mercoledì 16 marzo 2011


 l’Unità 16.3.11
Bersani al governo: «Da irresponsabili andare avanti senza aprire una riflessione»
Oggi interrogazione al ministro Prestigiacomo e mozioni per rinnovabili ed election day
«L’atomo è un’avventura senza senso. Fermatevi»
Oggi interrogazione al governo e mozione per sospendere il blocco degli incentivi sulle energie da fonti rinnovabili. Sul nucleare si divide il fronte dell’opposizione: Pd con Sel e Idv, Udc e Fli a favore dell’atomo.
di Simone Collini


Prima l’intervista all’Unità in cui Pier Luigi Bersani ha annunciato che il Pd sosterrà il referendum per abrogare la legge sul ritorno del nucleare in Italia, poi una nota della segreteria per chiedere al governo di «sospendere l’esame dei decreti per la localizzazione dei siti ove collocare le nuove centrali», per proseguire oggi con un’interrogazione che presenterà il capogruppo alla Camera Dario Franceschini e a cui dovrà rispondere il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo. Il Pd va all’offensiva sul nucleare, perché ritiene sbagliato il piano per il ritorno dell’atomo e perché è convinto che su questo fronte si può assestare un colpo non da poco al governo (e personalmente al premier, visto che insieme si voterà un quesito sul legittimo impedimento). «Di fronte al dramma del Giappone è veramente insensato che non ci sia da parte del governo un accenno alla riflessione, è un atteggiamento inaudito», dice Bersani conversando con i cronisti alla Camera. «L’opinione pubblica pretende, giustamente, almeno un momento di riflessione. Noi sosterremo il referendum perché il piano del governo è sbagliato, perché è una tecnologia non nostra ed economicamente non sostenibile, inoltre sulle scorie e sulla sicurezza restano interrogativi a cui bisogna prestare attenzione. In Italia quella del nucleare sarebbe un’avventura senza senso, perciò dico al governo: fermatevi e riflettete».
GOVERNO IRRESPONSABILE
Se al question time di oggi il ministro per l’Ambiente ribadirà quanto sostenuto ieri da quello per lo Sviluppo economico («È inimmaginabile che l’Italia torni indietro rispetto alla decisione di incamminarsi nel nucleare», ha detto Paolo Romani al termine della riunione sulla crisi nucleare in Giappone convocata dal commissario europeo per l’Energia Gunter Oettinger), il Pd andrà a testa bassa contro una scelta «da irresponsabili», come hanno scritto Bersani e gli altri membri della segreteria al termine della riunione di ieri. I Democratici contano sul fatto che i loro possibili alleati nel fronte antinuclearista vanno al di là dei soli Idv e Sel, che sono i promotori dell’iniziativa referendaria. Se questa battaglia avrà inevitabilmente delle ripercussioni nella strategia delle alleanze, visto che sia l’Udc che Fli sostengono sia un errore opporsi al ritorno dell’atomo, il Pd conta di incassare un risultato grazie anche alla netta contrarietà o alle profonde perplessità presenti tanto nell’elettorato quanto negli amministratori locali di centrodestra. Non c’è solo il sindaco di Roma Gianni Alemanno a chiedere «una riflessione molto seria» o il governatore del Veneto Luca Zaia a mandare un messaggio al governo («finché ci sarò io questa Regione non ospiterà centrali»).
Dal punto di vista dell’appartenenza politica, all’interno del Carroccio c’è un filone molto attento alla tutela del territorio e non a caso Daniele Marantelli, deputato Pd che vanta buoni rapporti con la galassia leghista, ha cominciato a sondare il terreno e ha confermato ai vertici del suo partito che molti sindaci “padani” sono pronti a schierarsi contro l’atomo; dal punto di vista degli enti locali poi, nessuna regione si è detta disponibile ad accogliere centrali. Questo, mentre il governo continua a rinviare l’esame del decreto che definisce i criteri per l’avvio delle centrali (ieri è saltata la seduta in Commissione Attività produttive e ambiente per assenza di esponenti dell’esecutivo).
Se poi il governo dovesse contare sul sostegno del mondo imprenditoriale per far fallire il referendum, è il ragionamento che si fa nel Pd, dopo il blocco degl incentivi sulle energie da fonti rinnovabili (decisione che colpisce molte aziende attive sia al Sud che al Nord) rischia di avere più di una delusione. Sarà proprio sulle rinnovabili che oggi Pd e Idv presenteranno una mozione, chiedendo di sospendere il decreto che colpisce i finanziamenti e puntando a mandare sotto l’esecutivo. L’altra mozione che verrà presentata è sull’election day, visto che accorpare amministrative e referendum renderebbe più facile raggiungere il quorum.

La Stampa 16.3.11
I “liquidatori” di Cernobil 600 mila eroi dimenticati che continuano a morire
Nell’aprile 1986 affrontarono il disastro quasi a mani nude
di Anna Zafesova


Il loro monumento funebre, uno per tutti, è a Mitino, maxicimitero alla periferia di Mosca: un «fungo» atomico con all’interno la statua di una figura umana che allarga le braccia, in un gesto disperato, quasi a voler fermare a mani nude il disastro. Sotto, ci sono 28 lapidi, e sotto ancora, a diversi metri di profondità, sotto una lastra di cemento, 28 bare di piombo. I tecnici e i pompieri che sono stati convocati a Cernobil la notte del 26 aprile 1986, per «spegnere un incendio», sono stati sepolti tutti insieme, in uno spazio isolato del cimitero: perfino i loro corpi erano radioattivi. Sono morti in pochi giorni, in un’agonia atroce, blindati in un’ospedale speciale di Mosca che, dopo la loro morte, è stato completamente ristrutturato. E mentre venivano sepolti, nella centrale nucleare devastata venivano inviati, da tutta l’Unione Sovietica, decine di migliaia di soccorritori: militari, operai, piloti, minatori, un po’ reclutati a forza ma molti volontari, per chiudere la voragine radioattiva che si era aperta nel sistema sovietico.
Sono stati in totale circa 600 mila, e 25 anni dopo portano il loro titolo di «likvidator», liquidatore, con un misto di orgoglio e rabbia. Hanno salvato migliaia di vite, senza pensare, e spesso nemmeno senza conoscere i rischi che correvano. I soldati di leva che spalavano il bitume radioattivo dal tetto della centrale protetti solo da mascherine di garza. I piloti di elicotteri che portavano il loro carico di cemento esattamente sopra la voragine del reattore esploso, per blindarlo. I minatori che scavavano i tunnel per impedire che le acque contaminate finissero nel bacino del Dniepr. Quelli che nei villaggi spiegavano alla gente che quel sole splendente di una primavera come non se ne erano viste da tempo, era mortale, e che dovevano andarsene subito, solo con quello che avevano addosso. Quelli che in una lotta contro il tempo costruivano il «sarcofago», il super-coperchio che avrebbe dovuto coprire il reattore esploso insieme con le scorie che produceva.
I tentativi di usare le macchine fallivano: troppe radiazioni, mentre gli esseri umani andavano avanti. I contatori Geiger che portavano addosso andavano in tilt dopo poche ore, e qualcuno li resettava: teoricamente, raggiunto un certo livello di radiazioni accumulate, i «liquidatori» avrebbero dovuto venire rispediti a casa, ma c’era ancora del lavoro da fare. Molti «likvidator» si erano arruolati a Cernobil per soldi, altri per l’avventura, ma il museo della centrale espone decine di lettere di persone che chiedevano di venire inviate volontarie «perché il Paese ha bisogno di me», «perché voglio essere utile».
Nessuno era consapevole dei rischi, né i liquidatori, né chi li mandava nell’inferno della «Zona» di 30 km intorno al reattore. Secondo l’«Unione Cernobil», l’organizzazione che cerca di tenerli uniti, 60 mila liquidatori, uno su dieci, oggi sono morti. Ma le autorità attribuiscono soltanto un paio di centinaia di questi decessi alle conseguenze delle radiazioni assorbite. La battaglia dei liquidatori per ottenere cure, pensioni, medicine, è arrivata fino alla Corte Europea di Strasburgo. E ora hanno contro anche l’Onu, che in un rapporto del 2005 ha quantificato in 57 le morti totali attribuibili al disastro di Cernobil (secondo Greenpeace, sono almeno 200 mila) e sostenuto che in Ucraina, Russia e Bielorussia «non esiste evidenza scientifica di aumento di mortalità dovuta agli effetti di radiazione».

l’Unità 16.3.11
Il naufragio. Parlano i sopravvissuti: «Nel nostro Paese abbiamo visto morire fratelli e sorelle»
2629 i migranti ora a Lampedusa. Ma il centro d’accoglienza non può ospitarne più di 800
«Il mare è pericoloso ma non c’è scelta: in Libia sparano... »
I cadaveri che riaffioreranno nei prossimi giorni saranno raccolti dai pescatori. «Ma alcuni li rigettano in mare sussurra un anziano se li dichiari rischi di stare fermo al porto per giorni e giorni... ».
di Manuela Modica


È di nuovo emergenza. Gli sbarchi di lunedì fanno precipitare Lampedusa nel caos. L’isola più a sud d’Italia, così vicina al nord Africa, accoglie più migranti di quanto non riesca a contenerne. Sono 2629, e il centro di accoglienza ha una capienza di solo 800 unità. Così che «siamo di nuovo punto e daccapo», dice Giusi Nicolini che offre i locali dell’Area marina protetta, per ospitarne 150, come aveva già fatto nei primi giorni di questa nuova ondata di migrazione quando il Cpsa era ancora chiuso. Un locale predisposto per convegni e mostre, con bagni da “ristorazione”. Lì dove gli albergatori, riuniti nel comitato spontaneo “Porta d’Europa”, si riunivano giovedì scorso per chiedere che i migranti non fossero più trasferiti sull’isola. Ne sono arrivati, invece, molti di più ad alimentare la paura di gente di mare che vive di turismo ma non riceve più prenotazioni, nonostante la stagione estiva sia ormai alle porte.
Così che il passaggio di Marine Le Pen, lunedì mattina, sembra aver aperto una settimana di “passione”, di nuovi disagi per gli abitanti dell’isola: «Come un oscuro presagio, commenta la Nicolini non sappiamo più cosa pensare: sembra studiato a tavolino. Così sarà difficile contenere la paura: è una situazione molto grave». Tanto grave che riapre ai migranti anche la "Casa della fraternità" della parrocchia di Lampedusa, che ne ospiterà 200, di nuovo. Situazione complicata anche dal meteo che blocca la nave per i trasferimenti della Siremar a Porto Empedocle lasciando lo ”svuotamento” dell’isola ai soli mezzi aerei. Pochi voli giornalieri, che possono trasportare un numero irrisorio: «Solo 270 oggi (ieri, ndr). È una situazione traumatica», spiega anche Cono Galipò amministratore del centro di accoglienza, i cui operatori sono ora a lavoro su tre centri contemporaneamente.
LE TRAVERSATE DELLA MORTE
Sono giorni difficili per gli abitanti dell’isola siciliana. Ma sono giorni drammatici ancora più per i tunisini che perdono nella traversata “fratelli” in mare proprio sotto i loro occhi. Navigano per giorni sfidando la morte, e perdendo. La “mano del mare”, l’altra notte, ne ha risucchiati 45 almeno. Sotto gli occhi di compagni di viaggio imbarcati su un altro mezzo. «Sono morti, morti», raccontano arrivati al molo Favaloro, dove si fermano per aspettarli, per capire se qualcuno di loro è stato tratto in salvo. Hanno fatto quel che potevano, hanno salvato chi di loro sapeva nuotare ed è arrivato vicino alla loro imbarcazione. Mani tese ad aiutarli, corpi bagnati. Sopravvivenza per i più fortunati. Per gli altri, il fondo del mare. Saranno forse riportati un giorno alla luce dai pescatori siciliani.
Così, infatti, accade a qualcuno. Al centro per anziani, nella via principale del paese, dove molti pescatori giocano a briscola raccontano: «Sì, a qualcuno di noi è capitato, ma capita di più ai pescatori di Pantelleria. E quelli magari li ributtano a mare. A dichiararli, finisce che stanno fermi al porto per giorni e giorni, per i controlli della guardia costiera. Così viene meglio ributtarli in mare, ha capito?».
Uno scenario macabro, dissonante dalle spiagge caraibiche dell’isola, dalla luce che abbraccia senza respiro questa piattaforma sul mare che sembra poter concedere solo vita, solo ristoro. Solo speranza a chi ha la morte anche alle spalle: «Abbiamo visto morire fratelli e sorelle. E ne muoiono ancora. Sparano, senza una ragione. Il viaggio fin qui è rischioso, ma restare lì lo è di più», Xavier, è sull’isola da 7 giorni, e dà voce a frasi che stonano con la giovane età: ha solo 22 anni. Quando arriva sull’isola è fatto d’acqua. Sul molo riceve la prima assitenza, una sorta di coperta – ricorda il domopack - d’oro che lo avvolge, che lo riscalderà in un istante. Lui non sfugge ai fotoreporter, alle telecamere, guarda dritto nell’obiettivo, si mostra così, con l’acqua in fronte, l’oro dello strano, miracoloso, involucro, che lo avvolge. Mostra così le sue traversie, senza imbarazzo, ma con espressione atona. Ai piedi non ha scarpe. E così sale sul pullman che con gli altri lo trasporterà al Cpsa. Alza la mano, mentre va via, in segno di vittoria. Per loro è una lotta vinta. Così entrano al centro di prima accoglienza, intonando un coro da stadio, interrotto dalle perquisizioni. Poi viene consegnata a questi vittoriosi di vita, una borsa con vestiti, dalle scarpe ai maglioni, più una ricarica di 5 euro per chiamare casa, e avvertire che sono vivi: ce l’hanno fatta. Sono nelle mani dell’Italia adesso, che però non sa che farne: «Dalla prefettura ci fanno capire che non sanno in realtà dove mandarli», racconta la Nicolini.

l’Unità 16.3.11
Intervista a Ibrahim Dabbashi
«Il raìs farà di Bengasi una nuova Srebrenica. Il mondo deve fermarlo»
L’ex diplomatico passato con gli insorti: «All’Onu bisogna battersi per linea dura di Parigi e Londra. All’Italia chiediamo più coraggio»
di U.D.G.


All’Italia chiediamo più coraggio, più determinazione. Chiediamo fatti e non parole. Perché sui fatti che sarà valutata dal popolo libico che si è rivoltato contro la dittatura di Muammar Gheddafi. Se il governo italiano non assumerà un atteggiamento più intransigente, ci saranno in futuro serie ripercussioni nelle relazioni tra i due Paesi, perché il popolo libico si libererà di Gheddafi. L’Italia deve cambiare atteggiamento».
A sostenerlo è uno dei diplomatici di primo piano che è passato dalla parte degli insorti: l'ambasciatore Ibrahim Dabbashi, numero due della delegazione libica alle Nazioni Unite. «Gli aiuti umanitari sono importanti ma non bastano. All’Italia – afferma Dabbashi – chiediamo di essere dalla parte di Francia e Gran Bretagna nel sostenere l’istituzione di una “no fly zone” sulla Libia. Procrastinare questa decisione, o osteggiarla nei fatti, significa fare il gioco di Gheddafi. Esserne complici». «Non abbiamo bisogno di aiuti militari, non chiediamo l’intervento militare di alcun Paese – ribadisce l’ambasciatore Dabbashi il popolo libico saprà sconfiggere il regime di Gheddafi da solo. Ma certamente abbiamo bisogno di aiuto per quanto riguarda il rispetto di una ‘no fly zone’, per evitare bombardamenti. Su questo chiediamo l’aiuto dei Paesi amici del popolo libico per bloccare il regime di Gheddafi dall’usare lo spazio aereo libico contro il suo popolo». Nella Comunità internazionale, come dimostra lo stesso vertice di Parigi dei ministri degli Esteri del G8, permangono divisioni in merito alla creazione di una “no fly zone” sulla Libia. «Divisioni e incertezze fanno il gioco del regime. Di questo occorre avere coscienza e di questo ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Le parole non fermano gli aerei di Gheddafi. Con i suoi aerei, Gheddafi bombarda le città libiche, sposta armamenti pesanti e mercenari. Agli incerti in buona fede chiedo: ma come pensate di fermare quegli aerei? E come intendete fermare la mano di un dittatore che non ha esitato a far sparare contro chiunque è sceso in piazza per rivendicare diritti e libertà? Noi non chiediamo l’intervento militare di alcun Paese. Il popolo libico saprà sconfiggere il tiranno. Ma certamente abbiamo bisogno di aiuto per quanto riguarda il rispetto di una “no fly zone”, per evitare bombardamenti. E abbiamo bisogno di questo aiuto subito. Cosa altro si vuole che accada: un immane massacro a Bengasi? Si vuole che Gheddafi faccia di Bengasi la nuova Srebrenica?».
In questo scenario, cosa chiedete alla’Italia? «Più coraggio, più determinazione. Più fatti e meno parole. Gli aiuti umanitari sono importanti ma non è questa la priorità. All’Italia chiediamo di schierarsi con Francia e Gran Bretagna nel sostenere la “no fly zone”. A chiederlo è anche la Lega Araba».
Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, rimanda ogni decisione in merito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite...
«Intanto dica chiaramente se l’Italia intende sostenere la “no fly zone” e appoggiare i Paesi che nel Consiglio di Sicurezza se ne fanno sostenitori. Non basta dire che nella Libia di domani non c’è posto per Gheddafi. Perché Gheddafi non se ne andrà mai di sua spontanea volontà, e si illude chi pensa che il problema sia garantirgli un salvacondotto e l’impunità per i crimini che ha commesso. Gheddafi è animato da uno spirito di vendetta. È accecato dall’odio. Parlare di un suo coinvolgimento per una transizione ordinata è un insulto alla ragione».
Gheddafi ha minacciato di allearsi con Al Qaeda... «Prima ha agitato lo spauracchio di Al Qaeda ora minaccia di allearsi con Osama Bin Laden...La logica è sempre la stessa: quella del ricatto. Gheddafi è abile in questo: ricatta o compra. Sta al mondo libero dimostrare di non voler subire ricatti e di non essere in vendita».
Ambasciatore Dabbashi, Lei insiste molto sul fattore tempo... «Mentre stiamo parlando, mentre la Comunità internazionale si arrovella attorno sul sì o il no alla “no fly zone”, gli aerei di Gheddafi continuano a colpire, a spostare armi e mercenari, a seminare morte e terrore. Pensino a questo coloro che frenano sulla “no fly zone».

il Fatto 16.3.11
Noi e la Libia
Siamo ancora in tempo per agire
di Paolo Flores d’Arcais


Gheddafi massacra gli abitanti della Libia e l’Occidente chiacchiera. Gheddafi sta riportando l’intero paese sotto la sua mostruosa dittatura grazie soprattutto al controllo totale dello spazio aereo, come hanno rilevato tutti gli osservatori. Sarebbe bastato bombardare gli aeroporti di cui il sanguinario dittatore si serve come base operativa. Il presidente francese Sarkozy ha buttato lì una frase, tanto per fare la notizia d’apertura nei tg, ma si è ben guardato dal fare sul serio. Chiacchiere, appunto. Il resto d’Europa nemmeno quelle, mentre Obama continua a lambiccarsi su “essere o non essere?” della “no-fly zone” e i ribelli ad essere mitragliati dal cielo. È quasi un mese che l’insurrezione è cominciata, l’Europa avrebbe potuto riconoscere ufficialmente almeno da due settimane il gruppo dirigente dei rivoltosi a Bengasi come unico legittimo interlocutore, unico rappresentante della Libia, e fornire ad esso gli armamenti e le strutture logistiche e informative necessari per fare fronte all’immancabile controffensiva del colonnello. Ogni giorno di traccheggio in più era oro incenso e mirra per il dittatore di Tripoli, questo lo capiva anche un bambino. L’Italia del trapiantato di Arcore è stata ignominiosamente all’avanguardia in questa riedizione di Ponzio Pilato, ignominia del resto ovvia visto che i due sono compagni di sontuosissime merende. I ribelli sono stati lasciati soli, e se continua così finirà in un bagno di sangue e nel ritorno ancora più spietato del tallone di ferro.
SPIACE che anche la voce delle piazze democratiche si sia sentita poco o niente, quasi che il destino di dittatura o di liberazione dell’intera Africa mediterranea sia esotismo che non ci riguarda. Perché è evidente che la soluzione in Libia eserciterà enorme influenza sugli equilibri ancora incertissimi in Egitto e Tunisia tra forze democratiche e forze del gattopardo, e su quanto accadrà o meno in Marocco e in Algeria. La democrazia non si esporta con l’invasione militare, ripetono con penosa sintonia bipartisan governi e opposizioni (e non è sempre vero, Hitler probabilmente sarebbe morto di vecchiaia nel Reichstag), ma da questo a non aiutare un’insurrezione popolare in atto, con armamenti e un minimo di supporto aereo, ce ne corre. La differenza si chiama viltà. La tragedia non si è ancora compiuta, l’Europa e l’Occidente possono ancora sostenere rivolte che coinvolgono strati giovanili e intellettuali anche fortemente laici. Non si meraviglino se, in assenza, la prossima insurrezione sarà più che mai fondamentalista.

il Fatto 16.3.11
Riformano i magistrati, non la giustizia
di Gian Carlo Caselli


La sedicente riforma della Giustizia ideata dal governo, non è un’operazione indolore per la sicurezza dei cittadini. Le ripercussioni negative sul versante delle indagini saranno tante. Anche per le inchieste di mafia. Chi studia l’evoluzione delle mafie constata che per realizzare i loro affari esse hanno bisogno di commercialisti, immobiliaristi, operatori bancari, amministratori e uomini delle istituzioni (la cosiddetta “borghesia mafiosa”). Sempre più si infittiscono gli intrecci con pezzi del mondo politico e dei colletti bianchi. I transiti di denaro sporco nell’economia illegale si intensificano. Spesso le istituzioni criminali e quelle legali si contrastano, ma senza volontà di annientarsi, nel senso che sono piuttosto alla ricerca di equilibri. Diventa sempre più difficile – allora – stabilire la linea di confine fra lecito e illecito all’interno delle attività economiche, finanziarie e produttive. Per impedire che risuonino ancora oggi le parole di Giovanni Falcone circa il timore che “non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”, è necessario allora che le indagini di mafia siano condotte da una magistratura assolutamente autonoma e indipendente, nonché dotata di strumenti capaci di esplorare in profondità anche il lato oscuro e segreto delle mafie. Proprio il contrario di quel che risulta obiettivamente ricollegabile alla pseudo-riforma della Giustizia voluta dal governo. Una riforma che quand’anche abbia – come scopo di partenza – “solo” quello di vendicarsi dei magistrati, alla fine potrebbe causare risultati obiettivamente devastanti. Quanto meno finché la politica italiana continuerà a discostarsi massiccia-mente dagli standard europei con conseguenze da trarre – doverosamente – in caso di accertato coinvolgimento in comportamenti illeciti.
Una “spia” dei veri obiettivi della riforma si può trovare nel fatto che le novità si collocano tutte all’interno del titolo 4° della parte seconda della Costituzione. Questo titolo, che oggi è denominato “La magistratura”, nella riforma diventa “La giustizia”. Come volevasi dimostrare: si tratta di riformare i magistrati, non la giustizia. E non basta cambiare l’etichetta della bottiglia perché uno sciroppo diventi barolo. Ma torniamo agli effetti oggettivi della riforma. Possiamo prendere singolarmente – una per una – le modifiche in programma, oppure l’intiero pacchetto.
Le indagini in mano alla politica
SEMPRE avremo lo stesso identico risultato: il trasferimento del “rubinetto” delle indagini (cioè dei controlli di legalità) dalle mani della magistratura a quelle del potere politico, governo e/o Parlamento. Con conseguente riduzione degli spazi d’intervento autonomo della magistratura e quindi dei controlli indipendenti sulle violazioni di legge commesse dai potenti. Con il rischio anzi che tali controlli causino al magistrato coraggioso guai non di poco conto, dalle ispezioni ministeriali (addirittura elevate al rango costituzionale), alle bufere scatenate da quanti vorranno strumentalmente approfittare delle nuove norme sulla responsabilità dei magistrati.
L’analisi di alcuni punti della sedicente riforma offre decisive conferme, anche per le inchieste di mafia.
Il Csm riformato – la riforma prevede lo sdoppiamento del Csm, la riduzione del numero dei membri “togati”, la loro nomina col fantozziano sistema dell’estrazione a sorte (una grottesca lotteria che rappresenta anche una discriminazione mortificante, posto che i membri “laici” continueranno a essere eletti dal Parlamento in seduta comune), il divieto di adottare atti di indirizzo politico (cioè pratiche a tutela dei magistrati vilipesi perché scomodi). Viene di fatto azzerata la stessa ragion d’essere del Csm: governo autonomo della magistratura e tutela della sua indipendenza. Il magistrato che debba scegliere tra diverse opzioni, egualmente possibili nel perimetro dell’interpretazione della legge, non sentendosi più tutelato da un Csm ridotto ad organo di semplice amministrazione, ci penserà ben bene prima di esporsi alle rappresaglie impunite del potente di turno. Figuriamoci quale impulso potrà derivare alle indagini su quella vischiosa zona grigia che consente agli affaridi mafia di prosperare!
1) AZIONE PENALE E POLIZIA GIUDIZIARIA NELLE MANI DELLA POLITICA L’azione penale a parole resta obbligatoria, ma dovrà essere esercitata “secondo i criteri stabiliti dalla legge” , vale a dire che sarà la politica a stabilire chi indagare e chi no: ed è improbabile che essa mostrerà particolare zelo per gli intrecci tra pezzi del suo mondo e la mafia . Quali che siano tali criteri, poi, resta il fatto che non sarà più direttamente la magistratura a disporre della polizia giudiziaria, che pertanto prenderà ordini dal governo (ministero degli interni per la polizia di stato; difesa per i carabinieri; economiaperlaGdF).Lapolitica,in sostanza, avrà in mano il rubinetto delle indagini e potrà regolarlo col contagocce tutte le volte che ci sia il rischio di scoprire qualcosa di troppo degli “inquietanti misteri” di cui parlava Falcone.
2) ASSOLTI PER SEMPRE Con clamorosa violazione della “parità delle armi” tra accusa e difesa, mentre l’imputato condannato potrà sempre ricorrere in appello, il pm non lo potrà fare in caso di assoluzione dell’imputato, salvo che “nei casi previsti dalla legge”. Ora, sarà impossibile (per non perdere la faccia) che tra questi casi non rientrino i delitti di mafia, ma che ne sarà del cosiddetto “concorso esterno”? Senza questa figura è impensabile che si possano colpire anche le collusioni con la mafia, ma poiché il delitto non esiste (lo sostiene il presidente Berlusconi!), si può scommettere che sarà fortemente a rischio la possibilità per il pm di appellare le assoluzioni per “concorso esterno”: la linea di demarcazione fra lecito e illecito tenderà sempre più allo sfumato evanescente e per la cosiddetta “borghesia mafiosa” ci sarà da brindare.
3) L’INDIPENDENZA DEL PM “ABROGATA” PER LEGGE A spazzare definitivamente ogni possibile dubbio circa le effettive conseguenze della riforma provvede infine il nuovo – se approvato – art. 104 della Costituzione (quello che non a caso introdurrebbe la separazione delle carriere...), laddove stabilisce “che l’ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario che ne assicurano l’autonomia e l’indipendenza”. In sostanza, autonomia e indipendenza del pm non sono più valori di rango costituzionale tutelati dalla Carta fondamentale, ma optional rimessi alla legge ordinaria, che pertanto la politica potrà cambiare a suo piacimento senza neanche il fastidio delle procedure e delle maggioranze qualificate previste per le norme costituzionali. Vale a dire che la politica non avrà in mano soltanto il “rubinetto” delle indagini, ma avrà in sua balia direttamente il pm. Per cui è difficile pensare che vorrà orientarlo verso inchieste che potrebbero scoprire segreti inquietanti di colletti bianchi e/o politici per favori scambiati con la mafia o affari fatti insieme. Ed è persino superfluo notare che tutto ciò che colpisce in prima battuta il pm avrà inevitabilmente un effetto domino sui giudici: perché se al pm non è consentito indagare su certe materie, esse non arriveranno mai sul tavolo del magistrato giudicante.
Un pericolo che non si può correre
COME si vede, gli scenari futuri sono cupi e se si vuole che la lotta alle mafie non rischi di diventare un esercizio di facciata, ma sia un’azione incisiva, la riforma costituzionale in cantiere dovrebbe essere riconsiderata: perché le conseguenze negative che ne potrebbero obiettivamente derivare (obiettivamente: anche a prescindere dall’orientamento di questa o quella maggioranza politica contingente) costituiscono un pericolo da non correre. A Potenza, nella XVI Giornata antimafia della memoria e dell’impegno, organizzata da Libera per il 19 marzo, si discuterà anche di questo.

Corriere della Sera 16.3.11
Italia da Terzo Mondo? Duello Terragni-Bonino
di  Maria Luisa Agnese


Emma Bonino, unica italiana inserita nella freschissima lista di Newsweek delle 150 donne che hanno scosso il pianeta, va a New York invitata al summit Women in the World 2011, e scuote le donne italiane. Perché ha l’ardire di dire in quell’internazionale consesso che dopo le grandi battaglie degli anni Settanta le donne italiane si sono sedute e come ripiegate, ricacciate nel privato: «Dopo quel periodo fantastico è cominciato un lungo sonno, e l’immagine della donna è stata rimodellata su valori tradizionali: da una parte madre e moglie perfetta che pulisce; bella fanciulla dall’altra» ha detto Bonino. Subito rimbrottata da Marina Terragni, giornalista e femminista, impegno a sinistra ma mente libera che ha scritto sabato sul Foglio: «Sono furibonda perché Bonino, celebrata da Newsweek nella categoria donne combattenti nel Terzo Mondo — tra cui l’Italia— ha onorato il riconoscimento concionando di oppressione femminile assieme a un’egiziana, un’iraniana e una saudita, tutte oppresse a pari merito» . Oltremodo infastidita, Terragni, da quell’aria giudicante che spesso all’estero inalberano quando si tratta di noi, si dice tentata da una class action versus Bonino che avrebbe commesso una leggerezza accettando una diminutio così plateale e planetaria del nostro Paese. Insomma: non è esagerato metterci fra i Paesi del Terzo Mondo riconoscendo un’emergenza Italia pari a quella del Ruanda? E difatti parlando con il Corriere Terragni aggiunge: «Bonino non è un’opinionista ma la vicepresidente del Senato: è giusto andare a rappresentare in questo modo il Paese che si governa? E poi è in politica da decenni, dovrebbe assumersi la sua parte di responsabilità» . Sconcertata dall’attacco, Bonino dice di non capirne la sostanza: «Non è chiaro se Terragni vuol dire che è possibile criticare la situazione delle donne in Italia, ma non all’estero, o se invece addirittura ritiene perfetta la situazione delle donne in Italia» . Cui contrappone la forza dei numeri che vogliono l’Italia in fondo alle classifiche mondiali, e ricorda che pure Hillary Clinton nel suo discorso ha detto che anche nei Paesi avanzati c’è ancora molto da fare, e dirlo non è affatto vergognoso.

Corriere della Sera 16.3.11
Sorelle Mai La famiglia Bellocchio sul set: una trama tutta da «inventare»
Figli, zie e attori veri in una non-storia con molti spunti
di Paolo Mereghetti


Non è da tutti trasformare un’esercitazione scolastica in un film d’autore. Marco Bellocchio c’è riuscito, con i rischi che un’operazione di questo tipo comporta, e il risultato è adesso sotto gli occhi di tutti, dopo un primo assaggio alla Festa di Roma del 2006 e la proiezione fuori concorso a Venezia 2010. Work in progress, dunque. E non è detto che non debba assumere altre forme negli anni a venire, visto che all’origine c’è il lavoro fatto ogni estate con gli allievi del corso «Fare cinema» che il regista tiene a Bobbio, «terra natale» della famiglia Bellocchio che proprio qui ha una casa di proprietà già utilizzata per I pugni in tasca. Le puntualizzazioni sono importanti per sgombrare il campo da alcune possibili aspettative: Sorelle Mai (con la maiuscola: Mai non è avverbio ma cognome, anche se con inevitabili sfumature contenutistiche) non è un tradizionale film di finzione. Racconta sì una «storia» — quello che accade durante alcune estati nella casa avita di Bobbio— ma lo fa con una libertà che potrebbe anche disorientare lo spettatore che si aspetta la tradizionale struttura di un film. Alla fine non ci sono risposte certe. Così come all’inizio non si hanno domande chiare. Tutto è solo accennato, fatto intuire, suggerito. A complicare le cose, poi, contribuisce anche il coinvolgimento in prima persona dei familiari, che non solo si prestano a recitare ma portano anche una parte di sé nella definizione dei propri ruoli. Che cosa fa davvero Giorgio interpretato da Pier Giorgio Bellocchio (il primogenito del regista)? L’aspirante attore? L’eterno fidanzato che vorrebbe mettere la testa a posto? L’attore affermato, come si direbbe dallo spezzone della Balia che si vede (realmente interpretato da Pier Giorgio)? O lo scavezzacollo che cerca soldi in prestito? O il regista, come lascia intuire l’ultima scena? La presenza nel film dell’altra figlia del regista, Elena (che interpreta la figlia di Sara, affidata a Donatella Finocchiaro) aiuta a scandire il passare del tempo con le sue trasformazioni da bambina ad adolescente, in parallelo con lo scorrere delle estati a Bobbio (il film utilizza le riprese effettuate per il corso del 1999 e poi quelle fatte dal 2004 al 2008). Ma già la presenza delle due autentiche sorelle di Marco, Letizia e Maria Luisa Bellocchio, assume valenze più sfumate. Perché se da una parte il regista affida loro un ruolo a metà tra l’autobiografico (i ricordi dell’infanzia, della madre) e l’ironico (le gag sulla cappella del cimitero), dall’altra le usa come «materia viva» per ripensare al suo film d’esordio, montando in parallelo le pratiche quotidiane della famiglia (la preghiera al cimitero, la preparazione della tavola) e la loro reinvenzione per il film. E anche l’utilizzo di attori professionisti, come la Finocchiaro o Alba Rohrwacher, nei panni di una professoressa divisa tra dovere professionale e dolori sentimentali (nella scena di uno scrutinio dove il preside è interpretato da un altro Bellocchio, il fratello Alberto), finisce per complicare la struttura del film piuttosto che semplificarla. Ogni personaggio apre nuove possibilità di svolgimento a una storia complessa e «multipla» , e nello stesso tempo funzionale alla sua origine «didattica» . Perché ogni personaggio, ogni situazione, ogni singola scena sono tutti possibili spunti di lavoro per un ipotetico «fare cinema» (come appunto si chiamano i corsi estivi); sono idee di storie e di caratteri che un film più tradizionale avrebbe tesaurizzato e sviluppato e che invece Bellocchio regala e «disperde» , offrendoli alla fantasia dello spettatore. Come se ognuno dovesse costruirsi la propria trama e la propria storia, privilegiando ora questa ora quella situazione. Un’ipotesi di lavoro, questa, che il misterioso finale con Gianni Schicchi Gabrieli (un altro volto noto della filmografia bellocchiana, a metà tra l’amico di famiglia e l’attore) non fa che confermare e rilanciare.

il Riformista 16.3.11
Bellocchio-Bertolucci Sarà la mostra anti B?
Laguna. Müller vuole la coppia di cineasti per premio alla carriera e pre- sidenza della giuria. Ma i nomi dei maestri del cinema, considerati icone aSnti-berlusconiane, non sono ancora stati ufficializzati. Garbo verso Bondi?
di Michele Anselmi

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Corriere della Sera 16.3.11
Professor Tremonti, ci ripensi (forse così può salvare la cultura)
di Ernesto Galli della Loggia


C onfesso di nutrire simpatia per il ministro Tremonti. In un Paese di «piacioni» e di politici falsamente alla mano, il suo atteggiamento sempre un po’ ironico, quando addirittura non sprezzante, la sua incontenibile propensione a infischiarsene del bon ton democratico, e viceversa a salire in cattedra (impartendo lezioni di solito tutt’altro che stupide), sono cose apprezzabili. Insomma, oltre che simpatia ho anche stima del professor Tremonti. Proprio per questo mi riesce difficile capire come sia possibile che una persona della sua qualità non si renda conto che il modo in cui sta sottraendo risorse alle attività e ai beni culturali porta virtualmente l’Italia alla rovina. Non è un’espressione esagerata, questa. Almeno quella parte antica o antichissima del Paese che ci viene dal nostro passato (gli edifici, il patrimonio delle biblioteche e dei musei, le aree archeologiche) sta infatti andando letteralmente a pezzi o precipitando in un’incuria che finirà ineluttabilmente per cancellarla. Così come si sta restringendo progressivamente la nostra possibilità di fare musica, teatro, cinema. Non si tratta di ambiti separati. Alla fine la cultura— vale a dire ciò che fa l’uomo più umano— è infatti una cosa sola. Tra gli Uffizi e Cinecittà, tra la Scala e un museo di strumenti musicali, tra la Biblioteca Marciana e il Teatro greco di Taormina, esiste una corrispondenza misteriosa, un dialogo segreto attraverso i secoli che, allacciatisi in queste contrade, hanno prodotto risultati ineguagliati. E che noi, italiani di questa generazione, dobbiamo sentire la responsabilità di non interrompere. Invece— come ha detto Andrea Carandini annunciando l’altro ieri le sue dimissioni dalla presidenza del Consiglio superiore dei Beni culturali— «una parte del Paese sta affondando se stessa» . Sono sicuro che Giulio Tremonti tutte queste cose le sa bene. Ed è la ragione che mi spinge a vincere quel timore di apparire patetico da cui si è irresistibilmente presi quando si parla di certe cose ad un politico italiano. «Sai che ci capisce e che gliene importa» , uno pensa subito. Invece credo che Tremonti capisca, e che in un modo e in una misura che non conosco gliene importi anche. Ma i numeri sono contro di lui: a cominciare dagli ulteriori 77 milioni (27 allo spettacolo, 50 a tutto il resto) tolti negli ultimi giorni alla dotazione del ministero dei Beni culturali. Cifre inquietanti a cui ne aggiungo solo pochissime altre, rimandando al libro dei nostri Stella e Rizzo, Vandali, chi volesse avere un panorama più completo e agghiacciante del disastro. Basti dire, dunque, che i fondi attualmente a disposizione del suddetto ministero ammontano appena allo 0,21 per cento dell’intero bilancio dello Stato (erano lo 0,34 solo pochi anni fa). Per la tutela dell’intero patrimonio storico-archeologico-artistico il nostro Paese stanzia la cifra ridicola di 50 milioni di euro (il Louvre da solo ne impegna 227!). Siamo arrivati al punto che sempre a scopo di tutela l’amministrazione italiana è ridotta a impiegare un archeologo ogni 34 kmq di terreno archeologico (per i circa 50 ettari di Pompei c’è un solo archeologo), e uno storico dell’arte o un architetto ogni 57 edifici tutelati. In complesso, a causa del mancato rimpiazzo, l’amministrazione dei Beni culturali vede oramai il proprio personale tecnico, amministrativo e di sorveglianza diminuire ogni anno di circa 800 unità. Chiedo a Tremonti: dobbiamo proprio rassegnarci a questa situazione? Come italiano, lui si rassegna? Gli pare ammissibile? Glielo chiedo in tutta sincerità, non retoricamente. E glielo chiedo immaginando bene, tra l’altro, tutte le ragioni di fastidio o addirittura di cordiale antipatia che uno come lui può nutrire per il mondo che gravita intorno alla cultura: è perlopiù, infatti, un mondo popolato di gente quasi tutta di sinistra — spesso, per giunta, di quella più conformista, ipocrita e doppiopesista che ci sia; è un mondo abituato a spendere infischiandosene disinvoltamente della risposta del pubblico e della tenuta dei conti; è un mondo, infine, pervaso da un bieco corporativismo sindacale. Tutto vero (almeno in parte. E almeno secondo me). Ma proprio per questo mi viene da dire: gli faccia un dispetto, professor Tremonti, a questo mondo. Gli faccia vedere che anche il ministro di un governo di destra può avere a cuore le sorti del cinema, dei musei, delle biblioteche. Cerchi di fare qualcosa. Dopotutto, le assicuro, ci sono anche gli italiani non di sinistra, i quali proprio tutti analfabeti non sono. E poi alla fine, se proprio non bastasse, c’è l’Italia: il cui interesse, se ben ricordo, lei dovrebbe aver giurato di difendere.

il Fatto 16.3.11
Nella terra di papi non c’è posto per papà
Nel libro “Cosa resta del padre?” Massimo Recalcati racconta la scomparsa di colui che sa unire. E non opporre la legge al desiderio
di Elisabetta Ambrosi


Da “Padre” a “papi”. Questo semplice passaggio lessicale (provate a pronunciare le due parole a voce alta notando la differenza di solennità nel suono) racconta un cambiamento epocale. Quello che va “dal regime edipico della democrazia al sultanato post-ideologico di tipo perverso”, nelle parole di Massimo Recalcati. Nel nuovo libro Cosa resta del padre? la paternità nell’epoca ipermoderna, lo psicoanalista lacaniano utilizza con originalità categorie analitiche per leggere la società. E sostiene che la vicenda delle papi-girls riassume in forma pura i valori oggi imperanti: “Il denaro elargito come puro atto arbitrario, l’illusione che si possa raggiungere l’affermazione di sé senza rinuncia, l’enfatizzazione feticistica dei corpi femminili, l’opposizione ostentata nei confronti della Legge, il rifiuto di ogni limite e l’assenza di pudore”.
UNA TESI che nulla ha a che fare con la condanna moralistica. In realtà questo insieme di comportamenti produce in chi li pratica, a partire da Berlusconi, sicura angoscia e infelicità. Come guarire? La strada suggerita da Recalcati per tornare a desiderare sembra una cattiva notizia per il premier: la castrazione. Ma solo simbolica, ovviamente: nel senso della presenza di qualcuno che ponga confini e divieti alla possibilità di godere di tutto. In breve, papi, per essere felice, avrebbe bisogno di un Padre. Quel ruolo che non è riuscito pubblicamente ad incarnare, il Padre della nazione, rivestendo al massimo quello dello zio ricco e scapestrato che diseduca i figli altrui. Attenzione, però: secondo Recalcati Berlusconi rappresenta l’espressione più spudorata di una sceneggiatura che riguarda soprattutto noi, sul piano privato e pubblico. E che sarebbe bene rileggere con cura, perché scorrendola con attenzione noteremo che la scomparsa di uno dei principali protagonisti del passato, il Padre (e insieme a lui la Legge), – ucciso dai colpi inferti sia dalla sua estremizzazione mostruosa durante il nazifascismo, che lo ha reso una caricatura inutilizzabile, sia dalle grida studentesche del ’68 – è una sciagura.
I MOTIVI sono due: il primo è che la Legge, posta dal Padre, non costituisce una minaccia del desiderio, anzi ne rappresenta la condizione. Una tesi davvero fuori moda e pure un po’ ardita per chi, da psicoanalista, dovrebbe curare le ferite di precoci e insensati divieti. Eppure, come ormai gran parte della teoria clinica va dicendo, oggi gli individui (cittadini e pazienti), sono cambiati e i sintomi che causano loro sofferenza non sono più quelli che affliggevano l’austera borghesia viennese. Al contrario, le psicopatologie sono sempre più l’effetto della scomparsa di qualsiasi divieto, che autorizza al godimento artistico e seriale e conduce all’infelicità. Anche qui, il moralismo non c’entra nulla. Provate a immaginare visivamente, sembra suggerire l’autore, una terra senza alcun confine, senza alberi, fiumi, montagne, sentieri che conducono da un punto all’altro. Il risultato sarà uno smarrimento mortale, lo stesso che produce il consumismo: una “fede nell’oggetto come rimedio al dolore di esistere”, che invece ci restituisce quel dolore nella sua forma più acuta. Il secondo motivo per cui la scomparsa del Padre è un male è perché il Padre è colui che dovrebbe trasmettere al figlio la più preziosa delle eredità: la capacità di desiderare. Per spiegare in che modo possa riuscire nel compito, occorre rapidamente addentrarsi nella mitologia psicoanalitica: il Padre ha la funzione di proibire ciò che l’Edipo di Sofocle realizza, l’incesto con la Madre.
TRADOTTO per tutti, genitori e non: la sua funzione dovrebbe essere quella di aiutare il figlio alla dolorosa separazione dal paradiso terrestre rappresentato dalla fusione “emblema di un godimento assoluto e senza mancanze” che si realizza nella pancia e poi durante l’allattamento. “Non puoi ritornare da dove sei venuto!”, deve ricordare il Padre. Se questa operazione viene a mancare, perché la madre vuole anch’essa restare fusa con il figlio quest’ultimo sarà incapace di desiderare. Il desiderio comporta separazione, esodo, erranza e insieme l’esperienza che non tutto è a portata di mano, che l’oggetto del nostro amore sfugge al possesso.
Il Padre, dunque, è colui che sa unire e non opporre, la Legge al desiderio, ammansendo sia Kant che Sade. E proponendo una nuova alleanza tra i due, che impedisca sia che il desiderio degeneri “nell’inconsistenza dissipativa del godimento”, sia che si restauri “l’ordine della morale repressiva e patriarcale”. Certo, la parola del Padre inizialmente è un trauma, ma un trauma benefico, comunque necessario, perché oltre che condizione del desiderio, il divieto ci consente di accedere alla dimensione sociale, dove incestuosità, violenza, tracotanza sono vietati. Pena l’impossibilità a convivere.
Come può oggi il Padre trasmettere il desiderio? Per Recalcati oggi non resta che una possibilità, quella che finalmente ci autorizza a parlare di padre con la “p” minuscola: unicamente attraverso la propria testimonianza di vita, che non può avere valore universale né ideale, ma solo singolare. Non il Padre, ma i tanti padri. Che non sono necessariamente quelli biologici, ricorda lo psicoanalista contro ogni possibile uso ideologico della sua teoria. Chiunque infatti può essere padre (biologico e non, ma persino maschio o femmina ), a patto che sappia svolgere la funzione di cui la nostra società ha un bisogno disperato: interdire il desiderio, ponendo i confini; incarnare il desiderio nella propria esistenza; infine gestire con sapienza il conflitto che questo ruolo inevitabilmente comporta.

La Stampa TuttoScienze 16.3.11
Misteri
Ecco l’altro Tutankhamen E’ il “faraone d’argento”
“Nella sua tomba inviolata i segreti dell’Età oscura dell’Egitto”
Un grande re del Nilo
di Gabriele Beccaria


IL TEAM DI ARCHEOLOGI «Nonostante una grave malattia, governò per quasi mezzo secolo»

Momento sbagliato e pubbliche relazioni catastrofiche. E così nessuno ha mai sentito nominare Pierre Montet, mentre tutti hanno orecchiato almeno una volta l’avventura dell’irrequieta coppia Lord Carnavon-Howard Carter, e il faraone d’argento è stato eclissato dal faraone d’oro: 70 anni di oblio, che solo adesso cominciano a sgretolarsi: al Cairo c’è chi prepara una resurrezione e una serie di rivelazioni.
Quando l’archeologo francese penetrò nella tomba intatta di Psusennes I, a Tanis, nel delta del Nilo, era il 1940: la Seconda guerra mondiale stava travolgendo l’Europa e la notizia sensazionale di una scoperta pari solo a quella di Tutankhamen, che aveva tenuto con il fiato sospeso mezzo mondo nel 1922, precipitò in poche «brevi» di giornale. C’erano altre questioni a cui pensare e Montet raccolse in fretta e furia un tesoro di argento e lapislazzuli, lo portò al museo del Cairo e ritornò tristemente in patria. Le sue casse si richiusero sui reperti di una storia straordinaria appena riportata alla luce - come nel celebre finale di «Indiana Jones e l’Arca dell’Alleanza» - e sarebbero rimaste sigillate in un sotterraneo per decenni. Se è mai esistita una maledizione di Tutankhamen, questa dev’essersi abbattuta sul suo «collega» della XXI dinastia, un lontano successore di tre secoli più tardi: il faraone ragazzino sembra non aver tollerato l’idea di dividere la celebrità postuma e il record di unico signore dell’Egitto scampato alle razzie dei ladri.
Ancora oggi la sua maschera d’oro e il corredo funebre di statue e gioielli monopolizzano lo stupore dei turisti, mentre Psusennes I rimane relegato in una sala secondaria, come un alter ego a cui tutto sia andato storto: una tomba modesta invece di una attentamente scolpita e affrescata, al posto del sarcofago d’oro uno d’argento, niente mummia, ma solo lo scheletro e al posto degli «ushabti», le effigi in miniatura capaci di dare una mano nell’Aldilà, mucchi ormai scomposti di pietre preziose e metalli. Colpa delle offese inferte dal clima umido, opposto a quello secco che ha preservato le meraviglie della Valle dei Re, ed effetto di un’epoca ancora più turbolenta di quella in cui visse brevemente Tutankhamen, nota tra gli storici come «L’età oscura», segnata da una guerra civile che spaccò l’Egitto, segnato dalla rivalità tra sovrani e sacerdoti.
Ora, però, i misteri del vecchio re - il cui nome originale, Pasibkhanu, significava «La stella che appare nella città» - stanno finalmente svelandosi, come se il maleficio del rivale si fosse incrinato. La sua stella torna a lanciare un baluginio e il merito è di un gruppo di ricercatori - Salima Ikram, Fawzy Gaballah e Peter Lacovara - che ha ripreso in mano il «dossier» che si credeva perduto: studiando le ossa, analizzando le iscrizioni e i cartigli custoditi nella tomba e rimettendo insieme tante testimonianze sparse, hanno fatto una serie di scoperte (di sicuro non ancora finite). Psusennes era un tipo ben piantato a piuttosto alto per l’epoca, 1 metro e 66: per quanto piagato da una malattia reumatica e da una progressiva ossificazione dei legamenti, riuscì a sopravvivere anche al trauma della frattura della settima vertebra e, salito al trono nel 1047 prima di Cristo, regnò per un periodo che dev’essere apparso a lui e ai sudditi interminabile: 46 anni. Morì ottantenne, sebbene quasi completamente sdentato, quando la vita media non superava i 35 anni.
Non solo lungo, ma segnato da continui colpi di scena. Psusennes, oltre a combattere i nemici del Sud, a Tebe, si scatenò contro le forze della natura. Di fronte al declino della città diPi-Ramesse, realizzata un paio di secoli prima da una celebrità, Ramses II, e nell’XI secolo a.C. preda dell’insabbiamento di un ramo del Nilo, ordinò il trasferimento dei templi e dei palazzi a Tanis, in un’area più ospitale del Delta. Ancora più impegnativo fu contrastare i semi della rivolta che proprio il potente predecessore aveva seminato: alternando forza militare e reti di alleanze in stile tribale, fece sposare una figlia al sommo sacerdote di Karnak (che era il fratello del faraone stesso!) e a farsi attribuire il titolo di «Gran Sacerdote di Amon-Ra».
Grazie alla pace, o all’armistizio, Psusennes I rimpinguò le casse statali e potè dedicarsi al compito più importante: una sepoltura adeguata per il viaggio nell’aldilà. Raccolse grandi quantità di oro, pietre e lapislazzuli (fatti arrivare dall’attuale Afghanistan) e si fece preparare un sarcofago-capolavoro, ma di argento massiccio e non d’oro, com’era tradizione. Perché? Ecco la risposta degli studiosi: vista la difficoltà di lavorazione, voleva dimostrare agli dei il suo potere tentacolare su uomini e cose. Oggi sappiamo che la missione è stata compiuta e il biglietto per l’immortalità conquistato.

Le nuove ricerche Dopo la clamorosa scoperta nel 1940, i reperti di Psusennes I sono stati dimenticati per 70 anni

La Stampa 16.3.11
BHL, la prevalenza del philosophe
Dal gossip alla politica estera, in Francia ovunque ti giri c’è Bernard-Henri Lévy. E ora approda anche al cinema
di Alberto Mattioli


Potere al pensiero. Come se fossimo ancora nel Settecento degli enciclopedisti, la Francia continua a idolatrare i suoi «philosophes», continuamente sollecitati da televisioni, giornali e riviste per opinioni prêt-à-penser su qualsiasi ramo dello scibile, dall’ultima teoria ermeneutica al nuovo reality show, dalla cultura alla cottura di un soufflé. Del resto, qui il Philosophie magazine vende come non venderebbe in nessun’altra parte del mondo: 50 mila copie al mese.
Ma il re dei «philosophes», il «philosophe» più «philosophe» di tutti, il «philosophe» al quadrato resta lui, anzi Lui: Bernard-Henri Lévy, per tutti BHL. È ovunque. Come ti giri, c’è. Deborda dalle pagine dei giornali seri, specie Le Point , dove la sua rubrica è la preghiera laica dei devoti «bhliani». Tracima in quelle dei settimanali gossippari, ghiotti della sua movimentata vita privata. E adesso approda anche al cinema, dove avrà i tratti spiegazzati di Bob Geldof, la popstar benefica che un po’ lo ricorda ma non può certo competere con la filosofica eleganza con la quale il pensatore ottimo massimo porta i suoi capelli brizzolati e le sue celebri camicie bianche, imitatissime benché inimitabili.
Il film nasce dal terzo romanzo, assai autobiografico, della figlia di BHL, la scrittrice Justine Lévy. In Mauvaise fille (Figlia cattiva), Justine parla del padre, riconoscibilissimo sotto l’identità fittizia della popstar George, e della lunga agonia della madre, la modella Isabelle Doutreluigne, prima moglie di BHL, che nel film sarà Carole Bouquet: primo ciak il 4 aprile a Parigi. Doveva diventare un film, ma poi non se n’è fatto niente, anche il precedente libro di Justine, il bestseller Rien de grave (Niente di grave), nel quale la figlia di BHL raccontava il suo difficile rapporto con il primo marito, il filosofo Raphaël Enthoven, che non voleva figli e la convinse ad abortire. Il matrimonio finì quando Raphaël scappò con Carla Bruni non ancora Sarkozy, all’epoca fidanzata del padre di lui, Jean-Paul Enthoven, a sua volta miglior amico di BHL. Enthoven junior ebbe poi con Carlà quel figlio, Aurélien, che non aveva voluto dalla moglie. Da qui i commenti piuttosto piccati della Lévy sulla Bruni, che in Rien de grave viene definita «Terminator».
Anche il padre, nonostante i 62 anni che ovviamente porta benissimo, non accenna a calmarsi. BHL ha infatti appena messo fine al suo terzo matrimonio, con l’attrice Arielle Dombasle, che ha lasciato per la nuova musa Daphne Guinness, ereditiera dell’omonima birra ed eroina dei due mondi (furoreggia tanto nei salotti di Parigi quanto in quelli di New York), formando così una nuova coppia dal glamour quasi insostenibile. 1991-2000 2001-08
Liquidata la crisi matrimoniale, il sua figlia) e a convincerlo a riconosceNostro si è subito tuffato in quella li- re gli insorti anti-Gheddafi come lebica, dove sta giocando uno strano gittimi rappresentanti del popolo libiruolo di ministro degli Esteri ombra, co. Cosa che Sarkò ha fatto spiazzaninedito per la Francia dove lo Stato è do completamente il ministro degli ancora una cosa seria. A Bengasi per Esteri vero Alain Juppé che ha appreun reportage, è stato lui a telefonare so la notizia dalle agenzie e, ovviaa Sarkozy (cioè l’attuale marito della mente, non ha gradito. Tanto più che donna con la quale scappò quello di i partner della Francia a tutti i livelli (Ue, Nato e Onu) si sono ben guardati dal seguirne l’esempio.
Poco male: un giorno sì e l’altro pure, preso da furore interventista (sembra D’Annunzio nel maggio radioso), BHL inveisce contro Gheddafi chiedendo embarghi e bombardamenti. Ieri, parlando in un inglese molto personale (i francesi detestano che si maltratti la loro lingua, ma massacrano tranquillamente quelle altrui), si è fatto intervistare da Al Jazeera sull’inevitabile sfondo della Torre Eiffel. E, vantando l’azione di BHL per interposta Francia, gli è scappata un’espressione molto lontana dal suo consueto linguaggio fiorito: «D’ora in avanti per i governi europei sarà molto difficile fare dei “blow-jobs” ai dittatori arabi» (serve tradurre? Beh, allora diciamo che «blow-job» significa «fellatio»). Inutile dire che l’esilarante sequenza è subito diventata una delle più cliccate del web. E così adesso BHL dilaga anche su Internet.

Corriere della Sera 16.3.11
Opponetevi ai tiranni L’appello coerente di Benjamin Constant
Quarant’anni in difesa della libertà
di Mauro Barberis


C’era una volta il liberalismo «puro» , la sua Bibbia era La libertà degli antichi comparata a quella dei moderni, e il suo profeta era Benjamin Constant. Da vecchio, Benjamin aveva rivendicato di aver «difeso per quarant’anni lo stesso principio: libertà in tutto, in religione, filosofia, letteratura, economia, politica» ; e ancora all’inizio degli anni Ottanta Louis Girard poteva chiedere al sottoscritto: c’è ancora qualcosa da dire su Constant? Il giorno dopo iniziavo la lettura dei manoscritti repubblicani conservati alla Bibliothèque Nazionale di Parigi, riscoperti mezzo secolo fa e dai quali è tratta anche la famosa conferenza del 1819: ma bastarono poche ore per accorgersi di quanto ancora ci fosse da dire. Quando pronuncia la conferenza, nel febbraio 1819, in piena campagna elettorale per le elezioni politiche di marzo che lo avrebbero portato alla Camera, Constant aveva già un grande avvenire dietro le spalle. Era ancora il protestante svizzero che all’indomani del Terrore aveva scelto di stabilirsi nella Francia rivoluzionaria, di difendere la fragile repubblica direttoriale e di combattere il regime napoleonico, pagando con l’esilio; ed era già una delle teste pensanti dell’opposizione ai Borboni restaurati. Detto altrimenti, 25 anni di sconfitte e di vorticoso cambiamento dei regimi politici non gli avevano fatto cambiare idea: i suoi avversari erano sempre gli ultras monarchici e i notabili opportunisti. Lui stesso, del resto, non era affatto un estremista; benché da posizioni di minoranza, si era sempre rivolto al pubblico moderato e non aveva mai disperato della ragione. La stessa conferenza, del resto, si sviluppa in tre mosse quasi obbligate, per chi conosca l’autore e il contesto. Prima mossa: in piena Restaurazione, l’oratore rende omaggio alla «nostra felice Rivoluzione» ; la Rivoluzione francese, naturalmente, e quale se no? Seconda mossa: il conferenziere esalta la libertà dei moderni, o civile, che Isaiah Berlin, oltre un secolo dopo, chiamerà negativa. È la libertà liberale, distinta tanto dalla libertà costituzionale, à la Montesquieu, quanto dalla libertà «positiva» o democratica, à la Tocqueville. Del resto, ne aveva già parlato il maestro politico di Constant, il rivoluzionario Sieyès: presso i moderni, che popolano nazioni estese e praticano il commercio, la democrazia diretta è destinata a essere sostituita dalla democrazia rappresentativa, e gli individui a essere difesi dal cerchio magico dei diritti. Ma la sorpresa, per chi crede nel luogo comune del liberalismo puro, viene dopo, nella terza mossa, come si legge nella bella traduzione di Giovanni Paoletti: «La libertà individuale, lo ripeto, ecco la vera libertà moderna. La libertà politica ne è la garanzia; la libertà politica è di conseguenza indispensabile» . Di qui in poi, si trova solo l’esaltazione della libertà politica, «il mezzo più possente e il più energico di perfezionamento che il cielo ci abbia dato» ; soprattutto, di qui in avanti l’unico pericolo denunciato non sono più i vecchi spauracchi giacobino e monarchico, ma un nuovo dispotismo fatto di «pregiudizi per spaventare gli uomini, egoismo per corromperli, frivolezze per stordirli, rozzi piaceri per degradarli» : rispetto a oggi, manca solo la televisione. Liberalismo puro? Ma già don Benedetto (Croce)— senza aver potuto leggere né gli inediti, né i cinquanta volumi delle Oeuvres complètes in corso di pubblicazione presso l’editore tedesco Niemeyer— aveva capito benissimo dove la conferenza volesse condurre l’audience dell’epoca: non chiudetevi in casa, andate a votare contro il governo. La stessa lettura è poi divenuta non maggioritaria, ma pacifica dopo la pubblicazione degli inediti: basta leggersi i libri di Étienne Hofmann, Stephen Holmes, Lucien Jaume, Tzvetan Todorov nonché, in Italia, di Paoletti e del sottoscritto. Se si può trarre una morale da questa storia è che il liberalismo non è mai stato puro: si è sempre messo dalla parte degli individui e delle minoranze, contro qualsiasi potere. Come ha scritto Gaetano Salvemini: «Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti» .

Corriere della Sera 16.3.11
L’inquieto Orwell interroga ancora oggi il cinismo della storia
Una critica spietata del conformismo
di Sandro Modeo


A un primo impatto, molti degli scritti non narrativi di George Orwell (Nel ventre della balena e altri saggi, in edicola sabato con il «Corriere» ) sembrano dominati da una tonalità sgradevole, come se il loro scopo fosse di scardinare l’assetto, più o meno risolto, della nostra quotidianità: di mettere in discussione l’auto-indulgenza con cui siamo arrivati a una difficile mediazione con la vita. Ci chiediamo: a chi appartiene la voce insinuante di quegli scritti? A un moralista? O, al contrario, a uno scettico amorale? A uno psicoanalista che fruga non richiesto nelle nostre rimozioni? Poi, senza poter smettere la lettura, sentiamo quella sgradevolezza trasformarsi via via in un’occasione: nella possibilità di riesaminare le nostre illusioni e disillusioni, di «misurare» fino in fondo le ragioni della nostra speranza e del nostro cinismo. Il versante immediato di questo invito è politico. Da un lato, in coerenza sia con la sua narrativa (La fattoria degli animali e 1984, trasfigurazioni distopiche della dittatura sovietica), sia col suo memorabile reportage di guerra (l’Omaggio alla Catalogna, in cui denuncia, pur avendo combattuto coi repubblicani, le colpe degli stalinisti spagnoli), Orwell imputa alla sinistra europea di aver voluto essere, fin dal 1933, «antifascista senza essere antitotalitaria» . Dall’altro, in coerenza col suo credo tra liberale e social-democratico, attacca i cantori acritici del capitalismo: «Tra i motivi di fondo di Marx potevano ben esserci stati l’invidia e il disprezzo, ma ciò non prova che le sue ragioni fossero errate» . Allo sbocco di questo doppio disincanto (senza mai cedere al fatalismo, a un realismo che coincida con la resa), Orwell vede così come obiettivo del disegno socialista «non tanto quello di rendere il mondo perfetto, ma solo di migliorarlo» . La patologia politica di una società, però, per lui non è separabile da quella culturale. In particolare, tratteggia un sarcastico quadro «etologico» della società letteraria inglese, facilmente esportabile e di lunga veduta, specie se si pensa che molti di questi saggi risalgono ai secondi anni Quaranta, cioè a poco prima che Orwell morisse (di tubercolosi) a soli 46 anni. Presagendo una crisi della letteratura e del romanzo tra i nuovi media, Orwell toglie a ogni «attore» della scena il suo alibi prediletto: ai lettori quello del costo dei libri, esortandoli ad ammettere che la lettura è svago «meno eccitante» del cinema o del pub; ai critici quello di avere «moglie e figli» , esigenza che non giustifica l’emissione di «complimenti stucchevoli» a tanti libri mediocri, complimenti che hanno «lo stesso valore del sorriso di una prostituta» ; e ai politici, ai professori e ai giornalisti quello di un confortante conformismo, che li porta a usare una corriva vaghezza stilistica— gergo, enfasi, similitudini logore— «come fa la seppia col suo inchiostro» . Quanto agli scrittori, più che gli avvertimenti diretti (l’ironia sulle prime «scuole di letteratura» ), la vera lezione arriva dallo spietato auto-scavo (Perché scrivo) in cui Orwell vede la scrittura come una «dolorosa malattia» : una lotta inesauribile tra le ragioni dell’impegno civile e quelle dell’estetica, tra il desiderio di «cambiare l’idea altrui» e la soggezione al «piacere dell’impatto di un suono con un altro» , tra l’espressività e la precisione. Come si possa arrivare alla «quadratura» di una simile tensione lo mostra proprio questa raccolta, in cui troviamo complessi chiaroscuri critici (da Swift a Henry Miller), inaspettati abbandoni autobiografici (Giorni felici, penetrazione nel mondo «subacqueo» dell’infanzia) e un lotto di sconvolgenti racconti giovanili. Niente di più adeguato, come congedo, dell’Elogio del rospo, dello schiudersi dei suoi occhi dorati dopo il letargo. In realtà, è un elogio della primavera, descritta nel suo preannunciarsi per minimi rintocchi naturalistici («un azzurro più intenso tra due comignoli» ) come fossero un dono fantastico e inaspettato delle cadenze cosmiche; tanto più inaspettato dopo inverni particolarmente duri e prolungati. Più che una metafora, è un’apertura: l’invito a non rimuovere, insieme all’utopia, anche lo slancio della speranza, o almeno quello della possibilità.

il Fatto 16.3.11
Il nuovo portale Treccani.it 
Online 60 anni di sapere
di Federico Mello


L’aveva già detto in altre occasioni, Giuliano Amato, presidente dell’Istituto Treccani: “Se Diderot vivesse oggi farebbe l’enciclopedia su Internet”. Non sappiamo se l’illuminista padre dell’enciclopedia sarebbe andato online nel-l’epoca di Wikipedia. Ma di certo oggi, a digitalizzare il sapere, ci sta provando seriamente l’Istituto Treccani che non a caso ha scelto la vigilia dell’anniversario dell’Unità per lanciare il suo nuovo por-tale Treccani.it  , completamente ripensato e ridisegnato, online da ieri. Realizzato in collaborazione con Banzai Consulting, promette di essere una manna per studenti, cittadini, navigatori e studiosi affamati di cultura e conoscenza. A fare la differenza, innanzitutto, è il motore di ricerca interno, un motore semantico che ordina i risultati in base alla rilevanza dei risultati (un po’ come fa Google). Grande attenzione anche alle singole voci che hanno una nuova (e più chiara) formattazione e link interni. Dalla home page, si può cercare un lemma nell’enciclopedia (sono in tutto 150 mila), nel vocabolario (tra 127 mila voci) o nel dizionario biografico (sono 25 mila le biografie). Ma ci sono anche percorsi di navigazione arricchiti da foto e citazioni, e valorizzati da “tag” che raggruppano per argomenti le varie voci. Il sito, infine, contiene una sezione community per gli utenti, una sezione scuola, una web-tv, e una rassegna stampa quotidiana con gli articoli più significativi nel campo dell’arte, della cultura e dell’editoria. Tutto è gratis. E tutto è così bello da non sembrare vero. “Come sosterrete il sito?” hanno chiesto ieri i giornalisti in conferenza stampa. “In futuro potremmo implementare dei servizi a pagamento” ha risposto l’amministratore delegato Franco Tatò. In prospettiva, appare molto dispendiosa la mole di lavoro necessaria a mantenere su alti livelli un portale del genere. Ci si penserà in futuro (come succede sempre sul web). Ora gli inter-nauti tutti possono godersi questa sorella maggiore di Wikipedia e i 60 anni di sapere che porta online.

Corriere della Sera 16.3.11
Svolta della Treccani: tutta in Rete e gratis
Amato: oggi lo farebbe anche Diderot, vogliamo diffondere ancora più cultura
di  Paolo Conti


ROMA — Per il 150 ° anniversario dell’Unità d’Italia l’Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani investe sulle nuove generazioni e presenta www. treccani. it, l’ «Enciclopedia degli italiani» , secondo la definizione dell’amministratore delegato Franco Tatò, interamente online. Non un semplice restyling del vecchio Portale ma una vera e propria rifondazione con uno storico e coraggioso passaggio dell’Enciclopedia Italiana in rete e gratuita: 150.000 lemmi, 127.000 voci del vocabolario, 25.000 biografie contenute nel Dizionario biografico degli italiani, monumentale opera che impegna da anni l’Istituto e a lungo ancora lo impegnerà. Tutto liberamente consultabile. Annuncia il presidente dell’Istituto, Giuliano Amato: «La nostra è una sfida che ci consente di diffondere ancora più cultura di quanto abbiamo fatto fino a oggi, un vero e proprio servizio a un numero sempre più vasto di utenti. Credo che se oggi un Diderot decidesse di creare la prima enciclopedia lo farebbe su Rete. La Treccani ha segnato la storia d’Italia per buona parte dei 150 anni che celebriamo. Ora entra nei 150 anni futuri e si rivolge alle generazioni che ne saranno protagoniste con l’immutata qualità del suo lavoro culturale» . Di fatto il sito (partner tecnologico e web è «Banzai Consulting» con «Liquida» e «Label formazione» ) si propone come un motore di ricerca di alto profilo culturale, inevitabilmente alternativo a quelli più utilizzati, il primo tra i quali è Wikipedia. Tatò nega ogni rivalità: «Non c’è alcun duello, noi stessi ospitiamo voci di Wikipedia laddove non arriviamo perché non possiamo proporre proprio "tutto"» . L’operazione ha richiesto tre anni di lavoro e un investimento di due milioni di euro. La vera novità sta nel sistema di consultazione che, sottolinea il direttore editoriale dell’Enciclopedia Massimo Bray, è insieme statistico e semantico: «Quello semantico usa la base-dati della lingua italiana Treccani e quindi offre risposte molto più pertinenti di un motore localizzato da una lingua straniera. Non aggrega solo per frequenza d’uso delle parole, e facendo quindi emergere i significati più utilizzati, ma presta attenzione al valore intrinseco della risposta, alla sua validità scientifica » . All’Enciclopedia assicurano che verrà garantito una sorta di «presidio della qualità» per preservare il marchio nonostante la gran mole di dati online. Altra novità sarà la web tv che permetterà agli utenti di formulare quesiti articolati in varie discipline e di ottenere una risposta articolata, qualche giorno dopo, con un intervento di un esperto. La navigazione sul Portale Treccani offrirà percorsi arricchiti da foto, citazioni, immagini e rinvii a voci collegate. Quindi continui suggerimenti operativi per possibili approfondimenti. Chiarisce Amato: «Ci saranno ancora opere che punteranno sulla carta, soprattutto quelle relative all’arte e specificatamente quelle di pregio. Proseguirà naturalmente il lavoro enciclopedico. Ma si possono e si devono raggiungere sempre più utenti, e questo sarà possibile solo online. In conclusione si procederà su un doppio binario, come già avviene col Dizionario biografico, i cui prodotti vengono messi subito in Rete appena pronti e poi pubblicati con il metodo tradizionale, seguendo il criterio alfabetico» .

L’Osservatore Romano 16.3.11
La spiritualità degli angeli e l'associazione Opus Sanctorum Angelorum
Quelli che vedono la faccia del Padre


Con data 2 ottobre 2010, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha inviato ai presidenti delle Conferenze episcopali una lettera circolare sull'associazione Opus Angelorum, lettera poi pubblicata ne "L'Osservatore Romano" del 5 novembre 2010, a pagina 5. In questa lettera, la Congregazione informa, in particolare, sull'approvazione dello Statuto dell'Opus Sanctorum Angelorum da parte della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica e sull'approvazione della "formula di una consacrazione ai SS. Angeli per l'Opus Angelorum" da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede. Sembra pertanto opportuno illustrare brevemente la spiritualità di quest'Opera dei santi Angeli, la quale, così come si presenta oggi, è "un'associazione pubblica della Chiesa in conformità con la dottrina tradizionale e le direttive della Suprema Autorità, diffonde la devozione nei riguardi dei SS. Angeli tra i fedeli, esorta alla preghiera per i sacerdoti, promuove l'amore per Cristo nella Sua passione e l'unione ad essa" (Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede).
Qual è dunque la spiritualità di quest'associazione? E qual è stato il suo cammino fino allo stato attuale cui si riferisce la lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede? L'Opus Sanctorum Angelorum è nata a Innsbruck (Austria) nell'anno 1949. La signora Gabriele Bitterlich, sposa e madre di tre figli, è stata all'origine di questo movimento. Dall'anno 1949, ha sviluppato una coscienza personale sempre più chiara che il Signore Gesù Cristo voleva che i fedeli venerassero e invocassero di più i santi angeli e si aprissero al loro potente aiuto. Da autentica cristiana, però, sempre ha professato di sottomettersi in tutto all'autorità della Chiesa. In quegli anni, questa autorità era il vescovo di Innsbruck, monsignor Paulus Rusch, con il quale è rimasta sempre in contatto. A partire dall'anno 1961, l'Opus Angelorum si è esteso in diversi Paesi del mondo. Così, dall'anno 1977, è stata l'autorità suprema della Chiesa a esaminare le dottrine e pratiche particolari dell'Opus Angelorum.
Con l'approvazione del movimento, la Chiesa ha riconosciuto la fondamentale validità dell'intuizione fondatrice della signora Bitterlich, ma d'altra parte ha anche rilevato, nel considerevole insieme dei suoi scritti, diverse dottrine e, in particolare, "teorie... circa il mondo degli angeli, i loro nomi personali, i loro gruppi e funzioni", "estranee alla S. Scrittura e alla Tradizione", le quali "non possono servire da base alla spiritualità e all'attività di associazioni approvate dalla Chiesa" (cfr. decreto Litteris diei della Congregazione per la Dottrina della Fede, 6 giugno 1992). Poiché l'Opus Angelorum ha obbedito alla Chiesa abbandonando quelle dottrine e le loro conseguenze pratiche, essa si presenta oggi a pieno titolo come un movimento ecclesiale chiamato a collaborare, mediante il proprio carisma, alla missione evangelizzatrice e salvatrice della Chiesa.
La base della sua spiritualità è dunque la Parola di Dio, la quale si trova nella Sacra Scrittura e nella tradizione viva della Chiesa, che sono autenticamente interpretate dal magistero. Una sintesi della dottrina del magistero riguardo al mondo angelico si trova nel Catechismo della Chiesa Cattolica (Ccc, cfr. pp. 328-336, 350-352).
Vi si legge, in primo luogo, che "l'esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede" (Ccc, 328). "In tutto il loro essere, gli angeli sono servitori e messaggeri di Dio. Per il fatto che "vedono sempre la faccia del Padre... che è nei cieli" (Matteo 18,10 ), essi sono "potenti esecutori dei suoi comandi, pronti alla voce della sua parola" (Salmo 103, 20)" (Ccc 329); "sono creature personali e immortali" (Ccc 330).
Gesù Cristo non è solamente il centro degli uomini, ma anche degli angeli: "Cristo è il centro del mondo angelico. Essi sono "i suoi angeli"... Sono suoi perché creati per mezzo di lui e in vista di lui... Sono suoi ancor più perché li ha fatti messaggeri del suo disegno di salvezza" (Ccc 331). "Essi, fin dalla creazione e lungo tutta la storia della salvezza, annunciano da lontano o da vicino questa salvezza e servono la realizzazione del disegno salvifico di Dio" (Ccc 332). Perciò, questo servizio si riferisce allo stesso Verbo incarnato e al suo Corpo sulla terra, la Chiesa. "Dall'Incarnazione all'Ascensione, la vita del Verbo incarnato è circondata dall'adorazione e dal servizio degli angeli... Essi proteggono l'infanzia di Gesù, servono Gesù nel deserto, lo confortano durante l'agonia, quando egli avrebbe potuto da loro essere salvato dalla mano dei nemici come un tempo Israele. Sono ancora gli angeli che "evangelizzano" (Luca 2,10) annunziando la Buona Novella dell'Incarnazione e della Risurrezione di Cristo. Al ritorno di Cristo, che essi annunziano, saranno là, al servizio del suo giudizio" (Ccc 333).
"Allo stesso modo tutta la vita della Chiesa beneficia dell'aiuto misterioso e potente degli angeli" (Ccc 334). "Nella Liturgia, la Chiesa si unisce agli angeli per adorare il Dio tre volte santo; invoca la loro assistenza ..., e celebra la memoria di alcuni angeli in particolare (san Michele, san Gabriele, san Raffaele, gli angeli custodi)" (Ccc 335).
Così, "dal suo inizio fino all'ora della morte la vita umana è circondata dalla loro protezione e dalla loro intercessione. "Ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore, per condurlo alla vita"". Fin da quaggiù, la vita cristiana partecipa, nella fede, alla beata comunità degli angeli e degli uomini, uniti in Dio" (Ccc 336). Con ragione quindi la "Chiesa venera gli angeli che l'aiutano nel suo pellegrinaggio terreno" (Ccc 352).
La particolarità dell'associazione Opus Sanctorum Angelorum consiste nel fatto che i suoi membri portano la devozione ai santi angeli a quello sviluppo pieno che si manifesta e si rende concreto in una "consacrazione ai santi Angeli", in modo simile a quello verificatosi nella storia della Chiesa nei riguardi della devozione al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore immacolato della Madonna (consacrazione al Cuore del Signore Gesù e di sua Madre).
Attraverso la consacrazione all'angelo custode si entra nell'Opera dei santi Angeli. La consacrazione ai santi Angeli è fatta da quei membri che vogliono impegnarsi di più per i fini spirituali del movimento. Questa consacrazione è intesa come un'alleanza del fedele con i santi angeli, e cioè, come un atto cosciente ed esplicito di riconoscere e prendere sul serio la loro missione e posizione nell'economia della salvezza. Come molte spiritualità hanno le loro espressioni tipiche, ad esempio il Totus tuus" di Giovanni Paolo II, così la spiritualità della consacrazione ai santi Angeli nell'Opus Angelorum potrebbe caratterizzarsi con le parole "cum sanctis angelis", cioè, "con i santi angeli" oppure "in comunione con i santi angeli".
Infatti, nella fede e nella carità teologale è possibile una "convivenza" dei fedeli con i santi angeli come veri amici (cfr. san Tommaso, Summa Theologiae II-II, q. 25. a. 10; q. 23, a. 1, ad 1.) e così anche una intima collaborazione spirituale con loro per i fini del disegno salvifico di Dio nei confronti di tutte le creature (cfr. Efesini 1,9-10; Colossesi 1,15-20; Giovanni 12,32; 17,21-23; Apocalisse 10,7; 19,6-9), giacché da parte loro è garantita la cooperazione per tutte le nostre opere buone (cfr. Ccc 350: "Ad omnia bona nostra cooperantur angeli, gli angeli cooperano ad ogni nostro bene (san Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I, 114, 3, ad 3)".
Questa convivenza e collaborazione spirituale dei fedeli con i santi angeli, in cui consiste proprio, secondo lo Statuto summenzionato, la "natura" dell'Opus Angelorum, richiede ovviamente non solamente la fede e l'amore ai santi angeli - in primo luogo al proprio angelo custode - ma anche l'applicazione prudente dei criteri di "discernimento degli spiriti". Qui viene a proposito la seguente spiegazione che si trova nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (pagina 162: commento ad un dipinto di Jan Van Eyck, riprodotto alla pagina precedente): "Come nella visione della scala di Giacobbe - "gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa" (cfr. Genesi 28,12) - gli angeli sono dinamici e instancabili messaggeri, che collegano il cielo alla terra. Tra Dio e l'umanità non c'è silenzio e incomunicabilità, ma dialogo continuo, comunicazione incessante. E gli uomini, destinatari di questa comunicazione, devono affinare questo orecchio spirituale, per ascoltare e comprendere questa lingua angelica, che suggerisce parole buone, sentimenti santi, azioni misericordiose, comportamenti caritatevoli, relazioni edificanti".
L'Opus Angelorum si fonda sulla prontezza incondizionata di servire Dio con l'aiuto dei santi angeli e ha come finalità il rinnovamento della vita spirituale nella Chiesa con il loro aiuto nelle cosiddette "direzioni (o dimensioni) fondamentali" di adorazione, contemplazione, espiazione e missione (apostolato).
L'aiuto degli angeli e l'unione degli uomini con essi permettono a quest'ultimi di vivere meglio la fede e anche di testimoniarla con più forza e convinzione. I santi angeli, infatti, contemplano continuamente la faccia di Dio (cfr. Matteo 18, 10) e vivono in costante adorazione. In modo particolarmente efficace possono quindi illuminare i fedeli che si aprono coscientemente alla loro azione, i quali fedeli sono da loro aiutati a contemplare nella fede i divini misteri: Dio stesso e le sue opere (theologia e oikonomia, cfr. Ccc 236), a crescere così nella conoscenza e nell'amore di Dio, a rimanere alla Sua presenza e realizzare un'adorazione particolarmente reverente e amorevole, dedicandosi alla maggiore glorificazione di Dio. L'adorazione, specialmente l'adorazione eucaristica, occupa, quindi, nell'Opus Angelorum il primo posto.
Come lo stesso Signore Gesù Cristo è stato fortificato dal Padre celeste attraverso un angelo per sopportare la passione redentrice (cfr. Luca 22,43), così i membri dell'Opus Angelorum confidano sull'aiuto dei santi angeli per seguire Cristo con carità espiatrice per la santificazione e salvezza delle anime, e particolarmente per i sacerdoti. Perciò, c'è nell'Opus Angelorum anche il pio esercizio della Passio Domini, cioè un tempo di preghiera settimanale (giovedì sera e venerdì pomeriggio), in cui i membri si uniscono spiritualmente al Redentore nel mistero della sua passione salvifica. Cristo crocifisso e risorto è, infatti, il centro tanto degli uomini quanto dei santi angeli.
Con l'approvazione dell'Opus Sanctorum Angelorum, la Chiesa ha dato la benedizione a un movimento che si caratterizza, certo, per una devozione peculiare ai santi angeli, ma anche ed essenzialmente - in conformità con le proprietà caratteristiche degli angeli - per un orientamento assoluto verso Dio e il suo servizio, verso Cristo Redentore, la croce, l'Eucaristia, a gloria di Dio e per la santificazione e salvezza delle anime. Davvero, la coscienza viva della presenza e dell'aiuto misterioso e potente dei santi angeli, servi e messaggeri di Dio, è atta a spingere i fedeli a dedicarsi con fiducia alla prima e sostanziale missione della Chiesa: la salvezza delle anime a gloria di Dio.

martedì 15 marzo 2011

ARTICOLI STORICI:

Il Messaggero 9.11.1977
Un analista che rifiuta Freud
Intervista a Massimo Fagioli
di Fulvio Stinchelli


Quarantasei anni, faccia scavata e sguardo ardente dietro le lenti fumè un passato di rissoso eretico freudiano alle spalle, Massimo Fagioli è oggi lo psicoanalista italiano di gran lunga più seguito e ascoltato. Da due anni , nello spazio universitario concessogli dall’il- luminato pluralismo del professor Reda per l’intercessione del suo amico e collega Nicola Lalli, tiene seminari bisettimanali sempre più affollati. Terapia di gruppo? Psicodramma? L’autore di “Istinto di morte e conoscenza” respinge seccamente queste definizioni-etichetta che “lo soffocano”, dice, “senza appartenergli”. Mezzo scienziato e mezzo profeta, rinnega paternità, filosofie e ideo-logie: Freud? Un pasticcione. Lacan? Un altro che non ha capito niente. La psicoanalisi? Si, purché sia quella che passa per l’ “in-conscio marecalmo”, la “fantasia di sparizione” e l’ “istinto di annul-lamento”. Sono questi i tre cardini della “scoperta” su cui ruotano ossessivamente la dottrina e la “predicazione” di Fagioli. Lo incontriamo nel suo quieto studio di Via Nomentana, in una cornice rigorosamente freudiana: pochi libri , quadri anonimi, scrit toio modesto, poltrone comode e il sacro divanetto. Osserviamo. “Qual cosa di Herr Professor comunque rimane”. Risponde: “Restano le analisi individuali che continuo a fare, perché i seminari sono gratuiti, ma il mio vero campo d’azione è l’analisi collettiva, una cosa che Freud non ha mai fatto”. Prima di arrivare all’analisi collettiva, che è il successo del giorno, vogliamo soffermarci un attimo sul punto di partenza? “Per me tutto cominciò al liceo, quando, vivendo in ambiente medico, feci la prima osservazione: Le malattie psichiche distruggono più di quelle fisiche. Una gamba rotta o una broncopolmonite tro- vavano soluzione mentre i pazienti depressi venivano liquidati col manicomio. Decisi allora di fare medicina e specializzarmi in psichiatria. Dopo la laurea, la pratica presso l’ospedale psichia- trico di Venezia. Per un anno e mezzo mi attenni al ruolo e alle disposizioni: non dovevo far altro che girare la chiavetta e zac: elettroshock.. Allora mi chiesi: ma cosa sto facendo? Sto alla catena di montaggio? Avvito le teste? Me ne andai e cominciò un periodo duro per me. Prima Verona, dove mi cacciarono perché ero “rosso”, poi approdai a Padova, dove un minimo di ricerca si faceva. E lì mi venne la prima ispirazione. Dissi: l’istinto di morte è l’istinto di morte, d’accordo, ma questi, i malati, non muovono un dito. Dov’è tutta questa aggressività? Un esempio? Reparto agitati: trenta ricoverati, due infermieri. Mai accaduto un incidente. Allora, quest’istinto di morte non è distruzione. In-cominciai così a studiare questo istinto passando e andando sempre più a fondo nel rapporto con l’inconscio. Mi trasferii in Svizzera, dove ebbi modo di superare la sindrome del malato per vedere cosa ci fosse dietro. Nel ’64 feci la mia analisi personale, la svolta fondamentale”. C’è un episodio cui puoi legare questo del passaggio dalla psichiatria alla psicoanalisi? “Si, ed è connesso a un paziente il quale, un giorno, mi rimproverò di non averlo assistito in una de-terminata circostanza e di avergli, quindi, “fatto del male”. Ma se quel giorno, mi dissi, io ero in ospedale, come posso avergli fatto del male? Fu un’illumina-zione: è l’assenza che fa del male. Cos’è l’assenza? E’ una pulsione attiva di annullamento”. Qui spunta Lacan…. “No. Lacan dice che è una man-canza. La mia, ripeto, è pulsione attiva di annullamento. La si può verificare nel “Non visto” e nel gioco infantile del “Bubù settete”, dove il bambino appare e sparisce. Di qui mille passaggi, verifiche e confronti. Una storia lunga, che comincia, però, qui: dalla scoperta dell’annullamento”. Arrivando a questa scoperta e nel lavoro successivo, l’inse-gnamento di Freud l’ha tenuto presente? “L’ho rifiutato e lo rifiuto total-mente”.
Anche tu, però, in questa ricerca , pratichi “l’arte del sospetto”? “Ma nemmeno per idea. Il sospetto parte da una verità precostituita e accertata: Io mi metto in sospetto se temo che tu mi dia un pugno: La mia ricerca non ha condizionamenti di questo tipo”. E’ importante, secondo te, che Freud sia nato”? “Io, sulla nascita delle persone, evito di intervenire. Giusto che sia nato, lo sbaglio è che si è messo a fare lo psicoanalista. Se avesse fatto il medico generico sarebbe stato molto meglio. Diciamo le cose come stanno: esiste una bibliografia enorme, opera di predecessori di Freud, che sta a dimostrare che Freud non ha scoperto niente.
Se una certa società e una certa cultura lo idealizzano tanto ciò è dovuto al fatto che con Freud l’analisi non si fa e questa società ha paura che la gente faccia l’analisi, perché fare l’analisi sul serio significa vederci chiaro, rendersi conto dei “mucchi di sabbia” di tanta cultura, significa imparare a dire si no. E chi sa dire di no rimette tutto in discussione: affare scomodo. Freud, invece, è comodo perché finge di fare l’analisi. Infatti, non ha metodo, si limita a codificare la non-trasformazione umana. La sua è un’analisi interminabile, perché parte dal punto di vista che non c’è niente da fare e allora ricade nella vecchia psicoterapia di sostegno. Roba dei tempi di Ippocrate.
Non c’è trasformazione…..”. Invece, nella tua c’è, a quanto lasci capire. ma prima di te? “C’è Marx. Ecco uno che aveva intuito la psicoanalisi, parlando di trasformazione. Mi riferisco al giovane Marx, quello dei “Mano-scritti” e dell’ ”Ideologia tedesca”. Meno male che anche tu ha i un padre, ma veniamo ai tempi nostri: quando ti sei deciso a rompere con la Società di Psicoanalisi Italiana? “E’ una storia risaputa. Comunque, fu nel ’68. Sentii che i tempi erano matura per tirar fuori quel che avevo scoperto e già praticavo. Pubblicai il mio primo libro e fu l’innesco della reazione a catena che mi ha portato agli attuali seminari basati sull’analisi collettiva”. Anche qui c’entra Marx? “Eh, sì. Perché tutta quella gente raccolta intorno a me parla, rac-conta, domanda, ascolta e domanda ancora. E torna, puntualmente, sen-za che nessun le abbia fissato un appuntamento né un programma d’analisi.
Tutti insieme, senza pudori né resistenze. Indub-biamente, trovano quel che stavano cercando. Tutti insieme, collet-tivamente. Siamo dunque lontano dall’analisi individuale. Un po’ co-me la presa di coscienza nella fabbrica, Per me è la conferma di essere sulla via giusta. Io non uccido il paziente come fa l’analista dall’alto del suo ruolo e del suo diploma, nel chiuso dello studio. Io li affronto, lì, seduto in mezzo a a loro che sono centinaia, pronti a rimbeccarmi se dico stupidaggini. Perché la gente conosce l’analisi più di quanto comunemente si creda”. Qual’è la differenza tra analisi individuale e analisi collettiva? “ All’analisi individuale si presenta, quasi sempre, un uomo che sta molto male: è confuso, annullante, depresso. In quel caso deva fare quasi tutto l’analista, cogliendo il problema e cerando di risolverlo, direi a dispetto dello stesso ana-lizzando che vuol distruggere l’ana-lista. Questo, in un certo senso si verifica anche al seminario, ma lì la risposta è collettiva. A volte io non faccio che interpretare il sogno di uno per rispondere a quello di un altro. E’ la conferma che l’uomo è un essere sociale. Vedi che Marx torna sempre? Voglio dire che il problema della ragazza la cui madre le dà della puttana perché esce la sera è problema di migliaia di persone, non è il problema per-sonale di quella singola ragazza con quella madre. Questo è il mio la-voro, in poche parole. E allora si capisce perché tutto ciò rappresenta la distruzione di Freud”.

Il Giorno 20.1.1978
La psicoanalisi da privilegio per pochi ad attività terapeutica di gruppo
Freud non è più lusso
di Adele Cambria


I giovani della nuova sinistra, in rottura con la psichiatria tradizionale, si riuniscono sempre più numerosi a Roma intorno a un transfuga della Società Psicoanalitica Italiana, il professor Massimo Fagioli - L'analisi non si fa più individualmente, è una ricerca collettiva degli equilibri perduti - Terapia scientifica o psicodramma? - Parla il promotore del nuovo movimento
"Si potrebbe dire - scriveva Gramsci nei "Quaderni del carcere" - che l'inconscio incomincia solo dopo tante decine di migliaia di lire di rendita". Insomma, per Gramsci l'inconscio ce l'avevano i ricchi, i poveri no. Problemi di lusso, quindi, i problemi dell'inconscio, e già Lenin del resto nelle sue conversazioni con Clara Zetkin (1921), s'era riferito alla psicoanalisi come a qualcosa che "fiorisce con esuberanza sul terriccio della società borghese".
Dopo sessant'anni, oggi nessuno potrebbe sostenere quelle tesi. Il bisogno di investigazione di sé, si conoscenza e di aiuto è diventato, se non bisogno di massa, certo una domanda che avanza e si fa drammatica, specie tra i giovani e le donne; le risposte istituzionali sono largamente inadeguate: da una parte, e nei casi più gravi, la psichiatrizzazione (manicomio o clinica per malattie mentali) e dall'altra psicofarmaci più o meno rimborsati dalle mutue, qualche CIM (Centro di Igiene Mentale) assediato da richieste cui non può rispondere, e le sedute di analisi individuale, inabbordabili da chi, pur proletario o proletarizzato (operai, disoccupati, studenti, donne), l'inconscio che l'ha, ma non ha i soldi per occuparsene. Nel silenzio delle istituzioni nascono allora i gruppi, più o meno spontanei, più o meno "selvaggi", in cui la gente si aggrega e parla di sé.
Come esempio e campione, traverso il quale svolgere questo primo tema, mi pare cronisticamente corretto scegliere una realtà terapeutica che emerge, nel paesaggio a volte confuso della "analisi di gruppo", con caratteristiche non ordinarie. Alcune di esse sono percettibili, per così dire, ad occhio nudo: la gratuità assoluta e il numero dei partecipanti, complessivamente valutabile a circa seicento persone, divise in tre gruppi, che si riuniscono in tre giorni diversi della settimana, con lo stesso analista. La qualità dei partecipanti pur non essendo esclusiva di questa situazione è, qui, sottolineata da una forte omogeneità,; è quello che, a partire dal febbraio scorso, si definisce come il "Movimento", a formare la popolazione di base in questa sede (una piccola aula dell'Istituto di Psichiatria dell'Università di Roma, diretto dal professor Giancarlo Reda). E' dunque la folla giovanile - maschi e femmine - diventata protagonista, anche drammaticamente, della scena politica italiana negli ultimi dieci mesi.
Su questo strato di fondo si innestano poi iscritti al PCI (ma sempre giovani), molte donne, alcuni medici (non soltanto psichiatri o psicoanalisti) qualche "nome" del mondo dello spettacolo, ovviamente più politicizzato (il regista Marco Bellocchio, la sua compagna, l'attrice Gisella Burinato).
Fin qui gli elementi esteriori che pure distinguono questo gruppo dagli altri. Gli elementi invece più profondi di diversità sono da rintracciare nella persona dell'analista, Massimo Fagioli, e nel fatto che in questa sede si sperimenta una teoria che Fagioli rivendica come originale. Qui non si fa analisi secondo Freud, Jung, Lacan, ecc.. o attraverso una miscellanea di teorie e pratiche diverse: si fa analisi secondo quanto è scritto nei testi di Massimo Fagioli, che sono tre: "Istinto di morte e conoscenza", "Psicanalisi della nascita e castrazione", "La marionetta e il burattino".
Per capire serve intanto sapere chi è Massimo Fagioli. Buon rieducatore o guru?
Professionalmente ha tutte le carte in regola, Medico psichiatra, prime esperienze "manicomiali" a Venezia e quindi a Padova, primi tentativi (metà degli anni sessanta) di gestione diversa del manicomio, poi trasferimento in Svizzera, nella clinica dell'antropsichiatra Ludwig Binswanger, dove vive per un anno in una comunità terapeutica (malati di mente, medici, infermieri).
Tornato in Italia costituisce egli stesso una comunità di questo tipo, ed incomincia a fare analisi didattica con il freudiano Nicola Perrotti. Ammesso nella Società Psicoanalitica Italiana (Spi), esercita la professione privata, e comincia ad elaborare le teorie oggi contenute nei suoi testi, attraverso le quali si pone come "eretico" rispetto a tutt'intera la tradizione e la prassi psicoanalitica (con l'esclusione parziale di Wilhelm Reich, come l'unico che abbia tentato la saldatura tra psicoanalisi e politica).
Scrive "Istinto di morte e conoscenza" e nel cerchio chiuso dei freudiani ortodossi viene allora considerato un talento; Franco Fornari, tra gli altri, parla di "scoperta" nella psicoanalisi (Congresso di Vietri 1971). Dal momento in cui il libro è pubblicato sopravviene l'ostracismo: nel febbraio del 1976 lo si costringe ad uscire dalla Spi. Già alla fine del '75, però, erano incominciati i suoi seminari.
Sentiamo, adesso, ciò che dice Massimo Fagioli.
Si può essere psicoanalisti e non freudiani (né junghiano, né lacaniani)?
"Non è nuova la psicoanalisi, è nuovo Freud. Così come non era nuova l'America, era nuovo Colombo". Questo lo scriveva il romanziere Arthur Schnitzler, nel primo decennio del secolo. Oggi, a quarant'anni dalla morte di Freud, si può e si deve dire la verità: non era nuovo neanche Freud. La psicoanalisi è sempre esistita: è esistita in Shakespeare, nella tragedia greca. Si tratta di tradurre in scienza, utilizzabile da tutti, ciò che per gli artisti è intuizione."
Ci sono alcuni concetti-chiave della teoria che tu hai formulata, e che pratichi nei gruppi di analisi collettiva. Essi sono, mi pare, quelli di "Istinto di morte, fantasia di sparizione, inconscio mare calmo, investimento sessuale", tutto un meccanismo, se ho capito bene, che si mette in moto nell'istante della nascita e poi, ancora, "invidia e bramosia". Puoi spiegare di che si tratta?
"Dell'istinto di morte Freud ha parlato tardi, nel 1920: ma, oltre ad essere stato preceduto, su questo argomento, almeno da due dei suoi allievi, Adler e Steckel (il "furto", in Freud, è sempre presente), c'è da dire che, ancora una volta, non si inventava nulla: l'istinto di morte appartiene al nichilismo russo, si profila già nell'Ottocento. Per me istinto di morte, non è necessariamente, tendenza negativa, distruttività: è piuttosto la prima pulsione del neonato a tornare da dove è venuto, nell'utero materno..."
Ma perchè, nascendo, si dovrebbe avere voglia di tornare indietro? Perchè dare per scontata questa situazione di "pessimismo esistenziale"?
"E' una questione di pura e semplice sopravvivenza: Il contatto con la realtà esterna, la realtà inanimata (luce, freddo, ecc.) è ostile al bambino, che finallora se n'è rimasto immerso beatamente nel liquido amniotico.
Il contatto sessuale, stabilito attraverso la cute, con il corpo della madre, produce nel bambino appena nato, il ricordo di ciò che io chiamo inconscio mare calmo. Il meccanismo della nascita è il seguente: il bambino nasce e in lui opera immediatamente l'istinto di morte, come pulsione a ritornare nel ventre della madre: per sopravvivere, egli ha bisogno di annullare la realtà esterna, ostile, che lo circonda (fantasia di sparizione): però, nello stesso momento, si forma in lui il ricordo dell'inconscio mare calmo, e il bambino, esprimendo la propria libido, cerca un investimento sessuale nel rapporto umano: cerca la madre, il seno materno.
Se questo primo rapporto fallisce, fallisce anche l'uomo come essere sociale (secondo la definizione di Marx). Quindi depressione, schizofrenia, ecc.
Ma con questa teoria non ti pare di rafforzare la pressione che l'intera cultura dominante (maschile) ha fatto fino ad oggi sopra la donna, responsabilizzando soltanto lei dell'eventuale infelicità del figlio? L'inconscio mare-calmo, il seno materno ... Tutto dipende da noi, l'aborto - come del resto aveva scritto Pasolini - è un'aggressione all'eden pre-natale, al tuo, quindi, "inconscio mare calmo..." O no?
L'aborto è comunque un fallimento, ma il rapporto col corpo della madre è qualcosa che si stabilisce gradualmente - non prima, senza dubbio, del 180esimo giorno dal concepimento - e, ci tengo a sottolinearlo, ha importanza soltanto dopo la nascita del bambino. In questo, davvero, siamo tutti uguali, e tutti, quindi, potenzialmente felici , al contrario di ciò che diceva Freud, perchè tutti disponiamo di un identico inconscio-mare-calmo, al sicuro da qualsiasi aggressione, anche dalle eventuali nevrosi delle madri incinte...
E il rapporto col seno materno, come primo rapporto da cui dipenderanno tutti gli altri?
Non è importante che la madre allatti, è importante l'investimento sessuale della madre nei confronti del figlio: perciò una maternità felice è soltanto quella della donna realizzata sessualmente, che conosce il piacere del proprio corpo, che gioca col proprio corpo e con quello del bambino.
"Invidia, bramosia, frustrazione positiva" sono altre nozioni portanti della tua teoria. Che significano?
L'invidia non ha niente a che fare col desiderio, come diceva Freud. Ha a che fare con l'odio: la bramosia è il voler introiettare l'altro, mangiarlo, divorarlo: amore come possesso e distruzione, e quindi non-amore. La frustrazione positiva è invece un atteggiamento da assumere da parte di chiunque voglia, o debba, "fare l'analista" nei confronti di un altro: e significa saper dire no all'altro, nel suo stesso interesse. Esempio: quando il bambino infila le dita nella presa di corrente, tu lo strappi via dal pericolo; lo fai nel suo interesse, e gli dimostri, così, di avere interesse per lui.
Tu infatti l'adoperi nei tuoi gruppi di analisi collettiva; qual è l'obiettivo di questa attività?
L'analisi ha sempre come obiettivo la cura della psiche; è la trasformazione della psiche, che sottintende, nella maggior parte dei casi, la cura di essa. L'analisi è: interpretazione (strumento) - trasformazione (obiettivo) - cura (effetto).
Che significa per te "interpretazione"?
Significa che io, analista, debbo interpretare, cioè rendere esplicito il significato di ciò che tu mi porti in analisi : sogni, associazioni di idee, fatti tuoi, ecc.
Ma questo rigore - interpretare e basta, non dar consigli, non intervenire - non è in contraddizione con la tua polemica contro gli analisti che ascoltano, tacciono e intascano l'onorario del paziente?
Ma quelli non ascoltano neppure. Ricevono telefonate, pensano ai fatti proprio. Fanno, insomma, fantasie di sparizione sulla persona che hanno davanti. E questo succede perchè l'analista, spesso, è più malato del paziente: malato di invidia, di bramosia, di istinto di morte/annullamento. L'analisi buona è quella che realizza interamente il rapporto umano, per incominciare, tra analista ed analizzando...
Un altro dogma freudiano che tu stai abbattendo è quello del pagamento. I tuoi gruppi sono gratuiti. Allora non è vero quello che diceva Freud che, se non si paga, l'analisi non funziona, no riesce?
Il fatto del pagamento ha attinenza con la cura soltanto quando il rifiuto di pagare - se se ne hanno i mezzi - esprime la bramosia del paziente nei riguardi dell'analista. Se tu guadagni tre milioni al mese, e mi vuoi dare mille lire a seduta, questa tua bramosia va frustata, e me ne devi dare venti. Nella società di domani, comunque, l'analista dovrebbe essere retribuito dalla collettività e
quindi, gradatamente, scomparire.

Il Messaggero 29.3.1978
Psicanalisi e politica.
Si espande il fenomeno dell'"analisi collettiva", da noi già segnalato fin dal novembre scorso. Ma i suoi fondamenti teorici sono molto fragili. E il senso politico di questa moda è abbastanza equivoco. Vediamo perché.
Psiche e Fagioli
Di Sergio De Risio


Il corriere della sera del 12 marzo ha ripreso, con un articolo apologetico di Giuliano Zincone, il discorso su di uno psicoanalista cui già Il Messaggero aveva, nel novembre scorso, dedicato una pagina intera di interventi impostata criticamente. Massimo Fagioli, lo psicoanalista di cui si tratta, appare nell'ultima intervista di Zincone, se possibile, ancora più violento, in ogni caso ancora più deciso e preciso nel suo attacco radicale al pensiero di Sigmund Freud. Certamente eravamo già abituati al puntuale ricorrere nel tempo, con l'insistenza delle cose sciocche, di quelle mescolanze di discorsi oggi dette pasticci fraudo-marxisti: da Marcuse a Guattari, per menzionare solo i più recenti. Tuttavia Massimo Fagioli presenta caratteri di tale originalità nelle dichiarazioni rilasciate ai giornali (dal presentare Freud come un imbecille al presentare Marx come il legittimo inventore della psicoanalisi) che ci ha sollecitato il desiderio di andare a rivedere i temi della famosa trilogia che sostanzia la sua produzione: Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e il burattino, Psicoanalisi della nascita e castrazione umana.
Quali profonde innovazioni vi sono contenute, quali visioni inedite dell'uomo e dell'inconscio, tali da rimettere totalmente in questione metodologia e teoria psicoanalitiche, non solo ormai secondo lui banalmente borghesi, ma addirittura sadico-assassine? Deve essere senz'altro necessario leggere e meditare lungamente ed essere pronti ad abbracciare, se risulta ineluttabile, la "psicocosa" detta "collettiva" o "d'assemblea", giacché ciascuno avrebbe il dovere di sottrarsi, se mai vi fosse per qualunque ragione incappato, al compito di trucidazione della mente che l'esercizio della psicoanalisi rappresenta per Massimo Fagioli.. Deve essere senz'altro necessario prepararsi a spazzar via senza indugio il cumulo di imbecillità formulato da Freud e accogliere i suggerimenti di Fagioli, se ne dovessero conseguire una pratica di cura non dico più efficace ma almeno meno disastrosa, e un sistema teorico più ricco, più chiaro, più coerente.
Macché. Va subito detto che Massimo Fagioli non rappresenta nient'altro, dal punto di vista per così dire teorico, che un'aberrante mistura di teosofiche ingenuità lanciate lì senza pensarci su due volte, tra le pagine come tra le persone, in uno stile che risulta da un uso degradante della terminologia freudiana spinta fino ai confini dell'insignificanza più totale. Che dice dunque Fagioli? Che Freud è un imbecille perchè non avrebbe capito che la pulsione di morte è " pulsione attiva di annullamento"; che l'imbecillità si raddoppia perchè Freud non ha mai usato il termine fagioliano di "Fantasia di sparizione"; che il ruolo del concetto di castrazione nella teoria è troppo scomodo e che sarebbe meglio rimpiazzarlo col concetto di "Nascita"; che non esiste scissione nell'essere dell'uomo; che il "super-io" tanto varrebbe fosse chiamato per esempio "Andreotti" ( rapito anche quello, chi sa, scomparirebbe pure la nevrosi); che è importante la "separazione" da mamma e papà, e se la cosa dovesse comportare un poco di dolore, sarebbe allora opportuno sbrigarsi a diventare collettivista. La separazione infatti (egli crede di scoprire) è la dinamica fondamentale di quattro momenti: la nascita, lo svezzamento; la visione dell'essere umano diverso, la pubertà.
Che cosa ne hanno fatto, di questa separazione, Freud, Klein, Winnicott, Bion, Lacan? Non ne hanno mai parlato? Ma si, qualcuno ne ha parlato, però giocava a fare il Re, l'Imperatore, forse l'imperialista, insomma tutti si sono schierati come un esercito compatto, crudele, cieco e perfidamente mirante a trucidare ogni possibilità di nascere e di crescere; a metà strada tra la strage di Erode e l'uso del preservativo.
Solo lui Fagioli, promuove la nascita: Egli la promuove nel "collettivo".
Questo termine va dunque approfondito perchè rivela, nell'uso che Fagioli ne fa per la pratica e per la teoria, il senso esatto della sua operazione. Il Collettivo è per Fagioli lo strumento per attaccare la "scientificità", la "Teoresi", che, come in questo caso giustamente egli intravede, costituiscono la forza della psicoanalisi stessa. Nella trentacinquesima delle lezioni introduttive allo studio di tale disciplina Freud scriveva: "Il pensiero scientifico è ancora troppo giovane tra gli uomini, non ha potuto ancora risolvere troppi dei grandi problemi. Una Weltanchaung costruita sulla scienza, oltre che accentuare il mondo esterno reale, ha essenzialmente tratti negativi, come il richiamo alla verità, il rifiuto delle illusioni. Chi tra i nostri simili è malcontento di questo stato di cose, chi chiede di più per potersi momentaneamente consolare, se lo procuri dove lo trova. Noi non ce ne avremo a male, non lo possiamo aiutare, ma non possiamo nemmeno, in onor suo, pensare diversamente".
E' chiaro che Fagioli è uno di questi malcontenti, ed è un grave errore che ciò di cui ha bisogno se lo vada a cercare in maniera tanto maldestra; affogando cioè la psicoanalisi nella modalità sciatta della ideologizzazione. Che cosa tanto affanno gli consente di trovare? " La nostra dizione, realtà non materiale - scrive Fagioli - si riferisce ed intende proporre un pensare e un discorso sulla realtà dell'uomo che si costituisce come totalità". " La realtà non materiale umana - scrive altrove - una volta che sia vista e pensata come verità umana di essere per essere in rapporto con l'altro e realizzata per essere stati in rapporto con l'altro, si costituisce come essere dell'uomo totale, senza scissione di anima e di corpo, di ragione e sessualità". In sostanza dunque ciò che trova è schematicamente enunciabile così : "La prassi di essere insieme restituisce l'uomo ad una Totalità"
Credo che non valga la pena di scomodare teologia o metafisica per qualificare in qualche modo la mescolanza di osservazioni che costituiscono il corpus fagioliano: teologia e metafisica, sotto i colpi del pensare di Nietzsche o di Heidegger, rivelano una capacità speculativa che non può comunque essere ridotta a qualche accenno di farneticazione.
Per poter costituire questa credenza immaginaria nella Totalità, Fagioli abbandona la scienza, quella di Freud, "che non considera tutto, è incompleta, non ha la pretesa di essere chiusa in sé e di formare un sistema", e si lascia andare a qualche slogan alla moda. Crede che basti magari evocare il fatto che la scienza non è neutrale e pretende che questa magica formula diventi un buon lasciapassare per ogni tipo di sciocchezza. Qui è davvero l'anti Freud.
Il progetto freudiano infatti mina, pur nella sua gigantesca compattezza, metodicamente ogni tentativo di "totalizzazione". La struttura della metodologia freudiana si presenta come continuamente costruibile, anticipando di fatto alcune delle formalizzazioni più importanti della moderna epistemologia circa lo statuto della scienza. Se quest'ultima, e con essa la psicoanalisi, ha da tempo abbandonato le ingenue fantasie positiviste, non è certo per cadere nelle subdole reti di un nuovo Tutto inesistente. Si capisce bene, a questo punto, perchè Fagioli intende liquidare in psicoanalisi i concetti di castrazione, di limite, di mancanza, e ammorbidire in modo completamente narcisistico il difficile problema di ciò che Freud designava come " Narcisismo Primario"
Vale ora la pena di chiedersi in che rapporto stanno le idee così tracciate di Fagioli con la pratica della cosiddetta " psicoanalisi di assemblea". Cosa vi vanno a desiderare i giovani della Nuova Sinistra, cosa lo stesso Fagioli? "Cercano tutto " si potrebbe dire parafrasando un altro slogan di ormai decennale memoria. Cercano tutto, senza fare niente, se non qualche esercizio spirituale. Incapaci di risolvere vere e proprie frustrazioni nate da un certo impegno nel politico, si ritrovano insieme a lamentare. Sono seicento? Data la natura delle cose direi che sono ancora pochi: è assai probabile che diventino presto di più. Quanti sono oggi coloro che cercano, per riprendere Freud, di potersi momentaneamente consolare?
Un'ultima parola sul tipo di legame che probabilmente tiene uniti assemblearmente seminarista e seminarizzati. In Psicologia della masse e analisi dell'Io, fin dal 1921 veniva messo in primo piano il ruolo specifico del capo nel contesto di qualsivoglia formazione collettiva. Il capo va ad occupare, nel soggetto, il posto dell'ideale. Come è noto, innamoramento e ipnosi sono le condizioni che Freud sinotticamente o in parallelo pensava di evocare, ed è già di per sé più che significativo. Più tardi Bion mostrava come questo posto di capo o leader, qualora fossero sufficientemente sviluppati un vertice ed un'attenzione analitica, si rivelasse prezioso osservatorio delle tensioni interne alla formazione collettiva e delle tensioni tra la formazione collettiva e il leader stesso. Si poteva cioè sviluppare, con il concorso collettivo, una funzione analitica nel gruppo. Cosa accade dove vertice ed attenzione analitica sono così palesemente soppiantati? Personalmente propendiamo per l'ultima ipotesi che Guarini indicava nell'intervento da lui dedicato all'argomento, quella più derisoria: Il politico che rispunta, travestito da Psicomante, proprio nel luogo in cui il gregge, forse senza saperlo, progetta di abolirlo!

Corriere della Sera 9.3.1978
Psicoanalisi d'assemblea all'Università
A Roma è scoppiato l’anti Freud
di Giuliano Zincone


Roma – "Ho sognato che rimproveravo mio figlio. Poi stiravo un suo grembiule, usando acqua distillata, e il grembiule diventava un fazzoletto. Cambia scena, ci sono dei bambini che giocano. Parlo con uno di loro, il suo muco mi va in bocca. Penso alla nascita". Siamo in un’aula dell’istituto di psichiatria dell’università di Roma, assistiamo a uno dei tre seminari settimanali tenuti dal professor Massimo Fagioli. La stanza è affollata da duecento persone, arrivate con due ore di anticipo per assicurarsi i posti migliori. Per curarsi collettivamente, raccontando i propri sogni, Fagioli risponde: "Tu annulli la nascita. Al tuo bambino dai un fazzoletto per piangere, invece di dargli investimento sessuale (interesse). La madre tenta sempre di annullare la nascita, l'Io del bambino". Gli analizzandi sono quasi tutti giovani: studenti, psicanalisti in crisi, casalinghe, gente del cinema, intellettuali. I seminari sono gratuiti, il metodo analitico è fondato sulle teorie di Massimo Fagioli, contenute nei suoi tre libri, Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e il burattino. Psicoanalisi della nascita e castrazione umana (Ed. Armando), Freud non è solo rifiutato, ma severamente sbeffeggiato. Senza il minimo riguardo, Fagioli lo definisce come "il vecchio imbecille sadico". Jung, invece, è paragonato a un "manicomio medioevale". I pazienti vengono da esperienze di estrema sinistra, molti sono tuttora militanti. Il loro atteggiamento, nei seminari, non manifesta, in genere, disturbi gravi o disperazioni, ma una specie di ansietà, una scontentezza profonda e diffusa. La fame di benessere mentale sta diventando un fenomeno di massa, tra i giovani e gli intellettuali delle nostre città. Le radio private trasmettono sempre più spesso conversazioni, sfoghi, interpretazioni selvagge dei sogni. Si moltiplicano i gruppi d'incontro, i gruppi reichiani, si importa dall’America la "terapia dell’urlo", la "terapia del contatto". Le istituzioni psichiatriche sono screditate, i movimenti dell’antipsichiatria, i "manicomi aperti", oscillano tra la negazione della malattia mentale e la ammissione della propria impotenza. Molti psicoanalisti confessano candidamente di non credere nell’efficacia terapeutica del proprio mestiere. Fagioli, invece, ci crede. Ha comunicato nel 1975 questo lavoro all’università, con un piccolo seminario per colleghi sfiduciati. E adesso ha in cura tre grossi gruppi, seicento persone in tutto, legate a lui (e tra di loro) dalla voglia di liberarsi della "corazza caratteriale" del "linguaggio della razionalità cosciente" di "debellare le tre streghe che rendono pazzi gli uomini: "invidia, bramosia, fantasia di sparizione" e di riscoprire il proprio Io, "l’inconscio mare calmo". La famiglia e la coppia, istituzioni che i rotocalchi danno per sepolte, sono al centro dei sogni e delle ansie degli analizzandi: Le interpretazioni di Fagioli tentano costantemente di recuperare i racconti e le preoccupazioni individuali alla dimensione collettiva, al rapporto con l'esperienza analitica e col gruppo. "Sogno che la mia ragazza è incinta". Nasce un bambino. I preparativi per il parto comprendono l’uso di sacchi di plastica: dentro ci mettiamo carne, latte". Risponde Fagioli:" All’inizio non riuscivi a capire il lavoro di analisi, perché l’analisi è frustrazione. Ma non è vero che non hai capito: il bambino è nato. Vorresti metterlo nella plastica, come per dire che non ha un Io. E invece lo ha: il vecchio Imbecille (Freud) non ci convince. Ti fa rabbia che il bambino, cioè l'Io, venga fuori a tuo dispetto. Ma in una situazione di analisi collettiva è proprio così: che tu lo voglia o no, l’inconscio reagisce". Un altro giovane: "Per motivi materiali mi riesce difficile separarmi dai miei genitori. Tento di farlo, ma con odio e desiderio di vendetta": Fagioli: "No, l’odio e la rabbia li hai nei nostri confronti, perché il seminario ti impedisce di fare i tuoi giochetti furbastri". Certo, per un osservatore esterno, molte allusioni (come questa sui "giochetti furbastri") sono incomprensibili. Chi partecipa, invece, non solo capisce tutto, ma stabilisce con gli altri dei rapporti molto particolari, fino a sognare soggetti analoghi. Alcuni analizzandi provano a mettersi (o a rimettersi) in proprio, a "curare" a pagamento altre persone. Ma incorrono nella scomunica: con estrema durezza, Fagioli accusa in pubblico i rei confessi di seminare ansia e paralisi nella assemblea, di derubare e rovinare i loro "pazienti". Ecco un’analista selvaggia ammettere in lacrime la propria colpa: "La settimana scorsa hai detto cose terribili sul mio conto. Ho sognato tanto sangue che usciva da tutte le aperture del mio corpo". Fagioli le risponde seccamente di restituire alle sue vittime i soldi che ha rubato. "I miei genitori si separarono quando avevo quattro anni – racconta una ragazza -. Mio padre sparò a mia madre, tentò di uccidere anche me, mi rincorse con una pistola. Adesso sogno ancora che mio padre vuole uccidermi. Sogno un bambino sgozzato. Molto sangue. Sogno che un giudice mi chiede di raccontare i momenti belli della mia vita. E io mi sento in colpa: non posso rispondere, perché di momenti belli non ne ho avuti mai". Interpreta Fagioli: "il bambino sgozzato è l’Io. Per recuperarlo devi superare l’identificazione con tuo padre e con tua madre. Devi mettere la tua storia personale in un discorso sociale, in un rapporto. Non sei sola. Molti padri, molti psicoanalisti tentano di ammazzare i figli, pazienti". Prevalgono nei seminari, la fede nel maestro e l’ansia di esserne gratificati. Ma ci sono anche casi di scetticismo. "Massimo, mi chiamo Emilia, devo assolutamente parlarti. E’ la prima volta che vengo, non mi convinci, a sentire tutti questi sogni non mi sono divertita per niente…..". La interrompe un’altra donna, piangendo: "Quando neghi il ruolo di Massimo uccidi i bambini. Ho sognato che ero a Parigi, in una situazione di post-sessantotto, al pronto soccorso, vedo una testa e le tolgo il cervello. Ho fatto cose tremende nella realtà materiale, faccio male ai bambini, lunedì scorso mi hai detto quel che mi merito, mi sono sentita una delinquente, e mia figlia mi dice sempre vaffanculo. L’unico che aiuta sei tu". Il marito di questa signora è riuscito a scrivere una sceneggiatura e lei lo invidia. Il giorno dopo, Fagioli dirà al marito: "Ieri tua moglie Caterina ha avuto una crisi di invidia nei tuoi confronti. Lei non ammette che una persona possa realizzarsi, fare progressi". No, Fagioli non è certo un analista permissivo, non usa la bacchetta magica per far sparire i sentimenti di colpa dei pazienti. Ma questa, forse, è una delle cause del suo successo, nei confronti di un gruppo sociale per il quale la contestazione del principio d’autorità ha coinciso con la caduta di un intero sistema di valori. A noi sembra che (al di là dei suoi compiti specifici) Fagioli interpreti in modo piuttosto "contemporaneo" un ideale di società fraterna (non gerarchica) capace di darsi discipline e regole del gioco orientate verso finalità comuni. "Bisogna prima far l’amore con la madre, e poi uccidere il padre", dice Fagioli, capovolgendo la storia di Edipo. Il che significa (se interpretiamo correttamente) che, prima di abbattere l’autorità, è necessario esser certi della propria identità e dei propri fini. Molti giovani e molti intellettuali, orfani di utopie e delusi dall’azzeramento culturale generato dalle loro esperienze recenti, vogliono sentirsi dire proprio questo. E, in attesa della "società fraterna" accettano di buon grado l’autorità ("liberante" ma ben presente) di Massimo Fagioli. Parliamo col professore. E’ molto severo. Condanna l'omosessualità ("è annullamento, è legata alla pulsione di morte"), condanna la masturbazione ("è fantasticheria sadomasochista"), condanna i suoi colleghi che negano il loro ruolo ("ma poi ricorrono ai farmaci"). "Io – dice – credo nella cura, credo nella conoscenza e nella trasformazione, come Marx. Individuo le dimensioni disumane (indifferenza, invidia, bramosia) e le frustro. La frustrazione genera interesse, desiderio di cambiare, di guarire. Con l’analisi collettiva il salto di qualità è enorme, il lavoro è molto più efficace. Ma alla base ci sono le mie teorie. Io ho avuto il coraggio e la capacità di rifiutare Freud, l’imbecille che non aveva capito niente, che era al livello di un medico che crede che il fegato sia nella coscia sinistra". La teoria di Fagioli è abbastanza complicata da riferire. L’analista ce ne offre uno schema: "La malattia mentale non è congenita. Tutti gli uomini nascono sani. Trasformano l’esperienza materiale del loro rapporto col liquido amniotico in "inconscio mare calmo". La prima fantasia-ricordo (Io) è l’inconscio mare calmo che corrisponde a interesse e desiderio. Questo sentimento dovrebbe trovare risposta nella madre, che invece non lo soddisfa. Anzi, la madre tratta il bambino con fastidio, come un oggetto vile da plasmare, educare. Il desiderio infantile di ricevere latte e interesse diventa delusione. Il desiderio delusione si scinde in odio, rabbia, invidia, bramosia. Genera rapporti sadomasochisti o indifferenza. Eliminare l'indifferenza e frustrare il sadomasochismo porta alla scoperta dell’inconscio mare calmo, al recupero dell'Io, alla guarigione". Una teoria come questa, fondata sui "rapporti", privilegia necessariamente la dimensione collettiva e sociale. "Per me – dice Fagioli – non c’è sessualità senza socialismo, e non c’è socialismo senza sessualità. La società borghese è masturbatoria, divide nettamente il comportamento pubblico da quello privato. Nella società borghese, uno può essere un buon cittadino anche se violenta la moglie e picchia i figli, basta che rispetti il codice penale. Ci si meraviglia se i bambini diventano pazzi. Ecco, questa cose bisogna combatterle, non rassegnarsi, non assumere un atteggiamento consolatorio. Un analista che consola, condanna a morte il paziente. Viviamo in una società dove la famiglia ha ancora un enorme potere distruttivo, dove c’è una miseria sessuale tremenda. La gente, a casa, si annulla, assume dei ruoli astratti: i genitori, i figli, non sono più persone con le quali stare bene, ma autorità, sudditi, maschere"" Fagioli è severo anche con quei gruppi di psichiatri che privilegiano l’azione politica rispetto alla terapia. "Loro – dice – pensano che tutti i mali vengano dalla società e che quindi o si fa la rivoluzione o non si può curare nessuno E invece non è vero, non è automatico che tutto si aggiusti, dopo aver risolto i problemi politici ed economici. Ci vuole un interesse specifico per la dimensione psichica. Questo è il nostro compito. La trasformazione politica spetta ai partiti di sinistra. E, nel frattempo, rassegnarsi è un delitto, bisogna lavorare nonostante le istituzioni, nonostante la società. Altrimenti si finisce in un vicolo cieco: devo fare la rivoluzione perché la società mi condiziona, ma siccome la società mi condiziona non posso fare la rivoluzione. Troppo comodo". G. Zi.


SULLA STAMPA DI OGGI:


l’Unità 15.3.11
Napolitano: applausi alla scuola pubblica
Barroso: sbagliato tagliare
Dal Presidente e dall’Europa partono segnali chiari verso le sciagurate politiche del governo italiano. Anche Emma Marcegaglia è d’accordo con loro: è uno dei pochi campi in cui si deve continuare ad investire
di Marcella Ciarnelli


Ègiusto esprimere una più che giustificata soddisfazione per il grande contributo che l'istruzione pubblica ha dato alla crescita dei sentimenti di unità e di identità nazionale degli Italiani». Il riconoscimento alla funzione fondamentale della scuola pubblica lo ha fatto il presidente della Repubblica nel messaggio inviato in occasione dell'iniziativa promossa dalla casa editrice Laterza «L'Italia unita a scuola». Dieci scuole disseminate sul territorio, che per tre giorni diventeranno luogo di incontro, discussione, confronto. Del contributo della scuola pubblica, ha ribadito il presidente «c'è ancora e più che mai bisogno per rafforzare la coesione del paese dinanzi alle ardue prove cui è chiamato» e «va al tempo stesso sottolineata l'importanza del compito che spetta alla scuola nel diffondere tra le nuove generazioni una più approfondita conoscenza dei diritti e dei doveri che da più di mezzo secolo la Costituzione repubblicana garantisce e indica a tutti i cittadini».
E, guardando oltre i nostri confini, «appare necessario che la scuola prepari i giovani ad essere sempre più consapevoli degli obiettivi che dobbiamo proporci, come stato nazionale, nel quadro dell'Unione Europea. C'è ancora molto da fare affinché in Europa tutte le categorie sociali e tutte le realtà regionali possano essere partecipi di un più elevato livello comune di benessere».
Ma «le nuove generazioni, che hanno la fortuna di vivere in un’Europa di pace, libera dall'incubo di ricorrenti conflitti, dovranno far fronte con coraggio e lungimiranza a sfide nuove e difficili. È compito anche della scuola di far crescere nei giovani le conoscenze e i valori necessari per meglio affrontarle».
Esiste, dunque, «la nuova realtà di un mondo in cui grandi popoli sì stanno dimostrando capaci di uscire da una secolare condizione di arretratezza, ma nel quale esistono vasti arsenali di armi di distruzione di massa e, comunque ogni crisi e conflitto locale rischia dì coinvolgere tutti, impone ai paesi ancora oggi più ricchi di risorse di assumersi nuove responsabilità, per contribuire alla cooperazione fra gli stati, alla sicurezza, alla pace e al progresso civile in tutti i continenti».
Il presidente Napolitano ha più volte richiamato in questi mesi, la necessità di sostenere la cultura e la ricerca pur in presenza di una evidente necessità di operare dei tagli di bilancio per affrontare la crisi.
Sulla sua stessa linea si è espresso anche il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso che ieri ha tenuto alla Luiss una lectio magistralis durante la cerimonia per il conferimento della laurea honoris causa: «Non è intelligente tagliare le risorse ai settori della scienza, dell'istruzione e della cultura» ha detto Barroso. Ed anche la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, nel corso della stessa cerimonia, ha riaffermato la necessità di «investire nella crescita, nell'università e nella scuola. Dobbiamo e possiamo fare di più, questo è uno dei pochi campi in cui il governo deve continuare a investire soldi».
La scuola è sicuramente uno dei luoghi dove si è fatta l'unità d'Italia, anzi, dove si sono fatti gli italiani. È grazie alla scuola che abbiamo imparato a parlare la stessa lingua, riconoscendo una comune identità. Ecco perché la casa editrice Laterza ha pensato di promuovere nelle scuole tre giornate di riflessione e di festa, di discussione e di condivisione, da oggi al 17 marzo, giorno della proclamazione del Regno d'Italia. Tre giornate dedicate a lezioni magistrali, seminari, workshop, concerti, mostre, film ed altro sui temi della storia dell'Italia unita. Storici ma anche filosofi ed economisti, sociologi e giuristi, scrittori e giornalisti saranno coinvolti in un confronto aperto con i cittadini, gli insegnanti e, soprattutto, gli studenti, veri protagonisti delle tre giornate.

l’Unità 15.3.11
La nostra Carta
L’anticipazione Ecco alcuni stralci della lettura commentata di Pasquino alla Costituzione
L’autore «Calamandrei sarebbe inorridito dai nostri politici: hanno cercato di migliorare l’Italia?»
La rivoluzione promessa? Possiamo ancora farla. Tutti noi
Quella che segue è una parte dell’introduzione di Gianfranco Pasquino al libro «La rivoluzione promessa. Lettura della Costituzione italiana» (Bruno Mondadori) , da giovedì in libreria.
di Gianfranco Pasquino


Le Costituzioni moderne sono soprattutto carte che codificano le libertà; sanciscono diritti e doveri dei cittadini; delineano i rapporti fra cittadini e le istituzioni; specificano la divisione dei poteri e i limiti del loro esercizio a opera di ciascuna istituzione e di coloro che vi sono preposti. Oggi, possiamo affermare con sicurezza che le Costituzioni danno forma a un sistema politico, e potremmo aggiungere che dove non c’è una Costituzione non esiste, pur con la luminosa eccezione della Gran Bretagna, democrazia. Tutti i sistemi politici che si sono affacciati alla democrazia, negli ultimi trent’anni alcune decine, si sono dati Costituzioni il cui elemento centrale è rappresentato dal riconoscimento e dalla garanzia dei diritti dei cittadini. Molto spesso i rispettivi costituenti hanno approfittato della possibilità, qualche volta una vera e propria necessità, di scrivere la Carta costituzionale per delineare anche il tipo di sistema politico, sociale ed economico da loro preferito. Nessuna Costituzione contemporanea potrebbe oggi fare a meno di offrire spazio al mercato e alla concorrenza economica. Né potrebbe tralasciare di regolamentare tutto quello che attiene all’istruzione, al lavoro, alla salute dei suoi cittadini.
Tra il 1946 e il 1948 i costituenti italiani ebbero la grande opportunità di collaborare alla stesura della prima vera e propria Carta costituzionale della Repubblica democratica italiana. Da uno dei più autorevoli di loro, per statura intellettuale e conoscenza del diritto, Piero Calamandrei, vennero contributi significativi, ma anche forti critiche al testo approvato. In particolare, Calamandrei, giurista positivista, manifestò forte contrarietà alle norme programmatiche, quelle che indicano quanto deve essere fatto, che, per l’appunto, delineano un programma. Quando, pochi anni dopo la promulgazione, Calamandrei si trovò a fare un bilancio, ancorché preliminare, della Costituzione italiana, affermò con una frase memorabile che era una «rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata».
Negli articoli della Costituzione, addirittura nel suo impianto complessivo, stava un disegno di trasformazione dei rapporti politici, sociali ed economici che, almeno in parte, rifletteva le grandi e nobili aspirazioni della Resistenza, ovvero la «rivoluzione mancata». Quella di Calamandrei non era soltanto una frase a effetto. Purtroppo la fase di applicazione della Costituzione non si è mantenuta fedele alle sue promesse e alle norme programmatiche. La storia della Repubblica italiana spiega il perché delle inadempienze, ma non può giustificarle, anche se la guerra fredda (1946-1989) sicuramente non facilitò scelte che la Costituzione suggeriva e incoraggiava. In seguito, lo strapotere dei partiti, ovvero la partitocrazia, tutt’altro che un fenomeno inevitabile e meno che mai insito nella Costituzione italiana, provocò non poche inadempienze e distorsioni costituzionali. Da più di tre decenni, ormai, l’attenzione si è spostata e si è concentrata sulle istituzioni e sulla loro riforma, spesso addirittura esclusivamente sul sistema elettorale, nella ricerca spasmodica della formula che convenga maggiormente a partiti che si sono alquanto indeboliti, ma che rimangono gli attori politici dominanti. È probabile che i costituenti, non soltanto Calamandrei, guarderebbero preoccupati, se non addirittura inorriditi, alle proposte particolaristiche di cambiamento delle regole e delle istituzioni. Preoccupazione e orrore non deriverebbero affatto da una loro difesa a oltranza, come fanno alcuni politici, giuristi e intellettuali italiani, di tutto il testo costituzionale quasi fosse un oggetto sacro. Al contrario, pochi di loro riterrebbero la Costituzione immodificabile poiché le modalità delle eventuali modifiche sono chiaramente indicate e regolate. I costituenti non meritano l’appellativo
di «conservatori istituzionali». Si chiederebbero, però, se la classe politica italiana ha davvero operato per tradurre la rivoluzione promessa in quelle riforme politiche, sociali ed economiche che renderebbero migliore l’Italia.
La lettura del testo costituzionale, effettuata senza interferenze politicizzate e senza paraocchi ideologici, consente di cogliere in molti articoli le potenzialità tuttora vive di una trasformazione profonda dell’Italia, anche grazie al suo inserimento, previsto in maniera lungimirante, negli organismi europei e nelle istituzioni internazionali. Credo che sia doveroso sottolineare che i problemi politici, sociali, economici e istituzionali italiani non hanno nessuna radice negli articoli della Costituzione, anche se alcuni articoli sono, senza dubbio, da rinfrescare e da ritoccare, talvolta anche da riscrivere. Ma la rivoluzione promessa è ancora tutta davanti a noi, perseguibile e conseguibile. La Repubblica alla quale i costituenti hanno affidato il compito ambiziosissimo ed esigentissimo di rimuovere gli ostacoli che «impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale» siamo noi, cittadini e detentori di cariche politiche a tutti i livelli. La responsabilità maggiore è sempre quella di chi ha più potere politico, ma qualsiasi rivoluzione, anche pacifica, da effettuarsi attuando le norme programmatiche, ha bisogno di un ampio sostegno popolare e di una convinta partecipazione di cittadini informati. Sono entrambi elementi che una buona conoscenza della Costituzione è in grado di costruire e potenziare. Era la speranza dei costituenti italiani. È rimasta tale.
Tutti i diritti riservati © 2011, Pearson Italia, Milano Torino. Prima edizione: marzo 2011

l’Unità 15.3.11
A Roma Santa Cecilia, respinte le dimissioni del presidente Cagli. Pressing di Letta e Alemanno
Intanto il grande archeologo dà l’addio alla presidenza del Consiglio superiore dei beni culturali
Cultura, ormai è frana continua. Lascia anche Carandini
Una «ribellione all’assassinio della cultura italiana». Questo il senso delle dimissioni di Carandini dai beni culturali, che hanno suscitato un vero e proprio terremoto politico. Ed è solo l’ultimo caso...
di Luca del Fra


Continua lo sfaldamento del ministero dei Beni e delle Attività Culturali, ieri è toccato al consiglio superiore dei Beni culturali: dimissioni per il suo presidente Andrea Carandini, mentre gli altri membri si sono autosospesi e la seduta è stata rinviata. Alla base della decisione ci sono i tagli del Governo alla cultura e la latitanza reiterata del ministro Bondi certo non aiuta. Si ripete in sostanza quanto accaduto qualche settimana fa con la Consulta dello spettacolo che ha fatto saltare la sua seduta: in entrambi i casi si tratti di organi obbligatori ma consultivi, dunque senza un loro parere non si possono spacchettare i pochissimi fondi a disposizione. C’è chi vede in queste dimissioni il segnale dell’arrivo imminente di un nuovo ministro, ma di certo il ministero è alla paralisi.
Solo oggi sono rientrate le dimissioni di Bruno Cagli dall’Accademia di Santa Cecilia, in seguito alle pressioni sia del mondo politico (Letta e Alemanno in prima persona) che dal consiglio di amministrazione. Quanto a Carandini, a cosa servirebbe muoversi, deve essersi domandato andando ieri alla seduta del consiglio: ai feroci tagli decisi dalla finanziaria e confermati dal «Mille proroghe», si è aggiunta la sparizione di altri 70 milioni di euro, nella versione ufficiale «congelati», ma in realtà già tagliati. Si tratterebbe infatti dei proventi di un’asta sulle frequenze televisive che il Governo di Berlusconi, maggior imprenditore televisivo italiano, non sembra aver intenzione di fare – perché dar frequenze a possibili concorrenti?
Così sedutosi al tavolo del consiglio superiore Carandini ha aperto la seduta dimettendosi, «stante la progressiva e massiccia diminuzione degli stanziamenti di bilancio» del ministero dei Beni Culturali. Alcuni erano propensi a seguire il loro presidente, ma alla fine il Consiglio ha scelto per l’autosospensione, non sia mai perdere una poltrona. Salta agli occhi come le stesse «irrevocabili dimissioni» di Carandini, appaiano poi revocabili a Francesco Maria Giro: il più dichiarante sottosegretario della storia della repubblica non ha perso l’occasione di dichiarare che «la lettera, con la quale il professor Andrea Carandini ha annunciato le dimissioni, rivela una disponibilità a proseguire il proprio impegno alla guida del Consiglio superiore purché si assumano a breve termine scelte concrete a sostegno del patrimonio culturale nazionale». Non sono mancate le dichiarazioni di solidarietà nei confronti del dimissionario presidente da parte dell’opposizione, ma nei corridoi del Collegio Romano la mossa di Carandini è stata anche interpretata come il concreto segnale dell’arrivo del nuovo ministro. Da tempo è attesa la nomina di Giancarlo Galan ai beni culturali e, secondo fonti ufficiose, tra i due non correrebbe buon sangue: ecco l’occasione per defilarsi. D’altra parte Galan sta facendo resistenze al suo spostamento da un ministero ricco e fuori dall’occhio del ciclone come l’Agricoltura, a uno impoverito, sull’orlo della dismissione e al centro di roventi polemiche come i beni culturali. Vorrebbe, Galan, garanzie economiche del rifinanziamento del dicastero, ma il governo non è disposto a darle. Il braccio di ferro va avanti da giorni e nelle ultime ore per la poltrona del Collegio romano si è fatto il nome, poco probabile, di Saverio Romano, ex Udc transfugato nei «responsabili». Merita ricordare come sia la seconda volta che durante il ministero Bondi il presidente del Consiglio superiore si dimette, Carandini era subentrato dopo le clamorose dimissioni di Salvatore Settis e di molti altri membri del Consiglio nel febbraio del 2009.

l’Unità 15.3.11
«I maturandi portati al Divino Amore»
Cinquemila ragazzi del quinto anno delle superiori romane «ad orientarsi» sul futuro in un Santuario. Paga Gelmini
di Gioia Salvatori


Chissà che ne penserebbe Socrate di un ministro dell’Istruzione che nell’anno domini 2011 manda i giovani delle superiori in un santuario per una giornata di orientamento universitario.
Coi soldi pubblici (l’ufficio scolastico regionale del Lazio ha organizzato i trasporti) e per conoscere una vasta gamma di atenei pubblici e, ovviamente, privati. Eh già, infatti l’ecumenico orientamento dell’era Gelmini nasce da una collaborazione dell’ufficio ministeriale regionale con la conferenza dei rettori delle università del Lazio (CRUL) e la Conferenza dei Rettori delle Università Pontificie Romane (CRUPR) che magari si sentono più a casa al santuario del Divino Amore, luogo di pellegrinaggi in mezzo ai campi di Roma Sud. D’altronde si sa, la scelta dell’università è cosa seria, si ripercuote «sul lavoro e sulla vita, richiede consapevolezza e serenità indispensabili per ridurre il rischio dell’errore e decidere con responsabilità», quindi meglio proporre ai giovani un’ampia scelta di atenei e corsi,
tante brochure, tanti, depliant, workshop e una giornata di “festa dell’orientamento”. Animata anche da un musical: “Oggi scelgo io”, interpretato dalla Star Rose Academy fondata dalle suore orsoline della sacra famiglia e diretta da Claudia Koll.
Cosa può volere di più, a cento giorni dalla maturità, uno studente? Altro che pranzi dei cento giorni... Così ieri dopo aver ricevuto l’invito coi virgolettati qui riportati, i ragazzi sono stati in Chiesa a conoscere le università pubbliche e private del Lazio. A firmare l’invito inoltrato alle scuole qualche giorno fa è il direttore generale dell’ufficio scolastico regionale Lazio, Maria Maddalena Novelli. Nomen omen, la dirigente così giustifica la non casuale scelta del luogo: «il Santuario del Divino Amore è meta tradizionale di pellegrinaggi che si svolgono soprattutto di notte. Oggi come ieri, il Santuario si offre a tutti cattolici e di altra religione, credenti e non credenti, italiani e stranieri, tutti cittadini e pellegrini di Roma – come il traguardo di un viaggio notturno, passaggio umano denso di difficoltà ma che si conclude nella luce del mattino». Che il pellegrinaggio serva è certificato: si narra, infatti, che il candidato sindaco Gianni Alemanno lo fece a piedi nella notte elettorale...

il Fatto 15.3.11
Per scegliere l’università giusta tutti in processione al santuario
5000 ragazzi al Divino Amore. I genitori: “Una vergogna”
di Caterina Perniconi


Un prato sterminato, un mare di fango, 5000 ragazzi. No, non è Woodstock, ma il santuario del Divino Amore, a Roma. Le note che accompagnano la giornata non sono quelle di Jimi Hendrix, ma del musical della Star Rose Accademy, fondata dalle suore orsoline e guidata da Claudia Koll, ormai lontanissima dalla versione “Tinto Brass”. Il tutto sotto l’occhio vigile di monsignor Lorenzo Leuzzi, direttore della pastorale e universitaria e neo cappellano di Montecitorio. Anche lui infangato fino ai polpacci. E no, non è nemmeno la giornata mondiale della gioventù promossa dal Vaticano, ma un appuntamento organizzato dall’ufficio scolastico regionale col vicariato di Roma per orientare i maturandi di tutte le scuole del Lazio (pubbliche e private) alla scelta universitaria.
IL LUOGO, aveva comunicato il ministero a tutti i dirigenti scolastici, non è scelto a caso, ma “sottolinea l’intento” del convegno. Perché “il santuario del Divino Amore è meta tradizionale di pellegrinaggi che si svolgono soprattutto di notte (...). Il pellegrinaggio, lungo cammino attraverso la notte, è evocativo di un messaggio simbolico per i nostri giovani: la vita che viviamo e che costruiamo incontra momenti di buio e sforzo, soprattutto quando si affrontano scelte importanti”. La circolare si concludeva prevedendo addirittura che “le istituzioni scolastiche, nella loro autonomia, valutino l’opportunità di riconoscere la partecipazione degli studenti come credito formativo”.
Ieri, sul prato del santuario, i ragazzi più che a un pellegrinaggio sembravano in gita. Gli stand allestiti erano sei. Il primo, riservato all’accoglienza, dove i presenti potevano ritirare il loro pacco “dono”: borsa, maglietta e cuscino. Infatti la struttura più grande, quella sotto la quale si sono rifugiati appena ha cominciato a piovigginare, non aveva sedie. Poi quattro gazebo, divisi per settore, dove gli studenti trovavano informazioni sull’ambito scientifico-tecnologico, artistico-letterario, giuridico-economico e bio-antropologico. Insieme alle università pubbliche (anche se i cartoni di depliant della Sapienza erano quasi tutti chiusi) quelle private. In prima fila, naturalmente, la Luiss. Poi l’università lateranense, la Cattolica, la pontificia salesiana, la pontificia auxilium, il campus bio-medico. Private battevano pubbliche almeno 6 a 3. Vicino un’altra sola struttura, per la pastorale universitaria. Nessuna informazione sull’ente per il diritto allo studio o su altre associazioni studentesche.
GLI ARTISTI dell’accademia della Koll si sono esibiti nel pomeriggio, ed erano ormai solo poche centinaia di ragazzi attenti allo spettacolo. Gli altri, sparsi nelle poche parti asciutte del prato. “La mia vita ha senso? – cantava una ragazza dal palco – credo che Dio abbia un progetto sulla mia vita”. Qualche gruppo si è allontanato. Subito dopo la celebrazione della messa, presieduta dal rettore dell’università lateranense, monsignor dal Covolo. Del resto, per romaset  te.it  , giornale on-line della diocesi di Roma, l’evento è promosso “dall’Ufficio scuola cattolica, pastorale scolastica, pastorale universitaria e pastorale giovanile del Vicariato di Roma”. Il ministero non è mai citato.
Impossibile, tramite l’ufficio scolastico regionale, ricevere una risposta per capire a quanto ammonta la spesa per un evento di queste proporzioni e in che parte lo Stato lo abbia finanziato. Quindi ci siamo rivolti a una società di organizzazione eventi, la Goodlink, per capire quale può essere la cifra in ballo. “Considerando che organizza lo Stato e non un privato, quindi ipotizzando numerose convenzioni – spiegano – possiamo stimare una spesa sicuramente superiore ai centomila euro. Ma se non ci fossero accordi, crescerebbe ancora”.
ECCO CHE, senza vedere con i propri occhi lo sviluppo dell’evento, molti genitori dopo aver letto le informazioni sulla giornata si sono opposti all’obbligo di far seguire ai propri figli l’orientamento. E in molti licei, come il Plauto per esempio, chi non è andato al Divino Amore oggi dovrà giustificare l’assenza. “A mia figlia – spiega la madre di un’alunna – hanno negato anche il diritto allo studio, perché è dovuta restare a casa. E ora avrà solo altre due ore per l’orientamento in una unica facoltà. É incerta ma non potrà vederne due”.
Un nutrito gruppo di genitori del liceo Tasso ha definito l’iniziativa “una vergogna”. “Ma vi rendete conto di quello che hanno avuto il coraggio di fare? – dice un genitore – si tratta di un evento con una forte impronta confessionale pagata con soldi pubblici. Esclude chi appartiene ad altre confessioni religiose o chi religioso non lo è. E vale anche come credito formativo. Uno scandalo”.
La regione Lazio, con l’assessore alla Formazione e Lavoro, Mariella Zezza, ha messo il cappello all’iniziativa spiegando che “l’orientamento per noi è un aspetto fondamentale del sistema dell’istruzione che forma per il mondo del lavoro”. A rispondergli la consigliera Idv, Giulia Rodano: “C’è sicuramente da chiedersi perché la Regione Lazio e il ministero abbiano promosso una giornata di orientamento scolastico con un taglio quasi confessionale o senz’altro non caratterizzato dalla laicità che dobbiamo esigere dall’istruzione pubblica. Chiederemo spiegazioni ufficiali agli assessori regionali competenti”.

l’Unità 15.3.11
«Il piano nucleare è sbagliato, altro che reazione emotiva»
Il segretario Pd: «Il governo devia l’attenzione dalle vere priorità che sono l’efficienza energetica l’investimento nella ricerca, le fonti rinnovabili»
di Simone Collini


Il Pd, annuncia in questa intervista Pier Luigi Bersani, sosterrà il referendum per abrogare la legge sul ritorno al nucleare.
Segretario, cosa risponde al governo, che definisce sbagliate le reazioni nostrane di fronte alla tragedia di Fukushima?
«Certamente si tratta di un caso estremo ed è vero che ci sono nel mondo generazioni di centrali più evolute. Tuttavia continuare a classificare come emotive le reazioni dell’opinione pubblica è sbagliato». Il governo non ce l’ha con l’opinione pubblica ma con voi che ne criticate il piano sul nucleare...
«E sbaglia perché c’è una diffusa percezione, anche a prescindere da questa tragedia, che la tecnologia del nucleare sia ancora molto giovane e presenti seri problemi, sia per quanto riguarda lo smaltimento delle scorie che per le conseguenze di eventuali incidenti».
Non sono frequenti incidenti simili.
«Non è la probabilità degli incidenti che suscita allarme, ma quanto siano tremende le potenziali conseguenze. A preoccuparci è il modo in cui il governo sta affrontando la questione. Già prima di quanto accaduto noi avevamo ottime ragioni, e le abbiamo ancora, per essere contrari al piano nucleare. Anzi, a questo fantapiano, che non ha nessuna fattibilità, che è economicamente svantaggioso e che prevedendo l’impiego di tecnologie non nostre ci renderebbe totalmente dipendenti da altri».
Non sarà fattibile ma intanto il governo va avanti e si sta discutendo il decreto sulla localizzazione dei siti delle nuove centrali.
«Stanno solo deviando l’attenzione dalle priorità, cioè efficienza energetica, rinnovabili, un’operazione di investimenti nella ricerca anche delle tecnologie nucleari. Il governo deve capire che se si vogliono fare le cose difficili, prima bisogna saper fare le facili». Fuor di metafora?
«Non stanno lavorando all’Agenzia di sicurezza, non hanno risolto il problema delle scorie già esistenti, non hanno smantellato le vecchie centrali, che sarebbe il vero allenamento per i nostri tecnici e le nostre capacità industriali. Non si stanno impegnando nei luoghi della ricerca per un nucleare che abbia strutturali condizioni di sicurezza e sostenibilità economica». Tra pochi mesi ci sarà un referendum sul piano del governo: cosa farà il Pd? «Lavoreremo perché dalle urne esca una risposta chiara contro questo piano. Abbiamo chiesto che i referendum vengano accorpati con il voto delle amministrative perché vogliamo che si raggiunga il quorum». Richiesta respinta. Non c’è il rischio che senza il raggiungimento del 50% dei votanti sia un boomerang? «Sappiamo che la strategia referendaria presenta questo problema, perché è da 24 consultazioni che il quorum non viene raggiunto e spesso si strumentalizza il risultato. Noi ci impegneremo comunque per fermare questo piano che poggia sulla sabbia ed è totalmente sbagliato».
La destra vi dirà che importiamo a caro prezzo energia e che voi non proponete alternative. «Non è vero. Anzi, proprio nel settore energetico il governo sta facendo perdere la faccia all’Italia quasi al pari del bunga bunga, mentre noi sosteniamo che si debba insistere sull’energia da fonti rinnovabili, un settore in grande crescita, con miliardi di finanziamenti provenienti da ogni parte del mondo, ma che ora il governo vuole distruggere con un decreto. Bloccato l’attuale sistema di incentivi, che comunque andrebbe risagomato, ci saranno banche che definanzieranno gli investimenti sugli impianti per le energie rinnovabili, con evidenti conseguenze sul piano occupazionale e della crescita economica. Che sono poi le vere priorità di questo paese». A giudicare dal dibattito politico, al di là della discussione sul nucleare innescata da Fukushima, la priorità al momento è la riforma della giustizia. «Ma perché abbiamo un governo del dopolavoro, che non sa e non vuole affrontare i veri problemi, che sono appunto la produzione industriale, l’occupazione, gli ammortizzatori in deroga, l’inflazione».
È perché non si discute di questo ma di giustizia che andate sull’Aventino? «Ma quale Aventino, non scherziamo. Siamo gli unici che stanno in Parlamento, anche se il governo l’ha ridotto uno straccio, costretto com’è a lavorare soltanto un giorno e mezzo alla settimana perché dall’esecutivo non arriva più niente».
È Casini che vi ha invitato a non andare sull’Aventino... «Noi siamo pronti a discutere in Parlamento, nessun Aventino. Ma non si parli di un fumoso dialogo. Ci sono Camera e Senato, ci si confronti lì». E voi che cosa direte? «Che è sbagliato affrontare la questione con legge costituzionale e poi rinviare le decisioni alla politica, cioè alla maggioranza e al governo. Non si possono dare in mano alla maggioranza di turno le leve per il controllo della magistratura, o la decisione sulle priorità per un’azione penale, che giustamente oggi è obbligatoria».
Però ci sono urgenze da affrontare nel settore giustiza, o no? «Sì, ma sono affrontabili con legge ordinaria. E noi siamo pronti a discuterne partendo dalle proposte che abbiamo già depositato in Parlamento». Anche sulla responsabilità dei magistrati in caso di colpa?
«Anche. Noi non siamo il partito dei giudici, io sono pronto a disturbare la magistratura. Ma lo voglio fare per l’efficienza per i cittadini, non per esigenze di Berlusconi. Tra poco il Parlamento può essere chiamato a pronunciarsi sul conflitto di attribuzione per i suoi processi. E questo sulla base del presupposto che Berlusconi abbia svolto azioni di distensione internazionale salvando la nipote di Mubarak. Vorrei ricordarlo anche a Casini, a cosa è costretto il Parlamento».

l’Unità 15.3.11
La giustizia secondo Tocqueville
di Giancarlo De Cataldo


Il grande intento della giustizia è sostituire l’idea della violenza con quella del diritto, e frapporre intermediari fra governo e uso della forza materiale». «Un potere elettivo che non sia sottoposto a un potere giudiziario prima o poi sfugge a ogni controllo o viene distrutto». «L’estensione del potere giudiziario nel mondo politico deve dunque corrispondere all’estensione del potere elettivo. Se le due cose non procedono di concerto, lo Stato finisce col precipitare nell’anarchia, o nella servitù». Negli Stati Uniti d’America, «l’autorità conferita ai giuristi e l’influsso che di conseguenza essi esercitano sul governo costituiscono oggi la più forte barriera contro gli eccessi della democrazia». I giudici americani hanno «il potere di non applicare le leggi che dovessero sembrare loro incostituzionali». «Rinchiuso entro i suoi limiti, il potere accordato ai tribunali americani di pronunciarsi sull’incostituzionalità delle leggi risulta ancora una delle più forti barriere mai erette contro la tirannia delle assemblee pubbliche».
Le citazioni che precedono sono tratte da La democrazia in America di Alexis de Tocqueville (1805-1859), uno dei testi più citati e meno letti dell’evo moderno. Chi volesse prendersi la briga di controllare può consultare agevolmente l’edizione dei Millenni Einaudi (anno 2006, a cura di Corrado Vivanti). Scoprirà, fra l’altro, che la “bestia nera” di Tocqueville non era certo la dittatura dei giudici. Era la dittatura della maggioranza, che «vive nella perpetua adorazione di se stessa». È opportuno ricordare che Tocqueville fu magistrato (nessuno è perfetto), deputato (anche allora, evidentemente, i passaggi di carriera erano ammessi), eletto nel centro-sinistra del tempo (si capisce: era nobile e ricco di famiglia, dunque radical-chic).

Corriere della Sera 15.3.11
Fioroni attacca la leadership pd: serve un ricambio generazionale
di  M. T. M.


ROMA— La tregua sottoscritta dai leader del Partito democratico per le amministrative sembra già vacillare. La scorsa settimana c’è stato il convegno promosso dalla fondazione di Walter Veltroni, in cui il sindaco di Firenze Matteo Renzi non ha risparmiato critiche all’indirizzo dell’attuale dirigenza del Pd. Questa settimana, invece, tocca all’ala ex ppi della minoranza interna— la componente che fa capo a Beppe Fioroni, per intendersi — che ha deciso di dotarsi di un proprio giornale, il Domani d’Italia, che andrà anche sul web e potrà essere scaricato sull’Ipad. Un’iniziativa editoriale che farà discutere sicuramente il partito. Basta leggere l’editoriale di Fioroni pubblicato sul primo numero, in cui il responsabile Welfare invita il partito a procedere a un ricambio generazionale in tempi brevi, perché al prossimo appuntamento elettorale il Pd non potrà presentarsi con gli attuali dirigenti. Un modo, neanche tanto indiretto, per dire che non potrà essere il segretario Pier Luigi Bersani a guidare lo schieramento del centrosinistra alle elezioni politiche. Secondo l’ex ppi, infatti, Berlusconi è «al capolinea» , perciò, scrive, «la prima domanda che dobbiamo farci è: possiamo pensare che il domani, dopo Berlusconi, sia rappresentato da un centrosinistra che invece ha le stesse facce di ieri? O non è forse arrivata l’ora anche per noi di avere coraggio? Dobbiamo sapere che al prossimo appuntamento elettorale il Pd dovrà presentarsi mettendo in campo una nuova generazione: una rete di uomini e di donne nuovi, che non hanno guidato il Paese prima e durante Berlusconi» . Per Fioroni una sola cosa i dirigenti del Pd non possono fare: «stare fermi» . Dunque, avverte l’esponente della minoranza, occorre andare «oltre Berlusconi e gli anti-Berlusconi» . Altrimenti il rischio è che «l’uscita dalla scena politica» del premier, «vero collante di questi ultimi quindici anni» , provochi «anche l’implosione degli altri poli» e «a quel punto scatterebbe il tana libera tutti» . Un messaggio più che chiaro a Bersani: se il Partito democratico non dovesse cambiare, ma rimanesse quello attuale, cioè un partito di sinistra, erede del fu Pci, gli ex popolari— che si erano alleati con i Ds «perché c’era Berlusconi dall’altra parte» — non avrebbero più motivo di restare dentro il Pd. Del resto, le fibrillazioni dell’ala ex popolare non sono una novità di questi giorni per il Partito democratico. Non è un caso, infatti, che la maggior parte dei parlamentari che alla Camera e al Senato hanno lasciato i gruppi del Ppi per andare nell’Udc di Pier Ferdinando Casini e nell’Api di Francesco Rutelli provenisse proprio da quell’area. Ma il gruppo dirigente del partito è pronto a fare un passo indietro e ad aprire le porte ai Renzi, agli Zingaretti e agli altri giovani? A sentire Dario Franceschini parrebbe proprio di no: «Nessun cambio di leadership — avverte il capogruppo alla Camera— perché sarebbe autolesionismo» . Non è escluso comunque che, nonostante la tregua delle amministrative, il tema del ricambio venga affrontato nella Direzione prevista per lunedì 28 marzo.

il Fatto 15.3.11
Bengasi, sindrome Stalingrado
Le forze di Gheddafi accerchiano la città ribelle
di Stefano Citati


È tra i viali polverosi e gli edifici bassi dai muri scrostati di Ajdabya che si gioca la sopravvivenza delle terre liberate di Bengasi e dei suoi milioni di abitanti. Da ieri intensi raid aerei e attacchi terrestri hanno preso di mira la cittadina a 170 chilometri a sudovest della “capitale” dei ribelli, divenuta il nuovo fronte di guerra dopo il “ripiegamento” delle forze patriote (talmente rapido da dare l’impressione di una rotta precipitosa). La città di 100mila abitanti diventa il bastione meridionale a difesa di Bengasi, mentre una minaccia ancora difficilmente quantificabile si affaccia alle spalle della città portuale che ormai un mese fa si è ribellata a Gheddafi: le truppe del Colonnello avrebbero aggirato le forze ribelli e avrebbe raggiunto attraverso il deserto Tobruk, cittadina costiera a 400 chilometri a est di e a 150 chilometri dal confine con l’Egitto.
L’armata del Comitato nazionale della Cirenaica circa 8mila uomini sul fronte occidentale che teneva fino a 48 ore fa le posizioni dei terminali petroliferi di Ras Lanuf e Brega, e altri 10mila a Bengasi si troverebbe chiusa in una morsa, con alle spalle il mare: unica via di fuga, e di rifornimento; di fronte l’esercito regolare fedele al raìs rinforzato dai mercenari subsahariani.
È LA SINDROME DI Stalingrado, dell’accerchiamento che prima colpì la città sovietica e poi le armate di Hitler chiuse nella sacca dell’Armata Rossa. A Bengasi è già panico e caccia all’“africano”, ai neri immigrati che sarebbero considerati indistintamente tutti traditori; mentre i capi militari che comandano i volontari ammettono che la situazione sul terreno è complicata se non drammatica e che l’unico modo che hanno gli insorti di contrastare l’avanzata dei gheddafiani è la guerriglia, il combattimento casa per casa. E sembrano ora profetiche le minacce di Muhammar e Said Gheddafi, padre e figlio, che avevano promesso di “stanare i ratti” e di “venire a prendervi”: il nemico adesso è alle porte e si aspetta di vederlo sbucare lungo la linea dritta della strada che viene da ovest, da Brega e affacciarsi tra i due archi dipinti di verde a guardia dell’ingresso di Ajdabya. Dall’altra parte, nella retorica vincente del regime di Tripoli, i trionfi del fine settimana sono considerati come passi decisivi della riconquista generale delle città ribelli: anche Zuwarah, dopo la strenua resistenza di Zawiya, è stata piegata: di fatto la Tripolitania sarebbe tornata appieno sotto il controllo di Gheddafi. Ora tocca alla Cirenaica e l’accelerazionedell’avanzatadelletruppe di Tripoli si spiega adesso con l’attendismo strategico che ha tenuto per giorni il fronte a metà strada tra la capitale del raìs e l’“altra capitale”, quella degli insorti. Nel frattempo tra attacchi e controattacchi, drappelli di uomini del Colonnello si sarebbero infiltrati nelle piste del deserto probabilmente con l’intesa delle tribù beduine del Sahara libico e risalito lungo la zona di confine con l’Egitto (sfiorando i resti della lunga barriera di filo spinato che il regime fascista distese sulle sabbie libiche per frenare l’ingresso dei nomadi negli Anni ‘30) per spuntare nei sobborghi di Tobruk e prepararsi a conquistare la città simbolo della Seconda guerra mondiale contesa tra le forze dell’Asse e gli Alleati.
In mezzo ai due contendenti resta praticamente immobile la comunità internazionale la cui dignità rischia di rimanere stritolata dai fatti della guerra: l’inazione e il continuo rimbalzo di decisioni sta portando Europa, America e paesi arabi fuori tempo massimo ad assistere impassibili e intenti a fare calcoli politici, diplomatici, ed economici alla promessa di un massacro che Gheddafi si potrà giocare come merce di scambio per una sopravvivenza che adesso appare lunghissima, e ancor più sanguinosa.

il Fatto 15.3.11
Dario Fo: “Ancora in piazza il Pdl ha paura”
Il premio Nobel: è una voglia incredibile di denuncia
di Fabrizio d’Esposito


Silvio Berlusconi “è scemo”. Dario Fo dixit. Sabato scorso, nella piazza del C-day a Milano che ha avuto il premio Nobel tra i suoi mattatori.
Ribadisce?
Certo. Con le cose che dice e che fa, è fuori di testa a livello di scemenza.
Però il Guardasigilli un po’ sveglio lo è. Dopo la piazza ha annunciato il ritiro della norma transitoria sul processo breve.
La piazza li spaventa. Ha notato che i tg non ne hanno parlato? La piazza non sta alle regole, per questo ne hanno paura. Del resto che regole può avere un Carnevale?
Un Carnevale?
Sì. Bisognerebbe studiare la quantità enorme di Carnevali proibiti nella storia dalla Chiesa. E a Milano è stato un Carnevale bellissimo. La gente ha una voglia incredibile di denuncia, di partecipazione. Non vuole solo il verso al potere.
C’è anche chi vi prende in giro. Ieri sul Corsera Battista ha fatto il diario ironico del sincero militante . Una sorta di piazza continua.
Questa è la tipica reazione negativa dei conformisti. Sono intellettuali di un certo livore che amano il bon ton. L’opposizione da tempo è caduta nella loro trappola.
Per esempio?
Con la scusa di non fare cose sgarbate, di stare attenta a questo o quello, l’opposizione ha accettato compromessi all’insegna della tranquillità. Adesso però qualcosa sta davvero cambiando.
Il C-day, le donne, gli studenti.
Stanno venendo fuori nuove forme e nuovi linguaggi, soprattutto dalle donne. Poi toccherà ai disperati, ai senza lavoro, persino alla polizia. È la base che si muove.
Una rivoluzione.
Io c’ero quando è cominciato il Sessantotto. Avevo già più di quarant’anni. Che fantasia, che creatività! Spero che si possa arrivare a un altro momento del genere.
L’Undici antiberlusconiano.
La critica è più radicale e riguarda tutta la politica, nessuno escluso. Poi ovviamente ci sono le truffalderie da taverna di Berlusconi. L’ultima è quella del cerotto in faccia.
È stato operato. Altre conseguenze dell’aggressione di Tartaglia.
Mica è stato operato da fuori. Ho parlato con vari chirurghi e tutti mi hanno detto che avevo ragione. Quel ce-rottone è stato messo per fare scena. Ma che cazzo d’invenzione !
Lei sobilla.
Io sollazzo. E faccio sollazzare. A Milano, prima che prendessi la parola, la gente non aveva avuto una reazione a quello che stava ascoltando.
E poi?
Ho parlato io. L’ho buttata in ironia, in sollazzo appunto. E lo sa con quali argomenti? Con la pura cronaca. Oggi basta raccontare quello che sta succedendo. Però senza discorsi, senza interminabili concioni pubbliche.
Un nuovo linguaggio.
Appunto. E tutto dipende da noi, dalle nostre invenzioni, dal piacere di essere intelligenti. La gente vuole questo.
Ne è sicuro?
Sto a casa pochissimo. Vado continuamente in giro. Peraltro, con questa crisi dei teatri vuoti, sto ricevendo decine di offerte per riempirli . La gente, dicevo, la vedo e percepisco una disponibilità straordinaria ad accogliere nuovi discorsi.
La ministra Gelmini dice che in piazza vanno quelli che mandano i figli alle scuole private.
Sono gli stupidi trucchi del potere. È il ricco che dice al povero: “Non fidarti, sono figli di ricchi”. In realtà, quelli come la Gelmini, sono i servi dei ricchi.
E fanno anche le riforme. Ultima: la giustizia.
Una bidonata tremenda. Un orrendo gioco delle tre carte.
Berlusconi “scemo” e Bossi “in esilio”.
Mi riferivo alle rivoluzioni del Mediterraneo, dove spero che i libici facciano tutto da soli senza interventi esterni.
E il Senatur?
Ho detto che sognavo di vedere arrivare da noi centinaia di arabi puliti e ordinati, che chiedono di essere rispettati. A quel punto a Bossi non resterebbe che scappare in esilio in Svizzera.
Il centrodestra ha attaccato pure su Ingroia in piazza.
Gli ha dato un fastidio della Madonna. Il potere non accetta discorsi espliciti e diretti. Ne ha paura come dicevo prima.
Ancora piazza, allora.
Sì, tutto sta nel creare un tormentone coinvolgendo le donne, gli studenti, i precari. Non bisogna fermarsi. Glielo dice uno che il potere ha tentato di fermare coi processi e con la censura. Continuiamo questo Carnevale. La storia dell’uomo è fatta di queste fasi. Il risus paschalis ha sempre fatto paura.
E il bon ton?
Non ce l’avevano nemmeno Dante e Boccaccio.

Repubblica 15.3.11
I cattolici tedeschi e il biotestamento
di Adriano Prosperi


È così difficile ragionare sulle cose italiane. E, più che difficile, sembra quasi un lusso parlare della diatriba sulla legge del «fine vita» sullo sfondo di una cronaca del mondo dove la violenza della natura e quella degli uomini falciano vite senza regola e senza leggi. Eppure bisogna tentare di farlo, almeno per reagire all´uso strumentale di questo progetto di legge e al clima che si è voluto creare intorno ad esso. Si va rapidamente all´approvazione di norme sul testamento biologico in un clima di crociata che il governo attuale ha fortemente voluto e sul quale conta per far passare inosservate le prove processuali che attendono il premier. In questo clima la stampa cattolica ha messo la sordina a qualunque critica e si è schierata dietro la bandiera della «indisponibilità della vita». Monsignor Luigi Negri vescovo di San Marino ha chiamato a raccolta per la difesa di «principi non negoziabili». E questa sembra la parola d´ordine più diffusa, anche se un altro vescovo, Luigi Bettazzi, ha ricordato al confratello che il dovere di tutelare la vita si esprime soprattutto con l´aiuto a tutte le vite minacciate: da quelle degli immigrati in fuga dalla miseria insopportabile e dalla persecuzione politica (il lettore pensa a Gheddafi e al supporto italiano al suo regime) a quelle dei bambini che non nascono perché non ci sono da noi leggi come quelle della «laica» Francia che incoraggiano il matrimonio e la procreazione; e fino a quelle dei giovani senza lavoro condannati alla disperazione. E che dire di quella idolatria del danaro e del successo che porta le famiglie a incoraggiare le ragazze di casa a vendersi ad alto prezzo? Ma sullo sfondo di questi garbati dissensi resta l´ombra di un pericolo contro il quale il fronte cattolico appare compatto: l´eutanasia.
Ora, poiché per i malati terminali non ci sarà la possibilità di quel turismo sanitario praticato da chi ha voluto avere figli sfuggendo alle forche della legge 40 sulla fecondazione assistita, sarebbe bene confrontare il caso italiano con quello della Germania. Come ha raccontato Marlis Ingemney in un articolo molto preciso e informato uscito su Micromega on-line, qui le Chiese cristiane tutte, inclusa quella cattolica, hanno dedicato assidue riflessioni alla questione. Nel 1975 avevano pubblicato un opuscolo per i fedeli molto preciso e dettagliato. Lo hanno ripreso e rielaborato con un lavoro durato diciannove mesi dopo che il Bundestag ha approvato nel giugno 2009 la legge sulle «disposizioni del paziente». La legge tedesca parla di «diritto alla vita» e non della vita come dovere, come obbligo; e impone il rispetto delle disposizioni date dai singoli nel quadro della intangibile dignità dell´uomo come individuo, affidando al potere statale solo l´obbligo di difendere la vita individuale se minacciata dall´intervento di terzi. Di questa legge le Chiese nel loro documento hanno criticato lo squilibrio tra il rispetto dell´autodeterminazione e la mancanza di una concreta presa in carico del paziente, chiedendo una assistenza alle persone capace di perfezionare e rendere effettiva quella autonomia dei singoli. Ma intanto già nel documento del 1975 il Consiglio permanente delle Chiese aveva riconosciuto il diritto di ognuno a una morte dignitosa e da qui aveva dedotto che fosse «eticamente ammissibile» rinunciare a interventi e trattamenti sanitari straordinari per prolungare artificialmente una vita senza speranza. «La morale non richiede terapie a ogni costo»: questa frase introdotta nel testo tedesco del 1992 del Catechismo post-conciliare cattolico segnò già allora la via che si voleva battere. Oggi che la nuova normativa riconosce il diritto individuale a rifiutare anche i trattamenti medici salvavita, le Chiese non contestano quel diritto, anzi lo riconoscono ammettendo esplicitamente la possibilità di una «eutanasia passiva» o «indiretta». Si limitano a chiedere ai fedeli di avvalersene solo quando ci si trovi nello stadio terminale di una malattia incurabile. In un modulo allegato al testo il lettore può barrare precise caselle per richiedere per esempio che solo col consenso del paziente o dei suoi fiduciari si possa procedere alla nutrizione e idratazione artificiale o alla somministrazione di farmaci che possano alleviare i dolori anche se c´è il rischio di abbreviare così la vita del moribondo.
Ma il punto più interessante per i lettori italiani ossessionati dal battage indegno di nuovo orchestrato intorno al caso Englaro è quello che riguarda non la persona di cui sia imminente o prevedibile la morte, ma la persona che versa in stato vegetativo persistente. Chi vorrà dare indicazioni per l´ipotesi di trovarsi un giorno nella condizione angosciosa di tale stato, potrà farlo anche secondo i vescovi tedeschi, che hanno finito con l´accordarsi sostanzialmente con gli evangelici su questo delicatissimo punto. Nel modulo allegato al testo si può barrare una casella che chiede la cessazione di tutti i trattamenti salvavita inclusa la nutrizione artificiale per chi, caduto nello stato vegetativo, vi permanesse per un lungo periodo (per esempio un anno) o fosse minacciato da una malattia intercorrente acuta.
Perché queste differenze tra Chiesa cattolica tedesca e Chiesa cattolica italiana? Perché ciò che è tranquillamente ammesso in un paese è severamente vietato nell´altro? Bene, il caso non è nuovo. Già secoli fa, ai tedeschi rimasti cattolici la Chiesa di Roma riserbò su molte questioni un trattamento diverso rispetto a quelli italiani: se ne potrebbe dare un lungo elenco. Ma a questa differenza che ebbe le sue evidenti ragioni tattiche nella necessità di fronteggiare la sfida della Riforma protestante si sono aggiunti nel corso dei secoli motivi legati al regime di dialogo tra confessioni e fedi diverse. La libertà di coscienza ha dato vita a un confronto che ha coinvolto i rapporti tra Chiese e stato, tra l´ordinamento laico e l´esperienza di lunga durata dell´ordinamento ecclesiastico. Da qui la serietà di una riflessione attenta e partecipe sugli imprevisti che possono minacciare la dignità della vita individuale e la volontà di dimostrare coi fatti la capacità del corpo ecclesiastico di contribuire concretamente alla tutela della dignità dell´essere umano. Visto dall´Italia vaticana, questo paesaggio sembra molto lontano. E forse alla fine quell´Inferno che un papa tedesco ha cominciato a mettere in discussione finirà col restare aperto solo per gli italiani.

Corriere della Sera 15.3.11
A quattro giorni dal verdetto della Corte europea dei diritti dell’uomo, che in modo inappellabile dovrà esprimersi sulla legittimità della presenza dei crocifissi nelle scuole italiane
La Cassazione: garantito il principio di laicità
Verdetto sul crocifisso «Unico simbolo negli uffici pubblici»
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — A quattro giorni dal verdetto della Corte europea dei diritti dell’uomo, che in modo inappellabile dovrà esprimersi sulla legittimità della presenza dei crocifissi nelle scuole italiane (una decisione molto attesa da parte dei vertici della Chiesa), la Cassazione ha stabilito che «il principio di laicità dello Stato» non può essere «assolutamente» posto «in dubbio» a motivo della presenza del crocifisso nelle aule di giustizia o negli altri uffici pubblici. Mentre per esporre altri simboli religiosi, ad esempio quelli della religione ebraica, ci vuole una nuova legge dello Stato. Con questa motivazione le sezioni unite civili della Suprema Corte hanno confermato la rimozione di Luigi Tosti, il giudice di pace del tribunale di Camerino, sanzionato dal Csm con la perdita del posto, visto che, pur essendogli stata assegnata un’aula senza crocifisso per tenere le sue udienze, aveva continuato a rifiutarsi di lavorare, perché contestava la presenza del crocifisso in tutte le aule di giustizia d’Italia. Con ciò stesso aveva creato un disservizio che, correttamente il Csm ha sanzionato con il suo «verdetto» disciplinare. Fra l’altro, si legge nella motivazione della sentenza, l’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici, può non essere affatto vissuto come un pericolo per la libertà religiosa di chi non è cristiano. «La presenza di un crocifisso — scrive il massimo organo giurisdizionale — può non costituire necessariamente minaccia ai propri diritti di libertà religiosa per tutti quelli che frequentano un’aula di giustizia per i più svariati motivi e non solo necessariamente per essere tali utenti dei cristiani» , scrivono i supremi giudici. Ma la sentenza della Cassazione ha stabilito anche un secondo principio: e cioè che nei pubblici uffici italiani, tra i quali rientrano anche le aule di giustizia, si può esporre solo il simbolo del crocifisso e per esporvi simboli religiosi diversi «è necessaria una scelta discrezionale del legislatore, che allo stato non sussiste» . Questo ad esempio vale anche per i simboli della religione ebraica, come chiedeva il giudice Tosti. Il radicale Maurizio Turco, presidente di «anticlericali. net» , contesta anche questo aspetto della «quanto meno curiosa» decisione, «se non altro perché il crocifisso viene appeso a seguito di una circolare fascista del ministero di Grazia e giustizia del 29 maggio del 1926, sulla quale il legislatore non si è mai espresso» . Per il resto, soddisfazione bipartisan. Dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno, al deputato del Pd, Stefano Graziano, al vicepresidente dei senatori del Pdl, Laura Bianconi. «Staccarlo dal muro è azione barbara e crudele» ha detto il senatore della Lega Giuseppe Leoni. L’imam Yahya Pallavicini, della Coreis, ha dichiarato: «Come musulmani, non abbiamo nessuna riserva sulla presenza del crocifisso nei tribunali» . Il senatore del Pd, e costituzionalista, Stefano Ceccanti, sostiene che «dalla Cassazione arriva una sentenza che l’Europa può confermare» , segnalando che «essa si muove nel solco della sentenza Folgero contro Norvegia della Corte di Strasburgo del 29 giugno 2007, che potrebbe ispirare anche la sentenza di venerdì prossimo» . «Secondo la Cassazione— spiega Ceccanti— il principio di laicità dello Stato nel nostro ordinamento non esclude la presenza del crocifisso e di simboli religiosi nello spazio pubblico perché le istituzioni sono separate dalle confessioni religiose, ma non dalla società civile in cui vivono anche le esperienze religiose, anche se il singolo può legittimamente richiederne la rimozione» . «Nel caso Folgero la Corte di Strasburgo riconobbe che nell’impostare l’insegnamento della materia cristianesimo, religione e filosofia, la Norvegia aveva il diritto di basarsi sulla storia nazionale e la tradizione, ma che aveva anche il dovere di prevedere l’esonero. Una soluzione analoga a quella adottata in Baviera per i crocifissi nelle scuole» .

Repubblica 15.3.11
Crocifisso, un paese a laicità limitata
di Chiara Saraceno


La Cassazione ha depositato la sentenza con cui conferma la rimozione del giudice di pace di Camerino che rifiutava di tenere udienza in tribunali dove c´è il crocifisso.
Il giudice Luigi Tosti considerava la presenza di questo, unico, simbolo religioso una lesione della libertà di coscienza dei cittadini, particolarmente grave perché attuata in un luogo - il Tribunale - dove l´uguaglianza, la non discriminazione, la neutralità di fronte agli orientamenti di valore dovrebbero essere proclamati in modo esplicito.
Non entro in merito alla correttezza della decisione relativa al giudice "obiettore", ovvero al giudizio di non legittimità circa il suo rifiuto ad esercitare i suoi obblighi professionali in circostanze da lui considerate inaccettabili non solo per sé, ma per i cittadini. Mi auguro solo che tale rigore venga esercitato anche nei confronti di quei medici o farmacisti che, in nome delle loro opzioni di valore, si rifiutano di prescrivere o vendere la pillola del giorno dopo.
È la motivazione della sentenza che trovo inaccettabile per ciò che dice non sul giudice, ma sul rispetto della libertà di coscienza dei cittadini e sulla laicità delle istituzioni pubbliche. I giudici della Suprema Corte, infatti, da un lato propongono una duplice definizione di laicità: una per addizione (pluralismo di riferimenti religiosi) e una per sottrazione (assenza di riferimenti). Laddove è solo la seconda che configura un atteggiamento laico, specie nello spazio pubblico: che deve essere per definizione neutrale in un contesto non solo di pluralismo religioso, ma anche di persone che non hanno alcun riferimento religioso.
Dall´altro lato, i giudici affermano che «la presenza di un Crocifisso può non costituire necessariamente minaccia ai propri diritti di libertà religiosa per tutti quelli che frequentano un´aula di giustizia per i più svariati motivi e non solo necessariamente per essere tali utenti dei cristiani». La contorta formulazione «può non costituire necessariamente minaccia» lascia di fatto aperta la possibilità che, invece, per alcuni o per molti, la costituisca, il che dovrebbe preoccupare chi ha la responsabilità di garantire l´imparzialità.
Soprattutto, la Corte non offre elementi a dimostrazione che l´esposizione del crocifisso in un´aula di tribunale non lede «necessariamente» la libertà di coscienza dei non cristiani. Afferma semplicemente che è così, con buona pace di chi viceversa si sente leso nella propria libertà. Lo Stato, la Suprema corte, non se ne preoccupano. Tanto meno stanno dalla sua parte. Si limitano a dirgli che si sbaglia.
Con la sua affermazione, più che rovesciare l´onere della prova su chi percepisce la presenza di un simbolo religioso come una lesione alla neutralità dello spazio pubblico, la Corte ha sottratto lo stesso terreno del contendere. Una ennesima conferma che siamo un Paese a laicità limitata.

Corriere della Sera 15.3.11
Schizofrenia, com’è difficile distinguere la follia dalla normalità
di Massimo Ammaniti


L a storia del matematico John Nash, a cui fu assegnato nel 1994 il premio Nobel per i suoi studi di matematica applicata alla teoria dei giochi, ci fa vedere come genialità e schizofrenia possano convivere, anche se nei periodi in cui Nash era tormentato dalle sue idee deliranti si isolava dal mondo e aveva serie difficoltà nel proseguire i suoi studi. Nel film Beautiful mind che ricostruisce la storia di Nash si vedono le continue interferenze nella sua mente legate al disturbo psichico, come ad esempio idee angosciose, di essere vittima di messaggi criptati provenienti da extraterrestri che rendevano difficile la sua applicazione agli studi come anche la vita sociale. Ancora oggi ci si chiede quale sia l’origine di questo complesso disturbo del pensiero, che riguarda circa lo 0,5-1%della popolazione. Circa un secolo fa Freud pubblicò il saggio Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia che cercava di esplorare l’origine di questa grave patologia mentale, che sarebbe stata definita schizofrenia. Nonostante il terreno preferito da Freud fosse quello delle nevrosi, che rappresentavano una patologia meno grave, il grande Maestro ebbe «l’occasione— come lui stesso scrive — di spingere lo sguardo nelle strutture profonde della paranoia» . Lo stimolo gli era stato offerto dal libro Memorie di un malato di nervi (Adelphi, 1974), un’autobiografia scritta dal presidente della Corte d’appello di Dresda, Daniel Paul Schreber, sulla propria malattia mentale, che aveva comportato ripetuti ricoveri in ospedale. Come racconta Freud, il giudice Schreber viveva in un mondo delirante in cui si sentiva chiamato a redimere l’umanità dopo la sua trasformazione in donna, «un dovere» a cui non si poteva sottrarre perché era iscritto nell’Ordine del Mondo. L’interpretazione di Freud sull’origine della paranoia nella mente del giudice è esclusivamente psicologica, si sarebbe trattato di «un assalto di libido omosessuale» che il giudice Schreber provava verso il professor Flechsig, lo psichiatra che lo aveva in cura, ma dietro cui si sarebbe celata l’immagine del padre. E queste pulsioni omosessuali erano inaccettabili per la rigida moralità del giudice, anche se poi sarebbero riemerse nelle sue idee deliranti. Con l’affermarsi della psichiatria sociale negli anni 60 vengono temporaneamente accantonati gli studi per scoprire le cause della schizofrenia e l’attenzione si sposta sulle condizioni di vita dei malati mentali, vittime di pregiudizi e discriminazioni prima all’interno della famiglia e poi a livello sociale. Anche in Italia lo psichiatra Franco Basaglia punta il dito sulle condizioni degli ospedali psichiatrici, luoghi di reclusione e non di cura dove il destino dei malati mentali è definitivamente segnato. Tuttavia l’enigma della schizofrenia rimane irrisolto: perché durante l’adolescenza o l’età giovanile compaiono allucinazioni, disturbi deliranti e perdita di motivazione e di partecipazione alla vita sociale? Attorno alla schizofrenia vi è uno stigma ingiustificato, dal momento che la violenza non ne rappresenta un sintomo specifico e solo in misura limitatissima i malati sono autori di omicidi, a cui tuttavia i media danno un rilievo spropositato creando una falsa percezione della loro pericolosità. È indubbio che molti pregiudizi possono essere sfatati se la ricerca in questo campo può far luce nel mondo della schizofrenia e aiutarci a comprendere l’esperienza complessa e contraddittoria di chi va incontro a questo disturbo. Nonostante l’avvento di nuovi metodi di indagine, come ad esempio le tecniche di visualizzazione del cervello, la schizofrenia rimane ancora oggi una sfida per i clinici e per i ricercatori. Uno degli ultimi fascicoli della prestigiosa rivista scientifica Nature, dedicato a questo tema, ha un titolo emblematico «Combating schizophrenia» (Combattendo la schizofrenia) che mette in luce le scoraggianti complessità della ricerca in questo campo. E quali sono le nuove scoperte della ricerca nel campo della schizofrenia? Un dato sottolineato da clinici e ricercatori è il fatto che questo disturbo compare perlopiù durante l’adolescenza, anche se non è facile riconoscerlo, perché i profondi cambiamenti cognitivi, emotivi e comportamentali che compaiono in questo periodo possono mascherare l’insorgere di questo disturbo che si manifesta inizialmente con una crisi di identità. Vale la pena ricordare che i cambiamenti in adolescenza riguardano anche il cervello che va incontro ad una maturazione con una potatura di alcuni circuiti cerebrali, per cui quelli meno usati vengono tagliati via mentre i circuiti più usati si rafforzano ed acquisiscono maggiore funzionalità. Fra i ricercatori sta emergendo l’ipotesi che questo processo di rimodellamento del cervello non risponda, negli adolescenti che svilupperanno la schizofrenia, ad un piano coordinato e funzionale ma avvenga in modo irregolare e contraddittorio. Non è molto diverso da quanto viene sostenuto dallo psichiatra americano Robert Freedman nel suo libro The madness within us (La pazzia dentro di noi; Oxford University Press, 2010, pp. 198). Per Freedman la schizofrenia sarebbe legata a un’incapacità a regolare sul piano cerebrale l’attenzione, ad esempio indirizzare il focus dell’interesse per una persona oppure per un oggetto o una pagina di un libro, ignorando gli altri stimoli ritenuti non rilevanti. Le persone affette da questo disturbo sono catturate da ogni stimolo dell’ambiente e l’unico modo per difendersi dal bombardamento di stimoli è quello di isolarsi e non rispondere a quello che succede intorno oppure di inserire questi stimoli nelle allucinazioni e nei pensieri deliranti. Questo è ben documentato nel film Beautiful mind in cui John Nash, non riesce a concentrarsi sui problemi matematici perché ostacolato da immagini visive di persone non presenti, che probabilmente condensavano la molteplicità di stimoli a cui era sottoposto. Non si tratta solo di una teoria che riguarda il cervello, è anche psicologica, perché alcuni sintomi tipici della schizofrenia possono rappresentare una strategia per difendersi da una tensione insopportabile, come può succedere ad ognuno di noi quando ci si allontana dalla realtà rifugiandosi nelle proprie fantasie. Si tratterebbe di una vulnerabilità genetica complessa, che nella forma più completa si esprime nella schizofrenia, ma che può comparire in forme anche parziali contribuendo alla grande varietà del funzionamento mentale, che rende le interazioni umane più ricche e contraddittorie rispetto alla vita sociale di altre specie. Forse è proprio quest’ultima considerazione che ha spinto Freedman a intitolare il suo libro La pazzia dentro di noi, essendo difficile distinguere nettamente la follia dalla normalità, come nel romanzo Fratelli di Carmelo Samonà ripubblicato recentemente da Sellerio in cui il fratello normale e quello malato si inseguono e si rispecchiano vicendevolmente: «La nostra storia è tutta in queste violazioni di territorio, che si susseguono da una parte e dall’altra sino a confondere i nomi e i volti» .

Repubblica 15.3.11
Addio fame, abbiamo cibo per 9 miliardi di persone
di Maurizio Ricci


Emergenza acqua: la disponibilità è già diminuita del 60% nei paesi in via di sviluppo
Dovrà scendere l´utilizzo della carne, dimezzando gli allevamenti intensivi
Entro il 2050 la popolazione aumenterà di circa il 30%. Ma per nutrirla sarà necessario far crescere le risorse del 50%. Due strade obbligate per riuscirci: sviluppo tecnico e agricoltura organica e sostenibile

DUE SECOLI FA Thomas Malthus dichiarò che l´uomo non sarebbe riuscito a sfamare una popolazione sempre crescente. Ma la previsione è stata regolarmente smentita. Anche oggi che si torna a parlare di "crisi del cibo". I prezzi toccano livelli record, i magazzini si assottigliano, i nuovi raccolti sono in dubbio.
È il simbolo intellettuale del pessimismo. È anche l´economista che deve la sua vasta popolarità al fatto di essersi sbagliato: da quando, due secoli fa, Thomas Malthus dichiarò che l´uomo non sarebbe riuscito a sfamare una popolazione sempre crescente, la previsione è stata regolarmente smentita. Eppure, il suo fantasma continua a ripresentarsi. Anche oggi. Probabilmente, sarà smentito anche questa volta. Però, non è facile vedere come. In un mondo, apparentemente, sempre più prospero, si torna, infatti, a parlare di "crisi del cibo", a soli tre anni di distanza dalla precedente, quella del 2008, che vide la gente scendere in strada, ai quattro angoli della Terra, a reclamare tortillas o ciotole di riso. I prezzi toccano livelli record, i magazzini si assottigliano, i nuovi raccolti sono in dubbio. Allunghiamo lo sguardo ed ecco l´ombra di Malthus.
Nel 2050, saremo sulla Terra in 9 miliardi, due più di oggi. Aggiungiamoci il miliardo che, già oggi, non riusciamo a sfamare e ci troviamo con il problema di apparecchiare la tavola per tre miliardi di persone che, attualmente, sono fuori dalla porta o ancora non sono arrivati. Le avete, chiederebbe Malthus, le risorse per riempire la pancia a tutti? Sulla base dell´esperienza storica, caro Malthus, la risposta è sì. Lo abbiamo appena dimostrato. Da qui al 2050, la popolazione aumenterà un po´ più del 30%. Per farla mangiare, occorre che la produzione di riso, grano, mais aumenti del 50%. Sembrano numeri enormi. Però, dal 1970 al 2010, la popolazione è aumentata dell´80%. E la produzione agricola del 250%. Ma siete in grado, potrebbe chiedere ancora Malthus, di ripetere il miracolo? E la risposta è: forse no. Manca la terra, manca l´acqua e il trucco che ha funzionato in questi anni si è esaurito.
La via più immediata per aumentare la produzione agricola è allargare le terre messe a coltura. Il problema è che quelle disponibili sono sempre di meno. Su 4 miliardi di ettari potenzialmente arabili, sottolinea ActionAid, una Ong internazionale, più della metà sono compromessi da erosione, desertificazione e inarrestabile sviluppo delle città. Inoltre, la terra che coltiviamo è anche sempre meno dedicata alla produzione di cibo. Il 40% del mais degli Stati Uniti è dirottato alla produzione di biocombustibili. La Fao ritiene che se Usa, Europa, Giappone Brasile raggiungessero gli obiettivi che si sono fissati per la produzione di biocarburanti, sequestrerebbero per i serbatoi delle auto un decimo dei cereali del mondo.
La situazione dell´acqua è anche peggiore. Inutile sperare troppo nelle piogge. Secondo l´Onu, il riscaldamento climatico colpirà nei prossimi anni, metà della agricoltura africana e un terzo di quella dell´Asia centrale e meridionale. I vantaggi che il riscaldamento porterà ai campi, più a Nord, non saranno sufficienti a colmare il buco. E l´irrigazione diventerà ancora più problematica. Già oggi consumiamo più acqua di quanta ne raccolgano le falde. In Occidente, la disponibilità di acqua è diminuita del 40%. Nei paesi in via di sviluppo, del 60-70%.
Infine, la leva che ha fatto scattare il boom agricolo degli ultimi decenni, la "rivoluzione verde", ha già dato il suo massimo. Il succo della rivoluzione era la selezione di semi che consentissero a più piante di crescere nello stesso spazio e di concentrare la crescita nelle spighe. In un caso e nell´altro, si è, probabilmente, arrivati al limite massimo: più di 90 mila piante in un ettaro di granturco, forse, non ne entrano davvero. Il risultato è che i rendimenti dell´agricoltura mondiale (cioè il rapporto fra i semi piantati e quelli raccolti) sono rallentati di colpo. Crescevano del 3% l´anno, nella seconda metà del secolo scorso. Oggi, i rendimenti per riso, frumento e granturco salgono fra lo 0,5 e l´1% l´anno. Troppo poco. Per far fronte ad un aumento previsto della popolazione mondiale dell´1,2% l´anno, dovrebbero crescere almeno dell´1,5%. Ma, allora, se non si può aumentare la produzione agricola, allargando la terra coltivata e neanche aumentando la resa di quella già coltivata, come se ne esce, per smentire, ancora una volta, Malthus?
Le strade sono due e non sorprenderanno nessuno. La prima è quella, tradizionale, del progresso, della tecnologia e dell´industrializzazione: è la ricetta dell´agribusiness. La seconda è quella dell´agricoltura organica e sostenibile: meno fertilizzanti, meno irrigazione. Recenti rapporti Onu sostengono che l´agricoltura sostenibile è in grado di sfamare il mondo, quanto quella industriale e, in più, contribuisce alla lotta contro l´effetto serra. Molte battaglie ideologiche dei prossimi anni saranno combattute su questo terreno. Gli interessi economici in ballo sono enormi. I punti di attacco sono gli stessi per i due fronti: come avere piante migliori e come risolvere il problema della carne.
La chiave della nuova tecnologia agricola è la genetica. Non necessariamente, però, quella degli Ogm, gli organismi geneticamente modificati, che conosciamo, i cosiddetti "transgenici", dove un gene viene inserito in una pianta, per renderla resistente ad un certo tipo di erbicida. Molti esperti dubitano che l´aumento di rendimenti, che questo determina, si prolunghi davvero al di là del boom iniziale. E, inoltre, la resistenza agli erbicidi è solo un lato del problema. Già oggi, le battaglie più importanti fra industrie ed ecologisti riguardano, più dei transgenici, i brevetti sui "marker" genetici. L´orizzonte della genetica agricola è, infatti, lo sfruttamento della decodificazione del genoma. In altre parole, la rapida individuazione di geni che forniscono a particolari piante caratteristiche desiderate, adatte alle nuove situazioni climatiche, come la tolleranza all´umidità o alla siccità. Si tratta di accelerare, in poche giornate di laboratorio, quello che era il lungo e faticoso lavoro di innesti e selezione, che l´agricoltura pratica tradizionalmente. Ma, spesso, la genetica consente anche di rintracciare rapidamente piante già esistenti, con quelle caratteristiche. Nelle scorse settimane, l´Ufficio europeo dei brevetti ha dato il via libera ad una multinazionale americana per il brevetto di un pomodoro con meno semi, anche se l´intervento genetico non c´è stato e il pomodoro è stato ottenuto con i metodi tradizionali. Potenzialmente, tutto diventa brevettabile. In India, esistono 600 tipi naturali di riso, con tolleranze diverse all´umidità o alla siccità. Un riso che abbia bisogno di meno acqua è, quasi certamente, il riso del futuro. Metterci sopra un brevetto è come avere una macchina per far soldi.
Il problema della carne è importante, perché l´aumento vorticoso della domanda mondiale di bistecche e polpette spinge ad allargare lo spazio agricolo destinato all´allevamento - a volte a danno della produzione di cereali - e, contemporaneamente, a destinare a mangime cibi, come soia e granturco, utili anche per l´alimentazione umana. Molti sostengono che l´allargamento dei metodi intensivi, praticati nei paesi industrializzati (polli in batteria, vitelli chiusi nelle stalle), ai paesi emergenti aumenterebbe la loro produzione locale, consentendo di assorbire il loro aumento di domanda. Secondo uno studioso britannico, Simon Fairlie, è, invece, un rimedio peggiore del male. Nei paesi emergenti, i bovini si alimentano, oggi, su terreni marginali, non adatti all´agricoltura e non incidono sul bilancio dei cereali. Questo avviene, invece, nei paesi industrializzati, dove ai bovini, negli allevamenti intensivi, vengono forniti cereali che potrebbero essere consumati dall´uomo. Complessivamente, 760 milioni di tonnellate di cereali, secondo ActionAid, finiscono ogni anno nelle mangiatoie. È un terzo della produzione mondiale. Riportare quelle tonnellate a tavola, alleggerirebbe il futuro problema della fame mondiale. Certo, riconosce Fairlie, smantellare gli allevamenti intensivi significherebbe meno carne in circolazione. In Occidente, la metà di quanta ce ne sia oggi. Considerando che, secondo il parere della rivista britannica The Lancet, 90 grammi al giorno (circa una polpetta e mezza) bastano per una dieta equilibrata, forse non è un gran male. E, magari, le vacche sono più contente.

Repubblica 15.3.11
Il sociologo: "L´impatto dell´uomo sulla Terra dipende più dai comportamenti che dai numeri"
Una nuova etica dei consumi contro la bomba demografica
di Zygmunt Bauman


«Loro sono sempre troppi. "Loro" sono quelli che dovrebbero essere di meno o, meglio ancora, non esserci proprio. Invece noi non siamo mai abbastanza. Di "noi" dovrebbero essercene di più». Lo scrissi nel 2005 in "Vite di Scarto". A mio avviso, ora come allora la "sovrappopolazione" è una finzione statistica, un nome in codice che indica la presenza di un gran numero di persone che invece di favorire il funzionamento fluido dell´economia rendono più difficile raggiungere e superare i parametri utilizzati per misurarne e valutarne il corretto funzionamento.
Quel numero sembra aumentare in modo incontrollabile, accrescendo continuamente le spese ma non i guadagni.
In una società di produttori si tratta di persone il cui lavoro non può essere utilmente ("proficuamente") impiegato, poiché è possibile produrre senza di loro, in modo più rapido, redditizio ed "economico", tutti i beni che la domanda attuale e potenziale è in grado di assorbire. In una società di consumatori queste persone sono "consumatori difettosi": coloro che non hanno risorse per accrescere la capienza del mercato dei beni di consumo e creano invece un altro tipo di domanda, che l´industria orientata ai consumi non è in grado di intercettare e "colonizzare" in modo redditizio.
Il principale attivo di una società dei consumi sono i consumatori, mentre il suo passivo più fastidioso e costoso è costituito dai consumatori difettosi. Non ho motivo per cambiare idea rispetto a quanto ho scritto anni fa, né per ritirare la mia adesione a quanto sostenuto da Paul e Ann Ehrlich.
Osserviamo che la "bomba demografica" di cui parlano gli Ehrlich si prevede esploderà perlopiù in territori a più bassa densità di popolazione. In Africa vivono 21 abitanti per chilometro quadrato, contro 101 in Europa (compresi le steppe e il permafrost della Russia), 330 in Giappone, 424 in Olanda, 619 a Taiwan e 5489 a Hong Kong. Come ha osservato poco tempo fa il vicedirettore della rivista Forbes, se tutta la popolazione della Cina e dell´India si trasferisse negli Stati Uniti continentali ne risulterebbe una densità demografica non superiore a quella dell´Inghilterra, dell´Olanda o del Belgio. Eppure, pochi considerano l´Olanda un paese "sovrappopolato", mentre i campanelli d´allarme suonano continuamente per la sovrappopolazione dell´Africa o dell´Asia, ad eccezione delle poche "Tigri del Pacifico".
Per spiegare il paradosso delle "Tigri" si afferma che tra densità demografica e sovrappopolazione non vi è stretta correlazione: la seconda andrebbe misurata facendo riferimento al numero di persone che devono essere sostentate con le risorse possedute da un dato paese e alla capacità dell´ambiente locale di sostenere la vita umana. E tuttavia, come notano Paul e Ann Ehrlich, l´Olanda può sostenere la sua altissima densità demografica solo perché tanti altri paesi non ci riescono: negli anni 1984-1986, ad esempio, ha importato 4 milioni di tonnellate di cereali, 130.000 tonnellate di oli vari e 480.000 tonnellate di piselli, fagioli e lenticchie – tutti prodotti che sui mercati globali hanno una valutazione, e quindi un prezzo, relativamente bassi, consentendo alla stessa Olanda di produrre a sua volta altre merci, come latte o carne commestibile, che notoriamente hanno prezzi elevati.
I paesi ricchi possono permettersi un´alta densità demografica perché sono centri ad "alta entropia", che attraggono risorse (e soprattutto fonti energetiche) dal resto del mondo, restituendo in cambio le scorie inquinanti, e spesso tossiche, prodotte attraverso la trasformazione (l´esaurimento, l´annientamento, la distruzione) delle riserve mondiali di energia. La popolazione dei paesi ricchi, pur essendo abbastanza esigua (rispetto agli standard mondiali), utilizza circa due terzi dell´energia totale. In una relazione dal titolo eloquente (Too many rich people, "Troppi ricchi"), tenuta alla Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo del Cairo (5-13 settembre 1994), Paul Ehrlich ha sintetizzato le conclusioni del libro da lui scritto insieme ad Ann Ehrlich, The Population Explosion, affermando senza mezzi termini che l´impatto dell´umanità sul sistema che sostiene la vita sulla Terra non dipende semplicemente dal numero di persone che vivono sul pianeta, ma anche dal modo in cui si comportano. Se si considera questo aspetto il quadro cambia totalmente: il problema demografico esiste soprattutto nei paesi opulenti. In realtà ci sono troppi ricchi.
© 2010, Zygmunt Bauman e Citlali Rovirosa-Madrazo, per gentile concessione di Gius. Laterza e Figli Spa

il Fatto 15.3.11
Il film Sorelle Mai
Alle origini di Bellocchio
di Federico Pontiggia


“Oggi fare un film è impossibile, se non pensi al botteghino. Ancor più, se sei giovane”. J’accuse firmato Marco Bellocchio, che domani porta in sala Sorelle mai, già presentato con successo all’ultima Mostra di Venezia e ora distribuito da Teodora in 40 copie. Una sorta di Buddenbrook all’emiliana, che porta sul grande schermo in formato famiglia la natia Bobbio, attraverso tre generazioni chiamate a un confronto pubblico e privato, con i pugni ancora in tasca: ci sono due ottuagenarie (Letizia e Maria Luisa Bellocchio) attaccate alla terra e a un'altra Italia, forse scomparsa ; c’è il nipote Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio), che va e viene dalla casa avita, portando in dote amore e inquietudine, problemi e coccole per la piccola Elena (Elena Bellocchio) e c’è Sara (Donatella Finocchiaro), sorella di Giorgio e madre assente di Elena, che fa l’attrice a Milano ed è la prima a tagliare i ponti con quel passato che non passa, quella famiglia così familiare. Co-prodotto da Provincia di Piacenza, Comune di Bobbio, Rai Cinema e Kavac, “è un film a costo zero e, insieme, un lusso girato in 10 anni, edito con molta cura: insomma, un’esperienza irripetibile”, dice Bellocchio, rivelando come “non pensassi a un’opera unitaria, ma volevo chiudere questa storia”. Nel cast anche Alba Rohrwacher e Gianni Schicchi Gabrieli, sono sei episodi girati in sei anni (dal '99 si passa direttamente al 2004, e poi anno per anno fino al 2008) di cui i primi tre già in cartellone al Festival di Roma del 2006 e qui rimontati ad hoc, realizzati con gli studenti del Laboratorio Fare Cinema: “Non posso insegnare la tecnica, ormai me ne sono reso conto, ma l’elaborazione delle immagini e il lavoro con gli attori, questo sì”. E quanto siano importanti gli attori nel cinema di Bellocchio non solo è palese, ma poeticamente essenziale: “Una vacanza-studio in una città incantata percorsa dal Trebbia, dove facevamo il bagno: un work in progress, un lavoro fluido sulla sceneggiatura. A un certo punto, dopo tanti estati a Fare Cinema, pensavo fosse una soap e mi chiedevo: non finisce mai? Poi è diventato un film, e ne sono entusiasta”, dice la Finocchiaro, mentre per la Rohrwacher il surplus di senso e divertimento sta nella “leggerezza e levità delle riprese, senza la pressione di una macchina cinema ingombrante”. Quale è, dunque , il segreto del regista? “Marco è un vulcano in eruzione, e devi deciderti: prendere la lava e rischiare di bruciarti o scappare. Io sono rimasto lì, anche se a un certo punto ha deciso che il mio personaggio dovesse suicidarsi”, scherza Schicchi Gabrieli, ma anche i vulcani rischiano di placarsi, per mano altrui. Italia mia, ovvero la rappresentazione del potere qui e ora secondo Bellocchio, è in standby: “Il potere è pomposo, sontuoso, fuori e dentro il Parlamento, quindi il film è costoso: quelli a cui mi sono rivolto mi hanno invitato con garbo a pensare a un altro progetto”. Ma anche una porta sbattuta in faccia può essere l’occasione per fare autocritica: “Non faccio e non farò mai la vittima, anche davanti a tanti rifiuti: accetto le critiche, quando non sono legate a una situazione aziendale o ai rapporti col potere. Evidentemente, nel copione di Italia mia ci sono cose da cambiare. Che poi oggi si facciano solo commedie è un altro discorso, come pure che qualcuno usi “la realtà supera sempre l’immaginazione” per non produrti il film...”.

Repubblica Roma 15.3.11
"Non mi arrendo"  "Non mi fanno girare un film sul potere, e io racconto la mia famiglia"  Bellocchio presenta "Sorelle Mai"    "Italia mia" è un film costoso che in troppi mi hanno sconsigliato. Cambierò qualcosa, non m´arrendo
di Maria Pia Fusco


ROMA. «Magari in quella scena potevi farmi più carina», è stato uno dei pochi, scarni commenti di Elena Bellocchio, figlia del regista, al film Sorelle Mai, che la racconta negli anni della crescita, da 4 a 14 anni, mentre vive accudita dalle zie (Letizia e Maria Luisa Bellocchio), a Bobbio, nella casa di vacanza della famiglia, la stessa in cui 50 anni fa fu girato I pugni in tasca. Diviso in sei episodi, coprodotto da enti locali e Rai Cinema, il film è stato girato da Marco Bellocchio insieme agli studenti del laboratorio Fare Cinema, nel corso di dieci estati, durante le quali Elena è raggiunta dalla madre Sara, (Donatella Finocchiaro) che a Milano insegue il sogno dell´attrice, e dallo zio Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio), un giovane inquieto e incapace di scegliere un futuro.
«Un piccolo film a costo zero, girato in totale libertà senza nessuna preoccupazione per il botteghino. Un´esperienza irripetibile», dice il regista, grato alla Teodora per il coraggio di distribuirlo in 40 copie (dal 16) in un tempo in cui il pubblico sembra attratto solo dalle commedie. Esperienza irripetibile anche per il cast, per la Finocchiaro «un film come una vacanza con tanto di bagni nel Trebbia», per Alba Rohrwacher, un´insegnante che appare nell´ultimo episodio «indimenticabile il clima di leggerezza creato da Marco durante le riprese», per Pier Giorgio Bellocchio «un modo per provarmi come attore e per rafforzare il legame con mio padre».
"Piccolo film" si fa per dire, «perché nelle storie di famiglia c´è l´intensità dei sentimenti, i contrasti, i malesseri segreti. E rispetto al presente e al conformismo della forma è anche un film rivoluzionario. Sorelle Mai è un omaggio alla famiglia, soprattutto alle sorelle del regista per il quale il titolo ha doppio significato: «Mai come cognome di finzione e come atto d´amore per le mie sorelle, costrette in qualche modo a restare nella protezione di un benessere di provincia e, in qualche modo, a rinunciare alla possibilità di scegliere un´altra vita. Sono donne pascoliane più che cecoviane, ho un affetto profondo, non patetico, ma malinconico se confronto la mia vita con la loro».
Nella sua vita invece c´è stata la ribellione giovanile e il distacco da Piacenza, da Bobbio e dalla famiglia «senza rimpianti o sensi di colpa». E anche se riconosce che oggi in paesi come Bobbio non c´è più «l´isolamento di un tempo», non ha nessuna nostalgia, perché «il tempo è troppo breve, voglio usarlo per fare tante altre cose». Tra le quali, almeno per ora, non c´è il progetto di Italia mia, «un film sulla rappresentazione del potere e il potere è pomposo fuori e dentro il Parlamento, quindi un film costoso che in troppi mi hanno sconsigliato. Sto riflettendo, dovrei avere la fantasia geniale di Bulgakov, capace di raccontare la realtà attraverso la storia "Il Maestro e Margherita". Ma i rifiuti non mi rendono vittima, so che devo cambiare qualcosa nella sceneggiatura di Italia mia, ma non mi arrendo».

Corriere della Sera 15.3.11
«Uno sguardo gentile può celare il demonio»
Timi, attore estremo: a teatro cambio sesso poi sarò un pedofilo
di  Giuseppina Manin


MILANO— Il peggio è stata la ceretta. «Mai avrei immaginato che facesse tanto male. Irsuto com’ero...» Diventare donna costerà ben qualche fatica. Ma Filippo Timi ancora non si rassegna. «Mi hanno strappato i peli delle gambe e delle braccia, mi hanno passato quella cera puzzolente sulle guance... Volevano pure sacrificarmi le sopracciglia, ma mi sono opposto. Ho convinto il truccatore a coprirle con un po’ di biacca. Poi c’è stata la tortura dei tacchi alti. Invenzione diabolica, masochismo puro. I miei piedi non me lo perdoneranno mai. Infine, una strizzatina al torace con guepière stile Rossella O’Hara mi ha fatto spuntare un paio di seni di tutto rispetto. Ciglia finte, rossetto e una parrucca hanno completato l’opera» . Ed ecco Filippo nei panni di una rossa. «A dire il vero il mio sogno era diventare una bionda... Ma mi hanno detto che quel colore non si addiceva al mio tipo. Meglio rossa» . E rossa sia. Rossa e incinta. «Se si ha da fare, facciamola fino in fondo» , scherza l’attore, volto tra i più interessanti del nostro cinema e teatro, ma anche scrittore. Suo il testo che dal 21 marzo debutterà sulle scene del Franco Parenti di Milano. Titolo «Favola» , protagonista «femminile» lo stesso Timi. «Sarò Mrs. Fairytale, un nome che è tutto un programma» , avvisa. Una signora racconta favole. Allarmanti fin dall’incipit: «C’era una volta una bambina e dico c’era perché ora non c’è più» , recita il sottotitolo. «Perché — ricorda l’attore, 37 anni— nessuna favola è perfetta, né la vita è un film di Doris Day» . Neanche in quell’America anni ’ 50 avvolta in un sogno di patinata felicità. Dove due amiche, Mrs. Fairytale e Mrs. Emerald (Lucia Mascino) si contendono il primato di moglie impeccabile, capelli laccati, abiti fruscianti, rose in giardino e torte di mele nel forno. Stile Julianne Moore casalinga sorridente e disperata di The Hours o di Lontano dal Paradiso. «O anche stile La vita è meravigliosa, la fiaba surreale con James Stewart — suggerisce Timi —. Nella mia "Favola"i rimandi cinematografici, da Frank Capra a Hitchcock, non mancano. Un mondo in rosa dai risvolti nerissimi» . Difatti sia le due donne sia i loro mariti ideali riserveranno più di una sorpresa. Timi non vuole svelare troppo le carte, ma quel che ci riserva tutto è tranne una storia zuccherosa con happy end. Sotto le gonne svolazzanti della massaia incinta spunterà infatti un’imprevedibile virilità, e le sue manine fatate si macchieranno di sangue. Mentre la voce suadente di Nat King Cole farà da colonna sonora a una sequenza di colpi di scena, mutazioni di sesso, cagnolini imbalsamati, gemelli terribili, persino sbarchi di alieni... Insomma, nulla dell’immaginario ai confini della realtà degli Anni 50 ci sarà risparmiato. Tra le sorprese più interessanti, quella del linguaggio. «Far parlare i miei personaggi come in quell’epoca mi ha costretto a reinventare un modo d’esprimersi molto diverso. Mai esplicito. Mai una parolaccia. Ogni situazione, anche la più cruda, è sempre velata, repressa, nei termini. Per me è stata la riscoperta di un senso del pudore dimenticato. Certo ipocrita, convenzionale, ma come ogni tabu necessario per poter andare "oltre". La peggiore volgarità oggi imperante, soprattutto in tv, è proprio quella verbale: lo sfregio continuo alla nostra lingua, il suo imbarbarimento, l’overdose di spropositi e trivialità. Un incessante strepitio per nascondere il nulla. Gli ululati e gli improperi di Sgarbi, un tempo provocatori, ormai rimbalzano inerti, senza più eco. Di dirompente oggi forse ci sarebbe solo il silenzio» . O la pacata impassibilità della fiaba. «Un genere crudele, che cela i peggiori orrori dietro una facciata lieta. Pedagogica perchè insegna a non fidarsi delle apparenze. Dato che spesso dietro una fragile vecchina si cela una strega, dietro un simpatico ometto un orco» . E proprio in questo ruolo lo ritroveremo tra breve al cinema, interprete di Ruggine di Daniele Gaglianone, film che vede nel cast anche i nomi di Stefano Accorsi, Valeria Solarino, ValeriaMastandrea, già in predicato per qualche sezione del prossimo Festival di Cannes. Film «spinoso» . Tratto dall’omonimo romanzo di Stefano Massaron, s’inoltra nel tema più scabroso, la pedofilia. «E io sono per l’appunto un "orco"— confessa Timi —. Così vengono detti quegli individui che insidiano i bambini. Persone spesso insospettabili, dall’aspetto "normale"e i modi cordiali. Proprio come il dottor Boldrini, medico stimatissimo, un "angelo"disponibile a curare tutti, specie i ragazzini diseredati di un quartiere periferico» . Mai fidarsi delle favole. «Visite e confidenze si trasformano in tragiche occasioni di violenza. Il buon dottore si scopre un mostro» . Non deve esser stato facile indossare quei panni. «Nessun ruolo è sgradevole per un attore. Anzi, quanto più lo è, tanto maggiore è la sfida. Shakespeare ci insegna: dietro uno sguardo gentile può celarsi il demonio» avverte Timi che per mestiere si è già calato in tanti abissi. E’ stato persino Satana (nel «Paradiso perduto» di Milton). Persino Mussolini in Vincere! di Bellocchio. Un film che avrebbe potuto correre all’Oscar. «Mannaggia! Meglio non pensarci... Quel film aveva davvero delle buone carte. E poi io sono nato il 27 febbraio, la data degli Oscar. Un segno del destino, no?... Peccato davvero» . Sarà per la prossima volta