lunedì 14 marzo 2011

Repubblica 14.3.11
Anna Finocchiaro: la riforma è figlia del risentimento, ci riporterà allo Statuto albertino
"È propaganda, il Pd non ci cadrà vogliono l´arbitrio dell´esecutivo"
La piazza di sabato è stata bellissima. Grazie a Ciampi per la riscoperta del Tricolore
di Giovanna Casadio


ROMA - «Questa riforma della giustizia è semplicemente inaccettabile. È frutto del risentimento personale di Berlusconi. Altro che innovazione, è una restaurazione». Anna Finocchiaro è la presidente dei senatori del Pd, però parla con una competenza in più, essendo stata magistrato.
Senatrice Finocchiaro, l´offerta di dialogo di Alfano sul processo breve come la giudica?
«Quello che il Guardasigilli dice non è la verità. Il processo breve, a cui Alfano pensa, è una tagliola: serve al premier, non a dare celerità e efficienza alla giustizia. Sarebbe efficace se inserito in una riforma complessiva del processo penale e se, solo come norma conclusiva, fosse introdotta la prescrizione».
Il suo partito è accusato di voler restare sull´Aventino, benché una riforma della giustizia sia necessaria.
«Il Pd sa con molta chiarezza che ci sarebbe bisogno di una profonda riforma per fare in modo che la giustizia italiana funzioni. E noi non ci siamo mai sottratti, anche rispetto a una riforma costituzionale. Un passo indietro va fatto, anche per sfatare molte delle sciocchezze che sento dire. La Bicamerale aveva l´idea forte della giurisdizione unica e cioè dell´autonomia e dell´indipendenza di tutte le magistrature non solo di quella ordinaria; nessuna separazione delle carriere; la disciplinare affidata a un organismo esterno composto con gli stessi criteri con cui si scelgono i giudici della Consulta. Un quadro avanzato».
Il testo varato dal governo non ha proprio nulla che la convinca?
«Con la riforma berlusconiana torniamo allo Statuto albertino. Ricordo anche il protocollo di Copenhagen del 1993, con il quale l´Europa stabilì l´indipendenza della magistratura tra i requisiti che si chiedevano ai paesi dell´est per l´ingresso nell´Unione: anche in questo modo si "testavano" quei paesi. E ora è l´Italia ad arretrare. Se questo stravolgimento della Costituzione entrasse in vigore, il pm sarebbe ridotto a un ufficio regolato da leggi ordinarie, non dalla Carta. Ecco perché la riforma è inaccettabile».
Ma il Pd, come dice Casini, non fa un "errore politico" ad arroccarsi?
«Casini la pensi come vuole, noi non siamo arroccati, non stiamo salendo sull´Aventino. Presenteremo il nostro piano e le nostre proposte. Ma una riforma costituzionale figlia di un risentimento personale, come può essere presa in considerazione seriamente? Tenuto conto che sposta le lancette dell´orologio indietro di più di 150 anni. Si tratta di una manovra politica e propagandistica. È un rischio per la democrazia. Bombarda innanzitutto il principio della tripartizione dei poteri, del loro equilibrio e della loro separazione. Quando il ministro Alfano parla di arbitrio dei magistrati, dimentica che l´arbitrio sta diventando la misura dell´agire del potere esecutivo. Che è appunto arbitrario nel momento in cui rifiuta di essere controllato dal Parlamento, dalla Consulta, dal presidente della Repubblica, dalla magistratura».
Rifiuto di ogni dialogo, quindi?
«Non disertiamo certo le aule parlamentari, lasciando che le cose si facciano nella nostra assenza. Noi saremo lì, in Parlamento per adottare norme sensate e utili».
La Costituzione va difesa in ogni modo, anche scendendo in piazza?
«La mobilitazione di sabato è stata bellissima, con i Tricolori a sventolare. A Ciampi, che si è battuto per restituire al Tricolore il suo valore di simbolo dell´unità nazionale, dobbiamo dire un grande grazie. I cittadini inoltre devono sapere che se, malauguratamente, questa riforma fosse approvata noi tutti saremmo meno liberi, meno garantiti e meno uguali».

Repubblica 14.3.11
L'indignazione necessaria per salvare la democrazia
di Guido Crainz


La riforma della giustizia è stata presentata da Berlusconi come una dichiarazione di guerra alla magistratura. L´indifferenza può essere il suo più grande alleato

Neppure l´oppositore più prevenuto avrebbe potuto attribuire a Berlusconi le parole che ha realmente pronunciato presentando il suo progetto sulla giustizia: con questa legge - ha detto - non vi sarebbero mai state le indagini di Mani pulite. In altri termini, non sarebbe mai stato rivelato ai cittadini il degrado etico-politico che ha portato all´agonia e al tracollo della "Prima Repubblica". Il premier ha aggiunto: desidero questa legge dal 1994.
Cioè dal momento in cui il suo populismo antipolitico ha potuto affermarsi sulle macerie di un sistema partitico minato dalla corruzione e incapace di rinnovarsi.
Perché Berlusconi ha voluto e potuto proclamare ad altissima voce opinioni e propositi che anni fa sarebbero stati vissuti dal sentire comune del Paese come un vero e indecente vulnus?
Perché, anche, ha fatto una dichiarazione di guerra così aperta alla magistratura e alla Costituzione proprio alla vigilia di processi che ha tentato di evitare in tutti i modi e con tutti i lodi possibili, entrando in ripetuto conflitto con la Corte Costituzionale e con la Presidenza della Repubblica (con Ciampi prima, e con Napolitano poi)?
Si tratta di una vera prova di forza - favorita dal dissolversi di una possibile "destra diversa" e dall´ormai cronico stato di confusione del centrosinistra - o è l´escalation di una pericolosissima debolezza?
Il progetto proposto è senza dubbio una "contro-riforma incostituzionale", come ha scritto Massimo Giannini, basata sul predominio del potere politico sul potere giudiziario, in dispregio di quell´equilibrio fra poteri che è alla base di ogni Costituzione democratica.
Se avesse una maggior dimestichezza con la storia patria Berlusconi forse evocherebbe, nelle sue ville e nelle sue feste, quell´articolo dello Statuto Albertino secondo cui "la Giustizia emana dal Re ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch´Egli istituisce".
In questo scenario la riabilitazione della corruzione politica degli anni Ottanta - di questo si tratta - ha il senso di un atto simbolico interamente proiettato sul presente e sul futuro. E ha trovato, al solito, incauti ed entusiasti seguaci.
L´entusiasmo ha reso un pessimo servizio al direttore de "Il Giornale", che ha iniziato un suo editoriale di damnatio della magistratura evocando addirittura il 1974 ed attaccando frontalmente l´allora magistrato Luciano Violante, reo d´aver incriminato per tentato golpe Edgardo Sogno. "Una bufala", scrive elegantemente Sallusti. Peccato che lo stesso Sogno poco prima di morire abbia ammesso che l´accusa era pienamente fondata, e abbia affidato la sua testimonianza a un libro scritto con Aldo Cazzullo (è stato pubblicato dieci anni fa dalla Mondadori e ristampato di recente: il direttore del "Giornale" non dovrebbe avere difficoltà a procurarselo).
In quello stesso 1974 alcuni giovani pretori portavano alla luce le tangenti petrolifere e documentavano in modo inoppugnabile un salto di qualità decisivo della corruzione: non più somma di episodi ma metodo, con percentuali concordate e procedure sempre più "istituzionalizzate".
Scavò qui la talpa del degrado - non della rivoluzione, come avrebbe voluto il vecchio Marx - che portò alla crisi del "sistema dei partiti", e gli anni Ottanta furono il decennio della sua escalation. Una escalation che era sembrata allora tanto evidente quanto inarrestabile, ampiamente documentata dai processi che progressivamente si allargarono alle più differenti parti del Paese.
Era il 1984 quando un vicepresidente della Camera, di solida appartenenza democristiana, dichiarava: "Hanno reso fiorente la cultura della tangente tanto da farne la ragione di ogni attività politica". E negli anni successivi i principali quotidiani, con parole sempre più attonite e convergenti, ebbero a segnalare appunto l´affermarsi della tangente come "taglia permanente, tassa di cittadinanza", o di un potere "che incombe come fardello imposto alla società sotto forma di lottizzazioni e tangenti". O, ancora, l´"incrociarsi della corruzione dall´alto e di quella dal basso".
Di fronte alla realtà che le indagini rivelavano, Norberto Bobbio scrisse che una fine così miseranda della "Prima Repubblica" era l´espressione del fallimento di tutta una nazione. Non del solo ceto politico: dell´intero Paese.
L´incapacità di interrogarsi su quel nodo, la volontà di autoassolversi (un tratto non effimero della nostra storia) favorirono una rimozione profonda, e grazie ad essa fece progressivamente le sue fortune il progetto berlusconiano di imporre nuove e più solide forme di impunità. Un progetto sempre più esplicito e sempre più condiviso all´interno del centrodestra, i cui esponenti hanno dichiarato a più riprese nell´ultimo periodo: Berlusconi non farà la fine di Craxi perché, a differenza del Psi, il Pdl farà muro. Hanno cioè dichiarato: la salvezza del premier non risiede nella sua innocenza ma nella salda omertà di un partito in cui le "cricche" sono diventate cemento e ragion d´essere.
Su un punto il premier ha ragione: il rovesciamento incostituzionale che oggi vuol portare a termine è stato preparato in un lunghissimo scorrere di anni. E non sarebbe stato possibile senza gravissimi errori compiuti dal centrosinistra negli anni stessi in cui ha governato.
Non fu rimosso allora il conflitto di interessi, destinato così a ingigantirsi, e - ancor di più - vi furono vistosi cedimenti di fronte ad una offensiva che si basava sugli stessi cardini del disegno di legge attuale: l´attacco alla obbligatorietà dell´azione penale e la subordinazione della magistratura al potere politico. Fu questa offensiva ad avere troppo larghi spazi nella Commissione Bicamerale, favorita dalla insipiente illusione del centrosinistra di "normalizzare" Berlusconi (e il berlusconismo).
Nel momento stesso in cui affossava la Commissione il Cavaliere andò a dire a un convegno dei giovani industriali: fino a quando il potere politico non diventerà il "dominus" dell´azione giudiziaria non si potranno fare riforme in Italia (lo sottolineava con chiarezza su questo giornale Eugenio Scalfari: era il 1998).
Il progetto oggi giunge a termine, e anche oggi intreccia obiettivi concreti e atti altamente simbolici: atti destinati comunque a lasciare il segno, a scavare a fondo in un terreno che è diventato sempre più friabile, perlomeno nelle stanze della politica. E il vero bersaglio, come nei recenti (o recentemente reiterati) attacchi alla scuola pubblica, è l´essenza stessa della Costituzione.
Alcuni anni fa Christoper Lash osservava che nel mondo contemporaneo la democrazia corre seri rischi non tanto per intolleranza quanto per indifferenza. In Italia, oggi, non è più solo così: intolleranza e arroganza del potere non sembrano avere limiti, e solo la fine dell´indifferenza potrà porvi rimedio. Solo la difesa intransigente di principi e valori irrinunciabili.

Repubblica 14.3.11
Muti: io, ribelle del podio un urlo per salvare la cultura
I direttori d´orchestra non devono parlare ma era necessario: la nazione che perde la propria cultura perde l´identità
di Ernesto Assante


Riccardo Muti in prima fila contro i tagli alla cultura. Contro "la riduzione al nulla" della nostra cultura. La serata di sabato, per la prima di Nabucco all´Opera di Roma, si è trasformata in una straordinaria manifestazione sulle note del "Va pensiero".
Maestro Muti, una serata davvero speciale...
«Veramente fuori dalla norma, non preparata, ci tengo molto a dirlo. Io penso che i direttori d´orchestra non dovrebbero parlare dal podio, ma ieri, dopo l´intervento del sindaco di Roma, era necessario, importante, che anche il musicista prendesse la parola. Per un musicista come me che poi ha la fortuna di girare il mondo e vedere la realtà italiana dalle altre nazioni, e quindi soffrire per la situazione. Era doveroso parlare. Ma pensavo di aver terminato lì, dopo aver detto: "Il 9 marzo del 1842 Nabucco debuttava come opera patriottica tesa all´unità ed all´identità dell´Italia. Oggi, 12 marzo 2011 non vorrei che Nabucco fosse il canto funebre della cultura e della musica". Perché una nazione che perde la propria cultura perde la propria identità».
Cos´è accaduto allora?
«E´ chiaro che il "Va pensiero", al di la delle assurdità che si dicono dell´inno nazionale, è un canto che esprime in maniera intensa l´animo degli italiani, una nostalgia, un senso di preghiera, una profondità mediterranea che Verdi attribuisce al popolo degli ebrei schiavi ma che gli italiani hanno scelto come bandiera del loro Risorgimento. E quando l´ho diretto la prima volta ho sentito, quando il coro ha cantato "oh mia patria si bella e perduta", che quel momento fosse carico della situazione drammatica non solo per le istituzioni ma anche per la vita delle persone chiamate a studiare nei conservatori, nelle accademie, nelle università. Ho sentito che quel grido veniva dal profondo dell´animo, un grido vero da parte di chi sta vivendo questo dramma, uomini e donne che producono cultura nel nostro Paese. E lo fanno nel disinteresse sempre più grande da parte di chi deve preservare la cultura, non solo per rispetto del paese ma anche per il rispetto del mondo verso l´Italia. Il mondo non guarda a noi per le tecnologie, facciamo cose importanti ma quando si pensa all´Italia si pensa ai poeti, ai pittori, ai musicisti, ai nostri musei e teatri, a ciò che l´Italia rappresenta. È pieno di italiani - ricercatori, studiosi, medici - che sono nelle grandi università, come quelle americane, e fanno ben parlare di sé. Giovani che si fanno stimare fuori dall´Italia, perché da noi trovano difficoltà. Noi non possiamo vedere questa barca affondare, sabato sentivo che il "Va pensiero" era questo grido».
E ha deciso di sorprendere tutti
«Dovevo decidere: faccio il bis richiesto come viene chiesto, una ripetizione consolidata nell´abitudine, oppure offro a questa ripetizione un carattere nuovo, aderente alla situazione? ho pensato, il coro ha cantato, "Oh mia patria, si bella e perduta" e sicuramente se perdiamo al cultura andiamo in questa direzione, facciamo che questo grido sia contro questa operazione di riduzione al nulla della nostra cultura. Allora ho invitato, dato che il discorso doveva essere globale, tutti a cantare. Non mi aspettavo che l´intero teatro si unisse, tutti sapevano il testo. Poi, come in una situazione surreale, dal podio ho visto le persone alzarsi a piccoli gruppi, per cui tutto il teatro alla fine era in piedi, fino alle ultime gradinate. Era una specie di coralità straziata e straziante, un grido che invocava il ritorno alla luce della cultura che è la colonna portante dell´Italia, sono le nostre radici».
E il pubblico si è commosso.
«Si, ho visto nelle prime file diverse persone con le lacrime agli occhi. E´ la dimostrazione di un popolo che si sente fortemente unito, al di la dei proclami. E della straordinaria attualità di Verdi, valido anche per il futuro, con la sua grande universalità. Verdi parla all´uomo dell´uomo e resterà sempre collegato alla nostra realtà, sempre assolutamente attuale».

Repubblica 14.3.11
Potremo ancora ascoltare un concerto di Mozart?
di Mario Pirani


Oggi il presidente di Santa Cecilia, Bruno Cagli, presenterà le sue dimissioni ai 70 accademici e al consiglio di amministrazione di una delle più antiche e prestigiose istituzioni musicali del mondo (fu fondata da Sisto V nel 1585). Nel 2008 l´Orchestra permanente ha compiuto il primo secolo, in un periodo che l´ha vista risorgere a nuova vita per l´incrociarsi di due eventi, l´assunzione (2005) a direttore musicale del maestro Antonio Pappano, rivelatosi una bacchetta di livello mondiale, coincidente con lo straordinario e insperato successo del Parco della Musica, concepito da Renzo Piano, il contenitore che da sessant´anni i melomani della Capitale attendevano. La rinomanza internazionale è risultata di tale rilevanza che quest´anno l´orchestra è stata invitata a prodursi in sessanta concerti in alcune delle principali metropoli. Per esemplificare, poi, il successo basti dire che il concerto di sabato, oggi e domani (Verdi, Liszt e Mahler) ha registrato un "tutto esaurito" dei 2800 posti dell´Auditorium. Le dimissioni di Cagli vogliono essere un gesto angosciato di protesta e, comunque, l´annunciato rifiuto di gestire il catatrofico declino di uno dei punti più alti della cultura italiana, se da parte del governo non verrà un segno di resipiscenza.
"Repubblica" (11/3), a firma di Michele Serra e Roberto Mania, ha dedicato un´ampia inchiesta al dimezzamento del Fondo Unico per lo Spettacolo (da 501 a 258 milioni) per cui mi limito al caso singolo ma clamoroso di Santa Cecilia. Premesso che ben comprendo l´obbligo di seri risparmi nel bilancio pubblico, a condizione che non siano alla cieca, privi di ogni intelligenza sugli effetti perversi che possono avere e, infine, non avvengano sotto l´impulso delle beceraggini pseudo culturali di cui non pochi ministri e lo stesso premier pubblicamente si vantano. Se paragoniamo l´enormità dei tagli alla cultura rispetto ad altri settori, la spiegazione più convincente risale all´astio dichiarato da Berlusconi verso gli intellettuali, considerati inutili orpelli del "comunismo", odiati al pari dei magistrati, ma, a differenza di questi, riducibili al silenzio da un paio di forbici. Così, nel caso della musica, con prosopopea, ignoranza o malafede li si invita a decurtare spese e spettacoli. Solo due enti, difesi dalla Lega, la Scala e l´Arena di Verona si sono salvati. Santa Cecilia (i cui finanziamenti pubblici sono scesi da 13 milioni nel 2009 a 9, 7 nel 2010, a poco più di 6 nel 2011) dovrebbe ridurre drasticamente la produzione concertistica e gli standard di qualità (come prenotare con 3-5 anni d´anticipo un grande direttore?), chiudere la Bibliomediatica e il museo degli strumenti musicali, sciogliere la Juniorchestra che forma 600 bambini e adolescenti e il Coro di voci bianche. Con il risultato di aumentare le perdite in relazione alla spesa, visto che sia il personale tecnico che la massa orchestrale, come pubblici dipendenti, verrebbero egualmente pagati anche senza suonare. E, quindi, con perdita della biglietteria e di molte sponsorizzazioni che coprono più del 50% del bilancio. Senza calcolare che nel 2009 Santa Cecilia ha ricevuto dallo Stato 9,7 milioni e gliene ha riversati 6,5 di Irpef, Iva e Irap.
Infine va ricordato un principio che ogni studente di economia conosce, basato sul "teorema di Baumol", dal nome del suo scopritore: gli spettacoli dal vivo non incamerano produttività e un quartetto di Mozart impegnava nel ´700 quattro orchestrali per altrettanto tempo di oggi. Ma un lavoratore industriale di allora produce oggi, nello stesso tempo, cento volte di più. Così il suo salario è salito grazie alla produttività mentre quello dell´arpeggista lo ha seguito per trascinamento, senza alcuna produttività. Altrettanto il costo di un concerto. Ne deriva che solo se i cittadini decidono di finanziare la differenza attraverso le imposte essi possono permettersi di ascoltare ancora un concerto di musica classica dal vivo.

Repubblica 14.3.11
Declassati i nostri centri all´estero, dal Brasile agli Stati Uniti
Gli Istituti di cultura restano senza fondi
A rischio le sedi di San Francisco e Chicago, la città di Obama dove ha lavorato Piano


NEW YORK. Meno cultura italiana in Brasile; meno cultura italiana in Australia. E´ l´ora della ritirata per noi anche da Chicago, la città di Barack Obama che ai talenti italiani come Riccardo Muti e Renzo Piano ha spalancato le braccia. Domenica 6 marzo Repubblica aveva rivelato la vicenda dell´addio alla Silicon Valley: la scelta del governo italiano di "sparire" dalla culla dell´hi-tech californiana, eliminando l´unico addetto scientifico di tutta l´area (a fronte dei quattro attaché francesi, due inglesi, 13 svizzeri, quattro olandesi). Ora emerge un altro capitolo di questo smantellamento della presenza istituzionale all´estero. Lo stesso consolato italiano di San Francisco, già privato dell´unico addetto scientifico, è condannato a un´altra "amputazione". L´istituto culturale italiano di San Francisco – la città di Francis Ford Coppola e di Lawrence Ferlinghetti, che ha nella sua sfera due centri universitari come Berkeley e Stanford – è stato messo da Roma su una lista di candidati alla chisura. In subordine, se non chiuso verrà declassato a "sezione" di un´altra sede, probabilmente quella di Los Angeles. Questo significa meno risorse, meno iniziative. Si rimpicciolisce la presenza culturale dell´Italia, già ridotta ai minimi termini rispetto al dinamismo dispiegato dai concorrenti come l´Alliance Française, il Goethe Institut tedesco, lo stesso istituto Cervantes spagnolo, solo per confrontarci con i nostri simili. Questo accade in una delle aree culturalmente più importanti del mondo, oltre cheun bacino di turismo di qualità: la California ha un Pil superiorealla Francia. Un destino analogo è stato programmato anche per l´istituto italiano di Chicago, proprio mentre Obama ha "investito" nella sua città con l´elezione a sindaco del suo ex capo di gabinetto Rahm Emanuel. Eppure Chicago, una delle più vaste metropoli degli Stati Uniti, è in piena fioritura culturale: lo dimostra anche la sua capacità di valorizzare grandi nomi della creatività italiana come Riccardo Muti, chiamato a dirigere la sua orchestra sinfonica; e Renzo Piano che ha "firmato" la nuovo ala del prestigioso museo cittadino d´arte moderna. In fatto d´italianità, Chicago è anche il cuore del Midwest dove la vicina Detroit sta diventando l´altro polo del gruppo Fiat-Chrysler. Ma neanche questo basta ad arrestare la scelta di impoverire le istituzioni che dovrebbero promuovere l´immagine della cultura italiana. Altrettanto singolare è la scelta degli altri istituti di cultura condannati a regredire come "sezioni", appendici di località lontane. Rio de Janeiro? E´ il cuore di una nazione di 200 milioni di abitanti – tra cui una robusta componente di origini italiane – che è diventata la "prima lettera" di un acronimo celebre: il Brasile evoca i Bric, con Russia India e Cina il gigante sudamericano forma il club delle nuove potenze. Ed è a Rio che va Obama, in un viaggio cruciale in cui vuole prendere le misure del nuovo rivale nell´emisfero Sud. E Sidney? E´ nel cuore dell´area Asia-Pacifico, nuovo baricentro verso cui si riorganizzano i flussi di commerci e di idee del pianeta. Dietro i tagli, sembra esserci quasi una strategia scientifica di auto-emarginazione dailuoghi che contano. Sono nazioni dinamiche, destinate ad avere un peso crescente nei nuovi equilibri mondiali, sono aree ricche di tutto fuorché di una cosa: quelle tradizioni artistiche, quel patrimonio culturale che ancora segna l´immagine dell´Italia all´estero.

Corriere della Sera 14.3.11
La cultura lancia un grido
I tagli sono la nuova censura

di Armando Torno

Le parole di Riccardo Muti, sul podio del Nabucco a Roma, dedicate alla «ignominiosa scure che si è abbattuta sulla cultura», dovrebbero indurre a un’ulteriore riflessione i signori del Palazzo. Si uniscono a quelle di Daniel Barenboim, pronunciate alla prima di Sant’Ambrogio alla Scala e rivolte al presidente Napolitano, ma anche a quanto ha proferito l’attore e regista Tata Russo in coda alla recita di venerdì scorso de Il fu Mattia Pascal al Teatro di Varese (presente in sala il ministro Maroni): «... altri 27 milioni al Fondo dello spettacolo... ma perché non potevate tagliare le auto blu?» . E Sergio Escobar, direttore del Piccolo di Milano, parla di «situazione tragica» , sottolinea l’ipocrisia «di maggioranza e opposizione» , ricorda che si discetta sulle fondazioni liriche ma che il teatro sta peggio ed è ormai al collasso, tanto che «per il solo Piccolo negli ultimi tre anni il taglio supera il 60 per cento» . Non sono che esempi di un disagio ben diffuso, al quale i politici hanno risposto come potevano, nella maggior parte dei casi facendo spallucce. Se ne sono sentite di tutti i colori dopo l’annuncio dei tagli, compresa l’assiomatica dichiarazione che non si mangia con la cultura; e nel battibecco che ha caratterizzato l’amputazione delle risorse si è capita una sola cosa: la tanto osannata cultura in questa Italia in crisi — e sprecona al tempo stesso— non potrà più essere considerata valore o investimento. E allora cos’è? — in verità non lo sappiamo, o meglio: non lo sappiamo più. Se il mondo dei colti ci stima per il nostro Rinascimento o per i miracoli della musica dei quali il Belpaese è stato per secoli la culla, chi tiene le redini risponde credendo che l’Italia sia altro. Ma non è così, e le parole di Muti e di tutti gli altri lo dimostrano. C’è insomma un popolo che ripete come nel Risorgimento in faccia all’occhiuto gendarme: «Viva Verdi!» . Non intende invocare l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele e la cacciata dello straniero, ma soltanto dire che la nuova censura sono i tagli.

Repubblica 14.3.11
Qualche settimana fa il corpo di un giovane è stato trovato in una baita della Valle d´Aosta. Era sparito 9 anni fa. Molti fanno come lui
Quei ragazzi che sognano una vita "Into the wild"
di Fabrizio Ravelli


Racconta un sacerdote: in tanti cercano Dio e per qualcuno di loro diventa ossessione
Il loro esempio è il personaggio raccontato nel film diretto dal regista e attore Sean Penn

PONT SAINT-MARTIN La notizia è passata inosservata ai più. In una baita abbandonata, nella frazione di Ivery, si sono trovati i resti di Andrea Giardino. Era sparito nel 2002, quando aveva 27 anni. Qui in montagna aveva vissuto per tre settimane, girovagando solo, con uno zaino e una tenda, digiunando e pregando, silenzioso e gentile. Qualcuno ha pensato al protagonista di Into The Wild, il romanzo di Jon Krakauer e il film di Sean Penn. Raccontavano la storia vera del ragazzo americano che lasciava tutto - famiglia, studi, denaro, amici - per cercare l´assoluto della natura, e moriva sperso in Alaska. Andrea Giardino cercava Dio, interrogandosi su cosa fossero il Bene e il Male, e vedendo nero nella sorte del mondo. Era la sua Quaresima, la purificazione dai dubbi e dalle sofferenze. Lo fanno in tanti, di andare a cercare una verità divina salendo in alto, sulle montagne più vicine al Padreterno. C´è chi prenota soggiorni regolari, e chi semplicemente si incammina.
Ora, si può anche dedicare un solo pensiero fuggevole a quel povero ragazzo sventato che morì per il freddo e il digiuno. Una storia minima, forse. Non certo per Corrado e Giuliana, fratello e sorella, quel che restava della sua famiglia, che per nove anni l´hanno cercato, hanno sperato che fosse missionario in qualche paese lontano, hanno scrutato i volti di ogni senzatetto incontrato per strada o buttato sotto un portico. Ma poi: chi di noi non ha mai pensato, magari solo per qualche sbrigativo momento, a scappare dal frastuono del mondo? Non serve una crisi mistica per desiderarlo. Oppure si crede in Dio, e si cerca un luogo per avvicinarlo. Sulle montagne della Val d´Aosta sono molti, questi luoghi. «C´è chi semplicemente reagisce alla vita che si vive nelle grandi città», dice padre Paolo, della Casa Ospitaliera del Gran San Bernardo, a Saint-Oyen.
Andrea si sentiva un po´ eremita, anche se a tempo: non voleva morire, e sarebbe tornato. Eremiti, su queste montagne, non ce ne sono più. Ma sono migliaia quelli che vanno a cercare silenzio e meditazione nelle molte comunità religiose della Valle. Si sale più in alto, ascesi e ascensione hanno qualcosa in comune. Andrea con la montagna non aveva familiarità, era pugliese. Ma quando ha scelto un luogo per la sua personale Quaresima solitaria, ha preso zaino e tenda ed è salito fin qua. Allora, nove anni fa quand´è scomparso, l´hanno cercato dappertutto. Non così accuratamente, forse.
Corrado, il fratello, dice: «Quando sono salito allora lassù, con una troupe televisiva, siamo finiti in una baita dove un religioso, che era anche psicologo, mi disse come molti giovani di passaggio venissero da loro accolti e accuditi, senza fare troppe domande. Ricordo che la cosa mi diede conforto, perché mi fece pensare che la sorte di Andrea era parte di una cosa più ampia». Andrea però era già morto, e il fratello racconta come l´hanno trovato: «S´era sistemato in quella baita con un certo ordine. La cartella coi suoi scritti appoggiata su un davanzale. La tenda smontata era dentro la mangiatoia. C´erano lo zaino e la pentola. Lui era steso sul materassino gonfiabile. Addosso aveva tutti i suoi vestiti, per difendersi dal freddo: una maglia di lana, due maglioni, la giacca a vento appoggiata sopra, e sopra ancora il sacco a pelo aperto. Aveva appeso al muro un quadretto sacro: Gesù Bambino che tiene in braccio un agnello, la scritta Ecce Agnus Dei. Andrea aveva la testa voltata da quella parte. S´è addormentato guardando quell´immagine, e io voglio pensare che non abbia sofferto».
Piegato dal freddo e dal digiuno. Solo qualche pezzo di pane ogni tanto. Qualche castagna raccolta e fatta bollire. La gente del posto ormai lo conosceva. Silenzioso, non si fermava a parlare, rispondeva a monosillabi. Gentile, però. Sempre più magro, e affaticato: non reggeva più di pochi passi in salita». «Al telefono, qualche giorno prima che partisse, mi aveva detto: "Andrò dove mi porta Dio, e se Dio vuole che mangi, mangerò», racconta la sorella Giuliana. Le sue carte sono fitte di appunti dalle Scritture. Ci sono le minute di tre lettere. Andrea rimuginava rancori per la sua vocazione religiosa frustrata. L´avevano allontanato dal noviziato, giudicando che la sua spinta mistica fosse viziata e ossessiva.
«Ci sono molti giovani che fanno esperienze simili, di raccoglimento e di preghiera - dice Franco Lovignana, vicario generale della Diocesi di Aosta - Ne vediamo tanti. Ma sempre in forme organizzate, presso comunità della Valle». Quella di Andrea era disorganizzata e sì, piena di ossessioni silenziose. «Scrisse - dice il fratello - che il mondo stava andando verso la rovina. Che la crisi avrebbe provocato paure e guerre sanguinose». Andrea, dicono Corrado e Giuliana, era un ragazzo giocoso e allegro, un bravo figlio solitario imprigionato nella sua ricerca del Padre. E che questa sia una storia minima, può anche darsi.

Repubblica 14.3.11
Contrordine, lo stress fa bene ecco lo studio che smonta i falsi miti sulla longevità
Dallo sport al lavoro, le sorprendenti scoperte su stili di vita e salute
La mega-ricerca Usa è durata 90 anni: 1.500 bambini seguiti dalla culla alla morte
di Angelo Aquaro


NEW YORK - Stressati di tutto il mondo rilassatevi. Non è vero che vivere sempre in tensione accorcia la vita. Anzi. La ricerca continua della condizione migliore - a costo appunto dello stress - è un toccasana per la salute.
Sì, il più completo studio mai eseguito sulla longevità fa piazza pulita dei luoghi comuni sull´elisir di lunga vita. Cancellando quello slogan diventato il simbolo del vivere serenamente: "Take it Easy" - non te la prendere. E chissà come la prenderanno, adesso, i profeti del sorriso a tutti i costi. Quelli che accontentati perché altrimenti la salute. Quelli che prendi moglie o marito e vedrai che passa. Quelli che a mio figlio lo mando a scuola un anno prima così parte in vantaggio - quando invece qui si dimostra che i bambini condannati alla "primina" sono stressati nella maniera peggiore: troppe aspettative da piccoli.
Per carità. "The Longevity Project" non è l´elogio della vita spericolata. Piuttosto la conclusione che solo un valore al di sopra degli altri ci può portare a vivere meglio: e si chiama consapevolezza. Sono le persone coscienziose quelle vivono più a lungo. Il motivo?
La ricerca firmata da Howard S. Friedman e Leslie Martin è il punto di arrivo di uno studio cominciato nel 1921 da un mago della psicologia: Lewis Terman. Che nella sua Stanford University si lanciò un secolo fa nel suo progetto più ambizioso: inseguire appunto il segreto della lunga vita esaminando le risposte di 1500 americani seguiti dalla scuola alla bara. «Le tradizionali ricette che vengono date a chi vuole migliorare la propria salute (relax, mangiare più vegetali, perdere peso, sposarsi) sono certamente funzionali per qualcuno ma non funzionano e sono economicamente controproducenti per altri», scrivono oggi i due ricercatori che hanno raccolto la staffetta in "The Longevity Project". Smontando uno dopo l´altro 12 falsi miti. Compreso quello attribuito al grande Woody Allen: "Se vuoi vivere come un centenario rinuncia a tutte le cose che ti fanno voler vivere fino a cent´anni".
Prendete, per esempio, il matrimonio. Avere matrimoni stabili è indice di longevità. Ma quando la vita di coppia è una prigione le donne che divorziano vivono meglio e più a lungo degli uomini (che invece soffrono la separazione). Non solo. Lo studio dimostrerebbe che l´addio dei genitori espone fatalmente i bambini a una vita meno lunga. Ma allora qual è questo elisir di lunga vita?
È una questione di misura: inutile dannarvi nello jogging e nello sport se poi vi rovinate la vita per starci dietro. Ma se una passeggiata con gli amici vi rilassa vale più di cento flessioni al giorno. «Ci sono tre ragioni perché la gente più coscienziosa vive più a lungo» scrivono i due studiosi. «La prima e più ovvia è che fa più cose per proteggersi: non fuma, beve meno, in auto non corre. La seconda è che sembra biologicamente predisposta ad avere questo tratto della personalità: e a essere quindi più sana. Ma la terza è la più intrigante". E cioè? «I più coscienziosi si trovano sempre in situazioni e relazioni sociali più sane".
Eccolo qui: è il "social health" - Il valore sociale della salute. I più coscienziosi sono quelli che hanno modo di trovare i matrimoni migliori. Le amicizie migliori. Perfino gli ambienti di lavoro più sani. Magari senza quel collega che a ogni lavata di capo del boss vi fa uscire ancora più dai gangheri: «Non te la prendere - Take it easy...».

Repubblica 14.3.11
Se vivere più a lungo diventa un'ossessione
Spesso confondiamo il prolungamento della nostra esistenza con la dilatazione della vecchiaia
di Umberto Galimberti


Ma cos´è questo desiderio di allungare il più possibile la vita? Un cascame della perduta fede nell´immortalità dell´anima o il terrore che ci assale quando pensiamo di doverci congedare da tutti i nostri affetti, e soprattutto dall´amore che ciascuno di noi nutre per sé? O ancora un riflesso di quella mentalità occidentale che non riesce a pensarsi se non in termini di "crescita", senza più nessun riferimento a quella saggia nozione greca che non disgiungeva la felicità dal concetto di limite e di giusta misura?
Probabilmente tutte queste cose. Ma è davvero la vita quella che la scienza medica ha già allungato e ancora promette di allungare di più, o non piuttosto la vecchiaia, quasi ci provasse gusto a farci assistere al decadimento del nostro corpo, allo svuotamento di ogni orizzonte progettuale, alla contemplazione prolungata oltre ogni limite di quell´unico traguardo che inesorabilmente ci attende, e che alla fin fine è pur sempre la morte?
Sarebbe a questo punto necessario che gli scienziati non confondessero la vita col semplice prolungamento del nostro quantitativo biologico, incorrendo nello stesso fraintendimento degli uomini di religione, i quali, a loro volta, confondono la vita con la semplice animazione di un organismo che, senza il soccorso della strumentazione tecnica, non riuscirebbe a vivere.
Riconsegniamo allora alla vita la sua dignità che non risiede nel suo prolungamento, perché, se anche l´organismo, grazie alle scoperte scientifiche che instancabilmente si succedono, dovesse prolungare di anni la sua sempre più malconcia esistenza, c´è pur sempre una psiche che, nel deserto di qualsiasi progettualità, costringe i vecchi ad assaporare ogni giorno la loro insignificanza sociale, in quella solitudine assistita da estranei, dove non sai mai quando un sentimento è sincero.
Ebbene questa psiche desidera che i giorni smettano di susseguirsi con quella monotonia e regolarità scandita da pratiche abituali, da gesti rituali, ogni giorno gli stessi, in cui ci si sente gettati fuori dal "tempo progettuale" di cui si alimenta la vita quando è vita, e ricacciati in quel "tempo ciclico", che non è propriamente dell´uomo, ma della natura che, per garantire la continuità della specie, non prevede l´immortalità degli individui e neppure una loro vita troppo prolungata, in quell´orizzonte opaco e buio dove è difficile reperire un senso, e non dico la gioia e neppure la felicità.

Repubblica 14.3.11
Le idee di Riccardo Cavallero, direttore generale del gruppo Mondadori
"Noi editori nell'era web saremo solo bibliotecari"
di Luciana Sica


Tra i suoi libri preferiti mette Gomorra. "Non venderemo qualcosa ma lo presteremo, ci saranno canali tematici e sarà il lettore ad avere il potere: deciderà anche il prezzo"

L´era Gutenberg non è finita, anzi è destinata a continuare, ma sarà la rivoluzione digitale di Internet a segnare il futuro dei libri. «Il potere passa dall´editore al lettore, è lui a decidere cosa vuole, quando lo vuole e a quale prezzo»: a dirlo, in un´intervista uscita ieri sul País, è Riccardo Cavallero, direttore generale dei Libri del gruppo Mondadori in Italia, Spagna e America latina (compresi dunque i marchi Einaudi, Piemme, Sperling & Kupfer, oltre alla newyorchese Random House). Manager di segno cosmopolita, è nato 48 anni fa vicino a Torino, ha vissuto in America, poi in Spagna, e ora è a Milano. Tra le sue preferenze letterarie, indica anche Gomorra di Saviano.
A suo dire, intanto non è il libro on line a determinare quel cambiamento radicale nell´universo dell´editoria che paragona a una rivoluzione copernicana. Cavallero: «L´e-book in sé non vale niente. Nasce già vecchio. Quel che conta è la rivoluzione digitale. Come avvenne per i dinosauri, per sopravvivere bisognerà cambiare habitat, e invece molti editori non sono ancora pronti, non hanno la forza mentale per cambiare il proprio modo di lavorare, tenendo conto dei gusti di chi sta dall´altra parte. Finora siamo vissuti in una bolla di lusso dov´era possibile prescindere dal lettore: ora invece, per la prima volta, dovremo capirlo».
Più difficile da dire è come cambieranno gli editori, in che tempi, e soprattutto: che fine faranno i diritti d´autore? Azzarda Cavallero, un po´ ridendo: «L´editore diventerà un bibliotecario: non venderà qualcosa, ma lo presterà. Nel mondo digitale, avrà qualcosa di simile alla televisione a pagamento, con alcuni canali che vengono venduti a sottoscrizione... Inevitabilmente, si dovrà trovare anche una formula nuova per liquidare i diritti e non sarà più possibile farlo nel modo semplice di oggi: per ogni esemplare venduto. Il cambiamento avverrà tra una ventina d´anni, probabilmente, ma già ora il digitale fa nascere un mucchio di problemi agli avvocati che devono quantificare la somma destinata al pagamento dei diritti d´autore».
Ci sono anche dei rischi, però. I pirati sono lì che aspettano che diventi redditizio rubare libri. «Sì - dice Cavallero - ma i pirati sono gli unici a conoscere davvero i best seller. Per un autore, subire atti di pirateria informatica è quasi una soddisfazione perché significa che sta vendendo molto. Il pirata non sbaglia mai! Più seriamente, la pirateria è un problema molto doloroso, in alcuni Paesi più che in altri, ma non è la polizia che deve risolverlo. Bisogna trovare una soluzione economica a livello editoriale...».
Quale sarà la ricetta giusta? «Intanto dobbiamo cambiare la nostra mentalità e saper costruire una struttura economica all´altezza del cambiamento. Quando dico che perdiamo il potere, è proprio questo: non comandiamo più noi. Non possiamo più dire: "Questo te lo do, questo non te lo do". Perché ti dicono: "Se non me lo dai, lo troverò, c´è da qualche parte...". Si dovrà allora rispettare davvero il consumatore, dargli quello che vuole e al prezzo che vuole. Se non ne saremo capaci, non avremo meritato di continuare a fare gli editori. È la cosiddetta selezione naturale. Credo che Darwin continui a essere il mio faro!».
Nella lunga intervista al quotidiano spagnolo, tra le righe rimane sospeso un tema cruciale: la qualità dei libri nell´universo digitale. Ma Cavallero non elude la questione: «Attenzione. Come editori, vincerà la scommessa chi riuscirà a lavorare sul contenuto. Il mio obiettivo è vendere, e per questo non credo che scomparirà il libro di carta. Del resto, come per i giornali, penso che siamo all´alba del digitale... Dobbiamo però avere il coraggio di rinunciare ai privilegi che abbiamo raggiunto e che ci hanno permesso di avere una posizione leader finora. Come per tutti i momenti di cambiamento, può essere doloroso, scomodo, basti pensare che finora controllavi tutto, sapevi tutto del tuo mondo. Adesso invece bisogna assumersi dei rischi, avere una grande curiosità, sperimentare, e soprattutto essere pronti a sbagliare. Chi nei prossimi cinque anni non sbaglierà, e non sbaglierà in modo importante, non ci sarà più tra dieci anni».

Corriere della Sera 14.3.11
Lovecraft, i sogni anticipano la scienza
L’altro volto dello scrittore: un fine teorico del fantastico e dell’horror
di Giulio Giorello


Volete una definizione di quello che dovrebbe essere uno scrittore del fantastico? «È il creatore di un mondo che non è mai esistito e mai esisterà, e che pure abbiamo sempre conosciuto e bramato nei nostri sogni» . Così Howard Phillips Lovecraft (1890-1937), il «solitario di Providence» che ha inventato un’intera mitologia con il dio Cthulhu e i suoi ancor più esecrabili colleghi. Ora il volume Teoria dell’orrore, che in Italia vede la luce grazie all’attenta cura di Gianfranco de Turris (Bietti, pagine 556, e 24), offre al lettore l’altro volto di Lovecraft, quello di teorico e di critico letterario. Streghe, lupi mannari, vampiri, fantasmi e demoni hanno «abitato» il folclore di tutti i popoli e di tutte le epoche, e c’è davvero da chiedersi se «l’età del disincanto» li abbia relegati tra i ferrivecchi della superstizione. Lovecraft rispondeva di no: «L’elemento spettrale nella letteratura» resta «una branca essenziale dell’espressività umana» di cui non sarà facile fare a meno, «il tema tenebroso» per eccellenza... Lovecraft era un sincero entusiasta del «materialismo» , che per lui equivaleva alla scienza, capace di individuare i meccanismi reali dei più diversi fenomeni, senza lasciare spazio ad alcuna illusione «metafisica» . Per esempio, è inutile rimpiangere qualsiasi «perduta immortalità» ; piuttosto, «un’intelligenza ben temprata non teme nulla e si appaga di prendere la vita per quello che è, e di servire la società nel miglior modo possibile» . D’altra parte, non si possono non riconoscere le motivazioni egoistiche di gran parte della civiltà. «Persino i movimenti religiosi più importanti hanno una loro storia segreta, e di natura quasi sempre materialistica» . Lovecraft interpretava l’evoluzionismo come aveva fatto non molti decenni prima un bizzarro lettore tedesco di Darwin. Con l’avvento della mentalità scientifica sbiadiscono i valori della tradizione, ma «se oggi siamo meno pii, significa anche che siamo meno ipocriti. Una dozzina di finti santi non fa un onesto Nietzsche» . Potremmo anche dire che è tutta questione di prospettiva: «Un uomo un giorno può sentire che esiste una divinità e un altro giorno sentire che non ne esiste alcuna» . E quando si tratta non di divinità bensì delle forze fondamentali della fisica o della struttura della cellula, non c’è più la libertà del sentimento ma il rigore della ragione. Lovecraft finiva così con l’imbattersi nell’obiezione che gli muovevano i suoi critici più sottili. Perché scrivi di mostri e spettri, se sai che non ci sono? E non fare la figuraccia del filosofo materialista Thomas Hobbes, di cui malignamente si sospettava che di giorno negasse l’esistenza di qualsiasi entità incorporea, mentre di notte tremava per il terrore che «le anime dei defunti venissero a tirarlo per i piedi» . Orfano di qualsiasi Dio clemente e misericordioso, Lovecraft invitava allora a guardare alla miseria della condizione umana: siamo animali fragili, circondati da un ambiente ostile, cui la salvezza del singolo individuo è indifferente. Scienza e tecnica rappresentano così il «guscio» che protegge ogni essere cosciente dal timore dell’ignoto; ma se le cose stanno così, non è tanto in gioco l’esistenza di questo o quel mostro, demone o vampiro che dir si voglia, ma il senso profondo di «un orrore latente nella stessa natura» . Con un’intuizione straordinaria, Lovecraft traccia la storia del genere fantastico e horror uscendo dai limiti di quello stesso genere letterario, che ora gli appare uno scandaglio per investigare il movente più autentico della formazione della società civile: la paura, come aveva dichiarato appunto Thomas Hobbes! La fisica penetra sempre più nei misteri dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, la biologia svela caratteristiche sorprendenti della vita, la psicologia chiarisce i meccanismi dell’inconscio e l’antropologia mette in luce gli aspetti più segreti delle culture che si sono succedute nella storia. Ogni progresso sposta di continuo il confine tra ciò che è noto e quel che non è ancora conosciuto e questo fa sì che il senso della meraviglia (che non è soltanto fascino del bello, ma pure rivelazione di ciò che fa «rizzare i capelli in testa» ) cambi nel tempo. In altre parole Lovecraft ci regala una concezione della letteratura fantastica come strumento che ci permette di intuire quel che il pensiero scientifico non ha ancora compreso, mentre questo a sua volta rimodella di continuo i modi dell’immaginazione. Mentre magistralmente analizzava i grandi affreschi dei cantori delle «anime dannate» — da Dante a Shakespeare— e le fantasie dei colleghi che mescolavano racconto «gotico» e fantascienza, Lovecraft percepiva, magari oscuramente, il potere sovversivo delle nuove concezioni della natura e della psiche (non a caso cominciava negli anni Trenta a dipanarsi il dialogo tra un fisico «luciferino» come Wolfgang Pauli e un analista del profondo come Carl Gustav Jung). E gli universi di sogno del grande erede di Edgar Allan Poe se da una parte ci possono ricordare gli archetipi della psicoanalisi, dall’altra aspiravano a essere delle rappresentazioni figurate di un caos primigenio che nessuna teoria scientifica avrebbe potuto domare per sempre. Chissà quale «battito di nere ali» immaginerebbe Lovecraft se vivesse oggi, all’epoca degli «infiniti universi» della nuova cosmologia o delle chimere promesse o temute dalle biotecnologie.

Corriere della Sera 14.3.11
Alle radici del nostro pensiero la scossa che fermò l’Illuminismo
di Giuseppe Panissidi


Nel cuore pulsante della modernità, or sono due secoli e mezzo, un evento catastrofico innescò un movimento di pensiero e di coscienza che si situa alle radici vive della nostra contemporaneità: il terremoto di Lisbona del 1755. A causa della sua straordinaria potenza, pari al nono grado Richter, tra le devastazioni in Portogallo e nel Nord Africa, l’Europa tremò per sei interminabili minuti. E una straordinaria temperie spirituale, l’Illuminismo, d’un tratto si fermò, ripiegando su se stessa. A meditare intensamente e ripensare i suoi pur rigorosi paradigmi culturali, la sua stessa visione della storia e dell’uomo. Quando migliaia di bambini muoiono sulla soglia della vita, gli uomini soffrono. E pensano. Il dibattito che si accese propone ancora domande di senso cui sarebbe difficile, oltre che insensato, sottrarsi. Classicamente, Jean-Jacques Rousseau non esita ad alzare la frusta contro la tracotanza e l’avidità degli uomini, i quali, da un lato, sfidano la natura attraverso un’ampia gamma di pratiche dissennate, come le costruzioni più ardite, destinate, presto o tardi, a rovinare su loro stessi; dall’altro, in caso di sisma, anziché cercare di mettersi subito in salvo, perdono tempo prezioso per salvare i loro averi. Eppure, secondo un emblema dell’eroismo e della gloria immortale, l’Achille omerico, «nulla vale (quanto) la vita» . Di converso, Voltaire coglie l’opportunità storica per esaltare la dignità dell’uomo, la sua speciale capacità di elevarsi con il pensiero al di sopra di se stesso e di ogni sciagura, fino ad abbracciare il cosmo intero. Ogni responsabilità, pertanto, ricade sulla natura, che gli uomini purtroppo non possono interrogare perché muta. Sicché, contrariamente all’assunto di Leibniz, non vi sono «ragioni» per ogni cosa — «il naso non esiste per appoggiarvi gli occhiali» — in un mondo che non è «il migliore di quelli possibili» . Né punizioni divine: Candide è solo di fronte al silenzio di Dio. Ed ecco la mossa spiazzante di Rousseau: una morte prematura e «ingiusta» non è di per sé un disvalore, non è il «male», poiché può preservare da mali peggiori, i mali causati dagli uomini, i più difficili da comprendere e sopportare. Su questo terreno incrocia il percorso di Voltaire. Il terremoto di Lisbona, invero, segna la fine di ogni ottimismo di maniera, le leopardiane «magnifiche sorti e progressive» e, nel contempo, l’alba del nostro disincanto, intriso di quella peculiare forma di realismo che Nietzsche, nella Nascita della tragedia (1872), chiamerà «pessimismo della forza» . Patente il rimando al sano e potente spirito vitale dei greci del V secolo, l’epoca delle tragedie, il cui «Sì!» alla Vita esprime la capacità di sostenere il pessimismo della tragedia, purificandosi — catarsi tragica— e attrezzandosi— pathei mathos: apprendimento mediante il dolore — di fronte alle  «prevedibili imprevedibilità» della natura e della vita. Da qui anche il richiamo leopardiano alla necessità di realizzare un’istanza cooperativa interumana, un contro-movimento laterale e solidale, rispetto alla possibilità e al rischio dello «spaesamento» . E dell’annientamento. Noi non abbiamo ancora l’esatta percezione della dimensione distruttiva del cataclisma in Giappone. E tuttavia le riflessioni meramente «tecniche» di queste ultime ore, impietosamente già tradiscono una radicale insufficienza e inadeguatezza: ri-scoperta della natura quale massima potenza, vulnerabilità della potenza tecnologica, analisi comparative condizionali (se fosse avvenuto da noi…), disquisizione sul tema della «prevedibilità» , controversia sul nucleare, «il terribile già accaduto» (Martin Heidegger), etc. Nell’oblio di un’elementare verità: credenti e non, ricchi e poveri, sani e malati, siamo ospiti (non sempre graditi), non signori del cosmo: enti naturali finiti e incompleti, fatti per (cercare di) conoscerlo e viverci nell’armonia possibile, affrancati da distopie di manipolazione e dominio, perseguite con lo scopo di «deviarne» con modalità improbabili e intrusive leggi e dinamiche. Se milioni di bambini nel mondo continuano a morire di stenti, ciò non è imputabile agli tsunami, ma a un legno storto che pretende di esibire le criticità del raddrizzamento come alibi per diventare sempre più marcio. Impunemente. Valga il vero: il marciume ci appartiene interamente, interpella e tradisce senza tregua la nostra tragica grandezza. Con specifico riferimento al nostro angolo di mondo, il presidente della Cei ha recentemente evocato l’immagine del «disastro antropologico » e certamente alludeva anche alla nota varietà di psicodrammi. Come, vedi caso, il conflitto politica-giustizia. Dove, se il Novecento ci ha opportunamente istruiti, la vittoria della prima sulla seconda non può che tradursi in una sconfitta generale, non di questo o quel magistrato più o meno solerte. Bensì della civiltà, e di ogni pratica del rispetto: dell’idea profonda— da Cicerone a Montesquieu — del diritto e della legge come «mente» del corpo sociale e garanzia degli equilibri istituzionali. Nonché dello scopo prioritario di sostenere una comunità di condivisione sull’interpretazione dell’interesse collettivo di lungo termine della comunità civile e politica. Non sembra il modo migliore per celebrare il centocinquantesimo dell’Unità. Dopo, se e quando avremo adempiuto i nostri umanissimi doveri individuali e collettivi, morali e civili, avremo anche il diritto di imprecare contro i sismi. Non ora, non ancora, quando «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza» (George Orwell, 1984). Soltanto dopo.

domenica 13 marzo 2011

l’Unità 13.3.11
UN MILIONE nelle piazze italiane per la Costituzione e la scuola pubblica
L’Italia che non si piega
«Ai diritti non rinunciamo»
Bersani: «Una piazza per l’alternativa» Al corteo dal Pd a Fli
Sfilano in difesa della Costituzione per le vie del centro di Roma i dirigenti del Pd, dell’Idv, di Sel e anche di Futuro e libertà. Ma dal Terzo polo si precisa che non ci saranno sante alleanze e che ognuno va per conto suo.
di Simone Collini


Questa non è una piazza contro, è una piazza per l’alternativa». Pier Luigi Bersani sfila per le vie del centro di Roma e per prima cosa nota che nel corteo «non c’è un animo contro, ma per un’Italia diversa». Sul bavero destro della giacca porta una coccarda tricolore, sul sinistro il simbolo che il Pd aveva sfornato l’autunno scorso per la campagna a difesa dell’istruzione: un paio di occhialoni con dentro scritto «guardiamo al futuro, crediamo nella scuola pubblica». Così com’era sceso in piazza il 13 febbraio per la manifestazione in difesa della dignità femminile, anche questa volta il leader del Pd ha voluto esserci: «Un grande partito come il nostro deve af-
fiancare questo grande movimento e dargli la mano, politica e società civile devono stare insieme. Berlusconi si avvinghia su se stesso, resiste e ha grinta, ma noi ne abbiamo di più».
L’ITALIA S’È DESTA
Il Pd è convinto che il governo potrà anche resistere in Parlamento grazie ai transfughi, ma che tra l’elettorato il premier goda di una percentuale di fiducia molto bassa (gli ultimi sondaggi arrivati al Nazareno parlando del 35%) e che quest’onda che per ora si sta sviluppando a livello di piazza si farà sentire anche alle urne con le amministrative di metà maggio. «È un fatto straordinariamente positivo che dopo lunghi mesi di apatia l’Italia s'è desta», dice con un sorriso Anna Finocchiaro. «Abbiamo iniziato noi l’11 dicembre ricorda la capogruppo del Pd al Senato ma piuttosto che scavalcati siamo felici che fuo-
ri dai partiti e dai sindacati, il popolo italiano scenda in piazza». La riuscita di questo corteo per Dario Franceschini è la dimostrazione che «gli anticorpi della democrazia italiana sono molto più forti dei virus di Berlusconi». E il fatto che tanta gente si sia mobilitata «senza nessuna organizzazione alle spalle» è per il capogruppo del Pd alla Camera «la prova di quanta voglia ci sia di voltare pagina».
CIASCUNO PER CONTO SUO
Rimane però il nodo di un’opposizione che sta procedendo in ordine sparso, come in un certo senso si vede anche alla manifestazione di Roma. Se il leader di Sel Nichi Vendola non partecipa a causa della cancellazione del volo da Bari (ci sono però Fabio Mussi e Franco Giordano), quello dell’Idv Antonio Di Pietro rimane a Napoli per lanciare la candidatura di Luigi De Magistris, dichiarando comunque che questa è «una giornata di festa e di riscossa della società civile, dei cittadini onesti e stanchi di subire le scelte autoreferenziali del governo» (a Roma sfila Leoluca Orlando). E se anche sono in piazza molti esponenti di Futuro e libertà da Flavia Perina ad Aldo Di Biagio ad Antonio Buonfiglio Fabio Granata sottolinea che «non è attuale l’ipotesi della Santa alleanza». Anche l’Udc ha aderito, ma ci pensa Pier Ferdinando Casini da Torino (per un convegno su Donat Cattin) a sottolineare che «c’è una opposizione imperniata sul Pd e una moderata del Terzo polo, ed è chiaro che ciascuno va per conto suo».

il Fatto 13.3.11
Per fortuna c’è la Costituzione
di Bruno Tinti


Ho partecipato a una trasmissione radiofonica sulla epocale riforma della Giustizia progettata da B&C. Per farmi iniziare bene la giornata (erano le 8 di mattina), il conduttore mi ha informato che Santanchè aveva affermato su non ricordo quale giornale, che i magistrati di Bergamo dovevano dimettersi perché “se avessero impiegato per le ricerche le stesse risorse e tecnologie che hanno speso per indagare sulle ragazze dell’Olgettina forse Yara sarebbe ancora viva”. Non sono riuscito a trovare commenti adeguati. Poco dopo è intervenuto Gasparri che si è lamentato perché io avevo detto, parlando della riforma (dopotutto questo era il tema della trasmissione) “questa gente dovrebbe spiegarmi perché istituire un secondo Csm ridurrà i tempi dei processi”. Non gli è piaciuto il termine “gente”, ha detto che era “offensivo e minaccioso”. Anche qui non sono riuscito a trovare commenti adeguati. Naturalmente, sullo specifico problema che avevo sollevato, Gasparri nulla ha detto.
Intanto B&C hanno portato la riforma in Consiglio dei ministri: e da qui andrà in Parlamento. Diciamo che, come nella migliore tradizione, c’è una notizia buona e una cattiva.
QUELLA CATTIVA: la riforma epocale l’hanno studiata Alfano e Ghedini, buoni giuristi al servizio, ahimè, di cause sbagliate (soprattutto Alfa-no che non è l’avvocato di B. e che non ha nel suo mandato di impedire che questi finisca in prigione). Sicché, hanno scritto una riforma ottima per B&C ma pessima per il paese: per i motivi che sto spiegando da 4 anni (prima in un paio di libri e poi con i miei articoli), la riforma darà il colpo di grazia alla giustizia italiana che non riuscirà più a mettere in prigione un solo delinquente. Il che, d’altra parte, è proprio quello che vogliono, visto che tra quelli che ci dovrebbero andare ci sono B. e molti suoi C. Ma, nonostante questo, sarà approvata dal Parlamento perché sarà votata da Santanchè, Gasparri e tanti altri noti giuristi che, senza capire un acca di quello che fanno, metteranno la croce dove gli verrà detto; e, nel frattempo, pronunceranno frasi immortali come quelle che vi ho raccontato all’inizio.
Quella buona: siccome abbiamo la fortuna di avere una Costituzione stupenda e furba assai, il pericolo di iniziative come questa è stato previsto e, nei limiti del possibile, si è tentato di arginarle: le leggi che prevedono stupidaggini pericolose per la sopravvivenza dell’ordine civile e democratico debbono essere approvate 4 volte: Camera, Senato, di nuovo alla Camera e poi di nuovo al Senato; e, se una delle 2 Camere fa una modifica, anche questa deve essere approvata 4 volte, quindi si ricomincia con il balletto. Dovremmo fare a tempo a morire di vecchiaia; ma va anche detto che B&C sono molto determinati e che B. è molto ricco; e i recenti avvenimenti dimostrano che “questa gente” vede facilmente una grande luce: basta fornirle buoni motivi. Sicché, magari in un paio d’anni, la riforma epocale sarà approvata dal Parlamento. Ma, ecco la buona notizia, questo non basta: trattandosi di leggi che modificano la Costituzione, debbono essere sottoposte a referendum popolare. Veramente questo non è proprio sicuro, perché, se il Parlamento le approvasse con una maggioranza di due terzi, il referendum non si farebbe. Ma non credo che l’opposizione possa votare un obbrobrio del genere. È vero che finora non è stata molto efficiente (capolavoro di understatement) ma fino a questo punto...
COSÌ, SE IL PARLAMENTO approva la riforma a maggioranza semplice, si va al referendum; che, trattandosi di leggi costituzionali, non richiede il quorum. In altri termini, non è necessario che il 51 per cento degli elettori vada a votare; se ci vanno anche solo in 1000, il referendum è valido. Il fatto è che questo referendum è molto tecnico e i quesiti saranno molto complicati ; per dire, a Santanchè, Gasparri e gente come loro toccherà spiegarli per bene. Anche la stragrande maggioranza dei cittadini non ci capirà niente, non si renderà conto che il tutto serve per evitare la prigione a B&C, che dunque è una cosa importantissima e che si deve proprio andare a votare. Certo, Tv e giornali di B&C dispiegheranno tutta la loro potenza di fuoco; ma, ecco la mancanza di un partito vecchio stile, radicato sul territorio, con le sezioni, gli iscritti, la passione e l’ideologia, per intenderci una cosa tipo Pci: il ministero della propaganda potrebbe non essere sufficiente; e i cittadini andranno comunque al mare. Non tutti però: quelli che capiscono, loro a votare ci andranno; e la gente (gente, con buona pace di Gasparri, non è parola offensiva o minacciosa) che capisce assicurerà alla riforma epocale di B&C la fine che merita. Così come è successo per gli altri referendum sulla Costituzione (2001 e 2006): perché il ministero della Propaganda lavorerà pure al massimo; ma le cazzate restano cazzate.
Sarà istruttivo constatare come la stessa gente che non ha voluto l’election day per il referendum sul legittimo impedimento (costo aggiuntivo: 300 milioni circa) si dannerà per trovare un qualche accorpamento del referendum sulla riforma epocale con altre elezioni. Al solo fine, si capisce, di imbarcare tutti quelli che, senza capire, straparlano e votano.

Repubblica 13.3.11
Le piazze e la Costituzione
di Curzio Maltese


Piazze invase dai tricolori, guerra di cifre. Giustizia, parla Vietti: la riforma non punisca i magistrati
"Un milione per Costituzione e scuola"
Il tricolore e la Costituzione, l´inno di Mameli e «Bella ciao». Le cento piazze italiane hanno sapute leggere, fin dai simboli, la storia di questi anni, l´essenza della scontro politico in atto da quindici anni. Assai meglio di quanto non sappiano fare i partiti.

Nel Paese c´è una minoranza che non si riconosce nei valori della Carta e c´è una maggioranza che invece vorrebbe vedere applicato il patto fondante della Patria. Questo è il vero conflitto
Nei 150 anni di unità, l´Italia, al prezzo di immani tragedie, è riuscita a darsi una sola vera e grande patria. Questa patria è la Costituzione antifascista. Le altre idee di patria, dal fascismo in su o in giù, sono state piccole, miserabili e funeste.
Da quindici anni la lotta politica non è quella che si racconta, fra una destra e una sinistra quasi altrettanto immaginarie, almeno secondo i parametri delle altre democrazie. Tanto meno fra berlusconismo e anti berlusconismo, categorie al pari esagerate rispetto all´esiguità e a tratti il grottesco del personaggio.
Il cuore del conflitto sta altrove, fra un´Italia di larga e compatta minoranza che non crede ai valori della Costituzione, non li pratica e vorrebbe cancellarli, e un´Italia maggioritaria, ma divisa, che si riconosce nel patto fondante della Repubblica e vorrebbe vederlo finalmente applicato. Era questa la fotografia politica del Paese nel ´94, subito dopo la discesa in campo di Berlusconi, confermata dai referendum costituzionali del 2006, e tale rimane ancora oggi. In mezzo, il grumo di poteri ideologicamente anticostituzionali che ora chiamiamo col nome di un ricco imprenditore che si è adoperato con ogni strumento culturale, politico, economico per attaccare e distruggere le basi stesse del patto democratico. Senza risparmiare nessuno dei valori fondanti, dal ripudio della guerra alla prevalenza dell´interesse pubblico sul privato, dalla separazione dei poteri alla laicità dello Stato, al ruolo di garante costituzionale del Presidente della Repubblica. Anche attraverso l´azione parallela di un revisionismo storico che punta al massimo e blasfemo scopo di equiparare i partigiani e i repubblichini di Salò.
Se domani, per ipotesi, sparisse Berlusconi, il conflitto non cambierebbe nella sostanza di una virgola. Diventerebbe soltanto più limpido, sgombrato dalle nebbie del populismo mediatico. Lasciando più spazio alla Lega, cioè alla forza che con schiettezza identifica l´attacco alla Costituzione antifascista con l´attacco all´unità del Paese. Come avviene già in questi tempi di berlusconismo agonizzante, in cui è la Lega l´autentico motore politico dell´azione di governo.
Questa è la posta in gioco. Così l´hanno illustrata le cento piazze d´Italia, con la semplice forza dei simboli, degli inni e delle duecento parole con le quali i padri costituenti hanno scritto la prima parte della Carta. In modo che proprio tutti possano comprenderla, anche coloro che continuano a non volerlo fare. Così l´hanno percepita e spiegata di recente artisti come Roberto Benigni o Roberto Saviano, e l´hanno trasformata in racconto popolare. Il giorno in cui i partiti dell´opposizione sapranno capire e spiegare la posta in gioco con altrettanta chiarezza, sarà un gran bel giorno per la democrazia italiana.

il Fatto 13.3.11
Giustizia, ma quale dialogo: dieci ragioni per dire no
di Furio Colombo


“Gentile Furio Colombo, sono una casalinga demoralizzata e incazzata, ma purtroppo del tutto impotente. Mi permetto un piccolo sfogo sulla sua pagina perché mi fa sentire un po’ meno sola di fronte all’attuale, allucinante situazione italiana. Ma come è possibile, mi chiedo, che a un presidente del Consiglio imputato in quattro processi sia offerta collaborazione per riformare ‘insieme’ la giustizia? Curatola Gabriella”.
L’osservazione è semplice e netta e difficile da eliminare.   Penso che rappresenti lo stato d’animo di tanti cittadini, che forse voteranno a sinistra e forse no e stanno col fiato sospeso per vedere se il brusio di favore alla grande riforma di Berlusconi, che comincia a sentirsi tra le file dell’opposizione e nelle dichiarazioni di alcuni con nome e ruolo di prima fila nel Pd, diventerà davvero un modo di partecipare alla grande riforma costituzionale della Giustizia italiana. Ovviamente, in tempo di elezioni, la grande riforma apparirà in testa alla lista dei successi del gruppo Berlusconi (inteso sia come partito sia come azienda) e tra le colpe non perdonabili dell’opposizione in generale e del Pd in particolare. 
Bisogna ammettere che l’infiltrazione nelle file e nelle teste dei parlamentari e degli opinionisti di area Pd dell’idea, dopotutto, sulla giustizia si può collaborare, è avvenuta con cautela e bravura   , cominciando dalle colonne del Riformista, dai suoi opinionisti di prima fila e dai suoi ex, molto stimati e molto invitati nella vetrine Tv come “rappresentanti della sinistra”. La trovata è stata di iniziare subito il dialogo, (ma anche la zuffa va bene, l’importante è partecipare al gioco) sulle singole parti, innovazioni, trovate e articoli del progetto di legge Berlusconi-Ghedini-Alfano. Qui l’importante è di impedire che si manchi di rispetto al grandioso evento che cambierà la vita italiana, e che tutti, anche gli avversari, prendano sul serio la prova di forza (e di vittoria) che sta per attraversare come una valanga non resistibile il Parlamento mercenario che oggi decide a nome della Repubblica italiana. 
MERITA UNA riflessione la possibilità che i Radicali eletti nel Pd, alla Camera e al Senato, accettino di lavorare alla riforma della Giustizia secondo Berlusconi. Penso che sia un errore, che però è coerente con tutte le cose dette e fatte dal partito di Pannella e Bonino (condivise o no dai compagni di strada dei Radicali in tutti questi anni). Infatti i Radicali, che si battono da decenni per una loro riforma della Giustizia (molto prima del 1994, anno che l’uomo di Arcore indica come data di nascita del suo progetto) vedono Berlusconi accostarsi al loro percorso e non viceversa. Io non accetterei monete da un falsario, persino se sembrano identiche a quelle vere, e credo che a un certo punto scatterà la ben nota intransigenza   di quel gruppo politico, e ci sarà una netta rottura, come è accaduto in passato. O almeno lo spero.
Meno facile è mobilitare contro Berlusconi le piazze, le donne, la raccolta di firme, una platea vasta e diversa, come sono gli elettori e I cittadini vicini al Pd, per poi chiedergli all’improvviso di rassegnarsi a discutere di giustizia “insieme”, mentre cominciano, a uno a uno, i processi a carico del grande timoniere della giustizia italiana. E infine, eventualmente, tornare in piazza e poi mobilitarsi per votare contro. Propongo dunque le dieci ragioni da offrire al Pd per non   partecipare in alcun modo alla riforma della Giustizia Berlusconi-Ghedini-Alfano. 1) La riforma nasce come “punizione” e come “vendetta”, e come tale viene annunciata. Anzi è stata rilanciata di colpo dopo l’incriminazione del premier per l’affare Ruby (concussione e prostituzione minorile);  2) Le imputazioni contestate al capo del governo italiano sono troppo gravi, anche come simbolo e immagine del Paese nel mondo, per poter intrattenere una discussione “insieme” sui problemi della giustizia e dei giudici; 3) Berlusconi ha invocato come ragione fondante della   sua riforma la vicenda di “Mani Pulite”, il maggior evento di lotta contro la corruzione in Italia. Con la sua nuova legge – promette – la lotta giudiziaria alla corruzione non potrà mai più verificarsi in Italia; 4) Berlusconi è stato coinvolto, in accertate vicende giudiziarie (alcune ancora in corso) nel reato di corruzione di giudici. In altre parole, ha pagato e comprato giudici. Il suo partito-azienda, i suoi avvocati-deputati e lui stesso non possono accostarsi all’argomento “giustizia” e “riforma della Giustizia”, senza suscitare, sospetto e discredito; 5) La maggioranza di cui Berlusconi dispone è una maggioranza in parte comprata. La mancanza di “vincolo di mandato”, indicato dalla Costituzione, non sana questo grave aspetto o sospetto di corruzione. Meno che mai in una legge che riforma   vita e attività dei giudici; 6) Berlusconi, personal-mente e attraverso il suo Giornale, ha definito i giudici “un cancro”, “un gruppo eversivo”, una “associazione a delinquere”, una aggregazione di poveri matti. Ci si può associare?; 7) Nell’annunciare che la legge costituzionale di riforma della Giustizia era sul punto di essere presentata in Parlamento, Berlusconi ha detto, riferendosi alla sua “persecuzione: “Così questa storia indegna finirà per sempre”. In tal modo e intenzionalmente, ha voluto rendere chiara per tutti la natura della nuova legge costituzionale: non renderà mai più possibile l’incriminazione dei potenti; 8) È evidente, ripetuta e vistosa la intenzione del premier e dei suoi avvocati di sterilizzare uno dei tre poteri su cui si fonda lo Stato democratico, il potere giudiziario, dopo avere ottenuto il controllo del Parlamento attraverso una poderosa e sfacciata campagna acquisti, e avere stabilito un record di ore di presenza su tutte le reti televisive, di Stato e private, e mentre sono in corso   attività finanziarie per alterare gli equilibri di potere in uno dei due maggiori quotidiani italiani ancora indipendenti; 9) Berlusconi ha bisogno di complici. L’Italia è oggetto di scrutinio attento da parte delle democrazie e dell’opinione pubblica democratica del mondo. Una legge che riformi drasticamente il sistema giudiziario italiano, sotto bandiera Berlusconi, sarebbe guardata, fuori dall’Italia, con il sospetto che merita. È indispensabile per lui e i suoi avvocati, avere ben più che i “responsabili” a tariffa che hanno abbandonato altri partiti per offrirgli reputazione, lealtà e voto. Ora occorrono complici che siano la prova della buona fede di questa avventura; 10) La legge di riforma costituzionale della Giustizia non può arrivare sul tavolo del capo dello Stato senza i nomi e le firme di almeno   una parte della opposizione e, soprattutto, di una parte del Pd in funzione di garanzia notarile.
Ecco dove il Pd si presenta al Paese come una opposizione invalicabile oppure come il complice necessario di Berlusconi. La campagna elettorale che ci sarà subito dopo si decide qui.

Corriere della Sera 13.3.11
«Indagini decise dalla polizia? Pm subordinati alla politica e meno garanzie di legalità»
di M. Antonietta Calabrò


ROMA— «È un modo indiretto per subordinare il pubblico ministero al potere politico. Se passasse la riforma, il potere di iniziare le indagini sarebbe in mano alle forze di polizia che sono gerarchicamente ordinate e in sostanza soggette al governo, rispettivamente al ministro dell’Interno (Polizia di Stato), al ministro della Difesa (Arma dei carabinieri) e al ministro del Tesoro (Guardia di Finanza)» . Roberto Scarpinato, procuratore generale presso la Corte di Appello di Caltanissetta, è assolutamente contrario a questo punto della riforma costituzionale presentata giovedì scorso. Ci spieghi meglio... «Le forze di polizia non godono né di indipendenza né di inamovibilità. Il nostro Paese tornerebbe indietro ai tempi dello scandalo della Banca Romana, quando funzionari di polizia impegnati nelle indagini si potevano trasferire in 24 ore. Adesso invece il fatto che il titolare delle indagini è il pm, garantisce la libertà da interferenze anche della polizia giudiziaria. Ma c’è anche un’altra conseguenza per i cittadini...» . Quale? «Si abbasseranno non solo le garanzie di accertamento dei reati, ma anche quelle di legalità per chi è sottoposto ad indagini. Oggi il pubblico ministero è tenuto all’accertamento della verità e ogni giorno si riscontrano in tutt’Italia richieste di assoluzione avanzate dai pm. Ma se il pubblico ministero viene ridotto ad essere nel processo solo l’avvocato dell’accusa, cioè quello che ha il compito di rappresentare in udienza solo le ragioni della polizia, torneremo ad uno Stato di polizia» . Uno Stato di polizia? In un paese come la Gran Bretagna il pm è solo l’avvocato dell’accusa e le indagini le fa Scotland Yard, ed è considerata culla della democrazia e del regime parlamentare... «Il problema da noi è il mosaico che diventa visibile con tante tessere che convergono in un’unica direzione: se le indagini vengono avviate dalla polizia è chiaro che la scelta dei reati da perseguire sarà influenzata dall’esecutivo, e verrebbe meno l’articolo 3 della nostra Costituzione per cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge; gli investigatori scomodi potranno essere trasferiti; sarà quasi inevitabile perseguire maggiormente reati come le rapine che destano maggiore allarme sociale e reazione più viva dell’opinione pubblica, rispetto ai reati dei colletti bianchi, come il riciclaggio. Insomma, l’azione della giustizia si limiterà dentro un orizzonte più ristretto? «E nelle sue linee di intervento risentirà degli umori e degli interessi delle maggioranze di governo. Mentre, secondo me, la giustizia deve essere esercitata guardando l’orizzonte più ampio e stabile dell’interesse dello Stato» .

il Fatto 13.3.11
New York, lo stupore delle donne davanti al “caso Italia”
Al summit “Women in the world” la Bonino, la Placido e altre raccontano del ruolo femminile ai tempi dei festini
di Angela Vitaliano


Le donne italiane che lavorano a tempo pieno, dedicano, ogni settimana, almeno 21 ore del loro tempo alle faccende domestiche. Gli uomini, quattro. Si alza un mormorio, il primo di una lunga serie, nella sala conferenze dell’Hudson Theatre di New York dove è in corso la seconda giornata del Summit “Women in the World”. A snocciolare una serie di dati che danno, immediatamente, il quadro dell’anomalia della condizione femminile in Italia, è Lesley Stahl, giornalista di 60 minuti una delle rubriche televisive di politica è attualità più famosa negli Stati Uniti. Lesley, chiamata a moderare la sessione intitolata “Le donne italiane al contrattacco”, nella quale sono ospiti Barbie Nadeau, giornalista del Daily Beast e di Newsweek, Emma Bonino e Violante Placido, sottolinea, come se ce ne fosse bisogno, che è sorprendente che si stia parlando di un paese europeo e che le immagini mostrate nel breve video introduttivo, tutte relative a show di prima serata con donne molto poco vestite, sono quelle che “bombardano continuamente” il pubblico del Belpaese. “Silvio Berlusconi – dice la Nadeau – è stato cruciale nel creare e perpetuare una cultura di sessismo subliminale con la quale le donne italiane devono fare i conti, dal momento che si riflette costantemente nell’economia e nella vita di tutti i giorni”.
ANCHE VIOLANTE Placido, concorda nell’attribuire al premier gran parte della responsabilità di una condizione femminile che è peggiore di quella di paesi come il Perù. “La verità – dice la Nadeau – è che molte donne lavorano in “nero” costrette dunque a una condizione di discriminazione addirittura doppia perché poi devono occuparsi della casa e della cura dei bambini”. “Non solo – dice la Bonino, applauditissima dal pubblico in sala – ma le donne negli ultimi anni sono state anche costrette a sopperire alla carenza dei servizi sociali, dovendosi accollare la cura di anziani o di familiari in cattive condizioni di salute”. Una responsabilità che, tuttavia, Emma Bonino non si sente di attribuire, nella sua totalità, a Berlusconi che ha solo amplificato, sebbene in maniera insopportabile, un atteggiamento culturale che si era già andato diffondendo prima di lui. “Dopo le grandi battaglie per la conquista di diritti quali il divorzio e l’aborto, negli anni Settanta – sottolinea la Bonino – le donne italiane si sono, in qualche modo, ‘assopite’ dando per scontato il mantenimento di status che invece vanno difesi giorno per giorno e, in questo modo sono diventate, loro malgrado complici di una situazione dalla quale diventa sempre più difficile uscire”. Berlusconi, dunque, responsabile ma non unico colpevole, chiede ancora Lesley Stahl. “Tantissima parte di responsabilità è sua – ribadisce Violante Placido – dal momento che lui è il premier e, allo stesso tempo, proprietario della maggior parte dei media italiani. Inoltre, noi non abbiamo modelli femminili ai quali possiamo ispirarci, il modello vincente è quello di donne giovani, molto giovani, e belle, facilmente corruttibili , che vanno alle feste, si accompagnano a uomini potenti e il giorno dopo finiscono sulle copertine dei giornali, ottengono interviste e diventano famose”.
“ED ENTRANO in politica – aggiunge la Nadeau – come è accaduto a Mara Carfagna, il giorno prima modella di calendari sexy e quello dopo, ministro per le Pari opportunità”. Spalanca le braccia la Stahl, rivolta a un pubblico sempre più rumoroso (caso unico nella tre giorni del Summit) mentre Emma Bonino ribadisce che “le donne sono quelle che devono svegliarsi e rimboccarsi le maniche perché nulla ci sarà regalato. Le donne devono assolutamente tornare a fare politica e non “grazie” alle quote, con le quali non sono assolutamente d’accordo perché, soprattutto in Italia, rischiano di diventare un’ulteriore forma di ghettizzazione. Le donne devono avere il coraggio di tornare a combattere in maniera decisa e seria contro ogni tipo di stereotipo che le vuole mogli e madri, da un lato, o belle ma stupide dall’altro”.

il Fatto 13.3.11
Il primario
Martelli racconta la Polverini che distrugge la sanità romana
di Paola Porciello


Tutti i suoi progetti presentati in Regione Lazio per il risanamento dei bilanci dell'Azienda ospedaliera a costo zero sono chiusi nei cassetti da mesi. Così lui ha rassegnato le dimissioni. Per cominciare a capire perché la sanità in Italia versa in pessime condizioni, bisogna parlare con chi la sanità la conosce bene e sa farla funzionare: il professor Massimo Martelli è da 22 anni primario del reparto di Chirurgia Toracica del Forlanini di Roma, un punto di eccellenza a livello nazionale ed europeo. Prestato alla politica per due mandati in qualità di Commissario straordinario del San Camillo Forlanini (commissariato per motivi di bilancio), a febbraio ha lasciato l'incarico, con una lettera amara. In cui ha denunciato, ancora una volta, l'assenza di seguito alle sue proposte di risanamento avanzate ripetutamente ai collaboratori del presidente Renata Polverini.
LA STAMPA se n'è occupata, e l'11 febbraio scorso i deputati Miotto, Morassut e Zaccaria, del Pd, hanno presentato un'interrogazione parlamentare, per chiedere al ministro della Salute Ferruccio Fazio perché mai il piano di recupero e risanamento amministrativo presentato da Martelli non sia stato concretamente attuato. Il ministero risponde senza rispondere, "rassicura della propria intenzione di proseguire nel piano di risanamento..." e prende tempo, rimandando per i chiarimenti a un "tavolo tecnico" che si è svolto il 15 febbraio. Da allora, tutto tace. Come denunciato da una seconda interrogazione del 17 febbraio, stavolta a firma Pedoto e Zaccaria. Le richieste di chiarimenti agli uffici ministeriali, invece, si perdono in un turbinio di rimpalli: dall'ufficio stampa ("ci mandi una mail") all'ufficio interrogazioni parlamentari (che non risponde), all'ufficio legislativo che rimanda di nuovo all'ufficio stampa. Intanto gli ospedali delle province laziali chiudono uno dopo l'altro per i continui tagli, unica politica messa in campo finora dalla nuova amministrazione di centrodestra. Come evidenziato da Riccardo Iacona nella puntata di Presa diretta del 27 febbraio scorso, i pazienti sono costretti a percorrere anche cento chilometri per raggiungere il più vicino ospedale. Allora perché non dare priorità assoluta ai progetti che, a costo zero, producono un'immediata e sensibile riduzione della spesa? Martelli, che sostiene la sanità pubblica con i fatti, ad esempio visitando centinaia di pazienti ogni mese nel suo studio gratuitamente (ci mostra la sua agenda piena di nomi, elenchi lunghissimi interrotti solo dalle ore di sala operatoria), prende l'incarico di Commissario il 27 luglio 2010, lasciando il reparto, perché finalmente, pensa, può intervenire per risanare il "suo" Forlanini, già salvato anni prima dalla chiusura voluta all'epoca dall'amministrazione Mar-razzo.
Il progetto viene presentato in Regione ai primi di settembre. Dopo 20 anni di esperienza, bastano poche settimane per scriverlo. Molti padiglioni del Forlanini giacciono inutilizzati: "La palazzina 17 volevo destinarla ai Carabinieri di Monteverde, che hanno ricevuto lo sfratto, e pagherebbero un affitto". Poi ci sono i padiglioni che potrebbero essere destinati ad accogliere "sei poliambulatori della Asl RMD, tutti dislocati nelle immediate vicinanze del Forlanini, facendo risparmiare due milioni di euro l'anno di affitto alla Regione". Ma non finisce qui: "Avevo preso contatti con l'Inail – prosegue Martelli – per aprire alcune officine di produzione di protesi". Il Forlanini spende circa 8 milioni l'anno per la gestione ordinaria (luce, riscaldamento, vigilanza, pulizie). Con questo nuovo assetto, la spesa si potrebbe dimezzare.
POI C'È IL CAPITOLO delle Residenze assistenziali sanitarie di base, che meritano un discorso a parte. Le Rsa, infatti, a fronte di un investimento iniziale di 20 milioni di euro, porterebbero all'Azienda un risparmio nel medio-lungo termine. Prevedono la creazione di posti letto per quei pazienti che, non necessitando più di tutto l'apparato medico che mette a disposizione l'ospedale, hanno bisogno solo di cure infermieristiche, costando in media 500 euro in meno al giorno rispetto un paziente normale. L'idea di Martelli è di creare 300 posti di Rsa nel Forlanini (nel Lazio ne mancano all'appello 6000). "Si risparmierebbero 150 mila euro al giorno, che moltiplicati per 300 giorni, producono un risparmio di 45 milioni di euro". Una volta sottratti i 20 milioni iniziali, ne rimangono altri 25 all'azienda. Per non parlare del fatto che, con l'emergenza che affligge i pronto soccorso degli ospedali della capitale, si andrebbero a liberare centinaia di posti letto per le degenze più urgenti. Insomma risparmio e miglioramento dell'assistenza, tenendo tutto dentro l'azienda. Ecco cosa voleva fare Martelli. Che non riesce a nascondere l'amarezza: "Mi hanno abbandonato, e non capisco il perché".
La mancanza di una risposta da parte della Regione, poi, si fa ancora più pesante se si considera che è proprio sulla sanità che la Polverini ha impostato, vincendola, la sua campagna elettorale. A un anno di distanza dal suo insediamento, di interventi di risanamento al San Camillo Forlanini, però, nemmeno l'ombra.

l’Unità 13.3.11
Sviluppo e ricchezza Scudo che limita i danni
Nel 1923 un sisma meno potente uccise 140mila persone a Kanto. Rispetto ad allora il Giappone è cresciuto e ha investito enormemente in sicurezza
The Independent


Il capolavoro di Hokusai, “La grande onda di Kanagawa”, è con ogni probabilità l’immagine più famosa donata dal Giappone al mondo. Ma l’altro ieri un tremendo tsunami ha trasformato l’immagine dell’onda da orgoglio nazionale in incubo nazionale. Il terremoto più devastante che abbia colpito il Giappone da quando si effettuano le misurazioni della magnitudo dei fenomeni sismici, ha fatto tremare l’arcipelago. La scossa sismica è stata terribile e ha prodotto come conseguenza un colossale tsunami. In queste circostanze l’uomo è istintivamente portato a cercare una spiegazione, qualcosa che possa dare ad un disastro naturale un significato comprensibile all’uomo. Ma è una ricerca vana. L’etica non ha nulla a che vedere con la tettonica a placche. Puramente e semplicemente, alcune zone del pianeta hanno maggiori probabilità di essere colpite da disastri naturali. Ma non tutte le nazioni delle aree a rischio del pianeta sono uguali. Il Giappone è uno dei Paesi più ricchi del mondo.
STORIE TERRIBILI
Nella provincia di Miyagi è stata inghiottita dalle acque una nave con a bordo operai dei cantieri navali e nella stessa provincia è “sparito” un treno pieno di passeggeri. Ma il numero delle vittime non si avvicina nemmeno lontanamente a quello di un ipotetico Paese povero colpito nella zona costiera da un terremoto di magnitudo 8,9. A seguito del terremoto di Haiti del 2010, i quartieri poveri di Port-au-Prince furono sbriciolati e sotto la macerie perirono 200mila persone. La provincia di Sichuan, in Cina, fu colpita nel 2008 da un terremoto che fece 70mila vittime. Una delle ragioni del gran numero di vittime fu il crollo di numerose scuole pubbliche costruite senza accorgimenti anti-sismici per la corruzione dei funzionari statali.
Lo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano fece circa 230.000 morti. L’epicentro del terremoto, di magnitudo 9,1, si trovava al largo della costa occidentale di Sumatra, ma non esisteva alcun sistema per avvertire le altre isole del sud-est asiatico dell’imminente pericolo. La storia dimostra che la ricchezza è importante quando si deve fronteggiare la furia della natura. Il grande sisma che colpì la regione di Kanto, in Giappone, nel 1923, aveva una magnitudo inferiore a quella del sisma dell’altro giorno, eppure provocò la morte di 140.000 persone. La differenza va individuata nel fatto che oggi il Giappone è più ricco e ha investito ingenti risorse in misure di sicurezza.
Nel 1995 un terremoto di magnitudo 6,8 colpì la città di Kobe e fece 6.500 vittime. Il bilancio dei danni fu stimato in qualcosa come il 2,5% del Pil dell’epoca. La risposta ufficiale non fu particolarmente efficace. Oggi le circostanze sono diverse. L’epicentro del terremoto di Kobe era in una zona urbana. Questa volta era in mare aperto. Non di meno la risposta ufficiale appare enormemente migliore. Quattro centrali nucleari si sono spente automaticamente non appena la terra ha cominciato a tremare. E i danni sono inferiori a quelli del 1995 dal momento che il governo ha incrementato gli investimenti per dotare il Paese di strutture ed edifici antisismici. La preparazione e la pianificazione hanno salvato migliaia di vite. Nella nostra disperata ricerca di una spiegazione, questa è probabilmente la sola lezione che possiamo trarre. Quando si tratta di disastri naturali, l’uomo può solo prepararsi ad affrontare al meglio un incubo quando diventa realtà.
*** Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 13.3.11
Fatta l’Italia trovato l’italiano
Era una lingua soprattutto scritta e posseduta da pochi ora è parlata da tutti e ha creato un’unità oltre i localismi
di Gian Luigi Beccaria


150 ANNI FA Solo il 2,5% era in grado di usarlo, o il 10% secondo le stime più ottimistiche
GLI IMPACCI DI CAVOUR Più a suo agio col francese Anche Manzoni dovette faticare per impadronirsene

Sullo scoglio di Quarto il più folto gruppo dei Mille parlava bergamasco. «Si odono tutti i dialetti dell’alta Italia, però i Genovesi e i Lombardi devono essere i più» è la prima impressione di Giuseppe Cesare Abba appena a bordo del «Lombardo»; e annoterà in seguito che i carabinieri genovesi a Calatafimi, marciando per la valle, «parlavano il loro dialetto che a momenti scatta di collera, ed era così caro e parlato così volentieri da Garibaldi, che l’addolciva, mentre sulle labbra di Nino Bixio guizzava come la saetta». Consueto era per loro il materno dialetto, non l’italiano. Poi s’è fatta l’Italia, c’erano ancora da fare gli italiani, e soprattutto la lingua unitaria, che da non molto è diventata la lingua di tutti, questo bene comune usato nel parlato e nello scritto da una nazione intera.
«Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’Unità d’Italia» ha scritto Raffaele La Capria. Perché una lingua non è grammatica soltanto, ma è riconoscimento, aria di famiglia, tradizione, una confortante sensazione di unità, senso di contatto con qualcosa che ci appartiene, che ci ha formato negli anni di scuola o di letture. Tant’è che chi ha la mia età si irrita se sente un’annunciatrice dire in tv che «i cipressi di Bolghéri si sono ammalati». Sembra di aver mandato in soffitta il nostro Carducci, che un tempo a scuola mandavamo a memoria. Così come ci se sente offesi quando, dopo gli enormi e faticosi passi compiuti per trovare un’unità di lingua, vediamo fioccare cumuli di provocazioni: dialetti che sentendosi poco valorizzati chiedono di diventare «lingua», richieste di insegnare i dialetti a scuola, una seduta del Parlamento Europeo in cui si fanno dichiarazioni di voto in dialetto napoletano, disegni di legge per la celebrazione dei matrimoni in lingua locale, richieste di celebrare la messa in dialetto, tg trasmessi in lombardo o in veneto, ipotizzata preferenza per il docente che parla il dialetto della regione in cui insegna... Abbiamo realizzato il sogno di Dante, di Foscolo, di Manzoni, e ora vorremmo tornare alle «piccole patrie», tornare indietro di secoli.
Dimentichiamo che al momento dell’Unità non sapeva né leggere né scrivere il 75-80% della popolazione adulta, la percentuale più alta d’Europa dopo quella della Russia. È un importantissimo punto di arrivo che la quasi totalità degli italiani ora parli italiano, dopo secoli che questa nostra lingua è stata soprattutto scritta e non parlata, lingua di cultura e non di natura. Nel 1951, poco prima che la televisione diventasse una delle scuole serali d’italiano,ben il 65% usava ancora il dialetto in ogni circostanza. E 150 anni fa soltanto un 2,5% o forse, secondo le stime più ottimistiche, un 10% sapeva parlare italiano. Ora finalmente possiamo dire che una lingua prevalentemente scritta per secoli, e posseduta dalle classi colte soltanto, è diventata una lingua parlata in tutta la penisola, capace di superare i particolarismi e formare un codice di abitudini e di regole condivise: una «lingua media» che ai tempi dell’Unità ancora non c’era, e alla cui formazione hanno contribuito tutte le regioni d’Italia.
L’Unità non ha cancellato la molteplicità linguistica, l’ha anzi rinsaldata in un vivido mosaico. Siamo diventati italiani senza rinnegare il passato, le tradizioni, le diversità. Decisivi, come si sa, gli apporti dei non toscani, dei «periferici» nei quali la padronanza dell’italiano non fu mai, in passato, del tutto disinvolta: anche tra coloro che nell’800 contribuirono a fare l’Italia. Cavour, eletto nelle elezioni suppletive del 26 giugno 1848 alla Camera, si scusò di dover parlare in italiano, dal momento che la lingua ufficiale dei parlamentari era il francese, e in seguito continuò a mostrare qualche impaccio, come se traducesse da un’altra lingua. Agli stessi scrittori non toscani l’italiano appariva talvolta quasi «straniero», da impararsi sui libri: come al piemontese Alfieri, che s’era fabbricato un vocabolarietto tascabile, un quadernetto di Appunti dove su tre colonne appuntava nella prima il noto, la voce francese, nella seconda colonna l’altrettanto nota corrispondenza piemontese, nella terza l’ignoto, la voce italiana, che non sapeva e che voleva ricordare. Sui libri aveva dovuto approfondire la competenza, a suo dire lacunosa, dell’italiano lo stesso Manzoni, che alla ricerca della lingua aveva per studio sconciato un suo esemplare del Vocabolario della Crusca al punto «da non lasciarlo vedere», diceva, tant’era crivellato di postille, aggiunte, sottolineature e appunti presi per impossessarsi dei vocaboli e delle locuzioni ignote. Sapeva di avere a che fare con una lingua della letteratura troppo elitaria, codice poco naturale e non «vivo e vero», adatto per scrivere il primo romanzo nazionale.
Ma era la lingua della conversazione che mancava. Manzoni lamentava l’uso dell’italiano approssimato che si parlava ai tempi suoi, privo del lessico più comune riferito alle occorrenze quotidiane e mescolato di inconsci dialettismi. Quando due italiani di diversa regione si incontravano, per conversare mancava loro la nomenclatura concreta.
Comunque sia andata, noi ci riconosciamo però, da secoli, in questa grande ricca duttile nostra lingua italiana, il cui effetto aggregante ha contribuito, più di altri fattori, al riconoscimento di un’unità nazionale. Da noi per prima è venuta la lingua. Non c’era ancora la nazione, ma da secoli esisteva un’unità linguistico-letteraria nazionale. La coscienza e la volontà di un’unione si è basata soprattutto su un valore culturale (la lingua della letteratura, la sua validità e la sua tenuta) che ha prefigurato sin dalle Origini un’unità immaginata e inseguita come un desiderio. La data d’inizio di quest’unità ideale è segnata da Dante quando nel De vulgari eloquentia prefigura un’Italia quasi compiuta come spazio geografico su cui la lingua del sì si sarebbe diffusa, una lingua letteraria fondata su un gruppo non solo di toscani,ma con alla base anche il gruppo meridionale dei siciliani già fioriti al tempo di Federico II, e un bolognese, Guinizelli. La parola letteraria già si distendeva su un’unità geografica e culturale prima che essa esistesse realmente. Soltanto dopo molti secoli si realizzerà compiutamente l’antico sogno di un Paese da costruire, inventato dalla genialità dei poeti e dei pensatori.

Repubblica 13.3.11
Archetipi. L’intervista
James Hillman "L'America sul lettino"
di Pythia Peay


A gennaio, a Tucson. Durante un meeting dei Democratici un ragazzo uccide sei persone. Parte dalle riflessioni su quella strage l´analisi di un intero Paese. A mettere sul lettino gli Stati Uniti e l´Occidente è un grande studioso junghiano. Che qui parla di politica, scuola, economia, amore. Cogliendo lo spirito del nostro tempo, annunciandone la fine e intravedendo in essa anche l´occasione per un nuovo inizio
Tutto ciò di cui ognuno di noi ha paura, in realtà è già successo Non siamo più un impero non siamo più eccezionali
Dobbiamo prendere parte ai processi emergenti. Per farlo dobbiamo poterli riconoscere. E per riconoscerli capire quanto ci sta accadendo

James Hillman, psicologo, studioso, critico culturale e autore di oltre venti libri, tra cui Il codice dell´anima, è uno dei più brillanti pensatori del nostro tempo sulla psiche umana e la psiche collettiva. Sta per compiere ottantacinque anni ed è in convalescenza dopo due anni di malattia. «È una nuova vita», mi dice. «Tanta riflessione al posto dell´ambizione». La psiche americana ha sempre nutrito le riflessioni di Hillman; quella che segue è una versione ridotta di una conversazione sulla sua interpretazione psicologica dell´attuale Zeitgeist.
La strage di Tucson (l´8 gennaio 2011 un ragazzo aprì il fuoco durante un incontro tra gli elettori e la deputata democratica Gabrielle Giffords: sei i morti, tra cui una bambina, la Giffords colpita alla testa, ndr) ha scatenato un dibattito sulla polarizzazione in corso tra destra e sinistra. Che cosa ne pensa da un punto di vista psicologico?
«Dobbiamo capire che la nostra mente è il nostro nemico. L´attuale dibattito è diventato molto ideologico e vi sono alcune idee fisse che dominano la discussione. Questo è il risultato del pensare per opposti; risale ad Aristotele, e ha a che fare con una logica del tipo o/o: se una cosa è così, non può essere nell´altro modo. Ma in realtà il mondo non è così. Per esempio, la maggior parte della gente crede che l´opposto del bianco sia il nero, ma ci sono sfumature di nero (dal colore dei mirtilli, a quello del carbone, o a quello dei merli) che non hanno niente a che fare con il bianco. Il problema è imparare a valutare ogni questione nel merito, senza dover ricorrere al punto di vista dell´opposto. In terapia, quando sogni tua madre, ad esempio, non devi necessariamente parlare di tuo padre in quanto presunto opposto».
A proposito di gestire punti di vista politici polarizzati, che cosa pensa di Obama? Molti a sinistra lo vedono debole quando si mostra conciliante con la destra repubblicana.
«Il temperamento di Obama è una grandissima virtù. Finalmente abbiamo una persona capace di un atteggiamento ponderato, che cerca di ragionare sulle cose, che sopporta la pressione e può perfino ammettere di aver fatto uno sbaglio. Il suo discorso alla cerimonia in memoria delle vittime della strage di Tucson è stato un capolavoro. È andato dritto nel mezzo di tutti quei conflitti e ha detto delle cose che avevano un contenuto reale, non sentimentale. Non ha usato un linguaggio rigidamente ideologico o altamente intellettuale. Facendo riferimento alla bambina uccisa (Christina Taylor, ndr), nell´incoraggiarci a vivere all´altezza di ciò che lei si aspettava dalla nostra democrazia, è riuscito a rivitalizzare il sogno americano e l´impegno nella vita politica attraverso il sogno di quella bambina di diventare una persona politicamente impegnata. E, personalmente, penso che l´accordo che Obama ha fatto con i repubblicani sulla legge finanziaria sia stato intelligente».
Molti, a sinistra, hanno biasimato Obama per aver ceduto proprio su questo. Si tratta di un esempio di rigidità ideologica?
«Sì, è una fissazione ideologica per la sinistra: non dobbiamo lasciare che i ricchi diventino più ricchi. Sono pienamente dalla parte della sinistra ideologica, ma su questo tema penso che la sinistra sbagli. Lasciamo che i ricchi si prendano i loro milioni… tanto lo faranno comunque! La situazione rimarrà così finché i ricchi non cominceranno a convertirsi da soli, come Warren Buffet e Bill Gates, che ora stanno cercando di cambiare la mentalità dei capitalisti. E se i ricchi hanno più soldi per via dell´accordo sulle tasse, facciamo appello alla loro capacità di cittadinanza e speriamo che trovino il modo di aiutare il Paese, le cui condizioni riguardano anche loro. Ci sono molte cose che non sappiamo su quello che avviene nella psiche dei super ricchi».
Vuol dire che i ricchi stessi potrebbero celare delle nuove prospettive sulla loro ricchezza?
«Esatto. Non riesco a immaginare che i ricchi o i conservatori siano completamente estranei ai cambiamenti che avvengono nella psiche collettiva. Ma la sinistra ideologica ci inchioda a una visione fissa dell´"altro" e questo li costringe a dover essere peggio di quello che potrebbero essere».
Intende dire che l´immagine fissa che i liberali hanno della destra potrebbe in realtà contribuire a creare "il nemico"? Ma la destra non è colpevole quanto la sinistra?
«Non dico che non ci siano degli attivisti fanatici nella destra. Ma io sono di sinistra e per questo cerco di portare più psicologia nella mia parte. Dico che la sinistra ideologica rischia nel mantenere un´immagine stereotipata del nemico. Nel fissare l´avversario, lo rinchiude in una scatola e non gli lascia la possibilità di una trasformazione come quella esemplificata da John Dean, l´avvocato di Nixon, che poi testimoniò contro di lui durante le udienze del Watergate. Ma se un partito politico è visto solo in questo modo o in quell´altro, impediamo tutto ciò che potrebbe avvenire nella sua psiche, e non offriamo nessun contributo a questo processo. Ad esempio, se io sono sposato e vedo mia moglie solo in quanto cattiva e irascibile, e la vedo sempre in questo modo, si fisserà in quella definizione del suo personaggio e basta».
Quale altro effetto può avere sulla nostra cultura il pensare per opposti?
«Porta all´estremo moralismo della nostra società, che dichiara che una parte è buona e l´altra è cattiva e così l´"altro" diventa il male. Tutto questo conduce alla conquista, alla guerra, alla vittoria, a queste idee occidentali distruttive».
In effetti, uno degli argomenti su cui si discute ancora oggi dopo la strage di Tucson è se il violento clima di retorica politica non abbia contribuito a provocare quello che è successo.
«Su questo, vedo le cose in una prospettiva leggermente diversa. Penso che il sistema educativo americano, nel quale non c´è spazio per chi è strano o diverso, abbia reso quel ragazzo (Jared Loughner, 22 anni, arrestato dopo la strage, ndr) un asociale. Quando Loughner ha cominciato a diventare uno schizoide in classe, è stato buttato fuori; si è perso nella massa degli abitanti di Tucson, non ha più avuto un appiglio».
Dunque lei attribuisce questa tragedia al nostro sistema educativo?
«Abbiamo bisogno di un sistema educativo capace di accogliere menti di ogni genere, e in cui uno studente non sia costretto ad adattarsi a un certo modello culturale. Il nostro sistema educativo si è talmente ristretto a una certa formula che se attraversi un momento di difficoltà vieni espulso, spesso all´età della schizofrenia, tra i 19 e i 23 anni, e questo è un pericolo. Oltre a questo problema, c´è poi la disponibilità di armi e la pressione di una società che non sopporta il diverso».
Perché non si arrivasse a questa strage, che cosa si sarebbe dovuto fare?
«Loughner non avrebbe dovuto essere cacciato di scuola; il suo insegnante avrebbe dovuto passare più tempo con lui cercando di aiutarlo. Ci vorrebbe anche un tipo di aiuto da non confondere con l´"aiuto psicologico" e che non ti etichetti come un malato. Il problema del sistema educativo è che è privo di amore».
Lei parla di restituire l´umanità a una persona, di non spersonalizzarla, perché questo ne accrescerebbe la marginalizzazione.
«Esatto. Ma invece di parlare di questo, si esamina il modo in cui si sono svolti i fatti e si discute di ridurre i caricatori da trentuno a dieci pallottole. Il ragazzo resta fuori da questa discussione».
Siamo un grande Paese che mette tanta enfasi sull´individuo e poi abbandoniamo l´individuo?
«Assolutamente. La persona diventa strana, isolata, tagliata fuori da tutto».
Lei ha detto che c´è, nell´America di oggi, un certo «aspetto tragico». Può spiegarci meglio?
«Tutto ciò di cui ognuno di noi ha paura è già successo: la fragilità del capitalismo, che non vogliamo ammettere, la perdita della vocazione imperiale degli Stati Uniti; e l´eccezionalismo americano. In realtà l´eccezionalismo americano è che siamo eccezionalmente arretrati in almeno quindici campi diversi, dall´istruzione alle infrastrutture. Ma siamo in una fase di rifiuto: vogliamo restaurare le cose come erano una volta, rimettere il Paese dov´era un tempo».
Molti non vogliono mettere in discussione l´eccezionalismo americano perché se l´America non è eccezionale, che cos´è, e che cosa sono io?
«La gente ha una capacità di illudersi enorme. Quando si vive di illusioni o delusioni, ristabilire queste illusioni o delusioni richiede un grande sforzo per evitare di analizzarle. Ma c´è un´antica idea al lavoro dietro alla nostra condizione attuale: quella di enantiodromia, il concetto greco secondo il quale le cose diventano il loro opposto. Si dice, per esempio, che stiamo vivendo un cambiamento epocale. E in questo cambio d´epoca, le vecchie cose che sembravano delle virtù diventano improvvisamente dei vizi. Nei duemila anni che ci precedono c´è stata la grande espansione dell´Occidente e l´epoca delle grandi religioni monoteistiche, l´Ebraismo, il Cristianesimo e l´Islam. Eppure queste tre profezie salvifiche, con le loro immense conseguenze estetiche e il loro enorme effetto di civilizzazione, si sono trasformate in mostri richiudendosi in se stesse, nella loro aderenza ai principi morali e all´ortodossia. Non hanno discernimento; tutte e tre pretendono di essere "la religione"».
Quale potrebbe essere un altro esempio di qualcosa che diventa il suo opposto?
«Ricorderei le grandi fedi nel secolarismo e nell´umanesimo nate nel XVII secolo o anche prima. Come vediamo oggi negli scritti di Christopher Hitchens e di Richard Dawkins, la "quarta religione" sta scacciando la religione. Questo ci lascia una sorta di arido scientismo o quello che le persone religiose descrivono come un umanesimo privo di Dio. Sono queste le grandi correnti che ci sono oggi. La gente vuole ancora andare oltre, ma le cose non si sono ancora pienamente disintegrate».
Lei dice che questi potenti miti che hanno definito l´America hanno raggiunto il loro apice e ora sono in declino, ma non completamente.
«Prenda per esempio il mito economico, il più grande mito che viviamo in questo Paese. Ora, tutti gli economisti dichiarano che il problema del mondo oggi è il crollo della domanda, e che dobbiamo stimolare la domanda, o tramite il governo o tramite i prestiti bancari. Ma se si dovesse guardare il problema della caduta della domanda da un punto di vista ecologico, che cosa c´è di meglio? Non dimostra tutto questo una straordinaria frattura tra il pensiero economico che domina il nostro mondo capitalista, compresa la Cina, e il punto di vista della Terra? Ma il modo di pensare ecologista crea un enorme problema di panico per le economie capitaliste».
Perché queste società sentono che sta morendo un vecchio modo di vivere?
«Esatto. Ci sono oggi moltissime persone intelligenti che stanno lavorando su come vivere in una società economica a crescita zero. E Obama è stato fondamentale nel cercare di portare un nuovo pensiero strutturale a queste domande. Ma finché governeranno gli economisti e i banchieri, il vecchio stile morirà molto lentamente».
La morte del vecchio implica sempre, però, che sia in arrivo qualcosa di nuovo.
(con tono esasperato) «Questa ricerca del nuovo è un vizio americano! Vogliamo sempre vedere che cosa viene dopo, siamo dipendenti dal futuro! Il futurismo è un altro mito americano: che si tratti di Kennedy, di Johnson, di Reagan o di Obama, tutti i presidenti americani si insediano con un nuovo programma e con la convinzione che il Paese sarà meglio che mai. Ma io credo che bisogna affrettare il processo di decadenza. La visione classica è sempre quella di guardare indietro, di tenere sotto controllo e di aiutare il morente».
Mentre la ascolto, penso a quanto la mia famiglia ed io abbiamo aiutato mio padre a morire, è stata un´esperienza molto profonda. Mi chiedo che cosa possa significare un´esperienza simile in senso culturale.
«Bisognerebbe pensare a ciò che deve morire di questa cultura; a quali componenti devono svanire, come la supremazia bianca, la supremazia dei maschi e l´idea che noi siamo "i buoni". L´America ha una certa arroganza rispetto alla propria virtù. Un´altra cosa potrebbe essere la nostra comprensione "non analizzata" della parola libertà. Probabilmente una delle cose impressionanti, nella morte di suo padre, era il suo bisogno di aiuto, il suo dipendere da case di cura, infermieri, stampelle… eppure, da questa mancanza di libertà è nato un altro tipo di libertà».
Mio padre era testardamente americano in questo senso. Non voleva nemmeno andare in un ospedale perché poi non sarebbe più stato "libero" di fumare o di bere.
«Non abbiamo riflettuto abbastanza sull´idea di libertà. Bisogna trasformarla in una libertà interiore dalla "domanda" stessa: è quel tipo di libertà che si ottiene quando sei libero dall´ossessione di avere, di possedere e di essere qualcuno. Per esempio, pensi al tipo di libertà che Nelson Mandela deve aver sperimentato quando fu messo in prigione. Perse completamente la sua libertà nel mondo esterno, ma trovò la libertà in se stesso. Questo è un esempio che amplia l´idea limitata che oggi abbiamo della libertà: che posso fare quello che mi pare in casa mia; che qui decido io e non voglio nessuna interferenza da parte del governo; che non voglio che nessuno mi venga a dire cosa posso o non posso fare; che ci sono troppi regolamenti, e via dicendo. Questa è la libertà di un adolescente. Un altro aspetto strano di questo cambiamento epocale è la paura della gente di ammalarsi di cancro; è un fatto assolutamente endemico che attraversa tutta la popolazione. La legge sull´assistenza sanitaria ha acuito questo problema: la gente ha cominciato a chiedersi che cosa gli succederebbe se gli venisse un tumore».
Dunque, le persone sentono questo cambiamento, percepiscono che le cose non saranno più le stesse, e questa paura peggiora l´intero processo?
«Decisamente. Questo lo vediamo riflesso nella paura che si ha degli immigrati e della violazione dei nostri confini; abbiamo paura che si esauriscano tutte le cose da cui dipendiamo; di perdere il potere e le nostre basi militari in tutto il mondo; della caduta di livello del nostro sistema educativo e che l´America non sia più la migliore e la più forte. Ma il problema è che… è già collassata, è tutto finito. Ed è questo che è interessante! Perché una volta capito che cosa sta accadendo veramente, possiamo vedere cosa altro potrà emergere quando le strutture logore finalmente crolleranno. Stanno avvenendo tante cose sotto queste vecchie forme. Non sappiamo ancora che cosa sia esattamente; è tutto molto disorganizzato, non coalizzato, cose diverse, disperse. Ma è molto importante che la gente prenda parte ad alcuni di questi progetti emergenti».
Per molti, però, l´atmosfera psichica è carica di incertezza. Come vivere in questo passaggio tra un´era e l´altra?
«È importante evitare di pretendere che ciò che verrà sia conforme ai modelli del passato, vale a dire unito, organizzato ed esauriente. Ciò che comincia a emergere è molto diverso da ciò che c´era prima: non possiamo eliminare completamente cose come la gerarchia, ma ciò che sta sorgendo potrebbe non avere un sopra e un sotto, e nemmeno un nome. Quando è nato, il movimento femminista rifiutò di avere una leader; semplicemente donne diverse si alzavano e parlavano. Le prime femministe furono molto attente a non mettere ciò che stava sorgendo spontaneamente nella vecchia bottiglia. Penso quindi che sia una questione di lasciar scorrere le cose, di aver fiducia che il cosmo emergente uscirà per conto suo e che si darà una forma mentre sorge. Questo significa vivere in uno spazio aperto, questa è la libertà».
Traduzione Luis E. Moriones © 2011 James Hillman & / Published by Arrangement with Agenzia Santachiara

Repubblica 13.3.11
Picasso Mirò Dalì
La linea spagnola dell’arte moderna
di Lea Mattarella


A Firenze, a Palazzo Strozzi tre grandi protagonisti del secolo scorso
L´esposizione mette a confronto sessanta opere della produzione giovanile
Il Cahier numero 7 sulle "Demoiselles d´Avignon"
Le prostitute di Barcellona madri del cubismo
Per la prima volta in Italia le 120 pagine di disegni preparatori del capolavoro picassiano: doveva chiamarsi "Il bordello" ritrae ragazze di vita catalane

Non ci sono dubbi che la capitale dell´arte, il luogo in cui si abbandonano gli stereotipi dell´Ottocento e si imbocca la strada della modernità sia Parigi. Ma, come emerge dalla mostra che si apre a Palazzo Strozzi, a Firenze, esiste una linea spagnola fondamentale per ricostruire la grande rivoluzione pittorica del XX secolo. La trinidad composta da Picasso, Miró e Dalí è la prova del ruolo imprescindibile avuto della Spagna nella formazione del nuovo linguaggio figurativo. Parigi è il centro catalizzatore di un pullulare di idee, sguardi incrociati, incontri al centro del quale c´è il grande genio del Novecento, Pablo Picasso che, sebbene i francesi si ostinino a chiamare Picassò, come fosse di loro proprietà, è nato a Malaga nel 1881. Ora è proprio lui, nel 1907, a dare una bella sterzata alla pittura dell´Occidente mettendo in cantiere le Demoiselles d´Avignon. E l´elaborazione di questo dipinto-manifesto esce oggi dalla Spagna per raggiungere Firenze. È esposto infatti integralmente per la prima volta il Cahier 7 che arriva dal Museo della casa natale di Picasso a Malaga. È qui, su questo quaderno - 120 pagine a righe un po´ ingiallite- che Picasso ha tracciato prima a matita e poi a inchiostro i volti e i gesti di quelle fanciulle, un po´ maschere primitive e un po´ rielaborazioni di figure classiche e di sculture iberiche, diventate icone della pittura del Novecento.
E chi le immagina francesi queste ragazze di Avignone si sbaglia di grosso. È a Parigi, dove viveva dal 1904, che Picasso le dipinge. Ma il Carrer de Avinyo era la strada delle prostitute di Barcellona, dove l´artista aveva vissuto prima del suo trasferimento in Francia. E infatti il quadro inizialmente doveva chiamarsi Il bordello, anche se poi André Salmon consapevole dell´importanza che questo dipinto avrebbe assunto nella storia del pensiero dell´immagine occidentale lo aveva soprannominato "il bordello filosofico".
Il quaderno rivela il modo di lavorare di Picasso, quel suo prendere, afferrare immagini, suggestioni da qualsiasi parte gli arrivassero. Guardava l´arte dei musei, ma anche quella popolare "A me la pittura piace tutta –affermava – guardo sempre i quadri buoni o cattivi che siano, dal barbiere, nei negozi di mobili, negli alberghi di provincia. Sono come un bevitore che ha bisogno di vino. Purché sia vino non importa che vino". Nel Cahier 7 si ha la prima apparizione di quell´arte extraeuropea che lo avrebbe sedotto per molto tempo, un´idea primordiale, primitiva che lo porta a inquadrare volti come maschere. Nello stesso tempo è ossessionato da uno stesso gesto, quello classico della figura distesa che tiene un braccio dietro la spalla e che, come rivela Eugenio Carmona in questa mostra, trova origine in una scultura di Antonio Canova, Il sogno di Endimione.
Quando arriva a Parigi, l´artista andaluso si innamora del mondo notturno di Toulouse Lautrec. In mostra c´è un´opera, bellissima, in cui si vede il suo modo di appropriarsene. Inquadra il mondo di Tolouse, quello del teatro, del cabaret, ma - sarà un caso? - la danzatrice che Picasso inquadra è spagnola.
La cosa certa, nel definire i rapporti tra questi tre geni spagnoli, è che sia Miró che Dalí, i due catalani, non appena mettono piede nella Ville lumière la prima cosa che fanno è recarsi da Picasso. Il primo lo raggiunge nel 1920, l´altro narra un incontro avvenuto nel 1926 che forse ha trasfigurato con la fantasia. Dice di averlo incontrato e di avergli portato un suo quadro, La ragazza di Figueiras, ancora una spagnola dunque. "Picasso lo studiò per un quarto d´ora, – racconta Dalí nella sua autobiografia – senza commenti. Poi mi condusse al piano superiore e per due ore mi mostrò una gran quantità di quadri, posandoli uno dopo l´altro su un cavalletto, dandosi enormemente da fare… ma anch´io non feci commenti. Sul pianerottolo, al momento del congedo, ci scambiammo semplicemente un´occhiata che significava: Hai capito? Ho capito!". Probabilmente non andò esattamente così, il metodo paranoico-critico che il catalano applicava alla sua pittura, lo faceva fantasticare anche sui fatti della vita in cui realtà e surrealtà finivano per confondersi. Ma è bello immaginare i due spagnoli a Parigi che si riconoscono come coloro che stanno cambiando le sorti della pittura europea.

Repubblica 13.3.11
I geni spagnoli che rifondarono la pittura del ‘900
di Masolino D’Amico


Dalì racconta di essere andato a trovare Picasso appena arrivato a Parigi: nessuno sa come sia andata davvero quella visita, ma certo il futuro pittore surrealista dipingerà l’”Accademia neocubista"
L´emozione che traspare nelle citazioni picassiane della "Accademia neocubista"
Per il catalano Joan, il meno arrabbiato del trio, il surrealismo fu solo un transito

Firenze. "Pictor en misere humane", aveva iscritto poco prima, in un latino approssimativo, un suo autoritratto, Picasso. E dunque quando, agli inizi dell´autunno del 1901, «aveva potuto visitare la prigione femminile di Saint-Lazare, dove le recluse separate dalle altre perché affette da malattie veneree portavano un berretto frigio», non v´era andato probabilmente, come poi volle un esegeta di quel tempo picassiano, a cercare in quelle «prostitute, in specie le più miserabili, vittime della situazione politica ed economica» un segno dell´ingiustizia e della violenza sociale del mondo in cui viveva, ma una luce capace di trasfigurare quella miseria in poesia, in canto opaco e malinconico.
Veniva da Barcellona, dal crudo verismo, addolcito appena dal retaggio tardo impressionista e già quasi sfiorato dall´art nouveau, de "Els 4 Gats", cenacolo dell´avanguardia catalana di cui aveva condiviso la vita grama e avventurosa, e da alcuni mesi trascorsi a Madrid; ed era a Parigi per la seconda volta. Nasceva allora, e sarebbe durato per quasi tre anni, il "periodo blu" della sua pittura. Picasso, fin quasi al termine di quel periodo, andò e tornò senza requie (e senza un soldo), fece ansiosamente la spola fra quelle che sarebbero rimaste le sue due città; prima di stabilirsi nella capitale di Francia e (per le arti) d´Europa nel 1904, quando, giusto al termine del suo periodo blu, si ferma in un quartiere e in una baracca destinati a divenir celebri come luogo in cui l´arte moderna è sbocciata: il "Bateau-Lavoir" di Montmartre.
Idealmente la mostra odierna di Palazzo Strozzi si apre con un dipinto aurorale di quel tempo: la Stiratrice dedicata a Sabartés (amico e poi assistente di Picasso), ora al Metropolitan di New York, del 1901: una di quelle immagini rubate al dolore del carcere di Saint-Lazare, dove le modelle costavano nulla; e dove Picasso figurò la solitudine, la fatica di esistere di una donna ottusamente china sul suo lavoro; fatica e solitudine già splendidamente riassunte nel giro lento di quelle spalle piegate e vinte alla sommità della piccola tela. Qualcosa, di quel suo tempo, risucchia ancora all´indietro: verso il simbolismo che aveva segnato, e talora magnificamente soprattutto nel nord Europa, gli anni ultimi del secolo XIX; ma è pur vero che di qui, proprio all´avvio del secolo nuovo, parte il Picasso interamente originale, che si libererà presto d´ogni ricordo, o meglio che saprà rivolgere i suoi infiniti ricordi in volontà onnivora, che tutto macina e reinventa, tutta e soltanto sua.
Idealmente, si diceva, perché in realtà la mostra di Firenze (Picasso, Miró, Dalí. Giovani arrabbiati: la nascita della modernità, a cura di Eugenio Carmona e da Christoph Vitali) è costruita "à rébours", e quindi questo primo tempo picassiano qui indagato occupa le sue ultime sale, mentre le prime documentano l´episodio (reale o soltanto vagheggiato; meglio: reale o surreale?) della visita che Dalí avrebbe fatto allo studio di Picasso nella primavera del 1926: uno giovanissimo (nato nel 1904, è poco più che ventenne), l´altro già da lungo tempo dominatore della scena parigina.
Dalí, che è in procinto d´essere definitivamente espulso dall´accademia San Fernando di Madrid avendo rifiutato di sottoporsi a un esame per "l´incompetenza" dei propri maestri, sta perfezionando il profilo che s´è ripromesso di dare alla sua personalità d´artista eccentrico e paradossale, e sta per stringersi al gruppo surrealista di Breton. Non è mai stato, un timido: ma avvolge il racconto dell´incontro con Picasso di emozione.
Emozione che lascia scopertamente trasparire nelle tante citazioni picassiane della Accademia neocubista, la maggiore per dimensioni delle opere della sua gioventù, oggi esposta a Firenze come lo fu nella seconda personale che il pittore tenne, con successo, al rientro in Spagna, alla galleria Dalmau di Barcellona. Una "lezione", forse, quel gran quadro, impartita fin dal titolo ironico a quegli "accademici" che l´avevano espulso; certo, un omaggio al grande spagnolo appena "visitato" a Parigi, di cui la donna a sinistra ripete le forme del "ritorno" classico degli anni Venti, mentre nella donna a destra sta tutta la lascivia del Dalí che verrà d´ora in avanti. Era stato diverso, più saggio, il Dalí degli anni primissimi, che la mostra documenta: con opere rare, come il Paesaggio di Cadaqués del ‘23 o la mirabile mina di piombo dello studio per il Ritratto di Marìa Carbona (1925).
Vicino, allora, Dalí, al talento di un miniaturista: come lo era stato Joan Miró negli anni della formazione. Intento a contare tutte le pietre e le tegole della casa paterna a Montroig o, uno per uno, i fili d´erba del prato che la circondava, i suoi orti, e gli animali, e i contadini di lì. Certamente, Miró, il meno "arrabbiato" dei tre, per tornare al titolo della mostra odierna; per lui infatti il surrealismo (la cui prima stagione egli pur fiancheggiò: legandosi a Masson, Artaud, Leiris, Aragon, Breton; partecipando alle mostre del gruppo, a partire da quella del 1925; e pubblicando le proprie opere su La révolution surréaliste e su Minotaure), con i suoi eccessi anche temperamentali, fu un transito, non un approdo.
Un transito grazie al quale la sua pittura dalle radici antiche e mai dimenticate (che scendono al tempo romanico della sua terra, la Catalogna, e al punto di confine fra tardogotico e Rinascimento italiano - dal Beato Angelico al Sassetta - o ancora alla fissità iconica di Bisanzio, ad un Oriente ancora più remoto, al Medioevo germanico e a Bosch) si rese disponibile alla modernità, ed anzi chiave essenziale per tante sue strade a venire: aprendo al surrealismo stesso la porta di Kandinsky e dell´astratto; e consegnando infine ad Arshile Gorky, e attraverso di lui alla nuova arte americana, i tesori meno effimeri del surrealismo.