domenica 13 marzo 2011

l’Unità 13.3.11
UN MILIONE nelle piazze italiane per la Costituzione e la scuola pubblica
L’Italia che non si piega
«Ai diritti non rinunciamo»
Bersani: «Una piazza per l’alternativa» Al corteo dal Pd a Fli
Sfilano in difesa della Costituzione per le vie del centro di Roma i dirigenti del Pd, dell’Idv, di Sel e anche di Futuro e libertà. Ma dal Terzo polo si precisa che non ci saranno sante alleanze e che ognuno va per conto suo.
di Simone Collini


Questa non è una piazza contro, è una piazza per l’alternativa». Pier Luigi Bersani sfila per le vie del centro di Roma e per prima cosa nota che nel corteo «non c’è un animo contro, ma per un’Italia diversa». Sul bavero destro della giacca porta una coccarda tricolore, sul sinistro il simbolo che il Pd aveva sfornato l’autunno scorso per la campagna a difesa dell’istruzione: un paio di occhialoni con dentro scritto «guardiamo al futuro, crediamo nella scuola pubblica». Così com’era sceso in piazza il 13 febbraio per la manifestazione in difesa della dignità femminile, anche questa volta il leader del Pd ha voluto esserci: «Un grande partito come il nostro deve af-
fiancare questo grande movimento e dargli la mano, politica e società civile devono stare insieme. Berlusconi si avvinghia su se stesso, resiste e ha grinta, ma noi ne abbiamo di più».
L’ITALIA S’È DESTA
Il Pd è convinto che il governo potrà anche resistere in Parlamento grazie ai transfughi, ma che tra l’elettorato il premier goda di una percentuale di fiducia molto bassa (gli ultimi sondaggi arrivati al Nazareno parlando del 35%) e che quest’onda che per ora si sta sviluppando a livello di piazza si farà sentire anche alle urne con le amministrative di metà maggio. «È un fatto straordinariamente positivo che dopo lunghi mesi di apatia l’Italia s'è desta», dice con un sorriso Anna Finocchiaro. «Abbiamo iniziato noi l’11 dicembre ricorda la capogruppo del Pd al Senato ma piuttosto che scavalcati siamo felici che fuo-
ri dai partiti e dai sindacati, il popolo italiano scenda in piazza». La riuscita di questo corteo per Dario Franceschini è la dimostrazione che «gli anticorpi della democrazia italiana sono molto più forti dei virus di Berlusconi». E il fatto che tanta gente si sia mobilitata «senza nessuna organizzazione alle spalle» è per il capogruppo del Pd alla Camera «la prova di quanta voglia ci sia di voltare pagina».
CIASCUNO PER CONTO SUO
Rimane però il nodo di un’opposizione che sta procedendo in ordine sparso, come in un certo senso si vede anche alla manifestazione di Roma. Se il leader di Sel Nichi Vendola non partecipa a causa della cancellazione del volo da Bari (ci sono però Fabio Mussi e Franco Giordano), quello dell’Idv Antonio Di Pietro rimane a Napoli per lanciare la candidatura di Luigi De Magistris, dichiarando comunque che questa è «una giornata di festa e di riscossa della società civile, dei cittadini onesti e stanchi di subire le scelte autoreferenziali del governo» (a Roma sfila Leoluca Orlando). E se anche sono in piazza molti esponenti di Futuro e libertà da Flavia Perina ad Aldo Di Biagio ad Antonio Buonfiglio Fabio Granata sottolinea che «non è attuale l’ipotesi della Santa alleanza». Anche l’Udc ha aderito, ma ci pensa Pier Ferdinando Casini da Torino (per un convegno su Donat Cattin) a sottolineare che «c’è una opposizione imperniata sul Pd e una moderata del Terzo polo, ed è chiaro che ciascuno va per conto suo».

il Fatto 13.3.11
Per fortuna c’è la Costituzione
di Bruno Tinti


Ho partecipato a una trasmissione radiofonica sulla epocale riforma della Giustizia progettata da B&C. Per farmi iniziare bene la giornata (erano le 8 di mattina), il conduttore mi ha informato che Santanchè aveva affermato su non ricordo quale giornale, che i magistrati di Bergamo dovevano dimettersi perché “se avessero impiegato per le ricerche le stesse risorse e tecnologie che hanno speso per indagare sulle ragazze dell’Olgettina forse Yara sarebbe ancora viva”. Non sono riuscito a trovare commenti adeguati. Poco dopo è intervenuto Gasparri che si è lamentato perché io avevo detto, parlando della riforma (dopotutto questo era il tema della trasmissione) “questa gente dovrebbe spiegarmi perché istituire un secondo Csm ridurrà i tempi dei processi”. Non gli è piaciuto il termine “gente”, ha detto che era “offensivo e minaccioso”. Anche qui non sono riuscito a trovare commenti adeguati. Naturalmente, sullo specifico problema che avevo sollevato, Gasparri nulla ha detto.
Intanto B&C hanno portato la riforma in Consiglio dei ministri: e da qui andrà in Parlamento. Diciamo che, come nella migliore tradizione, c’è una notizia buona e una cattiva.
QUELLA CATTIVA: la riforma epocale l’hanno studiata Alfano e Ghedini, buoni giuristi al servizio, ahimè, di cause sbagliate (soprattutto Alfa-no che non è l’avvocato di B. e che non ha nel suo mandato di impedire che questi finisca in prigione). Sicché, hanno scritto una riforma ottima per B&C ma pessima per il paese: per i motivi che sto spiegando da 4 anni (prima in un paio di libri e poi con i miei articoli), la riforma darà il colpo di grazia alla giustizia italiana che non riuscirà più a mettere in prigione un solo delinquente. Il che, d’altra parte, è proprio quello che vogliono, visto che tra quelli che ci dovrebbero andare ci sono B. e molti suoi C. Ma, nonostante questo, sarà approvata dal Parlamento perché sarà votata da Santanchè, Gasparri e tanti altri noti giuristi che, senza capire un acca di quello che fanno, metteranno la croce dove gli verrà detto; e, nel frattempo, pronunceranno frasi immortali come quelle che vi ho raccontato all’inizio.
Quella buona: siccome abbiamo la fortuna di avere una Costituzione stupenda e furba assai, il pericolo di iniziative come questa è stato previsto e, nei limiti del possibile, si è tentato di arginarle: le leggi che prevedono stupidaggini pericolose per la sopravvivenza dell’ordine civile e democratico debbono essere approvate 4 volte: Camera, Senato, di nuovo alla Camera e poi di nuovo al Senato; e, se una delle 2 Camere fa una modifica, anche questa deve essere approvata 4 volte, quindi si ricomincia con il balletto. Dovremmo fare a tempo a morire di vecchiaia; ma va anche detto che B&C sono molto determinati e che B. è molto ricco; e i recenti avvenimenti dimostrano che “questa gente” vede facilmente una grande luce: basta fornirle buoni motivi. Sicché, magari in un paio d’anni, la riforma epocale sarà approvata dal Parlamento. Ma, ecco la buona notizia, questo non basta: trattandosi di leggi che modificano la Costituzione, debbono essere sottoposte a referendum popolare. Veramente questo non è proprio sicuro, perché, se il Parlamento le approvasse con una maggioranza di due terzi, il referendum non si farebbe. Ma non credo che l’opposizione possa votare un obbrobrio del genere. È vero che finora non è stata molto efficiente (capolavoro di understatement) ma fino a questo punto...
COSÌ, SE IL PARLAMENTO approva la riforma a maggioranza semplice, si va al referendum; che, trattandosi di leggi costituzionali, non richiede il quorum. In altri termini, non è necessario che il 51 per cento degli elettori vada a votare; se ci vanno anche solo in 1000, il referendum è valido. Il fatto è che questo referendum è molto tecnico e i quesiti saranno molto complicati ; per dire, a Santanchè, Gasparri e gente come loro toccherà spiegarli per bene. Anche la stragrande maggioranza dei cittadini non ci capirà niente, non si renderà conto che il tutto serve per evitare la prigione a B&C, che dunque è una cosa importantissima e che si deve proprio andare a votare. Certo, Tv e giornali di B&C dispiegheranno tutta la loro potenza di fuoco; ma, ecco la mancanza di un partito vecchio stile, radicato sul territorio, con le sezioni, gli iscritti, la passione e l’ideologia, per intenderci una cosa tipo Pci: il ministero della propaganda potrebbe non essere sufficiente; e i cittadini andranno comunque al mare. Non tutti però: quelli che capiscono, loro a votare ci andranno; e la gente (gente, con buona pace di Gasparri, non è parola offensiva o minacciosa) che capisce assicurerà alla riforma epocale di B&C la fine che merita. Così come è successo per gli altri referendum sulla Costituzione (2001 e 2006): perché il ministero della Propaganda lavorerà pure al massimo; ma le cazzate restano cazzate.
Sarà istruttivo constatare come la stessa gente che non ha voluto l’election day per il referendum sul legittimo impedimento (costo aggiuntivo: 300 milioni circa) si dannerà per trovare un qualche accorpamento del referendum sulla riforma epocale con altre elezioni. Al solo fine, si capisce, di imbarcare tutti quelli che, senza capire, straparlano e votano.

Repubblica 13.3.11
Le piazze e la Costituzione
di Curzio Maltese


Piazze invase dai tricolori, guerra di cifre. Giustizia, parla Vietti: la riforma non punisca i magistrati
"Un milione per Costituzione e scuola"
Il tricolore e la Costituzione, l´inno di Mameli e «Bella ciao». Le cento piazze italiane hanno sapute leggere, fin dai simboli, la storia di questi anni, l´essenza della scontro politico in atto da quindici anni. Assai meglio di quanto non sappiano fare i partiti.

Nel Paese c´è una minoranza che non si riconosce nei valori della Carta e c´è una maggioranza che invece vorrebbe vedere applicato il patto fondante della Patria. Questo è il vero conflitto
Nei 150 anni di unità, l´Italia, al prezzo di immani tragedie, è riuscita a darsi una sola vera e grande patria. Questa patria è la Costituzione antifascista. Le altre idee di patria, dal fascismo in su o in giù, sono state piccole, miserabili e funeste.
Da quindici anni la lotta politica non è quella che si racconta, fra una destra e una sinistra quasi altrettanto immaginarie, almeno secondo i parametri delle altre democrazie. Tanto meno fra berlusconismo e anti berlusconismo, categorie al pari esagerate rispetto all´esiguità e a tratti il grottesco del personaggio.
Il cuore del conflitto sta altrove, fra un´Italia di larga e compatta minoranza che non crede ai valori della Costituzione, non li pratica e vorrebbe cancellarli, e un´Italia maggioritaria, ma divisa, che si riconosce nel patto fondante della Repubblica e vorrebbe vederlo finalmente applicato. Era questa la fotografia politica del Paese nel ´94, subito dopo la discesa in campo di Berlusconi, confermata dai referendum costituzionali del 2006, e tale rimane ancora oggi. In mezzo, il grumo di poteri ideologicamente anticostituzionali che ora chiamiamo col nome di un ricco imprenditore che si è adoperato con ogni strumento culturale, politico, economico per attaccare e distruggere le basi stesse del patto democratico. Senza risparmiare nessuno dei valori fondanti, dal ripudio della guerra alla prevalenza dell´interesse pubblico sul privato, dalla separazione dei poteri alla laicità dello Stato, al ruolo di garante costituzionale del Presidente della Repubblica. Anche attraverso l´azione parallela di un revisionismo storico che punta al massimo e blasfemo scopo di equiparare i partigiani e i repubblichini di Salò.
Se domani, per ipotesi, sparisse Berlusconi, il conflitto non cambierebbe nella sostanza di una virgola. Diventerebbe soltanto più limpido, sgombrato dalle nebbie del populismo mediatico. Lasciando più spazio alla Lega, cioè alla forza che con schiettezza identifica l´attacco alla Costituzione antifascista con l´attacco all´unità del Paese. Come avviene già in questi tempi di berlusconismo agonizzante, in cui è la Lega l´autentico motore politico dell´azione di governo.
Questa è la posta in gioco. Così l´hanno illustrata le cento piazze d´Italia, con la semplice forza dei simboli, degli inni e delle duecento parole con le quali i padri costituenti hanno scritto la prima parte della Carta. In modo che proprio tutti possano comprenderla, anche coloro che continuano a non volerlo fare. Così l´hanno percepita e spiegata di recente artisti come Roberto Benigni o Roberto Saviano, e l´hanno trasformata in racconto popolare. Il giorno in cui i partiti dell´opposizione sapranno capire e spiegare la posta in gioco con altrettanta chiarezza, sarà un gran bel giorno per la democrazia italiana.

il Fatto 13.3.11
Giustizia, ma quale dialogo: dieci ragioni per dire no
di Furio Colombo


“Gentile Furio Colombo, sono una casalinga demoralizzata e incazzata, ma purtroppo del tutto impotente. Mi permetto un piccolo sfogo sulla sua pagina perché mi fa sentire un po’ meno sola di fronte all’attuale, allucinante situazione italiana. Ma come è possibile, mi chiedo, che a un presidente del Consiglio imputato in quattro processi sia offerta collaborazione per riformare ‘insieme’ la giustizia? Curatola Gabriella”.
L’osservazione è semplice e netta e difficile da eliminare.   Penso che rappresenti lo stato d’animo di tanti cittadini, che forse voteranno a sinistra e forse no e stanno col fiato sospeso per vedere se il brusio di favore alla grande riforma di Berlusconi, che comincia a sentirsi tra le file dell’opposizione e nelle dichiarazioni di alcuni con nome e ruolo di prima fila nel Pd, diventerà davvero un modo di partecipare alla grande riforma costituzionale della Giustizia italiana. Ovviamente, in tempo di elezioni, la grande riforma apparirà in testa alla lista dei successi del gruppo Berlusconi (inteso sia come partito sia come azienda) e tra le colpe non perdonabili dell’opposizione in generale e del Pd in particolare. 
Bisogna ammettere che l’infiltrazione nelle file e nelle teste dei parlamentari e degli opinionisti di area Pd dell’idea, dopotutto, sulla giustizia si può collaborare, è avvenuta con cautela e bravura   , cominciando dalle colonne del Riformista, dai suoi opinionisti di prima fila e dai suoi ex, molto stimati e molto invitati nella vetrine Tv come “rappresentanti della sinistra”. La trovata è stata di iniziare subito il dialogo, (ma anche la zuffa va bene, l’importante è partecipare al gioco) sulle singole parti, innovazioni, trovate e articoli del progetto di legge Berlusconi-Ghedini-Alfano. Qui l’importante è di impedire che si manchi di rispetto al grandioso evento che cambierà la vita italiana, e che tutti, anche gli avversari, prendano sul serio la prova di forza (e di vittoria) che sta per attraversare come una valanga non resistibile il Parlamento mercenario che oggi decide a nome della Repubblica italiana. 
MERITA UNA riflessione la possibilità che i Radicali eletti nel Pd, alla Camera e al Senato, accettino di lavorare alla riforma della Giustizia secondo Berlusconi. Penso che sia un errore, che però è coerente con tutte le cose dette e fatte dal partito di Pannella e Bonino (condivise o no dai compagni di strada dei Radicali in tutti questi anni). Infatti i Radicali, che si battono da decenni per una loro riforma della Giustizia (molto prima del 1994, anno che l’uomo di Arcore indica come data di nascita del suo progetto) vedono Berlusconi accostarsi al loro percorso e non viceversa. Io non accetterei monete da un falsario, persino se sembrano identiche a quelle vere, e credo che a un certo punto scatterà la ben nota intransigenza   di quel gruppo politico, e ci sarà una netta rottura, come è accaduto in passato. O almeno lo spero.
Meno facile è mobilitare contro Berlusconi le piazze, le donne, la raccolta di firme, una platea vasta e diversa, come sono gli elettori e I cittadini vicini al Pd, per poi chiedergli all’improvviso di rassegnarsi a discutere di giustizia “insieme”, mentre cominciano, a uno a uno, i processi a carico del grande timoniere della giustizia italiana. E infine, eventualmente, tornare in piazza e poi mobilitarsi per votare contro. Propongo dunque le dieci ragioni da offrire al Pd per non   partecipare in alcun modo alla riforma della Giustizia Berlusconi-Ghedini-Alfano. 1) La riforma nasce come “punizione” e come “vendetta”, e come tale viene annunciata. Anzi è stata rilanciata di colpo dopo l’incriminazione del premier per l’affare Ruby (concussione e prostituzione minorile);  2) Le imputazioni contestate al capo del governo italiano sono troppo gravi, anche come simbolo e immagine del Paese nel mondo, per poter intrattenere una discussione “insieme” sui problemi della giustizia e dei giudici; 3) Berlusconi ha invocato come ragione fondante della   sua riforma la vicenda di “Mani Pulite”, il maggior evento di lotta contro la corruzione in Italia. Con la sua nuova legge – promette – la lotta giudiziaria alla corruzione non potrà mai più verificarsi in Italia; 4) Berlusconi è stato coinvolto, in accertate vicende giudiziarie (alcune ancora in corso) nel reato di corruzione di giudici. In altre parole, ha pagato e comprato giudici. Il suo partito-azienda, i suoi avvocati-deputati e lui stesso non possono accostarsi all’argomento “giustizia” e “riforma della Giustizia”, senza suscitare, sospetto e discredito; 5) La maggioranza di cui Berlusconi dispone è una maggioranza in parte comprata. La mancanza di “vincolo di mandato”, indicato dalla Costituzione, non sana questo grave aspetto o sospetto di corruzione. Meno che mai in una legge che riforma   vita e attività dei giudici; 6) Berlusconi, personal-mente e attraverso il suo Giornale, ha definito i giudici “un cancro”, “un gruppo eversivo”, una “associazione a delinquere”, una aggregazione di poveri matti. Ci si può associare?; 7) Nell’annunciare che la legge costituzionale di riforma della Giustizia era sul punto di essere presentata in Parlamento, Berlusconi ha detto, riferendosi alla sua “persecuzione: “Così questa storia indegna finirà per sempre”. In tal modo e intenzionalmente, ha voluto rendere chiara per tutti la natura della nuova legge costituzionale: non renderà mai più possibile l’incriminazione dei potenti; 8) È evidente, ripetuta e vistosa la intenzione del premier e dei suoi avvocati di sterilizzare uno dei tre poteri su cui si fonda lo Stato democratico, il potere giudiziario, dopo avere ottenuto il controllo del Parlamento attraverso una poderosa e sfacciata campagna acquisti, e avere stabilito un record di ore di presenza su tutte le reti televisive, di Stato e private, e mentre sono in corso   attività finanziarie per alterare gli equilibri di potere in uno dei due maggiori quotidiani italiani ancora indipendenti; 9) Berlusconi ha bisogno di complici. L’Italia è oggetto di scrutinio attento da parte delle democrazie e dell’opinione pubblica democratica del mondo. Una legge che riformi drasticamente il sistema giudiziario italiano, sotto bandiera Berlusconi, sarebbe guardata, fuori dall’Italia, con il sospetto che merita. È indispensabile per lui e i suoi avvocati, avere ben più che i “responsabili” a tariffa che hanno abbandonato altri partiti per offrirgli reputazione, lealtà e voto. Ora occorrono complici che siano la prova della buona fede di questa avventura; 10) La legge di riforma costituzionale della Giustizia non può arrivare sul tavolo del capo dello Stato senza i nomi e le firme di almeno   una parte della opposizione e, soprattutto, di una parte del Pd in funzione di garanzia notarile.
Ecco dove il Pd si presenta al Paese come una opposizione invalicabile oppure come il complice necessario di Berlusconi. La campagna elettorale che ci sarà subito dopo si decide qui.

Corriere della Sera 13.3.11
«Indagini decise dalla polizia? Pm subordinati alla politica e meno garanzie di legalità»
di M. Antonietta Calabrò


ROMA— «È un modo indiretto per subordinare il pubblico ministero al potere politico. Se passasse la riforma, il potere di iniziare le indagini sarebbe in mano alle forze di polizia che sono gerarchicamente ordinate e in sostanza soggette al governo, rispettivamente al ministro dell’Interno (Polizia di Stato), al ministro della Difesa (Arma dei carabinieri) e al ministro del Tesoro (Guardia di Finanza)» . Roberto Scarpinato, procuratore generale presso la Corte di Appello di Caltanissetta, è assolutamente contrario a questo punto della riforma costituzionale presentata giovedì scorso. Ci spieghi meglio... «Le forze di polizia non godono né di indipendenza né di inamovibilità. Il nostro Paese tornerebbe indietro ai tempi dello scandalo della Banca Romana, quando funzionari di polizia impegnati nelle indagini si potevano trasferire in 24 ore. Adesso invece il fatto che il titolare delle indagini è il pm, garantisce la libertà da interferenze anche della polizia giudiziaria. Ma c’è anche un’altra conseguenza per i cittadini...» . Quale? «Si abbasseranno non solo le garanzie di accertamento dei reati, ma anche quelle di legalità per chi è sottoposto ad indagini. Oggi il pubblico ministero è tenuto all’accertamento della verità e ogni giorno si riscontrano in tutt’Italia richieste di assoluzione avanzate dai pm. Ma se il pubblico ministero viene ridotto ad essere nel processo solo l’avvocato dell’accusa, cioè quello che ha il compito di rappresentare in udienza solo le ragioni della polizia, torneremo ad uno Stato di polizia» . Uno Stato di polizia? In un paese come la Gran Bretagna il pm è solo l’avvocato dell’accusa e le indagini le fa Scotland Yard, ed è considerata culla della democrazia e del regime parlamentare... «Il problema da noi è il mosaico che diventa visibile con tante tessere che convergono in un’unica direzione: se le indagini vengono avviate dalla polizia è chiaro che la scelta dei reati da perseguire sarà influenzata dall’esecutivo, e verrebbe meno l’articolo 3 della nostra Costituzione per cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge; gli investigatori scomodi potranno essere trasferiti; sarà quasi inevitabile perseguire maggiormente reati come le rapine che destano maggiore allarme sociale e reazione più viva dell’opinione pubblica, rispetto ai reati dei colletti bianchi, come il riciclaggio. Insomma, l’azione della giustizia si limiterà dentro un orizzonte più ristretto? «E nelle sue linee di intervento risentirà degli umori e degli interessi delle maggioranze di governo. Mentre, secondo me, la giustizia deve essere esercitata guardando l’orizzonte più ampio e stabile dell’interesse dello Stato» .

il Fatto 13.3.11
New York, lo stupore delle donne davanti al “caso Italia”
Al summit “Women in the world” la Bonino, la Placido e altre raccontano del ruolo femminile ai tempi dei festini
di Angela Vitaliano


Le donne italiane che lavorano a tempo pieno, dedicano, ogni settimana, almeno 21 ore del loro tempo alle faccende domestiche. Gli uomini, quattro. Si alza un mormorio, il primo di una lunga serie, nella sala conferenze dell’Hudson Theatre di New York dove è in corso la seconda giornata del Summit “Women in the World”. A snocciolare una serie di dati che danno, immediatamente, il quadro dell’anomalia della condizione femminile in Italia, è Lesley Stahl, giornalista di 60 minuti una delle rubriche televisive di politica è attualità più famosa negli Stati Uniti. Lesley, chiamata a moderare la sessione intitolata “Le donne italiane al contrattacco”, nella quale sono ospiti Barbie Nadeau, giornalista del Daily Beast e di Newsweek, Emma Bonino e Violante Placido, sottolinea, come se ce ne fosse bisogno, che è sorprendente che si stia parlando di un paese europeo e che le immagini mostrate nel breve video introduttivo, tutte relative a show di prima serata con donne molto poco vestite, sono quelle che “bombardano continuamente” il pubblico del Belpaese. “Silvio Berlusconi – dice la Nadeau – è stato cruciale nel creare e perpetuare una cultura di sessismo subliminale con la quale le donne italiane devono fare i conti, dal momento che si riflette costantemente nell’economia e nella vita di tutti i giorni”.
ANCHE VIOLANTE Placido, concorda nell’attribuire al premier gran parte della responsabilità di una condizione femminile che è peggiore di quella di paesi come il Perù. “La verità – dice la Nadeau – è che molte donne lavorano in “nero” costrette dunque a una condizione di discriminazione addirittura doppia perché poi devono occuparsi della casa e della cura dei bambini”. “Non solo – dice la Bonino, applauditissima dal pubblico in sala – ma le donne negli ultimi anni sono state anche costrette a sopperire alla carenza dei servizi sociali, dovendosi accollare la cura di anziani o di familiari in cattive condizioni di salute”. Una responsabilità che, tuttavia, Emma Bonino non si sente di attribuire, nella sua totalità, a Berlusconi che ha solo amplificato, sebbene in maniera insopportabile, un atteggiamento culturale che si era già andato diffondendo prima di lui. “Dopo le grandi battaglie per la conquista di diritti quali il divorzio e l’aborto, negli anni Settanta – sottolinea la Bonino – le donne italiane si sono, in qualche modo, ‘assopite’ dando per scontato il mantenimento di status che invece vanno difesi giorno per giorno e, in questo modo sono diventate, loro malgrado complici di una situazione dalla quale diventa sempre più difficile uscire”. Berlusconi, dunque, responsabile ma non unico colpevole, chiede ancora Lesley Stahl. “Tantissima parte di responsabilità è sua – ribadisce Violante Placido – dal momento che lui è il premier e, allo stesso tempo, proprietario della maggior parte dei media italiani. Inoltre, noi non abbiamo modelli femminili ai quali possiamo ispirarci, il modello vincente è quello di donne giovani, molto giovani, e belle, facilmente corruttibili , che vanno alle feste, si accompagnano a uomini potenti e il giorno dopo finiscono sulle copertine dei giornali, ottengono interviste e diventano famose”.
“ED ENTRANO in politica – aggiunge la Nadeau – come è accaduto a Mara Carfagna, il giorno prima modella di calendari sexy e quello dopo, ministro per le Pari opportunità”. Spalanca le braccia la Stahl, rivolta a un pubblico sempre più rumoroso (caso unico nella tre giorni del Summit) mentre Emma Bonino ribadisce che “le donne sono quelle che devono svegliarsi e rimboccarsi le maniche perché nulla ci sarà regalato. Le donne devono assolutamente tornare a fare politica e non “grazie” alle quote, con le quali non sono assolutamente d’accordo perché, soprattutto in Italia, rischiano di diventare un’ulteriore forma di ghettizzazione. Le donne devono avere il coraggio di tornare a combattere in maniera decisa e seria contro ogni tipo di stereotipo che le vuole mogli e madri, da un lato, o belle ma stupide dall’altro”.

il Fatto 13.3.11
Il primario
Martelli racconta la Polverini che distrugge la sanità romana
di Paola Porciello


Tutti i suoi progetti presentati in Regione Lazio per il risanamento dei bilanci dell'Azienda ospedaliera a costo zero sono chiusi nei cassetti da mesi. Così lui ha rassegnato le dimissioni. Per cominciare a capire perché la sanità in Italia versa in pessime condizioni, bisogna parlare con chi la sanità la conosce bene e sa farla funzionare: il professor Massimo Martelli è da 22 anni primario del reparto di Chirurgia Toracica del Forlanini di Roma, un punto di eccellenza a livello nazionale ed europeo. Prestato alla politica per due mandati in qualità di Commissario straordinario del San Camillo Forlanini (commissariato per motivi di bilancio), a febbraio ha lasciato l'incarico, con una lettera amara. In cui ha denunciato, ancora una volta, l'assenza di seguito alle sue proposte di risanamento avanzate ripetutamente ai collaboratori del presidente Renata Polverini.
LA STAMPA se n'è occupata, e l'11 febbraio scorso i deputati Miotto, Morassut e Zaccaria, del Pd, hanno presentato un'interrogazione parlamentare, per chiedere al ministro della Salute Ferruccio Fazio perché mai il piano di recupero e risanamento amministrativo presentato da Martelli non sia stato concretamente attuato. Il ministero risponde senza rispondere, "rassicura della propria intenzione di proseguire nel piano di risanamento..." e prende tempo, rimandando per i chiarimenti a un "tavolo tecnico" che si è svolto il 15 febbraio. Da allora, tutto tace. Come denunciato da una seconda interrogazione del 17 febbraio, stavolta a firma Pedoto e Zaccaria. Le richieste di chiarimenti agli uffici ministeriali, invece, si perdono in un turbinio di rimpalli: dall'ufficio stampa ("ci mandi una mail") all'ufficio interrogazioni parlamentari (che non risponde), all'ufficio legislativo che rimanda di nuovo all'ufficio stampa. Intanto gli ospedali delle province laziali chiudono uno dopo l'altro per i continui tagli, unica politica messa in campo finora dalla nuova amministrazione di centrodestra. Come evidenziato da Riccardo Iacona nella puntata di Presa diretta del 27 febbraio scorso, i pazienti sono costretti a percorrere anche cento chilometri per raggiungere il più vicino ospedale. Allora perché non dare priorità assoluta ai progetti che, a costo zero, producono un'immediata e sensibile riduzione della spesa? Martelli, che sostiene la sanità pubblica con i fatti, ad esempio visitando centinaia di pazienti ogni mese nel suo studio gratuitamente (ci mostra la sua agenda piena di nomi, elenchi lunghissimi interrotti solo dalle ore di sala operatoria), prende l'incarico di Commissario il 27 luglio 2010, lasciando il reparto, perché finalmente, pensa, può intervenire per risanare il "suo" Forlanini, già salvato anni prima dalla chiusura voluta all'epoca dall'amministrazione Mar-razzo.
Il progetto viene presentato in Regione ai primi di settembre. Dopo 20 anni di esperienza, bastano poche settimane per scriverlo. Molti padiglioni del Forlanini giacciono inutilizzati: "La palazzina 17 volevo destinarla ai Carabinieri di Monteverde, che hanno ricevuto lo sfratto, e pagherebbero un affitto". Poi ci sono i padiglioni che potrebbero essere destinati ad accogliere "sei poliambulatori della Asl RMD, tutti dislocati nelle immediate vicinanze del Forlanini, facendo risparmiare due milioni di euro l'anno di affitto alla Regione". Ma non finisce qui: "Avevo preso contatti con l'Inail – prosegue Martelli – per aprire alcune officine di produzione di protesi". Il Forlanini spende circa 8 milioni l'anno per la gestione ordinaria (luce, riscaldamento, vigilanza, pulizie). Con questo nuovo assetto, la spesa si potrebbe dimezzare.
POI C'È IL CAPITOLO delle Residenze assistenziali sanitarie di base, che meritano un discorso a parte. Le Rsa, infatti, a fronte di un investimento iniziale di 20 milioni di euro, porterebbero all'Azienda un risparmio nel medio-lungo termine. Prevedono la creazione di posti letto per quei pazienti che, non necessitando più di tutto l'apparato medico che mette a disposizione l'ospedale, hanno bisogno solo di cure infermieristiche, costando in media 500 euro in meno al giorno rispetto un paziente normale. L'idea di Martelli è di creare 300 posti di Rsa nel Forlanini (nel Lazio ne mancano all'appello 6000). "Si risparmierebbero 150 mila euro al giorno, che moltiplicati per 300 giorni, producono un risparmio di 45 milioni di euro". Una volta sottratti i 20 milioni iniziali, ne rimangono altri 25 all'azienda. Per non parlare del fatto che, con l'emergenza che affligge i pronto soccorso degli ospedali della capitale, si andrebbero a liberare centinaia di posti letto per le degenze più urgenti. Insomma risparmio e miglioramento dell'assistenza, tenendo tutto dentro l'azienda. Ecco cosa voleva fare Martelli. Che non riesce a nascondere l'amarezza: "Mi hanno abbandonato, e non capisco il perché".
La mancanza di una risposta da parte della Regione, poi, si fa ancora più pesante se si considera che è proprio sulla sanità che la Polverini ha impostato, vincendola, la sua campagna elettorale. A un anno di distanza dal suo insediamento, di interventi di risanamento al San Camillo Forlanini, però, nemmeno l'ombra.

l’Unità 13.3.11
Sviluppo e ricchezza Scudo che limita i danni
Nel 1923 un sisma meno potente uccise 140mila persone a Kanto. Rispetto ad allora il Giappone è cresciuto e ha investito enormemente in sicurezza
The Independent


Il capolavoro di Hokusai, “La grande onda di Kanagawa”, è con ogni probabilità l’immagine più famosa donata dal Giappone al mondo. Ma l’altro ieri un tremendo tsunami ha trasformato l’immagine dell’onda da orgoglio nazionale in incubo nazionale. Il terremoto più devastante che abbia colpito il Giappone da quando si effettuano le misurazioni della magnitudo dei fenomeni sismici, ha fatto tremare l’arcipelago. La scossa sismica è stata terribile e ha prodotto come conseguenza un colossale tsunami. In queste circostanze l’uomo è istintivamente portato a cercare una spiegazione, qualcosa che possa dare ad un disastro naturale un significato comprensibile all’uomo. Ma è una ricerca vana. L’etica non ha nulla a che vedere con la tettonica a placche. Puramente e semplicemente, alcune zone del pianeta hanno maggiori probabilità di essere colpite da disastri naturali. Ma non tutte le nazioni delle aree a rischio del pianeta sono uguali. Il Giappone è uno dei Paesi più ricchi del mondo.
STORIE TERRIBILI
Nella provincia di Miyagi è stata inghiottita dalle acque una nave con a bordo operai dei cantieri navali e nella stessa provincia è “sparito” un treno pieno di passeggeri. Ma il numero delle vittime non si avvicina nemmeno lontanamente a quello di un ipotetico Paese povero colpito nella zona costiera da un terremoto di magnitudo 8,9. A seguito del terremoto di Haiti del 2010, i quartieri poveri di Port-au-Prince furono sbriciolati e sotto la macerie perirono 200mila persone. La provincia di Sichuan, in Cina, fu colpita nel 2008 da un terremoto che fece 70mila vittime. Una delle ragioni del gran numero di vittime fu il crollo di numerose scuole pubbliche costruite senza accorgimenti anti-sismici per la corruzione dei funzionari statali.
Lo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano fece circa 230.000 morti. L’epicentro del terremoto, di magnitudo 9,1, si trovava al largo della costa occidentale di Sumatra, ma non esisteva alcun sistema per avvertire le altre isole del sud-est asiatico dell’imminente pericolo. La storia dimostra che la ricchezza è importante quando si deve fronteggiare la furia della natura. Il grande sisma che colpì la regione di Kanto, in Giappone, nel 1923, aveva una magnitudo inferiore a quella del sisma dell’altro giorno, eppure provocò la morte di 140.000 persone. La differenza va individuata nel fatto che oggi il Giappone è più ricco e ha investito ingenti risorse in misure di sicurezza.
Nel 1995 un terremoto di magnitudo 6,8 colpì la città di Kobe e fece 6.500 vittime. Il bilancio dei danni fu stimato in qualcosa come il 2,5% del Pil dell’epoca. La risposta ufficiale non fu particolarmente efficace. Oggi le circostanze sono diverse. L’epicentro del terremoto di Kobe era in una zona urbana. Questa volta era in mare aperto. Non di meno la risposta ufficiale appare enormemente migliore. Quattro centrali nucleari si sono spente automaticamente non appena la terra ha cominciato a tremare. E i danni sono inferiori a quelli del 1995 dal momento che il governo ha incrementato gli investimenti per dotare il Paese di strutture ed edifici antisismici. La preparazione e la pianificazione hanno salvato migliaia di vite. Nella nostra disperata ricerca di una spiegazione, questa è probabilmente la sola lezione che possiamo trarre. Quando si tratta di disastri naturali, l’uomo può solo prepararsi ad affrontare al meglio un incubo quando diventa realtà.
*** Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 13.3.11
Fatta l’Italia trovato l’italiano
Era una lingua soprattutto scritta e posseduta da pochi ora è parlata da tutti e ha creato un’unità oltre i localismi
di Gian Luigi Beccaria


150 ANNI FA Solo il 2,5% era in grado di usarlo, o il 10% secondo le stime più ottimistiche
GLI IMPACCI DI CAVOUR Più a suo agio col francese Anche Manzoni dovette faticare per impadronirsene

Sullo scoglio di Quarto il più folto gruppo dei Mille parlava bergamasco. «Si odono tutti i dialetti dell’alta Italia, però i Genovesi e i Lombardi devono essere i più» è la prima impressione di Giuseppe Cesare Abba appena a bordo del «Lombardo»; e annoterà in seguito che i carabinieri genovesi a Calatafimi, marciando per la valle, «parlavano il loro dialetto che a momenti scatta di collera, ed era così caro e parlato così volentieri da Garibaldi, che l’addolciva, mentre sulle labbra di Nino Bixio guizzava come la saetta». Consueto era per loro il materno dialetto, non l’italiano. Poi s’è fatta l’Italia, c’erano ancora da fare gli italiani, e soprattutto la lingua unitaria, che da non molto è diventata la lingua di tutti, questo bene comune usato nel parlato e nello scritto da una nazione intera.
«Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’Unità d’Italia» ha scritto Raffaele La Capria. Perché una lingua non è grammatica soltanto, ma è riconoscimento, aria di famiglia, tradizione, una confortante sensazione di unità, senso di contatto con qualcosa che ci appartiene, che ci ha formato negli anni di scuola o di letture. Tant’è che chi ha la mia età si irrita se sente un’annunciatrice dire in tv che «i cipressi di Bolghéri si sono ammalati». Sembra di aver mandato in soffitta il nostro Carducci, che un tempo a scuola mandavamo a memoria. Così come ci se sente offesi quando, dopo gli enormi e faticosi passi compiuti per trovare un’unità di lingua, vediamo fioccare cumuli di provocazioni: dialetti che sentendosi poco valorizzati chiedono di diventare «lingua», richieste di insegnare i dialetti a scuola, una seduta del Parlamento Europeo in cui si fanno dichiarazioni di voto in dialetto napoletano, disegni di legge per la celebrazione dei matrimoni in lingua locale, richieste di celebrare la messa in dialetto, tg trasmessi in lombardo o in veneto, ipotizzata preferenza per il docente che parla il dialetto della regione in cui insegna... Abbiamo realizzato il sogno di Dante, di Foscolo, di Manzoni, e ora vorremmo tornare alle «piccole patrie», tornare indietro di secoli.
Dimentichiamo che al momento dell’Unità non sapeva né leggere né scrivere il 75-80% della popolazione adulta, la percentuale più alta d’Europa dopo quella della Russia. È un importantissimo punto di arrivo che la quasi totalità degli italiani ora parli italiano, dopo secoli che questa nostra lingua è stata soprattutto scritta e non parlata, lingua di cultura e non di natura. Nel 1951, poco prima che la televisione diventasse una delle scuole serali d’italiano,ben il 65% usava ancora il dialetto in ogni circostanza. E 150 anni fa soltanto un 2,5% o forse, secondo le stime più ottimistiche, un 10% sapeva parlare italiano. Ora finalmente possiamo dire che una lingua prevalentemente scritta per secoli, e posseduta dalle classi colte soltanto, è diventata una lingua parlata in tutta la penisola, capace di superare i particolarismi e formare un codice di abitudini e di regole condivise: una «lingua media» che ai tempi dell’Unità ancora non c’era, e alla cui formazione hanno contribuito tutte le regioni d’Italia.
L’Unità non ha cancellato la molteplicità linguistica, l’ha anzi rinsaldata in un vivido mosaico. Siamo diventati italiani senza rinnegare il passato, le tradizioni, le diversità. Decisivi, come si sa, gli apporti dei non toscani, dei «periferici» nei quali la padronanza dell’italiano non fu mai, in passato, del tutto disinvolta: anche tra coloro che nell’800 contribuirono a fare l’Italia. Cavour, eletto nelle elezioni suppletive del 26 giugno 1848 alla Camera, si scusò di dover parlare in italiano, dal momento che la lingua ufficiale dei parlamentari era il francese, e in seguito continuò a mostrare qualche impaccio, come se traducesse da un’altra lingua. Agli stessi scrittori non toscani l’italiano appariva talvolta quasi «straniero», da impararsi sui libri: come al piemontese Alfieri, che s’era fabbricato un vocabolarietto tascabile, un quadernetto di Appunti dove su tre colonne appuntava nella prima il noto, la voce francese, nella seconda colonna l’altrettanto nota corrispondenza piemontese, nella terza l’ignoto, la voce italiana, che non sapeva e che voleva ricordare. Sui libri aveva dovuto approfondire la competenza, a suo dire lacunosa, dell’italiano lo stesso Manzoni, che alla ricerca della lingua aveva per studio sconciato un suo esemplare del Vocabolario della Crusca al punto «da non lasciarlo vedere», diceva, tant’era crivellato di postille, aggiunte, sottolineature e appunti presi per impossessarsi dei vocaboli e delle locuzioni ignote. Sapeva di avere a che fare con una lingua della letteratura troppo elitaria, codice poco naturale e non «vivo e vero», adatto per scrivere il primo romanzo nazionale.
Ma era la lingua della conversazione che mancava. Manzoni lamentava l’uso dell’italiano approssimato che si parlava ai tempi suoi, privo del lessico più comune riferito alle occorrenze quotidiane e mescolato di inconsci dialettismi. Quando due italiani di diversa regione si incontravano, per conversare mancava loro la nomenclatura concreta.
Comunque sia andata, noi ci riconosciamo però, da secoli, in questa grande ricca duttile nostra lingua italiana, il cui effetto aggregante ha contribuito, più di altri fattori, al riconoscimento di un’unità nazionale. Da noi per prima è venuta la lingua. Non c’era ancora la nazione, ma da secoli esisteva un’unità linguistico-letteraria nazionale. La coscienza e la volontà di un’unione si è basata soprattutto su un valore culturale (la lingua della letteratura, la sua validità e la sua tenuta) che ha prefigurato sin dalle Origini un’unità immaginata e inseguita come un desiderio. La data d’inizio di quest’unità ideale è segnata da Dante quando nel De vulgari eloquentia prefigura un’Italia quasi compiuta come spazio geografico su cui la lingua del sì si sarebbe diffusa, una lingua letteraria fondata su un gruppo non solo di toscani,ma con alla base anche il gruppo meridionale dei siciliani già fioriti al tempo di Federico II, e un bolognese, Guinizelli. La parola letteraria già si distendeva su un’unità geografica e culturale prima che essa esistesse realmente. Soltanto dopo molti secoli si realizzerà compiutamente l’antico sogno di un Paese da costruire, inventato dalla genialità dei poeti e dei pensatori.

Repubblica 13.3.11
Archetipi. L’intervista
James Hillman "L'America sul lettino"
di Pythia Peay


A gennaio, a Tucson. Durante un meeting dei Democratici un ragazzo uccide sei persone. Parte dalle riflessioni su quella strage l´analisi di un intero Paese. A mettere sul lettino gli Stati Uniti e l´Occidente è un grande studioso junghiano. Che qui parla di politica, scuola, economia, amore. Cogliendo lo spirito del nostro tempo, annunciandone la fine e intravedendo in essa anche l´occasione per un nuovo inizio
Tutto ciò di cui ognuno di noi ha paura, in realtà è già successo Non siamo più un impero non siamo più eccezionali
Dobbiamo prendere parte ai processi emergenti. Per farlo dobbiamo poterli riconoscere. E per riconoscerli capire quanto ci sta accadendo

James Hillman, psicologo, studioso, critico culturale e autore di oltre venti libri, tra cui Il codice dell´anima, è uno dei più brillanti pensatori del nostro tempo sulla psiche umana e la psiche collettiva. Sta per compiere ottantacinque anni ed è in convalescenza dopo due anni di malattia. «È una nuova vita», mi dice. «Tanta riflessione al posto dell´ambizione». La psiche americana ha sempre nutrito le riflessioni di Hillman; quella che segue è una versione ridotta di una conversazione sulla sua interpretazione psicologica dell´attuale Zeitgeist.
La strage di Tucson (l´8 gennaio 2011 un ragazzo aprì il fuoco durante un incontro tra gli elettori e la deputata democratica Gabrielle Giffords: sei i morti, tra cui una bambina, la Giffords colpita alla testa, ndr) ha scatenato un dibattito sulla polarizzazione in corso tra destra e sinistra. Che cosa ne pensa da un punto di vista psicologico?
«Dobbiamo capire che la nostra mente è il nostro nemico. L´attuale dibattito è diventato molto ideologico e vi sono alcune idee fisse che dominano la discussione. Questo è il risultato del pensare per opposti; risale ad Aristotele, e ha a che fare con una logica del tipo o/o: se una cosa è così, non può essere nell´altro modo. Ma in realtà il mondo non è così. Per esempio, la maggior parte della gente crede che l´opposto del bianco sia il nero, ma ci sono sfumature di nero (dal colore dei mirtilli, a quello del carbone, o a quello dei merli) che non hanno niente a che fare con il bianco. Il problema è imparare a valutare ogni questione nel merito, senza dover ricorrere al punto di vista dell´opposto. In terapia, quando sogni tua madre, ad esempio, non devi necessariamente parlare di tuo padre in quanto presunto opposto».
A proposito di gestire punti di vista politici polarizzati, che cosa pensa di Obama? Molti a sinistra lo vedono debole quando si mostra conciliante con la destra repubblicana.
«Il temperamento di Obama è una grandissima virtù. Finalmente abbiamo una persona capace di un atteggiamento ponderato, che cerca di ragionare sulle cose, che sopporta la pressione e può perfino ammettere di aver fatto uno sbaglio. Il suo discorso alla cerimonia in memoria delle vittime della strage di Tucson è stato un capolavoro. È andato dritto nel mezzo di tutti quei conflitti e ha detto delle cose che avevano un contenuto reale, non sentimentale. Non ha usato un linguaggio rigidamente ideologico o altamente intellettuale. Facendo riferimento alla bambina uccisa (Christina Taylor, ndr), nell´incoraggiarci a vivere all´altezza di ciò che lei si aspettava dalla nostra democrazia, è riuscito a rivitalizzare il sogno americano e l´impegno nella vita politica attraverso il sogno di quella bambina di diventare una persona politicamente impegnata. E, personalmente, penso che l´accordo che Obama ha fatto con i repubblicani sulla legge finanziaria sia stato intelligente».
Molti, a sinistra, hanno biasimato Obama per aver ceduto proprio su questo. Si tratta di un esempio di rigidità ideologica?
«Sì, è una fissazione ideologica per la sinistra: non dobbiamo lasciare che i ricchi diventino più ricchi. Sono pienamente dalla parte della sinistra ideologica, ma su questo tema penso che la sinistra sbagli. Lasciamo che i ricchi si prendano i loro milioni… tanto lo faranno comunque! La situazione rimarrà così finché i ricchi non cominceranno a convertirsi da soli, come Warren Buffet e Bill Gates, che ora stanno cercando di cambiare la mentalità dei capitalisti. E se i ricchi hanno più soldi per via dell´accordo sulle tasse, facciamo appello alla loro capacità di cittadinanza e speriamo che trovino il modo di aiutare il Paese, le cui condizioni riguardano anche loro. Ci sono molte cose che non sappiamo su quello che avviene nella psiche dei super ricchi».
Vuol dire che i ricchi stessi potrebbero celare delle nuove prospettive sulla loro ricchezza?
«Esatto. Non riesco a immaginare che i ricchi o i conservatori siano completamente estranei ai cambiamenti che avvengono nella psiche collettiva. Ma la sinistra ideologica ci inchioda a una visione fissa dell´"altro" e questo li costringe a dover essere peggio di quello che potrebbero essere».
Intende dire che l´immagine fissa che i liberali hanno della destra potrebbe in realtà contribuire a creare "il nemico"? Ma la destra non è colpevole quanto la sinistra?
«Non dico che non ci siano degli attivisti fanatici nella destra. Ma io sono di sinistra e per questo cerco di portare più psicologia nella mia parte. Dico che la sinistra ideologica rischia nel mantenere un´immagine stereotipata del nemico. Nel fissare l´avversario, lo rinchiude in una scatola e non gli lascia la possibilità di una trasformazione come quella esemplificata da John Dean, l´avvocato di Nixon, che poi testimoniò contro di lui durante le udienze del Watergate. Ma se un partito politico è visto solo in questo modo o in quell´altro, impediamo tutto ciò che potrebbe avvenire nella sua psiche, e non offriamo nessun contributo a questo processo. Ad esempio, se io sono sposato e vedo mia moglie solo in quanto cattiva e irascibile, e la vedo sempre in questo modo, si fisserà in quella definizione del suo personaggio e basta».
Quale altro effetto può avere sulla nostra cultura il pensare per opposti?
«Porta all´estremo moralismo della nostra società, che dichiara che una parte è buona e l´altra è cattiva e così l´"altro" diventa il male. Tutto questo conduce alla conquista, alla guerra, alla vittoria, a queste idee occidentali distruttive».
In effetti, uno degli argomenti su cui si discute ancora oggi dopo la strage di Tucson è se il violento clima di retorica politica non abbia contribuito a provocare quello che è successo.
«Su questo, vedo le cose in una prospettiva leggermente diversa. Penso che il sistema educativo americano, nel quale non c´è spazio per chi è strano o diverso, abbia reso quel ragazzo (Jared Loughner, 22 anni, arrestato dopo la strage, ndr) un asociale. Quando Loughner ha cominciato a diventare uno schizoide in classe, è stato buttato fuori; si è perso nella massa degli abitanti di Tucson, non ha più avuto un appiglio».
Dunque lei attribuisce questa tragedia al nostro sistema educativo?
«Abbiamo bisogno di un sistema educativo capace di accogliere menti di ogni genere, e in cui uno studente non sia costretto ad adattarsi a un certo modello culturale. Il nostro sistema educativo si è talmente ristretto a una certa formula che se attraversi un momento di difficoltà vieni espulso, spesso all´età della schizofrenia, tra i 19 e i 23 anni, e questo è un pericolo. Oltre a questo problema, c´è poi la disponibilità di armi e la pressione di una società che non sopporta il diverso».
Perché non si arrivasse a questa strage, che cosa si sarebbe dovuto fare?
«Loughner non avrebbe dovuto essere cacciato di scuola; il suo insegnante avrebbe dovuto passare più tempo con lui cercando di aiutarlo. Ci vorrebbe anche un tipo di aiuto da non confondere con l´"aiuto psicologico" e che non ti etichetti come un malato. Il problema del sistema educativo è che è privo di amore».
Lei parla di restituire l´umanità a una persona, di non spersonalizzarla, perché questo ne accrescerebbe la marginalizzazione.
«Esatto. Ma invece di parlare di questo, si esamina il modo in cui si sono svolti i fatti e si discute di ridurre i caricatori da trentuno a dieci pallottole. Il ragazzo resta fuori da questa discussione».
Siamo un grande Paese che mette tanta enfasi sull´individuo e poi abbandoniamo l´individuo?
«Assolutamente. La persona diventa strana, isolata, tagliata fuori da tutto».
Lei ha detto che c´è, nell´America di oggi, un certo «aspetto tragico». Può spiegarci meglio?
«Tutto ciò di cui ognuno di noi ha paura è già successo: la fragilità del capitalismo, che non vogliamo ammettere, la perdita della vocazione imperiale degli Stati Uniti; e l´eccezionalismo americano. In realtà l´eccezionalismo americano è che siamo eccezionalmente arretrati in almeno quindici campi diversi, dall´istruzione alle infrastrutture. Ma siamo in una fase di rifiuto: vogliamo restaurare le cose come erano una volta, rimettere il Paese dov´era un tempo».
Molti non vogliono mettere in discussione l´eccezionalismo americano perché se l´America non è eccezionale, che cos´è, e che cosa sono io?
«La gente ha una capacità di illudersi enorme. Quando si vive di illusioni o delusioni, ristabilire queste illusioni o delusioni richiede un grande sforzo per evitare di analizzarle. Ma c´è un´antica idea al lavoro dietro alla nostra condizione attuale: quella di enantiodromia, il concetto greco secondo il quale le cose diventano il loro opposto. Si dice, per esempio, che stiamo vivendo un cambiamento epocale. E in questo cambio d´epoca, le vecchie cose che sembravano delle virtù diventano improvvisamente dei vizi. Nei duemila anni che ci precedono c´è stata la grande espansione dell´Occidente e l´epoca delle grandi religioni monoteistiche, l´Ebraismo, il Cristianesimo e l´Islam. Eppure queste tre profezie salvifiche, con le loro immense conseguenze estetiche e il loro enorme effetto di civilizzazione, si sono trasformate in mostri richiudendosi in se stesse, nella loro aderenza ai principi morali e all´ortodossia. Non hanno discernimento; tutte e tre pretendono di essere "la religione"».
Quale potrebbe essere un altro esempio di qualcosa che diventa il suo opposto?
«Ricorderei le grandi fedi nel secolarismo e nell´umanesimo nate nel XVII secolo o anche prima. Come vediamo oggi negli scritti di Christopher Hitchens e di Richard Dawkins, la "quarta religione" sta scacciando la religione. Questo ci lascia una sorta di arido scientismo o quello che le persone religiose descrivono come un umanesimo privo di Dio. Sono queste le grandi correnti che ci sono oggi. La gente vuole ancora andare oltre, ma le cose non si sono ancora pienamente disintegrate».
Lei dice che questi potenti miti che hanno definito l´America hanno raggiunto il loro apice e ora sono in declino, ma non completamente.
«Prenda per esempio il mito economico, il più grande mito che viviamo in questo Paese. Ora, tutti gli economisti dichiarano che il problema del mondo oggi è il crollo della domanda, e che dobbiamo stimolare la domanda, o tramite il governo o tramite i prestiti bancari. Ma se si dovesse guardare il problema della caduta della domanda da un punto di vista ecologico, che cosa c´è di meglio? Non dimostra tutto questo una straordinaria frattura tra il pensiero economico che domina il nostro mondo capitalista, compresa la Cina, e il punto di vista della Terra? Ma il modo di pensare ecologista crea un enorme problema di panico per le economie capitaliste».
Perché queste società sentono che sta morendo un vecchio modo di vivere?
«Esatto. Ci sono oggi moltissime persone intelligenti che stanno lavorando su come vivere in una società economica a crescita zero. E Obama è stato fondamentale nel cercare di portare un nuovo pensiero strutturale a queste domande. Ma finché governeranno gli economisti e i banchieri, il vecchio stile morirà molto lentamente».
La morte del vecchio implica sempre, però, che sia in arrivo qualcosa di nuovo.
(con tono esasperato) «Questa ricerca del nuovo è un vizio americano! Vogliamo sempre vedere che cosa viene dopo, siamo dipendenti dal futuro! Il futurismo è un altro mito americano: che si tratti di Kennedy, di Johnson, di Reagan o di Obama, tutti i presidenti americani si insediano con un nuovo programma e con la convinzione che il Paese sarà meglio che mai. Ma io credo che bisogna affrettare il processo di decadenza. La visione classica è sempre quella di guardare indietro, di tenere sotto controllo e di aiutare il morente».
Mentre la ascolto, penso a quanto la mia famiglia ed io abbiamo aiutato mio padre a morire, è stata un´esperienza molto profonda. Mi chiedo che cosa possa significare un´esperienza simile in senso culturale.
«Bisognerebbe pensare a ciò che deve morire di questa cultura; a quali componenti devono svanire, come la supremazia bianca, la supremazia dei maschi e l´idea che noi siamo "i buoni". L´America ha una certa arroganza rispetto alla propria virtù. Un´altra cosa potrebbe essere la nostra comprensione "non analizzata" della parola libertà. Probabilmente una delle cose impressionanti, nella morte di suo padre, era il suo bisogno di aiuto, il suo dipendere da case di cura, infermieri, stampelle… eppure, da questa mancanza di libertà è nato un altro tipo di libertà».
Mio padre era testardamente americano in questo senso. Non voleva nemmeno andare in un ospedale perché poi non sarebbe più stato "libero" di fumare o di bere.
«Non abbiamo riflettuto abbastanza sull´idea di libertà. Bisogna trasformarla in una libertà interiore dalla "domanda" stessa: è quel tipo di libertà che si ottiene quando sei libero dall´ossessione di avere, di possedere e di essere qualcuno. Per esempio, pensi al tipo di libertà che Nelson Mandela deve aver sperimentato quando fu messo in prigione. Perse completamente la sua libertà nel mondo esterno, ma trovò la libertà in se stesso. Questo è un esempio che amplia l´idea limitata che oggi abbiamo della libertà: che posso fare quello che mi pare in casa mia; che qui decido io e non voglio nessuna interferenza da parte del governo; che non voglio che nessuno mi venga a dire cosa posso o non posso fare; che ci sono troppi regolamenti, e via dicendo. Questa è la libertà di un adolescente. Un altro aspetto strano di questo cambiamento epocale è la paura della gente di ammalarsi di cancro; è un fatto assolutamente endemico che attraversa tutta la popolazione. La legge sull´assistenza sanitaria ha acuito questo problema: la gente ha cominciato a chiedersi che cosa gli succederebbe se gli venisse un tumore».
Dunque, le persone sentono questo cambiamento, percepiscono che le cose non saranno più le stesse, e questa paura peggiora l´intero processo?
«Decisamente. Questo lo vediamo riflesso nella paura che si ha degli immigrati e della violazione dei nostri confini; abbiamo paura che si esauriscano tutte le cose da cui dipendiamo; di perdere il potere e le nostre basi militari in tutto il mondo; della caduta di livello del nostro sistema educativo e che l´America non sia più la migliore e la più forte. Ma il problema è che… è già collassata, è tutto finito. Ed è questo che è interessante! Perché una volta capito che cosa sta accadendo veramente, possiamo vedere cosa altro potrà emergere quando le strutture logore finalmente crolleranno. Stanno avvenendo tante cose sotto queste vecchie forme. Non sappiamo ancora che cosa sia esattamente; è tutto molto disorganizzato, non coalizzato, cose diverse, disperse. Ma è molto importante che la gente prenda parte ad alcuni di questi progetti emergenti».
Per molti, però, l´atmosfera psichica è carica di incertezza. Come vivere in questo passaggio tra un´era e l´altra?
«È importante evitare di pretendere che ciò che verrà sia conforme ai modelli del passato, vale a dire unito, organizzato ed esauriente. Ciò che comincia a emergere è molto diverso da ciò che c´era prima: non possiamo eliminare completamente cose come la gerarchia, ma ciò che sta sorgendo potrebbe non avere un sopra e un sotto, e nemmeno un nome. Quando è nato, il movimento femminista rifiutò di avere una leader; semplicemente donne diverse si alzavano e parlavano. Le prime femministe furono molto attente a non mettere ciò che stava sorgendo spontaneamente nella vecchia bottiglia. Penso quindi che sia una questione di lasciar scorrere le cose, di aver fiducia che il cosmo emergente uscirà per conto suo e che si darà una forma mentre sorge. Questo significa vivere in uno spazio aperto, questa è la libertà».
Traduzione Luis E. Moriones © 2011 James Hillman & / Published by Arrangement with Agenzia Santachiara

Repubblica 13.3.11
Picasso Mirò Dalì
La linea spagnola dell’arte moderna
di Lea Mattarella


A Firenze, a Palazzo Strozzi tre grandi protagonisti del secolo scorso
L´esposizione mette a confronto sessanta opere della produzione giovanile
Il Cahier numero 7 sulle "Demoiselles d´Avignon"
Le prostitute di Barcellona madri del cubismo
Per la prima volta in Italia le 120 pagine di disegni preparatori del capolavoro picassiano: doveva chiamarsi "Il bordello" ritrae ragazze di vita catalane

Non ci sono dubbi che la capitale dell´arte, il luogo in cui si abbandonano gli stereotipi dell´Ottocento e si imbocca la strada della modernità sia Parigi. Ma, come emerge dalla mostra che si apre a Palazzo Strozzi, a Firenze, esiste una linea spagnola fondamentale per ricostruire la grande rivoluzione pittorica del XX secolo. La trinidad composta da Picasso, Miró e Dalí è la prova del ruolo imprescindibile avuto della Spagna nella formazione del nuovo linguaggio figurativo. Parigi è il centro catalizzatore di un pullulare di idee, sguardi incrociati, incontri al centro del quale c´è il grande genio del Novecento, Pablo Picasso che, sebbene i francesi si ostinino a chiamare Picassò, come fosse di loro proprietà, è nato a Malaga nel 1881. Ora è proprio lui, nel 1907, a dare una bella sterzata alla pittura dell´Occidente mettendo in cantiere le Demoiselles d´Avignon. E l´elaborazione di questo dipinto-manifesto esce oggi dalla Spagna per raggiungere Firenze. È esposto infatti integralmente per la prima volta il Cahier 7 che arriva dal Museo della casa natale di Picasso a Malaga. È qui, su questo quaderno - 120 pagine a righe un po´ ingiallite- che Picasso ha tracciato prima a matita e poi a inchiostro i volti e i gesti di quelle fanciulle, un po´ maschere primitive e un po´ rielaborazioni di figure classiche e di sculture iberiche, diventate icone della pittura del Novecento.
E chi le immagina francesi queste ragazze di Avignone si sbaglia di grosso. È a Parigi, dove viveva dal 1904, che Picasso le dipinge. Ma il Carrer de Avinyo era la strada delle prostitute di Barcellona, dove l´artista aveva vissuto prima del suo trasferimento in Francia. E infatti il quadro inizialmente doveva chiamarsi Il bordello, anche se poi André Salmon consapevole dell´importanza che questo dipinto avrebbe assunto nella storia del pensiero dell´immagine occidentale lo aveva soprannominato "il bordello filosofico".
Il quaderno rivela il modo di lavorare di Picasso, quel suo prendere, afferrare immagini, suggestioni da qualsiasi parte gli arrivassero. Guardava l´arte dei musei, ma anche quella popolare "A me la pittura piace tutta –affermava – guardo sempre i quadri buoni o cattivi che siano, dal barbiere, nei negozi di mobili, negli alberghi di provincia. Sono come un bevitore che ha bisogno di vino. Purché sia vino non importa che vino". Nel Cahier 7 si ha la prima apparizione di quell´arte extraeuropea che lo avrebbe sedotto per molto tempo, un´idea primordiale, primitiva che lo porta a inquadrare volti come maschere. Nello stesso tempo è ossessionato da uno stesso gesto, quello classico della figura distesa che tiene un braccio dietro la spalla e che, come rivela Eugenio Carmona in questa mostra, trova origine in una scultura di Antonio Canova, Il sogno di Endimione.
Quando arriva a Parigi, l´artista andaluso si innamora del mondo notturno di Toulouse Lautrec. In mostra c´è un´opera, bellissima, in cui si vede il suo modo di appropriarsene. Inquadra il mondo di Tolouse, quello del teatro, del cabaret, ma - sarà un caso? - la danzatrice che Picasso inquadra è spagnola.
La cosa certa, nel definire i rapporti tra questi tre geni spagnoli, è che sia Miró che Dalí, i due catalani, non appena mettono piede nella Ville lumière la prima cosa che fanno è recarsi da Picasso. Il primo lo raggiunge nel 1920, l´altro narra un incontro avvenuto nel 1926 che forse ha trasfigurato con la fantasia. Dice di averlo incontrato e di avergli portato un suo quadro, La ragazza di Figueiras, ancora una spagnola dunque. "Picasso lo studiò per un quarto d´ora, – racconta Dalí nella sua autobiografia – senza commenti. Poi mi condusse al piano superiore e per due ore mi mostrò una gran quantità di quadri, posandoli uno dopo l´altro su un cavalletto, dandosi enormemente da fare… ma anch´io non feci commenti. Sul pianerottolo, al momento del congedo, ci scambiammo semplicemente un´occhiata che significava: Hai capito? Ho capito!". Probabilmente non andò esattamente così, il metodo paranoico-critico che il catalano applicava alla sua pittura, lo faceva fantasticare anche sui fatti della vita in cui realtà e surrealtà finivano per confondersi. Ma è bello immaginare i due spagnoli a Parigi che si riconoscono come coloro che stanno cambiando le sorti della pittura europea.

Repubblica 13.3.11
I geni spagnoli che rifondarono la pittura del ‘900
di Masolino D’Amico


Dalì racconta di essere andato a trovare Picasso appena arrivato a Parigi: nessuno sa come sia andata davvero quella visita, ma certo il futuro pittore surrealista dipingerà l’”Accademia neocubista"
L´emozione che traspare nelle citazioni picassiane della "Accademia neocubista"
Per il catalano Joan, il meno arrabbiato del trio, il surrealismo fu solo un transito

Firenze. "Pictor en misere humane", aveva iscritto poco prima, in un latino approssimativo, un suo autoritratto, Picasso. E dunque quando, agli inizi dell´autunno del 1901, «aveva potuto visitare la prigione femminile di Saint-Lazare, dove le recluse separate dalle altre perché affette da malattie veneree portavano un berretto frigio», non v´era andato probabilmente, come poi volle un esegeta di quel tempo picassiano, a cercare in quelle «prostitute, in specie le più miserabili, vittime della situazione politica ed economica» un segno dell´ingiustizia e della violenza sociale del mondo in cui viveva, ma una luce capace di trasfigurare quella miseria in poesia, in canto opaco e malinconico.
Veniva da Barcellona, dal crudo verismo, addolcito appena dal retaggio tardo impressionista e già quasi sfiorato dall´art nouveau, de "Els 4 Gats", cenacolo dell´avanguardia catalana di cui aveva condiviso la vita grama e avventurosa, e da alcuni mesi trascorsi a Madrid; ed era a Parigi per la seconda volta. Nasceva allora, e sarebbe durato per quasi tre anni, il "periodo blu" della sua pittura. Picasso, fin quasi al termine di quel periodo, andò e tornò senza requie (e senza un soldo), fece ansiosamente la spola fra quelle che sarebbero rimaste le sue due città; prima di stabilirsi nella capitale di Francia e (per le arti) d´Europa nel 1904, quando, giusto al termine del suo periodo blu, si ferma in un quartiere e in una baracca destinati a divenir celebri come luogo in cui l´arte moderna è sbocciata: il "Bateau-Lavoir" di Montmartre.
Idealmente la mostra odierna di Palazzo Strozzi si apre con un dipinto aurorale di quel tempo: la Stiratrice dedicata a Sabartés (amico e poi assistente di Picasso), ora al Metropolitan di New York, del 1901: una di quelle immagini rubate al dolore del carcere di Saint-Lazare, dove le modelle costavano nulla; e dove Picasso figurò la solitudine, la fatica di esistere di una donna ottusamente china sul suo lavoro; fatica e solitudine già splendidamente riassunte nel giro lento di quelle spalle piegate e vinte alla sommità della piccola tela. Qualcosa, di quel suo tempo, risucchia ancora all´indietro: verso il simbolismo che aveva segnato, e talora magnificamente soprattutto nel nord Europa, gli anni ultimi del secolo XIX; ma è pur vero che di qui, proprio all´avvio del secolo nuovo, parte il Picasso interamente originale, che si libererà presto d´ogni ricordo, o meglio che saprà rivolgere i suoi infiniti ricordi in volontà onnivora, che tutto macina e reinventa, tutta e soltanto sua.
Idealmente, si diceva, perché in realtà la mostra di Firenze (Picasso, Miró, Dalí. Giovani arrabbiati: la nascita della modernità, a cura di Eugenio Carmona e da Christoph Vitali) è costruita "à rébours", e quindi questo primo tempo picassiano qui indagato occupa le sue ultime sale, mentre le prime documentano l´episodio (reale o soltanto vagheggiato; meglio: reale o surreale?) della visita che Dalí avrebbe fatto allo studio di Picasso nella primavera del 1926: uno giovanissimo (nato nel 1904, è poco più che ventenne), l´altro già da lungo tempo dominatore della scena parigina.
Dalí, che è in procinto d´essere definitivamente espulso dall´accademia San Fernando di Madrid avendo rifiutato di sottoporsi a un esame per "l´incompetenza" dei propri maestri, sta perfezionando il profilo che s´è ripromesso di dare alla sua personalità d´artista eccentrico e paradossale, e sta per stringersi al gruppo surrealista di Breton. Non è mai stato, un timido: ma avvolge il racconto dell´incontro con Picasso di emozione.
Emozione che lascia scopertamente trasparire nelle tante citazioni picassiane della Accademia neocubista, la maggiore per dimensioni delle opere della sua gioventù, oggi esposta a Firenze come lo fu nella seconda personale che il pittore tenne, con successo, al rientro in Spagna, alla galleria Dalmau di Barcellona. Una "lezione", forse, quel gran quadro, impartita fin dal titolo ironico a quegli "accademici" che l´avevano espulso; certo, un omaggio al grande spagnolo appena "visitato" a Parigi, di cui la donna a sinistra ripete le forme del "ritorno" classico degli anni Venti, mentre nella donna a destra sta tutta la lascivia del Dalí che verrà d´ora in avanti. Era stato diverso, più saggio, il Dalí degli anni primissimi, che la mostra documenta: con opere rare, come il Paesaggio di Cadaqués del ‘23 o la mirabile mina di piombo dello studio per il Ritratto di Marìa Carbona (1925).
Vicino, allora, Dalí, al talento di un miniaturista: come lo era stato Joan Miró negli anni della formazione. Intento a contare tutte le pietre e le tegole della casa paterna a Montroig o, uno per uno, i fili d´erba del prato che la circondava, i suoi orti, e gli animali, e i contadini di lì. Certamente, Miró, il meno "arrabbiato" dei tre, per tornare al titolo della mostra odierna; per lui infatti il surrealismo (la cui prima stagione egli pur fiancheggiò: legandosi a Masson, Artaud, Leiris, Aragon, Breton; partecipando alle mostre del gruppo, a partire da quella del 1925; e pubblicando le proprie opere su La révolution surréaliste e su Minotaure), con i suoi eccessi anche temperamentali, fu un transito, non un approdo.
Un transito grazie al quale la sua pittura dalle radici antiche e mai dimenticate (che scendono al tempo romanico della sua terra, la Catalogna, e al punto di confine fra tardogotico e Rinascimento italiano - dal Beato Angelico al Sassetta - o ancora alla fissità iconica di Bisanzio, ad un Oriente ancora più remoto, al Medioevo germanico e a Bosch) si rese disponibile alla modernità, ed anzi chiave essenziale per tante sue strade a venire: aprendo al surrealismo stesso la porta di Kandinsky e dell´astratto; e consegnando infine ad Arshile Gorky, e attraverso di lui alla nuova arte americana, i tesori meno effimeri del surrealismo.

sabato 12 marzo 2011

l’Unità 12.3.11
Intervista a Gustavo Zagrebelsky
Per la Costituzione
«In piazza per la democrazia, hanno rovesciato le regole»
In piazza anche la scuola: «Giù le mani dall’istruzione»
Il presidente emerito della Consulta: «La Carta esclude il potere per acclamazione. Conflitto di attribuzioni? La Camera non ha titolo per sollevarlo»
di Federica Fantozzi


Professor Zagrebelsky lei oggi sarà in piazza?
«Sì, a Torino. Ci sono momenti di aggregazione sociale in difesa delle buone regole della vita democratica. Credo che oggi sia uno di questi». Perché manifestare?
«Siamo di fronte a un rovesciamento della base democratica. La democrazia deve tornare a camminare sulle sue gambe: sostenuta dal basso. Non un potere populista che procede dall’alto». Perché la Costituzione vigente va difesa?
«Basta leggerla. È il testo che dà ai cittadini il diritto di contare in politica ed esclude il potere per acclamazione».
Abbiamo un premier sotto processo per sfruttamento della prostituzione minorile. Avrebbe fondamento un eventuale conflitto di attribuzione sollevato dal Parlamento? Berlusconi andrebbe giudicato dal tribunale di Milano o da quello dei ministri?
«Mi sono imposto di non dire nulla su questioni che possono essere portate al giudizio della Corte Costituzionale. Mi limito a poche osservazioni. Primo: l’oggetto dell’eventuale conflitto riguarderebbe primariamente il rapporto tra tribunale di Milano e tribunale dei Ministri e, solo secondariamente, il potere della Camera di autorizzare il processo davanti a quest’ultimo, una volta che questo fosse ritenuto competente dalla Corte di Cassazione».
Significa che al momento sarebbe un atto infondato? «Allo stato, prima di una decisione sulla competenza di uno dei due tribunali, non mi pare che ci sia materia per il conflitto che la Camera volesse sollevare. Ma c’è un altro punto».
Quale?
«A salvaguardia della dignità delle istituzioni, c’è un fatto che non mi pare sottolineato a dovere: Berlusconi avrebbe agito sulla questura per evitare un incidente diplomatico con l’Egitto? Più importante di questa giustificazione, che di per sé lascia esterrefatti, è la premessa implicita, data per pacifica: il premier e i suoi giuristi ritengono che se la (presunta) parente di un uomo di governo è sospettata di reato, questo sia affare di Stato e si possa invocare la parentela per sottrarla all’applicazione della legge comune».
È ciò che non solo sostiene il premier, ma Montecitorio ha già avallato una volta rinviando gli atti alla Procura di Milano.
«La confusione tra pubblico è privato è ufficialmente attestata e la Camera, se seguisse, metterebbe il suo incredibile suggello. Vorrei non poter credere che una maggioranza in Parlamento sia capace di tanto. L’unico obiettivo è guadagnare tempo. Per questo si è disposti a sostenere l’insostenibile. La verità delle cose, e del diritto, diventa trascurabile».
Berlusconi ha una maggioranza numerica, intermittente, solo quando è chiamata per i voti cruciali. Esiste ancora una maggioranza politica? «Cosa ci sia di “politico” nella situazione che si è creata, è difficile dirlo. Cosa tiene insieme la maggioranza? Un programma, una visione del Paese e del suo avvenire? O il potere, che ciascuno “declina” a modo suo: chi per crearsi le condizioni della propria impunità, chi per avere un pezzetto di potere ministeriale, chi per gestire interessi spesso non limpidi da posizioni d’impunità, chi per realizzare un punto che sta a cuore solo a lui (il cosiddetto federalismo)? Questo è politica? O un’accozzaglia di interessi eterogenei? È una situazione costituzionalmente e politicamente assai critica». Secondo lei la legislatura può arrivare a scadenza naturale?
«Troppi interessi convergono nel tirare avanti il più possibile. Berlusconi sa che, finché è in carica, i poteri propri e impropri di cui dispone rendono molto improbabile la celebrazione dei processi. La Lega, l’unica con un obiettivo politico chiaro, ha interesse ad andare avanti. Poi, c’è sempre la speranza che il tempo, la propaganda, l’imbonimento possano frenare l’emorragia di consensi che li penalizza. L’opposizione può chiedere ciò che vuole ma, se non si sfalda quella convergenza d’interessi che cementa la maggioranza, è del tutto irrilevante». La finestra per votare sta per chiudersi. Auspicherebbe, nel caso, un esecutivo di emergenza?
«Una formula politica diversa, con altra maggioranza e guidata da qualcuno al di sopra delle parti, in vista di poche riforme essenziali a rimettere le istituzioni nella carreggiata della democrazia (legge elettorale, conflitto d’interessi, tv), per riprendere poi la normale dialettica tra i poli, era difficile ma non impossibile prima del 14 dicembre».
Poi?
«Da allora, la maggioranza non ha fatto che rafforzarsi, nei modi che sappiamo. Dunque, di esecutivi di emergenza non mi sembra il caso di parlare. Oggi, chi crede che viviamo in condizioni critiche dal punto di vista democratico, deve pensare non all’esecutivo, ma alle responsabilità che gravano su tutti noi, come cittadini». Lei era sul palco del Palasharp, ha firmato l'appello sul biotestamento, le sue ultime esternazioni hanno contenuto politico. E' passione civile o non esclude di fare politica attiva se le venisse richiesto?
«A ognuno il suo mestiere. Quello che credo di dover fare è ciò che spetta a ciascun cittadino nell’ambito delle sue relazioni e professione. Non sono un politico. Politici non ci si improvvisa».

l’Unità 12.3.11
La battaglia per la Costituzione
Difendere la Carta per difendere noi stessi
di Nicola Tranfaglia


Oggi gli italiani diranno, con il linguaggio pacifico di una grande manifestazione, a Roma e in altre 80 città della penisola e milioni di tricolori alle finestre, che la difesa della Costituzione e quella della scuola pubblica sono battaglie congiunte e indivisibili. Speriamo che le tv e i giornali di proprietà del capo del governo o da lui controllati se ne accorgano. L’articolo 64 della legge 133 del 2008 intende tagliare 87.400 posti di insegnante e non è lontano dal raggiungere l’obbiettivo previsto dal provvedimento triennale. Una distruzione sistematica della nostra scuola, fattore fondamentale di integrazione degli italiani. Un musicista come Nicola Piovani ha ricordato che la scuola della costituzione ha il compito di difendere «la laicità dello Stato, l’antifascismo, la legalità, la Resistenza, tutte le religioni» e basta pensare alla famosa canzone di Francesco De Gregori per ricordare che «la storia siamo noi» e che una Nazione senza memoria e consapevolezza storica costruirà la sua casa sulla sabbia. «L’educazione ha detto a sua volta il sociologo francese Edgar Morin deve contribuire all’autoformazione della persona e insegnare a diventare cittadino.Un cittadino in una democrazia si definisce attraverso la solidarietà e la responsabilità in rapporto alla sua patria. Il che suppone il radicamento in lui della sua identità nazionale». La carta costituzionale dice con estrema chiarezza quale è il rapporto che deve esserci tra scuole pubbliche e scuole private, all’articolo 34 recita che «enti privati hanno il diritto di istituire scuole e corsi di educazione senza oneri per lo Stato». Di qui la netta incostituzionalità di disegni di legge, come quello del leghista senatore Pittoni, che vuole istituire graduatorie regionali per l’insegnamento in modo da escludere nelle varie regioni insegnanti che provengano da altre parti del Paese. E l’assurdità delle pretese, sempre della Lega Nord, che vuole sostituire il dialetto alla lingua italiana in alcune regioni. Uno scrittore come Pier Paolo Pasolini in tempi non sospetti scriveva che «il dialetto vive dentro una lingua nazionale forte».
La verità è che la legge del 2008, come altri provvedimenti proposti dall’attuale maggioranza, hanno un duplice obbiettivo che diventa sempre più chiaro e preoccupante. Si tratta di favorire, attraverso l’attività legislativa di questi anni, il depotenziamento della scuola pubblica a vantaggio di quelle private e, nello stesso tempo, rendere gli italiani sempre più ignoranti, sempre più dipendenti e passivi davanti dalle trasmissioni televisive che oggi vanno in voga da Amici della De Filippi al Grande Fratello e all’Isola dei famosi che campeggiano sugli schermi Mediaset-Rai e favorire così un dominio più facile per la deriva nazionale degli ultimi vent’anni. Un progetto diabolico non c’è che dire.

l’Unità 12.3.11
Difendere la Costituzione oggi l´Italia in piazza
di Stefano Rodotà


Da anni, lo sappiamo, la Costituzione è sotto attacco. Un attacco che, negli ultimi tempi, è divenuto sempre più diretto, violento, sfacciato. Le proposte di modifiche costituzionali riguardanti la giustizia ne sono l´ultima conferma. Per questo siamo qui, per contrastare una volta di più una voglia eversiva dei fondamenti della Repubblica.
Sedici milioni di cittadini, ricordiamolo, hanno saputo difendere la Costituzione e i suoi principi il 25 e il 26 giugno 2008, votando contro la riforma costituzionale voluta dal centrodestra.
Ma quella straordinaria giornata è stata troppo rapidamente archiviata. Da chi ha tratto un frettoloso sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. E da chi si era preoccupato di dire che la bocciatura di quella riforma non doveva pregiudicare la necessaria riforma costituzionale. E così quel voto non ha costituito il punto di partenza per una nuova consapevolezza costituzionale, neppure per le timorose forze politiche d´opposizione che pure avevano sostenuto il referendum contro quella riforma.
Così è tornato con prepotenza il progetto di mutare alla radice la tavola dei valori di riferimento, la Costituzione, fuori da ogni regola condivisa, ora facendo prevalere interessi particolari se non personali, ora lasciando spazio a pressioni di matrice ideologico-religiosa che vogliono agire in presa diretta sul funzionamento del sistema politico. Gli equilibri istituzionali ne risultano sconvolti, le tutele giudiziarie sono contestate, la garanzia di libertà e diritti, perduta nel Parlamento, si rifugia nella Presidenza della Repubblica e, soprattutto, nella Corte costituzionale.
Ma, in tempi così perigliosi, la Costituzione sta conoscendo una rinnovata e inattesa attenzione. Parlar di Costituzione ha un suono benefico e sta producendo una identificazione con essa di un numero crescente di persone, consapevoli della necessità di essere esse stesse protagoniste di una azione di promozione e difesa dei diritti. In questo momento, in decine di città, vi sono flash mobs di studenti che distribuiscono copie della Costituzione, come già quel prezioso libretto era stato impugnato in tante altre manifestazioni. La Costituzione sta incontrando il suo popolo. E questo popolo è consapevole che la politica deve essere in primo luogo, e sempre, politica costituzionale, se vuole riguadagnare la sua forza e la sua nobiltà.
Questo è un estratto dell´appello che sarà letto oggi in Piazza del Popolo a Roma nella manifestazione "A difesa della Costituzione"



l’Unità 12.3.11
Catalogo degli orrori da Brunetta a Bossi
Gli autori del libro sugli attacchi alla Costituzione presentano alcune delle più significative perle. Dai discorsi di Berlusconi e dei suoi fedelissimi
di Giuseppe Civati e Ernesto Maria Ruffini


Si fa un gran parlare della necessità e dell'urgenza di riformare la Costituzione, per aggiornarla ai tempi nuovi. La verità è che dalla destra di governo provengono da anni, più che proposte di riforma compiute e ragionevoli, attacchi violentissimi alle ragioni profonde contenute nella Carta.
Partiamo da Tremonti, secondo cui «se non cambi la Costituzione si blocca tutto» (13 giugno 2010), mentre per Sandro Bondi: «rifugiarsi ancora un volta dietro l’idolatria della Costituzione e la propaganda non serve all’Italia» (9 giugno 2010).
Sull’art. 1, Renato Brunetta, con il suo proverbiale equilibrio, ha affermato che «stabilire che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla» ( 2 gennaio 2010).
Sull’art. 3, quello che ci ricorda come tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge, l’affermazione di orwelliana memoria con cui Berlusconi ha orgogliosamente rivendicato che «la legge è uguale per tutti, ma per me è più uguale che per gli
altri perché mi ha votato la maggioranza degli italiani» (17 giugno 2003). Affermazione forse superata da quella di Niccolò Ghedini, secondo cui «la legge è uguale per tutti, ma non necessariamente la sua applicazione» (6 ottobre 2009).
Sull’art. 5, quello che ci ricorda come la Repubblica sia una e indivisibile, non poteva mancare Bossi, che afferma: «io conosco un solo Paese, che è la Padania. Dell’Italia non me ne frega niente» (9 dicembre 2007) e ci rassicura affermando che «le celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia sembrano le solite cose inutili, un po’ retoriche» (4 maggio 2010). Per quelli che se lo fossero dimenticato, inoltre, ci rammenta che «il vero scopo della Lega è la secessione» (17 agosto 2009). Anche sull’art. 12 della Costituzione, la norma che ha fissato nel tricolore la nostra bandiera, un pensiero dobbiamo riservarlo al solito Bossi, che, rivolgendosi ad una signora che lo aveva esposto alla propria finestra, affermava: «Il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo» (23 gennaio 2002).
Non poteva mancare qualcosa sulla scuola pubblica e sugli articoli 33 e 34 della Costituzione. In questo caso, l’instancabile Mariastella Gelmini è riuscita a superare ogni aspettativa, affermando che «l’istruzione è pubblica sempre, anche quando è svolta dalle scuole paritarie» (10 giugno 2008).
Sull’art. 53 ̧quello sulle tasse e sulla capacità contributiva, Berlusconi ha ipotizzato che se lo Stato chiede ai contribuenti più di «un terzo di quello che con tanta fatica hai guadagnato (...) c’è una sopraffazione dello Stato nei tuoi confronti e allora ti ingegni per trovare dei sistemi elusivi o addirittura evasivi che senti in sintonia con il tuo intimo sentimento di moralità che non ti fanno sentire colpevole» (11 novembre 2004), mentre, nell’ipotesi in cui il prelievo fiscale superi il 50 per cento, sarebbe proprio «giustificato mettere in atto l’elusione o l’evasione» (1 ̊ aprile 2008). Poi c’è uno strano articolo della nostra Costituzione, l’art. 93 che prevede il giuramento di fedeltà dei ministri e del premier. Un articolo forse dimenticato da quei ministri leghisti che da venti anni si riuniscono a Pontida per recitare un altro giuramento. Anche sui giudici e sull’art. 104 della Costituzione non si sono risparmiati. Secondo Berlusconi: «questi giudici sono doppiamente matti! Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana» (4 settembre 2003). Poi ci è andato giù pesante, definendoli «metastasi della democrazia» (25 giugno 2008).

l’Unità 12.3.11
Intervista a Andrea Orlando
«Nessun dialogo. Democrazia a rischio»
Il responsabile Giustizia Pd «È una riforma della sola magistratura Confronto solo se cambiano le priorità e si procede con legge ordinaria»
di Simone Collini


È una riforma della magistratura, non della giustizia. Ed è un’operazione che pone un problema di funzionamento della democrazia, perché si rischia di assoggettare il potere giudiziario a quel coacervo che a causa delle legge elettorale di fatto si è già venuto determinando tra potere legislativo e potere esecutivo». Andrea Orlando spiega che ovviamente in Parlamento una discussione sulla riforma della giustizia ci sarà, ma che se la maggioranza vuole essere credibile deve lasciar stare sia le leggi ad personam che l’ipotesi di modifica costituzionale. «In tal caso, noi siamo pronti a un confronto, partendo dalle nostre proposte di legge e chiarendo che per noi l’agenda delle priorità va profondamente cambiata», dice il responsabile Giustizia del Pd.
Il centrodestra vi accusa di dire un no pregiudiziale e anche nel suo partito c’è chi, come Follini, giudica un errore l’arroccamento.
«Non è questione di arroccamento anche perché da tempo abbiamo avanzato le nostre proposte, e la maggioranza deve chiarire che utilizzo intende fare di questa riforma perché il sospetto è che si tratti semplicemente di un ballon d’essay per andare avanti con provvedimenti più contingenti».
Più contingenti?
«La legge sulle intercettazioni, quella sul processo breve. La maggioranza intende proseguire su questa strada?».
Ammettiamo che non lo faccia: non vi si crea un problema a dire no se accantona le leggi ad personam? «No perché non verrebbero meno le nostre critiche al testo presentato, che non è una riforma della giustizia ma soltanto della magistratura. L’effettivo perimetro della riforma, se il governo vuole dimostrare di volere il confronto, va definito insieme a tutti gli operatori del settore. Alfano convochi giudici, magistrati, avvocati, lavoratori del comparto e discuta con loro l’effettiva agenda delle priorità».
Che per voi sarebbero?
«Semplificare i processi, riformare la giustizia civile, riorganizzare le sedi, informatizzare. Tutti temi su cui abbiamo presentato precise proposte di legge in Parlamento e su cui possiamo aprire un serio confronto. Questa è un’agenda che si occupa della giustizia dal punto di vista dei cittadini». E se in fondo a questa agenda il governo mettesse anche la riforma della magistratura?
«Siamo pronti al confronto a patto che si affronti la questione con legge ordinaria, non costituzionale». C’è però chi vi ricorda la Bicamerale... «Che prevedeva una revisione degli equilibri complessivi dell’assetto costituzionale, non di una sola parte, e che non prevedeva la separazione delle carriere tra giudici e pm». Legge ordinaria sì, costituzionale no: potrebbe sembrare un altro pretesto per evitare il confronto.
«Non lo è, si tratta anzi di un problema di funzionamento della democrazia. Oggi c’è già una sostanziale commistione, per via della legge elettorale e di una deformazione della Costituzione sostanziale, tra Parlamento e governo. Assoggettare anche il terzo potere, quello giudiziario, al controllo di questo coacervo che si è venuto determinando è oggettivamente pericoloso».
Lei dice assoggettare, il governo parla di bilanciamento dei poteri. «La finalità di questa riforma è limitare il potere di chi ha disturbato il manovratore. Basti pensare all’introduzione di due Csm, all’aumento al loro interno dei membri laici, all’abbandono dell’obbligatorietà dell’azione penale e all’individuazione da parte del Parlamento delle priorità in questo esercizio. Con l’assenza di contrappesi il cittadino sarebbe meno garantito. Anche la separazione delle carriere, con un corpo dei pm distinto dai giudici, rischia di accentuare gli elementi polizieschi piuttosto che rafforzare le garanzie per l’imputato». Non sempre: dopo un’assoluzione in primo grado il pm non potrebbe più chiedere di ricorrere in appello. «Ipotesi abominevole. Si pensi soltanto a certi processi per strage o a grandi vicende più recenti: le vittime non avrebbero risposte».
E della responsabilità personale dei magistrati nei casi di colpa, che dice? «Che si possono anche pensare meccanismi di responsabilità più efficaci, ma prevedere forme di sanzione economica, di risarcimenti pecuniari, rischia di creare delle impunità di fatto. Chi si sarebbe preso la briga di aprire un’inchiesta sul caso Parmalat, con la paura di commettere un errore nel corso dell’indagine?».

l’Unità 12.3.11
Demolitori di democrazia
di Moni Ovadia


L'ultimo provvedimento del governo Berlusconi, la proposta di legge per la riforma costituzionale della giustizia, è l'atto conclusivo di smantellamento del cuore della democrazia italiana, il pilastro costituzionale della separazione dei poteri. Il senso di questa azione demolitrice è stato dichiarato con chiarezza dallo stesso premier: se la riforma elaborata dal suo visir Alfano fosse stata operante nel 1994 non ci sarebbe stata tangentopoli, ovvero un potere corrotto e corruttore sarebbe stato al riparo dalle indagini della magistratura. Dunque lo scopo della riforma è semplicemente quello di rendere impunite le malefatte dei potenti e dei loro cortigiani e, in particolare, per rendere ingiudicabile il Sultano. Non bisogna essere giuristi per capirlo basta fare funzionare per qualche istante la meravigliose cellule grigie di cui siamo forniti gratuitamente anche se non tutti (troppi nel nostro paese) approfittano del meraviglioso dono. Basta chiedersi: ma dove sono i provvedimenti e gli investimenti per rendere la giustizia uguale per tutti? ma dove erano tutti questi garantisti della domenica, e dove sono quando i poveracci subivano e subiscono i malfunzionamenti della macchina burocratica della giustizia? Li trovavi e li ritrovi in televisione a sproloquiare e a starnazzare contro i coraggiosi servitori dello Stato di diritto. Oggi, nelle città d'Italia saremo ancora una volta nelle piazze per difendere la Costituzione dagli attacchi di chi vuole demolirla con la scusa di riformarla. Non è in questione in questo momento l'orientamento politico dei cittadini, né il sistema dei partiti e della loro collocazione. Oggi è in gioco il futuro della nostra democrazia, il suo destino e il suo carattere. Oggi lottiamo per affermare la democrazia come sistema di diritti e di valori che portano all'uguaglianza e alla dignità di ogni essere umano.

l’Unità 12.3.11
La sinistra? Ha perso lo spirito di solidarietà
«I termini socialismo, anarchismo, comunismo vanno unificati»
Edgar Morin A colloquio con il grande filosofo e sociologo francese «ll trionfo del berlusconismo è dovuto quasi esclusivamente al dissesto del Pd incapace di trovare un pensiero che unisca tutte le correnti»
di Anna Tito


Se fossi candidato alla presidenza della Repubblica non sbarrerei la strada ai miei rivali, bensì indicherei loro la rotta. Non farei promesse, ma proporrei una Via. Non formulerei un programma poiché questi non sono realizzabili in condizioni incerte e mutevoli, ma definirei una strategia che tenga conto degli eventi e degli imprevisti», scriveva nel 2007 in un testo finora inedito. Ma si candiderà alle elezioni del 2012? Edgar Morin scoppia a ridere: «No, non mi presenterò, ma scriverò una dichiarazione per un candidato ideale che non esiste più». Inizia così il nostro incontro con Morin, nel suo luminosissimo appartamento al quinto piano di uno stabile parigino. Fedele alla sua origine ebraico sefardita, si anima e gesticola nel corso nella conversazione, con espressione vivace e divertita.
Compirà novant’anni nel prossimo giugno, eppure conserva intatte la curiosità e il gusto di intraprendere nuove vie di riflessione. Il pensiero di questo filosofo e sociologo, eclettico, transdisciplinare e indisciplinato, ex resistente ed ex comunista, appare ancora ricco e rivolto al futuro. Se fossi candidato è uno dei ventitrè saggi riuniti nell’antologia La mia sinistra. Rigenerare la speranza appena apparsa da Erickson (pp. 256, 18,50 euro), curata e tradotta da Riccardo Mazzeo, con contributi di Nichi Vendola, Mauro Ceruti e Sergio Manghi. Si tratta di analisi e di riflessioni politiche, redatte negli ultimi due decenni e in parte inedite, che intendono stimolarci a uscire dalla «grande recessione».
«In La mia sinistra sottolineo che esiste una triplice eredità, che noi dobbiamo mettere a frutto, data dai termini socialismo, anarchismo e comunismo, che vanno unificati. Cosa significa il termine socialismo? Riformare la società. Comunismo? Creare una comunità umana. Anarchismo? Dare libertà all’individuo». Eppure lei sembra non amare il temine socialismo: «È vero, ma perché si è molto degradato, in entrambi i sensi, sia in quello sovietico, trionfo del socialismo totalitario, sia in quello della socialdemocrazia che è rimasta senza fiato ovunque abbia governato».
Non usa mezzi termini questo studioso rigoroso in I paladini della speranza, saggio del 1993 di stupefacente attualità: aldilà della parola socialismo che forse è divenuta poco «raccomandabile» invita subito a ricordare ciò che «resta e resterà», ovvero le aspirazioni al tempo stesso libertarie e di fraternità, alla fioritura umana e a una società migliore. Ha sempre respinto il LA unificatore della sinistra. Per quale motivo? «Perché occulta le differenze, le contrapposizioni e i conflitti all’interno della sinistra, nozione complessa, che comporta in sé unità, certo, ma anche concorrenze e antagonismi».
Morin continua a rivendicare di essere rimasto uomo di sinistra, coerente non solo nel ritenere mai venute meno le parole d’ordine della rivoluzione francese liberté, égalité, fraternité ma anche considerandole strettamente legate l’una all’altra. Su di sé così ironizza: «Sono un gauchista di destra». Cosa intende dire? «Che mi definisco di destra perché ho un senso molto acuto del rispetto delle libertà, ma al tempo stesso di sinistra per via della mia convinzione che la nostra società richieda riforme acute e radicali».
Il filosofo della complessità prosegue tracciando un bilancio dei successi e degli insuccessi della sinistra che, a suo avviso, ha lasciato molto spesso da parte il sentimento della solidarietà. La «sua» sinistra mostra di avere bisogno non tanto di calcoli su maggioranze elettorali, ma prima di tutto di una iniezione di sentimento: lo spirito di solidarietà. Difende una democrazia partecipativa: «Deve pur esistere, quale complemento alla democrazia parlamentare e istituzionale, una democrazia di base che possa controllare, o decidere di certi problemi come la costruzione di un’autostrada o l’installazione di una fabbrica». Quali modalità proporrebbe? «Purtroppo non ho una soluzione magica. Si corre il rischio che i diretti interessati donne, anziani, giovani, immigrati non vi prendano parte. La popolazione tutta andrebbe educata alla democrazia partecipativa, sarebbe utile anche potenziare le università popolari, che fornirebbero ai cittadini nozioni di scienze economiche, politiche e sociali». Cosa intende per concezione neoconfuciana che a suo avviso andrebbe adottata nelle carriere dell’amministrazione pubblica e nelle professioni che comportano una missione civica, quali quelle degli insegnanti e dei medici? «In primo luogo promuovere una modalità di reclutamento che tenga conto dei valori morali del candidato, della sua propensione a dedicarsi agli altri, al bene pubblico, a preoccuparsi della giustizia e dell’equità».
Ancora, per Morin «lo svilimento della missione del medico e dell’insegnante in semplice professione, che fa sì che essi non rivendichino altro che aumenti salariali, la sclerosi dei partiti di sinistra, la decadenza dei sindacati hanno svuotato di ogni ideologia emancipatrice il popolo di sinistra». Ne sono conseguenza il razzismo e la xenofobia, «che fra i lavoratori di sinistra non si esprimevano se non in privato, ma erano inibiti nella vita politica visto che votavano per i socialisti o per i comunisti; una massa di ex elettori comunisti vota ormai per Le Pen. Una Francia reazionaria balza in prima linea, inaridita e sciovinista. Accetta, o auspica, il rifiuto dei lavoratori stranieri irregolari».
Il Partito socialista si è rivelato incapace di effettuare uno sforzo di pensiero e si è limitato a stilare programmi zeppi di promesse illusorie. La sua unica speranza è quella di beneficiare del discredito della destra al potere per succederle, una destra che aveva già approfittato dei suoi fallimenti per soppiantarlo. La vittoria di Sarkozy del 2007 va pertanto attribuita essenzialmente alle carenze socialiste, e solo secondariamente alla sua astuzia politica. Ritiene che, seppure sotto forme diverse, la situazione sia la stessa in altri Paesi europei, e in Italia in particolare? «Direi di sì. Il trionfo del berlusconismo è dovuto quasi esclusivamente al dissesto di un Partito democratico incapace di trovare un pensiero che unisca tutte le correnti, e che vede il suo popolo scomparire in Toscana, in Piemonte e in Emilia-Romagna. Lo stesso avviene in Germania, dove parte degli esponenti socialdemocratici trova rifugio in un linguaggio obsoleto, mentre la destra si lancia nella modernità. E vediamo l’Olanda, Paese della tolleranza per antonomasia, diventare xenofoba e reazionaria».
Se la diagnosi è severa per le sinistre europee, le proposte di Morin appaiono eccitanti quanto un cardiotonico: «siamo in una fase di grande regressione, da cui non usciremo se non prendendo coscienza di essa e dei rischi mortali che fa correre ai popoli, alle democrazie, all’umanità. E dunque, all’erta, svegliamoci!»

il Fatto 12.3.11
La corona littoria
di Nicola Tranfaglia


Gli italiani, tra i popoli europei, appaiono quelli che mostrano maggiore difficoltà a trovare i fili della propria storia e lo si avverte in queste settimane nelle quali sono incominciate le celebrazioni, avversate dalla maggioranza e dalla Lega in particolare, per i centocinquant’anni della nostra unità.
Ma, come era prevedibile, il problema maggiore si tocca quando si parla della dittatura fascista. Il tentativo, durato più di vent’anni di parlarne come di un incidente, o addirittura una parentesi senza conseguenze, ha avuto illustri sostenitori (a cominciare da Benedetto Croce) ma poi ha dovuto cedere il passo all’identificazione di una dittatura nuova e con tratti moderni che non è arrivata per caso, ma sulla base di antichi difetti della nostra unificazione e soprattutto dei governi liberali. Questa dittatura, se è caduta, è stato soprattutto per le vicende militari e l’azione di gruppi minoritari anche se estesi in tutto il paese che hanno lottato eroicamente contro i nazisti e i fascisti insieme con le truppe angloamericane sbarcate sulla Penisola.
SE LA GUERRA non avesse costretto le istituzioni fondamentali della società italiana, il Vaticano e la monarchia sabauda a dissociarsi dal dittatore, questi sarebbe durato altri trent’anni come avvenne puntualmente a Francisco Franco in Spagna e a Salazar in Portogallo. Del resto la Repubblica sociale italiana di Mussolini tra il 1943 e il 1945 era vissuta soltanto come stato satellite e subalterno della Germania di Hitler essendone complice nella deportazione degli ebrei e degli oppositori politici come nella crudele politica razziale. Questa considerazione pone agli storici che continuano a ragionare fuori degli stereotipi problemi di interpretazione e analisi sia del sistema di potere del regime sia del comportamento politico e culturale delle istituzioni che hanno sostenuto e condiviso il potere con il dittatore romagnolo.
Le polemiche sull’atteggiamento dei pontefici e di Pio XII in particolare sono state assai forti e nuovi documenti americani, inglesi e italiani che pubblicherò nel prossimo autunno accresceranno ancora lo sconcerto nel mondo cattolico più vicino a quel papato.
Ma c’è un’altra istituzione politica che ha avuto un ruolo decisivo nell’instaurazione e nella sopravvivenza della dittatura e ha fatto bene Paolo Colombo a dedicare un saggio analitico e puntuale a La monarchia fascista 1922-1940 (Il Mulino editore, pagine 264, 25 euro) che ricostruisce con precisione il processo attraverso il quale venne instaurata la diarchia di fatto tra il dittatore romagnolo e Vittorio Emanuele III, il funzionamento che si stabilì successivamente con le leggi fascistissime e la progressiva cancellazione di norme fondamentali dello Statuto Albertino, il contrasto sempre maggiore tra il cerimoniale monarchico e la liturgia di regime fino allo scontro aperto e al crollo della dittatura nel periodo culminante della Seconda guerra mondiale.
L’autore si ferma al 1940 quando l’Italia entra in guerra al fianco di Hitler e dimostra con pagine di grande chiarezza come Vittorio Emanuele III avesse abbracciato armi e bagagli la veste della monarchia fascista di cui restano testimonianze dirette e incontestabili come quella del fascista Giuseppe Bottai che nel 1938 scrive una considerazione difficilmente contestabile chiusa da un interrogativo in parte retorico: “Il problema dei rapporti tra il Re e il Duce sembra risolto da una cordiale intesa tra i due uomini, nonostante la difficoltà di far convivere nel rapporto le funzioni di Re e di Duce. La duttilità giuridica degli italiani può andare oltre la normalizzazione empirica del binomio, traendone nuovi valori e significati? “
LO STORICO delle istituzioni sottolinea “la natura profonda di un dilemma che pare difficile sciogliere in maniera definitiva: vediamo il fascismo cercare di impadronirsi dell’impianto di feste e celebrazioni costruito nel tempo dal sistema liberale con infissa bene nel centro la dinastia del padre della patria e il suo apparato simbolico: ma vediamo il re prestarsi in innumerevoli occasioni al gioco propagandistico del regime.
È il fascismo che sta fagocitando la monarchia o è quest’ultima che si rivela capace di garantirsi una visibilità pubblica e l’indispensabile flusso di vitali risorse simboliche avvalendosi dei canali comunicativi approntati dal governo di Mussolini?”
L’esposizione dei fatti dimostra in maniera difficilmente contestabile che la monarchia diventa a tutti gli effetti una dinastia del fascismo trionfante dal momento in cui il sovrano sabaudo nega al presidente del Consiglio liberale Facta la firma al decreto di stato d’assedio per la progettata marcia su Roma fascista del 28 ottobre 1922 e prosegue negli anni successivi con alcuni scontri simbolici come quello che si verifica subito dopo l’impresa di Etiopia e la creazione dei primi marescialli dell’impero che vedono Mussolini e il re appaiati nella nuova carica di regime.
Ma le scaramucce tra i due giungono allo scontro mortale soltanto quando la guerra è persa, gli angloamericani sbarcano in Sicilia e nel Lazio e i gerarchi fascisti, appoggiati dal re e dal Vaticano, tolgono la fiducia nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943 a Mussolini come comandante supremo delle forze armate fasciste. Ed è così che dopo ventuno anni che la complessa diarchia alla fine crolla e il regime cade clamorosamente.

il Fatto 12.3.11
Colpa di Eva
di Massimo Fini


Non si sa per quale ragione, disturbo della psiche, perversione mentale sia venuto in testa al dispettoso Iddio la bizzarra idea di affiancare nel Paradiso Terrestre, infima enclave nell'immenso, asettico, sterile e perfetto Universo, ad Adamo, che ne era stato fino ad allora l'unico abitante, Eva. Eva la civetta, Eva la maliarda, Eva la lasciva, Eva la fedifraga, Eva la curiosa. Adamo, tontolone come tutti i maschi, si sarebbe accontentato di qualche partita fra Cherubini e Serafini e in Coppa dei Campioni (si chiamava ancora così) fra gli Angeli Superiori. Anche se, doveva ammetterlo, non erano molto divertenti perché quelli non facevano un fallo neanche a morire e comunque le partite dovevano finire sempre in parità perché il Supremo non voleva che qualcuno insuperbisse. La cosa era diventata più interessante quando il bellissimo e orgoglioso Lucifero, con un manipolo di Angeli ribelli, si era rivoltato contro il Dittatore ed era stato precipitato negli Inferi (“Meglio esser primi in Inferno che in Ciel servire”, Paradise Lost). Capitava allora che un paio di volte l'anno venissero su a giocare gli Angeli decaduti ed erano botte da orbi, fallacci, entrate col piede a martello e orribili bestemmie. E, anche con la squadra decimata per le espulsioni, riuscivano a vincere. Ma il Supremo, che faceva l'Arbitro, ribaltava a suo piacimento il risultato. Era o non era l'Onnipotente? Ma ad Adamo le cose andavano bene anche così. In fondo Dio lo lasciava libero di fare ciò che voleva. Gli aveva posto un unico divieto: non mangiare la mela di un certo albero. Ad Adamo le mele facevano schifo e in ogni caso non si sarebbe mai sognato di disubbidire a un ordine di Dio. Eva invece era inquieta, si annoiava, a lei le partite e in genere i giochi con la palla, oggetto dalla forma rotonda di cui non capiva l'utilità e l'impiego, non erano mai interessati, Adamo non le prestava molta attenzione (preferiva masturbarsi di nascosto, peccato veniale, tollerato, non essendo ancora prevista la procreazione), in quanto alla contemplazione, sia pur delle meraviglie del Paradiso Terrestre, non era affar suo. Venne il serpente e la tentò. In verità, per l'occasione, Lucifero aveva ripreso le forme del fascinoso ragazzo che era, decisamente maudit. “Resisto a tutto, tranne che a una tentazione” disse lei ridendo e con i bianchi dentini cominciò a sbocconcellare la mela. Ma è mai possibile, perdio, che con tutte le mele che c'erano in quel Giardino dovesse addentare proprio quella, la mela dell'Albero della Conoscenza? Adamo si precipitò da Dio e inginocchiandosi davanti a Lui chiese perdono. Ma il Supremo, che era un po' stronzo, non volle sentir ragioni. “Cosa fatta capo ha” disse e buttò i due fuori dal Paradiso Terrestre. Da lì, dalla conoscenza, sono iniziati tutti i nostri guai. L'uomo è l'unica bestia del Creato a essere lucidamente consapevole della propria morte. E il virus della conoscenza lo spinge verso una ricerca inesausta che non ha mai fine né senso. Scopre il neutrino e crede che sia la particella ultima della materia, senza rendersi conto che, come nel forziere di Paperone, dopo il neutrino si aprirà un'altra botola e poi un'altra ancora e così all'infinito. Ravana nel Dna illudendosi di arrivare alle origini della Vita e non ha introiettato nemmeno l'insegnamento di Eraclito, che la legge autenticamente ultima ci sfugge, è perennemente al di là e che man mano che cerchiamo di avvicinarla appare a una profondità che si fa sempre più lontana (“Tu non troverai i confini dell'anima, per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione”). E così, per quel morso sciagurato di Eva, ci siamo condannati all'eterna infelicità.

La Stampa Tuttolibri 12.3.11
Claudio Pavone: “È stato Ettore il mio primo eroe garibaldino”
Le interpretazioni del Risorgimento, «conteso» tra fascismo e Resistenza, nella testimonianza dello studioso «azionista», oggi novantenne
di Alberto Papuzzi


Risorgimento e Resistenza. O Resistenza come secondo Risorgimento. E' una complessa questione storica, e politica, che torna d'attualità con le celebrazioni per i centocinquant’anni dell'Unità d'Italia. Perché Radio Monaco e Radio Londra trasmettevano entrambe l'«inno di Garibaldi», Va’ fuori d’Italia, va’ fuori stranier? E come mai il Movimento comunista d'Italia, piccolo gruppo antifascista romano, invocava «l'epopea del Risorgimento»? Lo storico ed ex resistente Claudio Pavone, che in novembre ha festeggiato i novant’anni, ha scritto intense pagine su questi temi sia in Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991), sia nel saggio Le idee della Resistenza ripubblicato nel volume Alle origini della Repubblica (Bollati Boringhieri, 1995) e di recente dalle Edizioni dell’Asino, dopo essere apparso mezzo secolo fa sulla rivista Passato e presente . Ora esce, sempre da Bollati Boringhieri, con il titolo Gli inizi di Roma capitale , una raccolta di saggi, anch’essi degli Anni Cinquanta, sull’inserimento di Roma e del Lazio nello Stato unitario.
Il suo è lo sguardo di un «azionista postumo», come si definisce, nel senso che non è mai stato azionista, ma alla fine di un lungo percorso l’azionismo gli sembra interpretare l'atteggiamento di quella minoranza illuminata e influente che però non è mai riuscita a esercitare il potere politico. L'8 settembre, a Roma, aveva preso contatto coi socialisti, venendo arrestato già alla fine di ottobre. Uscito alla fine di agosto 1944 dal carcere di Castelfranco Emilia, militò in un piccolo gruppo milanese, composto soprattutto da intellettuali e appartenente al Partito italiano del lavoro che aveva la sua base in Romagna. Quindi il confronto col Pci: «Sono stato per molto tempo rispetto ai comunisti o un compagno di strada o un utile idiota, dipende dai punti di vista». Vide nel Sessantotto «una riapertura del campo del possibile», si unì al gruppo di Democrazia Proletaria e strinse rapporti molto forti con Vittorio Foa, che divenne il suo principale punto di riferimento. Conclusasi l'esperienza, rientrò nella posizione di indipendente di sinistra.
Professor Pavone, qual era il significato attribuito al Risorgimento dagli antifascisti?
«Il Risorgimento era al centro di vivaci discussioni. Giustizia e Libertà , giornale dell’omonimo movimento che si stampava a Parigi, ospitò nel 1935 un importante dibattito sul tema. Il punto era questo: perché l'Italia, nata dal civile Risorgimento, ha poi dato vita al fascismo, divenuto il prototipo della moderna barbarie, che per di più pretendeva di rappresentare la provvidenziale conclusione del Risorgimento stesso. Era dunque necessario riesaminare ombre e luci di quel grande momento della nostra storia. Si trattava di contrapporre alla interpretazione fascista una interpretazione democratica e critica a un tempo. Parteciparono alla discussione Carlo Rosselli, Franco Venturi, Andrea Caffi, Nicola Chiaromonte, Umberto Colosso. Per Benedetto Croce, invece, il Risorgimento più che essere passato al setaccio della critica doveva essere soprattutto difeso: in questo manifestava una contrapposizione generazionale. Il dibattito agitava anche i comunisti: Togliatti scrisse nel 1931 su Stato operaio un violentissimo articolo contro GL, che egli temeva potesse conquistare l'egemonia dell’antifascismo. Il “cosiddetto Risorgimento”, scriveva Togliatti, era un “mito” che alle orecchie piccolo-borghesi di GL suonava “come la fanfara per gli sfaccendati”. Ma dopo il VII Congresso dell'Internazionale nel 1935, che varò la politica dei fronti popolari, da cui scaturì quella dell’unità nazionale antifascista, il Risorgimento non poteva non essere recuperato politicamente e culturalmente. Il pensiero di Gramsci, ovviamente sconosciuto durante la Resistenza, consentirà poi alla cultura comunista di elaborare una ben più complessa interpretazione del Risorgimento. Ma già durante la lotta antifascista era stato dato il nome di Garibaldi alle brigate combattenti, prima in Spagna e poi in Italia».
Ma era fondata l’idea della Resistenza come secondo Risorgimento?
«Da un punto di vista storiografico è indubbiamente una forzatura, ma occorre interrogarsi sui vari significati che allora la fortunata espressione assunse e sulla influenza che ebbe. Dei quattro santi padri - Cavour, Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele II - Garibaldi era di gran lunga il più popolare. Il primo numero dell’ Unità , uscito dopo l'8 settembre, aveva in prima pagina a grandi caratteri “Torna Garibaldi”. A Milano sotto il monumento si trovava scritto: “Peppin, vien giò, che i son a mo’ chi”».
Anche il fascismo cercò di usare la retorica risorgimentale? Garibaldi e Mazzini sono stati, per così dire, anche due eroi fascisti?
«Esisteva, come ho già ricordato, una interpretazione fascista del Risorgimento, di cui Mazzini, soprattutto dopo l'8 settembre, fece le spese. Su un francobollo della Rsi figurava l'immagine di Mazzini, mentre avrebbero stonato quelle di Garibaldi e di Cavour. Di Vittorio Emanuele II, nonno del re fellone, neanche a parlarne».
Ora che ha compiuto i novant’anni, che cosa ricorda per esempio delle sue letture giovanili?
«Premetto che io sono molto lento e purtroppo lo sono stato anche nel leggere. Delle prime letture ricordo quelle canoniche di Salgari e Verne, ai quali aggiungevo una grande passione per la storia delle scoperte polari. Un libro ebbe per me una importanza particolare: Le storie della storia del mondo di Laura Orvieto, dove imparai a conoscere la guerra di Troia. Naturalmente parteggiavo per i troiani e rimasi male quando al liceo un professore molto fascista ci spiegava che Ettore era un eroe piccolo-borghese (l'addio ad Andromaca? Piagnistei) e che Achille era invece un vero eroe, una sorta di superuomo. Questo professore aderì poi alla Rsi, ricoprendovi un importante incarico. Mio padre, antifascista rassegnato, era innamorato di Dickens e mi trasmise questa passione. Ma la forma d'arte da me prediletta era la musica».
«Una guerra civile», il suo opus magnum, poggia su una ricca bibliografia anche letteraria: se lei dovesse consigliare a un giovane delle opere narrative per capire la Resistenza, che cosa gli consiglierebbe?
«Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino e Il partigiano Johnny di Fenoglio».
«Vittorini, Uomini e no …»
«Lo considero meno schietto. E poi mi dà fastidio quell'altezzoso “e no”, ai confini col razzismo: forse che i fascisti non erano anch’essi uomini?».
Lei ha insegnato storia contemporanea a Pisa: come considerava e continua a considerare l’uso di fonti letterarie per la storia?
«Lo considero fondamentale. Dicevo ai miei studenti: se volete studiare la campagna di Russia di Napoleone, leggete prima Guerra e pace . Oggi direi: se volete studiare la guerra in Russia durante il secondo conflitto mondiale, leggete prima Vita e destino di Vasilij Grossman, centrato sulla battaglia di Stalingrado».
Potrebbe dirci qualche libro che ha esercitato un’influenza decisiva nella sua formazione?
«In chiave storiografica, Pensiero e azione di Luigi Salvatorelli che fece capire a me e molti della mia generazione che il Risorgimento non era quello che ci insegnavano a scuola. Nel campo dei massimi problemi, e lo dico con la timidezza che suscita il nome di Kant, la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica . Nella mia prima giovinezza ero stato un cattolico sempre in cerca di prove inconfutabili dell’esistenza di Dio come garante della realtà del mondo e della legge morale. Kant, dimostrandomi che non c'era né in un caso né nell’altro bisogno di Dio, mi fece uscire da quello che era diventato per me un vero tormento».
Lei si è laureato in giurisprudenza ma ha studiato anche filosofia?
«Subito dopo la guerra mi iscrissi a filosofia, anche per obbligarmi a riprendere un organico percorso di studi. Ebbi due ottimi docenti in Guido De Ruggiero e, all'estremo opposto, Ugo Spirito. Entrambi avevano una grande capacità di dialogare con gli studenti. Naturalmente l'affinità intellettuale e politica mi legò molto di più a De Ruggiero. Ma ricordo che in un seminario di Spirito ebbi una discussione molto accesa sul concetto di lavoro: lui sosteneva che pensare e lavorare erano la stessa cosa, io lo negavo recisamente. Pochi giorni dopo sostenni l'esame, presi trenta e lode e una collega commentò: “Io pensavo che dopo quella litigata ti avrebbe bocciato”». Un’ultima cosa: qual è il libro che non si può fare a meno di leggere? La Divina Commedia ».

Corriere della Sera 12.3.11
Crocifisso, davanti al nostro caos sarà Strasburgo a mettere Ordine
di  Marco Ventura


Il 18 marzo prossimo, alle tre del pomeriggio, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo renderà pubblico il giudizio sul ricorso del governo contro la sentenza del 2009 che ha condannato l’Italia per l’esposizione obbligatoria del crocifisso nelle aule delle scuole statali. È possibile che la Corte di Strasburgo rovesci la decisione di primo grado e affermi che l’Italia ha tutto il diritto di obbligare studenti non cattolici a studiare sotto il crocifisso. Sarebbe la grande vittoria del governo, della Santa Sede, dell’episcopato cattolico e di chi ci ha più sostenuto nella battaglia contro l’Europa laica e senz’anima: la Russia di Putin e i fondamentalisti americani. È anche possibile che i giudici europei si schierino con i colleghi che, all’unanimità, hanno condannato Roma. Sarebbero allora i laici alla francese e i militanti atei a brindare. Insieme ai tanti per cui il crocifisso non deve essere imposto dallo Stato ma scelto da chi crede. Due sbocchi meno radicali sono anche possibili. Il primo consisterebbe in una condanna dell’Italia, ma non del crocifisso. L’Italia sarebbe condannata perché impone il crocifisso a tutti gli alunni, ma il crocifisso potrà restare se si istituiranno procedure per ascoltare studenti e famiglie a disagio. È la soluzione adottata in Baviera, quando la Corte costituzionale bocciò l’obbligo di crocifisso in Germania. Il secondo sbocco meno traumatico consisterebbe in un’assoluzione con riserva. La Corte non ci condannerebbe, ma censurerebbe il pasticcio giuridico frutto delle nostre ambiguità: uno Stato laico ma anche cristiano-cattolico, giudici contro il crocifisso ma anche a favore, Parlamento e Corte costituzionale imbarazzati, norme confuse. Nell’udienza dello scorso giugno, incalzato dal giudice inglese, il povero rappresentante del governo balbettò che il nostro diritto «non è chiaro» , e assicurò che si sarebbero trovate soluzioni per gli studenti non cattolici. Davanti al nostro caos, i giudici europei potrebbero assolverci con riserva: tenetevi il crocifisso, però garantite tutti con norme e procedure rigorose.

La Stampa 12.3.11
Israele e il risveglio arabo
di Arrigo Levi


Amos Oz e Sari Nusseibeh, due delle più alte coscienze d'Israele e Palestina, si sono trovati d'accordo nell'affermare, in un recente incontro, che «un accordo di pace è possibile». Ma hanno anche detto che per arrivarci occorre da parte israeliana (Oz) «una svolta emotiva», e che bisogna che emerga in entrambe le società (Nusseibeh) «qualcosa di nuovo, un leader, o qualcosa che abbatta la barriera, un po' come un mago politico». Certo, si sono fatti dei passi avanti: oggi Netanyahu, quando accetta pubblicamente la soluzione dei due Stati (Oz) «è più a sinistra di quanto fosse Golda Meir negli Anni 70». Anche da parte palestinese la soluzione dei due Stati è oggi accettabile (Nusseibeh) mentre «se uno lo avesse detto nel '67 gli sparavano addosso». Però nessuno dei due crede la pace vicina. E la rivoluzione araba, o il «risveglio arabo» come di nuovo si dice, non sembra aver avvicinato un tale miracoloso evento.
Finora, e questo è giudicato un fatto positivo, non si è verificato un contagio, fra i palestinesi, né a Gaza né nella West Bank, della rivolta popolare che ha già investito Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Yemen, Arabia Saudita e in futuro chissà chi altri. Quanto a Israele, vi è chi (Shimòn Peres e l'opposizione), ha dichiarato che questo è il momento giusto per una seria iniziativa israeliana che rimetta in moto il negoziato di pace. Ma da parte del governo non si è andati al di là della diffusione ufficiosa dell'«intenzione di proporre un accordo interinale che conduca verso la soluzione dei due Stati»; accompagnata peraltro dalla solenne dichiarazione di Netanyahu che comunque Israele dovrà mantenere, anche dopo una pace, la sua presenza militare sul Giordano (i palestinesi accetterebbero, forse, soltanto una forza internazionale). Questa presenza, ha detto il Premier israeliano, è oggi tanto più necessaria, visto «il terremoto politico che si è verificato e di cui non abbiamo visto la fine».
Insomma, almeno finora non sembra proprio che la rivoluzione araba (che, fra la sorpresa generale, ha finora ignorato, in tutti i Paesi coinvolti, una evocazione della questione palestinese), abbia modificato l'atteggiamento piuttosto passivo della destra israeliana, oggi saldamente al governo, sul rapporto con i palestinesi. Israele è sì preoccupato di ciò che potrebbe accadere in Egitto e in Giordania. Ma non sembra proprio temere per il suo futuro. Fra l'altro, si prepara a diventare, entro il 2015, un robusto esportatore di petrolio, tratto dai vasti giacimenti sottomarini scoperti al largo delle coste israeliane. E' probabile che il governo di Netanyahu si senta in prospettiva meno dipendente dagli aiuti americani, e giudichi quindi meno e non più urgente un accordo di pace con i palestinesi.
Certo, il «terremoto politico» e i suoi imprevedibili sviluppi tengono Israele in allarme: vedi l'ingresso nel Mediterraneo di due navi da guerra iraniane, con attraversamento, peraltro legittimo, del Canale di Suez (ma con Mubarak al potere non era mai accaduto). Nessuno sa se nel futuro degli Arabi ci saranno delle democrazie, o dei regimi militari, o delle guerre civili, o delle buone occasioni per un'avanzata del fondamentalismo terrorista. Ma nei confronti dei palestinesi, apparentemente ancor più dimenticati da un mondo arabo in subbuglio, Israele si sente forse ancora più forte. La proposta di qualche giorno fa del Ministro degli Esteri britannico William Hague, che l'Occidente eserciti le più dure pressioni su Israele perché accetti subito condizioni ragionevoli (sui confini, sugli insediamenti, sui profughi palestinesi, su Gerusalemme), per far pace con i palestinesi, non sembra convincere l'America: il solo Paese che possa portare Israele al tavolo di un nuovo negoziato.
Il fatto è (ed è forse il fatto più importante: un'osservazione che debbo a Vittorio Segre), che d'un tratto la questione palestinese non è più vista come il motivo dominante della «crisi del Medio Oriente». E forse non lo sarà per molto tempo: la fase storica di grandi sconvolgimenti che si è aperta nel mondo arabo non giungerà certo rapidamente a conclusione. Che importa dei palestinesi?
E tuttavia, gli Ebrei (che sono tornati a Gerusalemme dopo aver continuato per due millenni a dire: «l'anno prossimo a Gerusalemme»), non possono illudersi che i palestinesi dimentichino d'un tratto (cito parole di Amos Oz, che è difficile non condividere), che «la Palestina è la patria dei palestinesi come la Norvegia è la terra dei norvegesi, e che viene loro chiesto il sacrificio enorme di cedere parte della loro patria». Tale è, certo non meno di quanto sia la patria degli ebrei, in virtù della loro fatale storia millenaria. Non vi è nulla di così tragico come lo scontro fra due diritti, fra due ragioni. Tuttavia, dice Nusseibeh, che è il discendente di una stirpe aristocratica dominante da secoli a Gerusalemme: «Ciò cui bisogna rinunciare sono certi articoli di fede, e ciò è molto doloroso. Eppure non credo che sia un problema insormontabile. E' completamente insensato per i palestinesi e per gli israeliani continuare a infliggere dolore all'altro».