martedì 15 marzo 2011

ARTICOLI STORICI:

Il Messaggero 9.11.1977
Un analista che rifiuta Freud
Intervista a Massimo Fagioli
di Fulvio Stinchelli


Quarantasei anni, faccia scavata e sguardo ardente dietro le lenti fumè un passato di rissoso eretico freudiano alle spalle, Massimo Fagioli è oggi lo psicoanalista italiano di gran lunga più seguito e ascoltato. Da due anni , nello spazio universitario concessogli dall’il- luminato pluralismo del professor Reda per l’intercessione del suo amico e collega Nicola Lalli, tiene seminari bisettimanali sempre più affollati. Terapia di gruppo? Psicodramma? L’autore di “Istinto di morte e conoscenza” respinge seccamente queste definizioni-etichetta che “lo soffocano”, dice, “senza appartenergli”. Mezzo scienziato e mezzo profeta, rinnega paternità, filosofie e ideo-logie: Freud? Un pasticcione. Lacan? Un altro che non ha capito niente. La psicoanalisi? Si, purché sia quella che passa per l’ “in-conscio marecalmo”, la “fantasia di sparizione” e l’ “istinto di annul-lamento”. Sono questi i tre cardini della “scoperta” su cui ruotano ossessivamente la dottrina e la “predicazione” di Fagioli. Lo incontriamo nel suo quieto studio di Via Nomentana, in una cornice rigorosamente freudiana: pochi libri , quadri anonimi, scrit toio modesto, poltrone comode e il sacro divanetto. Osserviamo. “Qual cosa di Herr Professor comunque rimane”. Risponde: “Restano le analisi individuali che continuo a fare, perché i seminari sono gratuiti, ma il mio vero campo d’azione è l’analisi collettiva, una cosa che Freud non ha mai fatto”. Prima di arrivare all’analisi collettiva, che è il successo del giorno, vogliamo soffermarci un attimo sul punto di partenza? “Per me tutto cominciò al liceo, quando, vivendo in ambiente medico, feci la prima osservazione: Le malattie psichiche distruggono più di quelle fisiche. Una gamba rotta o una broncopolmonite tro- vavano soluzione mentre i pazienti depressi venivano liquidati col manicomio. Decisi allora di fare medicina e specializzarmi in psichiatria. Dopo la laurea, la pratica presso l’ospedale psichia- trico di Venezia. Per un anno e mezzo mi attenni al ruolo e alle disposizioni: non dovevo far altro che girare la chiavetta e zac: elettroshock.. Allora mi chiesi: ma cosa sto facendo? Sto alla catena di montaggio? Avvito le teste? Me ne andai e cominciò un periodo duro per me. Prima Verona, dove mi cacciarono perché ero “rosso”, poi approdai a Padova, dove un minimo di ricerca si faceva. E lì mi venne la prima ispirazione. Dissi: l’istinto di morte è l’istinto di morte, d’accordo, ma questi, i malati, non muovono un dito. Dov’è tutta questa aggressività? Un esempio? Reparto agitati: trenta ricoverati, due infermieri. Mai accaduto un incidente. Allora, quest’istinto di morte non è distruzione. In-cominciai così a studiare questo istinto passando e andando sempre più a fondo nel rapporto con l’inconscio. Mi trasferii in Svizzera, dove ebbi modo di superare la sindrome del malato per vedere cosa ci fosse dietro. Nel ’64 feci la mia analisi personale, la svolta fondamentale”. C’è un episodio cui puoi legare questo del passaggio dalla psichiatria alla psicoanalisi? “Si, ed è connesso a un paziente il quale, un giorno, mi rimproverò di non averlo assistito in una de-terminata circostanza e di avergli, quindi, “fatto del male”. Ma se quel giorno, mi dissi, io ero in ospedale, come posso avergli fatto del male? Fu un’illumina-zione: è l’assenza che fa del male. Cos’è l’assenza? E’ una pulsione attiva di annullamento”. Qui spunta Lacan…. “No. Lacan dice che è una man-canza. La mia, ripeto, è pulsione attiva di annullamento. La si può verificare nel “Non visto” e nel gioco infantile del “Bubù settete”, dove il bambino appare e sparisce. Di qui mille passaggi, verifiche e confronti. Una storia lunga, che comincia, però, qui: dalla scoperta dell’annullamento”. Arrivando a questa scoperta e nel lavoro successivo, l’inse-gnamento di Freud l’ha tenuto presente? “L’ho rifiutato e lo rifiuto total-mente”.
Anche tu, però, in questa ricerca , pratichi “l’arte del sospetto”? “Ma nemmeno per idea. Il sospetto parte da una verità precostituita e accertata: Io mi metto in sospetto se temo che tu mi dia un pugno: La mia ricerca non ha condizionamenti di questo tipo”. E’ importante, secondo te, che Freud sia nato”? “Io, sulla nascita delle persone, evito di intervenire. Giusto che sia nato, lo sbaglio è che si è messo a fare lo psicoanalista. Se avesse fatto il medico generico sarebbe stato molto meglio. Diciamo le cose come stanno: esiste una bibliografia enorme, opera di predecessori di Freud, che sta a dimostrare che Freud non ha scoperto niente.
Se una certa società e una certa cultura lo idealizzano tanto ciò è dovuto al fatto che con Freud l’analisi non si fa e questa società ha paura che la gente faccia l’analisi, perché fare l’analisi sul serio significa vederci chiaro, rendersi conto dei “mucchi di sabbia” di tanta cultura, significa imparare a dire si no. E chi sa dire di no rimette tutto in discussione: affare scomodo. Freud, invece, è comodo perché finge di fare l’analisi. Infatti, non ha metodo, si limita a codificare la non-trasformazione umana. La sua è un’analisi interminabile, perché parte dal punto di vista che non c’è niente da fare e allora ricade nella vecchia psicoterapia di sostegno. Roba dei tempi di Ippocrate.
Non c’è trasformazione…..”. Invece, nella tua c’è, a quanto lasci capire. ma prima di te? “C’è Marx. Ecco uno che aveva intuito la psicoanalisi, parlando di trasformazione. Mi riferisco al giovane Marx, quello dei “Mano-scritti” e dell’ ”Ideologia tedesca”. Meno male che anche tu ha i un padre, ma veniamo ai tempi nostri: quando ti sei deciso a rompere con la Società di Psicoanalisi Italiana? “E’ una storia risaputa. Comunque, fu nel ’68. Sentii che i tempi erano matura per tirar fuori quel che avevo scoperto e già praticavo. Pubblicai il mio primo libro e fu l’innesco della reazione a catena che mi ha portato agli attuali seminari basati sull’analisi collettiva”. Anche qui c’entra Marx? “Eh, sì. Perché tutta quella gente raccolta intorno a me parla, rac-conta, domanda, ascolta e domanda ancora. E torna, puntualmente, sen-za che nessun le abbia fissato un appuntamento né un programma d’analisi.
Tutti insieme, senza pudori né resistenze. Indub-biamente, trovano quel che stavano cercando. Tutti insieme, collet-tivamente. Siamo dunque lontano dall’analisi individuale. Un po’ co-me la presa di coscienza nella fabbrica, Per me è la conferma di essere sulla via giusta. Io non uccido il paziente come fa l’analista dall’alto del suo ruolo e del suo diploma, nel chiuso dello studio. Io li affronto, lì, seduto in mezzo a a loro che sono centinaia, pronti a rimbeccarmi se dico stupidaggini. Perché la gente conosce l’analisi più di quanto comunemente si creda”. Qual’è la differenza tra analisi individuale e analisi collettiva? “ All’analisi individuale si presenta, quasi sempre, un uomo che sta molto male: è confuso, annullante, depresso. In quel caso deva fare quasi tutto l’analista, cogliendo il problema e cerando di risolverlo, direi a dispetto dello stesso ana-lizzando che vuol distruggere l’ana-lista. Questo, in un certo senso si verifica anche al seminario, ma lì la risposta è collettiva. A volte io non faccio che interpretare il sogno di uno per rispondere a quello di un altro. E’ la conferma che l’uomo è un essere sociale. Vedi che Marx torna sempre? Voglio dire che il problema della ragazza la cui madre le dà della puttana perché esce la sera è problema di migliaia di persone, non è il problema per-sonale di quella singola ragazza con quella madre. Questo è il mio la-voro, in poche parole. E allora si capisce perché tutto ciò rappresenta la distruzione di Freud”.

Il Giorno 20.1.1978
La psicoanalisi da privilegio per pochi ad attività terapeutica di gruppo
Freud non è più lusso
di Adele Cambria


I giovani della nuova sinistra, in rottura con la psichiatria tradizionale, si riuniscono sempre più numerosi a Roma intorno a un transfuga della Società Psicoanalitica Italiana, il professor Massimo Fagioli - L'analisi non si fa più individualmente, è una ricerca collettiva degli equilibri perduti - Terapia scientifica o psicodramma? - Parla il promotore del nuovo movimento
"Si potrebbe dire - scriveva Gramsci nei "Quaderni del carcere" - che l'inconscio incomincia solo dopo tante decine di migliaia di lire di rendita". Insomma, per Gramsci l'inconscio ce l'avevano i ricchi, i poveri no. Problemi di lusso, quindi, i problemi dell'inconscio, e già Lenin del resto nelle sue conversazioni con Clara Zetkin (1921), s'era riferito alla psicoanalisi come a qualcosa che "fiorisce con esuberanza sul terriccio della società borghese".
Dopo sessant'anni, oggi nessuno potrebbe sostenere quelle tesi. Il bisogno di investigazione di sé, si conoscenza e di aiuto è diventato, se non bisogno di massa, certo una domanda che avanza e si fa drammatica, specie tra i giovani e le donne; le risposte istituzionali sono largamente inadeguate: da una parte, e nei casi più gravi, la psichiatrizzazione (manicomio o clinica per malattie mentali) e dall'altra psicofarmaci più o meno rimborsati dalle mutue, qualche CIM (Centro di Igiene Mentale) assediato da richieste cui non può rispondere, e le sedute di analisi individuale, inabbordabili da chi, pur proletario o proletarizzato (operai, disoccupati, studenti, donne), l'inconscio che l'ha, ma non ha i soldi per occuparsene. Nel silenzio delle istituzioni nascono allora i gruppi, più o meno spontanei, più o meno "selvaggi", in cui la gente si aggrega e parla di sé.
Come esempio e campione, traverso il quale svolgere questo primo tema, mi pare cronisticamente corretto scegliere una realtà terapeutica che emerge, nel paesaggio a volte confuso della "analisi di gruppo", con caratteristiche non ordinarie. Alcune di esse sono percettibili, per così dire, ad occhio nudo: la gratuità assoluta e il numero dei partecipanti, complessivamente valutabile a circa seicento persone, divise in tre gruppi, che si riuniscono in tre giorni diversi della settimana, con lo stesso analista. La qualità dei partecipanti pur non essendo esclusiva di questa situazione è, qui, sottolineata da una forte omogeneità,; è quello che, a partire dal febbraio scorso, si definisce come il "Movimento", a formare la popolazione di base in questa sede (una piccola aula dell'Istituto di Psichiatria dell'Università di Roma, diretto dal professor Giancarlo Reda). E' dunque la folla giovanile - maschi e femmine - diventata protagonista, anche drammaticamente, della scena politica italiana negli ultimi dieci mesi.
Su questo strato di fondo si innestano poi iscritti al PCI (ma sempre giovani), molte donne, alcuni medici (non soltanto psichiatri o psicoanalisti) qualche "nome" del mondo dello spettacolo, ovviamente più politicizzato (il regista Marco Bellocchio, la sua compagna, l'attrice Gisella Burinato).
Fin qui gli elementi esteriori che pure distinguono questo gruppo dagli altri. Gli elementi invece più profondi di diversità sono da rintracciare nella persona dell'analista, Massimo Fagioli, e nel fatto che in questa sede si sperimenta una teoria che Fagioli rivendica come originale. Qui non si fa analisi secondo Freud, Jung, Lacan, ecc.. o attraverso una miscellanea di teorie e pratiche diverse: si fa analisi secondo quanto è scritto nei testi di Massimo Fagioli, che sono tre: "Istinto di morte e conoscenza", "Psicanalisi della nascita e castrazione", "La marionetta e il burattino".
Per capire serve intanto sapere chi è Massimo Fagioli. Buon rieducatore o guru?
Professionalmente ha tutte le carte in regola, Medico psichiatra, prime esperienze "manicomiali" a Venezia e quindi a Padova, primi tentativi (metà degli anni sessanta) di gestione diversa del manicomio, poi trasferimento in Svizzera, nella clinica dell'antropsichiatra Ludwig Binswanger, dove vive per un anno in una comunità terapeutica (malati di mente, medici, infermieri).
Tornato in Italia costituisce egli stesso una comunità di questo tipo, ed incomincia a fare analisi didattica con il freudiano Nicola Perrotti. Ammesso nella Società Psicoanalitica Italiana (Spi), esercita la professione privata, e comincia ad elaborare le teorie oggi contenute nei suoi testi, attraverso le quali si pone come "eretico" rispetto a tutt'intera la tradizione e la prassi psicoanalitica (con l'esclusione parziale di Wilhelm Reich, come l'unico che abbia tentato la saldatura tra psicoanalisi e politica).
Scrive "Istinto di morte e conoscenza" e nel cerchio chiuso dei freudiani ortodossi viene allora considerato un talento; Franco Fornari, tra gli altri, parla di "scoperta" nella psicoanalisi (Congresso di Vietri 1971). Dal momento in cui il libro è pubblicato sopravviene l'ostracismo: nel febbraio del 1976 lo si costringe ad uscire dalla Spi. Già alla fine del '75, però, erano incominciati i suoi seminari.
Sentiamo, adesso, ciò che dice Massimo Fagioli.
Si può essere psicoanalisti e non freudiani (né junghiano, né lacaniani)?
"Non è nuova la psicoanalisi, è nuovo Freud. Così come non era nuova l'America, era nuovo Colombo". Questo lo scriveva il romanziere Arthur Schnitzler, nel primo decennio del secolo. Oggi, a quarant'anni dalla morte di Freud, si può e si deve dire la verità: non era nuovo neanche Freud. La psicoanalisi è sempre esistita: è esistita in Shakespeare, nella tragedia greca. Si tratta di tradurre in scienza, utilizzabile da tutti, ciò che per gli artisti è intuizione."
Ci sono alcuni concetti-chiave della teoria che tu hai formulata, e che pratichi nei gruppi di analisi collettiva. Essi sono, mi pare, quelli di "Istinto di morte, fantasia di sparizione, inconscio mare calmo, investimento sessuale", tutto un meccanismo, se ho capito bene, che si mette in moto nell'istante della nascita e poi, ancora, "invidia e bramosia". Puoi spiegare di che si tratta?
"Dell'istinto di morte Freud ha parlato tardi, nel 1920: ma, oltre ad essere stato preceduto, su questo argomento, almeno da due dei suoi allievi, Adler e Steckel (il "furto", in Freud, è sempre presente), c'è da dire che, ancora una volta, non si inventava nulla: l'istinto di morte appartiene al nichilismo russo, si profila già nell'Ottocento. Per me istinto di morte, non è necessariamente, tendenza negativa, distruttività: è piuttosto la prima pulsione del neonato a tornare da dove è venuto, nell'utero materno..."
Ma perchè, nascendo, si dovrebbe avere voglia di tornare indietro? Perchè dare per scontata questa situazione di "pessimismo esistenziale"?
"E' una questione di pura e semplice sopravvivenza: Il contatto con la realtà esterna, la realtà inanimata (luce, freddo, ecc.) è ostile al bambino, che finallora se n'è rimasto immerso beatamente nel liquido amniotico.
Il contatto sessuale, stabilito attraverso la cute, con il corpo della madre, produce nel bambino appena nato, il ricordo di ciò che io chiamo inconscio mare calmo. Il meccanismo della nascita è il seguente: il bambino nasce e in lui opera immediatamente l'istinto di morte, come pulsione a ritornare nel ventre della madre: per sopravvivere, egli ha bisogno di annullare la realtà esterna, ostile, che lo circonda (fantasia di sparizione): però, nello stesso momento, si forma in lui il ricordo dell'inconscio mare calmo, e il bambino, esprimendo la propria libido, cerca un investimento sessuale nel rapporto umano: cerca la madre, il seno materno.
Se questo primo rapporto fallisce, fallisce anche l'uomo come essere sociale (secondo la definizione di Marx). Quindi depressione, schizofrenia, ecc.
Ma con questa teoria non ti pare di rafforzare la pressione che l'intera cultura dominante (maschile) ha fatto fino ad oggi sopra la donna, responsabilizzando soltanto lei dell'eventuale infelicità del figlio? L'inconscio mare-calmo, il seno materno ... Tutto dipende da noi, l'aborto - come del resto aveva scritto Pasolini - è un'aggressione all'eden pre-natale, al tuo, quindi, "inconscio mare calmo..." O no?
L'aborto è comunque un fallimento, ma il rapporto col corpo della madre è qualcosa che si stabilisce gradualmente - non prima, senza dubbio, del 180esimo giorno dal concepimento - e, ci tengo a sottolinearlo, ha importanza soltanto dopo la nascita del bambino. In questo, davvero, siamo tutti uguali, e tutti, quindi, potenzialmente felici , al contrario di ciò che diceva Freud, perchè tutti disponiamo di un identico inconscio-mare-calmo, al sicuro da qualsiasi aggressione, anche dalle eventuali nevrosi delle madri incinte...
E il rapporto col seno materno, come primo rapporto da cui dipenderanno tutti gli altri?
Non è importante che la madre allatti, è importante l'investimento sessuale della madre nei confronti del figlio: perciò una maternità felice è soltanto quella della donna realizzata sessualmente, che conosce il piacere del proprio corpo, che gioca col proprio corpo e con quello del bambino.
"Invidia, bramosia, frustrazione positiva" sono altre nozioni portanti della tua teoria. Che significano?
L'invidia non ha niente a che fare col desiderio, come diceva Freud. Ha a che fare con l'odio: la bramosia è il voler introiettare l'altro, mangiarlo, divorarlo: amore come possesso e distruzione, e quindi non-amore. La frustrazione positiva è invece un atteggiamento da assumere da parte di chiunque voglia, o debba, "fare l'analista" nei confronti di un altro: e significa saper dire no all'altro, nel suo stesso interesse. Esempio: quando il bambino infila le dita nella presa di corrente, tu lo strappi via dal pericolo; lo fai nel suo interesse, e gli dimostri, così, di avere interesse per lui.
Tu infatti l'adoperi nei tuoi gruppi di analisi collettiva; qual è l'obiettivo di questa attività?
L'analisi ha sempre come obiettivo la cura della psiche; è la trasformazione della psiche, che sottintende, nella maggior parte dei casi, la cura di essa. L'analisi è: interpretazione (strumento) - trasformazione (obiettivo) - cura (effetto).
Che significa per te "interpretazione"?
Significa che io, analista, debbo interpretare, cioè rendere esplicito il significato di ciò che tu mi porti in analisi : sogni, associazioni di idee, fatti tuoi, ecc.
Ma questo rigore - interpretare e basta, non dar consigli, non intervenire - non è in contraddizione con la tua polemica contro gli analisti che ascoltano, tacciono e intascano l'onorario del paziente?
Ma quelli non ascoltano neppure. Ricevono telefonate, pensano ai fatti proprio. Fanno, insomma, fantasie di sparizione sulla persona che hanno davanti. E questo succede perchè l'analista, spesso, è più malato del paziente: malato di invidia, di bramosia, di istinto di morte/annullamento. L'analisi buona è quella che realizza interamente il rapporto umano, per incominciare, tra analista ed analizzando...
Un altro dogma freudiano che tu stai abbattendo è quello del pagamento. I tuoi gruppi sono gratuiti. Allora non è vero quello che diceva Freud che, se non si paga, l'analisi non funziona, no riesce?
Il fatto del pagamento ha attinenza con la cura soltanto quando il rifiuto di pagare - se se ne hanno i mezzi - esprime la bramosia del paziente nei riguardi dell'analista. Se tu guadagni tre milioni al mese, e mi vuoi dare mille lire a seduta, questa tua bramosia va frustata, e me ne devi dare venti. Nella società di domani, comunque, l'analista dovrebbe essere retribuito dalla collettività e
quindi, gradatamente, scomparire.

Il Messaggero 29.3.1978
Psicanalisi e politica.
Si espande il fenomeno dell'"analisi collettiva", da noi già segnalato fin dal novembre scorso. Ma i suoi fondamenti teorici sono molto fragili. E il senso politico di questa moda è abbastanza equivoco. Vediamo perché.
Psiche e Fagioli
Di Sergio De Risio


Il corriere della sera del 12 marzo ha ripreso, con un articolo apologetico di Giuliano Zincone, il discorso su di uno psicoanalista cui già Il Messaggero aveva, nel novembre scorso, dedicato una pagina intera di interventi impostata criticamente. Massimo Fagioli, lo psicoanalista di cui si tratta, appare nell'ultima intervista di Zincone, se possibile, ancora più violento, in ogni caso ancora più deciso e preciso nel suo attacco radicale al pensiero di Sigmund Freud. Certamente eravamo già abituati al puntuale ricorrere nel tempo, con l'insistenza delle cose sciocche, di quelle mescolanze di discorsi oggi dette pasticci fraudo-marxisti: da Marcuse a Guattari, per menzionare solo i più recenti. Tuttavia Massimo Fagioli presenta caratteri di tale originalità nelle dichiarazioni rilasciate ai giornali (dal presentare Freud come un imbecille al presentare Marx come il legittimo inventore della psicoanalisi) che ci ha sollecitato il desiderio di andare a rivedere i temi della famosa trilogia che sostanzia la sua produzione: Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e il burattino, Psicoanalisi della nascita e castrazione umana.
Quali profonde innovazioni vi sono contenute, quali visioni inedite dell'uomo e dell'inconscio, tali da rimettere totalmente in questione metodologia e teoria psicoanalitiche, non solo ormai secondo lui banalmente borghesi, ma addirittura sadico-assassine? Deve essere senz'altro necessario leggere e meditare lungamente ed essere pronti ad abbracciare, se risulta ineluttabile, la "psicocosa" detta "collettiva" o "d'assemblea", giacché ciascuno avrebbe il dovere di sottrarsi, se mai vi fosse per qualunque ragione incappato, al compito di trucidazione della mente che l'esercizio della psicoanalisi rappresenta per Massimo Fagioli.. Deve essere senz'altro necessario prepararsi a spazzar via senza indugio il cumulo di imbecillità formulato da Freud e accogliere i suggerimenti di Fagioli, se ne dovessero conseguire una pratica di cura non dico più efficace ma almeno meno disastrosa, e un sistema teorico più ricco, più chiaro, più coerente.
Macché. Va subito detto che Massimo Fagioli non rappresenta nient'altro, dal punto di vista per così dire teorico, che un'aberrante mistura di teosofiche ingenuità lanciate lì senza pensarci su due volte, tra le pagine come tra le persone, in uno stile che risulta da un uso degradante della terminologia freudiana spinta fino ai confini dell'insignificanza più totale. Che dice dunque Fagioli? Che Freud è un imbecille perchè non avrebbe capito che la pulsione di morte è " pulsione attiva di annullamento"; che l'imbecillità si raddoppia perchè Freud non ha mai usato il termine fagioliano di "Fantasia di sparizione"; che il ruolo del concetto di castrazione nella teoria è troppo scomodo e che sarebbe meglio rimpiazzarlo col concetto di "Nascita"; che non esiste scissione nell'essere dell'uomo; che il "super-io" tanto varrebbe fosse chiamato per esempio "Andreotti" ( rapito anche quello, chi sa, scomparirebbe pure la nevrosi); che è importante la "separazione" da mamma e papà, e se la cosa dovesse comportare un poco di dolore, sarebbe allora opportuno sbrigarsi a diventare collettivista. La separazione infatti (egli crede di scoprire) è la dinamica fondamentale di quattro momenti: la nascita, lo svezzamento; la visione dell'essere umano diverso, la pubertà.
Che cosa ne hanno fatto, di questa separazione, Freud, Klein, Winnicott, Bion, Lacan? Non ne hanno mai parlato? Ma si, qualcuno ne ha parlato, però giocava a fare il Re, l'Imperatore, forse l'imperialista, insomma tutti si sono schierati come un esercito compatto, crudele, cieco e perfidamente mirante a trucidare ogni possibilità di nascere e di crescere; a metà strada tra la strage di Erode e l'uso del preservativo.
Solo lui Fagioli, promuove la nascita: Egli la promuove nel "collettivo".
Questo termine va dunque approfondito perchè rivela, nell'uso che Fagioli ne fa per la pratica e per la teoria, il senso esatto della sua operazione. Il Collettivo è per Fagioli lo strumento per attaccare la "scientificità", la "Teoresi", che, come in questo caso giustamente egli intravede, costituiscono la forza della psicoanalisi stessa. Nella trentacinquesima delle lezioni introduttive allo studio di tale disciplina Freud scriveva: "Il pensiero scientifico è ancora troppo giovane tra gli uomini, non ha potuto ancora risolvere troppi dei grandi problemi. Una Weltanchaung costruita sulla scienza, oltre che accentuare il mondo esterno reale, ha essenzialmente tratti negativi, come il richiamo alla verità, il rifiuto delle illusioni. Chi tra i nostri simili è malcontento di questo stato di cose, chi chiede di più per potersi momentaneamente consolare, se lo procuri dove lo trova. Noi non ce ne avremo a male, non lo possiamo aiutare, ma non possiamo nemmeno, in onor suo, pensare diversamente".
E' chiaro che Fagioli è uno di questi malcontenti, ed è un grave errore che ciò di cui ha bisogno se lo vada a cercare in maniera tanto maldestra; affogando cioè la psicoanalisi nella modalità sciatta della ideologizzazione. Che cosa tanto affanno gli consente di trovare? " La nostra dizione, realtà non materiale - scrive Fagioli - si riferisce ed intende proporre un pensare e un discorso sulla realtà dell'uomo che si costituisce come totalità". " La realtà non materiale umana - scrive altrove - una volta che sia vista e pensata come verità umana di essere per essere in rapporto con l'altro e realizzata per essere stati in rapporto con l'altro, si costituisce come essere dell'uomo totale, senza scissione di anima e di corpo, di ragione e sessualità". In sostanza dunque ciò che trova è schematicamente enunciabile così : "La prassi di essere insieme restituisce l'uomo ad una Totalità"
Credo che non valga la pena di scomodare teologia o metafisica per qualificare in qualche modo la mescolanza di osservazioni che costituiscono il corpus fagioliano: teologia e metafisica, sotto i colpi del pensare di Nietzsche o di Heidegger, rivelano una capacità speculativa che non può comunque essere ridotta a qualche accenno di farneticazione.
Per poter costituire questa credenza immaginaria nella Totalità, Fagioli abbandona la scienza, quella di Freud, "che non considera tutto, è incompleta, non ha la pretesa di essere chiusa in sé e di formare un sistema", e si lascia andare a qualche slogan alla moda. Crede che basti magari evocare il fatto che la scienza non è neutrale e pretende che questa magica formula diventi un buon lasciapassare per ogni tipo di sciocchezza. Qui è davvero l'anti Freud.
Il progetto freudiano infatti mina, pur nella sua gigantesca compattezza, metodicamente ogni tentativo di "totalizzazione". La struttura della metodologia freudiana si presenta come continuamente costruibile, anticipando di fatto alcune delle formalizzazioni più importanti della moderna epistemologia circa lo statuto della scienza. Se quest'ultima, e con essa la psicoanalisi, ha da tempo abbandonato le ingenue fantasie positiviste, non è certo per cadere nelle subdole reti di un nuovo Tutto inesistente. Si capisce bene, a questo punto, perchè Fagioli intende liquidare in psicoanalisi i concetti di castrazione, di limite, di mancanza, e ammorbidire in modo completamente narcisistico il difficile problema di ciò che Freud designava come " Narcisismo Primario"
Vale ora la pena di chiedersi in che rapporto stanno le idee così tracciate di Fagioli con la pratica della cosiddetta " psicoanalisi di assemblea". Cosa vi vanno a desiderare i giovani della Nuova Sinistra, cosa lo stesso Fagioli? "Cercano tutto " si potrebbe dire parafrasando un altro slogan di ormai decennale memoria. Cercano tutto, senza fare niente, se non qualche esercizio spirituale. Incapaci di risolvere vere e proprie frustrazioni nate da un certo impegno nel politico, si ritrovano insieme a lamentare. Sono seicento? Data la natura delle cose direi che sono ancora pochi: è assai probabile che diventino presto di più. Quanti sono oggi coloro che cercano, per riprendere Freud, di potersi momentaneamente consolare?
Un'ultima parola sul tipo di legame che probabilmente tiene uniti assemblearmente seminarista e seminarizzati. In Psicologia della masse e analisi dell'Io, fin dal 1921 veniva messo in primo piano il ruolo specifico del capo nel contesto di qualsivoglia formazione collettiva. Il capo va ad occupare, nel soggetto, il posto dell'ideale. Come è noto, innamoramento e ipnosi sono le condizioni che Freud sinotticamente o in parallelo pensava di evocare, ed è già di per sé più che significativo. Più tardi Bion mostrava come questo posto di capo o leader, qualora fossero sufficientemente sviluppati un vertice ed un'attenzione analitica, si rivelasse prezioso osservatorio delle tensioni interne alla formazione collettiva e delle tensioni tra la formazione collettiva e il leader stesso. Si poteva cioè sviluppare, con il concorso collettivo, una funzione analitica nel gruppo. Cosa accade dove vertice ed attenzione analitica sono così palesemente soppiantati? Personalmente propendiamo per l'ultima ipotesi che Guarini indicava nell'intervento da lui dedicato all'argomento, quella più derisoria: Il politico che rispunta, travestito da Psicomante, proprio nel luogo in cui il gregge, forse senza saperlo, progetta di abolirlo!

Corriere della Sera 9.3.1978
Psicoanalisi d'assemblea all'Università
A Roma è scoppiato l’anti Freud
di Giuliano Zincone


Roma – "Ho sognato che rimproveravo mio figlio. Poi stiravo un suo grembiule, usando acqua distillata, e il grembiule diventava un fazzoletto. Cambia scena, ci sono dei bambini che giocano. Parlo con uno di loro, il suo muco mi va in bocca. Penso alla nascita". Siamo in un’aula dell’istituto di psichiatria dell’università di Roma, assistiamo a uno dei tre seminari settimanali tenuti dal professor Massimo Fagioli. La stanza è affollata da duecento persone, arrivate con due ore di anticipo per assicurarsi i posti migliori. Per curarsi collettivamente, raccontando i propri sogni, Fagioli risponde: "Tu annulli la nascita. Al tuo bambino dai un fazzoletto per piangere, invece di dargli investimento sessuale (interesse). La madre tenta sempre di annullare la nascita, l'Io del bambino". Gli analizzandi sono quasi tutti giovani: studenti, psicanalisti in crisi, casalinghe, gente del cinema, intellettuali. I seminari sono gratuiti, il metodo analitico è fondato sulle teorie di Massimo Fagioli, contenute nei suoi tre libri, Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e il burattino. Psicoanalisi della nascita e castrazione umana (Ed. Armando), Freud non è solo rifiutato, ma severamente sbeffeggiato. Senza il minimo riguardo, Fagioli lo definisce come "il vecchio imbecille sadico". Jung, invece, è paragonato a un "manicomio medioevale". I pazienti vengono da esperienze di estrema sinistra, molti sono tuttora militanti. Il loro atteggiamento, nei seminari, non manifesta, in genere, disturbi gravi o disperazioni, ma una specie di ansietà, una scontentezza profonda e diffusa. La fame di benessere mentale sta diventando un fenomeno di massa, tra i giovani e gli intellettuali delle nostre città. Le radio private trasmettono sempre più spesso conversazioni, sfoghi, interpretazioni selvagge dei sogni. Si moltiplicano i gruppi d'incontro, i gruppi reichiani, si importa dall’America la "terapia dell’urlo", la "terapia del contatto". Le istituzioni psichiatriche sono screditate, i movimenti dell’antipsichiatria, i "manicomi aperti", oscillano tra la negazione della malattia mentale e la ammissione della propria impotenza. Molti psicoanalisti confessano candidamente di non credere nell’efficacia terapeutica del proprio mestiere. Fagioli, invece, ci crede. Ha comunicato nel 1975 questo lavoro all’università, con un piccolo seminario per colleghi sfiduciati. E adesso ha in cura tre grossi gruppi, seicento persone in tutto, legate a lui (e tra di loro) dalla voglia di liberarsi della "corazza caratteriale" del "linguaggio della razionalità cosciente" di "debellare le tre streghe che rendono pazzi gli uomini: "invidia, bramosia, fantasia di sparizione" e di riscoprire il proprio Io, "l’inconscio mare calmo". La famiglia e la coppia, istituzioni che i rotocalchi danno per sepolte, sono al centro dei sogni e delle ansie degli analizzandi: Le interpretazioni di Fagioli tentano costantemente di recuperare i racconti e le preoccupazioni individuali alla dimensione collettiva, al rapporto con l'esperienza analitica e col gruppo. "Sogno che la mia ragazza è incinta". Nasce un bambino. I preparativi per il parto comprendono l’uso di sacchi di plastica: dentro ci mettiamo carne, latte". Risponde Fagioli:" All’inizio non riuscivi a capire il lavoro di analisi, perché l’analisi è frustrazione. Ma non è vero che non hai capito: il bambino è nato. Vorresti metterlo nella plastica, come per dire che non ha un Io. E invece lo ha: il vecchio Imbecille (Freud) non ci convince. Ti fa rabbia che il bambino, cioè l'Io, venga fuori a tuo dispetto. Ma in una situazione di analisi collettiva è proprio così: che tu lo voglia o no, l’inconscio reagisce". Un altro giovane: "Per motivi materiali mi riesce difficile separarmi dai miei genitori. Tento di farlo, ma con odio e desiderio di vendetta": Fagioli: "No, l’odio e la rabbia li hai nei nostri confronti, perché il seminario ti impedisce di fare i tuoi giochetti furbastri". Certo, per un osservatore esterno, molte allusioni (come questa sui "giochetti furbastri") sono incomprensibili. Chi partecipa, invece, non solo capisce tutto, ma stabilisce con gli altri dei rapporti molto particolari, fino a sognare soggetti analoghi. Alcuni analizzandi provano a mettersi (o a rimettersi) in proprio, a "curare" a pagamento altre persone. Ma incorrono nella scomunica: con estrema durezza, Fagioli accusa in pubblico i rei confessi di seminare ansia e paralisi nella assemblea, di derubare e rovinare i loro "pazienti". Ecco un’analista selvaggia ammettere in lacrime la propria colpa: "La settimana scorsa hai detto cose terribili sul mio conto. Ho sognato tanto sangue che usciva da tutte le aperture del mio corpo". Fagioli le risponde seccamente di restituire alle sue vittime i soldi che ha rubato. "I miei genitori si separarono quando avevo quattro anni – racconta una ragazza -. Mio padre sparò a mia madre, tentò di uccidere anche me, mi rincorse con una pistola. Adesso sogno ancora che mio padre vuole uccidermi. Sogno un bambino sgozzato. Molto sangue. Sogno che un giudice mi chiede di raccontare i momenti belli della mia vita. E io mi sento in colpa: non posso rispondere, perché di momenti belli non ne ho avuti mai". Interpreta Fagioli: "il bambino sgozzato è l’Io. Per recuperarlo devi superare l’identificazione con tuo padre e con tua madre. Devi mettere la tua storia personale in un discorso sociale, in un rapporto. Non sei sola. Molti padri, molti psicoanalisti tentano di ammazzare i figli, pazienti". Prevalgono nei seminari, la fede nel maestro e l’ansia di esserne gratificati. Ma ci sono anche casi di scetticismo. "Massimo, mi chiamo Emilia, devo assolutamente parlarti. E’ la prima volta che vengo, non mi convinci, a sentire tutti questi sogni non mi sono divertita per niente…..". La interrompe un’altra donna, piangendo: "Quando neghi il ruolo di Massimo uccidi i bambini. Ho sognato che ero a Parigi, in una situazione di post-sessantotto, al pronto soccorso, vedo una testa e le tolgo il cervello. Ho fatto cose tremende nella realtà materiale, faccio male ai bambini, lunedì scorso mi hai detto quel che mi merito, mi sono sentita una delinquente, e mia figlia mi dice sempre vaffanculo. L’unico che aiuta sei tu". Il marito di questa signora è riuscito a scrivere una sceneggiatura e lei lo invidia. Il giorno dopo, Fagioli dirà al marito: "Ieri tua moglie Caterina ha avuto una crisi di invidia nei tuoi confronti. Lei non ammette che una persona possa realizzarsi, fare progressi". No, Fagioli non è certo un analista permissivo, non usa la bacchetta magica per far sparire i sentimenti di colpa dei pazienti. Ma questa, forse, è una delle cause del suo successo, nei confronti di un gruppo sociale per il quale la contestazione del principio d’autorità ha coinciso con la caduta di un intero sistema di valori. A noi sembra che (al di là dei suoi compiti specifici) Fagioli interpreti in modo piuttosto "contemporaneo" un ideale di società fraterna (non gerarchica) capace di darsi discipline e regole del gioco orientate verso finalità comuni. "Bisogna prima far l’amore con la madre, e poi uccidere il padre", dice Fagioli, capovolgendo la storia di Edipo. Il che significa (se interpretiamo correttamente) che, prima di abbattere l’autorità, è necessario esser certi della propria identità e dei propri fini. Molti giovani e molti intellettuali, orfani di utopie e delusi dall’azzeramento culturale generato dalle loro esperienze recenti, vogliono sentirsi dire proprio questo. E, in attesa della "società fraterna" accettano di buon grado l’autorità ("liberante" ma ben presente) di Massimo Fagioli. Parliamo col professore. E’ molto severo. Condanna l'omosessualità ("è annullamento, è legata alla pulsione di morte"), condanna la masturbazione ("è fantasticheria sadomasochista"), condanna i suoi colleghi che negano il loro ruolo ("ma poi ricorrono ai farmaci"). "Io – dice – credo nella cura, credo nella conoscenza e nella trasformazione, come Marx. Individuo le dimensioni disumane (indifferenza, invidia, bramosia) e le frustro. La frustrazione genera interesse, desiderio di cambiare, di guarire. Con l’analisi collettiva il salto di qualità è enorme, il lavoro è molto più efficace. Ma alla base ci sono le mie teorie. Io ho avuto il coraggio e la capacità di rifiutare Freud, l’imbecille che non aveva capito niente, che era al livello di un medico che crede che il fegato sia nella coscia sinistra". La teoria di Fagioli è abbastanza complicata da riferire. L’analista ce ne offre uno schema: "La malattia mentale non è congenita. Tutti gli uomini nascono sani. Trasformano l’esperienza materiale del loro rapporto col liquido amniotico in "inconscio mare calmo". La prima fantasia-ricordo (Io) è l’inconscio mare calmo che corrisponde a interesse e desiderio. Questo sentimento dovrebbe trovare risposta nella madre, che invece non lo soddisfa. Anzi, la madre tratta il bambino con fastidio, come un oggetto vile da plasmare, educare. Il desiderio infantile di ricevere latte e interesse diventa delusione. Il desiderio delusione si scinde in odio, rabbia, invidia, bramosia. Genera rapporti sadomasochisti o indifferenza. Eliminare l'indifferenza e frustrare il sadomasochismo porta alla scoperta dell’inconscio mare calmo, al recupero dell'Io, alla guarigione". Una teoria come questa, fondata sui "rapporti", privilegia necessariamente la dimensione collettiva e sociale. "Per me – dice Fagioli – non c’è sessualità senza socialismo, e non c’è socialismo senza sessualità. La società borghese è masturbatoria, divide nettamente il comportamento pubblico da quello privato. Nella società borghese, uno può essere un buon cittadino anche se violenta la moglie e picchia i figli, basta che rispetti il codice penale. Ci si meraviglia se i bambini diventano pazzi. Ecco, questa cose bisogna combatterle, non rassegnarsi, non assumere un atteggiamento consolatorio. Un analista che consola, condanna a morte il paziente. Viviamo in una società dove la famiglia ha ancora un enorme potere distruttivo, dove c’è una miseria sessuale tremenda. La gente, a casa, si annulla, assume dei ruoli astratti: i genitori, i figli, non sono più persone con le quali stare bene, ma autorità, sudditi, maschere"" Fagioli è severo anche con quei gruppi di psichiatri che privilegiano l’azione politica rispetto alla terapia. "Loro – dice – pensano che tutti i mali vengano dalla società e che quindi o si fa la rivoluzione o non si può curare nessuno E invece non è vero, non è automatico che tutto si aggiusti, dopo aver risolto i problemi politici ed economici. Ci vuole un interesse specifico per la dimensione psichica. Questo è il nostro compito. La trasformazione politica spetta ai partiti di sinistra. E, nel frattempo, rassegnarsi è un delitto, bisogna lavorare nonostante le istituzioni, nonostante la società. Altrimenti si finisce in un vicolo cieco: devo fare la rivoluzione perché la società mi condiziona, ma siccome la società mi condiziona non posso fare la rivoluzione. Troppo comodo". G. Zi.


SULLA STAMPA DI OGGI:


l’Unità 15.3.11
Napolitano: applausi alla scuola pubblica
Barroso: sbagliato tagliare
Dal Presidente e dall’Europa partono segnali chiari verso le sciagurate politiche del governo italiano. Anche Emma Marcegaglia è d’accordo con loro: è uno dei pochi campi in cui si deve continuare ad investire
di Marcella Ciarnelli


Ègiusto esprimere una più che giustificata soddisfazione per il grande contributo che l'istruzione pubblica ha dato alla crescita dei sentimenti di unità e di identità nazionale degli Italiani». Il riconoscimento alla funzione fondamentale della scuola pubblica lo ha fatto il presidente della Repubblica nel messaggio inviato in occasione dell'iniziativa promossa dalla casa editrice Laterza «L'Italia unita a scuola». Dieci scuole disseminate sul territorio, che per tre giorni diventeranno luogo di incontro, discussione, confronto. Del contributo della scuola pubblica, ha ribadito il presidente «c'è ancora e più che mai bisogno per rafforzare la coesione del paese dinanzi alle ardue prove cui è chiamato» e «va al tempo stesso sottolineata l'importanza del compito che spetta alla scuola nel diffondere tra le nuove generazioni una più approfondita conoscenza dei diritti e dei doveri che da più di mezzo secolo la Costituzione repubblicana garantisce e indica a tutti i cittadini».
E, guardando oltre i nostri confini, «appare necessario che la scuola prepari i giovani ad essere sempre più consapevoli degli obiettivi che dobbiamo proporci, come stato nazionale, nel quadro dell'Unione Europea. C'è ancora molto da fare affinché in Europa tutte le categorie sociali e tutte le realtà regionali possano essere partecipi di un più elevato livello comune di benessere».
Ma «le nuove generazioni, che hanno la fortuna di vivere in un’Europa di pace, libera dall'incubo di ricorrenti conflitti, dovranno far fronte con coraggio e lungimiranza a sfide nuove e difficili. È compito anche della scuola di far crescere nei giovani le conoscenze e i valori necessari per meglio affrontarle».
Esiste, dunque, «la nuova realtà di un mondo in cui grandi popoli sì stanno dimostrando capaci di uscire da una secolare condizione di arretratezza, ma nel quale esistono vasti arsenali di armi di distruzione di massa e, comunque ogni crisi e conflitto locale rischia dì coinvolgere tutti, impone ai paesi ancora oggi più ricchi di risorse di assumersi nuove responsabilità, per contribuire alla cooperazione fra gli stati, alla sicurezza, alla pace e al progresso civile in tutti i continenti».
Il presidente Napolitano ha più volte richiamato in questi mesi, la necessità di sostenere la cultura e la ricerca pur in presenza di una evidente necessità di operare dei tagli di bilancio per affrontare la crisi.
Sulla sua stessa linea si è espresso anche il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso che ieri ha tenuto alla Luiss una lectio magistralis durante la cerimonia per il conferimento della laurea honoris causa: «Non è intelligente tagliare le risorse ai settori della scienza, dell'istruzione e della cultura» ha detto Barroso. Ed anche la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, nel corso della stessa cerimonia, ha riaffermato la necessità di «investire nella crescita, nell'università e nella scuola. Dobbiamo e possiamo fare di più, questo è uno dei pochi campi in cui il governo deve continuare a investire soldi».
La scuola è sicuramente uno dei luoghi dove si è fatta l'unità d'Italia, anzi, dove si sono fatti gli italiani. È grazie alla scuola che abbiamo imparato a parlare la stessa lingua, riconoscendo una comune identità. Ecco perché la casa editrice Laterza ha pensato di promuovere nelle scuole tre giornate di riflessione e di festa, di discussione e di condivisione, da oggi al 17 marzo, giorno della proclamazione del Regno d'Italia. Tre giornate dedicate a lezioni magistrali, seminari, workshop, concerti, mostre, film ed altro sui temi della storia dell'Italia unita. Storici ma anche filosofi ed economisti, sociologi e giuristi, scrittori e giornalisti saranno coinvolti in un confronto aperto con i cittadini, gli insegnanti e, soprattutto, gli studenti, veri protagonisti delle tre giornate.

l’Unità 15.3.11
La nostra Carta
L’anticipazione Ecco alcuni stralci della lettura commentata di Pasquino alla Costituzione
L’autore «Calamandrei sarebbe inorridito dai nostri politici: hanno cercato di migliorare l’Italia?»
La rivoluzione promessa? Possiamo ancora farla. Tutti noi
Quella che segue è una parte dell’introduzione di Gianfranco Pasquino al libro «La rivoluzione promessa. Lettura della Costituzione italiana» (Bruno Mondadori) , da giovedì in libreria.
di Gianfranco Pasquino


Le Costituzioni moderne sono soprattutto carte che codificano le libertà; sanciscono diritti e doveri dei cittadini; delineano i rapporti fra cittadini e le istituzioni; specificano la divisione dei poteri e i limiti del loro esercizio a opera di ciascuna istituzione e di coloro che vi sono preposti. Oggi, possiamo affermare con sicurezza che le Costituzioni danno forma a un sistema politico, e potremmo aggiungere che dove non c’è una Costituzione non esiste, pur con la luminosa eccezione della Gran Bretagna, democrazia. Tutti i sistemi politici che si sono affacciati alla democrazia, negli ultimi trent’anni alcune decine, si sono dati Costituzioni il cui elemento centrale è rappresentato dal riconoscimento e dalla garanzia dei diritti dei cittadini. Molto spesso i rispettivi costituenti hanno approfittato della possibilità, qualche volta una vera e propria necessità, di scrivere la Carta costituzionale per delineare anche il tipo di sistema politico, sociale ed economico da loro preferito. Nessuna Costituzione contemporanea potrebbe oggi fare a meno di offrire spazio al mercato e alla concorrenza economica. Né potrebbe tralasciare di regolamentare tutto quello che attiene all’istruzione, al lavoro, alla salute dei suoi cittadini.
Tra il 1946 e il 1948 i costituenti italiani ebbero la grande opportunità di collaborare alla stesura della prima vera e propria Carta costituzionale della Repubblica democratica italiana. Da uno dei più autorevoli di loro, per statura intellettuale e conoscenza del diritto, Piero Calamandrei, vennero contributi significativi, ma anche forti critiche al testo approvato. In particolare, Calamandrei, giurista positivista, manifestò forte contrarietà alle norme programmatiche, quelle che indicano quanto deve essere fatto, che, per l’appunto, delineano un programma. Quando, pochi anni dopo la promulgazione, Calamandrei si trovò a fare un bilancio, ancorché preliminare, della Costituzione italiana, affermò con una frase memorabile che era una «rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata».
Negli articoli della Costituzione, addirittura nel suo impianto complessivo, stava un disegno di trasformazione dei rapporti politici, sociali ed economici che, almeno in parte, rifletteva le grandi e nobili aspirazioni della Resistenza, ovvero la «rivoluzione mancata». Quella di Calamandrei non era soltanto una frase a effetto. Purtroppo la fase di applicazione della Costituzione non si è mantenuta fedele alle sue promesse e alle norme programmatiche. La storia della Repubblica italiana spiega il perché delle inadempienze, ma non può giustificarle, anche se la guerra fredda (1946-1989) sicuramente non facilitò scelte che la Costituzione suggeriva e incoraggiava. In seguito, lo strapotere dei partiti, ovvero la partitocrazia, tutt’altro che un fenomeno inevitabile e meno che mai insito nella Costituzione italiana, provocò non poche inadempienze e distorsioni costituzionali. Da più di tre decenni, ormai, l’attenzione si è spostata e si è concentrata sulle istituzioni e sulla loro riforma, spesso addirittura esclusivamente sul sistema elettorale, nella ricerca spasmodica della formula che convenga maggiormente a partiti che si sono alquanto indeboliti, ma che rimangono gli attori politici dominanti. È probabile che i costituenti, non soltanto Calamandrei, guarderebbero preoccupati, se non addirittura inorriditi, alle proposte particolaristiche di cambiamento delle regole e delle istituzioni. Preoccupazione e orrore non deriverebbero affatto da una loro difesa a oltranza, come fanno alcuni politici, giuristi e intellettuali italiani, di tutto il testo costituzionale quasi fosse un oggetto sacro. Al contrario, pochi di loro riterrebbero la Costituzione immodificabile poiché le modalità delle eventuali modifiche sono chiaramente indicate e regolate. I costituenti non meritano l’appellativo
di «conservatori istituzionali». Si chiederebbero, però, se la classe politica italiana ha davvero operato per tradurre la rivoluzione promessa in quelle riforme politiche, sociali ed economiche che renderebbero migliore l’Italia.
La lettura del testo costituzionale, effettuata senza interferenze politicizzate e senza paraocchi ideologici, consente di cogliere in molti articoli le potenzialità tuttora vive di una trasformazione profonda dell’Italia, anche grazie al suo inserimento, previsto in maniera lungimirante, negli organismi europei e nelle istituzioni internazionali. Credo che sia doveroso sottolineare che i problemi politici, sociali, economici e istituzionali italiani non hanno nessuna radice negli articoli della Costituzione, anche se alcuni articoli sono, senza dubbio, da rinfrescare e da ritoccare, talvolta anche da riscrivere. Ma la rivoluzione promessa è ancora tutta davanti a noi, perseguibile e conseguibile. La Repubblica alla quale i costituenti hanno affidato il compito ambiziosissimo ed esigentissimo di rimuovere gli ostacoli che «impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale» siamo noi, cittadini e detentori di cariche politiche a tutti i livelli. La responsabilità maggiore è sempre quella di chi ha più potere politico, ma qualsiasi rivoluzione, anche pacifica, da effettuarsi attuando le norme programmatiche, ha bisogno di un ampio sostegno popolare e di una convinta partecipazione di cittadini informati. Sono entrambi elementi che una buona conoscenza della Costituzione è in grado di costruire e potenziare. Era la speranza dei costituenti italiani. È rimasta tale.
Tutti i diritti riservati © 2011, Pearson Italia, Milano Torino. Prima edizione: marzo 2011

l’Unità 15.3.11
A Roma Santa Cecilia, respinte le dimissioni del presidente Cagli. Pressing di Letta e Alemanno
Intanto il grande archeologo dà l’addio alla presidenza del Consiglio superiore dei beni culturali
Cultura, ormai è frana continua. Lascia anche Carandini
Una «ribellione all’assassinio della cultura italiana». Questo il senso delle dimissioni di Carandini dai beni culturali, che hanno suscitato un vero e proprio terremoto politico. Ed è solo l’ultimo caso...
di Luca del Fra


Continua lo sfaldamento del ministero dei Beni e delle Attività Culturali, ieri è toccato al consiglio superiore dei Beni culturali: dimissioni per il suo presidente Andrea Carandini, mentre gli altri membri si sono autosospesi e la seduta è stata rinviata. Alla base della decisione ci sono i tagli del Governo alla cultura e la latitanza reiterata del ministro Bondi certo non aiuta. Si ripete in sostanza quanto accaduto qualche settimana fa con la Consulta dello spettacolo che ha fatto saltare la sua seduta: in entrambi i casi si tratti di organi obbligatori ma consultivi, dunque senza un loro parere non si possono spacchettare i pochissimi fondi a disposizione. C’è chi vede in queste dimissioni il segnale dell’arrivo imminente di un nuovo ministro, ma di certo il ministero è alla paralisi.
Solo oggi sono rientrate le dimissioni di Bruno Cagli dall’Accademia di Santa Cecilia, in seguito alle pressioni sia del mondo politico (Letta e Alemanno in prima persona) che dal consiglio di amministrazione. Quanto a Carandini, a cosa servirebbe muoversi, deve essersi domandato andando ieri alla seduta del consiglio: ai feroci tagli decisi dalla finanziaria e confermati dal «Mille proroghe», si è aggiunta la sparizione di altri 70 milioni di euro, nella versione ufficiale «congelati», ma in realtà già tagliati. Si tratterebbe infatti dei proventi di un’asta sulle frequenze televisive che il Governo di Berlusconi, maggior imprenditore televisivo italiano, non sembra aver intenzione di fare – perché dar frequenze a possibili concorrenti?
Così sedutosi al tavolo del consiglio superiore Carandini ha aperto la seduta dimettendosi, «stante la progressiva e massiccia diminuzione degli stanziamenti di bilancio» del ministero dei Beni Culturali. Alcuni erano propensi a seguire il loro presidente, ma alla fine il Consiglio ha scelto per l’autosospensione, non sia mai perdere una poltrona. Salta agli occhi come le stesse «irrevocabili dimissioni» di Carandini, appaiano poi revocabili a Francesco Maria Giro: il più dichiarante sottosegretario della storia della repubblica non ha perso l’occasione di dichiarare che «la lettera, con la quale il professor Andrea Carandini ha annunciato le dimissioni, rivela una disponibilità a proseguire il proprio impegno alla guida del Consiglio superiore purché si assumano a breve termine scelte concrete a sostegno del patrimonio culturale nazionale». Non sono mancate le dichiarazioni di solidarietà nei confronti del dimissionario presidente da parte dell’opposizione, ma nei corridoi del Collegio Romano la mossa di Carandini è stata anche interpretata come il concreto segnale dell’arrivo del nuovo ministro. Da tempo è attesa la nomina di Giancarlo Galan ai beni culturali e, secondo fonti ufficiose, tra i due non correrebbe buon sangue: ecco l’occasione per defilarsi. D’altra parte Galan sta facendo resistenze al suo spostamento da un ministero ricco e fuori dall’occhio del ciclone come l’Agricoltura, a uno impoverito, sull’orlo della dismissione e al centro di roventi polemiche come i beni culturali. Vorrebbe, Galan, garanzie economiche del rifinanziamento del dicastero, ma il governo non è disposto a darle. Il braccio di ferro va avanti da giorni e nelle ultime ore per la poltrona del Collegio romano si è fatto il nome, poco probabile, di Saverio Romano, ex Udc transfugato nei «responsabili». Merita ricordare come sia la seconda volta che durante il ministero Bondi il presidente del Consiglio superiore si dimette, Carandini era subentrato dopo le clamorose dimissioni di Salvatore Settis e di molti altri membri del Consiglio nel febbraio del 2009.

l’Unità 15.3.11
«I maturandi portati al Divino Amore»
Cinquemila ragazzi del quinto anno delle superiori romane «ad orientarsi» sul futuro in un Santuario. Paga Gelmini
di Gioia Salvatori


Chissà che ne penserebbe Socrate di un ministro dell’Istruzione che nell’anno domini 2011 manda i giovani delle superiori in un santuario per una giornata di orientamento universitario.
Coi soldi pubblici (l’ufficio scolastico regionale del Lazio ha organizzato i trasporti) e per conoscere una vasta gamma di atenei pubblici e, ovviamente, privati. Eh già, infatti l’ecumenico orientamento dell’era Gelmini nasce da una collaborazione dell’ufficio ministeriale regionale con la conferenza dei rettori delle università del Lazio (CRUL) e la Conferenza dei Rettori delle Università Pontificie Romane (CRUPR) che magari si sentono più a casa al santuario del Divino Amore, luogo di pellegrinaggi in mezzo ai campi di Roma Sud. D’altronde si sa, la scelta dell’università è cosa seria, si ripercuote «sul lavoro e sulla vita, richiede consapevolezza e serenità indispensabili per ridurre il rischio dell’errore e decidere con responsabilità», quindi meglio proporre ai giovani un’ampia scelta di atenei e corsi,
tante brochure, tanti, depliant, workshop e una giornata di “festa dell’orientamento”. Animata anche da un musical: “Oggi scelgo io”, interpretato dalla Star Rose Academy fondata dalle suore orsoline della sacra famiglia e diretta da Claudia Koll.
Cosa può volere di più, a cento giorni dalla maturità, uno studente? Altro che pranzi dei cento giorni... Così ieri dopo aver ricevuto l’invito coi virgolettati qui riportati, i ragazzi sono stati in Chiesa a conoscere le università pubbliche e private del Lazio. A firmare l’invito inoltrato alle scuole qualche giorno fa è il direttore generale dell’ufficio scolastico regionale Lazio, Maria Maddalena Novelli. Nomen omen, la dirigente così giustifica la non casuale scelta del luogo: «il Santuario del Divino Amore è meta tradizionale di pellegrinaggi che si svolgono soprattutto di notte. Oggi come ieri, il Santuario si offre a tutti cattolici e di altra religione, credenti e non credenti, italiani e stranieri, tutti cittadini e pellegrini di Roma – come il traguardo di un viaggio notturno, passaggio umano denso di difficoltà ma che si conclude nella luce del mattino». Che il pellegrinaggio serva è certificato: si narra, infatti, che il candidato sindaco Gianni Alemanno lo fece a piedi nella notte elettorale...

il Fatto 15.3.11
Per scegliere l’università giusta tutti in processione al santuario
5000 ragazzi al Divino Amore. I genitori: “Una vergogna”
di Caterina Perniconi


Un prato sterminato, un mare di fango, 5000 ragazzi. No, non è Woodstock, ma il santuario del Divino Amore, a Roma. Le note che accompagnano la giornata non sono quelle di Jimi Hendrix, ma del musical della Star Rose Accademy, fondata dalle suore orsoline e guidata da Claudia Koll, ormai lontanissima dalla versione “Tinto Brass”. Il tutto sotto l’occhio vigile di monsignor Lorenzo Leuzzi, direttore della pastorale e universitaria e neo cappellano di Montecitorio. Anche lui infangato fino ai polpacci. E no, non è nemmeno la giornata mondiale della gioventù promossa dal Vaticano, ma un appuntamento organizzato dall’ufficio scolastico regionale col vicariato di Roma per orientare i maturandi di tutte le scuole del Lazio (pubbliche e private) alla scelta universitaria.
IL LUOGO, aveva comunicato il ministero a tutti i dirigenti scolastici, non è scelto a caso, ma “sottolinea l’intento” del convegno. Perché “il santuario del Divino Amore è meta tradizionale di pellegrinaggi che si svolgono soprattutto di notte (...). Il pellegrinaggio, lungo cammino attraverso la notte, è evocativo di un messaggio simbolico per i nostri giovani: la vita che viviamo e che costruiamo incontra momenti di buio e sforzo, soprattutto quando si affrontano scelte importanti”. La circolare si concludeva prevedendo addirittura che “le istituzioni scolastiche, nella loro autonomia, valutino l’opportunità di riconoscere la partecipazione degli studenti come credito formativo”.
Ieri, sul prato del santuario, i ragazzi più che a un pellegrinaggio sembravano in gita. Gli stand allestiti erano sei. Il primo, riservato all’accoglienza, dove i presenti potevano ritirare il loro pacco “dono”: borsa, maglietta e cuscino. Infatti la struttura più grande, quella sotto la quale si sono rifugiati appena ha cominciato a piovigginare, non aveva sedie. Poi quattro gazebo, divisi per settore, dove gli studenti trovavano informazioni sull’ambito scientifico-tecnologico, artistico-letterario, giuridico-economico e bio-antropologico. Insieme alle università pubbliche (anche se i cartoni di depliant della Sapienza erano quasi tutti chiusi) quelle private. In prima fila, naturalmente, la Luiss. Poi l’università lateranense, la Cattolica, la pontificia salesiana, la pontificia auxilium, il campus bio-medico. Private battevano pubbliche almeno 6 a 3. Vicino un’altra sola struttura, per la pastorale universitaria. Nessuna informazione sull’ente per il diritto allo studio o su altre associazioni studentesche.
GLI ARTISTI dell’accademia della Koll si sono esibiti nel pomeriggio, ed erano ormai solo poche centinaia di ragazzi attenti allo spettacolo. Gli altri, sparsi nelle poche parti asciutte del prato. “La mia vita ha senso? – cantava una ragazza dal palco – credo che Dio abbia un progetto sulla mia vita”. Qualche gruppo si è allontanato. Subito dopo la celebrazione della messa, presieduta dal rettore dell’università lateranense, monsignor dal Covolo. Del resto, per romaset  te.it  , giornale on-line della diocesi di Roma, l’evento è promosso “dall’Ufficio scuola cattolica, pastorale scolastica, pastorale universitaria e pastorale giovanile del Vicariato di Roma”. Il ministero non è mai citato.
Impossibile, tramite l’ufficio scolastico regionale, ricevere una risposta per capire a quanto ammonta la spesa per un evento di queste proporzioni e in che parte lo Stato lo abbia finanziato. Quindi ci siamo rivolti a una società di organizzazione eventi, la Goodlink, per capire quale può essere la cifra in ballo. “Considerando che organizza lo Stato e non un privato, quindi ipotizzando numerose convenzioni – spiegano – possiamo stimare una spesa sicuramente superiore ai centomila euro. Ma se non ci fossero accordi, crescerebbe ancora”.
ECCO CHE, senza vedere con i propri occhi lo sviluppo dell’evento, molti genitori dopo aver letto le informazioni sulla giornata si sono opposti all’obbligo di far seguire ai propri figli l’orientamento. E in molti licei, come il Plauto per esempio, chi non è andato al Divino Amore oggi dovrà giustificare l’assenza. “A mia figlia – spiega la madre di un’alunna – hanno negato anche il diritto allo studio, perché è dovuta restare a casa. E ora avrà solo altre due ore per l’orientamento in una unica facoltà. É incerta ma non potrà vederne due”.
Un nutrito gruppo di genitori del liceo Tasso ha definito l’iniziativa “una vergogna”. “Ma vi rendete conto di quello che hanno avuto il coraggio di fare? – dice un genitore – si tratta di un evento con una forte impronta confessionale pagata con soldi pubblici. Esclude chi appartiene ad altre confessioni religiose o chi religioso non lo è. E vale anche come credito formativo. Uno scandalo”.
La regione Lazio, con l’assessore alla Formazione e Lavoro, Mariella Zezza, ha messo il cappello all’iniziativa spiegando che “l’orientamento per noi è un aspetto fondamentale del sistema dell’istruzione che forma per il mondo del lavoro”. A rispondergli la consigliera Idv, Giulia Rodano: “C’è sicuramente da chiedersi perché la Regione Lazio e il ministero abbiano promosso una giornata di orientamento scolastico con un taglio quasi confessionale o senz’altro non caratterizzato dalla laicità che dobbiamo esigere dall’istruzione pubblica. Chiederemo spiegazioni ufficiali agli assessori regionali competenti”.

l’Unità 15.3.11
«Il piano nucleare è sbagliato, altro che reazione emotiva»
Il segretario Pd: «Il governo devia l’attenzione dalle vere priorità che sono l’efficienza energetica l’investimento nella ricerca, le fonti rinnovabili»
di Simone Collini


Il Pd, annuncia in questa intervista Pier Luigi Bersani, sosterrà il referendum per abrogare la legge sul ritorno al nucleare.
Segretario, cosa risponde al governo, che definisce sbagliate le reazioni nostrane di fronte alla tragedia di Fukushima?
«Certamente si tratta di un caso estremo ed è vero che ci sono nel mondo generazioni di centrali più evolute. Tuttavia continuare a classificare come emotive le reazioni dell’opinione pubblica è sbagliato». Il governo non ce l’ha con l’opinione pubblica ma con voi che ne criticate il piano sul nucleare...
«E sbaglia perché c’è una diffusa percezione, anche a prescindere da questa tragedia, che la tecnologia del nucleare sia ancora molto giovane e presenti seri problemi, sia per quanto riguarda lo smaltimento delle scorie che per le conseguenze di eventuali incidenti».
Non sono frequenti incidenti simili.
«Non è la probabilità degli incidenti che suscita allarme, ma quanto siano tremende le potenziali conseguenze. A preoccuparci è il modo in cui il governo sta affrontando la questione. Già prima di quanto accaduto noi avevamo ottime ragioni, e le abbiamo ancora, per essere contrari al piano nucleare. Anzi, a questo fantapiano, che non ha nessuna fattibilità, che è economicamente svantaggioso e che prevedendo l’impiego di tecnologie non nostre ci renderebbe totalmente dipendenti da altri».
Non sarà fattibile ma intanto il governo va avanti e si sta discutendo il decreto sulla localizzazione dei siti delle nuove centrali.
«Stanno solo deviando l’attenzione dalle priorità, cioè efficienza energetica, rinnovabili, un’operazione di investimenti nella ricerca anche delle tecnologie nucleari. Il governo deve capire che se si vogliono fare le cose difficili, prima bisogna saper fare le facili». Fuor di metafora?
«Non stanno lavorando all’Agenzia di sicurezza, non hanno risolto il problema delle scorie già esistenti, non hanno smantellato le vecchie centrali, che sarebbe il vero allenamento per i nostri tecnici e le nostre capacità industriali. Non si stanno impegnando nei luoghi della ricerca per un nucleare che abbia strutturali condizioni di sicurezza e sostenibilità economica». Tra pochi mesi ci sarà un referendum sul piano del governo: cosa farà il Pd? «Lavoreremo perché dalle urne esca una risposta chiara contro questo piano. Abbiamo chiesto che i referendum vengano accorpati con il voto delle amministrative perché vogliamo che si raggiunga il quorum». Richiesta respinta. Non c’è il rischio che senza il raggiungimento del 50% dei votanti sia un boomerang? «Sappiamo che la strategia referendaria presenta questo problema, perché è da 24 consultazioni che il quorum non viene raggiunto e spesso si strumentalizza il risultato. Noi ci impegneremo comunque per fermare questo piano che poggia sulla sabbia ed è totalmente sbagliato».
La destra vi dirà che importiamo a caro prezzo energia e che voi non proponete alternative. «Non è vero. Anzi, proprio nel settore energetico il governo sta facendo perdere la faccia all’Italia quasi al pari del bunga bunga, mentre noi sosteniamo che si debba insistere sull’energia da fonti rinnovabili, un settore in grande crescita, con miliardi di finanziamenti provenienti da ogni parte del mondo, ma che ora il governo vuole distruggere con un decreto. Bloccato l’attuale sistema di incentivi, che comunque andrebbe risagomato, ci saranno banche che definanzieranno gli investimenti sugli impianti per le energie rinnovabili, con evidenti conseguenze sul piano occupazionale e della crescita economica. Che sono poi le vere priorità di questo paese». A giudicare dal dibattito politico, al di là della discussione sul nucleare innescata da Fukushima, la priorità al momento è la riforma della giustizia. «Ma perché abbiamo un governo del dopolavoro, che non sa e non vuole affrontare i veri problemi, che sono appunto la produzione industriale, l’occupazione, gli ammortizzatori in deroga, l’inflazione».
È perché non si discute di questo ma di giustizia che andate sull’Aventino? «Ma quale Aventino, non scherziamo. Siamo gli unici che stanno in Parlamento, anche se il governo l’ha ridotto uno straccio, costretto com’è a lavorare soltanto un giorno e mezzo alla settimana perché dall’esecutivo non arriva più niente».
È Casini che vi ha invitato a non andare sull’Aventino... «Noi siamo pronti a discutere in Parlamento, nessun Aventino. Ma non si parli di un fumoso dialogo. Ci sono Camera e Senato, ci si confronti lì». E voi che cosa direte? «Che è sbagliato affrontare la questione con legge costituzionale e poi rinviare le decisioni alla politica, cioè alla maggioranza e al governo. Non si possono dare in mano alla maggioranza di turno le leve per il controllo della magistratura, o la decisione sulle priorità per un’azione penale, che giustamente oggi è obbligatoria».
Però ci sono urgenze da affrontare nel settore giustiza, o no? «Sì, ma sono affrontabili con legge ordinaria. E noi siamo pronti a discuterne partendo dalle proposte che abbiamo già depositato in Parlamento». Anche sulla responsabilità dei magistrati in caso di colpa?
«Anche. Noi non siamo il partito dei giudici, io sono pronto a disturbare la magistratura. Ma lo voglio fare per l’efficienza per i cittadini, non per esigenze di Berlusconi. Tra poco il Parlamento può essere chiamato a pronunciarsi sul conflitto di attribuzione per i suoi processi. E questo sulla base del presupposto che Berlusconi abbia svolto azioni di distensione internazionale salvando la nipote di Mubarak. Vorrei ricordarlo anche a Casini, a cosa è costretto il Parlamento».

l’Unità 15.3.11
La giustizia secondo Tocqueville
di Giancarlo De Cataldo


Il grande intento della giustizia è sostituire l’idea della violenza con quella del diritto, e frapporre intermediari fra governo e uso della forza materiale». «Un potere elettivo che non sia sottoposto a un potere giudiziario prima o poi sfugge a ogni controllo o viene distrutto». «L’estensione del potere giudiziario nel mondo politico deve dunque corrispondere all’estensione del potere elettivo. Se le due cose non procedono di concerto, lo Stato finisce col precipitare nell’anarchia, o nella servitù». Negli Stati Uniti d’America, «l’autorità conferita ai giuristi e l’influsso che di conseguenza essi esercitano sul governo costituiscono oggi la più forte barriera contro gli eccessi della democrazia». I giudici americani hanno «il potere di non applicare le leggi che dovessero sembrare loro incostituzionali». «Rinchiuso entro i suoi limiti, il potere accordato ai tribunali americani di pronunciarsi sull’incostituzionalità delle leggi risulta ancora una delle più forti barriere mai erette contro la tirannia delle assemblee pubbliche».
Le citazioni che precedono sono tratte da La democrazia in America di Alexis de Tocqueville (1805-1859), uno dei testi più citati e meno letti dell’evo moderno. Chi volesse prendersi la briga di controllare può consultare agevolmente l’edizione dei Millenni Einaudi (anno 2006, a cura di Corrado Vivanti). Scoprirà, fra l’altro, che la “bestia nera” di Tocqueville non era certo la dittatura dei giudici. Era la dittatura della maggioranza, che «vive nella perpetua adorazione di se stessa». È opportuno ricordare che Tocqueville fu magistrato (nessuno è perfetto), deputato (anche allora, evidentemente, i passaggi di carriera erano ammessi), eletto nel centro-sinistra del tempo (si capisce: era nobile e ricco di famiglia, dunque radical-chic).

Corriere della Sera 15.3.11
Fioroni attacca la leadership pd: serve un ricambio generazionale
di  M. T. M.


ROMA— La tregua sottoscritta dai leader del Partito democratico per le amministrative sembra già vacillare. La scorsa settimana c’è stato il convegno promosso dalla fondazione di Walter Veltroni, in cui il sindaco di Firenze Matteo Renzi non ha risparmiato critiche all’indirizzo dell’attuale dirigenza del Pd. Questa settimana, invece, tocca all’ala ex ppi della minoranza interna— la componente che fa capo a Beppe Fioroni, per intendersi — che ha deciso di dotarsi di un proprio giornale, il Domani d’Italia, che andrà anche sul web e potrà essere scaricato sull’Ipad. Un’iniziativa editoriale che farà discutere sicuramente il partito. Basta leggere l’editoriale di Fioroni pubblicato sul primo numero, in cui il responsabile Welfare invita il partito a procedere a un ricambio generazionale in tempi brevi, perché al prossimo appuntamento elettorale il Pd non potrà presentarsi con gli attuali dirigenti. Un modo, neanche tanto indiretto, per dire che non potrà essere il segretario Pier Luigi Bersani a guidare lo schieramento del centrosinistra alle elezioni politiche. Secondo l’ex ppi, infatti, Berlusconi è «al capolinea» , perciò, scrive, «la prima domanda che dobbiamo farci è: possiamo pensare che il domani, dopo Berlusconi, sia rappresentato da un centrosinistra che invece ha le stesse facce di ieri? O non è forse arrivata l’ora anche per noi di avere coraggio? Dobbiamo sapere che al prossimo appuntamento elettorale il Pd dovrà presentarsi mettendo in campo una nuova generazione: una rete di uomini e di donne nuovi, che non hanno guidato il Paese prima e durante Berlusconi» . Per Fioroni una sola cosa i dirigenti del Pd non possono fare: «stare fermi» . Dunque, avverte l’esponente della minoranza, occorre andare «oltre Berlusconi e gli anti-Berlusconi» . Altrimenti il rischio è che «l’uscita dalla scena politica» del premier, «vero collante di questi ultimi quindici anni» , provochi «anche l’implosione degli altri poli» e «a quel punto scatterebbe il tana libera tutti» . Un messaggio più che chiaro a Bersani: se il Partito democratico non dovesse cambiare, ma rimanesse quello attuale, cioè un partito di sinistra, erede del fu Pci, gli ex popolari— che si erano alleati con i Ds «perché c’era Berlusconi dall’altra parte» — non avrebbero più motivo di restare dentro il Pd. Del resto, le fibrillazioni dell’ala ex popolare non sono una novità di questi giorni per il Partito democratico. Non è un caso, infatti, che la maggior parte dei parlamentari che alla Camera e al Senato hanno lasciato i gruppi del Ppi per andare nell’Udc di Pier Ferdinando Casini e nell’Api di Francesco Rutelli provenisse proprio da quell’area. Ma il gruppo dirigente del partito è pronto a fare un passo indietro e ad aprire le porte ai Renzi, agli Zingaretti e agli altri giovani? A sentire Dario Franceschini parrebbe proprio di no: «Nessun cambio di leadership — avverte il capogruppo alla Camera— perché sarebbe autolesionismo» . Non è escluso comunque che, nonostante la tregua delle amministrative, il tema del ricambio venga affrontato nella Direzione prevista per lunedì 28 marzo.

il Fatto 15.3.11
Bengasi, sindrome Stalingrado
Le forze di Gheddafi accerchiano la città ribelle
di Stefano Citati


È tra i viali polverosi e gli edifici bassi dai muri scrostati di Ajdabya che si gioca la sopravvivenza delle terre liberate di Bengasi e dei suoi milioni di abitanti. Da ieri intensi raid aerei e attacchi terrestri hanno preso di mira la cittadina a 170 chilometri a sudovest della “capitale” dei ribelli, divenuta il nuovo fronte di guerra dopo il “ripiegamento” delle forze patriote (talmente rapido da dare l’impressione di una rotta precipitosa). La città di 100mila abitanti diventa il bastione meridionale a difesa di Bengasi, mentre una minaccia ancora difficilmente quantificabile si affaccia alle spalle della città portuale che ormai un mese fa si è ribellata a Gheddafi: le truppe del Colonnello avrebbero aggirato le forze ribelli e avrebbe raggiunto attraverso il deserto Tobruk, cittadina costiera a 400 chilometri a est di e a 150 chilometri dal confine con l’Egitto.
L’armata del Comitato nazionale della Cirenaica circa 8mila uomini sul fronte occidentale che teneva fino a 48 ore fa le posizioni dei terminali petroliferi di Ras Lanuf e Brega, e altri 10mila a Bengasi si troverebbe chiusa in una morsa, con alle spalle il mare: unica via di fuga, e di rifornimento; di fronte l’esercito regolare fedele al raìs rinforzato dai mercenari subsahariani.
È LA SINDROME DI Stalingrado, dell’accerchiamento che prima colpì la città sovietica e poi le armate di Hitler chiuse nella sacca dell’Armata Rossa. A Bengasi è già panico e caccia all’“africano”, ai neri immigrati che sarebbero considerati indistintamente tutti traditori; mentre i capi militari che comandano i volontari ammettono che la situazione sul terreno è complicata se non drammatica e che l’unico modo che hanno gli insorti di contrastare l’avanzata dei gheddafiani è la guerriglia, il combattimento casa per casa. E sembrano ora profetiche le minacce di Muhammar e Said Gheddafi, padre e figlio, che avevano promesso di “stanare i ratti” e di “venire a prendervi”: il nemico adesso è alle porte e si aspetta di vederlo sbucare lungo la linea dritta della strada che viene da ovest, da Brega e affacciarsi tra i due archi dipinti di verde a guardia dell’ingresso di Ajdabya. Dall’altra parte, nella retorica vincente del regime di Tripoli, i trionfi del fine settimana sono considerati come passi decisivi della riconquista generale delle città ribelli: anche Zuwarah, dopo la strenua resistenza di Zawiya, è stata piegata: di fatto la Tripolitania sarebbe tornata appieno sotto il controllo di Gheddafi. Ora tocca alla Cirenaica e l’accelerazionedell’avanzatadelletruppe di Tripoli si spiega adesso con l’attendismo strategico che ha tenuto per giorni il fronte a metà strada tra la capitale del raìs e l’“altra capitale”, quella degli insorti. Nel frattempo tra attacchi e controattacchi, drappelli di uomini del Colonnello si sarebbero infiltrati nelle piste del deserto probabilmente con l’intesa delle tribù beduine del Sahara libico e risalito lungo la zona di confine con l’Egitto (sfiorando i resti della lunga barriera di filo spinato che il regime fascista distese sulle sabbie libiche per frenare l’ingresso dei nomadi negli Anni ‘30) per spuntare nei sobborghi di Tobruk e prepararsi a conquistare la città simbolo della Seconda guerra mondiale contesa tra le forze dell’Asse e gli Alleati.
In mezzo ai due contendenti resta praticamente immobile la comunità internazionale la cui dignità rischia di rimanere stritolata dai fatti della guerra: l’inazione e il continuo rimbalzo di decisioni sta portando Europa, America e paesi arabi fuori tempo massimo ad assistere impassibili e intenti a fare calcoli politici, diplomatici, ed economici alla promessa di un massacro che Gheddafi si potrà giocare come merce di scambio per una sopravvivenza che adesso appare lunghissima, e ancor più sanguinosa.

il Fatto 15.3.11
Dario Fo: “Ancora in piazza il Pdl ha paura”
Il premio Nobel: è una voglia incredibile di denuncia
di Fabrizio d’Esposito


Silvio Berlusconi “è scemo”. Dario Fo dixit. Sabato scorso, nella piazza del C-day a Milano che ha avuto il premio Nobel tra i suoi mattatori.
Ribadisce?
Certo. Con le cose che dice e che fa, è fuori di testa a livello di scemenza.
Però il Guardasigilli un po’ sveglio lo è. Dopo la piazza ha annunciato il ritiro della norma transitoria sul processo breve.
La piazza li spaventa. Ha notato che i tg non ne hanno parlato? La piazza non sta alle regole, per questo ne hanno paura. Del resto che regole può avere un Carnevale?
Un Carnevale?
Sì. Bisognerebbe studiare la quantità enorme di Carnevali proibiti nella storia dalla Chiesa. E a Milano è stato un Carnevale bellissimo. La gente ha una voglia incredibile di denuncia, di partecipazione. Non vuole solo il verso al potere.
C’è anche chi vi prende in giro. Ieri sul Corsera Battista ha fatto il diario ironico del sincero militante . Una sorta di piazza continua.
Questa è la tipica reazione negativa dei conformisti. Sono intellettuali di un certo livore che amano il bon ton. L’opposizione da tempo è caduta nella loro trappola.
Per esempio?
Con la scusa di non fare cose sgarbate, di stare attenta a questo o quello, l’opposizione ha accettato compromessi all’insegna della tranquillità. Adesso però qualcosa sta davvero cambiando.
Il C-day, le donne, gli studenti.
Stanno venendo fuori nuove forme e nuovi linguaggi, soprattutto dalle donne. Poi toccherà ai disperati, ai senza lavoro, persino alla polizia. È la base che si muove.
Una rivoluzione.
Io c’ero quando è cominciato il Sessantotto. Avevo già più di quarant’anni. Che fantasia, che creatività! Spero che si possa arrivare a un altro momento del genere.
L’Undici antiberlusconiano.
La critica è più radicale e riguarda tutta la politica, nessuno escluso. Poi ovviamente ci sono le truffalderie da taverna di Berlusconi. L’ultima è quella del cerotto in faccia.
È stato operato. Altre conseguenze dell’aggressione di Tartaglia.
Mica è stato operato da fuori. Ho parlato con vari chirurghi e tutti mi hanno detto che avevo ragione. Quel ce-rottone è stato messo per fare scena. Ma che cazzo d’invenzione !
Lei sobilla.
Io sollazzo. E faccio sollazzare. A Milano, prima che prendessi la parola, la gente non aveva avuto una reazione a quello che stava ascoltando.
E poi?
Ho parlato io. L’ho buttata in ironia, in sollazzo appunto. E lo sa con quali argomenti? Con la pura cronaca. Oggi basta raccontare quello che sta succedendo. Però senza discorsi, senza interminabili concioni pubbliche.
Un nuovo linguaggio.
Appunto. E tutto dipende da noi, dalle nostre invenzioni, dal piacere di essere intelligenti. La gente vuole questo.
Ne è sicuro?
Sto a casa pochissimo. Vado continuamente in giro. Peraltro, con questa crisi dei teatri vuoti, sto ricevendo decine di offerte per riempirli . La gente, dicevo, la vedo e percepisco una disponibilità straordinaria ad accogliere nuovi discorsi.
La ministra Gelmini dice che in piazza vanno quelli che mandano i figli alle scuole private.
Sono gli stupidi trucchi del potere. È il ricco che dice al povero: “Non fidarti, sono figli di ricchi”. In realtà, quelli come la Gelmini, sono i servi dei ricchi.
E fanno anche le riforme. Ultima: la giustizia.
Una bidonata tremenda. Un orrendo gioco delle tre carte.
Berlusconi “scemo” e Bossi “in esilio”.
Mi riferivo alle rivoluzioni del Mediterraneo, dove spero che i libici facciano tutto da soli senza interventi esterni.
E il Senatur?
Ho detto che sognavo di vedere arrivare da noi centinaia di arabi puliti e ordinati, che chiedono di essere rispettati. A quel punto a Bossi non resterebbe che scappare in esilio in Svizzera.
Il centrodestra ha attaccato pure su Ingroia in piazza.
Gli ha dato un fastidio della Madonna. Il potere non accetta discorsi espliciti e diretti. Ne ha paura come dicevo prima.
Ancora piazza, allora.
Sì, tutto sta nel creare un tormentone coinvolgendo le donne, gli studenti, i precari. Non bisogna fermarsi. Glielo dice uno che il potere ha tentato di fermare coi processi e con la censura. Continuiamo questo Carnevale. La storia dell’uomo è fatta di queste fasi. Il risus paschalis ha sempre fatto paura.
E il bon ton?
Non ce l’avevano nemmeno Dante e Boccaccio.

Repubblica 15.3.11
I cattolici tedeschi e il biotestamento
di Adriano Prosperi


È così difficile ragionare sulle cose italiane. E, più che difficile, sembra quasi un lusso parlare della diatriba sulla legge del «fine vita» sullo sfondo di una cronaca del mondo dove la violenza della natura e quella degli uomini falciano vite senza regola e senza leggi. Eppure bisogna tentare di farlo, almeno per reagire all´uso strumentale di questo progetto di legge e al clima che si è voluto creare intorno ad esso. Si va rapidamente all´approvazione di norme sul testamento biologico in un clima di crociata che il governo attuale ha fortemente voluto e sul quale conta per far passare inosservate le prove processuali che attendono il premier. In questo clima la stampa cattolica ha messo la sordina a qualunque critica e si è schierata dietro la bandiera della «indisponibilità della vita». Monsignor Luigi Negri vescovo di San Marino ha chiamato a raccolta per la difesa di «principi non negoziabili». E questa sembra la parola d´ordine più diffusa, anche se un altro vescovo, Luigi Bettazzi, ha ricordato al confratello che il dovere di tutelare la vita si esprime soprattutto con l´aiuto a tutte le vite minacciate: da quelle degli immigrati in fuga dalla miseria insopportabile e dalla persecuzione politica (il lettore pensa a Gheddafi e al supporto italiano al suo regime) a quelle dei bambini che non nascono perché non ci sono da noi leggi come quelle della «laica» Francia che incoraggiano il matrimonio e la procreazione; e fino a quelle dei giovani senza lavoro condannati alla disperazione. E che dire di quella idolatria del danaro e del successo che porta le famiglie a incoraggiare le ragazze di casa a vendersi ad alto prezzo? Ma sullo sfondo di questi garbati dissensi resta l´ombra di un pericolo contro il quale il fronte cattolico appare compatto: l´eutanasia.
Ora, poiché per i malati terminali non ci sarà la possibilità di quel turismo sanitario praticato da chi ha voluto avere figli sfuggendo alle forche della legge 40 sulla fecondazione assistita, sarebbe bene confrontare il caso italiano con quello della Germania. Come ha raccontato Marlis Ingemney in un articolo molto preciso e informato uscito su Micromega on-line, qui le Chiese cristiane tutte, inclusa quella cattolica, hanno dedicato assidue riflessioni alla questione. Nel 1975 avevano pubblicato un opuscolo per i fedeli molto preciso e dettagliato. Lo hanno ripreso e rielaborato con un lavoro durato diciannove mesi dopo che il Bundestag ha approvato nel giugno 2009 la legge sulle «disposizioni del paziente». La legge tedesca parla di «diritto alla vita» e non della vita come dovere, come obbligo; e impone il rispetto delle disposizioni date dai singoli nel quadro della intangibile dignità dell´uomo come individuo, affidando al potere statale solo l´obbligo di difendere la vita individuale se minacciata dall´intervento di terzi. Di questa legge le Chiese nel loro documento hanno criticato lo squilibrio tra il rispetto dell´autodeterminazione e la mancanza di una concreta presa in carico del paziente, chiedendo una assistenza alle persone capace di perfezionare e rendere effettiva quella autonomia dei singoli. Ma intanto già nel documento del 1975 il Consiglio permanente delle Chiese aveva riconosciuto il diritto di ognuno a una morte dignitosa e da qui aveva dedotto che fosse «eticamente ammissibile» rinunciare a interventi e trattamenti sanitari straordinari per prolungare artificialmente una vita senza speranza. «La morale non richiede terapie a ogni costo»: questa frase introdotta nel testo tedesco del 1992 del Catechismo post-conciliare cattolico segnò già allora la via che si voleva battere. Oggi che la nuova normativa riconosce il diritto individuale a rifiutare anche i trattamenti medici salvavita, le Chiese non contestano quel diritto, anzi lo riconoscono ammettendo esplicitamente la possibilità di una «eutanasia passiva» o «indiretta». Si limitano a chiedere ai fedeli di avvalersene solo quando ci si trovi nello stadio terminale di una malattia incurabile. In un modulo allegato al testo il lettore può barrare precise caselle per richiedere per esempio che solo col consenso del paziente o dei suoi fiduciari si possa procedere alla nutrizione e idratazione artificiale o alla somministrazione di farmaci che possano alleviare i dolori anche se c´è il rischio di abbreviare così la vita del moribondo.
Ma il punto più interessante per i lettori italiani ossessionati dal battage indegno di nuovo orchestrato intorno al caso Englaro è quello che riguarda non la persona di cui sia imminente o prevedibile la morte, ma la persona che versa in stato vegetativo persistente. Chi vorrà dare indicazioni per l´ipotesi di trovarsi un giorno nella condizione angosciosa di tale stato, potrà farlo anche secondo i vescovi tedeschi, che hanno finito con l´accordarsi sostanzialmente con gli evangelici su questo delicatissimo punto. Nel modulo allegato al testo si può barrare una casella che chiede la cessazione di tutti i trattamenti salvavita inclusa la nutrizione artificiale per chi, caduto nello stato vegetativo, vi permanesse per un lungo periodo (per esempio un anno) o fosse minacciato da una malattia intercorrente acuta.
Perché queste differenze tra Chiesa cattolica tedesca e Chiesa cattolica italiana? Perché ciò che è tranquillamente ammesso in un paese è severamente vietato nell´altro? Bene, il caso non è nuovo. Già secoli fa, ai tedeschi rimasti cattolici la Chiesa di Roma riserbò su molte questioni un trattamento diverso rispetto a quelli italiani: se ne potrebbe dare un lungo elenco. Ma a questa differenza che ebbe le sue evidenti ragioni tattiche nella necessità di fronteggiare la sfida della Riforma protestante si sono aggiunti nel corso dei secoli motivi legati al regime di dialogo tra confessioni e fedi diverse. La libertà di coscienza ha dato vita a un confronto che ha coinvolto i rapporti tra Chiese e stato, tra l´ordinamento laico e l´esperienza di lunga durata dell´ordinamento ecclesiastico. Da qui la serietà di una riflessione attenta e partecipe sugli imprevisti che possono minacciare la dignità della vita individuale e la volontà di dimostrare coi fatti la capacità del corpo ecclesiastico di contribuire concretamente alla tutela della dignità dell´essere umano. Visto dall´Italia vaticana, questo paesaggio sembra molto lontano. E forse alla fine quell´Inferno che un papa tedesco ha cominciato a mettere in discussione finirà col restare aperto solo per gli italiani.

Corriere della Sera 15.3.11
A quattro giorni dal verdetto della Corte europea dei diritti dell’uomo, che in modo inappellabile dovrà esprimersi sulla legittimità della presenza dei crocifissi nelle scuole italiane
La Cassazione: garantito il principio di laicità
Verdetto sul crocifisso «Unico simbolo negli uffici pubblici»
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — A quattro giorni dal verdetto della Corte europea dei diritti dell’uomo, che in modo inappellabile dovrà esprimersi sulla legittimità della presenza dei crocifissi nelle scuole italiane (una decisione molto attesa da parte dei vertici della Chiesa), la Cassazione ha stabilito che «il principio di laicità dello Stato» non può essere «assolutamente» posto «in dubbio» a motivo della presenza del crocifisso nelle aule di giustizia o negli altri uffici pubblici. Mentre per esporre altri simboli religiosi, ad esempio quelli della religione ebraica, ci vuole una nuova legge dello Stato. Con questa motivazione le sezioni unite civili della Suprema Corte hanno confermato la rimozione di Luigi Tosti, il giudice di pace del tribunale di Camerino, sanzionato dal Csm con la perdita del posto, visto che, pur essendogli stata assegnata un’aula senza crocifisso per tenere le sue udienze, aveva continuato a rifiutarsi di lavorare, perché contestava la presenza del crocifisso in tutte le aule di giustizia d’Italia. Con ciò stesso aveva creato un disservizio che, correttamente il Csm ha sanzionato con il suo «verdetto» disciplinare. Fra l’altro, si legge nella motivazione della sentenza, l’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici, può non essere affatto vissuto come un pericolo per la libertà religiosa di chi non è cristiano. «La presenza di un crocifisso — scrive il massimo organo giurisdizionale — può non costituire necessariamente minaccia ai propri diritti di libertà religiosa per tutti quelli che frequentano un’aula di giustizia per i più svariati motivi e non solo necessariamente per essere tali utenti dei cristiani» , scrivono i supremi giudici. Ma la sentenza della Cassazione ha stabilito anche un secondo principio: e cioè che nei pubblici uffici italiani, tra i quali rientrano anche le aule di giustizia, si può esporre solo il simbolo del crocifisso e per esporvi simboli religiosi diversi «è necessaria una scelta discrezionale del legislatore, che allo stato non sussiste» . Questo ad esempio vale anche per i simboli della religione ebraica, come chiedeva il giudice Tosti. Il radicale Maurizio Turco, presidente di «anticlericali. net» , contesta anche questo aspetto della «quanto meno curiosa» decisione, «se non altro perché il crocifisso viene appeso a seguito di una circolare fascista del ministero di Grazia e giustizia del 29 maggio del 1926, sulla quale il legislatore non si è mai espresso» . Per il resto, soddisfazione bipartisan. Dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno, al deputato del Pd, Stefano Graziano, al vicepresidente dei senatori del Pdl, Laura Bianconi. «Staccarlo dal muro è azione barbara e crudele» ha detto il senatore della Lega Giuseppe Leoni. L’imam Yahya Pallavicini, della Coreis, ha dichiarato: «Come musulmani, non abbiamo nessuna riserva sulla presenza del crocifisso nei tribunali» . Il senatore del Pd, e costituzionalista, Stefano Ceccanti, sostiene che «dalla Cassazione arriva una sentenza che l’Europa può confermare» , segnalando che «essa si muove nel solco della sentenza Folgero contro Norvegia della Corte di Strasburgo del 29 giugno 2007, che potrebbe ispirare anche la sentenza di venerdì prossimo» . «Secondo la Cassazione— spiega Ceccanti— il principio di laicità dello Stato nel nostro ordinamento non esclude la presenza del crocifisso e di simboli religiosi nello spazio pubblico perché le istituzioni sono separate dalle confessioni religiose, ma non dalla società civile in cui vivono anche le esperienze religiose, anche se il singolo può legittimamente richiederne la rimozione» . «Nel caso Folgero la Corte di Strasburgo riconobbe che nell’impostare l’insegnamento della materia cristianesimo, religione e filosofia, la Norvegia aveva il diritto di basarsi sulla storia nazionale e la tradizione, ma che aveva anche il dovere di prevedere l’esonero. Una soluzione analoga a quella adottata in Baviera per i crocifissi nelle scuole» .

Repubblica 15.3.11
Crocifisso, un paese a laicità limitata
di Chiara Saraceno


La Cassazione ha depositato la sentenza con cui conferma la rimozione del giudice di pace di Camerino che rifiutava di tenere udienza in tribunali dove c´è il crocifisso.
Il giudice Luigi Tosti considerava la presenza di questo, unico, simbolo religioso una lesione della libertà di coscienza dei cittadini, particolarmente grave perché attuata in un luogo - il Tribunale - dove l´uguaglianza, la non discriminazione, la neutralità di fronte agli orientamenti di valore dovrebbero essere proclamati in modo esplicito.
Non entro in merito alla correttezza della decisione relativa al giudice "obiettore", ovvero al giudizio di non legittimità circa il suo rifiuto ad esercitare i suoi obblighi professionali in circostanze da lui considerate inaccettabili non solo per sé, ma per i cittadini. Mi auguro solo che tale rigore venga esercitato anche nei confronti di quei medici o farmacisti che, in nome delle loro opzioni di valore, si rifiutano di prescrivere o vendere la pillola del giorno dopo.
È la motivazione della sentenza che trovo inaccettabile per ciò che dice non sul giudice, ma sul rispetto della libertà di coscienza dei cittadini e sulla laicità delle istituzioni pubbliche. I giudici della Suprema Corte, infatti, da un lato propongono una duplice definizione di laicità: una per addizione (pluralismo di riferimenti religiosi) e una per sottrazione (assenza di riferimenti). Laddove è solo la seconda che configura un atteggiamento laico, specie nello spazio pubblico: che deve essere per definizione neutrale in un contesto non solo di pluralismo religioso, ma anche di persone che non hanno alcun riferimento religioso.
Dall´altro lato, i giudici affermano che «la presenza di un Crocifisso può non costituire necessariamente minaccia ai propri diritti di libertà religiosa per tutti quelli che frequentano un´aula di giustizia per i più svariati motivi e non solo necessariamente per essere tali utenti dei cristiani». La contorta formulazione «può non costituire necessariamente minaccia» lascia di fatto aperta la possibilità che, invece, per alcuni o per molti, la costituisca, il che dovrebbe preoccupare chi ha la responsabilità di garantire l´imparzialità.
Soprattutto, la Corte non offre elementi a dimostrazione che l´esposizione del crocifisso in un´aula di tribunale non lede «necessariamente» la libertà di coscienza dei non cristiani. Afferma semplicemente che è così, con buona pace di chi viceversa si sente leso nella propria libertà. Lo Stato, la Suprema corte, non se ne preoccupano. Tanto meno stanno dalla sua parte. Si limitano a dirgli che si sbaglia.
Con la sua affermazione, più che rovesciare l´onere della prova su chi percepisce la presenza di un simbolo religioso come una lesione alla neutralità dello spazio pubblico, la Corte ha sottratto lo stesso terreno del contendere. Una ennesima conferma che siamo un Paese a laicità limitata.

Corriere della Sera 15.3.11
Schizofrenia, com’è difficile distinguere la follia dalla normalità
di Massimo Ammaniti


L a storia del matematico John Nash, a cui fu assegnato nel 1994 il premio Nobel per i suoi studi di matematica applicata alla teoria dei giochi, ci fa vedere come genialità e schizofrenia possano convivere, anche se nei periodi in cui Nash era tormentato dalle sue idee deliranti si isolava dal mondo e aveva serie difficoltà nel proseguire i suoi studi. Nel film Beautiful mind che ricostruisce la storia di Nash si vedono le continue interferenze nella sua mente legate al disturbo psichico, come ad esempio idee angosciose, di essere vittima di messaggi criptati provenienti da extraterrestri che rendevano difficile la sua applicazione agli studi come anche la vita sociale. Ancora oggi ci si chiede quale sia l’origine di questo complesso disturbo del pensiero, che riguarda circa lo 0,5-1%della popolazione. Circa un secolo fa Freud pubblicò il saggio Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia che cercava di esplorare l’origine di questa grave patologia mentale, che sarebbe stata definita schizofrenia. Nonostante il terreno preferito da Freud fosse quello delle nevrosi, che rappresentavano una patologia meno grave, il grande Maestro ebbe «l’occasione— come lui stesso scrive — di spingere lo sguardo nelle strutture profonde della paranoia» . Lo stimolo gli era stato offerto dal libro Memorie di un malato di nervi (Adelphi, 1974), un’autobiografia scritta dal presidente della Corte d’appello di Dresda, Daniel Paul Schreber, sulla propria malattia mentale, che aveva comportato ripetuti ricoveri in ospedale. Come racconta Freud, il giudice Schreber viveva in un mondo delirante in cui si sentiva chiamato a redimere l’umanità dopo la sua trasformazione in donna, «un dovere» a cui non si poteva sottrarre perché era iscritto nell’Ordine del Mondo. L’interpretazione di Freud sull’origine della paranoia nella mente del giudice è esclusivamente psicologica, si sarebbe trattato di «un assalto di libido omosessuale» che il giudice Schreber provava verso il professor Flechsig, lo psichiatra che lo aveva in cura, ma dietro cui si sarebbe celata l’immagine del padre. E queste pulsioni omosessuali erano inaccettabili per la rigida moralità del giudice, anche se poi sarebbero riemerse nelle sue idee deliranti. Con l’affermarsi della psichiatria sociale negli anni 60 vengono temporaneamente accantonati gli studi per scoprire le cause della schizofrenia e l’attenzione si sposta sulle condizioni di vita dei malati mentali, vittime di pregiudizi e discriminazioni prima all’interno della famiglia e poi a livello sociale. Anche in Italia lo psichiatra Franco Basaglia punta il dito sulle condizioni degli ospedali psichiatrici, luoghi di reclusione e non di cura dove il destino dei malati mentali è definitivamente segnato. Tuttavia l’enigma della schizofrenia rimane irrisolto: perché durante l’adolescenza o l’età giovanile compaiono allucinazioni, disturbi deliranti e perdita di motivazione e di partecipazione alla vita sociale? Attorno alla schizofrenia vi è uno stigma ingiustificato, dal momento che la violenza non ne rappresenta un sintomo specifico e solo in misura limitatissima i malati sono autori di omicidi, a cui tuttavia i media danno un rilievo spropositato creando una falsa percezione della loro pericolosità. È indubbio che molti pregiudizi possono essere sfatati se la ricerca in questo campo può far luce nel mondo della schizofrenia e aiutarci a comprendere l’esperienza complessa e contraddittoria di chi va incontro a questo disturbo. Nonostante l’avvento di nuovi metodi di indagine, come ad esempio le tecniche di visualizzazione del cervello, la schizofrenia rimane ancora oggi una sfida per i clinici e per i ricercatori. Uno degli ultimi fascicoli della prestigiosa rivista scientifica Nature, dedicato a questo tema, ha un titolo emblematico «Combating schizophrenia» (Combattendo la schizofrenia) che mette in luce le scoraggianti complessità della ricerca in questo campo. E quali sono le nuove scoperte della ricerca nel campo della schizofrenia? Un dato sottolineato da clinici e ricercatori è il fatto che questo disturbo compare perlopiù durante l’adolescenza, anche se non è facile riconoscerlo, perché i profondi cambiamenti cognitivi, emotivi e comportamentali che compaiono in questo periodo possono mascherare l’insorgere di questo disturbo che si manifesta inizialmente con una crisi di identità. Vale la pena ricordare che i cambiamenti in adolescenza riguardano anche il cervello che va incontro ad una maturazione con una potatura di alcuni circuiti cerebrali, per cui quelli meno usati vengono tagliati via mentre i circuiti più usati si rafforzano ed acquisiscono maggiore funzionalità. Fra i ricercatori sta emergendo l’ipotesi che questo processo di rimodellamento del cervello non risponda, negli adolescenti che svilupperanno la schizofrenia, ad un piano coordinato e funzionale ma avvenga in modo irregolare e contraddittorio. Non è molto diverso da quanto viene sostenuto dallo psichiatra americano Robert Freedman nel suo libro The madness within us (La pazzia dentro di noi; Oxford University Press, 2010, pp. 198). Per Freedman la schizofrenia sarebbe legata a un’incapacità a regolare sul piano cerebrale l’attenzione, ad esempio indirizzare il focus dell’interesse per una persona oppure per un oggetto o una pagina di un libro, ignorando gli altri stimoli ritenuti non rilevanti. Le persone affette da questo disturbo sono catturate da ogni stimolo dell’ambiente e l’unico modo per difendersi dal bombardamento di stimoli è quello di isolarsi e non rispondere a quello che succede intorno oppure di inserire questi stimoli nelle allucinazioni e nei pensieri deliranti. Questo è ben documentato nel film Beautiful mind in cui John Nash, non riesce a concentrarsi sui problemi matematici perché ostacolato da immagini visive di persone non presenti, che probabilmente condensavano la molteplicità di stimoli a cui era sottoposto. Non si tratta solo di una teoria che riguarda il cervello, è anche psicologica, perché alcuni sintomi tipici della schizofrenia possono rappresentare una strategia per difendersi da una tensione insopportabile, come può succedere ad ognuno di noi quando ci si allontana dalla realtà rifugiandosi nelle proprie fantasie. Si tratterebbe di una vulnerabilità genetica complessa, che nella forma più completa si esprime nella schizofrenia, ma che può comparire in forme anche parziali contribuendo alla grande varietà del funzionamento mentale, che rende le interazioni umane più ricche e contraddittorie rispetto alla vita sociale di altre specie. Forse è proprio quest’ultima considerazione che ha spinto Freedman a intitolare il suo libro La pazzia dentro di noi, essendo difficile distinguere nettamente la follia dalla normalità, come nel romanzo Fratelli di Carmelo Samonà ripubblicato recentemente da Sellerio in cui il fratello normale e quello malato si inseguono e si rispecchiano vicendevolmente: «La nostra storia è tutta in queste violazioni di territorio, che si susseguono da una parte e dall’altra sino a confondere i nomi e i volti» .

Repubblica 15.3.11
Addio fame, abbiamo cibo per 9 miliardi di persone
di Maurizio Ricci


Emergenza acqua: la disponibilità è già diminuita del 60% nei paesi in via di sviluppo
Dovrà scendere l´utilizzo della carne, dimezzando gli allevamenti intensivi
Entro il 2050 la popolazione aumenterà di circa il 30%. Ma per nutrirla sarà necessario far crescere le risorse del 50%. Due strade obbligate per riuscirci: sviluppo tecnico e agricoltura organica e sostenibile

DUE SECOLI FA Thomas Malthus dichiarò che l´uomo non sarebbe riuscito a sfamare una popolazione sempre crescente. Ma la previsione è stata regolarmente smentita. Anche oggi che si torna a parlare di "crisi del cibo". I prezzi toccano livelli record, i magazzini si assottigliano, i nuovi raccolti sono in dubbio.
È il simbolo intellettuale del pessimismo. È anche l´economista che deve la sua vasta popolarità al fatto di essersi sbagliato: da quando, due secoli fa, Thomas Malthus dichiarò che l´uomo non sarebbe riuscito a sfamare una popolazione sempre crescente, la previsione è stata regolarmente smentita. Eppure, il suo fantasma continua a ripresentarsi. Anche oggi. Probabilmente, sarà smentito anche questa volta. Però, non è facile vedere come. In un mondo, apparentemente, sempre più prospero, si torna, infatti, a parlare di "crisi del cibo", a soli tre anni di distanza dalla precedente, quella del 2008, che vide la gente scendere in strada, ai quattro angoli della Terra, a reclamare tortillas o ciotole di riso. I prezzi toccano livelli record, i magazzini si assottigliano, i nuovi raccolti sono in dubbio. Allunghiamo lo sguardo ed ecco l´ombra di Malthus.
Nel 2050, saremo sulla Terra in 9 miliardi, due più di oggi. Aggiungiamoci il miliardo che, già oggi, non riusciamo a sfamare e ci troviamo con il problema di apparecchiare la tavola per tre miliardi di persone che, attualmente, sono fuori dalla porta o ancora non sono arrivati. Le avete, chiederebbe Malthus, le risorse per riempire la pancia a tutti? Sulla base dell´esperienza storica, caro Malthus, la risposta è sì. Lo abbiamo appena dimostrato. Da qui al 2050, la popolazione aumenterà un po´ più del 30%. Per farla mangiare, occorre che la produzione di riso, grano, mais aumenti del 50%. Sembrano numeri enormi. Però, dal 1970 al 2010, la popolazione è aumentata dell´80%. E la produzione agricola del 250%. Ma siete in grado, potrebbe chiedere ancora Malthus, di ripetere il miracolo? E la risposta è: forse no. Manca la terra, manca l´acqua e il trucco che ha funzionato in questi anni si è esaurito.
La via più immediata per aumentare la produzione agricola è allargare le terre messe a coltura. Il problema è che quelle disponibili sono sempre di meno. Su 4 miliardi di ettari potenzialmente arabili, sottolinea ActionAid, una Ong internazionale, più della metà sono compromessi da erosione, desertificazione e inarrestabile sviluppo delle città. Inoltre, la terra che coltiviamo è anche sempre meno dedicata alla produzione di cibo. Il 40% del mais degli Stati Uniti è dirottato alla produzione di biocombustibili. La Fao ritiene che se Usa, Europa, Giappone Brasile raggiungessero gli obiettivi che si sono fissati per la produzione di biocarburanti, sequestrerebbero per i serbatoi delle auto un decimo dei cereali del mondo.
La situazione dell´acqua è anche peggiore. Inutile sperare troppo nelle piogge. Secondo l´Onu, il riscaldamento climatico colpirà nei prossimi anni, metà della agricoltura africana e un terzo di quella dell´Asia centrale e meridionale. I vantaggi che il riscaldamento porterà ai campi, più a Nord, non saranno sufficienti a colmare il buco. E l´irrigazione diventerà ancora più problematica. Già oggi consumiamo più acqua di quanta ne raccolgano le falde. In Occidente, la disponibilità di acqua è diminuita del 40%. Nei paesi in via di sviluppo, del 60-70%.
Infine, la leva che ha fatto scattare il boom agricolo degli ultimi decenni, la "rivoluzione verde", ha già dato il suo massimo. Il succo della rivoluzione era la selezione di semi che consentissero a più piante di crescere nello stesso spazio e di concentrare la crescita nelle spighe. In un caso e nell´altro, si è, probabilmente, arrivati al limite massimo: più di 90 mila piante in un ettaro di granturco, forse, non ne entrano davvero. Il risultato è che i rendimenti dell´agricoltura mondiale (cioè il rapporto fra i semi piantati e quelli raccolti) sono rallentati di colpo. Crescevano del 3% l´anno, nella seconda metà del secolo scorso. Oggi, i rendimenti per riso, frumento e granturco salgono fra lo 0,5 e l´1% l´anno. Troppo poco. Per far fronte ad un aumento previsto della popolazione mondiale dell´1,2% l´anno, dovrebbero crescere almeno dell´1,5%. Ma, allora, se non si può aumentare la produzione agricola, allargando la terra coltivata e neanche aumentando la resa di quella già coltivata, come se ne esce, per smentire, ancora una volta, Malthus?
Le strade sono due e non sorprenderanno nessuno. La prima è quella, tradizionale, del progresso, della tecnologia e dell´industrializzazione: è la ricetta dell´agribusiness. La seconda è quella dell´agricoltura organica e sostenibile: meno fertilizzanti, meno irrigazione. Recenti rapporti Onu sostengono che l´agricoltura sostenibile è in grado di sfamare il mondo, quanto quella industriale e, in più, contribuisce alla lotta contro l´effetto serra. Molte battaglie ideologiche dei prossimi anni saranno combattute su questo terreno. Gli interessi economici in ballo sono enormi. I punti di attacco sono gli stessi per i due fronti: come avere piante migliori e come risolvere il problema della carne.
La chiave della nuova tecnologia agricola è la genetica. Non necessariamente, però, quella degli Ogm, gli organismi geneticamente modificati, che conosciamo, i cosiddetti "transgenici", dove un gene viene inserito in una pianta, per renderla resistente ad un certo tipo di erbicida. Molti esperti dubitano che l´aumento di rendimenti, che questo determina, si prolunghi davvero al di là del boom iniziale. E, inoltre, la resistenza agli erbicidi è solo un lato del problema. Già oggi, le battaglie più importanti fra industrie ed ecologisti riguardano, più dei transgenici, i brevetti sui "marker" genetici. L´orizzonte della genetica agricola è, infatti, lo sfruttamento della decodificazione del genoma. In altre parole, la rapida individuazione di geni che forniscono a particolari piante caratteristiche desiderate, adatte alle nuove situazioni climatiche, come la tolleranza all´umidità o alla siccità. Si tratta di accelerare, in poche giornate di laboratorio, quello che era il lungo e faticoso lavoro di innesti e selezione, che l´agricoltura pratica tradizionalmente. Ma, spesso, la genetica consente anche di rintracciare rapidamente piante già esistenti, con quelle caratteristiche. Nelle scorse settimane, l´Ufficio europeo dei brevetti ha dato il via libera ad una multinazionale americana per il brevetto di un pomodoro con meno semi, anche se l´intervento genetico non c´è stato e il pomodoro è stato ottenuto con i metodi tradizionali. Potenzialmente, tutto diventa brevettabile. In India, esistono 600 tipi naturali di riso, con tolleranze diverse all´umidità o alla siccità. Un riso che abbia bisogno di meno acqua è, quasi certamente, il riso del futuro. Metterci sopra un brevetto è come avere una macchina per far soldi.
Il problema della carne è importante, perché l´aumento vorticoso della domanda mondiale di bistecche e polpette spinge ad allargare lo spazio agricolo destinato all´allevamento - a volte a danno della produzione di cereali - e, contemporaneamente, a destinare a mangime cibi, come soia e granturco, utili anche per l´alimentazione umana. Molti sostengono che l´allargamento dei metodi intensivi, praticati nei paesi industrializzati (polli in batteria, vitelli chiusi nelle stalle), ai paesi emergenti aumenterebbe la loro produzione locale, consentendo di assorbire il loro aumento di domanda. Secondo uno studioso britannico, Simon Fairlie, è, invece, un rimedio peggiore del male. Nei paesi emergenti, i bovini si alimentano, oggi, su terreni marginali, non adatti all´agricoltura e non incidono sul bilancio dei cereali. Questo avviene, invece, nei paesi industrializzati, dove ai bovini, negli allevamenti intensivi, vengono forniti cereali che potrebbero essere consumati dall´uomo. Complessivamente, 760 milioni di tonnellate di cereali, secondo ActionAid, finiscono ogni anno nelle mangiatoie. È un terzo della produzione mondiale. Riportare quelle tonnellate a tavola, alleggerirebbe il futuro problema della fame mondiale. Certo, riconosce Fairlie, smantellare gli allevamenti intensivi significherebbe meno carne in circolazione. In Occidente, la metà di quanta ce ne sia oggi. Considerando che, secondo il parere della rivista britannica The Lancet, 90 grammi al giorno (circa una polpetta e mezza) bastano per una dieta equilibrata, forse non è un gran male. E, magari, le vacche sono più contente.

Repubblica 15.3.11
Il sociologo: "L´impatto dell´uomo sulla Terra dipende più dai comportamenti che dai numeri"
Una nuova etica dei consumi contro la bomba demografica
di Zygmunt Bauman


«Loro sono sempre troppi. "Loro" sono quelli che dovrebbero essere di meno o, meglio ancora, non esserci proprio. Invece noi non siamo mai abbastanza. Di "noi" dovrebbero essercene di più». Lo scrissi nel 2005 in "Vite di Scarto". A mio avviso, ora come allora la "sovrappopolazione" è una finzione statistica, un nome in codice che indica la presenza di un gran numero di persone che invece di favorire il funzionamento fluido dell´economia rendono più difficile raggiungere e superare i parametri utilizzati per misurarne e valutarne il corretto funzionamento.
Quel numero sembra aumentare in modo incontrollabile, accrescendo continuamente le spese ma non i guadagni.
In una società di produttori si tratta di persone il cui lavoro non può essere utilmente ("proficuamente") impiegato, poiché è possibile produrre senza di loro, in modo più rapido, redditizio ed "economico", tutti i beni che la domanda attuale e potenziale è in grado di assorbire. In una società di consumatori queste persone sono "consumatori difettosi": coloro che non hanno risorse per accrescere la capienza del mercato dei beni di consumo e creano invece un altro tipo di domanda, che l´industria orientata ai consumi non è in grado di intercettare e "colonizzare" in modo redditizio.
Il principale attivo di una società dei consumi sono i consumatori, mentre il suo passivo più fastidioso e costoso è costituito dai consumatori difettosi. Non ho motivo per cambiare idea rispetto a quanto ho scritto anni fa, né per ritirare la mia adesione a quanto sostenuto da Paul e Ann Ehrlich.
Osserviamo che la "bomba demografica" di cui parlano gli Ehrlich si prevede esploderà perlopiù in territori a più bassa densità di popolazione. In Africa vivono 21 abitanti per chilometro quadrato, contro 101 in Europa (compresi le steppe e il permafrost della Russia), 330 in Giappone, 424 in Olanda, 619 a Taiwan e 5489 a Hong Kong. Come ha osservato poco tempo fa il vicedirettore della rivista Forbes, se tutta la popolazione della Cina e dell´India si trasferisse negli Stati Uniti continentali ne risulterebbe una densità demografica non superiore a quella dell´Inghilterra, dell´Olanda o del Belgio. Eppure, pochi considerano l´Olanda un paese "sovrappopolato", mentre i campanelli d´allarme suonano continuamente per la sovrappopolazione dell´Africa o dell´Asia, ad eccezione delle poche "Tigri del Pacifico".
Per spiegare il paradosso delle "Tigri" si afferma che tra densità demografica e sovrappopolazione non vi è stretta correlazione: la seconda andrebbe misurata facendo riferimento al numero di persone che devono essere sostentate con le risorse possedute da un dato paese e alla capacità dell´ambiente locale di sostenere la vita umana. E tuttavia, come notano Paul e Ann Ehrlich, l´Olanda può sostenere la sua altissima densità demografica solo perché tanti altri paesi non ci riescono: negli anni 1984-1986, ad esempio, ha importato 4 milioni di tonnellate di cereali, 130.000 tonnellate di oli vari e 480.000 tonnellate di piselli, fagioli e lenticchie – tutti prodotti che sui mercati globali hanno una valutazione, e quindi un prezzo, relativamente bassi, consentendo alla stessa Olanda di produrre a sua volta altre merci, come latte o carne commestibile, che notoriamente hanno prezzi elevati.
I paesi ricchi possono permettersi un´alta densità demografica perché sono centri ad "alta entropia", che attraggono risorse (e soprattutto fonti energetiche) dal resto del mondo, restituendo in cambio le scorie inquinanti, e spesso tossiche, prodotte attraverso la trasformazione (l´esaurimento, l´annientamento, la distruzione) delle riserve mondiali di energia. La popolazione dei paesi ricchi, pur essendo abbastanza esigua (rispetto agli standard mondiali), utilizza circa due terzi dell´energia totale. In una relazione dal titolo eloquente (Too many rich people, "Troppi ricchi"), tenuta alla Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo del Cairo (5-13 settembre 1994), Paul Ehrlich ha sintetizzato le conclusioni del libro da lui scritto insieme ad Ann Ehrlich, The Population Explosion, affermando senza mezzi termini che l´impatto dell´umanità sul sistema che sostiene la vita sulla Terra non dipende semplicemente dal numero di persone che vivono sul pianeta, ma anche dal modo in cui si comportano. Se si considera questo aspetto il quadro cambia totalmente: il problema demografico esiste soprattutto nei paesi opulenti. In realtà ci sono troppi ricchi.
© 2010, Zygmunt Bauman e Citlali Rovirosa-Madrazo, per gentile concessione di Gius. Laterza e Figli Spa

il Fatto 15.3.11
Il film Sorelle Mai
Alle origini di Bellocchio
di Federico Pontiggia


“Oggi fare un film è impossibile, se non pensi al botteghino. Ancor più, se sei giovane”. J’accuse firmato Marco Bellocchio, che domani porta in sala Sorelle mai, già presentato con successo all’ultima Mostra di Venezia e ora distribuito da Teodora in 40 copie. Una sorta di Buddenbrook all’emiliana, che porta sul grande schermo in formato famiglia la natia Bobbio, attraverso tre generazioni chiamate a un confronto pubblico e privato, con i pugni ancora in tasca: ci sono due ottuagenarie (Letizia e Maria Luisa Bellocchio) attaccate alla terra e a un'altra Italia, forse scomparsa ; c’è il nipote Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio), che va e viene dalla casa avita, portando in dote amore e inquietudine, problemi e coccole per la piccola Elena (Elena Bellocchio) e c’è Sara (Donatella Finocchiaro), sorella di Giorgio e madre assente di Elena, che fa l’attrice a Milano ed è la prima a tagliare i ponti con quel passato che non passa, quella famiglia così familiare. Co-prodotto da Provincia di Piacenza, Comune di Bobbio, Rai Cinema e Kavac, “è un film a costo zero e, insieme, un lusso girato in 10 anni, edito con molta cura: insomma, un’esperienza irripetibile”, dice Bellocchio, rivelando come “non pensassi a un’opera unitaria, ma volevo chiudere questa storia”. Nel cast anche Alba Rohrwacher e Gianni Schicchi Gabrieli, sono sei episodi girati in sei anni (dal '99 si passa direttamente al 2004, e poi anno per anno fino al 2008) di cui i primi tre già in cartellone al Festival di Roma del 2006 e qui rimontati ad hoc, realizzati con gli studenti del Laboratorio Fare Cinema: “Non posso insegnare la tecnica, ormai me ne sono reso conto, ma l’elaborazione delle immagini e il lavoro con gli attori, questo sì”. E quanto siano importanti gli attori nel cinema di Bellocchio non solo è palese, ma poeticamente essenziale: “Una vacanza-studio in una città incantata percorsa dal Trebbia, dove facevamo il bagno: un work in progress, un lavoro fluido sulla sceneggiatura. A un certo punto, dopo tanti estati a Fare Cinema, pensavo fosse una soap e mi chiedevo: non finisce mai? Poi è diventato un film, e ne sono entusiasta”, dice la Finocchiaro, mentre per la Rohrwacher il surplus di senso e divertimento sta nella “leggerezza e levità delle riprese, senza la pressione di una macchina cinema ingombrante”. Quale è, dunque , il segreto del regista? “Marco è un vulcano in eruzione, e devi deciderti: prendere la lava e rischiare di bruciarti o scappare. Io sono rimasto lì, anche se a un certo punto ha deciso che il mio personaggio dovesse suicidarsi”, scherza Schicchi Gabrieli, ma anche i vulcani rischiano di placarsi, per mano altrui. Italia mia, ovvero la rappresentazione del potere qui e ora secondo Bellocchio, è in standby: “Il potere è pomposo, sontuoso, fuori e dentro il Parlamento, quindi il film è costoso: quelli a cui mi sono rivolto mi hanno invitato con garbo a pensare a un altro progetto”. Ma anche una porta sbattuta in faccia può essere l’occasione per fare autocritica: “Non faccio e non farò mai la vittima, anche davanti a tanti rifiuti: accetto le critiche, quando non sono legate a una situazione aziendale o ai rapporti col potere. Evidentemente, nel copione di Italia mia ci sono cose da cambiare. Che poi oggi si facciano solo commedie è un altro discorso, come pure che qualcuno usi “la realtà supera sempre l’immaginazione” per non produrti il film...”.

Repubblica Roma 15.3.11
"Non mi arrendo"  "Non mi fanno girare un film sul potere, e io racconto la mia famiglia"  Bellocchio presenta "Sorelle Mai"    "Italia mia" è un film costoso che in troppi mi hanno sconsigliato. Cambierò qualcosa, non m´arrendo
di Maria Pia Fusco


ROMA. «Magari in quella scena potevi farmi più carina», è stato uno dei pochi, scarni commenti di Elena Bellocchio, figlia del regista, al film Sorelle Mai, che la racconta negli anni della crescita, da 4 a 14 anni, mentre vive accudita dalle zie (Letizia e Maria Luisa Bellocchio), a Bobbio, nella casa di vacanza della famiglia, la stessa in cui 50 anni fa fu girato I pugni in tasca. Diviso in sei episodi, coprodotto da enti locali e Rai Cinema, il film è stato girato da Marco Bellocchio insieme agli studenti del laboratorio Fare Cinema, nel corso di dieci estati, durante le quali Elena è raggiunta dalla madre Sara, (Donatella Finocchiaro) che a Milano insegue il sogno dell´attrice, e dallo zio Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio), un giovane inquieto e incapace di scegliere un futuro.
«Un piccolo film a costo zero, girato in totale libertà senza nessuna preoccupazione per il botteghino. Un´esperienza irripetibile», dice il regista, grato alla Teodora per il coraggio di distribuirlo in 40 copie (dal 16) in un tempo in cui il pubblico sembra attratto solo dalle commedie. Esperienza irripetibile anche per il cast, per la Finocchiaro «un film come una vacanza con tanto di bagni nel Trebbia», per Alba Rohrwacher, un´insegnante che appare nell´ultimo episodio «indimenticabile il clima di leggerezza creato da Marco durante le riprese», per Pier Giorgio Bellocchio «un modo per provarmi come attore e per rafforzare il legame con mio padre».
"Piccolo film" si fa per dire, «perché nelle storie di famiglia c´è l´intensità dei sentimenti, i contrasti, i malesseri segreti. E rispetto al presente e al conformismo della forma è anche un film rivoluzionario. Sorelle Mai è un omaggio alla famiglia, soprattutto alle sorelle del regista per il quale il titolo ha doppio significato: «Mai come cognome di finzione e come atto d´amore per le mie sorelle, costrette in qualche modo a restare nella protezione di un benessere di provincia e, in qualche modo, a rinunciare alla possibilità di scegliere un´altra vita. Sono donne pascoliane più che cecoviane, ho un affetto profondo, non patetico, ma malinconico se confronto la mia vita con la loro».
Nella sua vita invece c´è stata la ribellione giovanile e il distacco da Piacenza, da Bobbio e dalla famiglia «senza rimpianti o sensi di colpa». E anche se riconosce che oggi in paesi come Bobbio non c´è più «l´isolamento di un tempo», non ha nessuna nostalgia, perché «il tempo è troppo breve, voglio usarlo per fare tante altre cose». Tra le quali, almeno per ora, non c´è il progetto di Italia mia, «un film sulla rappresentazione del potere e il potere è pomposo fuori e dentro il Parlamento, quindi un film costoso che in troppi mi hanno sconsigliato. Sto riflettendo, dovrei avere la fantasia geniale di Bulgakov, capace di raccontare la realtà attraverso la storia "Il Maestro e Margherita". Ma i rifiuti non mi rendono vittima, so che devo cambiare qualcosa nella sceneggiatura di Italia mia, ma non mi arrendo».

Corriere della Sera 15.3.11
«Uno sguardo gentile può celare il demonio»
Timi, attore estremo: a teatro cambio sesso poi sarò un pedofilo
di  Giuseppina Manin


MILANO— Il peggio è stata la ceretta. «Mai avrei immaginato che facesse tanto male. Irsuto com’ero...» Diventare donna costerà ben qualche fatica. Ma Filippo Timi ancora non si rassegna. «Mi hanno strappato i peli delle gambe e delle braccia, mi hanno passato quella cera puzzolente sulle guance... Volevano pure sacrificarmi le sopracciglia, ma mi sono opposto. Ho convinto il truccatore a coprirle con un po’ di biacca. Poi c’è stata la tortura dei tacchi alti. Invenzione diabolica, masochismo puro. I miei piedi non me lo perdoneranno mai. Infine, una strizzatina al torace con guepière stile Rossella O’Hara mi ha fatto spuntare un paio di seni di tutto rispetto. Ciglia finte, rossetto e una parrucca hanno completato l’opera» . Ed ecco Filippo nei panni di una rossa. «A dire il vero il mio sogno era diventare una bionda... Ma mi hanno detto che quel colore non si addiceva al mio tipo. Meglio rossa» . E rossa sia. Rossa e incinta. «Se si ha da fare, facciamola fino in fondo» , scherza l’attore, volto tra i più interessanti del nostro cinema e teatro, ma anche scrittore. Suo il testo che dal 21 marzo debutterà sulle scene del Franco Parenti di Milano. Titolo «Favola» , protagonista «femminile» lo stesso Timi. «Sarò Mrs. Fairytale, un nome che è tutto un programma» , avvisa. Una signora racconta favole. Allarmanti fin dall’incipit: «C’era una volta una bambina e dico c’era perché ora non c’è più» , recita il sottotitolo. «Perché — ricorda l’attore, 37 anni— nessuna favola è perfetta, né la vita è un film di Doris Day» . Neanche in quell’America anni ’ 50 avvolta in un sogno di patinata felicità. Dove due amiche, Mrs. Fairytale e Mrs. Emerald (Lucia Mascino) si contendono il primato di moglie impeccabile, capelli laccati, abiti fruscianti, rose in giardino e torte di mele nel forno. Stile Julianne Moore casalinga sorridente e disperata di The Hours o di Lontano dal Paradiso. «O anche stile La vita è meravigliosa, la fiaba surreale con James Stewart — suggerisce Timi —. Nella mia "Favola"i rimandi cinematografici, da Frank Capra a Hitchcock, non mancano. Un mondo in rosa dai risvolti nerissimi» . Difatti sia le due donne sia i loro mariti ideali riserveranno più di una sorpresa. Timi non vuole svelare troppo le carte, ma quel che ci riserva tutto è tranne una storia zuccherosa con happy end. Sotto le gonne svolazzanti della massaia incinta spunterà infatti un’imprevedibile virilità, e le sue manine fatate si macchieranno di sangue. Mentre la voce suadente di Nat King Cole farà da colonna sonora a una sequenza di colpi di scena, mutazioni di sesso, cagnolini imbalsamati, gemelli terribili, persino sbarchi di alieni... Insomma, nulla dell’immaginario ai confini della realtà degli Anni 50 ci sarà risparmiato. Tra le sorprese più interessanti, quella del linguaggio. «Far parlare i miei personaggi come in quell’epoca mi ha costretto a reinventare un modo d’esprimersi molto diverso. Mai esplicito. Mai una parolaccia. Ogni situazione, anche la più cruda, è sempre velata, repressa, nei termini. Per me è stata la riscoperta di un senso del pudore dimenticato. Certo ipocrita, convenzionale, ma come ogni tabu necessario per poter andare "oltre". La peggiore volgarità oggi imperante, soprattutto in tv, è proprio quella verbale: lo sfregio continuo alla nostra lingua, il suo imbarbarimento, l’overdose di spropositi e trivialità. Un incessante strepitio per nascondere il nulla. Gli ululati e gli improperi di Sgarbi, un tempo provocatori, ormai rimbalzano inerti, senza più eco. Di dirompente oggi forse ci sarebbe solo il silenzio» . O la pacata impassibilità della fiaba. «Un genere crudele, che cela i peggiori orrori dietro una facciata lieta. Pedagogica perchè insegna a non fidarsi delle apparenze. Dato che spesso dietro una fragile vecchina si cela una strega, dietro un simpatico ometto un orco» . E proprio in questo ruolo lo ritroveremo tra breve al cinema, interprete di Ruggine di Daniele Gaglianone, film che vede nel cast anche i nomi di Stefano Accorsi, Valeria Solarino, ValeriaMastandrea, già in predicato per qualche sezione del prossimo Festival di Cannes. Film «spinoso» . Tratto dall’omonimo romanzo di Stefano Massaron, s’inoltra nel tema più scabroso, la pedofilia. «E io sono per l’appunto un "orco"— confessa Timi —. Così vengono detti quegli individui che insidiano i bambini. Persone spesso insospettabili, dall’aspetto "normale"e i modi cordiali. Proprio come il dottor Boldrini, medico stimatissimo, un "angelo"disponibile a curare tutti, specie i ragazzini diseredati di un quartiere periferico» . Mai fidarsi delle favole. «Visite e confidenze si trasformano in tragiche occasioni di violenza. Il buon dottore si scopre un mostro» . Non deve esser stato facile indossare quei panni. «Nessun ruolo è sgradevole per un attore. Anzi, quanto più lo è, tanto maggiore è la sfida. Shakespeare ci insegna: dietro uno sguardo gentile può celarsi il demonio» avverte Timi che per mestiere si è già calato in tanti abissi. E’ stato persino Satana (nel «Paradiso perduto» di Milton). Persino Mussolini in Vincere! di Bellocchio. Un film che avrebbe potuto correre all’Oscar. «Mannaggia! Meglio non pensarci... Quel film aveva davvero delle buone carte. E poi io sono nato il 27 febbraio, la data degli Oscar. Un segno del destino, no?... Peccato davvero» . Sarà per la prossima volta