuncio ufficiale della lista degli artisti da parte del presidente Paolo Baratta e della curatrice Bice Curiger per la rassegna «ILLUMInazioni» ). E l’universo di François Pinault, grande industriale e altrettanto grande collezionista di arte contemporanea, metterà in tavola le sue carte tra Punta della Dogana, dove il 10 aprile aprirà la mostra «Elogio del dubbio» , e Palazzo Grassi, marchio doc di mostre eccellenti dai tempi in cui la padrona di casa era la Fiat. La mostra che aprirà il 2 giugno a Palazzo Grassi, per chiudere il 31 dicembre (tutti i giorni, dalle ore 10 alle ore 19, tranne il martedì), sarà «una riflessione sui ritmi vertiginosi degli sconvolgimenti del mondo moderno, nutriti dal nomadismo, dal cosmopolitismo e dal meticciato» , come si legge nella presentazione. Lo staff di Pinault per Punta della Dogana e Palazzo Grassi, coordinato dal nuovo direttore Martin Bethenod e dalla curatrice, Caroline Bourgeois, è al lavoro a pienissimo ritmo. Non c’è una competizione dichiarata con la Biennale (Bethenod parla di «grande dinamismo» dell’istituzione culturale italiana che fa di Venezia «una piattaforma privilegiata dell’arte contemporanea» ). Ma dal momento in cui Pinault ha deciso di «mettersi in mostra» a Venezia con due straordinari spazi, i mesi della Biennale rappresentano un obbligo culturale per lui. Se non una sfida. Ed eccoci a «Il mondo vi appartiene» . Annuncia proprio Bethenod, che ha ormai chiuso la sua casa parigina per diventare veneziano a tutti gli effetti: «"Il Mondo vi appartiene"è un punto di vista profondamente rinnovato sulla Collezione François Pinault. Più della metà degli artisti sono esposti per la prima volta nel contesto della collezione, un terzo ha meno di 40 anni. Questa nuova generazione è estremamente mobile: la maggior parte degli artisti presenti in mostra non vive nel suo Paese o nel continente dove è nata» . Torna il concetto di nomadismo, del cosmopolitismo, del meticciato annunciato prima. E quindi il direttore dell’impresa culturale italiana di Pinault arriva a una deduzione: «Tutto ciò ci testimonia che il mondo non è più organizzato attorno a un unico centro, come era fino alla fine del XX secolo, ma a numerosi centri di creazione, che comunicano tra di loro» . Una questione non secondaria mette in discussione la stessa definizione e concezione di «arte nazionale» così come l’abbiamo conosciuta nel Novecento e che ha portato, tanto per fare un esempio, alla collocazione dei padiglioni nazionali nei Giardini della Biennale. E alla restaurazione del Padiglione Italia (quest’anno affidato a Vittorio Sgarbi). Aggiunge Bethenod: «In un mondo così tanto spesso minacciato dalla contrattura e dal ripiegamento su se stessi, la mostra tenta un approccio al tema dell’identità che non si fonda sulla rivendicazione di una nazionalità o sull’affermazione di un’origine, ma sul modo di costruire la relazione con l’altro» . Come scrive nella presentazione la curatrice Bourgeois ecco «un meticciato che va dalla tortura mediatizzata con i dipinti di Ahmed Alsoudani, al persistere della perplessità ingenua e spontanea negli uomini con la scultura poetica di Friedrich Kunath, alla monumentalità fuori moda delle grandi figure comuniste con i quadri di Zhang Huan, dal denudamento della ricca cultura africana e afroamericana con El Anatsui e David Hammons, alla minaccia terrorista con l’opera di Huang Yong Ping, all’apocalisse annunciatrice di un mondo post-umano con Loris Gréaud e Matthew Day Jackson» . Trentanove artisti molto giovani e in gran parte esordienti sulle scene di Pinault. Ma tra loro non mancano nomi molto noti, ormai parte della storia dell’arte dei nostri tempi: Alighiero Boetti o Giuseppe Penone. E poi Maurizio Cattelan, Jeff Koons, David Hammons, Francesco Vezzoli e Joana Vasconcelos, autrice alla Biennale 2005 del monumentale lampadario composto da 14.000 assorbenti femminili interni OB. Tra le mille possibili suggestioni, una in particolare richiama i nostri tempi drammatici. Farhad Moshiri, classe 1962, nascita iraniana a Shiraz, vive e lavora tra Teheran e Parigi. Presenta una scritta multicolore su un muro in lieve, elegantissimo, rassicurante corsivo: Life is beautiful. Poi ti avvicini, guardi e scopri che tutto è formato da una serie di coltelli di diversa foggia e colore piantati sulla parete. La vita può essere meravigliosa. Ma a che prezzo.

Corriere della Sera 9.3.11
Michelangelo. Cercando l’assoluto
Il dialogo tra carta e marmo, dall’architettura al tormento spirituale attorno alla Pietà Rondanini
di Giorgia Rozza

Accade ai grandi vecchi dell’arte, una volta che hanno dimostrato nel corso della loro esistenza virtuosismi tecnici di pennello o scalpello capaci di rendere ai più alti livelli la bellezza delle forme, di lasciarsi andare alla ricerca sulla materia pura e di regalare alcuni dei massimi capolavori del genio umano. Il vecchio Michelangelo, abbandonando le polite levigatezze del David o della giovanile Pietà vaticana del 1499, cerca, attraverso la tecnica del non finito, di liberare lo spirito umano dal carcere della materia in piena sintonia con le teorie del Neoplatonismo cinquecentesco. E una delle opere in cui più evidente è lo sforzo di liberare dal marmo il sussulto del divino è la Pietà Rondanini, alla quale Michelangelo lavorò dagli anni ’ 50 del Cinquecento fino alla morte avvenuta nel 1564. Proprio attorno a questo capolavoro mai finito, così importante per Milano, che sembra testimoniare un modernissimo conflitto spirituale, ruota la mostra «L’Ultimo Michelangelo» , curata da Alessandro Rovetta e visitabile nelle sale 13-15 del Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco dal 18 marzo. Fino all’otto maggio, con lo stesso biglietto è possibile conoscere un altro volto dell’eclettica produzione del genio di Caprese visitando l’attigua mostra «Michelangelo architetto nei disegni della Casa Buonarroti» a cura di Pietro Ruschi. Anche qui, paradossalmente, la poetica del non finito ha un suo spazio, perché non sempre l’attività architettonica di Michelangelo si è incarnata in quella materia da lui tanto amata, il marmo delle Apuane, dove già scorgeva nei blocchi informi colonne, mensole e capitelli. Più spesso, a causa delle tempestose vicende politiche e dei rovesci dei governi che coinvolgevano gli Stati della Penisola in quegli anni, di quest’arte monumentale sono rimasti solo segni a matita. su fogli di carta scoloriti a indicare la genialità e l’infinitezza di vedute dell’artista di Caprese. Il rapporto carta-marmo è, perciò, essenziale nelle due mostre. Perché ogni realizzazione ha alle spalle bozzetti, disegni, prove a matita. Come afferma Alessandro Rovetta: «Questa è un’occasione unica e irripetibile di ammirare i disegni dell'ultimo Michelangelo posti di fianco alla Pietà Rondanini. Si tratta di disegni di soggetto religioso che hanno un trattamento stilistico non dissimile da quello utilizzato per la sua ultima scultura» . Ma le carte esposte non recheranno su di sé solo disegni, bensì anche le ultime Rime dell’artista di Caprese provenienti dalla Biblioteca Vaticana. Afferma ancora Rovetta: «Obiettivo della mostra è illustrare gli ultimi quindici anni di vita di Michelangelo. Oltre all’unico disegno preparatorio per la Pietà Rondanini, anticipato da una serie di studi che fin dagli anni Trenta evidenziano le preferenze compositive e tematiche culminate nella scultura oggi al Castello Sforzesco, sono presenti altri fogli sui quali Michelangelo affronta diversi soggetti sempre legati alla Passione e al legame tra Maria e Cristo. Spiccano in particolare sei drammatiche e commoventi Crocifissioni, considerate le sue ultime opere grafiche realizzate in una forma quasi trasfigurata, modernissima, molto simile al modo di lavorare il marmo della Rondanini» .


Corriere della Sera 9.3.11
Ricco e «pezzente», il doppio volto
Buonarroti era l’artista più pagato di sempre ma per tirchieria viveva in modo miserrimo di di Francesca Bonazzoli

Era un venerdì quando, il 18 febbraio 1564, Michelangelo moriva nella sua casa romana di Macel de’ Corvi. Negli ultimi anni della sua lunga vita aveva disegnato per gli amici un gran numero di Crocifissi e Pietà, ovvero soggetti di devozione del corpo santo di Cristo cui era stato iniziato da Vittoria Colonna, la marchesa che riuniva intorno a sé una cerchia di cattolici che si battevano per la riforma morale della Chiesa. Alcuni, come il cardinale Reginald Pole o il cardinale Morrone, subirono persecuzioni da parte dell’Inquisizione. Non sappiamo se anche Michelangelo fosse spiato, ma di sicuro c’è che immediatamente, appena la notizia della morte dell’artista giunse all’orecchio della polizia del Papa, un giudice e un notaio entrarono nella sua casa prima dell’arrivo del nipote Leonardo da Firenze. Attraverso l’inventario che stilarono, sappiamo che «in una stanza a basso» c’erano tre statue: un san Pietro, un Cristo portacroce e «un’altra statua principiata per uno Christo con un’altra figura sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite» , ovvero la cosiddetta Pietà Rondanini. In casa c’erano anche dieci cartoni preparatori tra i quali uno con una Pietà; ventiquattro camicie di cui cinque nuove; un certo numero di barili vuoti, mezzo barile d’aceto e un cavallo. Nessun gioiello, né mobili preziosi, né una collezione d’arte. Però c’era un armadio chiuso a chiave che conteneva ottomiladuecentottantanove ducati d’oro, l’equivalente di quasi trenta chili del prezioso metallo. Questo asciutto inventario dice molto della personalità di Michelangelo, uno degli artisti più ricchi e tirchi mai esistiti. Il suo biografo Ascanio Condivi scrive che non viveva in frugalità, ma in modo miserrimo, e andava a letto con gli stivali indossandoli così a lungo che quando finalmente li toglieva, tirava via anche la pelle. Persino lo zio Buonarroto (fratello del padre di Michelangelo), facendogli visita a Roma, rimase stupito della miseria in cui viveva e gli scrisse quanto questa fosse brutta, un vizio che dispiaceva a Dio e alla gente. Ma Michelangelo non se ne curava e spiegò al padre che era contento di vivere in povertà senza darsi pensiero né della vita, né dell’onore e del mondo. Le sue condizioni migliorarono comunque molto dopo gli affreschi nel soffitto della Sistina, tanto che verso la fine del 1515 disponeva di un capitale liquido di tremilaottocento fiorini d’oro. Tuttavia già a ventidue anni, quando ricevette la commissione per la Pietà oggi in Vaticano, i suoi prezzi erano molto alti. Il papa Giulio II, per cui iniziò a lavorare nel 1505, a trent’anni, lo ricompensava con pagamenti inconcepibili per qualsiasi altro artista: tanto per avere un’idea, le sue spese per i materiali erodevano solo un terzo del compenso, mentre per gli altri artisti la media era almeno del doppio. Il papa Paolo III, poi, lo pagava più di quanto Piero Soderini aveva ricevuto per la carica di gonfaloniere a vita di Firenze e per vincolarlo al suo servizio gli concesse un vitalizio di mille duecento scudi annuali, una cifra molto importante, di cui seicento provenienti dal reddito del passaggio del Po, presso Piacenza. Paradossalmente la ricchezza contribuiva ad aumentare l’ansietà di Michelangelo. L’artista considerava infatti l’avarizia come il peccato più grande, motivo per cui non mise mai in banca i suoi soldi a fruttare interessi. Li investiva soprattutto in proprietà immobiliari il cui valore, dopo la morte, era stimato intorno ai dodicimiladuecentoquaranta fiorini, comparabile a quello di molti patrizi del tempo. Pare che Michelangelo, in tutta la vita, avesse guadagnato l’equivalente di metà del capitale di Agostino Chigi, che negli anni Dieci del Cinquecento era il più ricco banchiere del mondo. Una delle ragioni di tanta tirchieria era l’ossessione di ripristinare il prestigio della famiglia Buonarroti che era stata eleggibile per le cariche pubbliche da almeno sei generazioni. Tuttavia né il padre, né lo zio erano più stati in grado di pagare le tasse e quindi di ricoprire uffici pubblici. Michelangelo se ne vergognava e fece in modo che anche grazie agli ottimi matrimoni (con famiglie nobiliari) dei nipoti Francesca e Leonardo, la famiglia tornasse a risalire la scala sociale. Solo nell’ultima parte della vita si dedicò alla beneficenza perché l’altra sua ossessione, quella senile, riguardava la salvezza dell’anima. Ma c’è una testimonianza che ci rende più simpatica la tirchieria di Michelangelo: nell’orazione pronunciata per il funerale del maestro a Firenze, Benedetto Varchi disse che Michelangelo regalò sempre disegni, cartoni e statue ai suoi amici e parenti. Michelangelo faceva dunque pagare, e a caro prezzo, solo i ricchi: i detestati Medici, signori di Firenze, e i detestati nove papi, signori di Roma, che servì

Corriere della Sera 9.3.11
Geometra e muratore di se stesso Il talento concreto dei suoi progetti
di Philippe Daverio

Certo è che Michelangelo Buonarroti non ha mai avuto la vita facile. Ed è forse per questo motivo che ha campato fino a novant’anni in un’epoca dove si abbandonava la vita terrena ben prima. La grinta del suo esistere contro le avversità dell’ispirazione, del talento e delle committenze è la sua vera molla vitale. E questa grinta appare immediata guardando i suoi disegni d’architettura presentati in una bella mostra nella sala Viscontea del Castello Sforzesco. Fa riflettere il suo segno, fa pensare il suo percorso progettuale. Se la O che Giotto bambino traccia perfetta, secondo la leggenda, come se avesse un compasso incorporato nelle braccia rende inizialmente antipatico l’inventore della lingua visiva italiana, come sempre stanno antipatici quelli che sono provvisti d’un talento totale e non sofferto, guardare un reticolato per numeri tracciato con mano veloce da Michelangelo genera simpatia etimologica: ci si rende conto che lui patisce come noi tutti nel dovere stendere una quadrettatura precisa. Quindi la sua bravura non è dovuta a talento automatico ma a percorsi celebrali intelligenti che lo portano nella direzione verso la quale lo guidano insieme la sensibilità e l’idea. Talvolta il segno è forte e determinato come quello moderno d’un Sironi, talvolta la mano non sembra essere vittima ubbidiente della mente e il ricciolo d’una colonna a destra è inesorabilmente diverso da quello di sinistra. La mano non corre da sola, mai. È sempre l’idea che deve spingerla nell’azione. A mano libera le parallele fanno fatica a non toccarsi. È il Michelangelo umano come noi. Poi si applica, usa la concentrazione e forse pure il righello e i contorni diventano evidenti mentre il segno che traccia per indicare le scanalature della colonna vengono interrotti da passaggi successivi di colpi di penna come lo farà secoli dopo Van Gogh. È fin troppo evidente il modo di trattare il foglio di carta, nello sgrezzare gli schizzi, a pari modo del blocco di marmo all’inizio d’una impresa scultorea. Il percorso progettuale è ancor più interessante perché ancor più essenziale. Quasi tutti gli architetti, quando si trovano nella libertà creativa del foglio ch’è ben più ampia di quella della statica o dell’econometria della realizzazione, lasciano correre la fantasia verso ipotesi non realizzabili che non sono altro che terreno d’esercitazione. In un secondo momento tornano alla concentrazione necessaria per un progetto plausibile. Michelangelo, così come non lascia correre libera la mano, non lascia neppure correre libera la mente. Ogni disegno, anche il più piccolo, è drasticamente concreto. Tutto ciò che progetta è realizzabile, anzi spesso viene indicato con le quote e gli spessori, misure comprese. Così come si presenta il disegno definitivo, anche nella casualità della disposizione sul foglio, esso può essere eseguito dal capomastro o dal lapicida. Se invece il suo destino è più aulico, se deve cioè essere proposto al committente, assume un aspetto più finito, si carica di ombre all’acquarello o all’inchiostro. Ma sempre senza condiscendenze di sorta. Viene immediato il confronto con i suoi contemporanei, gli architetti che, da Bramante a Palladio, avranno fortune ben più ampie presso i committenti. Loro conoscono l’arte della presentazione. Lui è preso da impegni ben più alti. E corre automatica pure la voglia di confronto col suo opposto, il Leonardo presente nella nostra coscienza visiva attraverso le centinaia di disegni dei suoi lunghi diari. Leonardo è sperimentatore, visionario per un certo verso, e crede ad una sorta di gnosi aristotelica, quella che conosce per via della percezione; corre nella fantasia, il che sembra l’opposto delle sue premesse teoriche. Michelangelo è teoricamente neoplatonico, trasferisce l’idea nella concretezza della materia. E mentre ci si aspetterebbe da questa impostazione filosofica convinta l’evolversi d’un libero percorso di creatività astratta, cala in una concretezza costante, accetta le regole strette del costruibile, si cimenta nella definizione del dettaglio che vuole essere realizzabile. Senza fronzoli, senza caricature, in un realismo dove domina sempre una convinta concettualità degli equilibri. Leonardo immagina, e qualcuno un giorno farà. Michelangelo è il geometra di se stesso, il suo proprio muratore. Forse va reinterpretata la scuola neoplatonica a cavallo fra Quattro e Cinquecento.

«Marco Bellocchio... sottolinea l’importanza dell’archivio storico di Cinecittà, "tesoro incredibile che deve restare proprietà dello Stato"» 
La Stampa 9.3.11
Cinecittà chiude? Scoppia la rivolta
Infuria la polemica sui tagli del Fus, in campo anche Benigni
di Fulvia Caprara

La fabbrica dei sogni rischia di chiudere i battenti, il mondo del cinema si mobilita, il governo corre ai ripari: «L’impegno dichiara il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Maria Giro non sarà nè dovrà essere quello di far sopravvivere Cinecittà limitandone la missione, ma di farla funzionare bene, come ha dimostrato in questi ultimi anni». L’obiettivo, assicura Giro, sarà di fare «ogni sforzo affinché Cinecittà Luce possa continuare ad essere un marchio e una realtà fra i più antichi e prestigiosi del cinema italiano. In questi anni Cinecittà ha risanato i suoi conti, snellito la sua struttura e precisato la sua missione».
L’appello più accorato è di Roberto Benigni e di sua moglie Nicoletta Braschi: «Leggiamo sui giornali della probabile chiusura di Cinecittà Luce. E’ proprio una brutta notizia. Là dentro c’è tutta la nostra memoria, tutti i nostri sogni fabbricati per uomini svegli. Un archivio immenso, la nostra storia. Ma come si fa a chiudere la Storia?». Il taglio che leverebbe l’ossigeno a Cinecittà riguarda la diminuzione delle risorse del Fus, il Fondo Unico dello Spettacolo. I fondi destinati agli studi cinematografici scenderebbero, per il 2011, a quota 7 milioni e mezzo di euro. Perfino lo stesso Ministero se ne rende conto, e ieri pomeriggio, nel tentativo di arginare il fiume delle polemiche ha fatto sapere sapere che non è stata ventilata nessuna ipotesi di chiusura, anche se le risorse a disposizione sono effettivamente insufficienti: «Il contributo a Cinecittà Luce non potrà verosimilmente superare gli 8 milioni di euro». Non esiste volontà di chiudere «questa importante realtà della cultura audiovisiva nazionale», ma certo risorse così scarse sono «del tutto insufficienti a garantire qualsiasi attività e a mantenere integra la forza lavoro attualmente in opera». Una situazione drammatica che, se il Fus non verrà riportato almeno al livello del 2010, pari a 414 milioni di euro, coinvolgerà in tempi brevi «altre importanti istituzioni culturali italiane».
Per una volta la protesta è unanime, le voci politiche sono tutte d’accordo. Da quella di Maurizio Gasparri, presidente del gruppo Pdl al Senato, che invita il governo a «raccogliere il grido d’allarme che arriva da Cinecittà e dall’Istituto Luce» a quella del presidente della Commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli che giudica l’operazione «vagamente barbarica». Secondo Francesco Rutelli esiste un legame tra il provvedimento anti-Cinecittà e il vuoto politico creato dall’assenza del ministro Sandro Bondi. «Sarebbe un amaro paradosso osserva l’ex-segretario del Pd Walter Veltroni se, proprio mentre l’Italia festeggia il centocinquantesimo della sua nascita, dovessimo assistere alla chiusura del più antico e prestigioso polo dell’industria della cultura e dello spettacolo». Il consigliere Udc alla Regione Lazio Pietro Sbardella parla di «emergenza civile». Sul fronte dei registi, accanto a Benigni, scendono in campo Marco Bellocchio, che sottolinea l’importanza dell’archivio storico di Cinecittà, «tesoro incredibile che deve restare proprietà dello Stato», e poi Gianni Amelio, Saverio Costanzo, Mimmo Calopresti. Secondo il direttore della Mostra di Venezia Marco Müller la chiusura di Cinecittà provocherebbe l’«azzoppamento di tutto il made in Italy cinematografico».

martedì 8 marzo 2011

La giornata internazionale delle donne si celebra dal 1977. Venne indetta dalle Nazioni Unite che riconobbe «gli sforzi della donna in favore della pace e la necessità della piena e paritaria partecipazione alla vita civile e sociale».Pane e rose Nel 1908 a New York decine di migliaia di operaie protestarono con una marcia per ottenere lavoro e paga più dignitosi, per il diritto di voto e l’abolizione del lavoro minorile. Lo slogan era «Bread and Roses»: il pane e le rose.

l’Unità 8.3.11
La giornata delle donne è anche in onore delle lavoratrici uccise nel rogo di Manhattan
A ricostruire le identità di quelle ragazze, molte italiane, è stato il ricercatore Michael Hirsch
Cancellate per un secolo Ora hanno un nome le operaie di New York
Un ricercatore ricostruisce le identità delle vittime del rogo di New York: era il 25 marzo del 1911. Nell’incendio persero la vita 129 donne e 17 uomini. Molte di loro erano poco più che bambine.
di Viviana Devoto


Erano operaie sbarcate a Ellis Island, giovani immigrate e senza documenti, intimidite dalle già severe regole dell'America delle opportunità. Il fuoco fu così violento che impedì il riconoscimento delle identità, lasciando ai parenti soltanto la certezza dei letti vuoti, senza un ritorno dopo le dodici ore di lavoro. Era il 25 marzo. Morirono 129 donne e 17 uomini nel rogo della fabbrica Triangle Shirtwaist, che produceva tessuti di media qualità nel cuore di Manhattan, nel 1911. Morirono come topi, chiuse a chiave nello stabilimento dai padroni che temevano potessero allontanarsi o rubare. Alcune per sfuggire alle fiamme si lanciarono dalla finestra. L'incendio aprì uno squarcio, doloroso e tragico, nella “Mela” pre New Deal. Mostrò di colpo, di colpo come una vampata, le condizioni di lavoro alle quali erano costretti gli immigrati, italiani, russi, rumeni, scampati ad altre miserie e accecati dall’“oro” americano.
NOMI SCONOSCIUTI
Un secolo dopo, a ridare volto ai nomi sconosciuti all'indifferenza della cronaca, un ricercatore che si appassionò a quell'elenco di corpi carbonizzati dal fuoco e dalla storia. Michael Hirsch ha scoperto che alcune vittime vivevano nel suo quartiere e si è improvvisato rabdomante di memorie facendo la spola per anni tra il cimitero di Evergreens, al confine tra il Brooklyn e Queens dove le vittime sono state sepolte, le case dei parenti di quarta generazione (spingendosi fino in Arizona, a intervistare la nipote di una vittima di origine siciliana, Maria Giuseppa Lauletti) e gli archivi del tempo che raccontavano di quel fuoco in un "tranquillo, assolato, pomeriggio di marzo" e vicino all'orario di chiusura della fabbrica.
LA RELAZIONE DELLA CROCE ROSSA
Non fu facile, anche perché il più attendibile documento prodotto dopo la tragedia, la relazione della Croce Rossa, era appositamente impreciso nel tentativo di proteggere l'anonimato delle famiglie che ricevevano in nero i pagamenti in contanti. Con i nomi di Max Fiorin, Fannie Rosen Dora Evans e Josephine Cammarata, l'elenco delle 146 vittime è ora completo: «Riteniamo che la sua lista sia il migliore documento mai prodotto sulla questione», spiega Curtis Lyons, direttore del Centro per Kheel Labor-Management Documentazione e Archivio della Cornell University, che protegge uno degli archivi più approfonditi circa il "triangolo del fuoco".
Il 25 marzo la città ricorderà l'episodio della storia che denunciò gli anfratti avidi dell'inizio della rivoluzione industriale in America: il loft a un passo da Washington Square dove lavoravano cinquecento impiegati prese fuoco lasciando soltanto le finestre all'ottavo e nono piano dell'edificio come unica via di scampo.
«Il rogo è stato uno degli eventi più straziante nella storia di New York, un incendio che ha avuto una profonda influenza su codici di costruzione, le leggi sul lavoro, la politica e l'inizio del New Deal due decenni più tardi», commenta il New York Times ricordando il corteo commosso di cittadini dopo la tragedia.
DALLA MIA FINESTRA...
Il lavoro appassionato di Hirsch, che ricorda la puntigliosità di Elio Petri nel raccontare la tragedia delle duecento giovani in coda per un posto da dattilografa in “Roma ore 11”, era diventata un’ossessione, un dovere: «Dalla mia finestra, vedo le scale che Lizzie Adler aveva probabilmente sceso per andare in fabbrica il giorno del fuoco». Il rapporto del Dipartimento del Lavoro americano rileva numeri che cento anni dopo non confortano, rispetto allo sfruttamento di operai immigrati: il 67% delle fabbriche di abbigliamento di Los Angeles e il 63% delle fabbriche di abbigliamento di New York violano salario minimo e le leggi di lavoro straordinario. Altre Lizzie resteranno anonime.

l’Unità 8.3.11
«Uomini, tocca a voi. Ribellatevi a Berlusconi e alla sua orgia di Stato»
Come il marito, Josè Saramago, Pilar del Rio lancia una sfida pubblica: «Cari maschi non accettate che un Paese sia infangato da un uomo con problemi di autostima. Scendete in strada per dire basta. Saremo con voi»
di Pilar Del Rio Saramago


Un giorno, anni fa, lo scrittore portoghese – e anche italiano, perché no? – Josè Saramago lanciò una sfida pubblica: che gli uomini uscissero in strada, solo gli uomini, per dire alto e forte che loro non maltrattavano le donne, che non accettavano la vessazione come moneta di scambio nelle relazioni fra generi.
Aggiunse che se le donne sono le vittime, sono gli uomini ad avere il problema perché sono gli uomini a maltrattare. Proprio per questo gli uomini rispettosi, quelli che trattano le donne come loro stessi vorrebbero essere trattati, devono farsi sentire senza sosta per non essere confusi con gli altri: quelli che ancora non si sono resi conto né delle dimensioni del
loro crimine, né di quanto diventano sporchi nell'ignorare che le donne non sono cose e hanno pienezza di diritti: possono dire «io» senza che nessuno le uccida, le disprezzi o le segreghi. Uguali davanti alla legge, uguali nei diritti e nei doveri, tanto in casa quanto nel lavoro e nel governo comune della società.
Ebbe successo, Saramago: in varie città – Sevilla e Montevideo in testa – migliaia di uomini rispettosi ed educati uscirono per strada condannando il flagello sociale dei maltrattamenti e denunciando l’uso che della donna fanno certi mezzi di comunicazione, condannando un certo modo di sentirsi uomo, meglio sarebbe dire maschio, un modo assolutamente incompatibile con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
In quelle manifestazioni il nome di Berlusconi era presente. Non per gli scandali, né per incidenti come quelli che gli sono occorsi di recente, ma per l'indecenza del suo comportamento civile e l'assenza di etica che lui e i suoi accoliti imponevano come norma nei mezzi di comunicazione dei quali andava impadronendosi. Pubblici o privati che fossero, sempre che la distinzione sia possibile visto che tutti i canali televisivi sono concessioni pubbliche.
Quelle manifestazioni che si ripetono anno dopo anno perché anche le coscienze più dure capiscano che le donne sono compagne e non mercanzia per l'uso personale del maschio e quel messaggio di Saramago, valgono oggi per l'Italia, la Grande Italia di Verdi, che ha visto centinaia di migliaia di donne, come un’immensa bandiera bianca spiegata, in strada per dire no a un modo di governare che non rispetta né gli esseri umani, né i valori che ci hanno fatto progredire lungo i secoli allontanandoci dall’orda e facendoci diventare comunità.
Per questo, e nello spirito che abitava in Josè Saramago e che la sua nobiltà ingigantiva, mi azzardo a suggerire – ora che le donne italiane, compagne nell' anelito per un modo più pulito più giusto e più bello, si sono espresse e si esprimono ogni giorno – che siano gli uomini a uscire per strada, solo gli uomini, per dire a Berlusconi che le loro madri, figlie, spose, amiche, amanti non possono essere trattare così.
Nemmeno per scherzo. Che lo Stato non è un’orgia, che la schiavitù è finita da secoli, che le malattie fisiche e psichiche si possono curare, che un Paese non può essere infangato perché una persona ha problemi di autostima e quella mancanza di autostima la obbliga a collezionare corpi come se i corpi non fossero animati e, tanto spesso, corrotti con lusinghe e minacce.
Sì: gli uomini che non accettano la distorsione democratica come norma di governo, lo sperpero, l'arbitrio e la mancanza di rispetto verso i propri simili. Ecco, quegli uomini non potranno far altro che organizzarsi e scendere per strada per dire ora basta, come hanno fatto le donne italiane.
Quel giorno, speciale e importantissimo, in cui gli uomini scenderanno in piazza per dire di non essere e di non voler essere Berlusconi, noi donne dai lati delle strade li applaudiremo e li riempiremo di fiori. Dopo potremo incontrarci, da pari a pari, per avanzare insieme nel processo di umanizzazione che Berlusconi e i suoi frenarono con violenza, con le peggiori astuzie e i più miserabili artifici.
Uomini, compagni, amici, amanti, mariti, fratelli, padri: se non siete uguali a coloro che ripudiamo, se ci amate e ci rispettate, se partecipate ai nostri sogni di un mondo migliore, ditelo senza paura. Le donne non temono l’orco ne i suoi seguaci: sanno che tutti insieme riusciremo a fare in modo che tornino nelle caverne e tra loro, solo tra loro, liberino i loro istinti, giochino a quel che vogliono, bevano quel che gli va e ridano fino alla fine dei tempi delle loro stupide barzellette. Agli altri, a noi, questi giochi non divertono. Non apparteniamo a quella sottospecie: siamo Italia, la terra di Dante, della poesia che innamora, della musica che consola, anima i nostri corpi ed eleva i nostri spiriti. Siamo la patria dell'arte: lo diremo molto chiaro, in modo che lo capiscano anche coloro che l’abbruttimento ha reso sordi.
Vogliamo, uomini, che siate nostri simili. Vi offriremo fiori quando uscirete per strada per dire che nessuno vi paragoni a quelli che oggi comandano e disgovernano, che voi siete nel presente e nel futuro, siete i nostri compagni dell'anima, amatissimi compagni.

l’Unità 8.3.11
Intervista a Luciana Castellina
«Non date la colpa a Ruby, il Cavaliere offende prima di tutto i maschi»
Luciana Castellina: «Vorrei che la politica tornasse a mettere in contatto mondi diversi, a me il Pci evitò di diventare stupida e cieca»
di Jolanda Bufalini


In questa storia di Ruby e Berlusconi, finisce che la colpa è di Ruby», Luciana Castellina, 82 anni meravigliosamente portati, è in giro per l’Italia a presentare «La scoperta del mondo», “romanzo” di formazione dalle partite a tennis con Anna Maria Mussolini all’impegno nel Pci. Ma fra poco uscirà, sull’onda del successo francese, anche il suo «Indignatevi», per l’editore Aliberti.
Josè Saramago chiese agli uomini di scendere in piazza per dire “Non sono io che sfrutto e umilio”. «È quel che dico anch’ io, nella vicenda di Berlusconi e Ruby mi sembra che la prima identità sessuale ad essere offesa sia quella maschile. Sono loro che dovrebbero essere indignati in prima persona e meraviglia che non si sentano offesi. Andare in piazza in solidarietà delle donne è poco, anche perché va a finire che la colpa di questa brutta storia ricade su Ruby».
In “La scoperta del mondo” c’è una fotografia con la didascalia nonna, mamma, figlia e nipote. E tua figlia Lucrezia ha fatto la prefazione del libro. Una scelta di genere, matrilineare? «È stata Lucrezia a propormi di scrivere e mi ha fatto molto piacere. Ma non ci sono gli uomini della famiglia, me lo ha fatto notare mio nipote, Alfredo Reichlin junior. Eppure la voglia di raccontare mi è venuta proprio dai nipoti. Per loro la mia scelta comunista è una bizzarria e quando sentono che anche il nonno Alfredo era comunista si stupiscono, “non è possibile ... una persona così seria”».
È difficile spiegare la tua scelta di vita, ora che il comunismo non esiste più. «Non c’è mai stato un assassinio della storia come questo, con il passaggio del millennio il Pci è stato espulso dalla storia. E i ragazzi sembrano dei rottamatori, non gli interessano né il passato né il futuro. Il presente è l’unica dimensione e Internet dà l’illusione che non ci sia nulla da scoprire. È drammatico».
Abbiamo iniziato con Saramago, autore di “Cecità”, e nel tuo libro racconti una sorta di cecità e poi la scoperta attraverso l’impegno politico del mondo.
«Il Pci mi ha evitato di essere stupida e cieca. Mi ha fatto incontrare persone diverse da me che non avrei mai potuto conoscere se fossi rimasta chiusa nel mio ambiente, di scoprire la Jugoslavia di Tito e l’Indonesia che combatteva contro il colonialismo olandese. Io mi sento schifosamente fortunata perché la nostra è stata una generazione felice, scoprivamo il mondo perché eravamo sicuri di poterlo cambiare. La prima proposta di Alfredo, come titolo del libro, era “La felicità”. E anche Lucrezia lo scrive: “La nostra è una generazione materialmente più fortunata, ma la vostra è stata felice”». Con il lavoro politico c’è la scoperta persino geografica di Roma: Garbatella, Tiburtino III, Primavalle...
«Nelle borgate, quando avvicinavamo le donne che magari si prostituivano per necessità, questa dimensione mondiale dava il senso di appartenere a un grande movimento. Invece oggi la politica è tornata ad essere un affare di lor signori».
Nel tuo diario adoloscenziale hai trovato un appunto, 8 marzo 1947, Sibilla
Aleramo. Cosa era per te l’8 marzo?
«La nostra è la generazione in cui le donne volevano assomigliare agli uomini, cercavamo di dissimulare la femminilità per essere come loro. È stata Lucrezia a farmi capire, molto dopo, che essere donna non è un disvalore ma un altro valore».
Però tu stessa, ragazza, ti stupisci quando tua mamma, solo nel dopo guerra, si inventa un lavoro. «Mia madre aveva già 40 anni quando ha iniziato a lavorare. E altrettanto incredibile mi sembrò la discussione, nel 1948, sul voto alle donne. Con il passaggio della Seconda guerra mondiale, il cambiamento diventò veloce».
Racconti anche, divertita, un Pci bigotto, molto attento alla moralità delle ragazze. Tu venivi da un ambiente anticonformista.
«Per mia madre i vicini erano “così borghesi!”, nel senso di conformisti. Poi sono stata io a sentirmi dire, nelle sezioni, che ero borghese. Era una connotazione di classe e, secondo me, una diffidenza sacrosanta».
Andasti a costruire la ferrovia in Jugoslavia, dimostrando di non essere da meno dal punto di vista del lavoro manuale.
«Italo Calvino, che faceva le corrispondenze per l’Unità, lo scrisse: “Se pensate che sia uno scherzo sbagliate”.
Italo Calvino...
«Io allora non sapevo chi fosse Calvino ma anche lui non sapeva ancora di essere Italo Calvino». Nelle tue prime avventure comuniste c’erano anche Dorazio e Vespignani, i fratelli Bertelli ... fior di artisti e intellettuali.
«Erano tutti coltissimi e io avevo una grande soggezione, anche questo è cambiato, allora la politica era inscindibile dalla cultura». C’è un altro notevole ritratto di donna nel tuo libro, quello di Anna Maria Mussolini.
«Eravamo in classe insieme e lei era arrogante ma simpatica. Era il terrore del professore, riferiva le cose che sentiva in casa, per esempio il giudizio del Duce su Vittorio Emanuele: “Questo re è un cretino”. Sapeva che non sarebbe stata punita e così, quando succedeva qualcosa in classe, diceva subito: “professore sono stata io”».

l’Unità 8.3.11
Anna Finocchiaro
«Dalle donne alla giustizia il delirio di onnipotenza del premier è senza confini»
La senatrice Pd «Una riforma costituzionale non può scaturire da un risentimento personale. La piazza ha svegliato il Paese apatico»
di Maria Zegarelli


Un filo che tiene tutto insieme», le inchieste e questa riforma annunciata più come una minaccia contro la magistratura che come un intervento per risolvere i problemi veri del paese. Solo che stavolta è cambiato qualcosa, dice Anna Finocchiaro, capogruppo Pd al Senato: c’è stato il 13 febbraio e quel movimento è più vivo che mai. Risponde anche a chi accusa il Pd di non voler cambiare nulla: «Siamo pronti ad aprire il confronto ma ripartendo dall’idea della Bicamerale: una giurisdizione unica per magistrati ordinari, contabili e amministrativi; un unico organo di autogoverno e il controllo disciplinare affidato ad un’autorità che per selezione e qualità si rifaccia ai criteri della Corte Costizionale». Questo 8 marzo arriva dopo la grande manifestazione del 13 febbraio. Il Ruby-gate e l’uso delle donne da parte del potere, l’inchiesta dalla magistratura e l’annuncio di una riforma “epocale” della giustizia. Tutto si lega?
«Tutto si lega e si tiene insieme grazie alle due ossessioni del premier, le donne e la magistratura. Una riforma costituzionale avrebbe bisogno di un largo consenso e invece viene usata impropriamente come una clava, più volte minacciata e poi ritirata. Stavolta mi sembra che siamo arrivati al passo definitivo e che approderà in Parlamento, ma nel modo peggiore perché una riforma costituzionale non può passare attraverso un risentimento personale».
Finocchiaro, lei è un ex magistrato, dirigente del Pd e il 13 febbraio era in piazza. Praticamente rappresenta tutto ciò contro cui si sono espresse le donne Pdl, definendo quelle come lei «accecate da furore ideologico». «Non sono mai stata mossa dal furore ideologico e non intendo reagire proprio oggi a questa provocazione. Ho però il dovere politico di sostenere alcune posizioni, la prima delle quali è quella che a testimoniare in piazza c’erano donne di diversissime fedi politiche e esperienze di vita. Erano lì per la dignità delle donne frantumata dal premier con i suoi comportamenti. Non capisco come le donne del governo possano sentirsi offese da quelle piazza che invece avrebbero dovuto sforzarsi di capire meglio. L’altra questione è che stavolta i comportamenti personali, ispirati da quel modo di guardare alle donne, potrebbero configurare un illecito penale e il punto su cui il premier salda la sua ossessione sulla magistratura italiana. Qui siamo di fronte ad una visione berlusconiana illiberare del potere e ad un delirio di onnipotenza che ha nei comportamenti privati delle ricadute pesanti anche sul pubblico».
Voi del Pd pensate davvero che possa crearsi un forte movimento di opinione sulla riforma della giustizia? «In questo paese quella che sembrava una sorta di rassegnata apatia, anche motivata dalle condizioni di vita delle persone che riguardano la precarietà del lavoro e la difficoltà a far fronte alla quotidianità, oggi sembra si stia trasformando in voglia di partecipazione, la piazza del 13 e la raccolta di firma del Pd ci hanno dato un segnale molto positivo. Sono convinta che ne arriverà un altro anche con la manifestazione del 12 marzo per la scuola. Penso, quindi, che usando le parole giuste e spiegando quale è la posta in gioco con la riforma della giustizia l’Italia saprà rendersi conto di quale sia il livello di aggressione al sistema democratico che sta lanciando Berlusconi».
Quali sono i punti critici di questa riforma ancora non presentata? «Con questa riforma si ridefinisce il ruolo della magistratura nell’equilibrio costituzionale. Quando si riducono spazi per un potere inevitabilmente ce ne è un altro che prevale, senza il controllo e i limiti che l’esistenza dell’altro potevano constrastare». Facciamo un esempio.
«In questa riforma sembra che ci sia una attribuzione alla polizia giudiziaria e a quella inquirente di uno spazio di autonomia rispetto alla magistratura. Lo capiranno gli italiani che questo significherà una riduzione delle garanzie nel corso delle indagini? Lo sarà necessariamente perché, pur avendo una polizia democratica, è ovvio che non ci saranno le garanzie di controllo oggi esercitato dal magistrato».
C’è chi vi accusa, compreso Fini, di essere conservatori tanto quanto Berlusconi. «Fini fa propaganda al suo movimento politico. Noi non diciamo no alle riforme, diciamo no a questa riforma perché l’innovazione non è quella indicata da Berlusconi che, al contrario, ripercorre un passato di disequilibrio tra i poteri dello Stato. Credo che dovremmo tornare a coltivare l’idea nata nella Bicamerale: giurisdizione unica, un’unica magistratura ordinaria, contabile e amministrativa con le stesse garanzie di autonomia e indipendenza, con un sistema unico di autogoverno. In questo quadro si potrebbe pensare ad una responsabilità disciplinare di tutti i magistrati affidata ad un organo esterno, con le stesse qualità e garanzie della Corte costituzionale. Le sembra che non siamo disposti a fare le riforme?».

l’Unità 8.3.11
Le donne e gli altri movimenti
8 marzo della dignità e della riscossa
di Barbara Pollastrini


La ragione per festeggiare c'è, siamo di nuovo in tante a rialzare la testa e a pensare che il conflitto se solitario è spesso doloroso, se collettivo può dare persino gioia. In fondo anche gli anniversari sono il simbolo di conflitti. Quasi sempre. Come per quel rogo di NewYork dove 129 lavoratrici persero la vita, rinchiuse dentro la fabbrica da un padrone stanco della mancata produttività! Cinquant’anni prima l’Italia era divenuta uno Stato unitario, in un clima dove delle donne e dei loro diritti non si occupavano che poche avanguardie coraggiose.
Eppure, se rileggiamo il Novecento, la sola vera rivoluzione democratica che ha vinto è stata quella femminile. Dove le donne si sono sollevate, conquistando la parola e una coscienza, lì la soglia della libertà complessiva si è elevata. Viceversa, ogni qualvolta la dignità e l’autonomia delle donne è stata limitata o soppressa, a pagare è stata la società nel suo insieme. Come accade oggi, in angoli diversi del pianeta. Dall’Afghanistan alle dittature che continuano a violare il corpo e la libertà delle donne, assistiamo a una guerra consumata sulla frontiera della dignità femminile. E le immagini di queste settimane, le rivolte che incendiano la costa sud del Mediterraneo, ci parlano di un'insopprimibile domanda di liberazione e di futuro. Ma questo 8 marzo è un passaggio particolare anche per tutte noi. Perché cade a meno di un mese da quelle piazze gremite, di donne e non solo, che hanno segnato lo spartiacque tra un prima e un dopo. In quelle piazze non si è espressa una domanda di decoro. Non erano le voci di un nuovo galateo nei costumi. In quelle piazze c’era l’indignazione verso un potere concepito come arma di pressione, ricatto, negazione di dignità. E c’era soprattutto la spinta nuova verso una combinazione di diritti, economia e democrazia. Perché mai come oggi quelle tre dimensioni coincidono. I diritti di chi non ha un avvenire nel lavoro, nella formazione, nei meriti. I diritti umani e civili come quello al testamento biologico o al voto per i migranti. Il bisogno di pensare a una economia e a uno sviluppo diversi. La qualità di una democrazia che può smarrire il senso della partecipazione e delle regole. L’8 marzo, quest’anno, parla un linguaggio di verità con una mobilitazione come che si ricongiunge a quelle di lavoratori, studenti, ricercatori, ragazzi per la legalità e ovunque tante giovani protagoniste. E' un sentimento di dignità e riscossa che confligge con un premier e una destra per cui proviamo vergogna. Ma confligge più in generale con quel conservatorismo e quelle chiusure che connotano pezzi interi delle élites di questo Paese, ovunque. La traversata è lunga ma possiamo vincere con l'ambizione di cambiare la politica.

Repubblica 8.3.11
Il ritorno dell´8 marzo un futuro rosa è possibile
Potere, cultura e sentimenti i sogni per un´Italia diversa
di Michela Marzano


Si era trasformato in un appuntamento per happy few. Poche persone che, un po´ per abitudine, un po´ per dovere, continuavano a festeggiarlo per ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche degli anni Sessanta e Settanta. Proprio mentre la realtà ci stava travolgendo, trasformando le donne in comparse sempre più marginali di un copione per soli uomini. Ma qualcosa è cambiato e questo sembra un nuovo 8 marzo. Le donne sono stanche di ascoltare tutti quelli che continuano a pretendere che il "secondo sesso", più fragile e meno sicuro di sé, non ha altro che la bellezza per farsi notare. Non si accontentano più delle briciole. Vogliono che la situazione, in Italia, migliori davvero. Che la libertà e l´uguaglianza non siano più semplici parole, ma diventino "vita, politica e realtà". Che gli sforzi che tante di loro fanno siano realmente riconosciuti, valorizzati, ricompensati… È anche per questo che, nonostante le minacce e gli insulti, sono state più di un milione a manifestare in tutta Italia il 13 febbraio.
Giovani e meno giovani. Madri e figlie. Eterosessuali ed omosessuali. E che, nonostante le battute sarcastiche di chi non ne vuol proprio sapere di queste "radical chic" che dovrebbero smetterla di creare inutili problemi, saranno tantissime a festeggiare con i propri mariti, amici e figli l´8 marzo di quest´anno in Italia. Spettacoli, conferenze, dibattiti, manifestazioni… Per la prima volta dopo tanto tempo, la festa delle donne non è più solo un giorno per commemorare le lotte e le conquiste femminili, ma un appuntamento centrale per cominciare a trasformare la società. Non più solo un modo per dire "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", ma anche e soprattutto per spiegare quello che vogliamo, sogniamo, speriamo…
A cominciare dal nostro corpo. Non tanto (e non solo) per riprendere gli slogan degli anni Settanta che già sottolineavano l´importanza, per ogni donna, di disporre liberamente del proprio corpo. Ma soprattutto perché, in questi ultimi tempi, il corpo femminile è diventato un vero e proprio campo di battaglia su cui ci si accanisce senza tregua. Come se, per la donna, l´unica possibilità di esistere fosse quella di "incarnare" la perfezione. Certo, esistono come sempre delle eccezioni. Come quando Glamour pubblicò le foto della modella "normale" Lizzi Miller, che sfoggiava con orgoglio i suoi 79 chili. Allora furono centinaia di migliaia le lettrici che scrissero alla redazione del giornale: "Finalmente una donna vera, una come noi!" Ma si trattò solo di un istante di sollievo. Prima di ripiombare nella routine, e soffocare di nuovo sotto il peso delle norme. Essere, apparire, controllare… nel nome delle immagini!
Eppure sarebbe bello "liberare" definitivamente il corpo delle donne. Non liberarsi dal corpo, come hanno preteso per secoli i filosofi. Perché, nonostante tutto, il corpo c´è. È nel corpo e grazie al corpo che ciascuno di noi è nato, vive, muore. È nel corpo, e per suo tramite, che si incontrano gli altri, si esprimono le proprie emozioni, si manifestano i propri sentimenti. Ma liberare per sempre il corpo femminile dalle aspettative e dagli stereotipi di genere. Questa sarebbe la vera libertà. Il primo passo per l´uguaglianza. Indipendentemente dalla dittatura del gusto, dalle ingiunzioni sociali, dalle norme culturali. Per poter scegliere se vestirsi di rosa, di nero o di giallo, non perché "si fa" o di "deve", ma semplicemente perché si ha voglia di farlo. Per decidere se essere conformi o ribellarsi, senza che qualcuno ne tragga immediatamente le conclusioni che impone il bon ton. E smetterla, una volta per tutte, di ridurre la donna ad un semplice corpo-immagine…

Corriere della Sera 8.3.11
Le due piazze delle donne divise da un fiocco
di Alessandra Arachi


ROMA— Niente da fare per l’Otto marzo: le manifestazioni a Roma saranno due. Da un lato il novello comitato «Se non ora quando» , quello che il 13 febbraio ha trascinato nelle piazze d’Italia un milione di persone, in maggioranza donne. Dall’altro i collettivi femministi, quelli che i contenuti della manifestazione delle «donne del 13 febbraio» non riescono proprio a condividerli. Il primo problema nasce subito, dal simbolo: l’idea di un fiocco rosa le novelle femministe non la riescono proprio a tollerarla. Peggio ancora ad ascoltare lo slogan che caratterizza il simbolo della loro manifestazione: «Rimettiamo al mondo l’Italia» . Ai collettivi femministi, questo, fa venire l’orticaria. Daria Colombo sospira: «Che dispiacere. È il vecchio vizio della sinistra. E non solo. Il viziaccio del femminismo: dividersi, proprio quando bisognerebbe rimanere uniti. Io ho scritto un libro dove la divisione di una manifestazione storica allontana la protagonista della politica» . Non c’è bisogno di azionare la fantasia letteraria. Oggi a Roma il movimento delle donne si è diviso, prima ancora di nascere unito. Le «donne del 13 febbraio» si vedranno in piazza Vittorio per rivendicare la dignità femminile, al grido di «né strega né bigotta, né barbie né mignotta» . E i collettivi femministi sfileranno da piazza Bocca della Verità a Campo de’ Fiori, rivendicando i consultori, contestando la legge 40, pretendendo la pillola Ru486. «Ma io sono ottimista: ci ricomporremo. Bisogna andare oltre i distinguo ed optare per la massima inclusione. Io il 13 febbraio scorso ho ascoltato sul palco l’onorevole Bongiorno mettendo tra parentesi il fatto che fosse stata l’avvocato di Andreotti. E non è certo stata una parentesi da poco» . Lidia Ravera oggi sarà in piazza Vittorio, anche se prima sarà la protagonista di un «flash mob» in piazza del Campidoglio. «Sarò vestita da oca, con tanto di piume vere. È simbolico, vogliamo risvegliare la città» , dice Lidia Ravera, spiegando di non aver avuto alcun dubbio a proseguire l’onda del 13 febbraio, un’onda che non si deve interrompere. Anche Ritanna Armeni tifa per l’inclusione, a tutto tondo. «Non mi sono affatto stupita che i collettivi si siano imposti in questa divisione. Sono giovani. Hanno la necessità di far sentire le proprie idee» . Ritanna Armeni non andrà a nessuna manifestazione, oggi. Ma soltanto per motivi pratici. «Avevo degli impegni pregressi. E questo mi ha impedito di pormi il problema a quale manifestazione andare. Tra l’altro penso che siano uguali. E sono convinta che questa divisione durerà molto poco: il movimento delle donne fagocita, include. È molto diverso dall’universo maschile» .

l’Unità 8.3.11
«Giusto mobilitarsi. Dobbiamo fermare la Tienanmen libica»
Il portavoce italiano di Amnesty International:
«L’Italia è un Paese ripiegato su se stesso Pesa troppo l’allarme sull’arrivo dei profughi»
di U.D.G.


La gravità dei massacri in Libia e le difficoltà a costruire una mobilitazione di protesta e solidarietà in Italia. L’Unità ne discute con Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International. Partirei da una sua dichiarazione: «Gheddafi ha paragonato la situazione alla crisi di Tienanmen, mi rifaccio a lui nel dire che in Libia si sono superate diverse Tienanmen per numero di feriti e di morti...». La priorità, ha aggiunto, «è proteggere i civili intrappolati nel conflitto». Ma in Italia c’è sufficiente consapevolezza che il Libia è in atto un genocidio? «Io credo che le informazioni ci siano e abbiano anche contribuito a dare un senso di gravità e urgenza all’azione della Comunità internazionale, Italia inclusa. Questo è un fatto positivo rispetto alle incertezze e alle titubanze riscontrate nei primi giorni della rivolta...». Tuttavia la percezione di questa gravità non ha prodotto una mobilitazione adeguata...
«Da parte delle organizzazioni per i diritti umani la mobilitazione c’è stata, è stata tempestiva e ha contribuito ad ottenere risultati importanti: mi riferisco, ad esempio, al deferimento della situazione libica alla Corte penale internazionale dell’Aja...».
Ma le piazze restano vuote... «Vedo due possibili ragioni tra le molte: la prima, quella di un Paese ripiegato su se stesso, che continua a guardare ciò che accade al proprio interno come se fosse l’unica cosa rilevante; la seconda ragione, che riguarda specificamente la Libia, è che vedo ancora molto imbarazzo rispetto all’approvazione, quasi plebiscitaria, dell’Accordo Italia-Libia. Almeno da oltre un decennio, le istituzioni italiane hanno mostrato accondiscendenza e favore verso il leader libico Gheddafi, scordandosi che in Libia ci fosse un grave problema di diritti umani. Alla luce di questa considerazione, capisco che chiamare alla mobilitazione per i diritti umani in Libia non venga proprio spontaneo, ma mobilitarsi è necessario oggi così come lo sarebbe stato da anni».
In questo ritardo non c’è anche la responsabilità della società civile organizzata? «Su questo posso aggiungere due cose a quanto detto in precedenza: pesa un tema di sottofondo che ritorna di frequente nelle dichiarazioni ufficiali e anche nei mezzi d’informazione, che guarda alle rivolte epocali del Maghreb e del Medio Oriente quasi esclusivamente in termini di “mamma mia, quanti ne arriveranno...”. In questo vedo un regresso generale. Di percezione e non solo. Nel 1989, quando cadde il Muro di Berlino ci fu una grande partecipazione e solidarietà. Non ci chiedemmo quanti tedeschi dell’Est, russi, rumeni, polacchi...sarebbero arrivati. Oggi, nel 2011, succede qualcosa del genere alle porte Sud di casa, e non ce ne stiamo rendendo ben conto”.
In ultimo, vorrei tornare sulle dimensioni del bagno di sangue in atto in Libia. Qual è il quadro che risulta ad Amnesty International?
«Nei primi giorni della rivolta, quando gli ospedali delle principali città erano ancora in grado di registrare i decessi, le vittime si contavano già a centinaia. Poi, secondo le nostre fonti, gli ospedali non hanno più retto e le famiglie hanno iniziato a seppellire i propri cari senza registrarli. Di lì a poco Gheddafi ha fatto un sinistro paragone tra la situazione del suo Paese e quella della Cina del 1989, dicendo che in quel caso la stabilità della Cina era stata più importante dei fatti della Tienanmen. In quel modo ha annunciato uno scenario del genere per la Libia ed è più che probabile che l’abbia superato».

l’Unità 8.3.11
Kant, la rivolta dei giovani arabi e l’inganno dello scontro di civiltà
Nessuno ha previsto le rivoluzioni democratiche del Nordafrica. I servizi di intelligence sono stati spiazzati In questi decenni ha dominato la paura dell’Islam. Ma le forze della pace hanno continuato ad operare
di Pino Arlacchi


La pace perpetua
Il grande filosofo ha creduto nell’espansione della democrazia e dell’emancipazione

Sono in molti a chiedersi in questi giorni come mai le rivoluzioni democratiche del Nordafrica non sono state previste da nessuno, e perché i centri di intelligence, soprattutto americani, nonostante i loro enormi budget, siano rimasti così clamorosamente spiazzati davanti ai cambiamenti epocali in corso.
Questo fallimento ha una spiegazione. Non solo gli analisti dei servizi di sicurezza, ma anche la maggior parte degli studiosi di scienze sociali non sono stati capaci di anticipare nulla di ciò che sta accadendo nel mondo arabo semplicemente perché vittime e autori, allo stesso tempo, di un grande inganno. Parlo di un colossale offuscamento delle coscienze durato quasi due decenni, e basato sull’idea che viviamo in un epoca catastrofica, dove la nostra sicurezza corre un pericolo mortale a causa di una serie di minacce, la prima delle quali è l’ Islam, seguita da altre quali gli stati canaglia, l’ immigrazione, l’ espansione della Cina, il riarmo, i conflitti e le guerre.
Il primo decennio del nuovo secolo, dall’ elezione di Bush II all’ inizio del 2011, è stato dominato dall’inganno e dalla paura, cioè dal mito del caos globale. Una visione negativa delle cose che ha avuto conseguenze politiche rilevanti, perché ha abbassato le nostre aspettative, ci ha costretti sulla difensiva, e ci ha tolto la fiducia in un mondo più decente.
Eppure, non ci sarebbe voluto molto per cogliere i segnali di una potente forza contraria: quella del progresso umano e della pace. Una forza che ha continuato ad agire sotto la superficie degli eventi e a dispetto della propaganda della destra globale trionfante, e al potere negli Usa ed altrove.
Una potenza benefica, che ha fatto decrescere la violenza grande e piccola, ridotto o azzerato minacce, accresciuto la sicurezza individuale e collettiva, allargato democrazie e diritti.
La transizione democratica del Nordafrica, allora, non è altro che un tassello del mosaico che le forze della pace hanno continuato a comporre sotto i nostri occhi, e con la nostra partecipazione, sia pure poco convinta.
Al tema dell’ inganno e della paura ho dedicato lo studio più importante della mia vita, scritto nel 2008, prima dell’ elezione di Obama, e pensato nei dieci anni precedenti. In esso ho criticato la visione sbagliata della sicurezza internazionale ancora oggi dominante, ed ho richiamato il pensiero di un grande europeo, Emanuele Kant, il filosofo che più ha creduto nell’ espansione della democrazia e dell’ emancipazione umana.
Sarebbe bastato rileggere qualche pagina di un libretto pubblicato da Kant nel 1795, «La pace perpetua» per non stupirsi di fronte al tramonto dei tiranni Nordafricani. In esso il filosofo tedesco ha disegnato un mondo governato dalle democrazie e dalle organizzazioni internazionali, dove la guerra diventa sempre più rara, obsoleta ed assurda. Un mondo dove i cittadini daranno il loro consenso all’ uso della forza solo per autodifesa, e dove la diffusione dei regimi democratici ha instaurato un metodo della nonviolenza che ha finito con l’ estendersi anche ai rapporti tra gli Stati.
Queste dinamiche hanno continuato ad operare in realtà anche dopo l’ 11 settembre 2001. Le forze della pace kantiana hanno continuato il loro lavoro. Fino a sfociare nella «storia che si è dischiusa» all’ alba di quest’anno, secondo la bella definizione di Obama.
Tutto ciò si è verificato nonostante le idee di un pensatore reazionario, Samuel Huntington, il capofila della teoria dello scontro di civiltà con l’ Islam, fossero diventate un pensiero unico che ha ingannato molte persone in buona fede. La bandiera dello scontro di civiltà ha riportato in auge una legione di profeti di sventura, che hanno vaticinato disastri e guerre che esistevano in realtà solo nei loro desideri. Non ne hanno azzeccata una. Ma le loro errate previsioni hanno svolto la funzione di far crescere le paure collettive che hanno gonfiato a loro volta le spese militari.
Le idee di Kant ci hanno invece aiutato a rafforzare le istituzioni del dialogo e dei diritti universali: le Nazione Unite, il Parlamento e l’ Unione europea, e quella panoplia di trattati e di agenzie internazionali che formano come una rete che scoraggia la guerra e incoraggia la democrazia e la giustizia in ogni angolo del pianeta.
L’ imbroglio dello scontro di civiltà (con annessa teoria della superiorità etico-politica dell’ Occidente) è oggi nella polvere, sconfitto dai giovani arabi che manifestano per i diritti universali. Adesso dobbiamo fare attenzione a non cadere in una trappola.
Quella del trionfalismo progressista, che vede una crescita lineare ed ineluttabile della democrazia. Il catastrofismo di Huntington non va sostituito da una fede ingenua e dogmatica nello sviluppo umano. Da una specie di inganno al rovescio che ci porta ad ignorare le potenze distruttive della violenza e dell’ oppressione.
La continuità del processo in corso dipende da noi. Dalle mosse che saremo in grado di fare per tutelare le conquiste appena ottenute, e per espanderle ancora. Anche qui Kant ci può essere utile. Per lui il progresso etico-politico non era scontato, e poteva conoscere fasi anche molto lunghe di regresso e stagnazione. Per evitare le quali occorreva riflettere bene sugli errori passati, ed imparare a non ripeterli: il celebre learning process kantiano.
Se la rivoluzione democratica del Nordafrica sfocerà in un congiungimento politico di quei paesi all’ Europa e in un passo avanti verso la democrazia universale, invece di ripiegarsi su se stessa ed arretrare verso regimi semi-tirannici o verso situazioni di «stati falliti», dipende in primo luogo dalle azioni di chi combatte in loco. Ma dipende anche da noi. Dal sostegno che sapremo dare alle forze della nonviolenza e della solidarietà. Battiamoci, allora, perchè questo secondo decennio del ventunesimo secolo si svolga all’ insegna della profezia kantiana sulla pace democratica.

La Stampa 8.3.11
La primavera araba è in rosa
Organizzata via Facebook per oggi al Cairo la “marcia di un milione di donne”
di Francesca Paci


Quando domenica 27 febbraio il premier tunisino Ghannouchi ha ceduto alla pressione popolare e s’è dimesso, Amal Shamel stava preparando la piccante zuppa «shorba» per i suoi quattro figli. «È stato come il giorno in cui Ben Ali se n’è andato: appena ho sentito la notizia in tv ho chiesto a Said, il maggiore, di occuparsi per poche ore dei fratelli e con un taxi ho raggiunto mio marito in avenue Bourguiba» racconta al telefono. Una settimana dopo, nella cairota piazza Tahrir, decine di casalinghe hanno affiancato le rivoluzionarie a tempo pieno come Isra Abdelfatah, in prima linea dal 25 gennaio, per inneggiare al nuovo capo del governo egiziano Isam Sharaf, subentrato a grande richiesta dei manifestanti all’inviso «mubarakiano» Ahmad Shafiq.
Chi avesse tralasciato il contributo muliebre al terremoto mediorientale e magrebino può rifarsi oggi con la «Million women march», il corteo organizzato via Facebook per archiviare con la dittatura l’annesso sistema patriarcale di potere, e che conta di portare nelle vie del Cairo un milione di mamme, mogli, figlie, studentesse disinibite e colleghe velate, la quota rosa della primavera araba.
La partecipazione femminile è la cartina di tornasole della democrazia. «Le donne sono la chiave di quanto sta accadendo nelle piazze arabe» osserva il libanese Nadim Houry, analista di Human Rights Watch. Secondo la direttrice dell’associazione egiziana Nazra for Feminist Studies, Mozn Hassan, lungi dall’unirsi alla protesta, le donne l’hanno concepita: «Prima ancora che cambiassero le cose, sono cambiate loro, noi, e siamo solo all’inizio». Si calcola che almeno tre dimostranti su dieci fossero ragazze.
Il percorso è accidentato. Nessuno lo sa meglio delle protagoniste che al Cairo come a Tunisi, ma anche a Bengasi, Manama, Algeri, Sana'a, Casablanca, sfidano da decenni, nell’indifferenza occidentale, la centralità dell’uomo, covata nel conservatorismo familiare e troppo spesso sublimata dall’opportunismo politico.
«Non posso più accettare la legittimità di una storia che mi consente di restare viva solo distogliendo l’attenzione da ciò che sono» scrive la giovane giornalista tunisina Fawzia Zouari nel racconto «Sherazad ha i giorni contati». Il mondo delle Mille e una notte, con la fascinosa fanciulla che evita la morte ammaliando il sovrano, è per le donne arabe il corrispettivo del reggiseno bruciato dalle femministe nel ‘68. Prova ne sia il nuovo libro dell’autrice libanese Joumana Haddad, «Ho ucciso Shahrazad, Confessioni di una donna araba arrabbiata».
Certo ci sono Paesi più emancipati come la Tunisia, in cui la poligamia è vietata dal 1957 e la direttrice della Biblioteca Nazionale Olfa Youssef discetta regolarmente di teologia islamica in saggi a dir poco polemici con l’ortodossia, o il Marocco, che si è dotato di un codice di famiglia all’insegna della parità dei sessi. Ma, sebbene in misura minore, le cittadine del Bahrein avvolte nell’abaya, quelle yemenite pudicamente a distanza dai cortei degli uomini e le libiche nelle trincee sotto il tiro di Gheddafi, hanno partecipato e partecipano alle proteste per la democrazia mostrando voglia di vivere anziché di morireda martiri.
In Egitto, dove il 42% delle donne è quasi analfabeta e nel parlamento del 2010 ce n’erano appena 8 su 454 deputati, piazza Tahrir ha annullato le differenze di genere. «Le casalinghe c’erano e ci sono, eccome, paradossalmente hanno più tempo delle altre» insiste Dalia, blogger attivissima come Asma Mahfouz, Leil Zahra Mortada, Sanaa el Seif, le firme rosa della controcultura digitale. Da tempo, più o meno platealmente, hanno riscoperto il nome di Huda Shaarawi, la celebre femminista egiziana del primo Novecento: oggi una su quattro lavora fuori casa. Una nuova centralità sociale di cui si sono accorti i Fratelli Musulmani che, seppur mantenendo nel proprio statuto il divieto per copti e donne di accedere alla presidenza dello Stato, accettano volentieri il contributo femminile negli ospedali, nei centri di assistenza, nei gruppi di base su cui fondano la formidabile penetrazione nella comunità.
La rivoluzione politica della primavera araba sovvertirà anche l’ordine sociale, spazzando via con l’autoritarismo il sessismo che sovente l’accompagna? «È presto per parlare di un movimento femminista separato» nota l’accademica del Bahrein Munira Fakhro, candidata alle elezioni del 2006. Vorrà però dire qualcosa se la monarchia saudita, terrorizzata dall’effetto domino e dalla giornata della rabbia indetta per venerdì, si è affrettata a promettere il voto alle donne. Ed è un segno dei tempi che il più agguerrito blog di Gaza, fustigatore della triplice occupazione dei palestinesi da parte di Hamas, Fatah e Israele, sia firmato da una ragazza, Asmaa Aghoul, irriducibile nonostante l’arresto di un mese fa, al punto da aver convocato via Facebook una nuova manifestazione per il 15 marzo.
Le donne arabe stanche del paternalismo patrio quanto della compassione occidentale per la condizione impari imposta dall’islam chiedono rispetto. A tutti, a cominciare dai propri mariti, dai genitori, dai figli. Nella Cairo che, infaticabile, si accinge a scendere di nuovo in piazza nel nome della rivoluzione incompiuta la gallerista Loulia sorseggia un cappuccino nel cuore del quartiere Zamalek e distribuisce agli altri avventori i volantini con i quindici comandamenti della rivoluzione del 25 gennaio: mi impegno a non gettare cartacce in terra,a rispettare il semaforo rosso, a non molestare le donne...

Repubblica 8.3.11
Pd, i veltroniani incalzano Bersani "Addio urne, cambiare linea e leader"
Ma Franceschini e D´Alema blindano il segretario
di Goffredo De Marchis


Il rilancio del patto con il Terzo polo ritenuto inadeguato dalla corrente di Walter Veltroni

ROMA - Il sostegno di Dario Franceschini. Il via libera di Massimo D´Alema. Persino la "simpatia" di Antonio Di Pietro che anziché sferrare il solito attacco al Pd dice: «Penso che Bersani guardi al dopo Berlusconi, con l´obiettivo di una ricostruzione delle basi democratiche. Non ha proposto un´ammucchiata». Dopo l´intervista a Repubblica che conferma l´apertura al Terzo polo e l´obiettivo finale di un´alleanza costituente, il segretario del Pd incassa alcuni apprezzamenti di peso. Ma allo stesso tempo apre ufficialmente lo scontro con la minoranza che fa capo a Walter Veltroni. «Se la linea è quella di stare fermi, faremo poca strada - spiega il veltroniano Stefano Ceccanti -. Perché gli altri partiti si muovono. E si muove anche il quadro generale». Movimento democratico si chiama, giustappunto, l´area creata dall´ex segretario, da Gentiloni e da Fioroni. Quest´area vuole chiudere definitivamente la stagione della larga alleanza. «Senza voto anticipato a breve non ha più senso - insiste Enrico Morando -. Abbiamo bisogno invece di seguire la rotta del Lingotto 2, di un nuovo congresso e di un nuovo leader». Veltroni? «Non è detto», risponde Morando. Ma non è neanche escluso. Un´alternativa che piace in quel campo è Matteo Renzi. Fioroni lo considera una specie di figlioccio.
Per D´Alema è riduttivo leggere le parole di Bersani come una semplice «apertura al Terzo polo. Il segretario rilancia l´idea di un governo costituente per il bene dell´Italia», dice il presidente del Copasir. E non parte, secondo D´Alema, dallo «schieramento politico, ma dai bisogni del Paese. Per questo il ragionamento è giusto». Il capogruppo del Pd alla Camera Franceschini invita tutti a non farsi condizionare dai sondaggi: «Ha fatto bene Bersani a rilanciare la proposta di un´alleanza larga. Non si può ricostruire dalle macerie con una vittoria al 30 per cento. Anche se a vincere fossimo noi». Di Pietro boccia l´intesa con il Terzo polo. «Ma Bersani - osserva - fa un discorso più alto e più complesso: per la ricostruzione ognuno deve fare la sua parte con senso delle istituzioni». Il responsabile Giustizia Andrea Orlando è convinto che «quello di Bersani sia un progetto strategico. L´emergenza non è finita, dobbiamo offrire al Paese una via d´uscita in una fase straordinaria». Va oltre Livia Turco: «Sono d´accordo con il segretario. Ci vuole generosità e bisogna tenere aperto il progetto. E Bersani è il miglior candidato premier».
Ma le critiche non mancano. Tace Casini ma si sa che punta all´autonomia dell´area moderata. Il coordinatore di Fli Roberto Menia chiude la porta a un dialogo con la sinistra, ipotesi che ha già fatto parecchi danni tra i finiani. «La nostra prospettiva è diversa - dice Menia -. Non ci sarà nessun patto del centrosinistra col Terzo Polo». Benedetto Della Vedova è altrettanto netto: «Stiamo facendo un´altra cosa». Per Sinistra e libertà parla Fabio Mussi: «Con il Terzo polo il Paese finisce nelle mani di Berlusconi». L´offensiva vera però partirà dentro il Partito democratico. Modem annuncia una nuova assemblea per il 4 aprile, prima dunque delle amministrative. La tregua interna si può considerare archiviata. «La risposta di Bersani è sbagliata», attacca ancora Morando. E Walter Verini, il dirigente più vicino a Veltroni, chiede un cambio di rotta deciso, altro che rimanere fermi sulle proprie posizioni. «C´è un po´ di tempo a disposizione, il nostro problema oggi è allearci con gli italiani, non con i partiti». Verini pensa che Bersani abbia confuso il capo con la coda. «La coalizione è il punto di arrivo non la base di partenza. Nelle parole del segretario vedo un ragionamento ribaltato».

il Riformista 8.3.11
È già ricominciato l’assedio a Bersani
di Ettore Colombo

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il Riformista 8.3.11
Il segretario dei democratici annuncia il sì al referendum
Nucleare
ChiccoTesta: «Un Pd debole sbaglia per paura di perdere Vendola»
di Francesco Persili

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il Fatto 8.3.11
Chiesa e fine vita, quante bugie
L’alleanza terapeutica tra Berlusconi e la Chiesa
Ruby val bene un accordo: invocano la salvezza del malato, ma l’unico a beneficiarne sarà il governo
di Marco Politi


La legge sul testamento biologico da ieri in Parlamento non rappresenta lo sforzo di dare una risposta civile ed eticamente responsabile ad un problema delicato. Fotografa, invece, perfettamente la visione commerciale di Berlusconi. Diecimila euro per mantenere buone le squinzie dello staff postribolare di Arcore. Un baciamano a Gheddafi per fare affari con lui. La promessa di un bonus-scuola per ammansire l’episcopato. Il “sondino di stato” per accontentare il Vaticano.
Anche personalità generalmente favorevoli alle istanze della Chiesa come Ferrara e Galli della Loggia respingono la rozzezza di un progetto, che disprezza la volontà del malato. Ma i vertici ecclesiastici, in nome dei “principi non negoziabili”, vogliono l’alimentazione e la nutrizione obbligatoria. Fiat lex, pereat mundus. Si faccia la legge a scapito dell’umanità.
Gli italiani a suo tempo si sono schierati dalla parte di Beppino Englaro, basta riguardare i sondaggi dell’epoca. Un’inchiesta dell’Ordine dei medici (Fnomceo) del 2007 ha rilevato che il 64 per cento di loro concorda sul rispetto della volontà del malato, che non vuole attuare o chiede di interrompere i trattamenti di sostegno vitale.
La società civile si è già pronunciata. Berlusconi se ne infischia poiché vuole pagare questo prezzo al Vaticano. Ruby val bene la sorte di sofferenti anonimi .
Ma nella società mediatica il pensiero totalitario, che non ammette pluralità di opzioni etiche, deve per forza manipolare le parole per creare una parvenza di consensi. Dunque si dice che il coma vegetativo persistente (non stiamo parlando di tre mesi, ma di dieci anni) è una “grave disabilità”. La parola si smercia facilmente, evoca un portatore di handicap che i cattivi vorrebbero sopprimere.
Non è questa la posta in gioco. La Dichiarazione anticipata di trattamento (Dat) riguarda chi si trova persistentemente privo di conoscenza, impossibilitato a riprendere coscienza e a recuperare una vita relazionale. Nessuno vuole sopprimere nessuno. Ma il cittadino ha il diritto sancito dalla Costituzione di decidere in autonomia se continuare o meno cure, che non cambieranno la sua sorte e si configurano come accanimento terapeutico ad oltranza.
La seconda falsità in circolazione è di far credere che una vera legge sul biotestamento potrebbe stabilire se certe vite sono “degne o non degne” di essere vissute. Hanno usato l’argomento le lobby delle assicurazioni private in America per sabotare il progetto di sanità pubblica di Obama. Il che dimostra quanto sia cinico e menzognero l’argomento. Ogni vita, infatti, è degna di essere vissuta. Ma ogni uomo e ogni donna hanno il diritto di scegliere se prolungare artificialmente una vita vegetativa (o un’esistenza inesorabilmente votata al soffocamento come quella di Welby) oppure accettare il corso della natura.
Il filosofo cattolico Giovanni Reale ha confutato una volta per tutte le falsità di chi agita lo spettro dell’eutanasia per impedire l’autodeterminazione. “Un conto è darsi la morte – ha dichiarato durante le polemiche sul caso Englaro – e un conto è lasciare che arrivi la morte”.
Ma poiché questo è un ragionamento comprensibile e condiviso dalla maggioranza degli italiani, ecco che i fautori della vita forzata scendono in campo con lo slogan dell’obbligatorietà dell’alimentazione e idratazione in quanto “sostegni vitali”. Elemento vitale è anche il sangue, eppure nessuno si sogna di obbligare un cittadino a fare una trasfusione se va contro i suoi principi o le sue scelte. Milioni di nostri nonni e nonne, cattolici e no, sono spirati per secoli serenamente, sussurrando ai loro congiunti di non forzarli più a mangiare e nessuno si è sognato di nutrirli con l’imbuto.
Perché la vera minaccia è che una “civiltà tecnologica totalizzante voglia sostituirsi alla natura” (Giovanni Reale) oppure che – più umanamente – medici terrorizzati da cause di un qualsiasi parente o erede intubino per mettersi al sicuro e si rifiutino di disporre altrimenti.
L’ultima manipolazione delle parole, messa in campo da chi esalta la Vita ma non si occupa mai della “vita durante” (le famiglie in difficoltà, i giovani precarizzati in eterno, i cittadini in azienda privati del diritto di scegliersi un delegato: vedi modello Marchionne osannato dal ministro Sacconi) è l’invocazione dell’ “alleanza terapeutica”. Parola bellissima, che vale tuttavia quando medico e paziente decidono d’amore e d’accordo cosa fare e il paziente non è mai obbligato a sottoporsi ad un’operazione o un trattamento medico o a continuarlo senza limiti.
Qui, invece, nella Santa Alleanza creatasi tra Papi e l’istituzione ecclesiastica, “alleanza terapeutica” vuol dire che il medico può fare l’opposto di quello che ha disposto il malato o chiede il suo fiduciario.
La cura forzata è inquietante come la morte. Nel 2008 la Fondazione Don Gnocchi ha scritto che il “non rinunciare in alcun caso all’idratazione-nutrizione artificiale può rientrare nell’accanimento terapeutico da abuso di tecnica”. Di questo bisognerebbe parlare.

il Fatto 8.3.11
“Fermate subito questa legge sul testamento biologico”
L’appello del Pd in aula: facciamone un’altra insieme


“Fermiamoci, fermatevi. Non approvate un testo anticostituzionale e irragionevole”. Con le labbra serrate e il volto tirato Livia Turco ha lanciato ieri, dall’aula di Montecitorio, l’appello del Partito democratico sul testamento biologico. La legge che spacca l’opposizione è approdata alla Camera per un iter che durerà più di un mese. Il voto finale, infatti, è slittato ad aprile. Il Pd ha annunciato la richiesta di una questione sospensiva, ma all’interno del partito c’è chi chiede la libertà di coscienza sul voto. Idv e Radicali hanno presentato due pregiudiziali di costituzionalità, mentre l’Udc, che in commissione ha votato a favore del ddl firmato dal senatore Calabrò, punta a vedere approvati in aula i suoi emendamenti.
La maggioranza ha puntato su una legge che divide le minoranze per riacquistare un po’ di forza parlamentare e stendere un velo (momentaneo) sul caso Ruby, tendendo una mano verso il Vaticano. Diviso quindi il Pd, ma diviso anche il Terzo Polo, dove l’Api di Rutelli e i finiani hanno a loro volta posizioni diverse: i primi puntano a migliorare la legge partendo dal testo esistente mentre il gruppo di Futuro e Libertà mira ad una “soft law”, un testo leggero, che istituisca una sorta di riserva deontologica sulla materia del fine vita, demandando al rapporto tra i pazienti, i loro familiari e i medici.
IL DDL CALABRÒ uscito dal Senato prevede infatti che le dichiarazioni rilasciate dai pazienti non siano più vincolanti e che tutti vengano idratati e alimentati, anche se le volontà espresse in precedenza non lo contemplavano.
“Il testo elaborato dalla commissione Affari Sociali alla Camera rappresenta un giusto punto di equilibrio tra autodeterminazione, diritto dell’individuo e ruolo del medico” ha assicurato il relatore di maggioranza Domenico Di Virgilio, nel primo dei 14 interventi di ieri, auspicando un voto bipartisan. “Siamo davanti ad un testo che limita la nostra libertà. La maggioranza è preda di un delirio di onnipontenza”, ha risposto il relatore di minoranza della legge , Antonio Palagiano. “Il Pdl – ha aggiunto il parlamentare dell’Idv – sta costringendo gli italiani a sottoporsi a idratazione e alimentazioni a subire trattamenti obbligatori. Il testo è incostituzionale”.
É toccato quindi a Livia Turco cercare di fermare l’iniziativa della maggioranza: “Ve l’abbiamo detto nei mesi scorsi, lo ribadiamo oggi: costruiamo insieme una legge condivisa, una legge umana, mite, che sia animata dal sentimento della pietas, che sia rispettosa della singola irripetibile persona, che promuova e valorizzi la relazione di fiducia tra medico, paziente e familiari, che ascolti la volontà del paziente all'interno della relazione di cura con il medico e i familiari; una legge che non imponga ma che rispetti la persona, che non lasci nessuno solo di fronte alla morte, che combatta la solitudine, che garantisca a ciascuna persona le cure necessarie ma anche la presenza amorevole. E soprattutto rispetti la Costituzione”. L’articolo 32 della Carta prevede infatti che nessuno possa essere obbligato “a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. E continua: “ La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Ma una frangia del Pd non è d’accordo con la maggioranza del partito. Beppe Fioroni ha dichiarato in aula che questa legge, prevedendo indirettamente l’esistenza di una dichiarazione di volontà, seppur non vincolante, “rischia di introdurre una forma di eutanasia passiva”.
POI È TOCCATO a ad Antonio Buonfiglio spiegare le ragioni di Fli: “Il ddl sul testamento biologico mostra delle luci, ma in esso prevalgono le ombre. L’esigenza di legiferare è nata dal tentativo di dare risposta a un caso concreto, quello di Eluana Englaro, e il testo risente delle discussioni e delle polemiche che hanno accompagnato quell’evento. Ma, esaurita la fase emergenziale, la discussione deve riprendere con pacatezza e analizzare ogni conseguenza che deriverà dal ddl”. L’arrivo del ddl in aula è stato contestato dall’esterno di Montecitorio con un sit-in organizzato dai Radicali al grido di “aguzzini con i sondini” e “no allo Stato bioetico”.
“Questa è una legge contro il testamento biologico – ha detto Marco Cappato, segretario dell’associazione Luca Coscioni – contro la Costituzione e contro la volontà dell’80% degli italiani. L’unica possibilità che questa legge ha di passare è se l’opposizione non farà l’opposizione e se non ci saranno confronti su questo tema nei grandi spazi di disinformazione di Rai e Mediaset” .
Domani toccherà invece alla Cgil, che consegnerà al presidente della Camera, Gianfranco Fini, 5000 firme raccolte tra i medici e gli operatori sanitari durante la campagna “Io non costringo, curo”. C.Pe.

La Stampa 8.3.11
Ho fatto il testamento biologico
di Umberto Veronesi


Io ho fatto il testamento biologico qualche anno fa, e per tre motivi. Per riaffermare le mie convinzioni sulla libertà di disporre della propria vita. Per l’amore profondo verso i miei familiari, che non voglio siano mai straziati dal dubbio sul che fare della mia esistenza. Per il rispetto verso i medici che si prenderanno cura di me. Ho voluto anche renderlo pubblico: «Io sottoscritto Umberto Veronesi, ..., nel pieno delle mie facoltà mentali e in totale libertà di scelta, dispongo quanto segue: in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante chiedo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico o di sostegno (nutrizione e idratazione)... Queste mie volontà dovranno essere assolutamente rispettate dai medici che si prenderanno cura di me...».
Considero il testamento biologico l’atteggiamento più corretto soprattutto verso i medici curanti, cioè verso chi si troverà, concretamente, ad avere la responsabilità terapeutica di un individuo non più consapevole. Nel febbraio 2009 il giurista Stefano Rodotà, argomentando intorno al caso di Eluana Englaro, ha scritto: «Proprio nell’art. 32 il tema della costituzionalità della persona si manifesta con particolare intensità. Dopo aver considerato la salute come diritto fondamentale dell’individuo, si prevede che i trattamenti obbligatori possono essere previsti solo dalla legge, e tuttavia “in nessun caso” possono violare il limite imposto dal “rispetto della persona umana”. E’, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, della necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’ indicibile . Nessuna volontà esterna, fosse pure coralmente espressa da tutti i cittadini o da un parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato. Siamo di fronte a una sorta di nuova dichiarazione di Habeas corpus , a un’autolimitazione del potere».
Il testamento biologico, che certifica la volontà dell’interessato, è quindi lo strumento più adatto a far sì che nessuna volontà esterna possa prevalere. A questo principio si ispirò nel 1997 la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina, il cui articolo 9 prevede che vengano tenuti in considerazione «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà». Per quanto riguarda il nostro Paese, il 18 dicembre 2003 il Comitato nazionale per la bioetica approvò un documento in cui si auspicava un intervento del legislatore volto a obbligare il medico a prendere in esame le dichiarazioni anticipate di volontà e a motivare ogni diversa decisione in cartella clinica. Purtroppo tutto si è fermato per il timore, da parte di chi è contrario all’eutanasia, che proprio il testamento biologico le aprisse un varco.
Così nella primavera del 2010, mentre una perfetta operazione mediatica presentava con grande risalto l’entrata in vigore della legge che organizza e finanzia le cure palliative, alla Camera, dov’è in gestazione la legge sul testamento biologico, passava tra le proteste di pochi un emendamento che inficia gravemente il diritto all’autodeterminazione del paziente: alimentazione e idratazione artificiali non possono costituire oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento. Se dovessero risultare inutili o dannose, saranno i medici a decidere.
Ma i cittadini italiani vogliono veramente affidare ai medici la decisione su come desiderano morire? Tramite la Fondazione Veronesi, all’inizio del 2007 volli affidare la risposta a un sondaggio, che è stato effettuato su un campione significativo di 4300 maggiorenni, e realizzato dall’Ispo, l’Istituto per gli studi sulla pubblica opinione. Prima di parlare degli altri aspetti emersi dalla ricerca, mi sembra fondamentale rispondere alla domanda più importante, che il legislatore non può far finta di ignorare: a chi spetta la decisione? Agli intervistati è stato sottoposto un quesito molto dettagliato: «Se una persona è affetta da una malattia o lesione cerebrale irreversibile che le impedisce di esprimere la sua volontà e la costringe alla dipendenza da macchine, a chi dovrebbe aspettare la decisione di non somministrare o eventualmente sospendere i trattamenti che la tengono artificialmente in vita?».
Ebbene, ecco le risposte: solo il 5% degli intervistati ha detto che la decisione spetta al medico che ha in cura il paziente (in ospedale, in reparto di rianimazione, a casa), mentre il 50% ha risposto che la decisione spetta al paziente che ha espresso la proprio volontà in merito quando ancora era in piena lucidità mentale. Questa risposta è stata data dalla metà di coloro che si erano posti il problema e dal 40% di coloro che non se l’erano mai posto. Questa risposta mi sembra assolutamente illuminante e nettamente prevalente rispetto alle altre, che comunque riporto: il 20% ha risposto che la decisione spetta a un familiare (coniuge/ genitore/figli o altri parenti), il 20% che la decisione non spetta a nessuno perché «la vita è un dono e bisogna fare di tutto per tutelarla», un altro 5% affida la decisione «a una commissione etica di esperti», e un residuo 1% «a un giudice/magistrato». Il brano che pubblichiamo è tratto dal nuovo libro di Veronesi «Il diritto di non soffrire» (Mondadori)

La Stampa 8.3.11
415 d.C.: l’Africa brucia e i cristiani fanno i talebani
Un parallelo tra la tumultuosa epoca di Sant’Agostino e i giorni nostri
di Silvia Ronchey


Chi veniva da fuori si integrò nelle strutture dell’Impero Romano
Influirono anche elementi climatici da un lato e corruzione dall’altro

Tra il quarto e il quinto secolo dopo Cristo l’impero romano era assediato dai barbari: Goti, Vandali, Galli, Unni, Alani, Persiani, Saraceni, Sassoni, Alamanni, Sciti, Ircani, Sarmati, Quadi, Burgundi, Vidini, Agatirsi, Scordisci. Quell’epoca, che gli storici avrebbero chiamato «la Decadenza», fu descritta da un tormentato filosofo nordafricano, Agostino, che assistette al sacco di Roma dei Visigoti nel 410 e lo interpretò come il segno dell’imminente fine di una civiltà e del sorgere di un’altra a lei contrapposta. Pochi decenni dopo Roma avrebbe subito un secondo, ancora più epocale saccheggio, da parte dei Vandali, che la raggiunsero per via d’acqua salpando dalla costa della Tunisia.
Nel frattempo, anche e soprattutto fuori della capitale, le province erano in fiamme, in un incendio etnico e religioso che investiva l’impero mediterraneo e le sue zone di «irradiazione spaziodinamica» che Braudel avrebbe chiamato Mediterraneo Maggiore. Sembrava proprio che si stesse avvicinando la fine del mondo. O, almeno, la fine di un mondo.
Del grande sommovimento etnico cui un tempo gli storici davano il nome di «invasioni barbariche», ma per il quale oggi si usa più correttamente la definizione inglese di Migration Period a sua volta calcata su quella tedesca di Völkerwanderung - «movimento di popoli» appunto -, gli storici hanno voluto scorgere cause a volte tanto bizzarre quanto sorprendentemente attuali. Per esempio il cambiamento climatico - allora di segno opposto all’effetto serra -, secondo alcuni causa dello smottamento a catena di popolazioni. O l’avvelenamento da piombo - all’epoca provocato non dall’inquinamento atmosferico ma dalle stoviglie e dagli utensili -, che avrebbe indebolito le popolazioni cittadine, rendendole più vulnerabili a febbri ed epidemie, incrementate peraltro dall’ampliarsi dei bacini microbici a seguito dei fitti scambi consentiti dall’immensa rete viaria dell’impero tardoantico. Un precedente delle odierne pandemie, virali o batteriche, favorite dalla facilità dei trasporti e dai continui spostamenti nel mondo globalizzato?
Molto più certo e fondamentale il ruolo della Grande Crisi, che nel terzo secolo aveva depauperato l’impero e disintegrato il potere economico con cui Roma controllava, a suon di tributi, le etnie «barbariche» lungo le vaste frontiere geopolitiche della sua influenza. Di questi veri e propri ancorché fluidi stati satelliti il «gendarme mondiale» dell’epoca aveva condizionato le rudi élites, colmandole di privilegi e regalie e garantendo così la propria egemonia imperialistica, espansionistica o difensiva, sul piano militare come su quello economico e sociale.
Dopo la Grande Crisi, le cose cambiarono. E mentre le periferie dell’impero erano devastate da lotte etnicoreligiose e rivolte per il pane, la vita politica e civile della Città Eterna era caduta tanto in basso quanto mai nella sua lunga storia. Ammiano Marcellino raccontò angosciato la lussuria sessualedei nobili, l’avidità dei ricchi, l’inutile vita dei plebei tra alcol e stadio, i loro deprecabili cibi.
Marcellino considerava particolarmente perniciosa per la società del suo tempo una minoranza turbolenta: i cristiani. La loro religione era, secondo lui, troppo assoluta. Trovava pericolosi l’integralismo dei nuovi monoteisti e la loro disinvolta vicinanza con la morte, che non temevano, considerando la vita individuale come eterna. Di recente si è istituito un parallelismo tra il cristianesimo «talebano» che insanguinò il Nordafrica tra la fine del quarto e l’inizio del quinto secolo e le frange fondamentaliste con cui l’attuale Islam sembra infiltrare o comunque estremizzare le rivolte nuovamente divampate in quelle regioni del globo. L’anno scorso il film Agorà di Alejandro Amenábar ha narrato i tumulti di piazza nell’Egitto dell’epoca, culminati nel feroce assassinio di una tollerante filosofa, Ipazia, sotto gli occhi della più moderata classe dirigente cristiana rappresentata dal suo allievo Sinesio, in seguito vescovo di Tolemaide nell’attuale Libia. L’assassino di Ipazia, il patriarca cristiano Cirillo, era presentato nel film come un terrorista e i suoi adepti come integralisti islamici, perfino nell’accento.
A un anno di distanza, guardando con sgomento esplodere, dopo i Balcani, dopo il Caucaso, dopo le antiche Mesopotamia e Battriana, oggi Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, anche le tradizionalmente più occidentalizzate nazioni del Nordafrica - l’Egitto di Ipazia, l’Algeria di Agostino, la Libia di Sinesio -, molti sono tentati di pronosticare di nuovo un’apocalittica «fine» del nostro mondo, nel cosiddetto odierno «scontro fra civiltà» come nello scontro tra paganesimo e cristianesimo segnalato da Agostino.
Se l’attualizzazione storica è sempre forzata - per esempio il ruolo di «gendarme internazionale» esercitato da Roma era certo molto diverso da quello degli Usa, impero in senso stretto il primo, mai stato tale il secondo -, non è per questo meno legittima. Se ogni epoca legge la storia antica con gli occhi del presente, è non solo possibile, ma anche auspicabile leggere il presente guardando alla storia antica. Come diceva Tucidide, è a questo che serve la storia: a proporre, attraverso la «diagnosi» dei fatti passati, una «prognosi» di quelli futuri.
Ma gli storici hanno ormai fatto giustizia dello stereotipo della «decadenza». I cosiddetti barbari finirono per integrarsi nei meccanismi di governo e nelle classi dirigenti dell’impero. Alla «caduta silenziosa» della sua parte occidentale nel 476 è opposto oggi il prosperare millenario della «Seconda Roma» fondata da Costantino sul Bosforo: un impero in cui le civiltà in apparente scontro e le religioni in apparente antitesi avrebbero continuato a convivere e a integrarsi a vicenda, creando un ponte tra Oriente e Occidente, tra popoli e tra civiltà.

Repubblica 8.3.11
Cervello
La cultura "salva" l’ippocampo
di Francesco Bottaccioli

Uno studio italiano pubblicato su Human Brain Mapping conferma, usando la moderna imaging cerebrale, che l´educazione scolastica degli anni giovanili interagisce con la trama neurale e protegge dalla demenza
Nel 1996 fece scalpore la ricerca sulle suore americane apparsa su Jama

Una vecchia idea della scienza cognitiva concepisce la mente come un sofisticato programma di elaborazione delle informazioni che "gira" su una macchina, il cervello, alquanto insensibile alla qualità delle attività mentali. Non ci sarebbe cioè alcuna influenza delle attività mentali sul cervello. Secondo questa impostazione se io passo gran parte del mio tempo ad avvitare bulloni alla catena di montaggio oppure a guidare un taxi, oppure a comporre musica, a scrivere libri, a fare ricerca scientifica, la differenza starebbe solo nelle attività svolte e non nella struttura cerebrale di chi svolge quelle attività.
Un lavoro di un gruppo di ricercatori della Fondazione S. Lucia di Roma, primo firmatario Fabrizio Piras, pubblicato su Human Brain Mapping, dimostra invece che c´è una relazione tra gli anni passati sui libri e le caratteristiche ultrastrutturali dell´ippocampo. Quest´ultima è un´area cerebrale chiave sia perché è uno snodo fondamentale del circuito della memoria sia perché intrattiene relazioni cruciali con il cosiddetto asse dello stress, l´asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che è una struttura master di tutto l´organismo. Con l´invecchiamento, l´ippocampo tende fisiologicamente a ridursi di volume, ma soprattutto a cambiare struttura interna, per questo gli anziani tendono ad avere più difficoltà a memorizzare dati nuovi. Ma l´ippocampo è cruciale anche perché è una delle strutture più colpite in corso di demenza. Lo studio dei ricercatori romani dimostra che più alto è il numero degli anni di formazione scolastica e minore è il cambiamento negativo della struttura ippocampale. Sono stati studiati i cervelli di 150 soggetti in buona salute sia tramite Risonanza Magnetica sia con uno strumento più sofisticato chiamato Diffusion Tensor Imaging (Dti). Con la Rm si sono misurati i volumi di varie aree, ippocampo compreso, e con la Dti si è valutato lo stato del tessuto nervoso, la trama delle connessioni tra neuroni. Conclusione: chi ha un livello di educazione scolastica più alto ha anche una trama neuronale ippocampale più compatta. Questo vuol dire che ha mantenuto un buon numero di neuroni, ma anche (e soprattutto) i collegamenti tra loro, cioé le strade su cui circola l´informazione mentale.
Questo lavoro, impiegando strumenti di imaging cerebrale molto moderni, giunge alle stesse conclusioni a cui giunse nel 1996 uno studio che fece scalpore: il cosiddetto Nun Study, pubblicato su Jama. Una ricerca fatta su 93 suore della Congregazione della School Sister of Notre Dame di età compresa tra i 75 e i 95 anni, studiate sia alla loro veneranda età sia quando avevano 20 anni. Come? Analizzando le autobiografie che le monache avevano scritto al loro ingresso in Congregazione(conservate negli Archivi), valutandone la ricchezza ideativa e la complessità grammaticale, si è risaliti al livello intellettuale e linguistico delle giovani suore: l´esame autoptico dei cervelli delle monache morte ha potuto stabilire una relazione diretta tra Alzheimer e scarsa abilità linguistica da giovane. In questo studio, nessuna delle monache con alti livelli linguistici era morta con l´Alzheimer. David Snowdon, epidemiologo e neurologo dell´Università del Kentucky, ideatore del Nun Study, lo sta continuando con 1000 anziani abitanti.
* Pres. onorario Soc. It. Psiconeuroendocrinoimmunologia

Repubblica 8.3.11
Lo scrittore israeliano ricorda Uri, morto in guerra nel 2006
La canzone di Grossman per il figlio perduto


Versi dedicati a una giovane vita perduta, a un dolore per la perdita di un figlio di vent´anni che Grossman - «in quei momenti non domini la mente ti fai delle domande che non ti sei mai fatto prima nella vita», ci aveva confessato settimane fa davanti a un caffè molto zuccherato - ha saputo prendere e portare dentro la sua vita di padre, di scrittore, l´ha portato dentro le sue parole. Grossman ha da tempo smesso di essere solo uno scrittore di grande successo in Israele, è un´icona a cui un´intera generazione guarda come punto di riferimento, per la chiarezza del pensiero e del sentimento che lo anima, con la sua assoluta fedeltà a Israele che riesce a conciliare con la fede altrettanto assoluta nella possibilità di una convivenza pacifica in una Terra tanto difficile.
Per musicare queste liriche si è rivolto a un artista che apprezza in modo particolare, Yehuda Poliker, il più famoso e impegnato musicista pop israeliano che combina i ritmi mediterranei con il rock. Protagonista da trenta anni della scena musicale, Poliker scalò le classifiche nel 1988 con l´album "Cenere e Polvere", primo disco di musica "leggera" a trattare in Israele il tema della Shoah. Poliker ha accettato la sfida e in questi giorni sono state ultimate le fasi di lavorazione: la canzone sarà presentata domani alla Radio pubblica israeliana, dove fra l´altro Grossman iniziò a lavorare prima di trovare il successo come scrittore. L´insieme di note e versi è commovente, ma con un ritmo incalzante che riesce a sottrarre la canzone alla disperazione di fronte alla morte.
«Breve e veloce e spezza il cuore», scrive Grossman, «Eccitata e entusiasta e sprizzante, Scintille. Ma in un attimo sfiorisce e ingiallisce. Perché ai margini già si accende l´estate. Tanto è breve qui la primavera». In ebraico primavera è un sostantivo maschile, e questo permette una migliore identificazione nei versi fra la stagione e il figlio caduto l´ultimo giorno di quella guerra nel luglio del 2006, quando già si stava per firmare il cessate-il-fuoco imposto dalle Nazioni Unite. «E tu ed io sappiamo ed è terribile che solo lei non lo sappia», scrive Grossman, «Quanto breve sia la vita, la breve vita che gli fu data».
«Per me è una poesia che parla della pienezza della vita», dice lo scrittore, «della crescita e della sua fioritura, e certamente della perdita», della fine precipitosa, appunto come le primavere in Medio Oriente. «Mi sono rivolto a Poliker perché in lui, nella sua voce e nella sua personalità, c´è una fusione penetrante e toccante di dolore e gioia di vivere». Poliker ha scritto e musicato testi dolorosi e toccanti nella sua lunga carriera ma questa volta - racconta - scrivere le note è stato davvero molto particolare. «Mi sono molto emozionato quando David si è rivolto a me e mi ha affidato il testo. Mi sono avvicinato alle parole con cautela, era importante che la musica mettesse in evidenza il testo ma senza che si venisse a creare un´altra tipica canzone di lutto». E il risultato è davvero straordinario. La canzone è resa quanto mai attuale e struggente poi dalla primavera gerosolimitana che avanza a grandi passi, con i suoi alberi in fiore nelle strade, le buganvilee colorate rigogliose sui muri delle case, i giardini che emanano quell´odore intenso di aromi che presto, però, la calura estiva porterà via. «Generosa ed eccitata e dolorosa. Tanto è breve qui la primavera».