giovedì 10 marzo 2011

Repubblica Roma 6.3.11
Andrea Camilleri
"Dialogo con i lettori su Montalbano e i colori della Sicilia"
di Maria Pia Fusco


«È UNA fortuna poter assistere ancora vivente, seduto in prima fila, ad un evento celebrativo che ti riguarda», dice Andrea Camilleri dell' iniziativa "Camilleri e i suoi lettori", organizzata da Musica per Roma con Sellerio per l' 8 e il 9 marzo all' Auditorium Parco della Musica. Critici ed esperti commenteranno la sua letteratura e i lettori potranno rivolgergli domande. La sera dell' 8 è prevista l' anteprima del film tv "Il commissario Montalbano" e il 9 Camilleri, con Ficarra Scrivendo di Montalbano il lavoro è più facile. «Come diceva Simenon quando scrivi di un personaggio seriale ormai lo conosci, ci sono cose già approntate. È più difficile un romanzo non seriale». Montalbano non sarà eterno: «Lui non è come Sherlock Holmes, quando mi arriverà la stanchezza, Montalbano sparirà, nell' ultimo romanzo sarà senza ritorno». A parlare del poliziesco all' Auditorium ci sarà (l' 8) tra gli altri Carlo Lucarelli, che con Camilleri ha scritto Acqua in bocca. Sembra più sorprendente la presenza (il 9) di Marco Bellocchio. In realtà «Marco è stato mio allievo al Centro Sperimentale. Era entrato come attore, ma dopo un po' lo vedevo distaccato, sentivo che non aveva voglia di recitare. Allora lo presi sottobraccio, gli dissi la mia impressione e mi diede ragione. L' anno dopo passò al corso di sceneggiatura». Dunque se il cinema italiano ha acquistato un maestro si deve a Camilleri, ma nella sua fortunata carriera in teatro, televisione e letteratura, manca proprio il cinema. «Ho perso la mia occasione. Tanti anni fa Monica Vitti, dopo due film con Antonioni, mi disse che avrebbe voluto fare un film comico. Scrivemmo una sceneggiatura, il titolo era "A donna che t' ama proibisci il pigiama", era una farsa un po' alla Feydeau. Antonioni rifiutò di farla ma, gentilissimo, mi propose di fare la regia, ma non avevo esperienza di riprese, mi spaventai e lasciai perdere». A Roma dal ' 49, «ricordo la meraviglia di trovarmi subito come a casa. Amo Roma di quegli anni, ma continuo a starci bene. Mi piace l' Auditorium, ne hanno fatto un punto di ritrovo. Lo so, durante gli incontri non si fuma, ma per tre, quattro ore riesco a trattenermi. Smettere? Ci sono riuscito per venti giorni. Poi il mio medico a cena mi ha visto troppo infelice e mi ha offerto una sigaretta. E mi consenta - scusi la citazione - a 85 annie mezzo perché dovrei smettere?».

D di Repubblica n° 731
Massimo Cacciari
Una cosa che voleva e non ha avuto? «La bontà di Gesù e l’intelligenza di Spinoza»


A 13 anni che cosa voleva fare?
Giocare (a pallone, tennis, ecc.) e leggere Kafka (avevo appena iniziato e mi travolgeva).
Ha il potere assoluto per un giorno: la prima cosa che fa?
Lo regalo.
La sua casa brucia: cosa salva?
L’ospite.
Se la sua vita fosse un film, chi sarebbe il regista?
Nessun film. Fellini è morto.
All’inferno la obbligano a leggere sempre un libro: quale?
Spero che il diavolo mi faccia comunque scegliere tra i capolavori... Allora dico: Morte a Venezia.
La volta che ha riso di più?
Quando i sondaggi dicevano che avrei vinto, col centro-sinistra, le regionali del Veneto.
Nel migliore dei mondi possibili dovrebbe essere abolita la parola?
Praticamente.
Entra in una stanza dove ci sono tre donne: chi e perchè attrae la sua attenzione?
Quella che mostra di non conoscermi.
Oggi cos’è tabù?
Provare vergogna. é proibito.
Una cosa che non ha mai capito della gente?
Conosco solo persone, non gente.
Come si immagina il paradiso?
Un istante eterno di gioia.
Un bambino le chiede: «Perchè si muore?» Cosa gli risponde?
Perché dobbiamo far posto ad altri. E non significa affatto morire, solo tramontare.
Il vero lusso è?
Esser contenti nel desiderare. E basta.
Le rimangono 12 ore di vita: cosa fa?
Vado a rivedermi la Resurrezione di Piero della Francesca a Sansepolcro.
Cosa ha imparato dall’amore?
Che il bello è difficile.
Un posto dove non è mai stato e vorrebbe andare?
Al Teatro di Dioniso ad Atene, nel V secolo, per una “prima” di Sofocle.
Il suo più grande fallimento?
Tutte le volte che credevo di esser “riuscito”.
Se dico Italia qual è la prima cosa che le viene in mente?
Il Saggio di Leopardi sui costumi degli italiani.
Di cosa ha paura?
Del male fisico, che il corpo mi diventi nemico.
Tre cose che ama, tre cose che odia
Amo: silenzio, pazienza, dubbio. Odio: chiacchiera, arrogante sicurezza di sè, maleducazione.

MASSIMO CACCIARI, filosofo, ex sindaco di Venezia, insegna Estetica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Il suo ultimo libro è Hamletica (Adelphi). 

Repubblica 9.3.11
"Non siamo tema di serie B è ora di chiedere alla politica il 50% della rappresentanza"
Camusso: il berlusconismo mercifica tutto
Le ragazze ci raccontano che oggi la vera forma di contraccezione è la precarietà
di Cinzia Sasso

MILANO - Per l´occasione, ha messo un tailleur, le scarpe tacco cinque, come al solito. Anche se al solito sono nascoste dai pantaloni. Susanna Camusso, 55 anni, madre di una figlia di 22, archeologa mancata e primo segretario generale del più grande sindacato italiano, esce radiosa dall´incontro con il capo dello Stato. «Ho sentito parole che mi hanno aperto il cuore: dignità, ma anche lavoro, autonomia, libertà, protagonismo».
Da quattro mesi la Cgil ha un segretario donna. Che oggi è salita al Quirinale. È un bel simbolo.
«Io non mi sento un simbolo, però capisco che in questa stagione di degrado sia una cosa importante. È simbolico che il sindacato abbia un segretario donna; non è simbolica Susanna Camusso».
Le donne del centrodestra dicono che questo è un governo amico delle donne.
«Penso a quello che hanno fatto, giudichino gli altri. Il primo atto è stato la cancellazione della legge sulle dimissioni in bianco; hanno portato la pensione a 65 anni senza dare alle donne altri strumenti; hanno tagliato la scuola e sappiamo sulle spalle di chi va a finire; hanno cancellato il fondo delle politiche sociali; hanno fatto una legge inaccettabile sulla fecondazione assistita; per la social card obbligano a dire "io sono povera"... Non mi viene in mente altro che abbiano fatto. E poi c´è il discorso sulla cultura che hanno alimentato: il berlusconismo è l´emblema della mercificazione, tutto è comprabile, anche il rapporto con le persone».
Dicono anche che la manifestazione del 13 febbraio era una gara di insulti delle donne di sinistra.
«Vicino a me in piazza c´erano Giulia Buongiorno e una suora, c´erano tante voci diverse. Se un milione di donne dice che non possiamo essere la berlina del mondo, non sono tutte di sinistra».
Che cosa si potrebbe fare per aiutare davvero le donne?
«Intanto bisogna chiarire che far andare avanti le donne vuol dire far andare avanti il Paese e questo è il momento giusto per cambiare il modello del passato che è fallito. Le donne generano lavoro, l´occupazione femminile è un fattore di crescita, una ricchezza per il Paese. Un soggetto nuovo è più ricco, ha più voglia di vivere e progettare. I nostri obiettivi sono chiari: ci batteremo per ripristinare la legge contro le dimissioni in bianco; per garantire un lavoro non precario; per difendere la maternità, e le ragazze oggi raccontano che la vera forma di contraccezione è la precarietà. E ci vuole una norma sulla paternità obbligatoria».
C´era una proposta di legge sulle quote rosa nei cda che però è bloccata e scarnificata.
«Le quote sono uno strumento utile perché obbligano a "liberare dei posti", di suo nessuno si fa da parte. Emma Marcegaglia dice che non va bene: ma è il solito schema, alle donne si chiede quello che negli uomini viene dato per scontato: intelligenza, competenza... Penso che anche la rappresentanza politica dovrebbe essere paritaria, 50 e 50».
Può il sindacato, fatto di uomini e donne, portare avanti obiettivi come questi?
«Bisogna smettere di considerare il tema delle donne di serie B. Di fronte a qualsiasi questione bisogna pensare che ci sono due punti di vista, anche nella politica sindacale. Stiamo ancora lavorando con lo schema che il maschile è neutro, invece il maschile è maschile e questo è fondamentale. Mi chiedo: perché le strade sono considerate infrastrutture e gli asili no? Perché abbiamo fatto tanta strada ma tanta ancora ne manca, la famiglia in Italia è ancora vissuta come delega, non come responsabilità reciproca».
Lei sembra una donna di ferro. Ha qualche paura?
«Ho una grande preoccupazione per il nostro Paese, per le profonde divisioni che vedo. Non c´è mai stata una fragilità così forte della nostra classe dirigente».
C´è la politica nel suo futuro?
«Mi rende isterica la ricerca del papa straniero. Il mio oggi è un lavoro e una passione. Ho imparato a fare questo e penso che ognuno debba fare quello che sa fare bene. E poi non c´è una politica forte se non c´è una rappresentanza sociale forte».
Il 6 maggio sarà il suo primo sciopero generale.
«È una straordinaria scelta di responsabilità. Siamo molto preoccupati e ci pare che nessuno si stia prendendo la responsabilità di fare qualcosa. Fisco e lavoro sono le due leve da cui partire. E penso che l´Italia sia un paese straordinario con una grande capacità di rimettersi in moto. Io ci credo: si può. E la Cgil farà la sua parte».

l’Unità 10.3.11
Il segretario: «Gran polverone. Il premier lo usa come arma di pressione contro i pm»
Bindi: «Trovo pericolosissima l’autonomia della polizia giudiziaria rispetto alla magistratura»
«Le Ruby diventano due»
Con la riforma l’inchiesta di Milano non sarebbe mai partita La polizia giudiziaria, infatti, non sarà più a disposizione dei pm
«No, serve solo a Silvio» Bersani boccia la riforma
Mentre Alfano presenta la bozza di riforma della giustizia a Napolitano, il Pd annuncia battaglia. «Aspettiamo le carte, ma le premesse non fanno sperare nulla di buono». Bersani: «Serve a coprire le leggi ad personam»
di Maria Zegarelli


La riforma «epocale» che oggi verrà discussa in Consiglio dei ministri si annuncia soprattutto come una battaglia parlamentare «epocale». Il Pd resta sulle barricate e il giudizio non cambia dopo l’ultima stesura illustrata ieri sera al presidente della Repubblica dal ministro Angelino Alfano. «Aspettiamo di vedere le carte dice il segretario Pier Luigi Bersani ma le premesse non sono certo buone». Non sarebbe altro che «una manovra» che punta a dare «copertura politica» alle leggi ad personam che, secondo il leader Pd, «certamente non sono finite».
LA TENAGLIA
«Penso che Berlusconi voglia metterci in mezzo a una tenaglia dice Bersani -: da un lato cerca di uscire dai suoi processi, e non credo che siano finiti i tentativi di uscirne con forzature delle norme e delle regole, e dall’altro alza una bandiera». Forti dubbi che la riforma costituzionale che ha in mente la maggioranza arrivi al traguardo del doppio esame delle Camere, «e questo può essere positivo, viste le intenzioni». Il sospetto, in realtà, è che il gran polverone che si alzerà nei prossimi mesi serva al premier come arma di pressione contro gli stessi magistrati che dovranno giudicarlo nei quattro processi «del lunedì». «Un modo per rafforzare ex post la tesi della persecuzione», dice Mario Cavallaro, in Commissione Giustizia alla Camera. «Perché non partire dalle tre proposte depositate in Parlamento? Iniziamo da lì», rilancia il segretario. «O leggi ad personam o riforme costituzionali che non arrivano da nessuna parte aggiunge -. Non c’è mai nel “mirino” il funzionamento della giustizia. È un tema preso ostaggio da Berlusconi».
«Parlo per me e non so se sono maggioranza nel partito esordisce la presidente Rosy Bindi -, ma sono contraria alle misure annunciate dalla maggioranza. Trovo pericolosissima l’autonomia della polizia giudiziaria rispetto alla magistratura, come sono contraria alla separazione delle carriere. In realtà siamo di fronte ad un manifesto pensato per creare conflitto con la magistratura e giustificare le performance del lunedì a processo di Berlusconi».
«Non è certo limitando l`obbligatorietà dell`azione penale o introducendo la possibilità di citare direttamente in giudizio un magistrato commenta la capogruppo in Commissione Giustizia Donatella Ferranti che ha erroneamente applicato una legge che si garantiscono i cittadini da provvedimenti ingiusti o che si accelerano i tempi dei processi». Lapidario anche Lanfranco Tenaglia: «Continuano a mischiare la carte in tavola perché quello che interessa solo le leggi ad personam, come il processo breve, che sono in dirittura d’arrivo alla Camera. Non c’è assolutamente la volontà di riformare la giustizia nel senso che interessa al Paese ma di continuare a sfasciarla».

Claudia Fusani:
Una cosa è certa: se la riforma fosse già in vigore, l’inchiesta su Ruby e sul presunto giro di prostituzione in quel di
Arcore non sarebbe stata mai fatta. Per un motivo soprattutto: la polizia giudiziaria dipenderà dal politico e non dal pm. Intanto dalle nuove carte depositate nella Giunta per le autorizzazioni della Camera, emergono altre deliziose novità. Una su tutte: le Ruby sono due e una, nota cantante egiziana, è in qualche modo riconducibile «all’entourage dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak». Gli onorevoli avvocati Longo e Ghedini il 3 febbraio hanno interrogato, nel ruolo di testi a difesa del premier imputato, i ministri Frattini, Bonaiuti e Galan. E i loro racconti sembrano un buon alibi per la bugia delle bugie: Berlusconi era veramente convinto che Ruby fosse parente del presidente egiziano. Tanto che gliene ha persino parlato in una cena ufficiale a villa Madama il 19 maggio 2010. Prima, quindi, delle nota serata del 27 maggio quando Ruby minorenne fu portata in questura senza documenti, denunciata per furto e poi liberata, contro la legge, affidandola al consigliere regionale Nicole Minetti. Frattini, quella sera del 19 maggio, sedeva racconta «alla destra del Presidente del Consiglio». Allo stesso tavolo «Galan, il consigliere ministro Archi, Valentini, Bonaiuti e la delegazione egiziana, al centro Mubarak e accanto gli interpreti». Continua Frattini: «Berlusconi sicuramente parlò di Ruby a Mubarak che, dall’espressione, non mi parve avesse realizzato a chi si riferisse il premier. Da altri interventi da parte egiziana emerse che una certa Ruby fosse una cantante egiziana. La conversazione fu un po’ confusa. Berlusconi disse che questa ragazza sarebbe appartenuta ad una cerchia familiare riferibile al presidente Mubarak il quale non comprese troppo bene.
Allora Berlusconi disse: “Ci informeremo meglio”». Più “utile” alla difesa il ministro Galan. «Verso la fine del pranzo Berlusconi parlò a Mubarak di una giovane bella egiziana di nome Ruby che aveva avuto modo di conoscere. Mubarak non focalizzò subito, lui si riferiva ad una nota cantante di nome Ruby. Berlusconi accennò che doveva trattarsi di una parente o comunque di una persona della cerchia presidenziale». Se Bonaiuti resta generico («si parlò di una cantante egiziana e io mi sono ricordato della famosisisma Um Kalsoum»), più preciso è il fedele Valentino Valentini: «A fine cena Berlusconi disse di aver conosciuto una giovane ragazza egiziana di nome Ruby proveniente da una nota famiglia egiziana. Più interlocutori egiziani sono a quel punto intervenuti per dire che Ruby è una famosa cantante egiziana. Ed emerse una familiarità tra questa Ruby e l’entourage di Mubarak». E insomma, in un modo o nell’altro, le Ruby diventano due. Miracoli egiziani. E il Marocco? Pazienza.

l’Unità 10.3.11
Inadatto al compito
di Concita De Gregorio


In dissenso con un buon numero di opinioni lette ieri su giornali di destra di sinistra e di centro opinioni argomentate, ironiche, pensosissime o sagaci vorrei spiegare qui in modo chiaro perché ritengo che nessuna riforma della giustizia si possa e si debba discutere con questo governo. Lo dirò in pochissime parole, credo che bastino: non si riforma la giustizia con chi è imputato. Sarebbe certamente urgente e necessario mettersi al lavoro per rendere la giustizia più efficace, per dare più strumenti a chi la amministra. Purtroppo, però, non siamo in condizioni di farlo per via del fatto che il Presidente del Consiglio si trova in questo momento sotto processo come lo è stato innumerevoli volte in passato, quasi senza soluzione di continuità, quasi che la sua passione per la politica fosse in qualche modo collegabile alla sua esigenza di mettersi in salvo dalle conseguenze dei suoi gesti. Quasi che.
Non ci si siede ad un tavolo a discutere di giustizia se dall’altra parte del tavolo c’è qualcuno che con ogni mezzo si sottrae alla giustizia stessa: non è, come posso dire, un interlocutore all’altezza del compito. C’è un conflitto di interesse endemico: il suo interesse ad avere una giustizia che gli convenga confligge a priori, per il solo fatto di esistere, con l’interesse collettivo. Non c’è bisogno di entrare nel merito, anzi non lo si può fare. Allo stesso modo non si discute di riassetto del sistema radiotelevisivo con chi ne detiene il monopolio, errore già occorso in passato e dal quale evidentemente non si è tratto alcun insegnamento. Semplicemente: si impedisce a chi detiene il monopolio del sistema radiotelevisivo di governare. Poi eventualmente, se costui preferisce fare politica al fare miliardi per la sua famiglia con le sue aziende, allora cede realmente le sue tv, si candida e corre con gli stessi mezzi economici e mediatici degli altri, se eletto diventa un valido interlocutore per discutere persino di tv. O di giustizia, o di scuola, o di impresa.
Se così non fosse se questo non fosse un principio fondativo delle democrazie rappresentative a capo dei governi dei paesi occidentali ci sarebbero gli uomini più ricchi dei medesimi paesi, i Murdoch e i Bill Gates, i signori dei colossi informativi sarebbero tutti presidenti e i miliardari corruttori (ce ne sono a tutte le latitudini) anzichè rispondere delle loro malefatte sarebbero tutti lì a riformare i sistemi-giustizia a loro misura. Possiamo dunque annoverare l’esigenza di una vera e rapida riforma del processo fra le ragioni che dovrebbero determinare le dimissioni di Berlusconi e il rapido ricorso alle urne. Non succederà, perché dopo aver permesso che l’uomo col più straordinario potere mediatico ed economico del paese si candidasse alla guida del medesimo non possiamo ora aspettarci che divenga ragionevole, acceda alla causa comune, si interessi al bene di tutti e non pretenda, come deve sembrargli ovvio, di continuare ad occuparsi del suo.

l’Unità 10.3.11
Sedici articoli ridisegnano il Titolo IV della Carta, quello dedicato al terzo potere dello Stato
La magistratura diventa un «ufficio» e i pm degli impiegati. Nasce l’Alta Corte di disciplina
La giustiza come piace a lui: punire i pubblici ministeri
Oggi il Consiglio dei Ministri approva 16 articoli che fanno piazza pulita dell’equilibrio fra i tre poteri dello Stato. Una riforma «epocale», come dice il Cavaliere. Con i pm che rischiano di tasca propria.
di Claudia Fusani


Sedici articoli che rivoluzionano l’assetto dello Stato. Che buttano all’aria quel perfetto bilanciamento tra i tre poteri studiato parola dopo parola nei 137 articoli della Costituzione. «Sarà una riforma epocale»: per una volta ha ragione il presidente del Consiglio. Quella che viene approvata stamani dal Consiglio dei ministri è qualcosa di «epocale» sul fronte della giustizia ma che, ancora una volta, nulla fa per risolvere il vero problema: la lentezza della giustizia. Il succo dei sedici articoli che intervengono sul titolo IV della Carta e, dal 101 al 113 è che i pubblici ministeri, quella parte della magistratura che fa le indagini ed è la pubblica accusa nei processi, viene declassata a «ufficio» con scarsi poteri di indagine e se sbaglia, deve anche pagare di tasca propria. E’ la «punizione» invocata dal premier all’indomani del rinvio a giudizio per il caso Ruby. La bozza finale del ddl di riforma costituzionale è stata vista ieri intorno all’ora di pranzo dal premier Berlusconi, nel pomeriggio è stata illustrata al Presidente della Repubblica e in serata allo stato maggiore del pdl a palazzo Grazioli. Nonostante questo il Guardasigilli ieri sera ha voluto ancora ripetere: «Il testo? lo scriviamo domani».
I CSM DIVENTANO DUE
Uno per i giudici e uno per i pm ed entrambi saranno presieduti dal Capo dello Stato. Cade quindi l'ipotesi che a capo del Csm dei pm vada il Procuratore generale della Cassazione eletto dal Parlamento in seduta comune su indicazione del Csm.
E CAMBIA LA COMPOSIZIONE
Nel Csm dei giudici ci sarà di diritto il primo presidente della Corte di Cassazione. Gli altri componenti saranno per il 50% scelti dai giudici tramite sorteggio degli eleggibili (un modo per ridurre il potere delle correnti della magistratura); per l'altra metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università di materie giuridiche ed avvocati dopo 15 anni di esercizio. Il vicepresidente del Csm dei giudici sarà scelto tra i componenti laici. Durano in carica 4 anni e non sono rieleggibili. Nel Csm dei pm avrà posto di diritto il procuratore generale della Cassazione. Ancora in forse la composizione: metà esatta tra laici e togati o 1/3 laici e 2/3 togati. I Csm poi (art.105) «non possono adottare atti di indirizzo politico». E’ il bavagli o ai pareri.
L’ALTA CORTE DI GIUSTIZIA
La sezione disciplinare, che dovrà giudicare le toghe, non sarà più una sezione del Csm. Ma un organo a parte. E diviso in due, uno per i giudici e uno per i pm. I componenti di ciascuna sezione saranno al 50%laici e 50% togati. Presidente e vicepresidente saranno eletti dai laici. E’ assicurata «l'autonomia e l'indipendenza della Corte di disciplina» (art.105 bis). Ma il potere sarà in mano alla parte politica delle Corti.
AZIONE PENALE OBBLIGATORIA MA...
Oggi l’articolo 112 della Carta dice: «Il pm ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Quello nuovo invece aggiunge: «... secondo i criteri stabiliti dalla legge». Un legge ordinaria che detterà le priorità. E’ un grosso limite.
IL PM PAGA
«I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti, al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato». L’articolo 113 bis introduce un vecchio cavallo di battaglia di Berlusconi: la responsabilità civile dei magistrati. «Nei casi di ingiusta detenzione la legge regola la responsabilità civile dei magistrati» la quale «si estende allo Stato». Risultato: se il pm sbaglia qualcosa nel suo lavoro, dovrà pagare di tasca sua.
...E NON HA PIÙ LA POLIZIA
Se finora il pm dispone direttamente della pg (art.109), d’ora in poi sarà una legge ordinaria a stabilirne «le forma di utilizzo».

La Stampa 10.3.11
Conflitto tra i poteri dello Stato
di Carlo Federico Grosso


Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare la riforma costituzionale della giustizia. Una riforma «epocale», l’ha definita qualche giorno fa il presidente del Consiglio.
Se il Parlamento, a chiusura del lungo iter parlamentare previsto, dovesse davvero approvarla, la giustizia italiana non sarebbe, in effetti, più la stessa. Cambierebbe pelle, caratura, peso, incisività, colore. Sarebbe una giustizia del tutto diversa rispetto a quella che conosciamo.
I punti salienti della riforma dovrebbero essere, stando alle indiscrezioni, la separazione delle carriere, la spaccatura in due del Csm, l’istituzione di una «Alta corte di giustizia» destinata a gestire la disciplina dei magistrati, un diverso livello d’indipendenza a seconda che si tratti di giudici o di pubblici ministeri.
L’ elenco prosegue con la limitazione dell’obbligatorietà dell’azione penale (che diventerebbe esercitabile «secondo le priorità stabilite da una legge» votata ogni anno dal Parlamento), la polizia giudiziaria autonoma dal pubblico ministero, l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati che sbagliano.
Ebbene, nel suo insieme questo complesso di innovazioni determinerebbe una profonda alterazione del rapporto oggi esistente fra i poteri dello Stato. L’idea liberale di una magistratura destinata ad esercitare in modo indipendente il controllo di legalità sull’attività dei cittadini, soggetta soltanto al rispetto della legge, cederebbe il passo all’idea di una magistratura condizionata dal potere politico, ed in particolare dal potere esecutivo. Si realizzerebbe in modo traumatico, e fortemente limitativo delle prerogative della giurisdizione, quel «riequilibrio» fra i poteri che viene da tempo vagheggiato da una parte consistente della nostra classe politica.
Soprattutto, una riforma così configurata rischierebbe d’incidere profondamente sull’autonomia delle Procure della Repubblica e, pertanto, sull’esercizio dell’azione penale da parte dell’ordine giudiziario. Pensate: il pubblico ministero, secondo quanto si prefigurerebbe, non farebbe più parte di un «ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere dello Stato», ma costituirebbe, più semplicemente, un «ufficio» al quale la legge «assicura l’indipendenza»; esso non sarebbe più il protagonista delle indagini, ma dovrebbe sottostare alle iniziative ed alle valutazioni di una polizia giudiziaria resa autonoma dal suo ufficio e gerarchicamente dipendente dal governo; esso non sarebbe più libero di scegliere le priorità nelle indagini penali, ma dovrebbe comunque sottostare alle priorità dettate dal Parlamento.
Si consideri, d’altronde, la profonda modificazione che subirebbe il principio di indipendenza dell’ordine giudiziario, considerato a ragione cardine dello Stato di diritto. Oggi il principio d’indipendenza della magistratura è formulato in maniera piena dalla Costituzione, che stabilisce che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», e prevede, a presidio concreto di questo enunciato, un Csm forte ed autorevole, presieduto dal Capo dello Stato. Domani, se la riforma avviata dal governo dovesse essere approvata, s’indebolirebbe il principio generale d’indipendenza (riconoscendo la funzione di potere dello Stato autonomo dagli altri poteri soltanto alla magistratura giudicante), e, soprattutto, si vanificherebbe il presidio concreto dell’indipendenza dell’ordine giudiziario costituito dal sistema di autogoverno della magistratura.
Dividere, spaccare, significa già di per sé indebolire. S’ipotizza, peraltro, non soltanto di dividere in due il Csm, ma, altresì, di privarlo dei suoi poteri più nobili e incisivi, attraverso i quali esso ha potuto, negli anni, costituire uno strumento di tutela efficace dei singoli magistrati e della magistratura nel suo insieme ed essere voce autorevole dell’ordine giudiziario, riducendolo, nei fatti, a mera istituzione burocratica per la gestione dei trasferimenti e delle promozioni dei magistrati. Davvero una iniziativa utile per il Paese?
C’è un ulteriore profilo che, su tutt’altro piano, preoccupa. Si prevede che i due Csm siano modificati nella loro composizione, con incremento dei componenti laici di designazione politica, si prevede di istituire una «Alta corte di giustizia» anch’essa a maggioranza «laica», si prevede di introdurre la responsabilità civile dei magistrati che sbagliano. Talune di queste innovazioni di per sé potrebbero anche essere apprezzate. Non c’è tuttavia il rischio che esse, ancora una volta considerate nel loro insieme, e sommate alle altre novità proposte, realizzino, nei fatti, una intimidazione destinata a rendere i magistrati timorosi, e pertanto più timidi nel perseguire i reati e i loro autori?
Tutti riteniamo che la giustizia italiana oggi non funzioni come dovrebbe e che sia pressante l’esigenza di una riforma in grado di restituirle efficienza, rapidità e credibilità. Per soddisfare questa esigenza prioritaria servono peraltro incisive modificazioni dei codici e della legislazione ordinaria. Non serve sicuramente l’azzardo di una modifica dei principi costituzionali.

Corriere della Sera 10.3.11
Scioperare o no, magistrati divisi. Una settimana per decidere
di M. Antonietta Calabrò


ROMA— Scioperare o non scioperare? La risposta dal parlamentino dell’Anm arriverà presto, prima del previsto, alla fine della settimana prossima, sabato 19 marzo. Ma intanto il dibattito ferve tra le poco meno di diecimila toghe italiane. I magistrati (questa è la domanda) possono scendere in sciopero, per manifestare la loro contrarietà a una riforma costituzionale della giustizia? Oppure questa forma di protesta avrà un effetto boomerang e li farà apparire come una casta, rafforzando l’immagine della magistratura che il premier non si stanca di ribadire? È questo il dilemma che tormenta il gran corpaccione della magistratura, quello, diciamo così, della maggioranza silenziosa che in queste ore si anima sul web. E che è fatto non solo di «toghe rosse» o «toghe rotte» (dal titolo del blog di Chiarelettere del magistrato Bruno Tinti). Un dilemma ben sintetizzato da questo post anonimo che sembra proprio scritto dalla mano di un magistrato, perché certamente non è tenero neppure con Berlusconi: «Casta coesa=Dittatore unico» . È comparso ieri su Wikio (che monitora su web gli argomenti di attualità così come affrontati sui social network). E continua così: «Correnti Anm indicano dispoticamente via obbligatoria anche per magistrati che mirano ideali di giustizia etica e morale» . Poi c’è un’altra domanda: quella sui tempi. Scioperare subito? O attendere? Il processo di revisione costituzionale infatti è lungo, il percorso accidentato, quindi — è questo il ragionamento — sarebbe inutile se non dannoso alzare nel giro di poche settimane una barriera d’acciaio come lo sciopero. Meglio, forse, la sabbia negli ingranaggi. Tanto che Armando Spataro (il pm di Milano che a botta calda aveva commentato contro il premier: «A riforme epocali risposte epocali» ) ha dichiarato ieri che la «riforma è incompatibile con la Costituzione» , che essa delinea un «quadro preoccupante e che da ciò che leggo mi sembra incostituzionale» . Come a indicare che le nuove norme avranno davanti un percorso a ostacoli ben più insidioso che le braccia incrociate per un giorno.

l’Unità 10.3.11
Insultano la Carta e tagliano 81mila prof: fermiamoli il 12
Intervista a Giovanni De Luna
«Delegittimare la scuola vuol dire spaccare l’Italia»
«Il governo sta attaccando ciò che rappresenta il primo grado di inclusione del Paese, il luogo dove si forma la comunità e l’identità di un popolo»
di Oreste Pivetta


La scuola maltrattata, la scuola offesa, la scuola tagliata. Eppure c’è anche la scuola nell’unità di Italia, l’Unità che non tutti vorrebbero celebrare in questi giorni. C’è la scuola assieme, ovviamente, ad altre “voci”: guerre, chiesa, fabbriche, politica, trasporti, comunicazioni di massa, mafie... Voci, che sono altri passaggi, nel bene o nel male, di un cammino contrastato e contradditorio verso l’unità e soprattutto nella costruzione di una identità comune, voci che diventano “isole tematiche” nella mostra “Fare gli Italiani. 150 anni di storia nazionale”, dal 17 marzo a Torino, alle Officine grandi riparazioni di via Castelfidardo 22, quattordicimila metri quadri di installazioni. «Ciascuna voce – spiega Giovanni De Luna, storico e curatore insieme con Walter Barberis – abbiamo cercato di interpretarla e di rappresentarla alla luce della coppia inclusione-esclusione. Alcuni esempi. La fabbrica è stata una straordinaria occasione di inclusione, perché nella fabbrica si sono incontrati migliaia di italiani, di diverse regioni, di diversi dialetti, di diversi costumi, che davanti alla loro condizione di lavoratori hanno maturato un comune sentire e un comune modo per esprimerlo. Le mafie hanno generato l’effetto opposto, separando e quindi escludendo una parte della popolazione».
Professor De Luna, in questo percorso si immagina un ruolo straordinario della scuola: a scuola si impara la lingua di tutti e si dovrebbe costruire un sistema di valori condivisi. È ancora così?
«Quello è stato e continua ad essere il ruolo della scuola pubblica in Italia. Un ruolo, appunto, straordinario. Con varianti, ovviamente. Il percorso non è mai stato lineare. Se guardiamo al presente, la crisi è evidente, ma il compito resta fondamentale. Se gli immigrati e i loro figli diventano cittadini italiani sarà per il lavoro, ma sarà allo stesso modo per la scuola: sui banchi delle elementari crescono nuove schiere di italiani e crescono grazie all’impegno a volte strenuo di migliaia di maestri. Quando ci si riferisce alla scuola pubblica questo si dovrebbe in primo luogo riconoscere: la scuola in prima linea sul fronte dell’inclusione. Che cosa sarebbe altrimenti? Dove altrimenti si costruirebbe una comunità, capace di riconoscersi in una identità. Certo tutto è difficile, le strutture scolastiche sono malandate, gli insegnanti sono sfiduciati, c’è un deficit intellettuale, i contenuti stessi possono apparire obsoleti, ma l’attacco anche da parte della politica è stato continuo. La scuola non trova schierato al fianco un governo. Ne incontra uno che tenta di delegittimarla».
Non è solo la politica. C’è anche una società con i suoi modelli culturali che “sfiducia” la scuola... «Nel senso che la scuola deve sopportare il contrasto, la concorrenza di forme comunicative più efficaci, altri circuiti di trasmissione dei saperi, altri saperi. Del resto viviamo in una condizione di emergenza culturale, non solo politica».
Forse più culturale che politica, se si interpretano i “saperi” che può affidarci la televisione, da Amici al Grande Fratello?
«Questo fa parte di una deriva, cui partecipa anche la scuola. Ma per la scuola non c’è niente di nuovo. La scuola ha subito periodici attacchi. La scuola ha vissuto e vive di alti e bassi. All’Unità d’Italia, ad esempio, venne promossa, ma in un paese afflitto dall’analfabetismo non venne favorita l’istruzione elementare, bensì quella intermedia, perché in primo luogo si voleva addestrare un ceto amministrativo e tecnico, utile al nuovo stato. Poi venne il momento della scuola elementare. Il fascismo condizionò la funzione inclusiva, che tornò alta ai tempi del centrosinistra, ai tempi di Tristano Codignola....
Che fu alla guida della politica scolastica nel Psi di Nenni e che fu traipiù battaglieri sul fronte della istituzione della scuola media unica e della stessa scuola materna statale.
«Oggi siamo al tentativo ripetuto di delegittimare la scuola...» Berlusconi dice infatti che la scuola pubblica non educa. Ma gli attacchi sono pure altri, la Lega in prima fila, in modo talvolta ambiguo. Quanto vale il dialetto rispetto a un progetto inclusivo della scuola?
«Continuo a ritenere che avesse ragione Pasolini: il dialetto vive dentro una lingua nazionale forte, in un circuito virtuoso. Il problema non è aprire la scuola a una dimensione del locale. Anzi, questa apertura può costituire un momento didattico molto serio, un avvicinamento molto concreto alla realtà, un’esperienza di lettura della realtà e di confronto. Il problema è costruire attorno una cornice molto robusta dal punto di vista concettuale, che comunichi appartenenza».
Come fecero i piemontesi un secolo e mezzo fa? «Allora lo stato procedette estendendo in modo burocratico amministrativo il modello piemontese. Ma non si può demonizzare questa scelta, che ci diede un sillabario unico, ma anche una lingua per parlarsi da nord a sud e un sistema di valori. In quel modo si formò un’idea di cittadinanza. I nostri sussidiari saranno stati retorici, ma accompagnarono questo paese verso il benessere, facendoci capire di partecipare tutti alla stessa impresa».
Una scuola federale ha una ragione?
«La scuola federale mi sembra una stupidaggine, che pretende chi, come la Lega di Bossi, ha la sua idea di cittadinanza, inaccettabile peraltro: una cittadinanza che accantona i valori e si fonda sugli interessi».

l’Unità 10.3.11
Lettera da una professoressa
Il premier attacca il pensiero critico
di Caterina Pes


Per una volta voglio dismettere i panni da parlamentare e rindossare quelli dell’ insegnante, il lavoro che ho svolto con passione per tanti anni e che tornerò a svolgere quando sarà conclusa la mia esperienza a Montecitorio. Ho sempre avuto la consapevolezza, lucida e netta, del valore sociale, oltre che culturale, di una scuola pubblica, libera, laica, indipendente. Ma mai come in questo momento, dopo le parole sovversive che Silvio Berlusconi è stato capace di pronunciare, ho sentito il merito di questa funzione per la nostra democrazia, mai come in questo momento ho desiderato tornare nei panni della professoressa di filosofia che ha cercato non di “inculcare” ai suoi ragazzi il proprio pensiero, ma di insegnare loro ad essere liberi, vigili e critici. Ad avere rispetto della democrazia e di se stessi in quanto cittadini. Quello che il presidente del Consiglio, ormai indegno del suo ruolo, ha sferrato non è stato un attacco alla scuola, perché ci hanno pensato già le sue finanziarie ad ucciderla, con tagli di proporzioni mai subite prime da un sistema dell'istruzione che pure è, suo malgrado, abituato ai conti in rosso. Berlusconi questa volta ha fatto di più: ha attaccato il pensiero critico. Che è altra cosa dalla libertà fasulla e vuota che il nostro premier ha avuto la sfrontatezza di infilare persino nel logo del suo partito. Ma di quale libertà parla? La libertà di poter fare lui ciò che vuole e negare a noi la libertà di dissentire?
Dobbiamo stare molto attenti, perché Berlusconi ha una strategia collaudata: sdoganare i suoi vizi, e abituare il nostro palato a concetti inaccettabili in un paese come il nostro, un tempo politicamente maturo . Così facendo egli ottiene due risultati: conquista, o meglio crede di conquistare, il favore dei cattolici e delle loro ricche scuole, e nega a noi, docenti della scuola pubblica, il dovere, prima che il diritto, di insegnare ai giovani ad essere liberi, grazie alla cultura, che in quanto tale non ha padroni.
È chiaro, dunque, che attaccando la scuola pubblica, di tutti, dei ricchi come dei poveri, repubblicana e unitaria, Berlusconi indirettamente attacca il sapere e la conoscenza che, per loro natura, sono liberi.
Mi appello allora ai colleghi, agli studenti, agli insegnanti, perché ognuno di noi giochi il proprio ruolo in questa battaglia paradossale che ci vede schierati a difenderci da chi ci dovrebbe proteggere.
Spesso ci è capitato di assistere sbigottiti ad affermazioni inaccettabili e irripetibili da parte del premier e ogni volta ci convinciamo che abbia toccato il fondo della dissacrazione delle istituzioni, ma l'attacco sferrato alla scuola pubblica e peggio ancora alla libertà del pensiero, credo che, realmente, sia la più grave delle sortite di un uomo che passerebbe su qualunque cosa pur di mantenere il potere.

l’Unità 10.3.11
Verso la manifestazione del 12 marzo
di Domenico Petrolo


Da diversi anni assistiamo a un attacco continuo ai valori ed i principi sanciti dalla nostra Costituzione. Con annunci di fantomatiche riforme Costituzionali, di cui il Paese invece avrebbe realmente bisogno, si cerca quotidianamente di smontare tassello dopo tassello le nostre principali istituzioni.
L’Italia si ritrova governata da un Premier che ha una visione distorta e pericolosa della Democrazia. Una visione per cui nessuno può disturbare il “grande manovratore” e gli organi di garanzia, che per fortuna ancora oggi sono i cardini della nostra vita democratica, sono raffigurati come stantii orpelli burocratici, che impediscono di realizzare il fantomatico “nuovo miracolo italiano”. Come se la disoccupazione,che colpisce un giovane su 3 e una donna su 2, sia responsabilità della Corte Costituzionale o del Quirinale.
Qualsiasi luogo dove si “annida” o si “forma” un’opinione pubblica diversa da quella prevista da questa ultradestra governante viene subito indicato come un bersaglio da colpire, attraverso controversi atti legislativi, provvedimenti punitivi o dichiarazioni dal tono aggressivo e cariche di disprezzo.
Così è successo alla scuola pubblica, descritta dal premier come un luogo in mano a pericolosi inculcatori, quando invece è spesso uno splendido esempio d’impegno civico, con professori bisfrattati che, nonostante la peggior paga d’Europa, cercano ogni giorno di dare un’istruzione decente ai nostri ragazzi. Cosi è stato per l’informazione libera e per la magistratura, su cui si annuncia proprio in queste ore una “riforma epocale”.
In questo clima di contrapposizione permanente, ancora una volta si corre il rischio che la nostra Carta Costituzionale venga stravolta, non nell’interesse collettivo, ma all’insegna di un’idea di democrazia per pochi e non per tutti. Si corre il pericolo che il diritto all’istruzione e molti altri diritti siano calpestatati in nome di un finto liberalismo, dietro cui si nascondono interessi individuali e di parte.
Per questo lo sforzo che ci viene chiesto è maggiore del solito. Oggi è necessaria una resistenza civile, la difesa civica della nostra democrazia. E’ necessario ricostruire il tessuto socio-culturale del nostro Paese.
Dobbiamo ritrovare l’orgoglio di essere italiani, di essere una comunità .
Per questo la manifestazione di sabato 12 per la Costituzione e per la Scuola Pubblica, sarà un grande momento che dovrà vederci uniti, al di là di ogni colore politico, all’insegna del nostro tricolore. Uniti per la nostra carta costituzionale, nella certezza che non possiamo permettere a nessuno d’intaccare le nostre libertà e i nostri diritti fondamentali.

Repubblica 10.3.11
Scalfaro: la Costituzione è sotto attacco
Messaggio per il C-day. Cgil: impegno etico essere in piazza. Sì di Venditti
di Giovanna Casadio


ROMA L´augurio di Oscar Luigi Scalfaro è di «coinvolgere il maggior numero di cittadini» nel C-day, nella mobilitazione per la Costituzione e la scuola che si terrà sabato in un centinaio di piazze italiane e straniere. Ma soprattutto, l´ex presidente della Repubblica e "padre costituente" invia al comitato "A difesa della Costituzione, se non ora quando?" un messaggio che è insieme di allarme e di pungolo: «È doveroso denunciare i tentativi di aggressione alla Costituzione che passano soprattutto attraverso i propositi di riduzione dell´autonomia e dell´indipendenza della magistratura e le proposte di modificare le norme che regolano il giudizio di costituzionalità delle leggi». Parole che arrivano puntuali ora che il governo si appresta a cambiare 14 articoli della Carta per rivoluzionare l´ordinamento giudiziario. La preoccupazione quindi, «è molto forte», ma come accadde con il referendum costituzionale del 2006 in cui i cittadini bocciarono la riforma del centrodestra, così afferma Scalfaro a nome dell´Associazione "Salviamo la Costituzione, aggiornarla non demolirla" gli italiani «sapranno ancora una volta rinnovare il proprio amore per la Costituzione repubblicana nata dalla lotta di Resistenza e di Liberazione».
È il miglior viatico (e Scalfaro potrebbe essere in piazza) a una giornata di iniziative, flash mob, cortei, adesioni che continuano a crescere. Oltretutto difesa della Carta e della scuola pubblica vanno a braccetto nella mobilitazione di sabato. Lo ripete a Montecitorio Dario Franceschini nell´interrogazione alla ministra Gelmini, che «sa solo schierarsi con Berlusconi, invece le piazze torneranno a riempirsi per difendere Costituzione e scuola». In piazza ci sarà la Cgil. «Difendere la Costituzione dai continui e strumentali attacchi è un impegno etico, oltre che politico e sociale, specie per un sindacato come la Cgil che considera fondamentali gli articoli che parlano del lavoro e dei problemi sociali ed economici». Tra le adesioni oltre ai politici, da quelli di Fli a Vendola, Bersani, Di Pietro, Tabacci intellettuali, personaggi dello spettacolo. Claudio Bisio apre la carrellata di testimonianze nello spot per il C-day, in cui gli articoli della prima parte della Carta sono recitati come passi di un breviario laico. Tra i messaggi di adesione, Dario Vergassola: «Alla Costituzione sta accadendo quello che succede al paesaggio, viene distrutto poco alla volta». Ottavia Piccolo: «Sarò in piazza perché sono nata in tempo di democrazia e diritti e se volevo qualcosa di diverso nascevo nel Far West o nella Chicago anni ‘20». E Antonello Venditti: «La Costituzione deve essere il nostro zenit». Ad aprire il corteo romano un Tricolore di 200 metriquadri. Beppe Giulietti invita a portare la Costituzione. Domenico Petrolo del comitato promotore: «Tutte le iniziative sono all´insegna della Carta e di tutti quei diritti e libertà fondamentali come l´istruzione pubblica, l´informazione, la giustizia che ogni giorno vengono minacciati da questo governo».

l’Unità 10.3.11
Intervista ad Angelo Del Boca
«Il conflitto potrebbe andare avanti per mesi»
di Umberto De Giovannangeli


Secondo lo studioso l’esercito regolare dispone di armi più moderne e potenti rispetto ai rivoltosi ma è difficile che riesca a riconquistare la Cirenaica dove non è mai stato popolare

Agita lo spauracchio-Al Qaeda; accusa l’Occidente di «complotto colonialista»”, avverte Stati Uniti e Nato: se attua-te la «no fly zone» la Libia impugnerà le armi...Gheddafi torna all’attacco mediatico. L’Unità ne parla con il più autorevole studioso del colonialismo italiano nel Nord Africa: Angelo Del Boca. «Siamo di fronte rimarca lo storico ad una guerra civile che potrebbe continuare anche per mesi...Gli insorti hanno la voglia di vincere ma il Colonnello ha dalla sua gli armamenti pesanti e, soprattutto, l’aviazione».
Nella sua ultima uscita televisiva, Gheddafi ritorna su Al Qaeda e sul «complotto colonialista» dell’Occidente...
«Gheddafi non è nuovo a queste uscite. Perché in fondo l’attacco ai Paesi colonialisti lo ha sempre fatto. Questa volta magari è più minuzioso, più diretto. Ora dipende da cosa faranno gli Stati Uniti e la Nato. Se, come si teme, ci sarà l’attacco sul territorio libico, allora una parte di ragione Gheddafi l’avrebbe anche, perché fino a prova contraria, la Libia è un Paese sovrano. E devo dire che in Italia sono molti quelli che si dichiarano contrari ad un attacco militare, a cominciare dal ministro dell’Interno Roberto Maroni...». E Al Qaeda? «Non escludo che ci siano uomini di Al Qaeda, soprattutto in Cirenaica, dove peraltro ci sono sempre stati. Non dimentichiamo che nel 1996, Gheddafi fu costretto ad inviare marina, aviazione ed esercito per reprime una rivolta esplosa tra Bengasi e la Montagna Verde. Allora si parò di 1200 morti e di carceri riempite di persone legate ad Al Qaeda. Questo per dire che la presenza qaedista non può essere esclusa, anche se Gheddafi probabilmente ne amplifica la portata».
Il Consiglio di transizione formatosi a Bengasi ha lanciato un ultimatum al raìs... «Si tratta di una iniziativa di nessuna efficacia e importanza, in quanto questo Consiglio è una espressione estremamente provvisoria e di scarsissima rilevanza. Resto però dell’avviso che comunque un tentativo per incoraggiare Gheddafi ad andarsene è del tutto legittimo e augurabile, perché probabilmente arresterebbe il bagno di sangue. Anche in Italia c’è un gruppo che si sta organizzando proprio per proporre una mediazione. Naturalmente è necessario prospettare una ritirata che salvi in parte la faccia di Gheddafi. Credo che questo gruppo si manifesterà nei prossimi giorni».
Nello stesso discorso a cui facevamo in precedenza riferimento, Gheddafi ha anche affermato che se verrà imposta la «no fly zone», la Libia prenderà le armi...
«Trovo che Gheddafi abbia dimenticato che è già in stato di guerra. Perché se è vero che gli Awacs controllano 24 ore su 24 l’intero territorio libico, si è già in stato di guerra».
Qual è la definizione che a suo avviso meglio si attaglia a ciò che da settimane sta avvenendo in Libia? «La definizione più calzante è guerra civile. Perché da una parte ci sono i fedelissimi di Gheddafi e dall’altra gli insorti che non accettano più la sua dittatura. Questa divisione attraversa anche le tribù, sulle quali Gheddafi aveva sempre fatto molto affidamento. Si era sempre detto che il Libro Verde avrebbe annullato le tribù e invece, nonostante la “terza teoria universale”, la Libia è ancora oggi uno Stato tribale».
Sul piano militare interno, quello in atto è uno scontro che può concludersi, e se sì in che tempi, con un vincitore e un vinto?
«Non credo, perché gli insorti non hanno armi pesanti, non hanno aviazione e dispongono di pochissimi carri armati. Hanno soltanto una gran voglia di vincere. Invece Gheddafi ha armamenti pesanti e, soprattutto, l’aviazione. Ma la sua forza non è sufficiente per riconquistare la Cirenaica. Quindi è una guerra che potrebbe continuare anche per mesi, se non intervengono altre forze».

il Fatto 10.3.11
In piazza per la Libia?
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, dicono che i pacifisti sono distratti. E neghittosi. Perché non riempiono le piazze con manifestazioni anti Gheddafi invece di starsene zitti a guardare la televisione? É una domanda che riguarda poco i pacifisti e molto i politici che hanno dichiarato Gheddafi il miglior amico dell'Italia, e lo hanno fatto appena due anni fa in parlamento, destra e sinistra, Pdl e Pd, quasi all’unanimità. Non tocca a loro, politici e partiti che hanno votato Gheddafi , dire che cosa pensano adesso?
Giovanna

PENSO che la lettrice faccia riferimento a ciò che l'on. Veltroni ha dichiarato al "Sole 24 Ore" dell'8 marzo, rispondendo alla domanda della giornalista Palmerini che chiede: "Qual'è la ragione del silenzio nelle piazze deserte?". Risposta: "Penso che ci siano due ragioni. La prima è che siamo entrati in una spirale di egoismo sociale e di riduzione del nostro orizzonte che include solo ciò che accade vicino". Risposta difficile da condividere, perché la Libia è vicinissima e quello che sta accadendo fa paura a tutti. Ma Veltroni completa così l'argomento: "La seconda ragione è che era molto più facile stare dentro lo schema tradizionale del 900, quello in cui i conflitti erano definiti da una storia che non esiste più." Incalza la giornalista: "La sua è una critica al partito democratico?" e ribatte Veltroni: "In questo caso no. Il Pd è stata l'unica forza politica a reagire anche con una manifestazione. No, mi sorprende l'assenza dei sindacati, associazioni, movimenti." Qui c'è un vuoto che ha bisogno di essere colmato. Prima c'è un trattato votato quasi alla unanimità dal Parlamento proprio quando tanti gruppi e movimenti chiedevano di non farlo. Ricordate, ad esempio, i Radicali? Non ripeterò la storia di chi ha voluto e votato e lodato come un cambiamento del mondo il trattato di relazioni strette, fraterne, militari ed economiche, strategiche e scientifiche con la Libia (e aggiungendo il mandato di bloccare con tutti i mezzi ogni tentativo di immigrazione dall'Africa all'Italia). Ma c'era gente in piazza, e non i Radicali da soli. C'erano anche molti italiani cacciati dalla Libia abbandonando tutti i loro beni e il loro lavoro e che nessuno ha voluto ascoltare prima di firmare o ratificare quel trattato. C'erano anche (pochi) deputati del Pd e altri parlamentari a cui nessuno ha prestato attenzione. Ma il problema si ripropone adesso. Il partito democratico sara' anche stato vivace nel reagire fuori dal Parlamento. Ma in Parlamento non vi è traccia di una richiesta di abrogazione del trattato con la Libia. Stiamo parlando di un legame celebrato anche dalle nostre Frecce Tricolori nel cielo di Tripoli e da un baciamano del primo ministro italiano al dittatore più sanguinario e feroce rimasto (purtroppo finora ) al potere. Possibile che solo il frammento di Partito Radicale eletto nel Pd lo abbia capito e lo abbia denunciato in tempo,in sparuta compagnia di pochi deputati disobbedienti? E non sarebbe una bella manifestazione se, nonostante l'errore, adesso il Pd si prendesse la responsabilità di volere la cancellazione del trattato? Come può il Parlamento chiedere ai cittadini di fare spontaneamente (e rischiando le botte di Maroni) qualcosa che il Parlamento non sta facendo e non ha detto di voler fare?

Corriere della Sera 10.3.11
Veltroni «chiama» Renzi. E lui stronca il partito
«Le firme? Non servono a nulla. Mi auguro che Berlusconi possa dimostrare la sua innocenza» . Asse per le primarie
di  Maria Teresa Meli


ROMA— Sono tutti là. Walter Veltroni, il leader del Pd originale, quello prima versione, che fa gli onori di casa ai due ospiti. Sergio Chiamparino, che poteva essere leader ma che poi ha preferito finire il suo mandato di sindaco di Torino. E Matteo Renzi, il leader che verrà. Sono tutti insieme al teatro dei Servi a Roma, per un convegno di Democratica, la fondazione di Veltroni. Parlano linguaggi differenti tra di loro, ma un filo li unisce, e anni luce li allontanano da Bersani e dal «suo» Pd. Renzi più di ogni altro in quella sala rappresenta la rottura con certe liturgie della politica del centrosinistra. Arriva senza essersi nemmeno tolto dal viso il cerone che ha messo per partecipare a Matrix. Nessun altro lì lo avrebbe fatto, per timore di un possibile accostamento a Berlusconi. Lui sì. Anche perché di questa «ossessione del Pd» per il premier è bello che stufo. Per questo non esita a dire quello che gli altri due si limitano a pensare: «La raccolta di firme non serve a nulla» . Il suo linguaggio è diverso e diretto: «Spesso raccontiamo un’Italia triste e i nostri in tv sono tristi e polemici. Però è a Roma e in Parlamento che è così, sul territorio è tutta un’altra storia» . Non si preoccupa di abbattere un totem del centrosinistra, la concertazione: «Io sono contrario, andava bene all’epoca di Ciampi, per il governo nazionale, ma non può essere replicata in sedicesimo in tutte le città italiane» . Non rinnega la rottamazione, anche se ha abbandonato i rottamatori: «Il senso era di dire: gente non potete svernare in Parlamento... c’è chi ci ha fatto le ragnatele lì» . Il sindaco di Firenze non risparmia critiche a nessuno, nemmeno al Bersani che non vuole mettere il suo nome sul simbolo del partito: «È una decisione che ci riporta indietro di 30 anni» . E fa anche di più, rompe un tabù che non romperebbe anima viva nel centrosinistra: «Io mi auguro — e so che verrò criticato per questo— che Berlusconi possa dimostrare la sua innocenza al processo perché in un Paese civile non si augura una condanna a nessuno» . Tutte parole che farebbero rabbrividire Rosy Bindi, che, però, lì non c’è: il suo Pd non è sicuramente quello che Veltroni ha deciso di mandare in scena al teatro dei Servi. Dunque, il sindaco di Firenze non nasconde la sua diversità, non si trincera dietro giri di parole o astuzie diplomatiche, non abbraccia la cautela. E questo lo rende differente anche da Veltroni e da Chiamparino. Ma poi Renzi parla lo stesso linguaggio del sindaco di Torino — e viceversa — quando si tratta di delineare il Pd come dovrebbe essere e come non è. Per il sindaco di Torino «la sinistra fa un’analisi inadeguata di come evolve la società italiana» . Per Renzi il Pd perso nel suo antiberlusconismo non ha altra identità se non questa e non rappresenta quindi un’alternativa di governo. Entrambi sono ostili alla Santa Alleanza. «Va rivista questa strategia» , dice il sindaco di Torino. E quello di Firenze: «Basta con gli inciuci, le ammucchiate e i tatticismi, smettiamola di inseguire Fini, Bocchino o altri statisti di questo tipo» . Anche sulle primarie la pensano nello stesso modo. Per Chiamparino «sono il metodo più trasparente e democratico» , tanto più che i partiti «non hanno più autorevolezza» . Per Renzi «non si può chiedere agli elettori di andare nelle sezioni, anche perché la maggior parte sono chiuse» , perciò bisogna coinvolgerli con le primarie: «È assurdo che decidano i gruppi dirigenti dei partiti che non rappresentano più niente» . Veltroni, soddisfatto, guarda Renzi e Chiamparino, seduto in prima fila. Sale sul palco solo alla fine per un discorsetto di due minuti. Annuncia che la settimana prossima presenterà un ddl per istituire le primarie per legge. Poi chiude così: «Non basta sostenere che questo è l’autunno del Paese, bisogna preparare la primavera» . Come a dire: caro Bersani, non puoi solo parlar male di Berlusconi devi anche dire che cosa vuoi fare tu per costruire un’alternativa credibile. Ma in quella sala tutti sembrano guardare a Renzi per quell’alternativa. Lui sorride, nega di essere sceso in campo, ma da un mese è in campagna elettorale per preparare la sua futura candidatura.

l’Unità 10.3.11
AlbertoTedesco sentito dalla commissione per le autorizzazioni a procedere del Senato
«Contro di me c’è un chiaro “fumus persecutionis”»
«Vendola sapeva tutto ciò che so io»
«Non c’è strumentalizzazione ma le indagini sono sbagliate»
L’ex assessore alla Sanità pugliese, del quale è stato chiesto l’arresto, sentito ieri dalla commissione per le autorizzazioni a procedere del Senato. I reati sarebbero stati commessi in concorso con altre 24 persone.
di Ivan Cimarrusti


«Escludo strumentalizzazione politica dei pm, altrimenti li avrei denunciati. Ma le indagini sulla sanità in Puglia hanno avuto un’impostazione e una gestione sbagliate, arrivando a conclusioni inattendibili, non supportate da prove». Queste le parole pronunciate dall’ex assessore alla Sanità pugliese e senatore del gruppo Misto (autosospesosi dal Pd), Alberto Tedesco, al termine dell’audizione di ieri davanti alla commissione per le autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama. L’arresto, chiesto dalla Procura, è stato disposto dal gip per i reati, di concorso con altre 24 persone, in concussione, turbata libertà degli incanti e falso ideologico. Nei confronti del senatore e di alcuni degli indagati è ipotizzato anche il reato di associazione per delinquere, venuto meno sulla base della decisione del gip. Per questo i pm hanno impugnato l’ordinanza nella parte in cui escludere l’esistenza del reato associativo.
IL FUMUS PERSECUTIONIS
«C’è stato “fumus persecutionis” da parte dei pm continua Tedesco -. Sulla gestione della sanità, Nichi Vendola sapeva esattamente quanto ne sapevo io. Non poteva non conoscere quanto accadeva nel governo del settore più rilevante della Regione, che assorbe il 75% del bilancio», e aggiunge, che «c’è un fatto che non è stato messo in luce: gli stessi pm al gip Sergio Di Paola hanno chiesto, e ottenuto, di archiviare l’accusa di concussione per me e Vendola. Ma per lo stesso identico fatto, ma in un altro procedimento e ipotizzando un altro reato (abuso d’ufficio, ndr), hanno chiesto al gip Giuseppe De Benedictis il mio arresto. Lo stesso gip De Benedictis aggiunge ha individuato questa incongruenza nell’accusa, chiedendosi perché per Tedesco sono reati e per altri no?». Infine, conclude il senatore, «dopo tre anni di indagini mi sarei aspettato una conclusione delle indagini, un rinvio a giudizio, ma una richiesta di arresto, non ha alcun senso non soltanto a detta mia, ma anche a detta di chi ha guardato le carte dell’accusa».

l’Unità 10.3.11
Biotestamento, «ossessione eutanasia»
Conclusa la discussione a Montecitorio, il voto ad aprile L’Idv presenta una pregiudiziale di costituzionalita
di Federica Fantozzi


Conclusa a Montecitorio la discussione sul biotestamento. E l’aula si prende un mese di tempo per metabolizzarla: il voto finale è previsto ad aprile. Ma un’intesa tra gli schieramenti resta lontana.
Il Pd, per bocca di Rosa Calipari, ha parlato di legge «irragionevole e anticostituzionale». IdV ha presentato una questione pregiudiziale di costituzionalità: il testo Calabrò violerebbe l’articolo 32 della Carta che pone limiti rigorosi all’obbligo di trattamenti sanitari. Prosegue il sit in dei Radicali sul piazzale di Montecitorio: slogan contro gli «aguzzini coi sondini», un cappio fatto con un sondino. Beppino Englaro, ieri alla conferenza stampa dipietrista, ha ribadito la sua contrarietà al testo: «C’è una maledetta ossessione sull’eutanasia, che non ha niente a che fare con tutto questo». Il padre di Eluana, la giovane donna morta due anni fa per l’interruzione della nutrizione artificiale dopo 17 anni di coma, ha spiegato: «Non voglio essere vittima sacrificale del non potere dei medici né vittima del conflitto di poteri del Parlamento».
Ma al di là dell’impatto negativo nella società (cittadini, associazioni, medici chirurghi, anestesisti, amministrazioni che hanno istituito il registro del biotestamento) il nodo principale è tutto interno al PdL. Passato l’entusiasmo, quando diversi parlamentari del centrodestra raccontavano di aver ricevuto pressioni per votare il ddl a pena di mancata ricandidatura, Berlusconi sembra di nuovo distaccato.
Il segnale del rompete le righe è arrivato da giorni sul Foglio, guidato dallo stesso Giuliano Ferrara e da Sandro Bondi. Ieri il quotidiano ospitava un appello bipartisan contro il testo «illiberale» firmato da Bondi, Manconi, Calderisi, Versace, Pecorella, Sandra Zampa, Mazzuca, Ferruccio Saro.
Sintomi del malessere nella maggioranza, dove il sostegno alla linea intransigente Sacconi-Roccella si fa più sfumato. Esponendo la maggioranza al rischio di fuoco amico in caso di voti segreti, tutt’altro che improbabili su questioni di coscienza.
Per ora, poi, non è riuscito il tentativo di spaccare il (fragile) Pd sul tema: i cattolici, compreso Fioroni, hanno detto che non voteranno il testo così com’è. Il sentiero però è stretto, e Di Pietro ha avuto buon gioco a stanare «l’ipocrisia dei partiti che lasciano libertà di coscienza». Al momento l’impressione è che per il testamento biologico la parola fine sia ancora lontana.

Corriere della Sera 10.3.11
Fondo dello spettacolo, decurtati altri 27 milioni
di Mario Sensini


Al ministero dei Beni culturali la definiscono «un’amara sorpresa, che lascia sgomenti ed interdetti» . Certo, l’ennesimo taglio al Fondo unico per lo Spettacolo, sistematicamente decimato dalle ultime Leggi finanziarie, fin quasi a essere dimezzato rispetto agli anni d’oro, non è una bella notizia. Peccato che la cosa era nell’aria da tempo, per l’esattezza da quattro mesi, cioè da quando il Parlamento ha approvato la nuova legge di bilancio, che ora si chiama Legge di Stabilità, per il 2011. Quella legge assegnava al Fondo unico per lo Spettacolo uno stanziamento, già ridotto rispetto al 2010, di 258 milioni di euro. I soldi sarebbero arrivati dall’asta per l’assegnazione delle frequenze liberate dal passaggio dalla tv analogica a quella digitale. Ma in quella stessa legge c’era una clausola di salvaguardia esplicita, pretesa dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: se fosse venuta meno la prospettiva di incassare il previsto dall’asta delle frequenze (2,4 miliardi di euro in tutto), sarebbe stata congelata una parte delle dotazioni dei ministri per l’anno in corso. E così è stato. Le procedure per l’asta non decollano, mentre i soldi sarebbero dovuti entrare non oltre la fine di settembre, e il Tesoro è corso ai ripari, tirando fuori di nuovo le forbici dal cassetto. L’unica «consolazione» per il ministero dei Beni culturali è che il taglio delle risorse disponibili per quest’anno riguarda i fondi gestiti da tutti i ministeri, con due sole eccezioni: il Fondo ordinario delle Università e le risorse destinate al finanziamento del 5 per mille dell’Irpef al volontariato. Per Sandro Bondi, che ha già espresso al presidente del Consiglio la volontà di lasciare i Beni culturali perché si sente abbandonato, è comunque un boccone amarissimo da digerire. Il Fondo unico per lo Spettacolo, con il nuovo intervento del ministero dell’Economia, viene decurtato di 27 milioni, che saranno congelati fino alla fine dell’anno. «E che di fatto non potranno essere utilmente ripartiti tra le varie voci del Fondo» sostengono al ministero guidato da Bondi. Fatto sta che nel piatto dei Beni culturali, si fa sapere, ci saranno solo 231 milioni di euro da dividere. E la Consulta dello Spettacolo sarà chiamata a dare il parere sulla ripartizione dei fondi nelle diverse realtà (cinema, musica, danza, teatro, e così via) proprio tra pochi giorni. Difficile che da qui ad allora il quadro possa cambiare. Tutto dipende dall’asta delle frequenze, ma su quel fronte la situazione è ferma. L’Autorità per le Comunicazioni ha avviato le procedure, e ha chiesto che si costituisca un comitato di ministri per gestire l’asta. Una richiesta rivolta al ministero dello Sviluppo e a Palazzo Chigi già da qualche settimana. E che ancora non ha avuto risposta.

La Stampa 10.3.11
La nostra identità una e centomila
L’incontro con l’altro non deve fare paura: tutti i gruppi umani sono in sé pluriculturali
di Tzvetan Todorov


Insiemi complessi. C’è la cultura delle età, dei mestieri, dei sessi, delle posizioni sociali
Una cultura vive se cambia Il latino è morto quando non ha più potuto cambiare
Siamo tutti meticci. Ogni Paese è segnato nel tempo dal contatto con più popolazioni”

Quanto segue è uno stralcio del saggio di Tzvetan Todorovcontenuto nel nuovo numero di Vita e Pensiero , il bimestrale dell’Università Cattolica di Milano, che esce in questi giorni.Filosofo e saggista di origine bulgara, Todorov ha studiato a Parigi con Roland Barthes. Tra le sue opere più recenti Il nuovo disordine mondiale , La letteratura in pericolo , La paura dei barbari , La bellezza salverà il mondo .

Per affrontare il tema della pluralità delle culture nell’ambito di una società, mi vedo obbligato a precisare anzitutto il senso della parola «cultura». Lo impiegherò nell’accezione che, da oltre un secolo, le hanno dato gli etnologi. In tale senso ampio, descrittivo e non valutativo, ogni gruppo umano ha una cultura: è il nome dato all’insieme delle caratteristiche della sua vita sociale, ai modi di vivere e di pensare collettivi, alle forme e agli stili di organizzazione del tempo e dello spazio, e questo include la lingua, la religione, le strutture familiari, i modi di costruzione delle case, gli utensili, i modi di mangiare e di vestirsi. I membri del gruppo, inoltre, qualunque siano le sue dimensioni, interiorizzano tali caratteristiche sotto forma di rappresentazioni mentali. La cultura esiste dunque a due livelli strettamente correlati: quello delle pratiche comuni al gruppo e quello dell’immagine che esse lasciano nello spirito dei membri della comunità.
L’essere umano – ed è una delle caratteristiche che lo contraddistinguono – nasce nell’ambito non solo della natura, ma anche, sempre e necessariamente, di una cultura. La prima caratteristica dell’identità culturale è che essa è imposta al bambino e non da lui scelta. Venendo al mondo, il piccolo dell’uomo è immerso nella cultura del suo gruppo, che gli è anteriore. Il fatto più saliente, ma probabilmente anche il più determinante, è che noi nasciamo necessariamente nell’ambito di una lingua, quella parlata dai nostri genitori o dalle persone che si prendono cura di noi. Il bambino non può evitare di adottarla. Ebbene, la lingua non è uno strumento neutro, è intrisa di pensieri, azioni, giudizi ereditati dal passato; essa ritaglia il reale in una data maniera e ci trasmette impercettibilmente una visione del mondo.
Una seconda caratteristica dell’appartenenza culturale salta parimenti agli occhi: possediamo non una, bensì parecchie identità culturali, che possono incastrarsi o presentarsi come insiemi intersecati. Un francese (per fare un esempio legato alla mia esperienza; ma lo stesso vale per italiani, spagnoli, inglesi…) proviene sempre da una regione, poniamo che sia bretone, e però condivide parecchie delle caratteristiche di tutti gli europei: dunque partecipa al tempo stesso delle culture bretone, francese ed europea. D’altra parte, all’interno di un’unica entità geografica, le stratificazioni culturali sono molteplici: ci sono la cultura degli adolescenti e quella dei pensionati, la cultura dei medici e quella degli spazzini, la cultura delle donne e quella degli uomini, dei ricchi e dei poveri. Un individuo può riconoscersi al tempo stesso nella cultura mediterranea, cristiana ed europea: criteri geografico, religioso e politico. Ebbene – e questo è essenziale – tali diverse identità culturali non coincidono tra loro, non formano territori chiaramente delimitati dove i diversi ingredienti si sovrappongono. Ogni individuo è pluriculturale; la sua cultura non assomiglia a un’isola monolitica, ma si presenta come il risultato di alluvioni che si sono incrociate.
Sotto questo aspetto la cultura collettiva, quella di un gruppo umano, non è diversa. La cultura di un Paese come la Francia è un insieme complesso, fatto di culture particolari, le stesse nelle quali si riconosce l’individuo: quelle delle regioni e dei mestieri, delle età e dei sessi, delle posizioni sociali e degli orientamenti spirituali. Ogni cultura, inoltre, è segnata dal contatto con quelle vicine. L’origine di una cultura si trova sempre nelle culture anteriori: nell’incontro tra più culture di dimensioni minori o nella scomposizione di una cultura più vasta, o nell’interazione con una cultura vicina. Non accediamo mai a una vita umana anteriore all’avvento della cultura. E non a caso: le caratteristiche «culturali» sono già presenti in altri animali, segnatamente nei primati. Non esistono culture pure e culture mischiate; tutte le culture sono miste («ibride» o «meticcie»). I contatti tra gruppi umani risalgono alle origini della specie e lasciano sempre tracce sul modo in cui i membri di ogni gruppo comunicano tra loro. Per quanto lontano si possa risalire nella storia di un Paese come la Francia, si trova sempre un incontro tra più popolazioni, dunque più culture: galli, franchi, romani e molti altri.
Siamo giunti così a una terza caratteristica della cultura: quella di essere necessariamente mutevole. Tutte le culture cambiano, anche se è certo che quelle dette «tradizionali» lo fanno meno volentieri e meno rapidamente di quelle cosiddette «moderne». Tali cambiamenti hanno molteplici ragioni. Poiché ogni cultura ne ingloba altre, o si interseca con altre, i suoi diversi ingredienti formano un equilibrio instabile. Ad esempio, la concessione del diritto di voto alle donne in Francia, nel 1944, ha permesso loro di partecipare attivamente alla vita pubblica del Paese: l’identità culturale francese ne è stata trasformata. Allo stesso modo quando, ventitré anni dopo, le donne hanno ottenuto il diritto alla contraccezione, questo ha portato con sé una nuova mutazione della cultura francese. Se l’identità culturale non dovesse cambiare, la Francia non sarebbe diventata cristiana, in un primo tempo; laica, in un secondo. Accanto a queste tensioni interne ci sono anche i contatti esterni con culture vicine o lontane, che provocano a loro volta modificazioni. Prima d’influenzare le altre culture del mondo, la cultura europea aveva già assorbito le influenze egiziana, mesopotamica, persiana, indiana, islamica, cinese… A ciò si aggiungono le pressioni esercitate dall’evoluzione di altri elementi costitutivi dell’ordine sociale: economico, politico, persino fisico.
Se si tengono presenti queste ultime caratteristiche della cultura, la sua pluralità e la sua variabilità, si vede quanto siano fuorvianti le metafore utilizzate più comunemente. Di un essere umano si dice, ad esempio, che è «radicato» e lo si deplora; ma tale assimilazione degli uomini alle piante è illegittima, poiché il mondo animale si distingue dal mondo vegetale proprio per la sua mobilità, e l’uomo non è mai il prodotto di un’unica cultura. Le culture non hanno essenza né «anima», malgrado le belle pagine scritte su quest’argomento. O ancora, si parla della «sopravvivenza» di una cultura, intendendo con ciò la sua conservazione identica. Ebbene, una cultura che non cambia più è, esattamente, una cultura morta. L’espressione «lingua morta» è molto più fondata: il latino è morto il giorno in cui non poteva più cambiare. Nulla è più normale, più comune, della scomparsa di uno stato precedente della cultura e della sua sostituzione con uno stato nuovo.

Repubblica 10.3.11
Lo spirito di Port-Royal
Tra Sant’Agostino e Pascal, storia del pensiero forte
di Pietro Citati


Ripubblicato il capolavoro di Sainte-Beuve che racconta idee e protagonisti di un´epoca d´oro Da Montaigne a Voltaire, radici e influenze della filosofia nata nell´abbazia francese
Un´opera vastissima dove ogni lettore può trovare il suo alimento
Il cuore sta nella famiglia Arnauld e nella Grazia come illuminazione radiosa e dono

È uscito da Einaudi il PortRoyal di Sainte-Beuve (a cura di Mario Richter, vol. I-II, pagg. XCI-2100, euro 150), da molto tempo esaurito nelle librerie italiane, e nella Pléiade di Gallimard. Parlare di evento è poco. Il Port-Royal è uno dei rarissimi capolavori della storiografia di ogni tempo e di ogni paese; e va posto accanto ai libri supremi; Erodoto, Tucidide, Senofonte, Curzio Rufo, Ammiano Marcellino, Beda, Liutprando, Guicciardini, Gibbon.
Il Port-Royal è un libro straordinariamente vasto. Comincia con Montaigne e finisce con Voltaire: discorre volubilmente di tutto: storia politica, guerre, storia morale, letteratura, eloquenza, religione, psicologia, paesaggio; e non si arresta mai senza aver esaurito le sue innumerevoli forme. Appaiono i grandi della letteratura e della religione; e centinaia di piccoli ritratti: figure in movimento, devote, profonde, solenni, frivole, drammatiche, avventurose. Alla fine, Port-Royal basta a tutti. Ogni lettore possibile vi trova il suo alimento definitivo.
Il libro comincia, o finge di cominciare, nel cuore del sedicesimo secolo, con Montaigne e San Francesco di Sales. Da principio, Sainte-Beuve sembra vicinissimo a Montaigne: mobile, frivolo, cangiante, multiforme, fluttuante, morbido, frantumato, molle, analogico, onnipresente: parla come Montaigne, conserva fedelmente nella memoria i libri che egli amava – e poi, all´improvviso, abbandona il suo meraviglioso modello. Solo alla fine comprendiamo che il romantico profondamente cristiano che abita in Sainte-Beuve non sopporta il profondo acristianesimo degli Essais. Verso San Francesco di Sales e la sua "dolce devozione interiore", Sainte-Beuve ha una simpatia intensissima: ama quella piacevole abbondanza di parole, quella fioritura graziosamente famigliare di immagini, quelle "siepi profumate di similitudini": ma presto si rende conto che la strada verso Port-Royal lo porterà in luoghi diversi. Sono le diverse "famiglie naturali" degli spiriti, tra le quali Sainte-Beuve muove, oscilla, guizza con una versatilità colorata.
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Per Sainte-Beuve, Port-Royal des Champs e Port-Royal de Paris sono due paesaggi della natura e dello spirito: due Gerusalemmi celesti, che occupano un posto unico in terra. Port-Royal des Champs era un monastero medioevale cistercense, fondato nel 1204 nella valle della Chevreuse: mentre il secondo Port-Royal era stato costruito nel faubourg Saint-Jacques, a Parigi. Sainte-Beuve ama questi due luoghi: inquieto, sofferente, curioso dei fiori nascosti dell´anima, vi era penetrato da giovane, visitando i boschi, gli edifici, gli stagni, i chiostri, e camminando lungo le navate: aveva ascoltato le preghiere, i pianti, gli inni dei monaci mentre guardava commosso la loro folla raccolta attorno a lui, per trovare finalmente una voce. Era la sua voce: la sua morbida e inquieta voce; la sola che poteva prestare a tutti i fantasmi di Port-Royal.
Il cuore di Port-Royal era, per Sainte-Beuve, la famiglia Arnauld, con tutti i parenti vicini e lontani, e gli amici e gli affini. Come amava dire, si trattava di una vasta famiglia d´anime, segnata da un timbro inconfondibile. Era, in primo luogo, una tribù di patriarchi borghesi, profumati di Bibbia, con la devozione di una dinastia cinquecentesca. Possedevano un´autorità naturale: una eloquenza che preferiva la parola orale a quella scritta: una moderazione rigorosa: la grandezza romana o spagnola del gesto. Avevano un coraggio guerriero: nessun timore dei potenti: pervicacia: urbanità: ardore; e un´ironia sottilissima, lo spirito di Port-Royal, che comunicarono al più spiritoso di tutti i solitari: Pascal.
Qualcuno dei loro amici, e dei loro nemici, scrisse che gli Arnauld, in qualsiasi momento della loro esistenza, erano posseduti da un pensiero unico, da una parola misteriosa, la Grazia. Ma cos´era la Grazia? Ne aveva parlato Sant´Agostino; e Giansenio. La Grazia era un´illuminazione radiosissima: un dono inesplicabile, che scendeva da chissà dove; ma anche un lavoro, una fatica dura e persistente, che impregnava le giornate degli Arnauld. Se si guardavano attorno, nei campi e nelle chiese di Port-Royal, tutto era grazia: innumerevoli scintille di grazia. Armati con questo strumento dolcissimo e terribile, essi distinguevano e classificavano le vocazioni, i talenti, le ispirazioni di Dio: educavano le famiglie degli spiriti. Così nascevano le grandi menti, ardenti e insaziabili, nutrite di religione: la grandezza e la follia cristiana, il vero argomento di Sainte-Beuve.
Più ancora dei monaci, Sainte-Beuve amava le Madri di Port-Royal; e la più grande di tutte, Madre Angélique. Ne parlava incessantemente e ne trascriveva le lettere, con una passione che non finiva di esaurirsi, come se soltanto in una monaca potesse calarsi l´occulto e manifesto spirito di Cristo. Quale grandezza, quale dolcezza, quale devozione, quale rispetto, quale timore di Dio; e anche quale grazia ironica, perché, come disse una volta Cristina Campo, solo le sante sono (o erano) spiritose. Così queste donne austerissime, perennemente in preghiera, avevano un immenso successo mondano. Intorno a Madre Angélique svolazzavano le spiritose e graziose dame gianseniste: madame de Sablé, madame de Sévigné, madame de La Fayette, madame de Longueville, coi loro sterminati epistolari.
Port Royal ha un culmine: Pascal, rappresentato con una complessità e una tensione grandiose. Non c´è niente di più terribile delle nevrosi e dei traumi di Pascal: durante un incidente, Pascal perde i sensi e pochi giorni dopo viene illuminato da una visione: le lunghissime insonnie, appena alleviate dai notturni esercizi di geometria; l´angoscia dell´abisso, aperto come una ferita vertiginosa al suo lato sinistro. Sainte-Beuve adorava la leggera, irrispettosa, insolente ironia delle Provinciales: la tremenda forza di volontà che nelle Pensées assoggettava la facoltà di ricerca: la percezione netta e sottile del reale; e la perfezione sovrana dell´intelletto, che conosceva soltanto ciò che è puro e distinto.
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Sainte-Beuve non amava, in Port-Royal, tutto ciò che di solito veniva definito giansenista. Non poteva dimenticare di essere un figlio di Rousseau, un fratello di Lamartine e di Lamennais, un futuro parente di Nerval e di Baudelaire. Leggendo le pagine di Arnauld, di Giansenio e di Nicole, le trovava troppo rigide, troppo contratte, e soprattutto senza colore, linfa e sangue. Mancavano di quella vita, che affluiva così liberamente negli Essais di Montaigne e negli scritti di Pascal.
Port-Royal fu ucciso da questa sterilità, oltre che dalle paurose persecuzioni politiche. La furia della menzogna e del male, l´orgoglio di Luigi XIV e dei vescovi si scatenarono sopra la piccola chiesa e i cori, che con voci celestiali ed austere avevano invocato Dio. L´autunno scese rapidamente. Port-Royal diventò una fortezza assediata, che il potere voleva conquistare per inedia. Le monache diminuirono. Le converse scomparvero. Durante i primi anni del diciottesimo secolo, sul Journal di Port-Royal si leggevano soltanto uffici di defunti, brevi commemorazioni funebri. L´antico monastero cistercense si trasformò in una necropoli sacra. Le salme dei monaci e delle monache venivano esumate e trasportate in altre chiese. La valle di Port-Royal diventò un immenso ossario, dove le zappe dei becchini rimuovevano incessantemente un terreno arido, dal quale un tempo tanta vita spirituale era sgorgata.

Repubblica 10.3.11
Due nuove traduzioni con scelte "più al passo con i tempi"
Così l’America aggiorna la Bibbia
Le versioni rivedute hanno l´imprimatur della chiesa cattolica e degli evangelici


NEW YORK. Come best-seller rimane il dominatore incontrastato di tutti i tempi: 415 milioni di copie vendute solo in America, per le due versioni più popolari. Eppure ogni riedizione di questo testo ha ancora la capacità di fare notizia, accendere la curiosità, innescare le controversie. Ovviamente è la Bibbia, di cui arrivano in simultanea, opportunamente lanciate nel mercoledì delle ceneri, due nuove traduzioni "aggiornate". Si tratta di due versioni dell´Antico Testamento che hanno l´imprimatur della Chiesa cattolica e degli evangelici: le due edizioni di gran lunga più diffuse tra i fedeli negli Stati Uniti.
L´evento fa scalpore perché da diversi decenni né l´una né l´altra traduzione ufficiale erano state cambiate (nel caso della cattolica dal 1970, per quella evangelica dal 1984). Ma ancora di più, l´attenzione è legata alle operazioni "linguistiche". Gli adattamenti sono fatti in nome della modernità: per avvicinarsi al linguaggio parlato di oggi, per non perdere contatto coi giovani, e così via. Ma dietro questi interventi "tecnici" spuntano scelte di valori, possibili innovazioni interpretative, ed è qui che gli appigli per le controversie si moltiplicano. La New American Bible (cattolica) sceglie "sacrificio bruciato" al posto di "olocausto" perché questa seconda parola ha assunto storicamente un significato troppo pregnante, che oblitera la sua origine più antica.
Fin qui nessun problema, come per altre scelte linguistiche che, nel giudizio del Washington Post, "suonano al tempo stesso più poetiche e più contemporanee". Si entra su un terreno minato invece nella traduzione del brano di Isaia 7: 14, dove si dice che "una giovane donna", non più "una vergine", concepirà e avrà un figlio. In nome del politically correct, sparisce un riferimento alla profezia su Maria? In quanto alla New International Version (la Bibbia dei protestanti evangelici), al posto della "natura peccaminosa" mette "la carne". Secondo Doug Moo, presidente del comitato di 15 esperti che hanno realizzato la nuova traduzione, questo "lascia aperta per i lettori la questione se il peccato sia un aspetto fondamentale della nostra natura, o solo una delle tante forze esterne a cui siamo esposti". Laddove certi passaggi della Bibbia tradotta nel 1984 escludevano le donne dall´"esercitare autorità" sugli uomini nella Chiesa, ora sono escluse solo dall´"assumere" il potere. Nelle note si spiega che "sta all´interpretazione individuale decidere se questo si riferisca a tutte le forme di autorità sugli uomini nella Chiesa, o solo a certi contesti". Più ardita e controcorrente è la correzione che gli esperti evangelici introducono nella Genesi. Nel 1984 sotto la pressione del femminismo Dio non faceva "gli uomini a sua immagine e somiglianza", bensì "gli esseri umani" che include ambo i sessi. Oggi si torna a una versione più fedele all´originale: "mankind", che significa l´umanità ma contiene la parola "uomo", al maschile. Sottigliezze che tuttavia non hanno più il peso politico di una volta: oggi l´americano medio ha a disposizione sul suo telefonino 50 applicazioni con altrettante interpretazioni diverse della Bibbia.

Il Sole 24 Ore 10.3.11
Benedetto XVI dedica il suo nuovo libro alla difesa della storicità di Cristo
di Massimo Donaddio


http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-03-09/benedetto-dedica-nuovo-libro-124251.shtml?uuid=Aa11hhED&cmpid=nl_7%2Boggi_sole24ore_com

Joseph Ratzinger ce l'ha fatta. Giovedì 10 marzo uscirà il secondo volume dell'opera dedicata a Gesù di Nazaret, culmine della sua attività di teologo nella Chiesa cattolica. Un'opera che si presenta come una trilogia (manca ancora il volume dedicato ai vangeli dell'infanzia), ma di cui la sezione appena pubblicata è decisamente centrale dal punto di vista del valore e del significato.
Ratzinger aveva già dato alle stampe nel 2007 il primo libro, dedicato al ministero pubblico di Gesù, mentre quello in uscita ora tratta degli eventi decisivi della passione, morte e risurrezione del rabbi di Nazaret, cuore dell'annuncio della fede cristiana. Come precisato dallo stesso pontefice, il libro non è un atto del magistero cattolico, ma vuole essere espressione della «ricerca personale del volto del Signore» da parte del teologo Ratzinger. È chiaro però che un libro pubblicato dal pontefice non può essere archiviato come uno dei tanti testi di teologia biblica che affollano gli scaffali delle università e delle librerie specializzate, ma è inevitabilmente – come fu nella prima occasione – destinato a far dibattere e a suggerire una linea interpretativa con la quale gli studiosi dovranno entrare in contatto, magari anche dialetticamente. Anche perché, come ben fanno cogliere già solo gli estratti diffusi prima dell'uscita del testo, Joseph Ratzinger non esita a prendere posizione a favore di una tesi piuttosto che di un'altra, a dar ragione a uno studioso piuttosto che a un altro, facendo nomi e cognomi nella massima trasparenza. Emblematico il caso dell'ultima cena di Cristo, che il pontefice, in accordo con il Vangelo di Giovanni e con il grande esegeta cattolico John Meier (autore della monumentale opera Un ebreo marginale), definisce come non-pasquale.
Che la questione-Gesù sia al centro dell'interesse di Joseph Ratzinger è testimoniato anche da un'operazione inedita, che serve proprio a diffondere il più possibile la conoscenza di questo libro anche presso il pubblico televisivo: l'accordo stabilito con la Rai e la trasmissione religiosa "A sua immagine", alla quale il papa rilascerà un'intervista su Gesù (registrata) che verrà diffusa in tv proprio il Venerdì Santo intorno alle ore 15 (l'ora in cui, secondo i vangeli, sarebbe morto Cristo).
Il papa ha sempre dichiarato (anche nel suo recente libro-intervista "Luce del mondo") che la figura di Gesù Cristo sta al cuore della sua spiritualità di religioso e di teologo. Questa affermazione è stata da lui dimostrata svariate volte nella sua produzione saggistica e anche nella sua attività di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Emblematica fu la dichiarazione Dominus Jesus "circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa", che provocò alcuni maldipancia ai fautori di un ecumenismo senza barriere e fece sospirare di sollievo il cardinale Giacomo Biffi (che comunque non rinunciò a una delle sue folgoranti battute: si era mai reso necessario in duemila anni di cristianesimo ribadire che Gesù Cristo è fondamentale per la salvezza dell'uomo?).
La genesi della fatica letteraria di Ratzinger (che ha dichiarato di sfruttare ogni momento libero dai suoi impegni pontifici per studiare e scrivere) va rintracciata nel suo desiderio di portare un contributo significativo in un contesto culturale in cui le fondamenta storiche delle origini cristiane e la stessa questione della storicità di Cristo vengono aggredite da molti lati. Una percezione viva nei settori più dinamici della Chiesa cattolica ma forse non ancora adeguatamente passata nella maggior parte del clero e dell'episcopato. Una percezione ben presente, invece, nella mente di papa Joseph Ratzinger.
Da quali lati arrivano gli attacchi alla figura storica di Gesù Cristo che preoccupano il papa? Da un lato studi e ricerche (anche qualificate) soprattutto di matrice anglossassone (ma non solo), che mirano a decostruire l'immagine tradizionale delle origini cristiane con metodologie scientifiche; dall'altro un'esplosione di contenuti mediatici che riportano (a volte in maniera acritica o grossolana) estratti di questi studi rilanciandoli al di fuori dei protetti ambienti universitari e dandoli in pasto al grande pubblico.
Un esempio lampante è quello del Jesus Seminar, che ha riunito negli Stati Uniti dagli anni Ottanta circa 150 specialisti in scienze bibliche e ha adottato un metodo di votazione con palline colorate per stabilire una visione collettiva sulla storicità di Gesù, in particolare riguardo a ciò che può o non può aver detto e fatto in quanto figura storica. Un procedimento "democratico" (molto simile a quello dei filosofi del circolo di Vienna) che non ha però potuto riconsegnare una visione chiara e condivisa del Gesù storico. L'esperimento è stato ora ripreso da The Jesus Project.
In campo italiano è molto attivo il prof. Mauro Pesce dell'università di Bologna, autore, insieme al giornalista Corrado Augias, del fortunato libro Inchiesta su Gesù, nel quale esprimeva in maniera divulgativa le sue tesi frutto di anni di ricerca storica indipendente. Pesce, autore anche de Le parole dimenticate di Gesù e di L'uomo Gesù. Luoghi, giorni, incontri di una vita (scritto con l'antropologa Adriana Destro), lavora tenendo in considerazione in egual modo tutti gli scritti più antichi del cristianesimo nascente (canonici e apocrifi), rifiutando l'idea di studiarli all'interno del canone del Nuovo Testamento (che sarebbe una riclassificazione molto posteriore alle origini cristiane), ma confrontando minuziosamente i testi con i reperti archeologici, sulla base di una metodo che si allarga fino a comprendere la sociologia e l'antropologia culturale del mondo antico palestinese.
Accanto a questi contributi, sfidanti per il cristianesimo "ufficiale" e la Chiesa, si aggiungono poi moltissimi contenuti più o meno scandalistici o polemici veicolati dai mass media. Dall'eclatante successo del Codice da Vinci di Dan Brown, un romanzo che, con un artificio retorico, si proponeva come "storico", al Vangelo gnostico di Giuda, scoperto nel 1978, restaurato completamente nel 2001 e pubblicato in italiano nel 2006 da National Geographic, fino ai libri e all'attività divulgativa del matematico Piergiorgio Odifreddi e dell'ateologo francese Michel Onfray. Sono, inoltre, molti i siti internet che negano l'esistenza storica di Gesù (vai alla scheda) oppure cercano di demolire le certezze fondamentali del cristianesimo. Due esempi: il sito sulla "tomba di Gesù", ossia il portale che descrive i sondaggi archeologici sulla tomba e gli ossari ritrovati presso Talpiot, a sud di Gerusalemme, e Zeitgeist, il cliccatissimo filmato del Venus Project (sottotitolato anche in italiano), che tratta della religione cristiana come fosse un mito, comparando la storia del Cristo con quella di diverse religioni precedenti, in particolare con il mito egiziano di Horus, e propone una lettura della Bibbia su base "astronomica".
In questo contesto problematico si colloca il libro del papa, che, nella prefazione del primo volume, pur apprezzando e servendosi dei contributi della metodologia storico-critica, afferma che questi hanno portato a «distinzioni sempre più sottili tra i diversi strati della tradizione. Dietro di essi la figura di Gesù, su cui poggia la fede, divenne sempre più incerta, prese contorni sempre meno definiti». Tutti questi tentativi, prosegue ancora il papa, hanno avuto l'esito di lasciare l'impressione «che noi sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo più tardi la sua fede nella divinità ha plasmato la sua immagine». Da qui lo sforzo di Ratzinger di tornare al Gesù dei vangeli, presentandolo come il "Gesù storico" nel senso autentico del termine. «Io sono convinto – scrive il papa – e spero se ne possa rendere conto anche il lettore – che questa figura è molto più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontar negli ultimi decenni». Per Ratzinger solo in presenza di un personaggio straordinario, che superava radicalmente le aspettative e le speranze dell'epoca, si possono spiegare la crocifissione e il movimento che dopo ne è seguito. La domanda che il papa pone a tutti gli studiosi e ai suoi lettori è in ultima analisi questa: «Non è più logico pensare che la figura di Gesù fece saltare tutte le categorie disponibili e poté essere così compresa solo a partire dal mistero di Dio?».

Avvenire 10.3.11
La Genesi mette in evidenza un legame tra uomo e donna che ha il proprio modello nella reciprocità dialogica delle tre persone divine. Per evitare l’individualismo dell’identità
Maschio e femmina: così il «genere», di cui tanto oggi si parla, è un principio umano che interroga filosofia, neuroscienze e teologia
Identici e diversi, ma uniti nella Trinità
di Cettina Militello


Parlare di identità maschile e femminile pone in campo quanto meno tre termini: i­dentità, sesso, genere. Quello di 'i­dentità' è il concetto chiave. Ci consente, infatti, di affermare la permanenza del nostro io, pur nel mutare delle contestualità spazio­temporali. Si tratta di dire ciò che siamo, nel segno della permanen­za. L’io che noi siamo, come ga­ranzia di identità di noi a noi stes­si, è supportato da una complessa mutazione fisico-chimica, regola­ta dai tempi della crescita e dello sviluppo del nostro corpo, sino al­la cesura della morte. Se è dunque il corpo il supporto necessario all’affermazione della mia iden­tità, la seconda questione che si pone è quella della 'sessuazione', dato permanente nell’orizzonte dell’homo sapiens , il cui autocom­prendersi passa dall’esperienza di un corpo femminile o maschile.
La difficoltà d’oggi è quella della complessità d’approccio al feno­meno. Lungamente abbiamo in­terpretato la 'sessuazione' nel suo aspetto funzionale riproduttivo, quasi sciogliendola dall’orizzonte del 'genere', che, invece, torna a esserci riproposto come categoria forte. «Il genere è un modo di clas­sificare l’esistenza di tipi… Propo­ne un nome per il modo sessuato con il quale gli esseri umani si pre­sentano e sono percepiti nel mon­do: nella società convivono due sessi e il termine 'genere' segnala questa duplice presenza. Si tratta dunque di un termine binario, non univoco: gli uomini, come le donne, costituiscono il genere».
Ma proprio questa insistenza sulla obbligata relazionalità sottesa alla nozione, mette in evidenza un ter­mine ulteriore, quello della 'diffe­renza'.
Il fatto è che la categoria di identità nella sua accezione filoso­fica e nel suo accadimento antro­pologico si fa compiuta solo nella 'differenza sessuale'. Le teoriche del femminismo hanno declinato questo dato lungo direttrici radi­calmente diverse: essenzialismo o culturalismo, decostruzionismo, pensiero della differenza sessuale, teoria delle differenze locali, situa­te. Si approda da ultimo a un 'no­madismo di genere', con evidenti derive culturaliste che suonano e­stranee all’argomentare teologico.
In esso, a prevalere è stata sin qui una visione androcentrica della differenza iscritta soprattutto nella 'natura'. In gioco è l’adeguata correlazione tra natura e cultura, tra dato empirico e dato trascen­dente. Proprio il dibattito aperto sul rapporto fra 'natura' e 'cultu­ra', l’oscillazione dall’uno all’altro polo, esige d’immettersi in un can­tiere 'altro' e 'aperto'. In questa direzione la necessità dell’ascolto critico di un linguaggio e di un o­rizzonte altri da quelli della teolo­gia. In particolare alle neuroscien­ze viene posta la domanda circa la plausibilità del ricorso alla nozio­ne di genere e sulla cor­relazione che quest’ul­tima può ingenerare in vista di una compren­sione integrale dell’es­sere umano. E poiché le stesse neuroscienze articolano il loro sapere in un quadro di riferi­mento antropologico, in questo suo primo momento, il confronto si sviluppa sulla doppia interlocuzione tra le neuroscienze e la riflessione an­tropologica. Teologicamente, in­fatti, il doppio racconto della Ge­nesi ci offre il dato di una alterità che riflette nell’essere creato ma­schio/ femmina la reciprocità dia­logica delle divine Persone. Il vis­à- vis genesiaco, in questa prospet­tiva, diventa manifesto dell’imma­gine impressa, sicché l’imago Tri­nitatis è costitutiva dell’accadi­mento umano e ne sigilla la voca­zione all’alterità e alla comunione. C’è un piano, se vogliamo metafi­sico, rispetto al quale maschio e femmina sono reciprocamente 'persona', in ciò assolutamente i­dentici. C’è un piano funzionale, un 'essere per' nel quale la diffe­renza prevale, orientata com’è alla riproduzione. E, tuttavia, afferen­do all’essere umano, ineludibil­mente persona, la stessa differen­za sessuale deve pur avere una si­gnificazione altra, non meramente strumentale.
Donde la neces­sità di una inte­grazione tra sape­re neuro-scientifi­co, antropologia filosofica e la stes­sa teologia Occor­re, insomma, con metodologia tran­sdisciplinare, ri­flettere insieme su 'cultura', 'na­tura', 'identità', 'costruzione dell’identità', a­prendo laboratori nuovi che oltre­passino queste stesse schematiz­zazioni e consen­tano alla teologia, ma anche alle al­tre scienze, di proiettarsi oltre.
Si tratta di ri-si­gnificare, in fe­condo dialogo, questi concetti chiave, ricollocandoli tuttavia nell’orizzonte loro nativo, cristia­namente parlando. Infine, resta la sfida dell’incontro uomo-donna oltre le modalità mutilanti o omo­­loganti, lo stupore dell’esserci e dello scoprirsi prossimi e diversi, in ciò perfettamente a immagine di un Dio fattosi carne, la cui uma­nità è segnata anch’essa da iden­tità, genere, sesso. La teologia, l’an­tropologia cristia­na, non può pro­cedere, per asser­zioni astratte, spersonalizzate e anestetizzate. De­ve piuttosto dar ragione della sua costituzione e della sua storia (cfr. GS 62). Storia di carne, di un Logos fatto carne, e perciò di pathos, di espe­rienza sensibile, all’origine e al ter­mine illuminata dalla divina Bel­lezza, il cui circo­lo è sfida, teoreti­ca, certo, ma an­che pratica, ope­rativa, utopica se vogliamo, co­munque concreta di concretezza misterico-sacra­mentale.

mercoledì 9 marzo 2011

Repubblica 9.3.11Le procure sotto tutela
di Barbara Spinelli

QUANDO giudichiamo il conflitto fra potere politico e giustizia, conviene sempre alzare gli occhi, guardare oltre i nostri confini, usare la memoria, per capire se davvero chi governa ha in mente una soluzione che migliora le cose o una regressione formidabile, dissimulata dietro finte promesse. La riforma della giustizia che Berlusconi proporrà giovedì è un caso esemplare, e se suscita tante apprensioni è perché non scioglie ma accentua i conflitti tra poteri pubblici, e anzi vuol devitalizzare parte di questi poteri. È una riforma che non perfeziona ma disprezza il nostro patrimonio giuridico, e l´idea che i poteri debbano esser molti perché non predomini uno solo. È una regressione che non solo mortifica la Carta costituzionale ma è in aperta contraddizione con princìpi giuridici che l´Unione europea chiede agli Stati di rispettare. Spesso la regressione avanza in tal modo: presentandosi come rivoluzionaria.
È osservando quel che accade in Francia che l´impressione di un indietreggiamento italiano si conferma vistosamente. Negli ultimi due mesi il malcontento dei magistrati francesi si è inasprito, e il loro obiettivo, non nuovo, si è fatto più che mai nitido: liberare infine pm e procure dal potere politico.
Succede così che il patrimonio italiano divenga un traguardo, nel preciso momento in cui Berlusconi vorrebbe ridurre l´indipendenza dei magistrati dalla politica. Se prima in Europa eravamo considerati all´avanguardia, nella separazione dei poteri, oggi rischiamo di trovarci in coda. Una miopia radicale verso il mondo, e l´indifferenza al peso che l´Europa ha nelle nostre vite (con le sue leggi vincolanti) sono alla radice di quello che può divenire un grave impoverimento: giuridico, democratico, della memoria.
Alla base di questa miope indifferenza c´è una doppia fallacia. Prima fallacia: l´idea che in democrazia la sovranità si concentri tutta sul popolo, che elegge governi e parlamenti non sottoposti al vaglio di poteri terzi. Seconda fallacia: la finzione di una sorta di autarchia giuridica e politica dello Stato-nazione, e l´ignoranza di un´Europa già in parte federale, che esercita sovranità parallele a quelle degli Stati grazie a leggi, politiche comuni, costumi democratici concernenti anche la separazione dei poteri.
L´idea che solo uno sia il potere decisivo - il popolo - è spesso scambiata con la democrazia ma non lo è, e l´Europa s´è unita con questa consapevolezza. L´illusione monolitica è un´eredità del 1789 - meglio: della sua estremizzazione giacobina, nazionalista - e spiega lo speciale malessere francese. Nella tradizione giacobina la giustizia non è un istituto indipendente, nonostante l´articolo XVI della Dichiarazione dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789: è l´arma del popolo sovrano, dell´esecutivo che esso elegge. Qui è il suo vizio d´origine, e ancor oggi il pubblico ministero francese non è al servizio di tutti ma mantiene un rapporto di dipendenza dal governo.
I magistrati riformatori in Francia non si limitano a invocare autonomia completa, ma si battono perché il paese interiorizzi la democrazia costituzionale di cui l´Europa è levatrice. È in questo quadro che reclamano un´autentica Corte costituzionale, e soprattutto l´indipendenza del pubblico ministero. Spetta a quest´ultimo l´obbligo di esercitare l´azione penale, come imposto dall´articolo 112 della nostra Costituzione: non alla politica, come accade a Parigi e come Berlusconi vorrebbe in Italia. Il 15 dicembre scorso la Corte di cassazione francese, interpellata sulla custodia cautelare, ha giudicato che «il pubblico ministero non è un´autorità giudiziaria indipendente», visto che "non garantisce l´indipendenza e l´imparzialità prescritte dalla Convenzione europea dei diritti dell´uomo", e dalla Convenzione Ocse sulla corruzione. Non a caso chi auspica l´autonomia dei pm comincia, in Francia, col cambiare le parole costituzionali. Nel titolo VIII appare l´"autorità giudiziaria". Molti (tra loro l´associazione Terra Nova, in un recente rapporto) esigono che il termine autorità sia sostituito da "potere giudiziario".
Con secoli di ritardo Parigi riscopre dunque la separazione dei poteri di Montesquieu, si libera del giacobinismo, è stanca di ridurre la democrazia al suffragio universale: «In Francia - dice il rapporto di Terra Nova - la giustizia non è più il potere indipendente, guardiano della libertà individuale, descritto da Montesquieu. È sotto tutela dell´esecutivo». Tanto più è soggetta «all´influenza di interessi privati e partigiani. È una giustizia parziale, a due velocità: clemente verso chi è protetto dall´esecutivo, sempre più speditiva verso chi non è protetto». È pensando con severa memoria la propria storia che i magistrati francesi si ribellano. Solo una Corte costituzionale e un pubblico ministero indipendenti possono divenire punti fermi, più durevoli delle mutevoli maggioranze. I governi sono mortali, in democrazia. Non la Costituzione e la giustizia.
Non è solo la storia nazionale a entrare in gioco, abbiamo visto, ma l´Europa che delle varie memorie ha fatto tesoro, trascendendole. È quest´ultima a preconizzare una giustizia più indipendente, prescrizioni non di comodo, infine la riforma più desiderata dagli italiani: processi più brevi per tutti, non per uno o per pochi. In particolare - lo ricordano da anni il giurista Bruno Tinti e Marco Travaglio - l´Europa chiede che le carriere del giudice e del pm non siano separate: che «gli Stati, ove il loro ordinamento giudiziario lo consenta, adottino misure per consentire alla stessa persona di svolgere le funzioni di pm e poi di giudice, e viceversa», per «la similarità e complementarietà delle due funzioni» (raccomandazione della Commissione anticrimine del Consiglio d´Europa, 30-6-00).
Nella riforma Berlusconi sono assenti queste norme costituzionaliste, ed è il motivo per cui di regressione si tratta. L´obiettivo è mettere le procure sotto tutela politica, duplicare il Consiglio superiore della magistratura neutralizzandolo, staccare la polizia giudiziaria dai pm assoggettandola al solo potere politico (forse la misura più pericolosa, perché in tal modo il governo ha in mano le chiavi per chiudere e aprire un processo penale). Ed è separare le carriere del pm e del giudice per degradare il pm a "avvocato dell´accusa", più vicino per cultura all´avvocato della difesa che al giudice: mentre con l´ordinamento attuale il pubblico ministero è tenuto a considerare anche gli elementi a discarico, non solo quelli a carico dell´imputato. Qui è la ragione prima per cui separare le carriere è un rischio. È un vero insulto ai Pm, spiega Tinti: "Il Pm tutela gli interessi della collettività, l´avvocato quelli del suo cliente. Per il Pm non è importante che l´imputato venga condannato; è importante che il colpevole venga condannato. L´avvocato difensore, lui sì, è uomo di parte", avendo per obbligo quello di " far assolvere il cliente oppure fargli avere la pena più ridotta".
Quel che ci si domanda è come mai l´Europa, pur avendo leggi e princìpi, conti così poco. In realtà essa difende i princìpi con estrema forza prima dell´adesione: i candidati devono avere giudici indipendenti e separazione dei poteri (se l´Italia fosse oggi candidata, certo non entrerebbe). Questo dicevano i criteri di Copenhagen fissati nel ‘93 per l´ammissione dei paesi dell´Est: i criteri non erano solo economici (esistenza di un´affidabile economia di mercato) ma anche politici e giuridici (presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, stato di diritto, diritti dell´uomo, rispetto-tutela delle minoranze). Ancor più stringenti sono i criteri nel caso della Turchia.
Con i paesi che sono già nell´Unione, invece, l´Europa è intimidita, inerte. Varcata la porta d´ingresso solo i parametri economici pesano, diventando addirittura un ombrello che ripara gli autoritarismi. Quanto più sei dentro, e rispetti i parametri finanziari, tanto più sei libero di fare quel che ti pare con la democrazia. Se solo volesse, l´Europa potrebbe agire, arginare. Il Trattato di Lisbona agli articoli 6 e 7 prevede interventi e sanzioni dell´Unione per quei Paesi dell´Unione in cui si verifichino gravi rischi per la democrazia e per la libertà. Ma sinora gli articoli non sono stati invocati né tantomeno applicati all´Italia. Eppure i rischi ci sono ormai davvero e sono seri. Si parla molto dell´assenza di anticorpi, in Italia. Ma l´Europa ha gli stessi difetti, pur possedendo strumenti e leggi per salvaguardare le proprie democrazie.

Corriere della Sera 9.3.11
Come si processano i potenti
Francia e Italia, due stili diversi
di Massimo Nava

I potenti sono processabili? I francesi se lo chiedono quanto gli italiani, dopo il nuovo rinvio del processo contro Jacques Chirac. Ed è fondato il sospetto che a una sentenza non si arriverà mai. Tuttavia, a differenza dei processi italiani, il rango dell’imputato fa abbassare anziché alzare i toni. E pur nella dialettica delle parti, si ha l’impressione che tutti sostengano con misura il proprio ruolo, compresi i giornali che hanno scelto il basso profilo. Senza megafoni, senza tentativi di delegittimazione. Chirac in passato ha definito fantasiose le accuse, ma non si è sottratto al giudizio e ha assicurato che sarà presente in aula. Ha evitato qualsiasi dichiarazione, tantomeno sul lavoro del tribunale. I magistrati non si sono fermati di fronte a pressioni di varia natura, hanno rispettato la regola dell’immunità per il capo dello Stato, ma poi sono andati avanti, senza riguardi per nessuno. Gli avvocati dei coimputati hanno sollevato dubbi d’incostituzionalità e ottenuto un nuovo rinvio. I legali delle parti civili hanno protestato perché si dilatano i tempi del processo. Chirac ha fatto sapere di non essere lui all’origine di questo nuovo rinvio. Ma lo stesso procuratore della Repubblica definisce «anacronistico» un processo che pure è giusto abbia luogo. L’opinione pubblica ha accolto con favore il fatto che nessuno, nemmeno un presidente della Repubblica, sia al di sopra della legge, però riflette sul rispetto che meritano l’uomo Chirac e l’istituzione che ha guidato per due legislature. L’opposizione, chiusa la stagione della lotta contro l’avversario politico, gli rende l’onore delle armi: è più incline alla benevolenza che ai ceppi. Non è questione di perdono, ma nessuno si nasconde l’epoca (gli anni Novanta, quando Chirac era sindaco di Parigi) e il contesto in cui il reato contestato è stato consumato, la zona grigia del finanziamento della politica. Se l’impunità dei potenti non conosce frontiere, lo stile forse sì.

l’Unità 9.3.11
 Intervista a Bijan Zarmandili
«Non è Bin Laden il grande vecchio
della primavera araba» Lo scrittore iraniano: «Il colonnello tira in ballo Al Qaeda ma il progetto jihadista è fallito Le piazze del Maghreb chiedono lavoro e futuro»
di Umberto De Giovannangeli

Gheddafi cita continuamente Al Qaeda, agita lo spauracchio qaedista, tirando in ballo Osama Bin Laden come il «grande vecchio» delle rivolte contro le satrapie mediorientali. In questa affermazione, in sé tragicomica, c’è, sia pure involontariamente, la sottolineatura della morta politica di Bin Laden e del progetto jihadista». A sostenerlo è Bijan Zarmandili, scrittore iraniano, da tempo in Italia, tra i più acuti analisti del mondo arabo e islamico. «Nelle piazze dei Paesi segnati dalla rivolta, non hanno bruciato bandiere americane o israeliane osserva Zarmandili ma i protagonisti di questa “Primavera araba” hanno rivendicato il lavoro, il pane, il futuro. E questa è una vera svolta, direi a prescindere dagli esiti che ciascuna di queste rivolte potrà avere in futuro...È difficile che Osama Bin Laden e i suoi accoliti possano egemonizzare Piazza Tahrir».
Nei suoi ripetuti show mediatici, Muammar Gheddafi ha sempre tirato in ballo Al Qaeda.... «Gheddafi dice che Al Qaeda fornisce di armi e droga gli insorti libici per abbattere il suo regime. Questa affermazione è tragicomica ma tira in ballo Osama Bin Laden come il “grande vecchio” delle rivolte contro le satrapie mediorientali. In questa affermazione ho l’impressione che ci sia, magari involontariamente, la sottolineatura della morte politica di Bin Laden, del fallimento del jihadismo e comunque dell’epilogo di una fase nel mondo arabo e islamico. Questo non significa ovviamente che bisogna smobilitare a livello politico e di intelligence, la lotta contro il terrorismo. Ma quello che sta avvenendo nel Maghreb, nei Paesi arabi, è una fase di svolta rispetto a quella dominata dai fattori religiosi, ideologici, che aveva creato un terreno fertile per l’integralismo religioso su cui aveva contato il terrorismo jihadista per conquistare terreno e radicarsi nelle masse arabe e islamiche. Quella fase è finita...». Siamo dunque dentro a una svolta epocale...
«Per molti versi sì. Le rivolte nel Maghreb e nel Vicino Oriente hanno fatto emergere per la prima volta, in modo prepotente e comunque con estrema chiarezza, le contraddizioni strutturali di queste società. Hanno chiesto al libertà, la fine della dittatura e della corruzione. E questa è una vera svolta, direi a prescindere dagli esiti che ciascuna di queste rivolte potrà avere in futuro. È difficile che Bin Laden e i suoi accoliti possano egemonizzare Piazza Tahrir (la piazza del Cairo divenuta il simbolo della rivolta egiziana, ndr). E credo peraltro che sia fuori luogo pretendere, come hanno fatto, ad esempio, Ahmadinejad e Khamenei, che le rivolte arabe siano la versione odierna della rivoluzione khomeinista. Ci sono molti segnali, invece, che indicano l’inizio di una fase inedita in quella parte del mondo arabo, caratterizzata dalle contraddizioni di società composite, complesse, difficilmente riducibili alle esigenze politiche dell’integralismo o del terrorismo jihadista. In questo senso, Osama Bin Laden è ormai morto».
L’Occidente ha consapevolezza di questa svolta di fase? «Barack Obama l’aveva in qualche modo adombrata, evocata, al Cairo quando parlò del “Nuovo Inizio” nel dialogo tra l’America e il mondo islamico.
Ma nel momento in cui quell’invito si è trasformato in una realtà in grado di mettere in subbuglio l’intera Regione, l’amministrazione Usa – come del resto molte cancellerie europee – si è mossa con grande imbarazzo, spesso in ritardo, e in questi giorni con la tragedia che si sta consumando in Libia, mostrando, di fatto, una colpevole indecisione che è il frutto dell’eredità del passato, di contraddizioni e ambiguità che hanno segnato tutti gli attori di una fase storica che si sta consumando: penso alle vecchie satrapie arabe, ma anche a molti degli attori europei e occidentali. L’unica novità sono le masse arabe che si sono rivoltate, rivendicando diritti e giustizia. Se vincono loro, in Egitto, in Tunisia, nel mondo arabo-islamico, dittatori come Gheddafi sono destinati a uscire comunque di scena, perché rappresentanti di un mondo che non c’è più».

l’Unità 9.3.11
«Basta con il dittatore. È stata questa la molla della nostra ribellione»
Il blogger libico: «Gheddafi sta attuando una repressione terribile a Tripoli. Chiediamo la libertà, non vogliamo avere più paura»
di Rachele Gonnelli

Vedo che il tuo gruppo segue da vicino gli avvenimenti in Libia e anche in Tunisia. Tu sei tunisino? «No, sono libico. Il mio nome è Atwair Azwam vengo da Khoms, 100 km a est di Tripoli e a soli 60 km a ovest di Misurata. Ora mi sto spostando a Malta, restando però in contatto con molti, ragazzi, adulti, donne e uomini, che sono rimasti in Libia».
Puoi raccontarmi come è scoppiata la ribellione? Qual è stata la molla? «In Libia ci aspettavamo questo vento di rivolta, da molto tempo. Gheddafi è un dittatore sanguinario. Nel tentativo di sottomettere di nuovo il popolo libico ci sta infliggendo enormi sofferenze. E anche in passato ha appeso i cadaveri degli studenti che protestavano nelle strade per spaventare la gente che avrebbe potuto appoggiarli. Quando suo figlio Saif è diventato adulto e ha cominciare a parlare di riforme, abbiamo detto “ok lasciamogli una possibilità”. Poi per anni nulla è accaduto. Era solo un gioco
di potere con suo padre. Dopo la rivolta tunisina, prima ancora rivolta egiziana, abbiamo deciso di organizzare il nostro 17Feb. Era molto difficile perché in Libia non esistevano partiti politici a cui appoggiarsi, a differenza che in Egitto e in Tunisia». Cosa rimproverate a Gheddafi? «Gheddafi e i suoi figli stanno facendo l’immaginabile e anche il non immaginabile per riprendere il controllo del Paese. Terrore dappertutto, rapimenti, uccisioni, comprano le persone perché stiano dalla loro parte. Carri armati ovunque, polizia in ogni angolo di strada, non si può nemmeno parlare ai media. Sta mettendo in atto una repressione terribile a Tripoli.».
Il Colonello ha dato la colpa ad Al Qaeda e anche i media internazionali parlano della presenza di salafiti nelle manifestazioni.
«Sia chiara una cosa, tutti sono d'accordo sul no a qualsiasi Stato estremista islamico. Il popolo libico è musulmano e ci sono anche musulmani più rigidi, senza dubbio, ma è gente pacifica in cerca di libertà e di buon rapporto, fecondo, con il resto del mondo, e ancor più con l'Italia. Non c’entra niente Al Qaeda. I salafiti sono una parte della nostra società, è normale che ce ne siano a Tripoli. Ma il loro numero è tale che, state certi, non controlleranno la Libia del dopo Gheddafi. La Libia è al 99% sunnita e segue la dottrina dell’imam Malik. I suoi insegnamenti sono alla base di tutte le scuole islamiche».
Come vorreste la Libia del futuro? Con quale forma di Stato? Qualcosa di simile ad una Loya Jirga afghana o ad un regime parlamentare di tipo occidentale?
«Ciò che vogliamo per il futuro è molto semplice: è la libertà, cioè non avere più paura. Va bene qualsiasi sistema democratico, ma certo una Loya Jirga non è nel nostro stile, nella nostra tradizione, e poi abbiamo bisogno di un sistema moderno».
L’Occidente cerca nuovi referenti, persone affidabili e riconosciute dal popolo che amministrino il petrolio. «La Libia è piena di persone così, ma molti hanno lasciato il Paese a causa di Gheddafi. Sono sicuro che siano pronti a tornare per sostenere la rivoluzione e assumere responsabilità difficili come quella di gestire il petrolio».
Cosa pensi del governo italiano?
«Silvio Berlusconi non è un bene per l'Italia. Abbiamo bisogno di aiuto e di un buon rapporto con il governo italiano ma non com’ è stato con Gheddafi. Il popolo libico non accetterà mai una simile relazione. Abbiamo bisogno di una relazione tra Stati, non di interessi personali tra potenti».

La Stampa 9.3.11
La cavalcata di Obama verso Pechino
di Paolo Mastrolilli

Nominato il nuovo ambasciatore Usa in Cina. Chi è?

Il nuovo ambasciatore americano a Pechino si chiama Gary Locke, è di origini cinesi, e fino a ieri faceva il ministro del Commercio. Una biografia che aiuta a capire almeno due cose: primo, l’importanza strategica che il presidente Obama attribuisce alle relazioni con la Repubblica Popolare; secondo, l’enorme vantaggio che un paese intelligente può ricavare dall’immigrazione, quando sa integrarla.
Obama, per rilanciare la sua economia, si è posto l’obiettivo di raddoppiare le esportazioni americane nel giro di cinque anni. Il primo passo logico è cercare di vendere più prodotti alla Cina, con cui gli Stati Uniti hanno un deficit commerciale record di 273 miliardi di dollari. Chi potrebbe aiutarlo meglio a raggiungere questo traguardo se non Locke, che quando era governatore dello stato di Washington aveva raddoppiato le esportazioni della sua regione nella Repubblica Popolare, portandole a 5 miliardi di dollari all’anno e creando così 280.000 posti di lavoro? Da qui si capisce la scelta di “retrocedere” Gary dal rango di ministro a quello di ambasciatore, ma si capisce anche perché lui ha accettato, forse pensando al suo predecessore George Bush padre, che cominciò la lunga marcia verso la Casa Bianca partendo proprio con lo stesso passo di rappresentante diplomatico a Pechino.
Del resto, ogni volta che va in Cina Locke viene accolto come una rock star. Il motivo è semplice: lui è cinese. Suo padre era nato nella Repubblica Popolare e la sua famiglia viene dalla cittadina di Taishan. Quando lo misero al mondo, a Seattle nel 1950, i suoi genitori gli diedero il nome cantonese di Lok Gaa Fai, e lui fino a cinque anni d’età non parlava nemmeno l’inglese. Ma di giorno lavorava nel negozio di alimentari del padre e di notte studiava, con voti così buoni da ottenere una borsa per l’università di Yale. Procuratore, avvocato di uno studio che si occupava di relazioni commerciali con la Cina, e nel 1996 eletto governatore dello stato di Washington, primo e finora unico asiatico a salire così in alto. Durante le elezioni del 2008 aveva appoggiato Hillary Clinton, ma Obama ha deciso di non farci caso: le sue qualità erano troppo utili, per lasciarlo in panchina a causa di una ripicca politica. E qui c’è la seconda lezione di questa storia, utile anche a noi italiani: l’immigrazione è sempre una risorsa, per chi sa usarla con la testa.

La Stampa 9.3.11
Rossi Doria, in Italia il riformismo è un’utopia
Fu tra i fondatori del Partito d’Azione. Una biografia spiega l’attualità del suo pensiero
di Marcello Sorgi

NELL’ESTATE DEL ‘43 Lo scontro fra i massimalisti di Emilio Lussu e i riformisti di Ugo La Malfa
Teorizzava un movimento di massa che vedesse gli operai del Nord e i contadini del Sud
Criticava quell’inadeguatezza delle classi dirigenti che è rimasta immutata

Manlio Rossi Doria (1905-1988) è stata una singolare figura di intellettuale, economista e politico. Prima comunista poi tra i fondatori del Partito d’Azione non ha mai smesso il suo impegno meridionalista Simone Misiani ne ha curato la biografia per Rubettino

Oltre a colmare un vuoto inspiegabile, a distanza di molti anni dalla scomparsa, la biografia di Manlio Rossi Doria (Simone Misiani, Manlio Rossi Doria un riformatore del Novecento , pagg. 722, euro 30, Rubbettino Editore), intellettuale, meridionalista, tra i fondatori del Partito d'Azione, tenta di dare una spiegazione alla difficoltà, per non dire l’impossibilità, del riformismo e dei riformisti in Italia. Prendendo a modello non solo un uomo, ma un’intera generazione di uomini e donne rilevanti, che trovandosi ad attraversare in qualità di antifascisti clandestini, e poi di protagonisti della politica, il passaggio tra la fine del fascismo e della guerra e la nascita della Repubblica, tentarono inutilmente di radicare nella nuova Italia un processo riformatore, rivelatosi, purtroppo, alla lunga e al di là della serietà delle loro intenzioni, impraticabile.
In questo senso sono illuminanti sia i materiali di prima mano documenti, lettere, bibliografia mai riordinati prima d’ora sia i capitoli centrali del libro, ambientati nei terribili quarantacinque giorni a cavallo tra il 25 luglio del Gran Consiglio del Fascismo che mise in minoranza Mussolini e l’8 settembre dell’armistizio con gli Angloamericani e della fuga del re Vittorio Emanuele III, della sua famiglia e del governo Badoglio da Roma. In una minuziosa ricostruzione che vede Rossi Doria entrare e uscire di galera, a Regina Coeli, insieme con i capi dell’antifascismo clandestino Pertini e Saragat da poco tornati dall’estero, l’avventura del Partito d’Azione si consuma nello scontro tra la sua anima massimalista, guidata da Emilio Lussu, e quella riformista di Ugo La Malfa, divise praticamente su tutto: il rapporto con socialisti e comunisti, la possibilità di collaborare con la monarchia, l’urgenza più o meno forte di insediare al governo il Comitato di Liberazione Nazionale e, più sullo sfondo, le prospettive di una situazione che da qualunque parte la si guardi appare «rivoluzionaria», con il Paese spaccato a metà, il territorio ancora occupato in parte dai tedeschi, che controllano Roma, e in parte da inglesi e americani, che stentano in un primo tempo a cacciare le truppe di Hitler, mentre il duce, liberato dalla sua prigione, è riuscito con l'appoggio nazista a rialzarsi e a fondare la Repubblica di Salò.
È in questo contesto che l’anima riformista del Pd’A finirà con il prevalere, ma anche con il restare schiacciata dall’asse tra i tre maggiori partiti saliti al potere dopo la Liberazione e la nascita della Repubblica. La discussione che si sviluppa all’interno del gruppo oltre a La Malfa, Lussu e Rossi Doria, Leone Ginzburg, Eugenio Colorni, Franco Venturi, Leo Valiani, Giorgio Agosti, Carlo Levi, per citare solo i maggiori e annotare la forte presenza torinese tra i fondatori è molto intellettuale. Le due anime, la radicale e la moderata, si sentono egualmente rivoluzionarie, ma hanno due modi diversi di intendere i loro compiti. In Lussu si avvertono le radici «sardiste» e il passato comunista. La Malfa e Rossi Doria pensano per l’Italia, piuttosto che a una continuazione della Resistenza armata, a una sorta di New Deal americano, con contadini e operai alleati in un grande partito di massa che gestisca la modernizzazione del Paese. E l’illusione di poter creare un largo consenso popolare su una prospettiva del genere dovrà presto fare i conti con l’approccio più ideologico e conservatore di socialisti e comunisti alleati nel Fronte Popolare.
Simone Misiani traccia di Rossi Doria un profilo da intellettuale e politico inquieto e anticonformista nato in una famiglia borghese, figlio di un medico di tradizioni laico-massoniche -, all’inizio comunista, ma allontanatosi presto dalla sua prima esperienza malgrado i rapporti stretti con Giorgio Amendola, che invano cercherà a lungo di farlo rientrare nelle file del Pci. Dal ’48 in poi, dopo l’esperienza azionista, Rossi Doria come meridionalista sarà impegnato nell’opera di trasformazione dell’agricoltura del Sud sfociata nella riforma agraria. E per i successivi trent’anni, dai Cinquanta agli Ottanta, sarà protagonista critico ma molto rispettato della vita del Partito socialista, partecipando alla stagione riformatrice del primo centrosinistra ma denunciandone al contempo i limiti e i troppi compromessi e restando sempre molto vicino a La Malfa.
L’eredità politica e culturale di Rossi Doria, raccolta nelle memorie, in centinaia di articoli e lettere e in un prezioso archivio a cui Misiani ha dedicato anni di studi, riguarda ormai più che le sue originali proposte riformatrici, legate al suo tempo, la critica dell’inadeguatezza delle classi dirigenti e dell’incapacità delle sinistre di costruire nel Novecento un autentico grande partito riformatore di massa. La lettura di questa biografia e delle considerazioni che accompagnano la vita di questo grande intellettuale e politico può aiutare a riflettere sui limiti e gli errori in cui il centrosinistra continua a dibattersi anche oggi.

La Stampa 9.3.11
E il meridionalismo oggi è fuori scena
di Giuseppe Salvaggiulo

Non è trascorso molto tempo da quando le banche popolari del Sud regalavano ai correntisti, in prossimità del Natale, ponderose antologie di Antonio De Viti De Marco, Tommaso Fiore, Francesco Saverio Nitti, Manlio Rossi Doria. Ora, se va bene, con gli auguri di felice annuo nuovo arriva un giallo di Carofiglio.
Il dibattito sulla crisi del meridionalismo è vecchio quasi quanto il meridionalismo, ma oggi si colora di nuove e più opache tonalità. Nel 150˚ compleanno di un Paese (dis)unito, il Sud è relegato a ospite scomodo, ammesso al modesto banchetto purché non disturbi. «Siamo al redde rationem», sintetizza Gianfranco Viesti, economista appena nominato presidente della Fiera del Levante e autore di Mezzogiorno a tradimento (Laterza). Come dice Beppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci, «l’idea che governare un paese costituzionalmente dualistico in nome della sua parte più forte fosse uno svantaggio per l’Italia, perché la rendeva più fragile dal punto di vista interno e più debole sul piano internazionale, era faticosamente entrata nella testa delle classi dirigenti nel secondo dopoguerra e c’è rimasta per trent’anni. Poi è uscita dalla scena politica e culturale». Ora il meridionalismo non solo è «ob scenus», ma addirittura reietto.
La politica è in altre faccende affaccendata, le università latitano, le case editrici perdono identità, i circoli culturali scompaiono, lo Svimez fatica a tenere l’ultima ridotta, l’Istituto per gli Studi filosofici di Napoli è costretto all’elemosina per non chiudere. Resiste la Banca d’Italia. Il sociologo Franco Cassano declina il pensiero meridiano in chiave anti-azionista. Mancano campagne di denuncia civile, come quella di Rossi Doria contro la Federconsorzi, forse per indifferenza forse per connivenza. Spiega Viesti: «Non è la voce che manca al Sud, ma il microfono. Prevale il teorema meridionale, un’interpretazione semplicistica per cui le risorse pubbliche sono inevitabilmente sprecate, non c’è più niente da fare, dunque meno soldi si danno meglio è. Questo teorema accattivante ma scientificamente infondato ha molti e diversi sostenitori da Panebianco a Ricolfi, da Tremonti a Enrico Letta e legittima le politiche redistributive a favore del Nord degli ultimi anni».
Viesti racconta che alla presentazione del suo ultimo libro Più lavoro, più talenti (Donzelli) nell’università Bocconi c’erano solo 12 persone, di cui 11 docenti. L’unico milanese andato ad ascoltare era Salvatore Bragantini, ex commissario Consob. Aveva preso la parola allibito per una Milano irriconoscibile, indifferente. Come la forza del meridionalismo consisteva nell’interloquire con le classi dirigenti settentrionali, così la sua crisi è una frana che si apre al Sud ma fa rumore e forse travolge soprattutto al Nord.

Corriere della Sera 9.3.11
Socialista senza Marx
Così Rosselli si ribellò a ogni determinismo
Sognava un risveglio etico dell’Italia
di Arturo Colombo

Carlo Rosselli, classe 1899, si trova a Lipari, condannato dal Tribunale speciale a 5 anni di confino, per aver aiutato (con Parri, Bauer, Ceva) a «trasferire» il leader socialista Filippo Turati all’estero; e lì, sull’isola, ha scritto, fra il 1928 e il 1929, la sua opera più nota, Socialismo liberale. Il manoscritto riuscirà a metterlo in salvo, dopo averlo nascosto nel pianoforte, prima della famosa fuga in motoscafo, nel luglio del ’ 29. Giunto a Parigi, otterrà di pubblicare la traduzione francese, curata da Stefan Priacel. In Italia apparirà solo nel 1945, quando ormai Rosselli non c’era più, assassinato a Bagnoles-de-l’Orne nel 1937 su mandato dei leader fascisti— insieme al fratello Nello— dagli uomini della «Cagoule» , un gruppo terroristico dell’estrema destra francese. Che Socialismo liberale costituisca un chiaro esempio di autentico «pensiero libero» lo si ricava subito, appena si prende atto che per Rosselli il socialismo non solo non deve identificarsi nel marxismo, e quindi nella sua componente materialistica, ma «è in primo luogo rivoluzione morale» : il che significa respingere quella specie di equivoco, di bestia nera del determinismo, da lui considerato fra gli aspetti più negativi della concezione marxista. Ecco perché Rosselli — pur dichiarandosi «socialista» — respinge l’idea (abbastanza diffusa nella sinistra durante la prima metà del Novecento) che basti ottenere dei mutamenti nell’ambito economico produttivo, per credere di avere risolti ipso facto i tanti mali che gravano su ogni società. E proprio questa tesi rosselliana provocherà un’immediata reazione, soprattutto da parte di chi continuava a guardare all’Unione Sovietica come alla vera patria del socialismo. Basta ricordare la durezza di certi giudizi di Palmiro Togliatti, che fin dal 1931 si scaglierà contro Rosselli, definendolo «un dilettante dappoco» e riducendo le «quattro idee» del socialismo liberale a un «magro libello anti-socialista e niente più» , a una «predica da pastore protestante» , con l’aggravante di un «piatto opportunismo reazionario» . Viceversa, se si comprende bene l’immagine del socialismo che, «colto nel suo aspetto essenziale,— scrive Rosselli— è l’attuazione progressiva dell’idea di libertà e di giustizia tra gli uomini» , occorre accettare la conclusione che un simile progetto, o programma, di socialismo è l’erede e il continuatore di quella idea liberale, giustamente considerata «rivoluzionaria» fin dai tempi di Locke e di Montesquieu, che proseguirà con John Stuart Mill e poi con Bertrand Russell e John Dewey: a loro volta, tutti esponenti del pensiero libero. Così, quando parla di «socialismo liberale» , Rosselli insiste sul «metodo democratico» e sul «clima liberale» , che costituiscono una «conquista fondamentale della civiltà moderna» , e quindi devono rappresentare un approdo irrinunciabile e definitivo anche per i socialisti: o almeno per quei socialisti che rifiutano e condannano «lo Stato caserma» , che un tempo si identificava nello Stato prussiano, ma che ha finito per assumere i tratti, più mostruosi e terribili, dei sistemi totalitari del XX secolo: sia quelli dell’estrema destra (tipo fascismo, e poi nazismo), sia dell’estrema sinistra, incarnata nel modello sovietico. In questa prospettiva Rosselli ci lascia un’indicazione preziosa, che vale anche oggi, fuori dagli schemi di parte (o dalle «appiccicature di partiti e partitelli» , come lui preferiva sostenere), perché costituisce un vigoroso appello a non rinunciare mai a impegnarsi e operare per rendere migliore, più libera e giusta, la società di domani, senza Lager né Gulag. Come diceva Norberto Bobbio, lo sostengono tuttora autorevoli pensatori liberal (bastano i nomi dello statunitense John Rawls, dell’indiano Amartya Sen, del nostro Salvatore Veca), che insistono sul binomio di libertà politica e giustizia sociale come mezzo indispensabile di sviluppo, di incivilimento, di progresso. A chi obiettasse che si tratta solo di un generoso proposito di minoranza, vale la pena di replicare con le parole di Rosselli: «Siamo pochi? Cresceremo. Siamo fuori del tempo? Sapremo aspettare. Verrà il nostro turno» .

Corriere della Sera 9.3.11
L’appello di Hannah: riscoprire la politica per amore del mondo
Una visione corale dell’impegno civile
di Simona Forti

T he Human Condition è il libro, pubblicato per la prima volta a Chicago nel 1958, che consacrerà Hannah Arendt a «classico» della filosofia politica. Tradotto in italiano nel 1964 col titolo Vita activa, dovrà attendere parecchi anni prima di trovare nel nostro Paese un’attenzione adeguata. All’inizio degli anni Sessanta, infatti, il nome dell’autrice rimandava quasi soltanto all’opera sul totalitarismo e alla polemica suscitata dal processo Eichmann. Poco si discuteva del contributo filosofico di questa pensatrice ebrea, allieva di Heidegger e di Jaspers, costretta a lasciare la Germania e a cercare una collocazione negli Stati Uniti. Dalla fine degli anni Settanta, in compenso, la fortuna e la fama dell’autrice decollano, senza conoscere, fino ad oggi, battute d’arresto. Saggi interpretativi, monografie dedicate ai vari aspetti dell’opera, edizioni critiche di testi non pubblicati in vita, faranno di Hannah Arendt una delle figure intellettuali più discusse e citate nella comunità scientifica. E, probabilmente, anche una tra le più banalizzate. Banalizzante, per esempio, è stata la recezione della sua opera Le origini del totalitarismo: per alcuni una lezione di storia troppo disponibile alle logiche della guerra fredda. In realtà, il senso profondo del libro, la sua originalità, consisteva esattamente nel riuscire a complicare l’alternativa postbellica tra democrazie liberali e totalitarismo, mostrandone l’intricata relazione genealogica. Il lettore che si trova oggi tra le mani per la prima volta Vita activa non dovrà incorrere in un errore analogo. Il legame tra libertà e azione politica, che sta al cuore dell’opera, non può essere letto come il semplice correlato di una teoria liberale. Così come i richiami costanti all’esperienza della polis non devono produrre l’impressione di un progetto volto a restaurare un modello del passato. Né nostalgica della politica greca, né semplice sostenitrice della difesa dei diritti individuali, la filosofia politica di Hannah Arendt è soprattutto l’esortazione a concepire il potere, e il soggetto che agisce, in maniera diversa dalle modalità tramandate dalla tradizione. Senza lo sforzo di questa radicalità di pensiero, ogni idea di politica rimane, a suo parere, imprigionata nel cerchio del dominio, destinata prima o poi a inciampare nella relazione verticale di comando obbedienza. Per questo non basta, per definire il senso arendtiano della libertà politica, ricordare che essa si riferisce a un agire orizzontale e plurale, il quale non può esprimersi attraverso la coercizione e la violenza, ma solo tramite il linguaggio. Allo stesso modo è riduttivo insistere su quell’idea di spazio pubblico, così cara all’autrice, come se si trattasse della mera ricerca di un’intesa intersoggettiva, del riconoscimento reciproco tra le diverse identità degli attori o dei gruppi che agiscono sulla scena. Certo, la sfida arendtiana è in primo luogo volta a ripensare la politica al di fuori del dominio, ma non come semplice limitazione del potere centrale a difesa dei diritti privati di libertà, ma esattamente come moltiplicazione delle fonti di potere e del potere stesso. Perché il potere, secondo Hannah Arendt, non è la facoltà di costringere il comportamento altrui. È invece l’espressione dell’energia che si sprigiona dall’azione, quell’energia che dà forma e significato alla vita del singolo e che la politica, con la sua dimensione corale e agonistica, moltiplica e potenzia. Vita activa, allora, più che al funzionamento dello Stato e delle sue istituzioni, risponde a una domanda di senso: come conferire significato alla vita, in modo che diventi la vita di qualcuno? Come riallacciare il legame tra politica ed esistenza fatto a pezzi nei regimi totalitari? A fronte dell’esito nichilistico della prima metà del XX secolo, essa rilancia la capacità formativa e performativa dell’agire; contro il risentimento nei confronti del nulla, invita a riscoprire l’ «amore del mondo» e la gioia dell’azione politica. Quella gioia dell’essere liberi che consiste nella possibilità di incominciare sempre da capo e insieme.

La Stampa Tuttoscienze 9.3.11
Da Proust alle neuroscienze
Il mix tra scienza e umanesimo crea il nuovo intellettuale
di Giovanni Nucci

Scrive Jonah Lehrer nella prefazione del suo libro «Proust era un neuroscienziato» (Codice edizioni): «Molto prima che Charles Snow lamentasse la triste separazione tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, Whitman studiava manuali di anatomia cerebrale e assisteva a interventi chirurgici raccapriccianti, George Eliot leggeva Darwin e Maxwell, la Stein conduceva esperimenti psicologici nel laboratorio di William James e la Woolf si documentava sulla biologia della malattia mentale. È impossibile capire la loro opera senza tener conto di queste relazioni».
Volendo mettere a fuoco l'interesse scientifico del libro di Lehrer, occorre concentrarsi sull' aspetto letterario: ciò che dice di importante sul piano della scienza lo dice, in realtà, quando sta parlando della letteratura. E l'inverso. Lo scopo di questo libro, però non è quello di screditare la scienza o nobilitare eccessivamente la letteratura e le arti. Il dato di realtà che Lehrer mostra è che la scienza e la letteratura sono medesime espressioni, per quanto diverse, del loro tempo. Può sembrare banale il fatto che Whitman, volendo dare al corpo la centralità che effettivamente avrebbe avuto nella sua poesia, studiasse e si documentasse di questioni mediche. Ma non si tratta semplicemente della ricerca che conduce un romanziere apprestandosi a scrivere un libro ambientato in un qualche mondo scientifico. Lehrer sta parlando di qualcosa di più sottile, e profondo. Il fatto che Withman, Cézanne, Proust o la Woolf abbiano cercato di raccontare il mondo, almeno dal loro punto di vista: e che del loro mondo faceva parte anche la scienza. Questo ovviamente accade sia in positivo che in negativo: non solo per l'artista che viene ispirato, e coinvolto, da una data corrente, o scoperta, scientifica; ma anche chi cerca di contrastarla e di opporvisi.
La conseguenza della frequentazione della scienza da parte di artisti e letterati è il fatto che spesso (o almeno nei casi che Lehrer analizza) le loro intuizioni hanno preceduto di parecchio le scoperte scientifiche. Proust aveva capito il funzionamento della memoria ben prima di quanto non abbiano saputo fare le neuroscienze. Naturalmente tutto ciò è spiegato nel libro di Lehrer con una certa scientificità, ma su un piano letterario. Alla fine è difficile dire se questo sia un saggio che parla di scienza o di letteratura: ed è il motivo per cui va consigliato agli studenti che partecipano al concorso «La Scienza Narrata»: la cosa migliore a cui può portare la lettura di questo libro è una sapientemente confusione tra l'ambito scientifico e quello umanistico.
Ne viene fuori che un vero intellettuale dev'essere ugualmente, e contemporaneamente, scienziato e umanista: un'umanista non può non essere interessato e coinvolto dalla scienza così come la sua epoca la sta celebrando; e uno scienziato non può in nessun modo permettersi di ignorare ciò che l'arte, la musica e la letteratura del suo tempo stanno producendo. I restanti, che siano scienziati, artisti, letterati o musicisti, non saranno mai all'altezza del loro mondo, perché ne avranno comunque omesso una metà.

La Stampa Tuttoscienze 9.3.11
In un meteorite del Polo Sud è racchiusa l’origine della vita
“Ha portato sulla Terra l’azoto, l’elemento base degli organismi”
di Daniela Cipolloni

Sandra Pizzarello è considerata una pioniera della «biochimica aliena»

Scoperta di una scienziata italoamericana «Una prova fondamentale: il sasso era sepolto sotto i ghiacci e quindi privo di contaminazioni»
In principio furono i meteoriti. Le rocce arrivate dallo spazio avrebbero sparso sulla Terra i semi che permisero alla vita di sbocciare, circa 3,5 miliardi di anni fa. L'origine «aliena» della vita è ben più di un'ipotesi affascinante. Dai ghiacci dell'Antartide sono riaffiorati antichissimi frammenti fossili del Sistema Solare, contenenti le molecole organiche che avrebbero «impollinato» la Terra e innescato il processo da cui si sono evoluti gli organismi viventi. «Abbiamo le prove per ritenere che gli ingredienti della vita siano potuti piovere dal cielo». Parola di Sandra Pizzarello, 78 anni, italiana d'origine, statunitense d'adozione, diventata «biochimica extraterrestre» quasi per caso E oggi considerata un’autorità del settore.
Nessuno meglio di lei sa far parlare i «sassi». Dall'ultimo meteorite finito tra le sue mani denominato «Grave Nunataks 95229» e scoperto in Antartide nel 1995 è riuscita a «spremere» l'azoto, elemento imprescindibile per la vita, onnipresente nelle cellule, dal Dna alle proteine. Era il tassello mancante del puzzle. «Abbiamo analizzato un meteorite primitivo, appartenente alla famiglia dei condriti carbonacei: era sepolto sotto la neve ed è rimasto incontaminato», racconta la scienziata nel laboratorio dell'Arizona State University, dov'è professore emerito. «Abbiamo sottoposto la polvere a temperature e pressioni elevate, ma neanche troppo, mimando così possibili condizioni della Terra primordiale spiega, dopo l’annuncio sulla rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” -. È scaturita un' enorme quantità di ammoniaca, formula chimica NH3, un composto senza il quale non si sarebbero formate le molecole organiche nel brodo primordiale». Nessun dubbio che gli atomi di azoto contenuti nell' ammoniaca siano di proprietà del meteorite: sulla Terra non esistono isotopi uguali.
Generazioni di ricercatori hanno sbattuto la testa sulla difficoltà di spiegare la presenza dell'azoto in quello scenario semi-apocalittico che vide nascere il primo organismo unicellulare: un pianeta caldissimo, coperto da una cappa di gas irrespirabile, bombardato da una raffica di asteroidi. Sandra Pizzarello ce l'ha fatta, all'apice di un'avventura umana e professionale che sembra un film (di fantascienza) per l'Italia. Nata a Venezia nel 1933 (di cognome da ragazza faceva Fabbri), laureata in biochimica all'Università di Padova, iniziò a lavorare in un'azienda farmaceutica. Poi arrivarono il matrimonio e i figli. Quattro. E Sandra lasciò tutto per fare la mamma. «Sono stata a casa 15 anni. Quando mio marito trovò un impiego negli Usa, ci trasferimmo e decisi di rimettermi in carreggiata racconta -. Per stare al passo mi specializzai in un settore nuovo. La Nasa finanziava ricerche sul meteorite di Murchison, caduto in Australia nel 1969. Vinsi l'assegno. In Italia non sarei mai riuscita a rientrare nell'università».
È l'«American dream» che si realizza. Sandra Pizzarello diventa una pioniera. Studiando il celebre meteorite, getta le basi dell'esobiologia, la teoria della provenienza extraterrestre dei mattoni della vita. «Le ricerche provarono che nel cosmo si possono formare molte molecole prebiotiche. Nel Murchison ne abbiamo individuate più di 5 mila, tra cui numerosi amminoacidi terrestri, come la glicina, l'alanina e l'acido glutammico spiega -. Tuttavia nessuna di queste mostrava un particolare vantaggio evolutivo». Per un certo periodo gli scienziati hanno quindi aggirato lo scoglio dell'azoto (a cui il meteorite Murchison non dava contributi), ipotizzando che l'atmosfera della Terra primordiale fossericca d'ammoniaca. «Il famoso “Esperimento Miller”, alla fine degli Anni 50, dimostrò che si possono creare amminoacidi a partire da semplici composti chimici immersi in una soluzione gassosa riducente, formata da metano, ammoniaca, idrogeno e vapore acqueo, e attraversati da una scarica elettrica prosegue la scienziata -. Oggi, però, i geologi sono più propensi a ritenere che l'atmosfera della Terra neonata fosse neutra, tendente all'ossidante».
Se cadono, così, le ipotesi che, nelle giuste condizioni, anche meteoriti come il Murchison avrebbero potuto accedere la scintilla della vita, i reperti rinvenuti in Antartide immacolati e completamente diversi dal sasso australiano, perché ricchissimi di azoto cosmico riaprono invece la partita. Sono la prima evidenza che l'impatto delle rocce spaziali tra 4.4 e 2.7 miliardi di anni fa abbia sprigionato l'agente mancante per avviare le reazioni chimiche necessarie. Rilanciando la teoria che siamo tutti un po' extraterrestri. «Ma c'è ancora tanto da scoprire», confessa Sandra Pizzarello. A 78 anni la «Signora delle meteoriti» non è stanca: «Ho voglia di divertirmi». E torna a immergersi nelle sue ricerche.

Repubblica 9.3.11
“Caotico, oscillante o in espansione scegliete il cosmo che preferite"
di John D. Barrow

Il celebre scienziato, tra i fautori della teoria del "multiverso", spiega le sue tesi. A partire dalle equazioni di Einstein e dai dati che oggi possiamo raccogliere grazie alla tecnologia
Fino all´inizio del XX secolo le teorie ubbidivano a visioni filosofiche religiose o artistiche
Resta la domanda: perché a un certo punto l´accelerazione dello spazio ha cambiato velocità?

Fino ai primi anni del ventesimo secolo, la cosmologia era più simile alla storia dell´arte che alla scienza. C´erano stili di universo. Si poteva immaginare, come nel passato, a che cosa dovesse assomigliare l´Universo. Ad alcuni piacevano i loro universi infinitamente antichi; altri volevano che la storia cosmica avesse un inizio preciso; altri ancora che il loro universo fosse ciclico, che avesse una crescita e una decadenza come il ciclo della vita e che ogni nuovo ciclo risorgesse come una fenice dalle ceneri del precedente. Tutte queste immagini avevano la propria origine in figure religiose, artistiche o filosofiche di come le cose dovrebbero essere. Le osservazioni raccolte sulle stelle e i loro movimenti spesso venivano adattate a un´immagine creata per altre ragioni.
Tutto questo cambiò nel 1915. Per la prima volta, la nuova teoria della gravità di Einstein, definita teoria generale della relatività, fornì delle equazioni le cui soluzioni erano interi universi. Fu una svolta. Pian piano, si trovarono delle soluzioni alle equazioni sull´universo di Einstein. Esse rivelavano che l´universo si starebbe espandendo, una possibilità confermata dalle osservazioni realizzate da Edwin Hubble e Milton Humason a Mount Wilson nel 1929. Si scoprì che ogni sorta di varietà di espansioni era possibile. Inizialmente, l´espansione sembrava sempre semplice e simmetrica, come una sfera che si espande, ma poi si scoprì che erano possibili anche degli universi in espansione a diverse velocità e con diverse direzioni e che erano ammissibili perfino degli universi rotanti che permettono di viaggiare indietro nel tempo. In The Book of Universes racconto la storia di tutti gli universi possibili rivelati dalle equazioni di Einstein. Fino ad oggi, sono state trovate solo alcune soluzioni a queste complicate equazioni e quando se ne scopre una nuova, spesso gli si dà il nome di chi l´ha scoperta. Abbiamo degli universi che si espandono e si contraggono, universi oscillanti; universi caotici; universi che hanno un inizio e una fine e universi che non hanno né l´uno né l´altra.
Nel 1965, i radioastronomi scoprirono la radiazione termica che si era predetto esistesse se l´universo si fosse espanso da un big bang estremamente caldo. Da quel momento in poi, i cosmologi si sono concentrati sempre di più sui processi fisici avvenuti nell´universo all´inizio della sua storia, alla ricerca di prove che confermino la nostra ricostruzione del passato. Fino al 1980, era chiaro che l´universo si stava espandendo in un modo misteriosamente simmetrico a una velocità molto vicina alla velocità minima necessaria per superare la gravità e continuare a espandersi per sempre. Le equazioni di Einstein avevano già fornito delle eccellenti descrizioni di questo stato di cose in una galleria di possibilità. Ciò che mancava era una spiegazione del perché l´universo avesse queste caratteristiche speciali e contenesse anche una speciale distribuzione di piccole irregolarità trasformatesi in galassie. Nel 1981, Alan Guth propose un nuovo modello di universo in espansione, nelle cui fasi primordiali ci sarebbe stata una breve scarica di espansione accelerata, definita "inflazione". Il risultato è molto significativo: potrebbe spiegare perché ci fu questa espansione simmetrica a quella particolare velocità che abbiamo visto e perché generasse delle piccole irregolarità casuali "stirate" dall´espansione fornendo così i semi dai quali si formeranno poi le galassie, dieci miliardi di anni dopo.
Questa sequenza di eventi avrebbe lasciato delle importanti variazioni spia nella radiazione termica rimasta nel cielo di oggi dall´universo primordiale. I nostri satelliti hanno trovato alcune parti dei modelli previsti. Vedremo se quest´anno il satellite Planck dell´Agenzia spaziale europea (Esa) riuscirà a trovarne altre.
Il fenomeno dell´inflazione ci conduce anche ad aspettarci che altre parti dell´Universo, dove non riusciamo a vedere per la velocità finita della luce, siano molto diverse dalla nostra parte visibile. Inoltre, il processo dell´inflazione si autoriproduce e qualsiasi regione che si gonfia creerà le condizioni per un´ulteriore inflazione di parti di quella regione. Questo processo di inflazione "eterna" non ha fine e non ha bisogno di avere un inizio. Cambia la nostra risposta all´antica domanda: "l´universo ha avuto un inizio?". La nostra porzione visibile dell´intero universo avrà avuto un inizio, ma l´intero "multiverso", composto di differenti regioni che si gonfiano tutte a velocità diverse, non ha bisogno di avere un inizio.
Nell´ultimo decennio, abbiamo costantemente raccolto delle prove che c´è stata un´era di inflazione 13,7 miliardi di anni fa, ma abbiamo anche scoperto che l´universo cominciò ad accelerare di nuovo 4 miliardi di anni fa, dopo essersi espanso per circa i tre quarti della sua estensione attuale. Questo cambiamento di marcia dalla decelerazione cosmica all´accelerazione viene descritto con straordinaria precisione da una delle soluzioni alle equazioni di Einstein trovate per la prima volta dal cosmologo belga Georges Lemaître nel 1927. Tuttavia, anche se l´universo di Lemaître è una bella descrizione, vogliamo sapere perché il nostro Universo cambiò marcia e cominciò ad accelerare qualche miliardo di anni fa. Perché, dunque? Un approccio molto in voga è quello di immaginare che il multiverso di regioni che possono emergere nello scenario dell´inflazione eterna copra tutte le possibilità e che ci sia capitato di abitare una di quelle regioni che cominciarono ad accelerare abbastanza tardi da permettere di evolversi alle galassie, alle stelle, ai pianeti e alla vita. Ancor più interessante potrebbe essere una nuova estensione della teoria di Einstein, sviluppata da Douglas Shaw e dal sottoscritto a Cambridge, che sta per essere pubblicata sulla rivista Physical Review Letters. Imponendo la limitazione della casualità in una cosmologia quantica siamo capaci di spiegare per la prima volta perché la recente accelerazione iniziò proprio in quel momento. Possiamo anche predire un´altra caratteristica molto precisa dell´espansione che i dati forniti dal satellite Planck saranno in grado di determinare. Dunque, la magica giara degli universi non si è ancora esaurita. Nei prossimi due anni vedremo molti nuovi dati che confermeranno o escluderanno una serie di possibili universi e ci aiuteranno a capire perché il nostro sia fatto così.
L´autore è professore all´Università di Cambridge e ha scritto The Book of Universes edito da Bodley Head (Traduzione di Luis Moriones)


Repubblica 9.3.11
I nuovi padri
La cultura  Lo psicanalista Massimo Recalcati "Così è cambiata la figura del padre"
“Dall’autorità all’affetto. Così è cambiato un simbolo
di “Luciana Sica

Lo psicanalista Recalcati racconta il suo ultimo saggio sulla metamorfosi dei ruoli nella nostra epoca
"La verità che può trasmettere è indebolita perché non vanta modelli universali"
"L´importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare"
"Ogni paternità è adottiva. Lo racconta anche Eastwood in Million Dollar Baby"

"Papi": è così che gli adolescenti di oggi chiamano il proprio genitore, con un nomignolo che suona come un sinonimo dello svuotamento di autorità della figura paterna. Per dirla meglio, con Massimo Recalcati: «La figura del padre ridotta a "papi", invece di sostenere il valore virtuoso del limite, ne autorizza la sua più totale dissoluzione. E riflette la tendenza di fondo della famiglia ipermoderna: entrambi i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli. Più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto, e dunque meno capaci di rappresentare ancora la differenza generazionale». Recalcati è uno psicoanalista, e lacaniano per giunta, eppure il suo Uomo senza inconscio ha venduto più di diecimila copie. Un successo dovuto alla capacità di raccontare i disagi della nostra civiltà senza un eccesso di tecnicismi scolastici.
Oggi esce il suo nuovo libro sulla paternità nell´epoca ipermoderna, sull´evaporazione del padre, secondo l´espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta. È un tema che incide sui cambiamenti della cultura occidentale, venendo a mancare il principio fondativo della famiglia e del corpo sociale – oltre a investire profondamente la condizione esistenziale di ciascuno. Già l´interrogativo del titolo allude a un vuoto difficilmente colmabile: Cosa resta del padre? (Cortina, pagg. 190, euro 14).
Cosa resta dell´uomo che assicurava l´ordine del mondo e della vita dei suoi figli?
«Certamente non l´ideale del Padre, il pater familias, il padre come erede in terra della potenza trascendente di Dio, e nemmeno il padre edipico celebrato da Freud come perno della realtà psichica. Non possiamo più ricorrere all´autorità simbolica del padre, che ormai si è dissolta: lo dicono gli psicoanalisti, i sociologi, i filosofi della politica... Si tratta allora di pensare al padre come "resto", non più Ideale normativo ma atto singolare e irripetibile, antagonista all´insegnamento esemplare, all´intenzione pedagogica. Quel che resta del padre ha la dimensione di una testimonianza etica, è l´incarnazione della possibilità di vivere ancora animati da passioni, vocazioni, progetti creativi. Seppure senza il ricorso alla fede nella parola dogmatica o attraverso sermoni morali».
Il padre è un uomo che sa ancora trasmettere il sentimento della speranza?
«È un uomo che dice "sì!" a ciò che esiste, senza sprofondare nell´abisso di un puro godimento distruttivo, senza rendere la vita equivalente alla volontà di morire o impazzire. La verità che può trasmettere è necessariamente indebolita, perché non vanta modelli esemplari o universali: la sua testimonianza infatti buca ogni esemplarità e ogni universalità, risultando eccentrica e anarchica nei confronti di qualunque retorica educativa. Quel che conta – e resta a un figlio – è come, nella buia notte di un mondo senza Dio, un padre mantenga acceso il fuoco della vita, non la manifestazione di una pura negazione repressiva, ma piuttosto la donazione della fiducia nell´avvenire».
In un rapporto che rimane del tutto asimmetrico?
«Assolutamente. Le farò un esempio molto semplice: l´insulto di un padre rivolto a un figlio può avere un effetto indelebile che il contrario non comporta in alcun modo... Quando Freud gli attribuiva il saper "tenere gli occhi chiusi", intendeva sottolineare il carattere "umanizzato" della Legge che rappresenta. Non ascoltare una parola insolente o non vedere un gesto osceno, a volte può essere la condizione per proseguire la partita... È il doppio compito della funzione paterna: introdurre un "no!" che sia davvero un "no!", e al tempo stesso saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione».
Famiglie monoparentali, ultracinquantenni che diventano mamme senza un compagno, coppie gay con figli, single con diritto all´adozione... C´era una volta lo schema edipico – sintetizzando: il padre "interdice" il godimento incestuoso e "separa" la madre dal figlio. Ma il mondo non sarà davvero "nuovo" e certi modelli ormai inservibili?
«Lo schema edipico continua ad avere il suo valore, se però si abbandona il teatrino familiare. Intesa come legame "naturale", la famiglia composta da una coppia eterosessuale e dai loro figli non è più il nucleo immobile dei legami sociali. Esistono organizzazioni sociali e culturali sempre più complesse, l´importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare che vuol dire umanizzare la vita, iscriverla in un´appartenenza, farla partecipare a una cultura di gruppo, darle una casa e cioè una radice, una disponibilità alla cura e alla presenza... Se non si può più trasmettere il vero senso della vita, è però ancora possibile mostrare di dare un senso alla vita».
Oltre a Freud e soprattutto Lacan, lei ricorre alla letteratura con Philip Roth (Patrimonio) e Cormac McCharty (La strada). E poi a quel cinema di Clint Eastwood che rompe appunto "l´ordine del sangue". Prendiamo Million Dollar Baby...
«Intanto ogni paternità, come amava ripetere Françoise Dolto, è sempre adottiva, è sempre un´adozione simbolica che trascende il sangue e la biologia... "Io voglio lei!". "Sarò il tuo allenatore!": Frankie riconosce il desiderio di Maggie di diventare un pugile professionista, di avere lui e non altri come allenatore, risponde alla sua domanda facendo eccezione alla propria etica ("Io non alleno ragazze!") e al funzionamento della sua palestra, frequentata solo da uomini. In questo modo l´atto della paternità si produce come rottura di un ordine universale: l´ordine della morale normativa, del sangue e della genealogia, l´ordine dei dogmi. Frankie accoglie Maggie, non l´abbandona come "una causa persa", alla fine sarà il suo infermiere, la sua luce, il suo padre amato».
Ma a cosa è legata oggi la funzione del padre?
«Se non può più essere legata al sangue, al sesso, alla biologia, alla discendenza genealogica, allora aveva forse ragione papa Luciani a sconvolgere secoli di teologia dicendo che Dio è anche madre».

La Stampa 9.3.11
Cézanne gioca a carte scoperte
Al Met di New York nelle sue tele la ribellione all’impressionismo e all’arte come mercato
di Ugo Nespolo

Ormai avvezzo a esser sommerso e quasi asfissiato da un giornaliero profluvio di mostre-monstre, vernici, fiere dell’arte, di quelle in cui si bada più alla quantità pur-che-sia e si è indifferenti all’odierna fame e sete di qualità e bellezza, precipito in una sorta di wonderland nel visitare in una tersa e gelida serata al Metropolitan Museum di New York la mostra «I giocatori di carte di Cézanne»
Perla di esposizione concepita e realizzata in collaborazione con la Courtauld Gallery di Londra questa mostra riunisce e mette a confronto per la prima volta la serie di dipinti che hanno per tema i Giocatori di Carte con un vasto e raro corredo di bozzetti e tele indispensabili per capirne il percorso e la portata creativa. Sono opere dipinte negli anni che vanno dal 1893 al 1896, gli ultimi della vita dell’artista (muore nel 1906) in cui concepisce e realizza un nucleo di tele che a mio parere posson essere considerate il manifesto teorico e pratico dell’antimpressionismo.
Volontariamente isolato ad Aix-enProvence Cézanne sembra mettere in atto, giorno dopo giorno, con la lentezza esecutiva che gli è propria, la più profonda e concreta reazione all’appiattimento e alla superficialità dei trionfanti ideali impressionisti e postimpressionisti. Vive silenziosamente la sua marginalità e proprio il ciclo di tele di questa mostra spiegano con chiarezza la chiave del suo clamoroso insuccesso commerciale.
Si può bene intuire come debba aver considerato i personaggi di George Seurat nient’altro che statiche sagome di cartone alla Grande Jatte e che tutte le credenze parascientifiche del tempo che portano al pointillisme non possano prendere il posto degli ideali di solidità, volume, meditazione, spazio monumentale, che gli stavano a cuore. Ad analizzare da vicino il contrasto di colori caldo-freddo, le bordature brune e nere tracciate con pennellate solide e sicure, si può quasi comprendere il suo sogno di rifare Poussin sulla natura e di riportare l'Impressionismo tra le braccia dei Maestri.
Merleau-Ponty chiarisce bene questo concetto dicendo che «…non serve a nulla opporre qui la distinzione di anima e corpo, di pensiero e visione dal momento che Cézanne ritorna all’esperienza primordiale…» e che attraverso l’uso dei colori caldi e del nero mostra come egli intenda rappresentare gli oggetti e i personaggi e «… ritrovarli dietro l’atmosfera». Mi sembra che questi modelli di giocatori-contadini siano come illuminati da dentro e che la loro fisicità riverberi una sorta di calma e luce interiore. Pare questa essere quella stessa calma che doveva guidare quest’uomo schivo ed appartato che detestava persino il contatto fisico e che aveva tramutato in odio e delusione la fraterna e sconfinata amicizia con Émile Zola reo di averlo raffigurato nel suo romanzo L’Oeuvre nei panni del pittore fallito Claude Lantier suicida di fronte alla rivelata incapacità di portare a termine un quadro.
La mostra m’illumina sulle ragioni dell’incomprensione e dell’insuccesso di un artista da considerare tra i maggiori della tradizione moderna e che si pone allo snodo tra l’eclissi dell’impressionismo dilagante e modaiolo e il nascente cubismo picassiano pronto a far propria quella lezione di meditata tridimensionalità e di nuovo spazio prospettico. New York è proprio il luogo adatto per ripensare all’ostracismo che ancora in tempi non lontani Clement Greenberg, il massimo critico statunitense e paladino della ricostruzione delle teorie artistiche fondate sullo storicismo-genetico, riservava a Paul Cézanne considerandolo un vero ostacolo al suo pensiero che voleva la storia dell’arte quasi un percorso lineare verso la conquista della planéité , quella sorta di smaterializzazione progressiva adatta e adattata a glorificare tra l’altro il trionfo non tutto giustificato dell’espressionismo astratto made in Usa.
La solidità «ontologica» di questi giocatori si erge davvero come un masso non valicabile sul glaciale binario di una forzata lettura storico-artistica lineare ed univoca. In queste sale animate da personaggi di masaccesca solidità non posso fare a meno di pensare all’epoca nostra che vive l’arbitrio e la pochezza del «tutto è arte» in quello che si è ormai avvezzi considerare un clima di noiosa avanzata postmodernità che produce per lo più un’arte «ininfluente», lontana dal sociale e del tutto schiava del mercato sempre pilotato.
Se l’opera di Monet Impression era servita a Louis Leroy a definire un movimento liberatorio lentamente scivolato nel superficiale e nel ripetitivo, la «cosalità» di Paul Cézanne è quella di dipingere «… come se non si fosse mai dipinto». Non si fatica a credere che dopo D.H. Lawrence la sua opera sconvolga e muti per sempre in profondo la poesia di R. M. Rilke. Elegie Duinesi eSonetti ad Orfeo ne mostreranno i segni ancora vent’anni dopo il 1907.

Corriere della Sera 9.3.11
La sfida di Pinault alla Biennale
Una riflessione su nomadismo e meticciato a Palazzo Grassi
di Paolo Conti

«Il Mondo vi appartiene» . Che slogan luminoso e ottimista, di questi tempi in cui la guerra è veramente alle porte di casa nostra e soprattutto si affaccia sul Mediterraneo. Eppure la frase tanto piena di speranza, e diretta alle nuove generazioni, viene dalla Signora dell’Adriatico, avamposto proprio del Mediterraneo, ovvero dalla Serenissima. Tra poche settimane Venezia riprenderà il suo ruolo di capitale mondiale dell’arte contemporanea. Tornerà la Biennale di Venezia (per venerdì è atteso l’annuncio ufficiale della lista degli artisti da parte del presidente Paolo Baratta e della curatrice Bice Curiger per la rassegna «ILLUMInazioni» ). E l’universo di François Pinault, grande industriale e altrettanto grande collezionista di arte contemporanea, metterà in tavola le sue carte tra Punta della Dogana, dove il 10 aprile aprirà la mostra «Elogio del dubbio» , e Palazzo Grassi, marchio doc di mostre eccellenti dai tempi in cui la padrona di casa era la Fiat. La mostra che aprirà il 2 giugno a Palazzo Grassi, per chiudere il 31 dicembre (tutti i giorni, dalle ore 10 alle ore 19, tranne il martedì), sarà «una riflessione sui ritmi vertiginosi degli sconvolgimenti del mondo moderno, nutriti dal nomadismo, dal cosmopolitismo e dal meticciato» , come si legge nella presentazione. Lo staff di Pinault per Punta della Dogana e Palazzo Grassi, coordinato dal nuovo direttore Martin Bethenod e dalla curatrice, Caroline Bourgeois, è al lavoro a pienissimo ritmo. Non c’è una competizione dichiarata con la Biennale (Bethenod parla di «grande dinamismo» dell’istituzione culturale italiana che fa di Venezia «una piattaforma privilegiata dell’arte contemporanea» ). Ma dal momento in cui Pinault ha deciso di «mettersi in mostra» a Venezia con due straordinari spazi, i mesi della Biennale rappresentano un obbligo culturale per lui. Se non una sfida. Ed eccoci a «Il mondo vi appartiene» . Annuncia proprio Bethenod, che ha ormai chiuso la sua casa parigina per diventare veneziano a tutti gli effetti: «"Il Mondo vi appartiene"è un punto di vista profondamente rinnovato sulla Collezione François Pinault. Più della metà degli artisti sono esposti per la prima volta nel contesto della collezione, un terzo ha meno di 40 anni. Questa nuova generazione è estremamente mobile: la maggior parte degli artisti presenti in mostra non vive nel suo Paese o nel continente dove è nata» . Torna il concetto di nomadismo, del cosmopolitismo, del meticciato annunciato prima. E quindi il direttore dell’impresa culturale italiana di Pinault arriva a una deduzione: «Tutto ciò ci testimonia che il mondo non è più organizzato attorno a un unico centro, come era fino alla fine del XX secolo, ma a numerosi centri di creazione, che comunicano tra di loro» . Una questione non secondaria mette in discussione la stessa definizione e concezione di «arte nazionale» così come l’abbiamo conosciuta nel Novecento e che ha portato, tanto per fare un esempio, alla collocazione dei padiglioni nazionali nei Giardini della Biennale. E alla restaurazione del Padiglione Italia (quest’anno affidato a Vittorio Sgarbi). Aggiunge Bethenod: «In un mondo così tanto spesso minacciato dalla contrattura e dal ripiegamento su se stessi, la mostra tenta un approccio al tema dell’identità che non si fonda sulla rivendicazione di una nazionalità o sull’affermazione di un’origine, ma sul modo di costruire la relazione con l’altro» . Come scrive nella presentazione la curatrice Bourgeois ecco «un meticciato che va dalla tortura mediatizzata con i dipinti di Ahmed Alsoudani, al persistere della perplessità ingenua e spontanea negli uomini con la scultura poetica di Friedrich Kunath, alla monumentalità fuori moda delle grandi figure comuniste con i quadri di Zhang Huan, dal denudamento della ricca cultura africana e afroamericana con El Anatsui e David Hammons, alla minaccia terrorista con l’opera di Huang Yong Ping, all’apocalisse annunciatrice di un mondo post-umano con Loris Gréaud e Matthew Day Jackson» . Trentanove artisti molto giovani e in gran parte esordienti sulle scene di Pinault. Ma tra loro non mancano nomi molto noti, ormai parte della storia dell’arte dei nostri tempi: Alighiero Boetti o Giuseppe Penone. E poi Maurizio Cattelan, Jeff Koons, David Hammons, Francesco Vezzoli e Joana Vasconcelos, autrice alla Biennale 2005 del monumentale lampadario composto da 14.000 assorbenti femminili interni OB. Tra le mille possibili suggestioni, una in particolare richiama i nostri tempi drammatici. Farhad Moshiri, classe 1962, nascita iraniana a Shiraz, vive e lavora tra Teheran e Parigi. Presenta una scritta multicolore su un muro in lieve, elegantissimo, rassicurante corsivo: Life is beautiful. Poi ti avvicini, guardi e scopri che tutto è formato da una serie di coltelli di diversa foggia e colore piantati sulla parete. La vita può essere meravigliosa. Ma a che prezzo.

Corriere della Sera 9.3.11
Michelangelo. Cercando l’assoluto
Il dialogo tra carta e marmo, dall’architettura al tormento spirituale attorno alla Pietà Rondanini
di Giorgia Rozza

Accade ai grandi vecchi dell’arte, una volta che hanno dimostrato nel corso della loro esistenza virtuosismi tecnici di pennello o scalpello capaci di rendere ai più alti livelli la bellezza delle forme, di lasciarsi andare alla ricerca sulla materia pura e di regalare alcuni dei massimi capolavori del genio umano. Il vecchio Michelangelo, abbandonando le polite levigatezze del David o della giovanile Pietà vaticana del 1499, cerca, attraverso la tecnica del non finito, di liberare lo spirito umano dal carcere della materia in piena sintonia con le teorie del Neoplatonismo cinquecentesco. E una delle opere in cui più evidente è lo sforzo di liberare dal marmo il sussulto del divino è la Pietà Rondanini, alla quale Michelangelo lavorò dagli anni ’ 50 del Cinquecento fino alla morte avvenuta nel 1564. Proprio attorno a questo capolavoro mai finito, così importante per Milano, che sembra testimoniare un modernissimo conflitto spirituale, ruota la mostra «L’Ultimo Michelangelo» , curata da Alessandro Rovetta e visitabile nelle sale 13-15 del Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco dal 18 marzo. Fino all’otto maggio, con lo stesso biglietto è possibile conoscere un altro volto dell’eclettica produzione del genio di Caprese visitando l’attigua mostra «Michelangelo architetto nei disegni della Casa Buonarroti» a cura di Pietro Ruschi. Anche qui, paradossalmente, la poetica del non finito ha un suo spazio, perché non sempre l’attività architettonica di Michelangelo si è incarnata in quella materia da lui tanto amata, il marmo delle Apuane, dove già scorgeva nei blocchi informi colonne, mensole e capitelli. Più spesso, a causa delle tempestose vicende politiche e dei rovesci dei governi che coinvolgevano gli Stati della Penisola in quegli anni, di quest’arte monumentale sono rimasti solo segni a matita. su fogli di carta scoloriti a indicare la genialità e l’infinitezza di vedute dell’artista di Caprese. Il rapporto carta-marmo è, perciò, essenziale nelle due mostre. Perché ogni realizzazione ha alle spalle bozzetti, disegni, prove a matita. Come afferma Alessandro Rovetta: «Questa è un’occasione unica e irripetibile di ammirare i disegni dell'ultimo Michelangelo posti di fianco alla Pietà Rondanini. Si tratta di disegni di soggetto religioso che hanno un trattamento stilistico non dissimile da quello utilizzato per la sua ultima scultura» . Ma le carte esposte non recheranno su di sé solo disegni, bensì anche le ultime Rime dell’artista di Caprese provenienti dalla Biblioteca Vaticana. Afferma ancora Rovetta: «Obiettivo della mostra è illustrare gli ultimi quindici anni di vita di Michelangelo. Oltre all’unico disegno preparatorio per la Pietà Rondanini, anticipato da una serie di studi che fin dagli anni Trenta evidenziano le preferenze compositive e tematiche culminate nella scultura oggi al Castello Sforzesco, sono presenti altri fogli sui quali Michelangelo affronta diversi soggetti sempre legati alla Passione e al legame tra Maria e Cristo. Spiccano in particolare sei drammatiche e commoventi Crocifissioni, considerate le sue ultime opere grafiche realizzate in una forma quasi trasfigurata, modernissima, molto simile al modo di lavorare il marmo della Rondanini» .


Corriere della Sera 9.3.11
Ricco e «pezzente», il doppio volto
Buonarroti era l’artista più pagato di sempre ma per tirchieria viveva in modo miserrimo di di Francesca Bonazzoli

Era un venerdì quando, il 18 febbraio 1564, Michelangelo moriva nella sua casa romana di Macel de’ Corvi. Negli ultimi anni della sua lunga vita aveva disegnato per gli amici un gran numero di Crocifissi e Pietà, ovvero soggetti di devozione del corpo santo di Cristo cui era stato iniziato da Vittoria Colonna, la marchesa che riuniva intorno a sé una cerchia di cattolici che si battevano per la riforma morale della Chiesa. Alcuni, come il cardinale Reginald Pole o il cardinale Morrone, subirono persecuzioni da parte dell’Inquisizione. Non sappiamo se anche Michelangelo fosse spiato, ma di sicuro c’è che immediatamente, appena la notizia della morte dell’artista giunse all’orecchio della polizia del Papa, un giudice e un notaio entrarono nella sua casa prima dell’arrivo del nipote Leonardo da Firenze. Attraverso l’inventario che stilarono, sappiamo che «in una stanza a basso» c’erano tre statue: un san Pietro, un Cristo portacroce e «un’altra statua principiata per uno Christo con un’altra figura sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite» , ovvero la cosiddetta Pietà Rondanini. In casa c’erano anche dieci cartoni preparatori tra i quali uno con una Pietà; ventiquattro camicie di cui cinque nuove; un certo numero di barili vuoti, mezzo barile d’aceto e un cavallo. Nessun gioiello, né mobili preziosi, né una collezione d’arte. Però c’era un armadio chiuso a chiave che conteneva ottomiladuecentottantanove ducati d’oro, l’equivalente di quasi trenta chili del prezioso metallo. Questo asciutto inventario dice molto della personalità di Michelangelo, uno degli artisti più ricchi e tirchi mai esistiti. Il suo biografo Ascanio Condivi scrive che non viveva in frugalità, ma in modo miserrimo, e andava a letto con gli stivali indossandoli così a lungo che quando finalmente li toglieva, tirava via anche la pelle. Persino lo zio Buonarroto (fratello del padre di Michelangelo), facendogli visita a Roma, rimase stupito della miseria in cui viveva e gli scrisse quanto questa fosse brutta, un vizio che dispiaceva a Dio e alla gente. Ma Michelangelo non se ne curava e spiegò al padre che era contento di vivere in povertà senza darsi pensiero né della vita, né dell’onore e del mondo. Le sue condizioni migliorarono comunque molto dopo gli affreschi nel soffitto della Sistina, tanto che verso la fine del 1515 disponeva di un capitale liquido di tremilaottocento fiorini d’oro. Tuttavia già a ventidue anni, quando ricevette la commissione per la Pietà oggi in Vaticano, i suoi prezzi erano molto alti. Il papa Giulio II, per cui iniziò a lavorare nel 1505, a trent’anni, lo ricompensava con pagamenti inconcepibili per qualsiasi altro artista: tanto per avere un’idea, le sue spese per i materiali erodevano solo un terzo del compenso, mentre per gli altri artisti la media era almeno del doppio. Il papa Paolo III, poi, lo pagava più di quanto Piero Soderini aveva ricevuto per la carica di gonfaloniere a vita di Firenze e per vincolarlo al suo servizio gli concesse un vitalizio di mille duecento scudi annuali, una cifra molto importante, di cui seicento provenienti dal reddito del passaggio del Po, presso Piacenza. Paradossalmente la ricchezza contribuiva ad aumentare l’ansietà di Michelangelo. L’artista considerava infatti l’avarizia come il peccato più grande, motivo per cui non mise mai in banca i suoi soldi a fruttare interessi. Li investiva soprattutto in proprietà immobiliari il cui valore, dopo la morte, era stimato intorno ai dodicimiladuecentoquaranta fiorini, comparabile a quello di molti patrizi del tempo. Pare che Michelangelo, in tutta la vita, avesse guadagnato l’equivalente di metà del capitale di Agostino Chigi, che negli anni Dieci del Cinquecento era il più ricco banchiere del mondo. Una delle ragioni di tanta tirchieria era l’ossessione di ripristinare il prestigio della famiglia Buonarroti che era stata eleggibile per le cariche pubbliche da almeno sei generazioni. Tuttavia né il padre, né lo zio erano più stati in grado di pagare le tasse e quindi di ricoprire uffici pubblici. Michelangelo se ne vergognava e fece in modo che anche grazie agli ottimi matrimoni (con famiglie nobiliari) dei nipoti Francesca e Leonardo, la famiglia tornasse a risalire la scala sociale. Solo nell’ultima parte della vita si dedicò alla beneficenza perché l’altra sua ossessione, quella senile, riguardava la salvezza dell’anima. Ma c’è una testimonianza che ci rende più simpatica la tirchieria di Michelangelo: nell’orazione pronunciata per il funerale del maestro a Firenze, Benedetto Varchi disse che Michelangelo regalò sempre disegni, cartoni e statue ai suoi amici e parenti. Michelangelo faceva dunque pagare, e a caro prezzo, solo i ricchi: i detestati Medici, signori di Firenze, e i detestati nove papi, signori di Roma, che servì

Corriere della Sera 9.3.11
Geometra e muratore di se stesso Il talento concreto dei suoi progetti
di Philippe Daverio

Certo è che Michelangelo Buonarroti non ha mai avuto la vita facile. Ed è forse per questo motivo che ha campato fino a novant’anni in un’epoca dove si abbandonava la vita terrena ben prima. La grinta del suo esistere contro le avversità dell’ispirazione, del talento e delle committenze è la sua vera molla vitale. E questa grinta appare immediata guardando i suoi disegni d’architettura presentati in una bella mostra nella sala Viscontea del Castello Sforzesco. Fa riflettere il suo segno, fa pensare il suo percorso progettuale. Se la O che Giotto bambino traccia perfetta, secondo la leggenda, come se avesse un compasso incorporato nelle braccia rende inizialmente antipatico l’inventore della lingua visiva italiana, come sempre stanno antipatici quelli che sono provvisti d’un talento totale e non sofferto, guardare un reticolato per numeri tracciato con mano veloce da Michelangelo genera simpatia etimologica: ci si rende conto che lui patisce come noi tutti nel dovere stendere una quadrettatura precisa. Quindi la sua bravura non è dovuta a talento automatico ma a percorsi celebrali intelligenti che lo portano nella direzione verso la quale lo guidano insieme la sensibilità e l’idea. Talvolta il segno è forte e determinato come quello moderno d’un Sironi, talvolta la mano non sembra essere vittima ubbidiente della mente e il ricciolo d’una colonna a destra è inesorabilmente diverso da quello di sinistra. La mano non corre da sola, mai. È sempre l’idea che deve spingerla nell’azione. A mano libera le parallele fanno fatica a non toccarsi. È il Michelangelo umano come noi. Poi si applica, usa la concentrazione e forse pure il righello e i contorni diventano evidenti mentre il segno che traccia per indicare le scanalature della colonna vengono interrotti da passaggi successivi di colpi di penna come lo farà secoli dopo Van Gogh. È fin troppo evidente il modo di trattare il foglio di carta, nello sgrezzare gli schizzi, a pari modo del blocco di marmo all’inizio d’una impresa scultorea. Il percorso progettuale è ancor più interessante perché ancor più essenziale. Quasi tutti gli architetti, quando si trovano nella libertà creativa del foglio ch’è ben più ampia di quella della statica o dell’econometria della realizzazione, lasciano correre la fantasia verso ipotesi non realizzabili che non sono altro che terreno d’esercitazione. In un secondo momento tornano alla concentrazione necessaria per un progetto plausibile. Michelangelo, così come non lascia correre libera la mano, non lascia neppure correre libera la mente. Ogni disegno, anche il più piccolo, è drasticamente concreto. Tutto ciò che progetta è realizzabile, anzi spesso viene indicato con le quote e gli spessori, misure comprese. Così come si presenta il disegno definitivo, anche nella casualità della disposizione sul foglio, esso può essere eseguito dal capomastro o dal lapicida. Se invece il suo destino è più aulico, se deve cioè essere proposto al committente, assume un aspetto più finito, si carica di ombre all’acquarello o all’inchiostro. Ma sempre senza condiscendenze di sorta. Viene immediato il confronto con i suoi contemporanei, gli architetti che, da Bramante a Palladio, avranno fortune ben più ampie presso i committenti. Loro conoscono l’arte della presentazione. Lui è preso da impegni ben più alti. E corre automatica pure la voglia di confronto col suo opposto, il Leonardo presente nella nostra coscienza visiva attraverso le centinaia di disegni dei suoi lunghi diari. Leonardo è sperimentatore, visionario per un certo verso, e crede ad una sorta di gnosi aristotelica, quella che conosce per via della percezione; corre nella fantasia, il che sembra l’opposto delle sue premesse teoriche. Michelangelo è teoricamente neoplatonico, trasferisce l’idea nella concretezza della materia. E mentre ci si aspetterebbe da questa impostazione filosofica convinta l’evolversi d’un libero percorso di creatività astratta, cala in una concretezza costante, accetta le regole strette del costruibile, si cimenta nella definizione del dettaglio che vuole essere realizzabile. Senza fronzoli, senza caricature, in un realismo dove domina sempre una convinta concettualità degli equilibri. Leonardo immagina, e qualcuno un giorno farà. Michelangelo è il geometra di se stesso, il suo proprio muratore. Forse va reinterpretata la scuola neoplatonica a cavallo fra Quattro e Cinquecento.

«Marco Bellocchio... sottolinea l’importanza dell’archivio storico di Cinecittà, "tesoro incredibile che deve restare proprietà dello Stato"» 
La Stampa 9.3.11
Cinecittà chiude? Scoppia la rivolta
Infuria la polemica sui tagli del Fus, in campo anche Benigni
di Fulvia Caprara

La fabbrica dei sogni rischia di chiudere i battenti, il mondo del cinema si mobilita, il governo corre ai ripari: «L’impegno dichiara il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Maria Giro non sarà nè dovrà essere quello di far sopravvivere Cinecittà limitandone la missione, ma di farla funzionare bene, come ha dimostrato in questi ultimi anni». L’obiettivo, assicura Giro, sarà di fare «ogni sforzo affinché Cinecittà Luce possa continuare ad essere un marchio e una realtà fra i più antichi e prestigiosi del cinema italiano. In questi anni Cinecittà ha risanato i suoi conti, snellito la sua struttura e precisato la sua missione».
L’appello più accorato è di Roberto Benigni e di sua moglie Nicoletta Braschi: «Leggiamo sui giornali della probabile chiusura di Cinecittà Luce. E’ proprio una brutta notizia. Là dentro c’è tutta la nostra memoria, tutti i nostri sogni fabbricati per uomini svegli. Un archivio immenso, la nostra storia. Ma come si fa a chiudere la Storia?». Il taglio che leverebbe l’ossigeno a Cinecittà riguarda la diminuzione delle risorse del Fus, il Fondo Unico dello Spettacolo. I fondi destinati agli studi cinematografici scenderebbero, per il 2011, a quota 7 milioni e mezzo di euro. Perfino lo stesso Ministero se ne rende conto, e ieri pomeriggio, nel tentativo di arginare il fiume delle polemiche ha fatto sapere sapere che non è stata ventilata nessuna ipotesi di chiusura, anche se le risorse a disposizione sono effettivamente insufficienti: «Il contributo a Cinecittà Luce non potrà verosimilmente superare gli 8 milioni di euro». Non esiste volontà di chiudere «questa importante realtà della cultura audiovisiva nazionale», ma certo risorse così scarse sono «del tutto insufficienti a garantire qualsiasi attività e a mantenere integra la forza lavoro attualmente in opera». Una situazione drammatica che, se il Fus non verrà riportato almeno al livello del 2010, pari a 414 milioni di euro, coinvolgerà in tempi brevi «altre importanti istituzioni culturali italiane».
Per una volta la protesta è unanime, le voci politiche sono tutte d’accordo. Da quella di Maurizio Gasparri, presidente del gruppo Pdl al Senato, che invita il governo a «raccogliere il grido d’allarme che arriva da Cinecittà e dall’Istituto Luce» a quella del presidente della Commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli che giudica l’operazione «vagamente barbarica». Secondo Francesco Rutelli esiste un legame tra il provvedimento anti-Cinecittà e il vuoto politico creato dall’assenza del ministro Sandro Bondi. «Sarebbe un amaro paradosso osserva l’ex-segretario del Pd Walter Veltroni se, proprio mentre l’Italia festeggia il centocinquantesimo della sua nascita, dovessimo assistere alla chiusura del più antico e prestigioso polo dell’industria della cultura e dello spettacolo». Il consigliere Udc alla Regione Lazio Pietro Sbardella parla di «emergenza civile». Sul fronte dei registi, accanto a Benigni, scendono in campo Marco Bellocchio, che sottolinea l’importanza dell’archivio storico di Cinecittà, «tesoro incredibile che deve restare proprietà dello Stato», e poi Gianni Amelio, Saverio Costanzo, Mimmo Calopresti. Secondo il direttore della Mostra di Venezia Marco Müller la chiusura di Cinecittà provocherebbe l’«azzoppamento di tutto il made in Italy cinematografico».