giovedì 17 marzo 2011

il Riformista 17.3.11
Bersani adesso vuole cavalcare i referendum

di Ettore Colombo
qui
http://www.scribd.com/doc/50931482

il Riformista 17.3.11
Beltrandi, il radicale che affonda i referendum



Poteva finire 276 a 275, è finita 275 a 276. Decisivo per affossare le mozioni dell’opposizione che alla Camera dei deputati chiedeva l’election day per accorpare il voto delle amministrative con quello dei referendum è stato il voto del deputato radicale Marco Beltrandi, eletto nelle file del Partito democratico.
Tutta la cultura della “democrazia diretta”, gli anni di battaglie per i referendum, le polemiche sulle date impossibili con le quali li si depotenziava impedendo di fatto il raggiungimento del quorum, le denunce per gli sprechi economici di una doppia consultazione a quindici giorni di distanza, gli scioperi della fame, quelli della sete, i bavagli di Marco Pannella in televisione, le accuse ai Comuni che non mettevano a disposizione i funzionari per la raccolta delle firme... tutto buttato al vento con il gesto di Marco Beltrandi che schiaccia consapevolmente il pulsante “sbagliato”.
Non ci basta la fantasia per immaginare i motivi che hanno convinto il deputato radicale a questo voto. E le orecchie ancora ci fanno male per lo stridore delle unghie radicali sugli specchi del buon senso dopo aver letto il loro comunicato con il quale assolvono Bertrandi dall’accusa di essere il responsabile dell’affossamento dell’election day. Ci piacerebbe conoscere le ragioni (se sono pubblicamente confessabili) tanto del gesto del primo quanto della sua giustificazione da parte dei secondi.



La Stampa 17.3.11
Election Day I Radicali affossano mozione Pd



Decisivo, per affossare alla Camera le mozioni delle opposizioni che chiedevano «l’election day», è stato il radicale Marco Beltrandi. Il deputato radicale eletto nelle file del Pd infatti ha votato ieri in Aula contro la richiesta del suo partito, così come quelle di Idv e Udc, di accorpare le amministrative ai referendum. Il risultato finale è stato 276 no contro 275 sì. Voto sul quale hanno pesato anche le assenze nelle file delle opposizioni. Non hanno partecipato al voto 10 deputati del Pd, 8 di Fli, 4 dell’Udc e 2 dell’Idv.
Immediata la reazione polemica all’interno del Pd con Rosi Bindi che ha definito la decisione di Beltrandi una scelta gravissima: ci sono dei momenti nei quali la disciplina di un gruppo è fondamentale». Sulla stessa linea il capogruppo Franceschini: «Per un voto, solo per un voto! Potevamo vincere». È chiaro, ha spiegato, «che era solo una mozione, ma sarebbe stato difficile per il governo non tenerne conto. Beltrandi è stato irresponsabile». Beltrandi però si difende: «Il mio “no” è politico. Accorpare il voto è solo un pretesto per aggirare una legge che impedisce ai referendum di essere validi se non raggiungono la metà più uno dei votanti. Così facendo ogni governo potrebbe accorpare o meno il voto per influenzare il risultato dei referendum». [R.I.]

Corriere della Sera 17.3.11
No all’election day per un voto. Decide un radicale
di Monica Guerzoni


ROMA — Il dito premuto sul pulsante rosso, i colleghi del Pd che gridano «Marco, ma che fai? Devi votare sì...» e lui che tira dritto, si schiera col Pdl e regala alla maggioranza la vittoria, spazzando via in un sol colpo la chimera dell’election day. Marco Beltrandi, bolognese, 41 anni, già noto alle cronache parlamentari per aver teorizzato il «bavaglio» per i talkshow, è il deputato radicale che ha mandato in fumo il colpaccio progettato dalle opposizioni alla Camera. Per un solo voto — il suo — Dario Franceschini si è visto respingere la mozione che avrebbe impegnato il governo ad accorpare la data del referendum con quella delle amministrative. Il governo, che pure schierava ministri e sottosegretari neanche fosse un voto di fiducia, ha rischiato grosso. Il duello sulle date è finito 276 a 275, il radicale è stato bersagliato da un fuoco amico di insulti e, fuori dall’Aula, nel Pd è partita la caccia al traditore. «La scelta di Beltrandi è gravissima— si sfoga la presidente Rosy Bindi —. Ci sono momenti in cui la disciplina di un gruppo è fondamentale» . Beltrandi sarà punito? «Se chiederò l’espulsione? — dice la Bindi —. No, queste cose le decide il capogruppo» . Franceschini è furioso. Giorni a telefonare, spedire sms per precettare i suoi per un voto ritenuto cruciale... Tutto sfumato per l’impuntatura di un singolo. «È una cosa inaccettabile» , tuona il presidente dei deputati e annuncia «un ufficio di presidenza per eventuali provvedimenti» . La tattica del reclutamento aveva dato i suoi frutti, il governo era andato sotto due volte sul garante per l’infanzia e non mancava che la ciliegina sulla torta. E invece no, Beltrandi ha votato in dissenso rischiando il linciaggio. Venduto? «No — giura, all’apparenza poco turbato dal processo che lo vede imputato —. È che non mi piacciono i sotterfugi. I miei compagni radicali sanno che sono ferocemente contrario all’abbinamento tra amministrative e referendum, perché è un escamotage per raggiungere il quorum» . Tutto qui, assicura il radicale. Nessuna trattativa col Pdl, nessuna tentazione di voltare gabbana. Lo accusano di contribuire allo sperpero di 300 milioni di soldi pubblici e lui si difende, serafico: «Perché tutto questo scandalo su di me? C’erano molti assenti anche nel Pd. Il gruppo ha perso 22 parlamentari e nessuno si è indignato. C’erano anche diversi imboscati nei corridoi...» . Al mattino il Pd aveva nascosto qualche deputato per giochetti tattici, ma nel voto delle polemiche erano rientrati tutti. E i dieci assenti? «Abbiamo sette malati, Fassino è impegnato a Torino, Gozi era in Tribunale e Farina non so — fa di conto Ettore Rosato, uno dei deputati più vicini a Franceschini —. Mancavano anche due idv e otto di Fli. Ma ormai il danno è irrecuperabile» . Beltrandi parla di «dissenso politico» e giura di non voler saltare il fosso. Ma le sue spiegazioni non convincono il Pd, che chiede conto del fattaccio ai Radicali. Rita Bernardini e gli altri sapevano che il pannelliano covava lo strappo, con lui hanno discusso animatamente senza convincerlo. Il presidente dei Radicali, Silvio Viale, giudica «incomprensibile» il suo voto, però lo difende: «Non ha capito che sarebbe stato determinante» . A sentire i deputati del Pd, lo aveva capito eccome. Tutti hanno sentito Roberto Giachetti gridare «Marco, è meglio se non voti!» . Il Pd avrebbe perso lo stesso, ma almeno avrebbe salvato la faccia.

 

Corriere della Sera 17.3.11

Libia, è l’ora di dire la verità, l’Europa non sta facendo niente 
di Paolo Lepri



Forse il tempo è ormai scaduto per istituire la no fly zone in Libia, come sostiene l’ex ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, e fermare così i bombardamenti contro i «ribelli» pilotati dalla tenda del colonnello Gheddafi. «Anche se si decidesse subito — ha detto Kouchner, che di emergenze umanitarie se ne intende — sarebbe troppo tardi: da tre settimane poveri civili stanno morendo e noi non stiamo facendo niente» . Sarà il Consiglio di Sicurezza dell’Onu a decidere nelle prossime ore, anche se sono legittime le preoccupazioni di chi teme che il profeta del Libro Verde riesca nel frattempo a riprendere totalmente il controllo della situazione. Ai quindici capi di Stato e di governo dei Paesi che siedono nel massimo organismo delle Nazioni Unite sono arrivate ieri sera le parole chiare del presidente francese Nicolas Sarkozy. «Dal 26 febbraio — si legge nella lettera dell’Eliseo — il regime ha proseguito le sue azioni assassine contro il popolo libico. Bisogna agire» . Londra è con la Francia, che ha detto di aver raccolto l’appello della Lega Araba. La Germania preme sul freno. Gli altri europei balbettano. Comunque vadano le cose, l’Europa non sembra assolutamente in grado di essere un protagonista, o almeno un punto di riferimento, in questa terribile crisi. Nonostante le lezioni arrivate dalla Tunisia e dall’Egitto. Troppi calcoli, troppo poco coraggio. C’è addirittura chi sta pensando alla parte da recitare in un futuro che preveda ancora la presenza di Gheddafi al comando. L’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, che guida il gruppo dei liberaldemocratici all’Assemblea di Strasburgo, si è definito non a caso «disgustato» . «Sarà un’altra pagina nera. Io sono un europeista convinto ma non conto più sull’Europa, quanto sulla Francia, la Gran Bretagna o gli Stati Uniti» . Forse Verhofstadt ha ragione. Le geometrie cambiano. Si può sperare ormai solo in un cambio di marcia improvviso, magari sull’onda della discussione alle Nazioni Unite. Il presidente permanente dell’Ue, Herman Van Rompuy, ha detto ieri che il Consiglio nazionale libico di transizione continua ad essere «un interlocutore valido» . Interlocutori di che cosa? Bisogna che l’Europa si schieri con forza al loro fianco, con tutti i mezzi a disposizione, e li aiuti a rovesciare definitivamente il regime.

 

Repubblica 17.3.11

Parla l’ex ministro francese Kouchner, l'inventore dell’ingerenza umanitaria già teorizzata ai tempi dell’Iraq
“L’Europa litiga e il raìs massacra il popolo intervenire in Libia è un dovere civile"
Purtroppo l’esperienza nella ex Jugoslavia dimostra che non basta a fermare i massacri. Ma è meglio di niente


di Anais Ginori


BRUXELLES - «La lentezza politica dell´Europa è disperante». L´ex ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner torna a parlare dopo l´allontanamento dal governo quattro mesi fa, rompendo un lungo, inusuale silenzio mediatico. «Abbiamo il diritto-dovere di intervenire nella guerra in Libia per fermare i massacri della popolazione civile» è l´appello di Kouchner in linea con la sua dottrina dell´ingerenza umanitaria già teorizzata ai tempi dell´Iraq, quando faceva il french doctor.
Eppure la proposta di Nicolas Sarkozy per bombardamenti aerei mirati è stata finora bocciata da gran parte dei paesi Ue.
«Sarkozy è stato accusato di avere iniziative affrettate, di non essersi consultato abbastanza con gli altri partner europei. Ma ha detto solo le cose giuste, anzi forse ha parlato già troppo tardi. Il tempo gioca a favore di Gheddafi. Se aspettiamo ancora un po´ sarà lui ad aver vinto e non ci sarà più nulla su cui discutere e riunirsi».
Anche gli Stati Uniti però frenano su l´intervento in Libia. Su quale base giuridica si può entrare in guerra con il regime di Gheddafi?
«Semplicemente perché sappiamo che sono in atto crimini contro l´umanità, come ha riconosciuto la recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell´Onu. E questa è un ragione sufficiente, prevista dal diritto internazionale. Uno Stato, sebbene ancora sovrano, non può uccidere la sua popolazione».
E´ il famoso diritto all´ingerenza umanitaria, che ha già dimostrato molti limiti in passato.
«Preferisco chiamarla responsability to protect, secondo la dicitura votata dall´Assemblea dell´Onu nel 2005. Credo che si tratti della più importante svolta diplomatica del ventunesimo secolo. Non si può più continuare a ragionare come nel Novecento. La situazione della Libia lo conferma".
L´Onu però esamina solo l´ipotesi della no-fly zone. E´ una misura adatta?
«Purtroppo l´esperienza nella ex Jugoslavia dimostra che non basta a fermare i massacri. Ma è meglio di niente, anche se temo che, anche in questo caso, arriveremo in ritardo. Siamo in una vera e propria emergenza, non è più il momento di tentennare».

 

il Fatto 17.3.11
Rivoluzione triste
Il 17 febbraio Bengasi si proclamava libera da Gheddafi. Oggi la città ricorda l’anniversario con l’incubo dell’attacco finale del raìs
di Stefano Citati


Se le truppe di Gheddafi entreranno a Bengasi non spareranno sulla Croce Rossa (come è avvenuto nel recente passato), o almeno sul suo personale: i funzionari dell’organizzazione di soccorso internazionale ha deciso di evacuare il suo personale. Pessimo segno: alla città ribelle rimane solo il tempo di morire. Esattamente un mese dopo l’inizio della sua rivoluzione oggi – sotto un cielo previsto nuvoloso – la popolazione festeggerà un anniversario triste, tra timori e inquietudini crescenti per, da una parte l’avanzata finale delle forze del Colonnello e, dall’altra, la fuga, l’abbandono e il disinteresse della comunità internazionale.
IL 17 FEBBRAIO il vessillo della vecchia Libia reale soppiantò ovunque in città, e in tutta la Cirenaica, quella verde della Jamahiriya (Repubblicapopolare)diGheddafi. Furono giorni eroici, tragici ed esaltanti. Centinaia di morti uccisi spesso dalla contraerea ad alzo zero delle truppe del Colonnello in fuga. Un’epopea fugace che da rivolta divenne guerra di libertà, di conquista e poi di resistenza: storia prima felice, poi dolentissima e funesta. Come le previsoni dei prossimi giorni per i patrioti che vedono svanire le loro posizioni e il favore (solo espresso e mai realizzato) del mondo (l’Onu ha annunciato che discuterà di una risoluzione per la creazione di una “No fly zone”, che pare ormai fuori tempo massimo).
Sul fronte lungo un mese tra ribelli e gheddafiani si è arenata la rivoluzione del mondo arabo, il vento che sembrava senza fine e senza ostacoli che dalla Tunisia è passata all’Egitto (due confinanti della Libia) e, in varie misure (e fortune), a quasi tutti i paesi del Maghreb e del Mondo Arabo. Il sogno sta per infrangersi a Bengasi e svanire tre le trattative a cui Gheddafi piegherà con il ricatto i rivoltosi e il mondo immobile davanti alle coste, e le sabbie d’oro nero, della Libia. Oggi, 17 marzo, potrebbe essere anche il giorno della vendetta del Colonnello (le cui truppe ieri avrebbero fermato 4 reporter del New York Times ad Ajdabya, 170 chilometri da Bengasi), e la fine triste della rivoluzione libica.

La Stampa 17.3.11
“Reclusi all’inferno” In un video l’orrore degli ospedali giudiziari
La denuncia: “Condizioni disumane”
di Flavia Amabile


Un letto dove si viene legati e un foro nel mezzo per la caduta degli escrementi ed un paziente, completamento nudo, bloccato con corde intorno alle braccia e alle gambe. Il letto è arrugginito, per l’urina che da anni lo bagna. C’è anche questo nelle immagini presentate ieri mattina dalla Commissione d’inchiesta sul Sistema sanitario nazionale per denunciare l’orrore degli Ospedali psichiatrici giudiziari italiani.
Le immagini sono contenute in un video girato in sei strutture. «È semplicemente un inferno dei dimenticati», denuncia il presidente della commissione, Ignazio Marino. Il video sarà trasmesso domenica prossima nel programma «Presa diretta» di Raitre.
I detenuti sono in condizioni che Marino definisce «disumane». Sporcizia ovunque, spazi angusti, bottiglie d’acqua nel buco dei bagni alla turca per rinfrescarle o per impedire la risalita dei topi. Loro, i malati prigionieri, in molti casi si trovano negli ospedali per reati minori che risalgono anche ad molti anni addietro e soffrono di patologie mentali per le quali non sono però curati: pochissimi infatti i medici presenti, e nessuno psichiatra, per 4 ore a settimana in strutture in cui si contano anche 300 persone.
«Qui ti uccidono piano piano», dice uno di loro. «Sono luoghi infernali, rimasti inalterati dal 1930 all’epoca del Codice Rocco - spiega Ignazio Marino -. Molti vi sono rinchiusi anche per reati minori di decenni prima ed in numerosi casi esiste anche la proroga, per cui una persona viene mantenuta negli Opg per mancanza di percorsi alternativi di assistenza, fino ad arrivare a una condizione che gli stessi magistrati definiscono di “ergastolo bianco”. Non possiamo tollerare che persone vengano dimenticate così per decenni e vogliamo arrivare - aggiunge Marino - ad un superamento definitivo degli Opg». Vale a dire chiuderne almeno tre su sei e, comunque, arrivare all’individuazione di nuove strutture a custodia attenuata anche più necessarie dopo le vicende di Montelupo Fiorentino (dove un internato è morto per aver inalato del gas) e Aversa (dove due guardie della polizia penitenziaria sono arresti domiciliari per aver abusato di un internato trans).
La commissione sta realizzando un monitoraggio settimanale dei sei Opg per arrivare alla «liberazione» di 376 internati (su un totale di circa 1500) per i quali non sussiste il requisito della pericolosità sociale: i primi 65 sono già usciti. Per altri 115 è stata prevista una proroga della pena. Di questi ultimi, solo 5 sono ancora internati, perché ritenuti socialmente pericolosi, per gli altri accade qualcosa di diverso, sono dentro perché «il territorio li rifiuta».
L’iniziativa ha il sostegno della maggioranza. Lo ha ricordato il senatore Michele Saccomanno, del Pdl, relatore dell’inchiesta. «Lo sforzo economico a sostegno della riabilitazione e presa in carico di questi cittadini da parte della sanità regionale c’è: la commissione ha ottenuto dal governo l’impegno per uno stanziamento di 10 milioni di euro per l’assistenza».

Guarda il video su www.lastampa.it

La Stampa 17.3.11
 “Io, in balìa di un fratello che nessuno vuole curare”
di F. Ama.


L’appello di L. M. I medici continuano a dire che non spetta a loro trattenerlo Cerchiamo solo di limitare i danni

È il 23 febbraio scorso quando nell’aula della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia del Sistema sanitario prende la parola una donna che viene indicata come L.M. È stata lei a scrivere alla commissione per denunciare la storia di suo fratello, R., che da dodici anni attende una cura mai arrivata. R. ha 37 anni, soffre di «disturbo bipolare», racconta la sorella, una malattia maniacodepressiva. «R. ha subito il suo primo ricovero nel 1997, circa due mesi dopo la morte di nostro padre. Da allora non è mai stato sottoposto ad un programma di recupero, ma lo si è solo sottoposto ad una serie inenarrabile di TSO (Trattamenti sanitari obbligatori), con gli unici due disarmanti risultati: il primo, è che la malattia si è ormai cristallizzata, mescolandosi all’alcolismo ed all’abuso di droghe leggere; il secondo è che noi familiari abbiamo subito fino ad oggi le sue continue crisi maniacali, senza alcuna possibilità di difesa». Anzi, a rischio della stessa vita, come si capirà dal seguito del racconto.
«L’unica cosa che facciamo è cercare di limitare quotidianamente i danni che provoca. Tutta la famiglia subisce i suoi stati di esaltazione», spiega. La situazione precipita il 30 ottobre. R., in evidente stato di ebbrezza ed agitazione, viene accompagnato a casa dai carabinieri, insieme all’auto di mia madre, che lui guida senza patente. Pochi minuti dopo punta il coltello alla gola di mia madre, che viene salvata dall’intervento di un altro fratello. Il giorno seguente prende a martellate la porta della casa. Le Forze dell’ordine convincono la famiglia a non far intervenire il 118, per evitarsi evidentemente ulteriori verbali e seccature burocratiche. R. viene quindi semplicemente ammonito verbalmente dai carabinieri e si rifugia in casa per qualche ora, dopo di che «riprende l’auto di mia madre ed esce nuovamente».
Per trattenerlo in ospedale è necessaria una denuncia, sostengono i medici. La famiglia va a sporgere querela. «Ma i medici continuano a sostenere che non sarà nelle loro facoltà trattenere R. e che in ogni caso qualora i tempi della magistratura si fossero prolungati non avrebbero potuto garantirci che R. non fosse dimesso». In realtà la famiglia può opporsi alle dimissioni, lo fa e ottiene come risposta la promessa di una commissione esterna per valutare il caso.

il Fatto 17.3.11
Non chiamateli ospedali: viaggio nell’inferno dei manicomi criminali
di Silvia D’Onghia


Andrea, 25 anni fa, si è vestito da donna ed è andato davanti a una scuola; Mario, nel 1992, ha compiuto una rapina da settemila lire fingendo di avere una pistola in tasca; Luca ha iniziato a star male quando è morto suo padre, nel 1997; Fabio sarebbe dovuto uscire alla fine dello scorso anno, ma non ha fatto in tempo, è morto prima. I nomi sono di fantasia, le storie no: sono tutte storie di uomini e donne rinchiusi negli ospedali psichiatrici giudiziari, strutture sparse per il territorio nazionale, regolate dal codice Rocco del 1930, per lo più fatiscenti e in stato di semi abbandono. Come chi vive al di là di quelle sbarre. Anzi, peggio, chi vive là dentro è completamente abbandonato.
La commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, sta ora cercando di portare alla luce quelle storie, di renderle pubbliche, di far conoscere agli italiani la vergogna di Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Monte-lupo Fiorentino, Secondigliano. Luoghi in cui si entra se si commettono reati bagatellari (che presuppongono pene inferiori ai due anni) e si è affetti da una malattia psichiatrica o se si viene pro-sciolti perché incapaci di intendere e di volere. Luoghi in cui si entra per ricevere cure e dai quali si rischia di non uscire vivi. Luoghi in cui le proroghe di sei mesi sono moduli fotocopiati, in cui il paziente riceve le cure - quando va bene - di un medico generico che trascorre quattro ore a settimana in una struttura che ospita 300 persone. Tra le corsie degli Opg gli psicofarmaci diventano caramelle, il mondo esterno non entra in alcun modo, non ci sono attività ricreative, di socializzazione. Ci sono invece i letti di contenzione, con i materassi bucati al centro per far cadere le feci e l’urina, il ferro arrugginito e le lenzuola cambiate una volta ogni due settimane. Non ci sono infermieri, ma agenti penitenziari (l’unico istituto che fa eccezione è quello di Castiglione delle Stiviere, nel mantovano, dove sono rinchiuse anche 90 donne).
DA QUANDO la commissione sta visitando (ogni settimana) gli Opg, delle 376 persone giudicate non socialmente pericolose, e che quindi potrebbero essere prese in cura dalle Asl, ne sono uscite soltanto 65. Ma cosa impedisce a un uomo di uscire da una struttura che è peggio del carcere iracheno di Abu Ghraib? “Prima del nostro intervento, l’inedia – spiega il senatore Marino –: i pazienti venivano tenuti dentro attraverso il meccanismo delle proroghe, che venivano fotocopiate senza che neanche si aggiornasse lo stato di salute. Adesso c’è chi non è disponibile ad accoglierli: le Asl ci rispondono spesso di non aver i fondi necessari e i giudici di sorveglianza sono costretti a firmare le proroghe perchè mancano le misure alternative. Siamo riusciti a sbloccare i 5 milioni di euro stanziati con decreto del presidente del Consiglio dei ministri nel 2008, fondi che adesso verrano distribuiti alla Regioni. Ma abbiamo bisogno che tutti conoscano queste realtà”. Ed è per questo che, durante le visite a sorpresa (che solo i parlamentari possono fare) effettuate dai membri della commissione negli Opg, è stato girato un video: immagini raccapriccianti che sono visibili sul nostro sito internet ( www.ilfattoquotidiano.it  ) e che verranno trasmesse integralmente domenica da Riccardo Iacona nel corso della trasmissione Report. Un documento che mostra muri scrostati, finestre sostituite da cartoni, fornelletti per cucinare accanto a bagni alla turca, letti accatastati in celle microscopiche. Ma che soprattutto testimonia come si può ridurre un uomo quando, anziché curato, viene trattato come gli animali nelle peggiori situazioni di cattività.
“TORTURA, di questo si tratta”, racconta ancora Marino mostrando il video. Eppure nessuno dei parenti di queste persone ha pensato (ancora) di fare causa allo Stato, perchè “ancor più che nelle carceri – spiega Iacona – gli Opg sono una discarica sociale”. Chi ha i soldi per pagarsi un buon avvocato, certo non finisce di trascorrere i suoi giorni in un ergastolo bianco. Ma forse è anche per questo che la vita delle circa 1500 persone sepolte lì dentro non interessa quasi a nessuno.



Repubblica 17.3.11

Il male oscuro

Quella lotta di Ellen contro il suo corpo
Lo psichiatra Binswanger racconta un caso clinico: è la drammatica storia di una ragazza anoressica e dei tanti tentativi di cura
Aveva dimenticato i suoi primi dieci anni di vita Aspirava a qualcosa di straordinario
Aveva l’ossessione del pane. Era sempre combattuta tra la brama di divorare e quella di assottigliarsi
di Pietro Citati



Ludwig Binswanger, nato in Svizzera nel 1881, è una delle figure più significative della psicologia e della psichiatria moderna. Da un lato, era amico e collaboratore di Breuer, di Bleuler e di Freud, che inviavano malati nella sua clinica di Kreuzlingen: dall´altro, per tutta la vita lesse e meditò profondamente i libri di Husserl e di Heidegger. Tutto ciò che scrisse è imbevuto di questa doppia influenza: psicologia analitica e filosofia esistenziale si intrecciano e si fondono, entrano ognuna nel campo dell´altra, provocando ambiguità e sottigliezze. Qualche volta, le sottigliezze sono troppe; e ci troviamo smarriti in un linguaggio cifrato. Ma i suoi "casi clinici" sono bellissimi, specie quelli raccolti nel 1957 nel volume Schizofrenia: vi è attenzione, scrupolo, morbidezza, talento narrativo e una specie di disperato azzardo, che lo porta dovunque alla ricerca della verità che si nasconde. Il principale di questi testi è Il caso Ellen West, appena pubblicato da Einaudi a cura di Stefano Mistura (traduzione di Carlo Mainoldi, p. LVII-205, euro 18).
Ellen West apparteneva a una famiglia ebraica, nutrita di ansia, depressione e angoscia, dove abbondavano i suicidi. Quando Binswanger la interrogò a Kreuzlingen, Ellen aveva dimenticato i suoi primi dieci anni di vita. Tutto era avvolto in una oscurità quasi completa: o emergeva soltanto il suo istinto di negazione: «Questo nido non è un nido»: «Questo latte non è latte», ripeteva da bambina. Aspirava a qualcosa di straordinario; "Aut Caesar aut nihil". Voleva la gloria, la tensione, la violenza. A vent´anni immaginò di conoscere la felicità. Ma, subito dopo, fu assalita da una crisi profondissima e cadde nell´apatia. «Tutto per me si equivale, sono completamente indifferente, – scrisse – non conosco sentimenti di gioia e nemmeno di angoscia». «Io sto di fronte a me stessa come di fronte a una straniera». Le sembrava di camminare su una costa marina vertiginosa, in un difficile equilibrio sopra le rocce; e poi di sprofondare sempre più in basso, sempre più in basso. Attorno a lei, c´era il vuoto: la miseria dell´anima le sedeva accanto: gli uccelli tacevano e fuggivano: se apriva bocca, i fiori appassivano: dovunque, spettri erano in agguato; e il mondo diventava a poco a poco una tomba.
Quando compì ventitre anni, venne violentemente assalita dal timore di diventare grassa. «Mi sento ingrassare, diceva, ne tremo di paura, vivo in una condizione di panico». Pensava esclusivamente a dimagrire: a trentadue anni era uno scheletro; e avrebbe voluto morire, come l´uccello a cui il canto si spegne nel pieno della gioia canora, o consumarsi selvaggiamente nel proprio fuoco. «Quando vedo i cibi, e cerco di portarli alla bocca, tutto si chiude nel mio petto, e mi fa soffocare e mi brucia». Ma il suo desiderio era doppio. Il desiderio di dimagrire era un aspetto del suo desiderio di allargarsi, di estendersi e di dilatarsi. Aveva l´ossessione del pane: vagava di continuo intorno al pane chiuso nella credenza: nella sua mente, nel sonno e nella veglia, non c´era posto per nessun altro pensiero; non poteva concentrarsi né nel lavoro né nella lettura. Pensava di essere diventata come un assassino, che ha continuamente davanti agli occhi l´immagine dell´uomo che ha ucciso, ed è irresistibilmente attratto dal luogo del delitto. Così era combattuta: la brama di divorare contro la brama di assottigliarsi; e restava spossata, esausta, coperta di sudore, con le membra doloranti.
Non dobbiamo credere che il suo caso fosse una semplice forma di anoressia. Con le sue forze scatenate, andò molto più lontano: penetrò nella tragedia fondamentale del corpo, la sua apparenza, la sua sostanza, il suo rapporto con gli altri esseri umani e il resto del mondo. Si rivoltava contro la propria corporeità: ma questa rivolta aveva la conseguenza di far emergere la corporeità in primo piano, come se non ci fosse nient´altro né in lei né altrove. Si mascherava dietro la vergogna, cercando di nascondere agli occhi e agli orecchi tutto ciò che era visibile e udibile. Più tentava di celarsi, più era visibile, dava nell´occhio, o cercava drammaticamente di dare nell´occhio. Era lì, sempre, davanti agli sguardi di tutti.
Col passare dei mesi e degli anni, Ellen West si costruì un immenso campo di prigionia: una Siberia di solo ghiaccio; e desiderava la morte con lo stesso ardore con cui un soldato prigioniero tra i ghiacci desidera ritrovare la patria; «Io sono in Siberia – ripeteva: il mio cuore è una morsa di ghiaccio». Si sollevavano mura, sia pure lievi come l´aria ed il vetro. E, sulle mura, c´erano folle di nemici. Dovunque si voltasse, un uomo con la spada sguainata le impediva di fuggire. Le sembrava di essere su un palcoscenico. Cercava scampo, ma qualche oscuro nemico le si parava davanti. Se si precipitava verso la seconda, la terza, la quarta uscita del palcoscenico, trovava ogni volta un muro oscuro di cartone o di sasso. Non le restava che stramazzare su sé stessa, incapace di qualsiasi fuga. Viveva chiusa in un globo di vetro. Vedeva gli uomini attraverso una paratia trasparente, e le loro voci le giungevano fioche e attutite. Si sforzava di arrivare sino a loro, protendendo le braccia verso di loro, ma le mani continuavano ad urtare contro le opache pareti di vetro.
Verso la fine di marzo del 1921, dopo quasi tre mesi di soggiorno nella clinica di Kreuzlingen, Ellen West chiese di venire dimessa. Ludwig Binswanger era incerto: non ignorava quali rischi incombessero sulla sua fragilissima malata. Poi decise. Il 31 marzo 1921, Ellen West ritornò a casa, insieme al marito. Dapprima si sentì incapace di vivere. I vecchi sintomi si ripresentarono. Era prostrata. Tre giorni dopo, quasi all´improvviso, la sua vita si trasformò. Si alzò: fece la prima colazione con burro e zucchero; e a mezzogiorno – per la prima volta dopo tredici anni – si sentì soddisfatta, nutrita e placata. A merenda, mangiò cioccolatini e uova di pasqua. Il cibo le dava gioia, rinforzava le sue energie, alimentava il suo amore, nutriva le sue speranze, illuminava il suo intelletto. Dopo aver passeggiato col marito, lesse poesie di Rilke e di Storm, di Goethe e di Tennyson; e rise percorrendo il primo capitolo delle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain.
La durezza, la violenza, la caparbietà, la furia, lo spirito di negazione, il senso di solitudine e di prigionia, il carcere di pietra e di vetro, l´odio del corpo, il disgusto e la fame – tutto ciò che aveva reso la sua vita un inferno – scomparvero. Il mondo le svelò, dopo tanti anni, il suo volto festoso e leggero, che lei aveva appena intravisto. La sera, senza che nulla lasciasse prevedere la sua decisione, senza dubbi e incertezze, prese una dose mortale di veleno. Poi scrisse una lettera al marito: gli domandava perdono, lo ringraziava per il suo amore, lo pregava di non piangere, e infine gli spiegava che qualsiasi lotta ulteriore contro il male sarebbe stata inutile. Tutto era finito: ma lei si sentiva finalmente libera. La mattina del 5 aprile Ellen West morì. «Apparve allora, come mai nella sua vita, serena e felice e in pace con sé stessa». Possiamo dire che Ellen West fu sopraffatta dal veleno della morte? Non è certo: la morte, anche la morte volontaria, può essere un compimento, una liberazione, una pienezza.

il Riformista 11.4.07
Saggio. Il diario della donna ebrea
II caso Ellen West. L'Anne Frank della psichiatria?
di Annelore Homberg e Cecilia Iannaco


Una tragedia in due atti: suicidio e rilettura heideggeriana
L’obiettivo è “eliminare” la malattia, non il malato

Ellen West è il nome che lo psichiatra Ludwig Binswanger inventò nel 1943 per raccontare il caso clinico di una giovane donna ebrea, di probabile nazionalità americana e origini tedesche; un caso che diventerà paradigmatico per la sua psichiatria fenomenologica o daseinsanalisi e che si era concluso tragicamente più di vent'anni prima, nell'aprile del 1921.
Se il saggio di Binswanger è ben noto ai lettori italiani, non altrettanto lo è la ricerca, dai risultati a dir poco sorprendenti, che lo storico della medicina Albrecht Hirschmüller ha condotto su questo caso clinico. Il lavoro di Hirschmüller - del quale abbiamo curato l'edizione italiana per la rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla - si basa sul diario di Ellen e su un ricco carteggio, entrambi inediti, che permettono di ricostruire la storia della donna in modo assai più ampio e veritiero di quanto non abbia fatto lo stesso Binswanger. Pochi sanno infatti che il caso West si articola in due momenti.
Il primo atto di questa pièce desolante si svolge in un solo anno, tra il 1920 e il 1921, e si conclude con il suicidio della paziente. Tutto inizia quando Ellen - che stava molto male e per la quale le diagnosi future andranno dall'anoressia alla schizofrenia - si rivolge allo psicoanalista Victor von Gebsattel, che più tardi si occuperà anche lui di psichiatria fenomenologica. Questo trattamento finisce dopo sei mesi quando Gebsattel, in piena crisi mistica, manda Ellen dal suo santone; Ellen si rifiuta e prova con un altro analista, a sua volta ossessionato dal tema dell'erotismo anale. Visibilmente peggiorata, nel gennaio 1921, la donna giunge alla famosa clinica di Kreuzlingen sul Lago di Costanza. di proprietà dei Binswanger. Il giovane direttore Ludwig la riceve amabilmente ma è contrario ad ogni tipo di trattamento approfondito. Come consulente chiama il professor Hoche, stimato docente universitario, che proprio l'anno precedente aveva elaborato quel micidiale progetto di «annientamento di vita indegna di essere vissuta» che sarà poi alla base dello sterminio nazionalsocialista dei malati di mente. In tre mesi Binswanger, Hoche e il marito di Ellen giungono al verdetto che per lei non c'è alcuna speranza di miglioramento; "sanno" che è destinata al suicidio e decidono di dimetterla. È probabilmente il marito stesso a fornirle il veleno con cui la giovane donna, tornata a casa, docilmente si uccide.
Il secondo atto della tragedia - se possibile ancor più sconcertante del primo - si svolge invece dopo un silenzio di oltre vent'anni, quando Binswanger decide di riprendere la storia della paziente non per comprendere come un simile fallimento terapeutico era potuto accadere, ma per rileggerlo con le lenti di quella filosofia heideggeriana che nel frattempo ha fatto sua, e alla luce della quale la morte di Ellen diventa «una realtà inevitabile», il «necessario adempimento del senso della sua vita».
Si rimane feriti dal cinismo - ma sarebbe meglio dire dalla fatuità - con cui Binswanger riconverte la storia dell'ebrea Ellen West in una teoria del suicidio come «gesto autentico», proprio negli anni in cui, sull'altra sponda del Lago di Costanza, altri ebrei vengono condotti verso i campi di sterminio. In realtà, un'attenta analisi del materiale raccolto da Hirschmüller fa emergere l'ipotesi che questo «essere per la morte», più che della paziente, fosse piuttosto un problema dello stesso Binswanger e della filosofia che aveva adottato.
La West al contrario, chiedendo insistentemente aiuto, aveva sperato di poter guarire e vivere. Il suo cupo diario ritrae una persona drammaticamente braccata su due fronti: all'interno dalla grave malattia ed all'esterno dalle persone che la circondavano. Proprio quest'ultimo aspetto, insieme agli slanci improvvisi di speranza ed alla gioia di vivere che le pagine, in alcuni momenti, comunque trasmettono, fa apparire nella mente un'immagine che vorremmo cacciare: l'immagine di un altro diario, quello di Anne Frank.
Ricordare oggi la vera storia di Ellen West è importante per sottolineare l'esigenza di una psichiatria che, per essere tale, deve innanzitutto rifiutare un'impostazione teorica che nega l'idea di curabilità se non addirittura quella stessa di malattia mentale. Una psichiatria che al contrario tiene ben saldi i concetti medici di diagnosi, cura, guarigione anche se vengono applicati alla mente e non al corpo. Solo così si arriva a una prassi che, diversamente da quella nazista e purtroppo anche da quella di Binswanger, è volta ovviamente ad "eliminare" la malattia, e non il malato.


il Fatto 17.3.11
Letti di cemento e avanzi di pasta ecco come vivono i migranti
Il Fatto dentro il Cie di Lampedusa, dove restano 3 mila persone
di Giampiero Calapà


Dentro il Centro di accoglienza di Lampedusa. Militarizzato, ma pieno di falle, la realtà di questi giorni di emergenza straordinaria si mostra cruda e drammatica. Gente ammassata a dormire, anche sul cemento, una situazione igienico-sanitaria ormai fuori controllo, fotografia di una disperazione umana che ha abbattuto i confini della civiltà, mentre pensava di trovare “Lamerica” qui, in questo avamposto italiano in terra africana. Quasi tremila persone in un Centro che ne può contenere 860.
Contrada Imbriacola è a pochi minuti dal cuore del paese: durante la prima notte di grande emergenza, dopo gli sbarchi di lunedì e martedì, il Centro diventa un colabrodo. Le recinzioni, lontano dall'ingresso principale, sono bucate. I migranti tunisini, recuperati in mare dalle motovedette, dopo ore di navigazione su barconi fatiscenti, sono ammassati nel Centro, che ormai scoppia. Entrano e escono quando vogliono, infatti. Dalla parte opposta rispetto al cancello d’ingresso del Centro, c’è una collinetta, i migranti scarpinano da qui.
Già nel pomeriggio di martedì era cominciato il via vai, perché i quattrocento uomini di polizia, carabinieri e finanza non possono far nulla per trattenerli tutti dentro. Il controllo è quello che è. Per questo per oggi è previsto sull’isola l'arrivo di cento uomini dell'esercito. Con l’inviato del Tg1 Marco Bariletti, a cena, ipotizziamo di provare ad entrare nel Centro, per documentare la vita dei disperati che hanno appena messo piede in Italia. Lui è a Lampedusa da più tempo, disegna una cartina del Centro su un tovagliolo, per mostrare da dove arriveremo e da dove proveremo ad entrare, segnando anche i punti in cui è probabile la presenza degli agenti. La tv del ristorante sta trasmettendo la partita di calcio fra Bayern Monaco e Inter, quando decidiamo di muoverci verso Contrada Imbriacola.
È UNA SERATA luminosa, sulla collinetta riusciamo a farci strada tra i rovi e le erbacce senza torcia. Decidiamo che uno di noi, Bariletti, rimanga fuori. Mi passa il suo telefonino provvisto di telecamera, e via. Comincia la discesa verso il varco nella recinzione, insieme a tre migranti che stanno rientrando proprio in quel momento. La mimetizzazione, tra loro, è totale. Nessuno chiede chi sei, da dove vieni. Sono abituati, in queste ore, ad incontrare altri disperati in cerca di fortuna che non hanno mai visto prima. L’ora è tarda, la stanchezza si fa sentire, non hanno quindi nessuna voglia di conversare. Dopo il giro in paese e una birra, l’unico obiettivo è rientrare e trovare un letto, un giaciglio, sul quale riposare la notte.
Una volta dentro, facendo attenzione a non calpestare il filo spinato, il Centro si presenta così: a destra, verso il cancello e la strada d’accesso, ci sono gli uffici delle forze dell’ordine e delle organizzazioni umanitarie, la fila dei migranti in coda per la mensa, zona da evitare; a sinistra c’è quello che ci interessa, i container con i letti e i bagni. Stracolmi, tanto che appena varcata la soglia del Centro, c’è un giaciglio collettivo di fortuna. Una piccola spianata dove sono sistemati dei materassi, poche coperte vere, molte di carta. Dormono in questo posto almeno una cinquantina di persone. Non c’è soluzione di continuità tra chi dorme e chi è sveglio, gruppi di persone si muovono a pochi metri, discutono, alzano la voce, chiedono agli operatori del Centro coperte, scarpe. Alcuni, dopo le quindici ore di traversata in mare tra la Tunisia e Lampedusa, hanno ancora addosso gli stessi vestiti inzuppati . Proprio in quel momento arriva una furgone con delle coperte e degli indumenti.
È SUBITO ressa quando si apre la portiera. Accorre anche qualcuno di quelli che stava dormendo, sollevando l’involucro bianco di quella carta usata da coperta. Dentro i container i bagni sono già in condizioni pietose, lungo gli stretti corridoi ci sono i piatti di plastica (in cui i migranti hanno mangiato porzioni di penne al pomodoro), stracci, indumenti. Dentro le camerate, almeno cinquanta persone, alcuni dormono, altri parlano ancora, anche animatamente. Le luci sono accese per tutti, comunque. Alcuni di loro fermano l’intruso, altri lo salutano perché ci avevano già scambiato due parole prima, in paese. E una volta riconosciuto come “italiano” fioccano le richieste: sigarette, un euro, un caffè, “amico domani sei ancora qui? Ci vediamo in paese, mi offri una birra?”. Tutti comunque sono molto cordiali, anche quello arrivato tardi per la moneta da un euro: “No, per me niente allora?”. Arriva un operatore del Centro, bisogna affrettarsi ad uscire dal container. Fuori sulla sinistra cinque o sei poliziotti chiacchierano tra loro. Non si accorgono di nulla, la mimetizzazione tra i migranti continua a funzionare. Ma è inutile rischiare ancora. Le immagini ci sono. Si può uscire, attraversare di nuovo il buco nella recinzione, inerpicarsi sulla collinetta, ritrovare il collega e ritornare in albergo, per dormire in un letto vero.

il Fatto 17.3.11
Sorelle mai
di Marco Bellocchio, con Pier Giorgio Bellocchio


I pugni in tasca li ha ancora, Marco Bellocchio, ma disegna cinema a mano libera: Sorelle mai è un’(in)fedele autobiografia e, soprattutto, il piccolo film di un grande regista. Un paese (Bobbio), un decennio (1999-2008), sei episodi realizzati con gli studenti del laboratorio Fare Cinema e tre generazioni a confronto: due ottuagenarie (Letizia e Maria Luisa Bellocchio), attaccate alla terra e a un'altra Italia; il nipote Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio), che va e viene portando inquietudini e coccole per la piccola Elena (Elena Bellocchio); Sara (Donatella Finocchiaro), sorella di Giorgio e madre assente di Elena , che fa l’attrice a Milano. I Buddenbrook all’emiliana? Inquieta l’alchimia di pubblico e privato, urgente e poetica la messa in scena, più che a Mann piacerebbe a Duchamp: è un sorprendente ready-made. (Fed. Pont.)



il Riformista 17.3.11

Riconoscimento per i due grandi vecchi del cinema italiano
Bondi, ultimo tango a Venezia
B&B quasi fatta

Bellocchio e Bertolucci. Leone d’oro al primo e presidenza della giuria della Biennale al secondo. L’idea della coppia a Venezia piace e il sottosegretario Giro manda segnali positivi a Baratta. Se l’ufficialità arrivasse con il ministro ancora in carica, il titolare dimissionario dei Beni culturali avrebbe l’opportunità di chiudere con un gesto di distensione

qui

http://www.scribd.com/doc/50931510

il Fatto

il Fatto 17.3.11
Il metodo Signorini per Ambra Angiolini
di Antonella Mascali


Se ti chiami Ambra Angiolini e a 15 anni sei stata il “ fenomeno” di Non è la Rai, se poi hai fatto un percorso distante dal pensiero dominante berlusconiano, se poi sei scesa in piazza contro “il puttanaio” dell’inquilino di Palazzo Chigi, se poi ti sei esposta ad Annozero contro il carrierismo a colpi di prostituzione, allora scatta la rappresaglia. Ieri sulla copertina del settimanale Chi diretto da Alfonso Signorini, spin doctor del presidente del Consiglio, campeggia una foto dell’attrice che bacia un collega (e non il suo compagno).
Fin qui potrebbe sembrare un servizio per gli amanti di gossip. E se fosse così non ce ne occuperemmo. Ma è il giornale che lo pubblica che fa la differenza. C’è un resoconto dettagliato del tentativo di Ambra di non far pubblicare quelle foto. Il direttore, si legge nel servizio, ad Angiolini “risponde che l’unica cosa che lui può fare è darle voce”, perché “un servizio acquistato è un servizio pubblicato”. Ha ragione Berlusconi: Signorini è proprio “un diavolo”. Il suo discorso è ineccepibile . Ma c’è un particolare: la regola vale per Ambra e non per altri. È noto, infatti, che il direttore, delle foto o dei video che gli passano fra le mani fa un uso strategico. Pubblica, acquista e non pubblica, avverte dell’esistenza delle immagini. Dipende dal soggetto. Per esempio, informa Marina Berlusconi di un video imbarazzante, realizzato con un cellulare, che riguarda Silvia Toffanin, compagna di Pier Silvio Berlusconi. Il filmato viene acquistato dalla famiglia e fatto sparire. Ed è sempre Signorini che pubblica solo le immagini più “innocue” di Barbara Berlusconi, con un ragazzo fuori da una discoteca. Si racconta anche di foto innocenti, ma non gradite, del ministro Angelino Alfano, ritratto su una spiaggia mentre si fa fare la manicure. Quelle immagini passate per Chi non sono mai state pubblicate. Se invece le foto sono di una donna che ha dichiarato: “Ormai sembra che tutto si debba chiedere a Berlusconi. La società si ammala per questo motivo”, allora Alfonso Signorini tira fuori la regola d’oro dei giornalisti: una notizia si pubblica. Sì, ma sempre, non a convenienza.

La Stampa 17.3.11
Muti: la nostra identità si risveglia in musica
Il Maestro ha diretto ieri a Roma il “Nabucco” di Verdi “Uso le note per aggregare persone, culture, religioni diverse”
di Sandro Cappelletto


Esportiamo il cortocircuito tra melodramma opera e nazione

Sono nato a Napoli, il 28 luglio 1941, durante la guerra, da madre napoletanissima e padre pugliese. Mi riportarono subito a Molfetta, e mantengo dentro di me lo stesso amore per l'una e per l'altra patria: amo definirmi un apulo-campano». Così scrive di sé Riccardo Muti, all'inizio di «Prima la musica, poi le parole», la sua autobiografia. Meridionale, dunque; e fieramente. Poi il diploma al Conservatorio di Milano, le prime affermazioni al Maggio Musicale di Firenze, il lungo incarico alla guida dell'orchestra della Scala, in questi giorni la presenza a Roma per una serie di recite del Nabucco di Verdi, diretto ieri sera alla presenza del Presidente della Repubblica.
La carriera di un musicista non ha patria e lo sanno bene i cantanti, i direttori, gli strumentisti italiani che sono stati per secoli, e continuano a essere, infaticabili emigranti. Muti non fa eccezione: i successi a Filadelfia, il sodalizio con l'orchestra dei Filarmonici di Vienna, la presenza costante al festival di Salisburgo, il recente incarico a Chicago.
Tuttavia, in questi giorni sembra che attraverso di lui si sia di nuovo acceso il cortocircuito tra musica - più esattamente: il melodramma, l'opera in musica - e nazione. Una nazione affaticata, che trova motivi per dividersi, per precisare, per distinguere, anche in questo giorno di festa, e che sembra ritrovare una vernice comune negli entusiasmi che questa musica ancora accende. «Non c'è, né ci deve essere che una musica grata alle orecchie degli italiani nel 1848. La musica del cannone! Io non scriverei una nota per tutto l'oro del mondo: ne avrei un rimorso, consumare della carta da musica, che è buona per fare cartucce», scriveva Verdi il 21 aprile 1848, nella sua più celebre lettera patriottica. E meno male che non è stato di parola.
E un secolo dopo, commentava Massimo Mila: «Soltanto in Italia in rapporto di filiazione tra l'artista e la nazione procede in questa direzione e riguarda assai più lo spirito che i sensi».
Oggi, siamo allo stesso punto. Così, ogni recita - e sono tutte esaurite - di questo Nabucco romano diventa un sacrificio collettivo: un atto sacro, a fortissima temperatura emotiva. Dopo il Va' pensiero - «che non può diventare inno nazionale perché esprime il dolore, il compianto di un popolo incatenato», precisa Muti - il Maestro chiede al pubblico di cantare e di unirsi al coro del Teatro dell'Opera di Roma. Superata ogni remora, ogni dubbio se concedere o non concedere il bis, quel coro sembra diventare un momento identitario, e condiviso: «Era già successo alla Scala: sapevo bene, in teoria, di non poter concedere il bis: il divieto faceva parte di quel codice scaligero che aveva dato al teatro negli anni Venti il suo meritato carisma e la funzione di modello agli occhi del mondo. Ma alla terza richiesta mi chiesi che fare: “Se non lo fai - dicevo fra me e me - deludi migliaia di persone, se lo fai spezzi una tradizione sacra”». La spezzò, rispettando la richiesta che partiva dall'emozione della sala gremita, e da se stesso.
«Continuo a combattere per un'Italia - che amo profondamente - e per un'Europa che denotano gravi segni di stanchezza, di smarrimento. Altre nazioni, tecnologicamente, culturalmente si stanno prendendo il futuro. Non vorrei che in questo futuro l'Europa e l'Italia rimanessero soltanto una specie di museo. Magari con la scritta “chiuso”»: un rischio concreto che Muti ha esplicitamente evocato l'altra sera, spezzando un'altra tradizione e parlando al pubblico durante lo spettacolo.
Ma un'identità musicale italiana capace di imporsi come codice linguistico internazionale è assai più antica di Verdi: «Mozart è stato il più grande operista italiano del Settecento. Certe sue creazioni, penso a Così fan tutte, ma non solo, non sarebbero state possibili senza la conoscenza dell' opera italiana e in particolare napoletana di quel secolo». In questa direzione vanno le esecuzioni di compositori e titoli italiani usciti dal repertorio più frequentato, che Muti da alcuni anni costantemente ripropone, in un lavoro tenace, non episodico.
La musica ha un'altra caratteristica preziosa: unisce e non divide, in un mondo contemporaneo che vede ancora contrapposizioni feroci tra popoli, tra Stati. Questa la strategia di Le vie dell'amicizia, la manifestazione legata al festival di Ravenna, che ha fatto tappa in diverse città del Mediterraneo, del Medio oriente, del Nord Africa e, in Italia, a Trieste: «Trieste come città di confine, città ponte tra l'Italia, la Slovenia e la Croazia. Un concerto che ha avuto un significato sociale, ma anche politico: amicizia significa fratellanza, ricucire ciò che è stato strappato. Trieste, in memoria degli orrori avvenuti nella Risiera di San Sabba, il lager dove furono torturati, uccisi, avviati ai campi di sterminio migliaia di italiani, soprattutto ebrei; e degli orrori delle foibe istriane, che inghiottirono migliaia di altri sventurati».
Maestro, fa politica o musica? «Uso la musica anche per aggregare persone, culture, religioni, popoli diversi. Faccio musica, non politica. La mia politica è fare appello continuo e appassionato per la cultura. Ho sempre combattuto contro lottizzazioni, partigianerie». Per un'altra Italia, quella che festeggeremo nel 2161.



Repubblica 17.3.11

Muti: "Non toccate Mameli è meglio di Va’ Pensiero"
Il direttore d’orchestra: "Quelle note rappresentano la storia di tutti noi e sarebbe assurdo cambiarle con Verdi"
"Il Nabucco è meravigliosamente poetico ma è un canto di perdenti: è una lamentazione, una preghiera"
di Leonetta Bentivoglio



Che cosa accende la fiamma del Nabucco? Perché batte invariabilmente forte il cuore patriottico di questo monumento musicale? «Perché vi si specchia l´essenza stessa dell´Italia», risponde uno straordinario specialista di opere verdiane come Riccardo Muti, «anche se l´opera è basata sulla Bibbia». Ma al di là dell´argomento biblico, con la sua violenta storia di un popolo, gli Ebrei, esule e asservito a un tiranno, il re di Babilonia, fu in qualche modo facile, per un Paese frammentato e oppresso come l´Italia in cui debuttò il Nabucco (Scala, 1842), proiettare la speranza di un prossimo risorgimento in quel grandioso affresco musicale. Lo fece soprattutto ritrovandosi nel Va´, pensiero, pagina corale di inestinguibile efficacia, in grado di sollecitare un desiderio di riscatto che continua a riguardarci anche in quest´Italia odierna, invelenita dagli scandali e soffocata nelle sue risorse culturali. Lo ha dimostrato Muti qualche sera fa, sul podio della prima del Nabucco a Roma, accogliendo la richiesta di bissare quel coro, e anzi invitando il pubblico a unirsi al canto collettivo, in un´onda clamorosa di emozioni condivise che sfidava coraggiosamente il rischio della retorica.
«Io credo davvero nella bandiera e nella patria», afferma il direttore d´orchestra con la consueta veemenza. «Ci ho creduto fin da bambino, essendo cresciuto in una terra del Sud dove questi valori sono radicati. L´ho ribadito anche in periodi in cui la fede nel tricolore sembrava politicamente sospetta. Ho sempre creduto nell´Italia, nella sua gente, nei suoi talenti. E continuo a credere in quel suo ricco patrimonio artistico e culturale che ci rappresenta e fa la nostra grandezza nel mondo. Per questo andrebbe difeso».
Crede anche nell´Inno di Mameli?
«Certo: mi coinvolge e mi commuove. Non mi pongo mai di fronte a questo pezzo con un atteggiamento giudicante, come un critico che ne analizza la fattura. Nell´inno italiano sono nato: fa parte del nostro Dna. È la musica dei milioni di miei connazionali che hanno sacrificato la vita per la loro terra. D´altra parte, con qualche rara eccezione, come l´inno tedesco, derivato da un quartetto di Haydn, e come l´inno inglese e quello russo, nessun Paese, per i suoi inni, conta su pagine musicali di autentico pregio. Non sono pensate in profondità, ma fatte per spronare un popolo, imprimergli vigore e motivarlo. Anche la Marsigliese, cantata con fierezza dai francesi, al cui spirito nazionale si armonizza egregiamente, non spicca per qualità musicale».
Lei ha eseguito tanto l´Inno di Mameli, persino in luoghi del mondo difficili e remoti grazie ai "Viaggi dell´Amicizia" del Ravenna Festival, dove dirige ogni volta l´inno locale accanto al nostro.
«È così che sono diventato un esperto di inni! Ho diretto l´egiziano, il tunisino, l´armeno, il marocchino, il siriano, il libanese… A noi si uniscono di volta in volta musicisti e coristi del posto, e per loro imparare il testo è un´impresa. Parole come "dell´elmo di Scipio s´è cinta la testa", per uno straniero, possono essere uno scioglilingua. Il 9 luglio saremo a Nairobi, e a cantare l´Inno di Mameli ci saranno anche i bambini del Kenya. Sono situazioni coinvolgenti e unificanti. Comunque, accanto ai vari inni, posso testimoniare che il nostro non sfigura mai, anzi: spesso è il migliore».
Resta dunque convinto che non va messo in discussione?
«Non avrebbe senso: Fratelli d´Italia è la nostra storia. È i nostri eroi e caduti. È i valori e gli onori della patria. Trovo assurdi certi appelli alla sua sostituzione. Teniamoci l´Inno di Mameli e che Dio ce lo conservi».
Eppure, come lei ci ha di nuovo fatto comprendere nei giorni scorsi a Roma, il Va´, pensiero è l´Italia…
«La sua poesia è magistrale, ma non potrà mai essere un inno, perché è un canto di perdenti, dove gli Ebrei piangono l´esilio e la sconfitta. In realtà è una lamentazione e una preghiera. Fu Verdi a spiegare che, scrivendo quel coro, aveva in mente il Salmo "Superflumina Babylonis". È grave e sottovoce, dal tempo lento, e il suo carattere desolato esprime dolore e rimpianto. Non nacque per fomentare la ribellione contro gli invasori austriaci, e infatti nella sua malia sommessa non ha il senso di riscossa di un coro risorgimentale. Eppure, grazie alla sua forza evocativa, il Va´, pensiero è divenuto il sogno della patria persa, il sentimento di un´identità comune e il riflesso di istanze di liberazione".
Perché allora non considerarlo un possibile inno?
«Perché è inimmaginabile, per esempio, il Va´, pensiero cantato da una squadra di sportivi: farebbe crollare la pressione. Ci vuole un altro piglio, un vigore particolare, che quello di Mameli possiede. Bisogna anche capire che il Va´, pensiero non vive solo di una meravigliosa melodia, ma di una superba orchestrazione e di una serie di linee di contrappunto che la attraversano dandole un significato profondo e complesso. Per eseguire quella pagina, insomma, non si può prescindere dal contesto di orchestrazione e armonizzazione concepito per Nabucco dal compositore".
Che cos´ama di quest´opera verdiana?
«La sua sinfonia strepitosa dal punto di vista della forma, dell´incisività, della potenza ritmica e rivoluzionaria. Le sue pagine corali ispirate al Rossini tragico, e altre di estrema raffinatezza cameristica. Il bellissimo uso strumentale dell´orchestra e la definizione di figure ben stagliate e caratterizzate, con due giganti quali Nabucco e Abigaille, che sono porte d´accesso ai personaggi immensi della maturità verdiana: in Nabucco c´è già tutto il Verdi degli anni successivi».

La Stampa 17.3.11
“Cari ragazzi, vi porto con me nello spazio”
L’astrofisica Margherita Hack in tivù con “pillole di scienza”
di Egle Santolini


SUL CANALE SKY DEAKIDS «I bambini sono curiosi e per niente spaventati da certe idee catastrofiste» Sulla cultura scientifica grava il pregiudizio che sia per “piccoli intelletti” Risale ai tempi di Croce
La tragedia in Giappone? Eventi come quello accadono una volta ogni qualche secolo
I VERI RISCHI «Vogliamo parlare delle migliaia di persone che vivono sulle falde del Vesuvio, vulcano attivo?»

A 88 anni Margherita Hack si mette a fare la tivù dei ragazzi, candidandosi al ruolo di nonna (o bisnonna) per bambini curiosi. Che magari poi diventeranno scienziati e un giorno si ricorderanno di quella vecchia signora dagli occhi azzurri che gli parlò per la prima volta di asteroidi e buchi neri.
Succede da lunedì 21 marzo sul canale satellitare DeAKids, numero 601 della piattaforma Sky, dedicato ai ragazzini dai sei ai 12 anni. Il programma Big Bang! – In viaggio nella spazio con Margherita Hack consiste di pillole di cinque-sei minuti l’una sparse nel palinsesto, in cui la professoressa Hack dialoga con Federico Taddia: «Un formato molto adatto a Internet, e infatti è anche quella la destinazione», informa Massimo Bruno, responsabile del canale. S’immagina che Taddia vaghi nello spazio e da lì dialoghi con Margherita: che compare in una finestra elettronica e racconta ai bambini, per esempio, che cos’è un asteroide, e se è vero che ce n’è uno che minaccia di cadere sulla terra nel 2036 (risposta: «Sì, si chiama Apophis cioè il distruttore, potrebbe fare danni incommensurabili ma tanto io non ci sarò e vi dovrete arrangiare da soli»). O anche se è vero che il sole prima o poi – molto poi - esploderà, o che cosa sono i buchi neri, quesito quest’ultimo che, dice la Hack, suscita un gran successo le volte che incontra in pubblico i più piccoli, «ma qualche volta i piccini si sbracciano a far domande ma poi le risposte non le ascoltano». Corredato di animazioni e grafiche per rendere il tutto più appetibile, Big Bang! debutta con l’equinozio di primavera e una maratona speciale di cartoni dedicata allo spazio, e prende spunto da un libro, Perché le stelle non ci cadono in testa , che Taddia e la professoressa hanno dedicato ai lettori junior. Perché fare divulgazione si può, nonostante tutto: e nonostante gravi sulla cultura scientifica,come sottolinea la superastronoma, «un pregiudizio che risale ai tempi di Croce e di Gentile, quando le discipline umanistiche erano considerate per spiriti magni e quelle scientifiche per piccoli intelletti».
La professoressa trova i bambini curiosi, non spaventati da certe idee catastrofiste («a farmi le domande sulle profezie Maya sono sempre i loro genitori») e utili alla ricerca, perché spesso dai quesiti più semplici possono venire degli spunti interessanti. Quanto alla sua infanzia, ricorda che il suo sogno era di fare «l’esploratrice nell’Africa nera» e le sue letture «le storie d’avventura».
Hack è considerata una delle astrofisiche più eminenti al mondo (ma non diciamo bischerate) e le hanno pure dedicato un asteroide: omaggio di cui è grata ma anche un po’ infastidita, «perché anche se non vorrei mai che quegli astronomi toscani che ci han pensato ci rimanessero male, è come quando ti regalano un bel libro molto pesante e poi te lo devi portare a casa». Le stelle, spiega il suo compagno di avventure Taddia, non l’hanno però mai emozionata in senso stretto, «e infatti le definisce “palloni di gas”. Mai che tu abbia espresso un desiderio vedendone una, vero Marghe?». Precisazione dell’indomita Marghe: «No, non mi emozionano. Ma sono belle, come tutta la natura».
E in questi giorni di allarme per il mondo, «di troppe chiacchiere e di poco ragionamento», è soprattutto al rigore e al sangue freddo che la professoressa fa appello: «Penso che in Italia si andò a votare per un referendum sul nucleare spinti dall’ondata emotiva di Chernobyl, e che fra tre mesi succederà lo stesso. E penso che di energia abbiamo bisogno essendo completamente dipendenti da altri paesi, ma che razionalmente il nucleare ne è una fonte più sicura e molto meno inquinante di altre». E allora non resta che «affidarsi ai numeri, alle probabilità: eventi come quello che si è verificato in Giappone accadono una volta ogni qualche secolo. Piuttosto sono gli italiani a farmi paura, vista la nostra abitudine di prendere tutto sottogamba: è questo il rischio vero. Vogliamo parlare delle migliaia di persone che vivono sulle falde del Vesuvio, un vulcano che non è spento?».



Corriere della Sera 17.3.11

Se le scienze spiegano la politica

Meno filosofia, più biologia: la provocazione di Brooks e Fukuyama

di Massimo Gaggi



NEW YORK— Harold ed Erica seguiti dalla nascita alla morte mentre crescono, studiano, si amano, si tradiscono, lavorano (lui saggista un po’ svagato e poi analista in un think tank, lei professionista molto determinata che arriva alla Casa Bianca come vicecapo dello staff del presidente), frequentano i luoghi canonici dell’establishment colto: dal forum di Davos ai meeting dell’Iniziativa filantropica di Bill Clinton, passando per il Council on Foreign Relations e le mobilitazioni di Medici senza frontiere. Poi si ritirano (ovviamente ad Aspen, mecca dello sci e della convegnistica), infine muoiono. «Personaggi col calore di due avatar» sono partiti all’attacco i critici di The Social Animal, il libro di David Brooks— metà racconto, metà indagine socioculturale— pubblicato un paio di settimane fa negli Stati Uniti da Random House. Brooks non è un romanziere né un vero scienziato sociale. Il columnist del «New York Times» è un saggista conservatore, un moderato con una vena satirica che venne fuori soprattutto in Bobos in Paradise, graffiante ritratto di dieci anni fa dei «borghesi bohémien» . Stavolta, però, Brooks indossa altri abiti. Reduce da tre anni di letture scientifiche e colloqui con neuroscienziati, sociologi, studiosi di economia comportamentale e psicologi dell’età evolutiva, tenta l’impervia e ambiziosa strada di un saggio che— usando la forma del racconto nel tentativo di alleggerire la lettura — usa i risultati delle più recenti indagini scientifiche per ricostruire i meccanismi che guidano i comportamenti umani e la ricerca del successo. Un viaggio dentro l’uomo, il suo bisogno di rapporti sociali, amicizia, amore. Le sue scelte guidate più dall’istinto e dalle emozioni che dalla razionalità cartesiana. E l’impatto di questi meccanismi sulla realtà politica. Sono bastati pochi giorni per fare di The Social Animal il libro più discusso del momento, tra apprezzamenti e molte critiche che Brooks ha sicuramente favorito fissando l’asticella molto in alto: «Filosofia e teologia— sostiene il saggista— oggi ci aiutano meno che in passato, si sono come atrofizzate. Il loro posto viene preso sempre più da scienziati e ricercatori che scavano nella natura dell’uomo. Per questo ha passato gli ultimi tre anni a discutere con gli scienziati. Che non sono dei tecnici, dei materialisti, ma uomini che cercano la verità» . Le accuse sono quelle immaginabili: un divulgatore acuto e ironico che si è preso troppo sul serio, che scimmiotta il Rousseau dell’Emilio, finendo per sfornare un’opera seriosa, pesante e priva di una reale autorevolezza scientifica. Ma il suo invito a esplorare nuovi orizzonti, le descrizioni dei modi in cui reti di neuroni inviano segnali che determinano il comportamento, attirano l’attenzione e l’apprezzamento di intellettuali liberali come Paul Berman, interessati a come le neuroscienze possono influenzare non solo il modo di valutare le scelte individuali ma anche l’agire politico. Proprio per questo discussioni e polemiche su Brooks sono destinate a incrociarsi col dibattito su un altro attesissimo saggio: The Origins of Political Order («Le origini dell’ordinamento politico» ) di Francis Fukuyama. Il nuovo libro dell’autore reso celebre vent’anni fa da La fine della storia, uscirà in America il 12 aprile, ma anche qui già si comincia a discutere sulla base di qualche anticipazione e dei resoconti di recenti discussioni accademiche che lo stesso Fukuyama ha avuto con i professori di alcuni atenei. Il filosofo americano di origine giapponese segue un percorso diverso: ripercorre i comportamenti sociali, l’evoluzione culturale e quella delle istituzioni politiche delle varie civiltà che si sono succedute nei secoli. Ma anche lui propone un percorso alternativo e innovativo. E anche Fukuyama ha arricchito negli ultimi anni le sue visioni filosofiche con incursioni nelle scienze naturali (come il saggio del 2002 Il nostro futuro postumano. Conseguenze della rivoluzione biotecnologica). Stavolta si concentra sugli aspetti culturali, non su quelli biologici, dell’evoluzione sociale. Secondo il «New York Times» e politologi come il danese George Sorensen, questo saggio, che parte dal cacciatore preistorico e dalle prime tribù unite da fattori religiosi, diventerà un nuovo classico nello studio dell’evoluzione politica delle società. Con la Cina che, con un sistema politico molto centralizzato, diventa uno Stato assai prima di un’Europa che rimane sostanzialmente tribale anche nell’era delle deboli monarchie, costrette a dividere il potere coi signori feudali. Solo Inghilterra e Danimarca riescono a darsi organizzazioni di governo forti, basate sullo Stato di diritto. Il saggio (si ferma alla Rivoluzione francese, ma sarà seguito da un secondo volume che arriverà fino ai giorni nostri) descrive come un «incidente della storia» il passaggio dello Stato di diritto, basato su fattori religiosi, a un sistema fondato su meccanismi democratici. Un incidente felice che si deve fare di tutto per conservare, ma in una convivenza forzata con altri sistemi come l’autocrazia imperiale cinese. I due saggi seguono traiettorie diverse, ma con vari incroci. Gli autori, oltre che l’interesse per le scienze naturali, condividono il fatto di essere dei conservatori moderati che, in seguito all’attentato alle Torri gemelle, appoggiarono l’interventismo di Bush. Salvo poi pentirsi, tutti e due, dopo il disastro dell’Iraq. Ora Fukuyama riflette sull’ «estrema difficoltà di creare istituzioni politiche per una società diversa dalla propria» . Mentre Brooks, un conservatore «hamiltoniano» , si professa liberale, ma si mostra anche convinto che, davanti a un’umanità che gioca su un piano inclinato, sia opportuno un intervento statale correttivo, capace di ripristinare la parità senza essere invasivo né assistenziale. Due saggi che susciteranno controversie, ma che aiutano a rileggere le vicende chiave degli ultimi anni — gli interventi in Iraq e Afghanistan, la guerra Usa contro il terrorismo e il crollo di un sistema finanziario che era stato costruito sulla teoria del comportamento razionale del soggetto economico— in una luce nuova.

mercoledì 16 marzo 2011


 l’Unità 16.3.11
Bersani al governo: «Da irresponsabili andare avanti senza aprire una riflessione»
Oggi interrogazione al ministro Prestigiacomo e mozioni per rinnovabili ed election day
«L’atomo è un’avventura senza senso. Fermatevi»
Oggi interrogazione al governo e mozione per sospendere il blocco degli incentivi sulle energie da fonti rinnovabili. Sul nucleare si divide il fronte dell’opposizione: Pd con Sel e Idv, Udc e Fli a favore dell’atomo.
di Simone Collini


Prima l’intervista all’Unità in cui Pier Luigi Bersani ha annunciato che il Pd sosterrà il referendum per abrogare la legge sul ritorno del nucleare in Italia, poi una nota della segreteria per chiedere al governo di «sospendere l’esame dei decreti per la localizzazione dei siti ove collocare le nuove centrali», per proseguire oggi con un’interrogazione che presenterà il capogruppo alla Camera Dario Franceschini e a cui dovrà rispondere il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo. Il Pd va all’offensiva sul nucleare, perché ritiene sbagliato il piano per il ritorno dell’atomo e perché è convinto che su questo fronte si può assestare un colpo non da poco al governo (e personalmente al premier, visto che insieme si voterà un quesito sul legittimo impedimento). «Di fronte al dramma del Giappone è veramente insensato che non ci sia da parte del governo un accenno alla riflessione, è un atteggiamento inaudito», dice Bersani conversando con i cronisti alla Camera. «L’opinione pubblica pretende, giustamente, almeno un momento di riflessione. Noi sosterremo il referendum perché il piano del governo è sbagliato, perché è una tecnologia non nostra ed economicamente non sostenibile, inoltre sulle scorie e sulla sicurezza restano interrogativi a cui bisogna prestare attenzione. In Italia quella del nucleare sarebbe un’avventura senza senso, perciò dico al governo: fermatevi e riflettete».
GOVERNO IRRESPONSABILE
Se al question time di oggi il ministro per l’Ambiente ribadirà quanto sostenuto ieri da quello per lo Sviluppo economico («È inimmaginabile che l’Italia torni indietro rispetto alla decisione di incamminarsi nel nucleare», ha detto Paolo Romani al termine della riunione sulla crisi nucleare in Giappone convocata dal commissario europeo per l’Energia Gunter Oettinger), il Pd andrà a testa bassa contro una scelta «da irresponsabili», come hanno scritto Bersani e gli altri membri della segreteria al termine della riunione di ieri. I Democratici contano sul fatto che i loro possibili alleati nel fronte antinuclearista vanno al di là dei soli Idv e Sel, che sono i promotori dell’iniziativa referendaria. Se questa battaglia avrà inevitabilmente delle ripercussioni nella strategia delle alleanze, visto che sia l’Udc che Fli sostengono sia un errore opporsi al ritorno dell’atomo, il Pd conta di incassare un risultato grazie anche alla netta contrarietà o alle profonde perplessità presenti tanto nell’elettorato quanto negli amministratori locali di centrodestra. Non c’è solo il sindaco di Roma Gianni Alemanno a chiedere «una riflessione molto seria» o il governatore del Veneto Luca Zaia a mandare un messaggio al governo («finché ci sarò io questa Regione non ospiterà centrali»).
Dal punto di vista dell’appartenenza politica, all’interno del Carroccio c’è un filone molto attento alla tutela del territorio e non a caso Daniele Marantelli, deputato Pd che vanta buoni rapporti con la galassia leghista, ha cominciato a sondare il terreno e ha confermato ai vertici del suo partito che molti sindaci “padani” sono pronti a schierarsi contro l’atomo; dal punto di vista degli enti locali poi, nessuna regione si è detta disponibile ad accogliere centrali. Questo, mentre il governo continua a rinviare l’esame del decreto che definisce i criteri per l’avvio delle centrali (ieri è saltata la seduta in Commissione Attività produttive e ambiente per assenza di esponenti dell’esecutivo).
Se poi il governo dovesse contare sul sostegno del mondo imprenditoriale per far fallire il referendum, è il ragionamento che si fa nel Pd, dopo il blocco degl incentivi sulle energie da fonti rinnovabili (decisione che colpisce molte aziende attive sia al Sud che al Nord) rischia di avere più di una delusione. Sarà proprio sulle rinnovabili che oggi Pd e Idv presenteranno una mozione, chiedendo di sospendere il decreto che colpisce i finanziamenti e puntando a mandare sotto l’esecutivo. L’altra mozione che verrà presentata è sull’election day, visto che accorpare amministrative e referendum renderebbe più facile raggiungere il quorum.

La Stampa 16.3.11
I “liquidatori” di Cernobil 600 mila eroi dimenticati che continuano a morire
Nell’aprile 1986 affrontarono il disastro quasi a mani nude
di Anna Zafesova


Il loro monumento funebre, uno per tutti, è a Mitino, maxicimitero alla periferia di Mosca: un «fungo» atomico con all’interno la statua di una figura umana che allarga le braccia, in un gesto disperato, quasi a voler fermare a mani nude il disastro. Sotto, ci sono 28 lapidi, e sotto ancora, a diversi metri di profondità, sotto una lastra di cemento, 28 bare di piombo. I tecnici e i pompieri che sono stati convocati a Cernobil la notte del 26 aprile 1986, per «spegnere un incendio», sono stati sepolti tutti insieme, in uno spazio isolato del cimitero: perfino i loro corpi erano radioattivi. Sono morti in pochi giorni, in un’agonia atroce, blindati in un’ospedale speciale di Mosca che, dopo la loro morte, è stato completamente ristrutturato. E mentre venivano sepolti, nella centrale nucleare devastata venivano inviati, da tutta l’Unione Sovietica, decine di migliaia di soccorritori: militari, operai, piloti, minatori, un po’ reclutati a forza ma molti volontari, per chiudere la voragine radioattiva che si era aperta nel sistema sovietico.
Sono stati in totale circa 600 mila, e 25 anni dopo portano il loro titolo di «likvidator», liquidatore, con un misto di orgoglio e rabbia. Hanno salvato migliaia di vite, senza pensare, e spesso nemmeno senza conoscere i rischi che correvano. I soldati di leva che spalavano il bitume radioattivo dal tetto della centrale protetti solo da mascherine di garza. I piloti di elicotteri che portavano il loro carico di cemento esattamente sopra la voragine del reattore esploso, per blindarlo. I minatori che scavavano i tunnel per impedire che le acque contaminate finissero nel bacino del Dniepr. Quelli che nei villaggi spiegavano alla gente che quel sole splendente di una primavera come non se ne erano viste da tempo, era mortale, e che dovevano andarsene subito, solo con quello che avevano addosso. Quelli che in una lotta contro il tempo costruivano il «sarcofago», il super-coperchio che avrebbe dovuto coprire il reattore esploso insieme con le scorie che produceva.
I tentativi di usare le macchine fallivano: troppe radiazioni, mentre gli esseri umani andavano avanti. I contatori Geiger che portavano addosso andavano in tilt dopo poche ore, e qualcuno li resettava: teoricamente, raggiunto un certo livello di radiazioni accumulate, i «liquidatori» avrebbero dovuto venire rispediti a casa, ma c’era ancora del lavoro da fare. Molti «likvidator» si erano arruolati a Cernobil per soldi, altri per l’avventura, ma il museo della centrale espone decine di lettere di persone che chiedevano di venire inviate volontarie «perché il Paese ha bisogno di me», «perché voglio essere utile».
Nessuno era consapevole dei rischi, né i liquidatori, né chi li mandava nell’inferno della «Zona» di 30 km intorno al reattore. Secondo l’«Unione Cernobil», l’organizzazione che cerca di tenerli uniti, 60 mila liquidatori, uno su dieci, oggi sono morti. Ma le autorità attribuiscono soltanto un paio di centinaia di questi decessi alle conseguenze delle radiazioni assorbite. La battaglia dei liquidatori per ottenere cure, pensioni, medicine, è arrivata fino alla Corte Europea di Strasburgo. E ora hanno contro anche l’Onu, che in un rapporto del 2005 ha quantificato in 57 le morti totali attribuibili al disastro di Cernobil (secondo Greenpeace, sono almeno 200 mila) e sostenuto che in Ucraina, Russia e Bielorussia «non esiste evidenza scientifica di aumento di mortalità dovuta agli effetti di radiazione».

l’Unità 16.3.11
Il naufragio. Parlano i sopravvissuti: «Nel nostro Paese abbiamo visto morire fratelli e sorelle»
2629 i migranti ora a Lampedusa. Ma il centro d’accoglienza non può ospitarne più di 800
«Il mare è pericoloso ma non c’è scelta: in Libia sparano... »
I cadaveri che riaffioreranno nei prossimi giorni saranno raccolti dai pescatori. «Ma alcuni li rigettano in mare sussurra un anziano se li dichiari rischi di stare fermo al porto per giorni e giorni... ».
di Manuela Modica


È di nuovo emergenza. Gli sbarchi di lunedì fanno precipitare Lampedusa nel caos. L’isola più a sud d’Italia, così vicina al nord Africa, accoglie più migranti di quanto non riesca a contenerne. Sono 2629, e il centro di accoglienza ha una capienza di solo 800 unità. Così che «siamo di nuovo punto e daccapo», dice Giusi Nicolini che offre i locali dell’Area marina protetta, per ospitarne 150, come aveva già fatto nei primi giorni di questa nuova ondata di migrazione quando il Cpsa era ancora chiuso. Un locale predisposto per convegni e mostre, con bagni da “ristorazione”. Lì dove gli albergatori, riuniti nel comitato spontaneo “Porta d’Europa”, si riunivano giovedì scorso per chiedere che i migranti non fossero più trasferiti sull’isola. Ne sono arrivati, invece, molti di più ad alimentare la paura di gente di mare che vive di turismo ma non riceve più prenotazioni, nonostante la stagione estiva sia ormai alle porte.
Così che il passaggio di Marine Le Pen, lunedì mattina, sembra aver aperto una settimana di “passione”, di nuovi disagi per gli abitanti dell’isola: «Come un oscuro presagio, commenta la Nicolini non sappiamo più cosa pensare: sembra studiato a tavolino. Così sarà difficile contenere la paura: è una situazione molto grave». Tanto grave che riapre ai migranti anche la "Casa della fraternità" della parrocchia di Lampedusa, che ne ospiterà 200, di nuovo. Situazione complicata anche dal meteo che blocca la nave per i trasferimenti della Siremar a Porto Empedocle lasciando lo ”svuotamento” dell’isola ai soli mezzi aerei. Pochi voli giornalieri, che possono trasportare un numero irrisorio: «Solo 270 oggi (ieri, ndr). È una situazione traumatica», spiega anche Cono Galipò amministratore del centro di accoglienza, i cui operatori sono ora a lavoro su tre centri contemporaneamente.
LE TRAVERSATE DELLA MORTE
Sono giorni difficili per gli abitanti dell’isola siciliana. Ma sono giorni drammatici ancora più per i tunisini che perdono nella traversata “fratelli” in mare proprio sotto i loro occhi. Navigano per giorni sfidando la morte, e perdendo. La “mano del mare”, l’altra notte, ne ha risucchiati 45 almeno. Sotto gli occhi di compagni di viaggio imbarcati su un altro mezzo. «Sono morti, morti», raccontano arrivati al molo Favaloro, dove si fermano per aspettarli, per capire se qualcuno di loro è stato tratto in salvo. Hanno fatto quel che potevano, hanno salvato chi di loro sapeva nuotare ed è arrivato vicino alla loro imbarcazione. Mani tese ad aiutarli, corpi bagnati. Sopravvivenza per i più fortunati. Per gli altri, il fondo del mare. Saranno forse riportati un giorno alla luce dai pescatori siciliani.
Così, infatti, accade a qualcuno. Al centro per anziani, nella via principale del paese, dove molti pescatori giocano a briscola raccontano: «Sì, a qualcuno di noi è capitato, ma capita di più ai pescatori di Pantelleria. E quelli magari li ributtano a mare. A dichiararli, finisce che stanno fermi al porto per giorni e giorni, per i controlli della guardia costiera. Così viene meglio ributtarli in mare, ha capito?».
Uno scenario macabro, dissonante dalle spiagge caraibiche dell’isola, dalla luce che abbraccia senza respiro questa piattaforma sul mare che sembra poter concedere solo vita, solo ristoro. Solo speranza a chi ha la morte anche alle spalle: «Abbiamo visto morire fratelli e sorelle. E ne muoiono ancora. Sparano, senza una ragione. Il viaggio fin qui è rischioso, ma restare lì lo è di più», Xavier, è sull’isola da 7 giorni, e dà voce a frasi che stonano con la giovane età: ha solo 22 anni. Quando arriva sull’isola è fatto d’acqua. Sul molo riceve la prima assitenza, una sorta di coperta – ricorda il domopack - d’oro che lo avvolge, che lo riscalderà in un istante. Lui non sfugge ai fotoreporter, alle telecamere, guarda dritto nell’obiettivo, si mostra così, con l’acqua in fronte, l’oro dello strano, miracoloso, involucro, che lo avvolge. Mostra così le sue traversie, senza imbarazzo, ma con espressione atona. Ai piedi non ha scarpe. E così sale sul pullman che con gli altri lo trasporterà al Cpsa. Alza la mano, mentre va via, in segno di vittoria. Per loro è una lotta vinta. Così entrano al centro di prima accoglienza, intonando un coro da stadio, interrotto dalle perquisizioni. Poi viene consegnata a questi vittoriosi di vita, una borsa con vestiti, dalle scarpe ai maglioni, più una ricarica di 5 euro per chiamare casa, e avvertire che sono vivi: ce l’hanno fatta. Sono nelle mani dell’Italia adesso, che però non sa che farne: «Dalla prefettura ci fanno capire che non sanno in realtà dove mandarli», racconta la Nicolini.

l’Unità 16.3.11
Intervista a Ibrahim Dabbashi
«Il raìs farà di Bengasi una nuova Srebrenica. Il mondo deve fermarlo»
L’ex diplomatico passato con gli insorti: «All’Onu bisogna battersi per linea dura di Parigi e Londra. All’Italia chiediamo più coraggio»
di U.D.G.


All’Italia chiediamo più coraggio, più determinazione. Chiediamo fatti e non parole. Perché sui fatti che sarà valutata dal popolo libico che si è rivoltato contro la dittatura di Muammar Gheddafi. Se il governo italiano non assumerà un atteggiamento più intransigente, ci saranno in futuro serie ripercussioni nelle relazioni tra i due Paesi, perché il popolo libico si libererà di Gheddafi. L’Italia deve cambiare atteggiamento».
A sostenerlo è uno dei diplomatici di primo piano che è passato dalla parte degli insorti: l'ambasciatore Ibrahim Dabbashi, numero due della delegazione libica alle Nazioni Unite. «Gli aiuti umanitari sono importanti ma non bastano. All’Italia – afferma Dabbashi – chiediamo di essere dalla parte di Francia e Gran Bretagna nel sostenere l’istituzione di una “no fly zone” sulla Libia. Procrastinare questa decisione, o osteggiarla nei fatti, significa fare il gioco di Gheddafi. Esserne complici». «Non abbiamo bisogno di aiuti militari, non chiediamo l’intervento militare di alcun Paese – ribadisce l’ambasciatore Dabbashi il popolo libico saprà sconfiggere il regime di Gheddafi da solo. Ma certamente abbiamo bisogno di aiuto per quanto riguarda il rispetto di una ‘no fly zone’, per evitare bombardamenti. Su questo chiediamo l’aiuto dei Paesi amici del popolo libico per bloccare il regime di Gheddafi dall’usare lo spazio aereo libico contro il suo popolo». Nella Comunità internazionale, come dimostra lo stesso vertice di Parigi dei ministri degli Esteri del G8, permangono divisioni in merito alla creazione di una “no fly zone” sulla Libia. «Divisioni e incertezze fanno il gioco del regime. Di questo occorre avere coscienza e di questo ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Le parole non fermano gli aerei di Gheddafi. Con i suoi aerei, Gheddafi bombarda le città libiche, sposta armamenti pesanti e mercenari. Agli incerti in buona fede chiedo: ma come pensate di fermare quegli aerei? E come intendete fermare la mano di un dittatore che non ha esitato a far sparare contro chiunque è sceso in piazza per rivendicare diritti e libertà? Noi non chiediamo l’intervento militare di alcun Paese. Il popolo libico saprà sconfiggere il tiranno. Ma certamente abbiamo bisogno di aiuto per quanto riguarda il rispetto di una “no fly zone”, per evitare bombardamenti. E abbiamo bisogno di questo aiuto subito. Cosa altro si vuole che accada: un immane massacro a Bengasi? Si vuole che Gheddafi faccia di Bengasi la nuova Srebrenica?».
In questo scenario, cosa chiedete alla’Italia? «Più coraggio, più determinazione. Più fatti e meno parole. Gli aiuti umanitari sono importanti ma non è questa la priorità. All’Italia chiediamo di schierarsi con Francia e Gran Bretagna nel sostenere la “no fly zone”. A chiederlo è anche la Lega Araba».
Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, rimanda ogni decisione in merito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite...
«Intanto dica chiaramente se l’Italia intende sostenere la “no fly zone” e appoggiare i Paesi che nel Consiglio di Sicurezza se ne fanno sostenitori. Non basta dire che nella Libia di domani non c’è posto per Gheddafi. Perché Gheddafi non se ne andrà mai di sua spontanea volontà, e si illude chi pensa che il problema sia garantirgli un salvacondotto e l’impunità per i crimini che ha commesso. Gheddafi è animato da uno spirito di vendetta. È accecato dall’odio. Parlare di un suo coinvolgimento per una transizione ordinata è un insulto alla ragione».
Gheddafi ha minacciato di allearsi con Al Qaeda... «Prima ha agitato lo spauracchio di Al Qaeda ora minaccia di allearsi con Osama Bin Laden...La logica è sempre la stessa: quella del ricatto. Gheddafi è abile in questo: ricatta o compra. Sta al mondo libero dimostrare di non voler subire ricatti e di non essere in vendita».
Ambasciatore Dabbashi, Lei insiste molto sul fattore tempo... «Mentre stiamo parlando, mentre la Comunità internazionale si arrovella attorno sul sì o il no alla “no fly zone”, gli aerei di Gheddafi continuano a colpire, a spostare armi e mercenari, a seminare morte e terrore. Pensino a questo coloro che frenano sulla “no fly zone».

il Fatto 16.3.11
Noi e la Libia
Siamo ancora in tempo per agire
di Paolo Flores d’Arcais


Gheddafi massacra gli abitanti della Libia e l’Occidente chiacchiera. Gheddafi sta riportando l’intero paese sotto la sua mostruosa dittatura grazie soprattutto al controllo totale dello spazio aereo, come hanno rilevato tutti gli osservatori. Sarebbe bastato bombardare gli aeroporti di cui il sanguinario dittatore si serve come base operativa. Il presidente francese Sarkozy ha buttato lì una frase, tanto per fare la notizia d’apertura nei tg, ma si è ben guardato dal fare sul serio. Chiacchiere, appunto. Il resto d’Europa nemmeno quelle, mentre Obama continua a lambiccarsi su “essere o non essere?” della “no-fly zone” e i ribelli ad essere mitragliati dal cielo. È quasi un mese che l’insurrezione è cominciata, l’Europa avrebbe potuto riconoscere ufficialmente almeno da due settimane il gruppo dirigente dei rivoltosi a Bengasi come unico legittimo interlocutore, unico rappresentante della Libia, e fornire ad esso gli armamenti e le strutture logistiche e informative necessari per fare fronte all’immancabile controffensiva del colonnello. Ogni giorno di traccheggio in più era oro incenso e mirra per il dittatore di Tripoli, questo lo capiva anche un bambino. L’Italia del trapiantato di Arcore è stata ignominiosamente all’avanguardia in questa riedizione di Ponzio Pilato, ignominia del resto ovvia visto che i due sono compagni di sontuosissime merende. I ribelli sono stati lasciati soli, e se continua così finirà in un bagno di sangue e nel ritorno ancora più spietato del tallone di ferro.
SPIACE che anche la voce delle piazze democratiche si sia sentita poco o niente, quasi che il destino di dittatura o di liberazione dell’intera Africa mediterranea sia esotismo che non ci riguarda. Perché è evidente che la soluzione in Libia eserciterà enorme influenza sugli equilibri ancora incertissimi in Egitto e Tunisia tra forze democratiche e forze del gattopardo, e su quanto accadrà o meno in Marocco e in Algeria. La democrazia non si esporta con l’invasione militare, ripetono con penosa sintonia bipartisan governi e opposizioni (e non è sempre vero, Hitler probabilmente sarebbe morto di vecchiaia nel Reichstag), ma da questo a non aiutare un’insurrezione popolare in atto, con armamenti e un minimo di supporto aereo, ce ne corre. La differenza si chiama viltà. La tragedia non si è ancora compiuta, l’Europa e l’Occidente possono ancora sostenere rivolte che coinvolgono strati giovanili e intellettuali anche fortemente laici. Non si meraviglino se, in assenza, la prossima insurrezione sarà più che mai fondamentalista.

il Fatto 16.3.11
Riformano i magistrati, non la giustizia
di Gian Carlo Caselli


La sedicente riforma della Giustizia ideata dal governo, non è un’operazione indolore per la sicurezza dei cittadini. Le ripercussioni negative sul versante delle indagini saranno tante. Anche per le inchieste di mafia. Chi studia l’evoluzione delle mafie constata che per realizzare i loro affari esse hanno bisogno di commercialisti, immobiliaristi, operatori bancari, amministratori e uomini delle istituzioni (la cosiddetta “borghesia mafiosa”). Sempre più si infittiscono gli intrecci con pezzi del mondo politico e dei colletti bianchi. I transiti di denaro sporco nell’economia illegale si intensificano. Spesso le istituzioni criminali e quelle legali si contrastano, ma senza volontà di annientarsi, nel senso che sono piuttosto alla ricerca di equilibri. Diventa sempre più difficile – allora – stabilire la linea di confine fra lecito e illecito all’interno delle attività economiche, finanziarie e produttive. Per impedire che risuonino ancora oggi le parole di Giovanni Falcone circa il timore che “non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”, è necessario allora che le indagini di mafia siano condotte da una magistratura assolutamente autonoma e indipendente, nonché dotata di strumenti capaci di esplorare in profondità anche il lato oscuro e segreto delle mafie. Proprio il contrario di quel che risulta obiettivamente ricollegabile alla pseudo-riforma della Giustizia voluta dal governo. Una riforma che quand’anche abbia – come scopo di partenza – “solo” quello di vendicarsi dei magistrati, alla fine potrebbe causare risultati obiettivamente devastanti. Quanto meno finché la politica italiana continuerà a discostarsi massiccia-mente dagli standard europei con conseguenze da trarre – doverosamente – in caso di accertato coinvolgimento in comportamenti illeciti.
Una “spia” dei veri obiettivi della riforma si può trovare nel fatto che le novità si collocano tutte all’interno del titolo 4° della parte seconda della Costituzione. Questo titolo, che oggi è denominato “La magistratura”, nella riforma diventa “La giustizia”. Come volevasi dimostrare: si tratta di riformare i magistrati, non la giustizia. E non basta cambiare l’etichetta della bottiglia perché uno sciroppo diventi barolo. Ma torniamo agli effetti oggettivi della riforma. Possiamo prendere singolarmente – una per una – le modifiche in programma, oppure l’intiero pacchetto.
Le indagini in mano alla politica
SEMPRE avremo lo stesso identico risultato: il trasferimento del “rubinetto” delle indagini (cioè dei controlli di legalità) dalle mani della magistratura a quelle del potere politico, governo e/o Parlamento. Con conseguente riduzione degli spazi d’intervento autonomo della magistratura e quindi dei controlli indipendenti sulle violazioni di legge commesse dai potenti. Con il rischio anzi che tali controlli causino al magistrato coraggioso guai non di poco conto, dalle ispezioni ministeriali (addirittura elevate al rango costituzionale), alle bufere scatenate da quanti vorranno strumentalmente approfittare delle nuove norme sulla responsabilità dei magistrati.
L’analisi di alcuni punti della sedicente riforma offre decisive conferme, anche per le inchieste di mafia.
Il Csm riformato – la riforma prevede lo sdoppiamento del Csm, la riduzione del numero dei membri “togati”, la loro nomina col fantozziano sistema dell’estrazione a sorte (una grottesca lotteria che rappresenta anche una discriminazione mortificante, posto che i membri “laici” continueranno a essere eletti dal Parlamento in seduta comune), il divieto di adottare atti di indirizzo politico (cioè pratiche a tutela dei magistrati vilipesi perché scomodi). Viene di fatto azzerata la stessa ragion d’essere del Csm: governo autonomo della magistratura e tutela della sua indipendenza. Il magistrato che debba scegliere tra diverse opzioni, egualmente possibili nel perimetro dell’interpretazione della legge, non sentendosi più tutelato da un Csm ridotto ad organo di semplice amministrazione, ci penserà ben bene prima di esporsi alle rappresaglie impunite del potente di turno. Figuriamoci quale impulso potrà derivare alle indagini su quella vischiosa zona grigia che consente agli affaridi mafia di prosperare!
1) AZIONE PENALE E POLIZIA GIUDIZIARIA NELLE MANI DELLA POLITICA L’azione penale a parole resta obbligatoria, ma dovrà essere esercitata “secondo i criteri stabiliti dalla legge” , vale a dire che sarà la politica a stabilire chi indagare e chi no: ed è improbabile che essa mostrerà particolare zelo per gli intrecci tra pezzi del suo mondo e la mafia . Quali che siano tali criteri, poi, resta il fatto che non sarà più direttamente la magistratura a disporre della polizia giudiziaria, che pertanto prenderà ordini dal governo (ministero degli interni per la polizia di stato; difesa per i carabinieri; economiaperlaGdF).Lapolitica,in sostanza, avrà in mano il rubinetto delle indagini e potrà regolarlo col contagocce tutte le volte che ci sia il rischio di scoprire qualcosa di troppo degli “inquietanti misteri” di cui parlava Falcone.
2) ASSOLTI PER SEMPRE Con clamorosa violazione della “parità delle armi” tra accusa e difesa, mentre l’imputato condannato potrà sempre ricorrere in appello, il pm non lo potrà fare in caso di assoluzione dell’imputato, salvo che “nei casi previsti dalla legge”. Ora, sarà impossibile (per non perdere la faccia) che tra questi casi non rientrino i delitti di mafia, ma che ne sarà del cosiddetto “concorso esterno”? Senza questa figura è impensabile che si possano colpire anche le collusioni con la mafia, ma poiché il delitto non esiste (lo sostiene il presidente Berlusconi!), si può scommettere che sarà fortemente a rischio la possibilità per il pm di appellare le assoluzioni per “concorso esterno”: la linea di demarcazione fra lecito e illecito tenderà sempre più allo sfumato evanescente e per la cosiddetta “borghesia mafiosa” ci sarà da brindare.
3) L’INDIPENDENZA DEL PM “ABROGATA” PER LEGGE A spazzare definitivamente ogni possibile dubbio circa le effettive conseguenze della riforma provvede infine il nuovo – se approvato – art. 104 della Costituzione (quello che non a caso introdurrebbe la separazione delle carriere...), laddove stabilisce “che l’ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario che ne assicurano l’autonomia e l’indipendenza”. In sostanza, autonomia e indipendenza del pm non sono più valori di rango costituzionale tutelati dalla Carta fondamentale, ma optional rimessi alla legge ordinaria, che pertanto la politica potrà cambiare a suo piacimento senza neanche il fastidio delle procedure e delle maggioranze qualificate previste per le norme costituzionali. Vale a dire che la politica non avrà in mano soltanto il “rubinetto” delle indagini, ma avrà in sua balia direttamente il pm. Per cui è difficile pensare che vorrà orientarlo verso inchieste che potrebbero scoprire segreti inquietanti di colletti bianchi e/o politici per favori scambiati con la mafia o affari fatti insieme. Ed è persino superfluo notare che tutto ciò che colpisce in prima battuta il pm avrà inevitabilmente un effetto domino sui giudici: perché se al pm non è consentito indagare su certe materie, esse non arriveranno mai sul tavolo del magistrato giudicante.
Un pericolo che non si può correre
COME si vede, gli scenari futuri sono cupi e se si vuole che la lotta alle mafie non rischi di diventare un esercizio di facciata, ma sia un’azione incisiva, la riforma costituzionale in cantiere dovrebbe essere riconsiderata: perché le conseguenze negative che ne potrebbero obiettivamente derivare (obiettivamente: anche a prescindere dall’orientamento di questa o quella maggioranza politica contingente) costituiscono un pericolo da non correre. A Potenza, nella XVI Giornata antimafia della memoria e dell’impegno, organizzata da Libera per il 19 marzo, si discuterà anche di questo.

Corriere della Sera 16.3.11
Italia da Terzo Mondo? Duello Terragni-Bonino
di  Maria Luisa Agnese


Emma Bonino, unica italiana inserita nella freschissima lista di Newsweek delle 150 donne che hanno scosso il pianeta, va a New York invitata al summit Women in the World 2011, e scuote le donne italiane. Perché ha l’ardire di dire in quell’internazionale consesso che dopo le grandi battaglie degli anni Settanta le donne italiane si sono sedute e come ripiegate, ricacciate nel privato: «Dopo quel periodo fantastico è cominciato un lungo sonno, e l’immagine della donna è stata rimodellata su valori tradizionali: da una parte madre e moglie perfetta che pulisce; bella fanciulla dall’altra» ha detto Bonino. Subito rimbrottata da Marina Terragni, giornalista e femminista, impegno a sinistra ma mente libera che ha scritto sabato sul Foglio: «Sono furibonda perché Bonino, celebrata da Newsweek nella categoria donne combattenti nel Terzo Mondo — tra cui l’Italia— ha onorato il riconoscimento concionando di oppressione femminile assieme a un’egiziana, un’iraniana e una saudita, tutte oppresse a pari merito» . Oltremodo infastidita, Terragni, da quell’aria giudicante che spesso all’estero inalberano quando si tratta di noi, si dice tentata da una class action versus Bonino che avrebbe commesso una leggerezza accettando una diminutio così plateale e planetaria del nostro Paese. Insomma: non è esagerato metterci fra i Paesi del Terzo Mondo riconoscendo un’emergenza Italia pari a quella del Ruanda? E difatti parlando con il Corriere Terragni aggiunge: «Bonino non è un’opinionista ma la vicepresidente del Senato: è giusto andare a rappresentare in questo modo il Paese che si governa? E poi è in politica da decenni, dovrebbe assumersi la sua parte di responsabilità» . Sconcertata dall’attacco, Bonino dice di non capirne la sostanza: «Non è chiaro se Terragni vuol dire che è possibile criticare la situazione delle donne in Italia, ma non all’estero, o se invece addirittura ritiene perfetta la situazione delle donne in Italia» . Cui contrappone la forza dei numeri che vogliono l’Italia in fondo alle classifiche mondiali, e ricorda che pure Hillary Clinton nel suo discorso ha detto che anche nei Paesi avanzati c’è ancora molto da fare, e dirlo non è affatto vergognoso.

Corriere della Sera 16.3.11
Sorelle Mai La famiglia Bellocchio sul set: una trama tutta da «inventare»
Figli, zie e attori veri in una non-storia con molti spunti
di Paolo Mereghetti


Non è da tutti trasformare un’esercitazione scolastica in un film d’autore. Marco Bellocchio c’è riuscito, con i rischi che un’operazione di questo tipo comporta, e il risultato è adesso sotto gli occhi di tutti, dopo un primo assaggio alla Festa di Roma del 2006 e la proiezione fuori concorso a Venezia 2010. Work in progress, dunque. E non è detto che non debba assumere altre forme negli anni a venire, visto che all’origine c’è il lavoro fatto ogni estate con gli allievi del corso «Fare cinema» che il regista tiene a Bobbio, «terra natale» della famiglia Bellocchio che proprio qui ha una casa di proprietà già utilizzata per I pugni in tasca. Le puntualizzazioni sono importanti per sgombrare il campo da alcune possibili aspettative: Sorelle Mai (con la maiuscola: Mai non è avverbio ma cognome, anche se con inevitabili sfumature contenutistiche) non è un tradizionale film di finzione. Racconta sì una «storia» — quello che accade durante alcune estati nella casa avita di Bobbio— ma lo fa con una libertà che potrebbe anche disorientare lo spettatore che si aspetta la tradizionale struttura di un film. Alla fine non ci sono risposte certe. Così come all’inizio non si hanno domande chiare. Tutto è solo accennato, fatto intuire, suggerito. A complicare le cose, poi, contribuisce anche il coinvolgimento in prima persona dei familiari, che non solo si prestano a recitare ma portano anche una parte di sé nella definizione dei propri ruoli. Che cosa fa davvero Giorgio interpretato da Pier Giorgio Bellocchio (il primogenito del regista)? L’aspirante attore? L’eterno fidanzato che vorrebbe mettere la testa a posto? L’attore affermato, come si direbbe dallo spezzone della Balia che si vede (realmente interpretato da Pier Giorgio)? O lo scavezzacollo che cerca soldi in prestito? O il regista, come lascia intuire l’ultima scena? La presenza nel film dell’altra figlia del regista, Elena (che interpreta la figlia di Sara, affidata a Donatella Finocchiaro) aiuta a scandire il passare del tempo con le sue trasformazioni da bambina ad adolescente, in parallelo con lo scorrere delle estati a Bobbio (il film utilizza le riprese effettuate per il corso del 1999 e poi quelle fatte dal 2004 al 2008). Ma già la presenza delle due autentiche sorelle di Marco, Letizia e Maria Luisa Bellocchio, assume valenze più sfumate. Perché se da una parte il regista affida loro un ruolo a metà tra l’autobiografico (i ricordi dell’infanzia, della madre) e l’ironico (le gag sulla cappella del cimitero), dall’altra le usa come «materia viva» per ripensare al suo film d’esordio, montando in parallelo le pratiche quotidiane della famiglia (la preghiera al cimitero, la preparazione della tavola) e la loro reinvenzione per il film. E anche l’utilizzo di attori professionisti, come la Finocchiaro o Alba Rohrwacher, nei panni di una professoressa divisa tra dovere professionale e dolori sentimentali (nella scena di uno scrutinio dove il preside è interpretato da un altro Bellocchio, il fratello Alberto), finisce per complicare la struttura del film piuttosto che semplificarla. Ogni personaggio apre nuove possibilità di svolgimento a una storia complessa e «multipla» , e nello stesso tempo funzionale alla sua origine «didattica» . Perché ogni personaggio, ogni situazione, ogni singola scena sono tutti possibili spunti di lavoro per un ipotetico «fare cinema» (come appunto si chiamano i corsi estivi); sono idee di storie e di caratteri che un film più tradizionale avrebbe tesaurizzato e sviluppato e che invece Bellocchio regala e «disperde» , offrendoli alla fantasia dello spettatore. Come se ognuno dovesse costruirsi la propria trama e la propria storia, privilegiando ora questa ora quella situazione. Un’ipotesi di lavoro, questa, che il misterioso finale con Gianni Schicchi Gabrieli (un altro volto noto della filmografia bellocchiana, a metà tra l’amico di famiglia e l’attore) non fa che confermare e rilanciare.

il Riformista 16.3.11
Bellocchio-Bertolucci Sarà la mostra anti B?
Laguna. Müller vuole la coppia di cineasti per premio alla carriera e pre- sidenza della giuria. Ma i nomi dei maestri del cinema, considerati icone aSnti-berlusconiane, non sono ancora stati ufficializzati. Garbo verso Bondi?
di Michele Anselmi

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Corriere della Sera 16.3.11
Professor Tremonti, ci ripensi (forse così può salvare la cultura)
di Ernesto Galli della Loggia


C onfesso di nutrire simpatia per il ministro Tremonti. In un Paese di «piacioni» e di politici falsamente alla mano, il suo atteggiamento sempre un po’ ironico, quando addirittura non sprezzante, la sua incontenibile propensione a infischiarsene del bon ton democratico, e viceversa a salire in cattedra (impartendo lezioni di solito tutt’altro che stupide), sono cose apprezzabili. Insomma, oltre che simpatia ho anche stima del professor Tremonti. Proprio per questo mi riesce difficile capire come sia possibile che una persona della sua qualità non si renda conto che il modo in cui sta sottraendo risorse alle attività e ai beni culturali porta virtualmente l’Italia alla rovina. Non è un’espressione esagerata, questa. Almeno quella parte antica o antichissima del Paese che ci viene dal nostro passato (gli edifici, il patrimonio delle biblioteche e dei musei, le aree archeologiche) sta infatti andando letteralmente a pezzi o precipitando in un’incuria che finirà ineluttabilmente per cancellarla. Così come si sta restringendo progressivamente la nostra possibilità di fare musica, teatro, cinema. Non si tratta di ambiti separati. Alla fine la cultura— vale a dire ciò che fa l’uomo più umano— è infatti una cosa sola. Tra gli Uffizi e Cinecittà, tra la Scala e un museo di strumenti musicali, tra la Biblioteca Marciana e il Teatro greco di Taormina, esiste una corrispondenza misteriosa, un dialogo segreto attraverso i secoli che, allacciatisi in queste contrade, hanno prodotto risultati ineguagliati. E che noi, italiani di questa generazione, dobbiamo sentire la responsabilità di non interrompere. Invece— come ha detto Andrea Carandini annunciando l’altro ieri le sue dimissioni dalla presidenza del Consiglio superiore dei Beni culturali— «una parte del Paese sta affondando se stessa» . Sono sicuro che Giulio Tremonti tutte queste cose le sa bene. Ed è la ragione che mi spinge a vincere quel timore di apparire patetico da cui si è irresistibilmente presi quando si parla di certe cose ad un politico italiano. «Sai che ci capisce e che gliene importa» , uno pensa subito. Invece credo che Tremonti capisca, e che in un modo e in una misura che non conosco gliene importi anche. Ma i numeri sono contro di lui: a cominciare dagli ulteriori 77 milioni (27 allo spettacolo, 50 a tutto il resto) tolti negli ultimi giorni alla dotazione del ministero dei Beni culturali. Cifre inquietanti a cui ne aggiungo solo pochissime altre, rimandando al libro dei nostri Stella e Rizzo, Vandali, chi volesse avere un panorama più completo e agghiacciante del disastro. Basti dire, dunque, che i fondi attualmente a disposizione del suddetto ministero ammontano appena allo 0,21 per cento dell’intero bilancio dello Stato (erano lo 0,34 solo pochi anni fa). Per la tutela dell’intero patrimonio storico-archeologico-artistico il nostro Paese stanzia la cifra ridicola di 50 milioni di euro (il Louvre da solo ne impegna 227!). Siamo arrivati al punto che sempre a scopo di tutela l’amministrazione italiana è ridotta a impiegare un archeologo ogni 34 kmq di terreno archeologico (per i circa 50 ettari di Pompei c’è un solo archeologo), e uno storico dell’arte o un architetto ogni 57 edifici tutelati. In complesso, a causa del mancato rimpiazzo, l’amministrazione dei Beni culturali vede oramai il proprio personale tecnico, amministrativo e di sorveglianza diminuire ogni anno di circa 800 unità. Chiedo a Tremonti: dobbiamo proprio rassegnarci a questa situazione? Come italiano, lui si rassegna? Gli pare ammissibile? Glielo chiedo in tutta sincerità, non retoricamente. E glielo chiedo immaginando bene, tra l’altro, tutte le ragioni di fastidio o addirittura di cordiale antipatia che uno come lui può nutrire per il mondo che gravita intorno alla cultura: è perlopiù, infatti, un mondo popolato di gente quasi tutta di sinistra — spesso, per giunta, di quella più conformista, ipocrita e doppiopesista che ci sia; è un mondo abituato a spendere infischiandosene disinvoltamente della risposta del pubblico e della tenuta dei conti; è un mondo, infine, pervaso da un bieco corporativismo sindacale. Tutto vero (almeno in parte. E almeno secondo me). Ma proprio per questo mi viene da dire: gli faccia un dispetto, professor Tremonti, a questo mondo. Gli faccia vedere che anche il ministro di un governo di destra può avere a cuore le sorti del cinema, dei musei, delle biblioteche. Cerchi di fare qualcosa. Dopotutto, le assicuro, ci sono anche gli italiani non di sinistra, i quali proprio tutti analfabeti non sono. E poi alla fine, se proprio non bastasse, c’è l’Italia: il cui interesse, se ben ricordo, lei dovrebbe aver giurato di difendere.

il Fatto 16.3.11
Nella terra di papi non c’è posto per papà
Nel libro “Cosa resta del padre?” Massimo Recalcati racconta la scomparsa di colui che sa unire. E non opporre la legge al desiderio
di Elisabetta Ambrosi


Da “Padre” a “papi”. Questo semplice passaggio lessicale (provate a pronunciare le due parole a voce alta notando la differenza di solennità nel suono) racconta un cambiamento epocale. Quello che va “dal regime edipico della democrazia al sultanato post-ideologico di tipo perverso”, nelle parole di Massimo Recalcati. Nel nuovo libro Cosa resta del padre? la paternità nell’epoca ipermoderna, lo psicoanalista lacaniano utilizza con originalità categorie analitiche per leggere la società. E sostiene che la vicenda delle papi-girls riassume in forma pura i valori oggi imperanti: “Il denaro elargito come puro atto arbitrario, l’illusione che si possa raggiungere l’affermazione di sé senza rinuncia, l’enfatizzazione feticistica dei corpi femminili, l’opposizione ostentata nei confronti della Legge, il rifiuto di ogni limite e l’assenza di pudore”.
UNA TESI che nulla ha a che fare con la condanna moralistica. In realtà questo insieme di comportamenti produce in chi li pratica, a partire da Berlusconi, sicura angoscia e infelicità. Come guarire? La strada suggerita da Recalcati per tornare a desiderare sembra una cattiva notizia per il premier: la castrazione. Ma solo simbolica, ovviamente: nel senso della presenza di qualcuno che ponga confini e divieti alla possibilità di godere di tutto. In breve, papi, per essere felice, avrebbe bisogno di un Padre. Quel ruolo che non è riuscito pubblicamente ad incarnare, il Padre della nazione, rivestendo al massimo quello dello zio ricco e scapestrato che diseduca i figli altrui. Attenzione, però: secondo Recalcati Berlusconi rappresenta l’espressione più spudorata di una sceneggiatura che riguarda soprattutto noi, sul piano privato e pubblico. E che sarebbe bene rileggere con cura, perché scorrendola con attenzione noteremo che la scomparsa di uno dei principali protagonisti del passato, il Padre (e insieme a lui la Legge), – ucciso dai colpi inferti sia dalla sua estremizzazione mostruosa durante il nazifascismo, che lo ha reso una caricatura inutilizzabile, sia dalle grida studentesche del ’68 – è una sciagura.
I MOTIVI sono due: il primo è che la Legge, posta dal Padre, non costituisce una minaccia del desiderio, anzi ne rappresenta la condizione. Una tesi davvero fuori moda e pure un po’ ardita per chi, da psicoanalista, dovrebbe curare le ferite di precoci e insensati divieti. Eppure, come ormai gran parte della teoria clinica va dicendo, oggi gli individui (cittadini e pazienti), sono cambiati e i sintomi che causano loro sofferenza non sono più quelli che affliggevano l’austera borghesia viennese. Al contrario, le psicopatologie sono sempre più l’effetto della scomparsa di qualsiasi divieto, che autorizza al godimento artistico e seriale e conduce all’infelicità. Anche qui, il moralismo non c’entra nulla. Provate a immaginare visivamente, sembra suggerire l’autore, una terra senza alcun confine, senza alberi, fiumi, montagne, sentieri che conducono da un punto all’altro. Il risultato sarà uno smarrimento mortale, lo stesso che produce il consumismo: una “fede nell’oggetto come rimedio al dolore di esistere”, che invece ci restituisce quel dolore nella sua forma più acuta. Il secondo motivo per cui la scomparsa del Padre è un male è perché il Padre è colui che dovrebbe trasmettere al figlio la più preziosa delle eredità: la capacità di desiderare. Per spiegare in che modo possa riuscire nel compito, occorre rapidamente addentrarsi nella mitologia psicoanalitica: il Padre ha la funzione di proibire ciò che l’Edipo di Sofocle realizza, l’incesto con la Madre.
TRADOTTO per tutti, genitori e non: la sua funzione dovrebbe essere quella di aiutare il figlio alla dolorosa separazione dal paradiso terrestre rappresentato dalla fusione “emblema di un godimento assoluto e senza mancanze” che si realizza nella pancia e poi durante l’allattamento. “Non puoi ritornare da dove sei venuto!”, deve ricordare il Padre. Se questa operazione viene a mancare, perché la madre vuole anch’essa restare fusa con il figlio quest’ultimo sarà incapace di desiderare. Il desiderio comporta separazione, esodo, erranza e insieme l’esperienza che non tutto è a portata di mano, che l’oggetto del nostro amore sfugge al possesso.
Il Padre, dunque, è colui che sa unire e non opporre, la Legge al desiderio, ammansendo sia Kant che Sade. E proponendo una nuova alleanza tra i due, che impedisca sia che il desiderio degeneri “nell’inconsistenza dissipativa del godimento”, sia che si restauri “l’ordine della morale repressiva e patriarcale”. Certo, la parola del Padre inizialmente è un trauma, ma un trauma benefico, comunque necessario, perché oltre che condizione del desiderio, il divieto ci consente di accedere alla dimensione sociale, dove incestuosità, violenza, tracotanza sono vietati. Pena l’impossibilità a convivere.
Come può oggi il Padre trasmettere il desiderio? Per Recalcati oggi non resta che una possibilità, quella che finalmente ci autorizza a parlare di padre con la “p” minuscola: unicamente attraverso la propria testimonianza di vita, che non può avere valore universale né ideale, ma solo singolare. Non il Padre, ma i tanti padri. Che non sono necessariamente quelli biologici, ricorda lo psicoanalista contro ogni possibile uso ideologico della sua teoria. Chiunque infatti può essere padre (biologico e non, ma persino maschio o femmina ), a patto che sappia svolgere la funzione di cui la nostra società ha un bisogno disperato: interdire il desiderio, ponendo i confini; incarnare il desiderio nella propria esistenza; infine gestire con sapienza il conflitto che questo ruolo inevitabilmente comporta.

La Stampa TuttoScienze 16.3.11
Misteri
Ecco l’altro Tutankhamen E’ il “faraone d’argento”
“Nella sua tomba inviolata i segreti dell’Età oscura dell’Egitto”
Un grande re del Nilo
di Gabriele Beccaria


IL TEAM DI ARCHEOLOGI «Nonostante una grave malattia, governò per quasi mezzo secolo»

Momento sbagliato e pubbliche relazioni catastrofiche. E così nessuno ha mai sentito nominare Pierre Montet, mentre tutti hanno orecchiato almeno una volta l’avventura dell’irrequieta coppia Lord Carnavon-Howard Carter, e il faraone d’argento è stato eclissato dal faraone d’oro: 70 anni di oblio, che solo adesso cominciano a sgretolarsi: al Cairo c’è chi prepara una resurrezione e una serie di rivelazioni.
Quando l’archeologo francese penetrò nella tomba intatta di Psusennes I, a Tanis, nel delta del Nilo, era il 1940: la Seconda guerra mondiale stava travolgendo l’Europa e la notizia sensazionale di una scoperta pari solo a quella di Tutankhamen, che aveva tenuto con il fiato sospeso mezzo mondo nel 1922, precipitò in poche «brevi» di giornale. C’erano altre questioni a cui pensare e Montet raccolse in fretta e furia un tesoro di argento e lapislazzuli, lo portò al museo del Cairo e ritornò tristemente in patria. Le sue casse si richiusero sui reperti di una storia straordinaria appena riportata alla luce - come nel celebre finale di «Indiana Jones e l’Arca dell’Alleanza» - e sarebbero rimaste sigillate in un sotterraneo per decenni. Se è mai esistita una maledizione di Tutankhamen, questa dev’essersi abbattuta sul suo «collega» della XXI dinastia, un lontano successore di tre secoli più tardi: il faraone ragazzino sembra non aver tollerato l’idea di dividere la celebrità postuma e il record di unico signore dell’Egitto scampato alle razzie dei ladri.
Ancora oggi la sua maschera d’oro e il corredo funebre di statue e gioielli monopolizzano lo stupore dei turisti, mentre Psusennes I rimane relegato in una sala secondaria, come un alter ego a cui tutto sia andato storto: una tomba modesta invece di una attentamente scolpita e affrescata, al posto del sarcofago d’oro uno d’argento, niente mummia, ma solo lo scheletro e al posto degli «ushabti», le effigi in miniatura capaci di dare una mano nell’Aldilà, mucchi ormai scomposti di pietre preziose e metalli. Colpa delle offese inferte dal clima umido, opposto a quello secco che ha preservato le meraviglie della Valle dei Re, ed effetto di un’epoca ancora più turbolenta di quella in cui visse brevemente Tutankhamen, nota tra gli storici come «L’età oscura», segnata da una guerra civile che spaccò l’Egitto, segnato dalla rivalità tra sovrani e sacerdoti.
Ora, però, i misteri del vecchio re - il cui nome originale, Pasibkhanu, significava «La stella che appare nella città» - stanno finalmente svelandosi, come se il maleficio del rivale si fosse incrinato. La sua stella torna a lanciare un baluginio e il merito è di un gruppo di ricercatori - Salima Ikram, Fawzy Gaballah e Peter Lacovara - che ha ripreso in mano il «dossier» che si credeva perduto: studiando le ossa, analizzando le iscrizioni e i cartigli custoditi nella tomba e rimettendo insieme tante testimonianze sparse, hanno fatto una serie di scoperte (di sicuro non ancora finite). Psusennes era un tipo ben piantato a piuttosto alto per l’epoca, 1 metro e 66: per quanto piagato da una malattia reumatica e da una progressiva ossificazione dei legamenti, riuscì a sopravvivere anche al trauma della frattura della settima vertebra e, salito al trono nel 1047 prima di Cristo, regnò per un periodo che dev’essere apparso a lui e ai sudditi interminabile: 46 anni. Morì ottantenne, sebbene quasi completamente sdentato, quando la vita media non superava i 35 anni.
Non solo lungo, ma segnato da continui colpi di scena. Psusennes, oltre a combattere i nemici del Sud, a Tebe, si scatenò contro le forze della natura. Di fronte al declino della città diPi-Ramesse, realizzata un paio di secoli prima da una celebrità, Ramses II, e nell’XI secolo a.C. preda dell’insabbiamento di un ramo del Nilo, ordinò il trasferimento dei templi e dei palazzi a Tanis, in un’area più ospitale del Delta. Ancora più impegnativo fu contrastare i semi della rivolta che proprio il potente predecessore aveva seminato: alternando forza militare e reti di alleanze in stile tribale, fece sposare una figlia al sommo sacerdote di Karnak (che era il fratello del faraone stesso!) e a farsi attribuire il titolo di «Gran Sacerdote di Amon-Ra».
Grazie alla pace, o all’armistizio, Psusennes I rimpinguò le casse statali e potè dedicarsi al compito più importante: una sepoltura adeguata per il viaggio nell’aldilà. Raccolse grandi quantità di oro, pietre e lapislazzuli (fatti arrivare dall’attuale Afghanistan) e si fece preparare un sarcofago-capolavoro, ma di argento massiccio e non d’oro, com’era tradizione. Perché? Ecco la risposta degli studiosi: vista la difficoltà di lavorazione, voleva dimostrare agli dei il suo potere tentacolare su uomini e cose. Oggi sappiamo che la missione è stata compiuta e il biglietto per l’immortalità conquistato.

Le nuove ricerche Dopo la clamorosa scoperta nel 1940, i reperti di Psusennes I sono stati dimenticati per 70 anni

La Stampa 16.3.11
BHL, la prevalenza del philosophe
Dal gossip alla politica estera, in Francia ovunque ti giri c’è Bernard-Henri Lévy. E ora approda anche al cinema
di Alberto Mattioli


Potere al pensiero. Come se fossimo ancora nel Settecento degli enciclopedisti, la Francia continua a idolatrare i suoi «philosophes», continuamente sollecitati da televisioni, giornali e riviste per opinioni prêt-à-penser su qualsiasi ramo dello scibile, dall’ultima teoria ermeneutica al nuovo reality show, dalla cultura alla cottura di un soufflé. Del resto, qui il Philosophie magazine vende come non venderebbe in nessun’altra parte del mondo: 50 mila copie al mese.
Ma il re dei «philosophes», il «philosophe» più «philosophe» di tutti, il «philosophe» al quadrato resta lui, anzi Lui: Bernard-Henri Lévy, per tutti BHL. È ovunque. Come ti giri, c’è. Deborda dalle pagine dei giornali seri, specie Le Point , dove la sua rubrica è la preghiera laica dei devoti «bhliani». Tracima in quelle dei settimanali gossippari, ghiotti della sua movimentata vita privata. E adesso approda anche al cinema, dove avrà i tratti spiegazzati di Bob Geldof, la popstar benefica che un po’ lo ricorda ma non può certo competere con la filosofica eleganza con la quale il pensatore ottimo massimo porta i suoi capelli brizzolati e le sue celebri camicie bianche, imitatissime benché inimitabili.
Il film nasce dal terzo romanzo, assai autobiografico, della figlia di BHL, la scrittrice Justine Lévy. In Mauvaise fille (Figlia cattiva), Justine parla del padre, riconoscibilissimo sotto l’identità fittizia della popstar George, e della lunga agonia della madre, la modella Isabelle Doutreluigne, prima moglie di BHL, che nel film sarà Carole Bouquet: primo ciak il 4 aprile a Parigi. Doveva diventare un film, ma poi non se n’è fatto niente, anche il precedente libro di Justine, il bestseller Rien de grave (Niente di grave), nel quale la figlia di BHL raccontava il suo difficile rapporto con il primo marito, il filosofo Raphaël Enthoven, che non voleva figli e la convinse ad abortire. Il matrimonio finì quando Raphaël scappò con Carla Bruni non ancora Sarkozy, all’epoca fidanzata del padre di lui, Jean-Paul Enthoven, a sua volta miglior amico di BHL. Enthoven junior ebbe poi con Carlà quel figlio, Aurélien, che non aveva voluto dalla moglie. Da qui i commenti piuttosto piccati della Lévy sulla Bruni, che in Rien de grave viene definita «Terminator».
Anche il padre, nonostante i 62 anni che ovviamente porta benissimo, non accenna a calmarsi. BHL ha infatti appena messo fine al suo terzo matrimonio, con l’attrice Arielle Dombasle, che ha lasciato per la nuova musa Daphne Guinness, ereditiera dell’omonima birra ed eroina dei due mondi (furoreggia tanto nei salotti di Parigi quanto in quelli di New York), formando così una nuova coppia dal glamour quasi insostenibile. 1991-2000 2001-08
Liquidata la crisi matrimoniale, il sua figlia) e a convincerlo a riconosceNostro si è subito tuffato in quella li- re gli insorti anti-Gheddafi come lebica, dove sta giocando uno strano gittimi rappresentanti del popolo libiruolo di ministro degli Esteri ombra, co. Cosa che Sarkò ha fatto spiazzaninedito per la Francia dove lo Stato è do completamente il ministro degli ancora una cosa seria. A Bengasi per Esteri vero Alain Juppé che ha appreun reportage, è stato lui a telefonare so la notizia dalle agenzie e, ovviaa Sarkozy (cioè l’attuale marito della mente, non ha gradito. Tanto più che donna con la quale scappò quello di i partner della Francia a tutti i livelli (Ue, Nato e Onu) si sono ben guardati dal seguirne l’esempio.
Poco male: un giorno sì e l’altro pure, preso da furore interventista (sembra D’Annunzio nel maggio radioso), BHL inveisce contro Gheddafi chiedendo embarghi e bombardamenti. Ieri, parlando in un inglese molto personale (i francesi detestano che si maltratti la loro lingua, ma massacrano tranquillamente quelle altrui), si è fatto intervistare da Al Jazeera sull’inevitabile sfondo della Torre Eiffel. E, vantando l’azione di BHL per interposta Francia, gli è scappata un’espressione molto lontana dal suo consueto linguaggio fiorito: «D’ora in avanti per i governi europei sarà molto difficile fare dei “blow-jobs” ai dittatori arabi» (serve tradurre? Beh, allora diciamo che «blow-job» significa «fellatio»). Inutile dire che l’esilarante sequenza è subito diventata una delle più cliccate del web. E così adesso BHL dilaga anche su Internet.

Corriere della Sera 16.3.11
Opponetevi ai tiranni L’appello coerente di Benjamin Constant
Quarant’anni in difesa della libertà
di Mauro Barberis


C’era una volta il liberalismo «puro» , la sua Bibbia era La libertà degli antichi comparata a quella dei moderni, e il suo profeta era Benjamin Constant. Da vecchio, Benjamin aveva rivendicato di aver «difeso per quarant’anni lo stesso principio: libertà in tutto, in religione, filosofia, letteratura, economia, politica» ; e ancora all’inizio degli anni Ottanta Louis Girard poteva chiedere al sottoscritto: c’è ancora qualcosa da dire su Constant? Il giorno dopo iniziavo la lettura dei manoscritti repubblicani conservati alla Bibliothèque Nazionale di Parigi, riscoperti mezzo secolo fa e dai quali è tratta anche la famosa conferenza del 1819: ma bastarono poche ore per accorgersi di quanto ancora ci fosse da dire. Quando pronuncia la conferenza, nel febbraio 1819, in piena campagna elettorale per le elezioni politiche di marzo che lo avrebbero portato alla Camera, Constant aveva già un grande avvenire dietro le spalle. Era ancora il protestante svizzero che all’indomani del Terrore aveva scelto di stabilirsi nella Francia rivoluzionaria, di difendere la fragile repubblica direttoriale e di combattere il regime napoleonico, pagando con l’esilio; ed era già una delle teste pensanti dell’opposizione ai Borboni restaurati. Detto altrimenti, 25 anni di sconfitte e di vorticoso cambiamento dei regimi politici non gli avevano fatto cambiare idea: i suoi avversari erano sempre gli ultras monarchici e i notabili opportunisti. Lui stesso, del resto, non era affatto un estremista; benché da posizioni di minoranza, si era sempre rivolto al pubblico moderato e non aveva mai disperato della ragione. La stessa conferenza, del resto, si sviluppa in tre mosse quasi obbligate, per chi conosca l’autore e il contesto. Prima mossa: in piena Restaurazione, l’oratore rende omaggio alla «nostra felice Rivoluzione» ; la Rivoluzione francese, naturalmente, e quale se no? Seconda mossa: il conferenziere esalta la libertà dei moderni, o civile, che Isaiah Berlin, oltre un secolo dopo, chiamerà negativa. È la libertà liberale, distinta tanto dalla libertà costituzionale, à la Montesquieu, quanto dalla libertà «positiva» o democratica, à la Tocqueville. Del resto, ne aveva già parlato il maestro politico di Constant, il rivoluzionario Sieyès: presso i moderni, che popolano nazioni estese e praticano il commercio, la democrazia diretta è destinata a essere sostituita dalla democrazia rappresentativa, e gli individui a essere difesi dal cerchio magico dei diritti. Ma la sorpresa, per chi crede nel luogo comune del liberalismo puro, viene dopo, nella terza mossa, come si legge nella bella traduzione di Giovanni Paoletti: «La libertà individuale, lo ripeto, ecco la vera libertà moderna. La libertà politica ne è la garanzia; la libertà politica è di conseguenza indispensabile» . Di qui in poi, si trova solo l’esaltazione della libertà politica, «il mezzo più possente e il più energico di perfezionamento che il cielo ci abbia dato» ; soprattutto, di qui in avanti l’unico pericolo denunciato non sono più i vecchi spauracchi giacobino e monarchico, ma un nuovo dispotismo fatto di «pregiudizi per spaventare gli uomini, egoismo per corromperli, frivolezze per stordirli, rozzi piaceri per degradarli» : rispetto a oggi, manca solo la televisione. Liberalismo puro? Ma già don Benedetto (Croce)— senza aver potuto leggere né gli inediti, né i cinquanta volumi delle Oeuvres complètes in corso di pubblicazione presso l’editore tedesco Niemeyer— aveva capito benissimo dove la conferenza volesse condurre l’audience dell’epoca: non chiudetevi in casa, andate a votare contro il governo. La stessa lettura è poi divenuta non maggioritaria, ma pacifica dopo la pubblicazione degli inediti: basta leggersi i libri di Étienne Hofmann, Stephen Holmes, Lucien Jaume, Tzvetan Todorov nonché, in Italia, di Paoletti e del sottoscritto. Se si può trarre una morale da questa storia è che il liberalismo non è mai stato puro: si è sempre messo dalla parte degli individui e delle minoranze, contro qualsiasi potere. Come ha scritto Gaetano Salvemini: «Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti» .

Corriere della Sera 16.3.11
L’inquieto Orwell interroga ancora oggi il cinismo della storia
Una critica spietata del conformismo
di Sandro Modeo


A un primo impatto, molti degli scritti non narrativi di George Orwell (Nel ventre della balena e altri saggi, in edicola sabato con il «Corriere» ) sembrano dominati da una tonalità sgradevole, come se il loro scopo fosse di scardinare l’assetto, più o meno risolto, della nostra quotidianità: di mettere in discussione l’auto-indulgenza con cui siamo arrivati a una difficile mediazione con la vita. Ci chiediamo: a chi appartiene la voce insinuante di quegli scritti? A un moralista? O, al contrario, a uno scettico amorale? A uno psicoanalista che fruga non richiesto nelle nostre rimozioni? Poi, senza poter smettere la lettura, sentiamo quella sgradevolezza trasformarsi via via in un’occasione: nella possibilità di riesaminare le nostre illusioni e disillusioni, di «misurare» fino in fondo le ragioni della nostra speranza e del nostro cinismo. Il versante immediato di questo invito è politico. Da un lato, in coerenza sia con la sua narrativa (La fattoria degli animali e 1984, trasfigurazioni distopiche della dittatura sovietica), sia col suo memorabile reportage di guerra (l’Omaggio alla Catalogna, in cui denuncia, pur avendo combattuto coi repubblicani, le colpe degli stalinisti spagnoli), Orwell imputa alla sinistra europea di aver voluto essere, fin dal 1933, «antifascista senza essere antitotalitaria» . Dall’altro, in coerenza col suo credo tra liberale e social-democratico, attacca i cantori acritici del capitalismo: «Tra i motivi di fondo di Marx potevano ben esserci stati l’invidia e il disprezzo, ma ciò non prova che le sue ragioni fossero errate» . Allo sbocco di questo doppio disincanto (senza mai cedere al fatalismo, a un realismo che coincida con la resa), Orwell vede così come obiettivo del disegno socialista «non tanto quello di rendere il mondo perfetto, ma solo di migliorarlo» . La patologia politica di una società, però, per lui non è separabile da quella culturale. In particolare, tratteggia un sarcastico quadro «etologico» della società letteraria inglese, facilmente esportabile e di lunga veduta, specie se si pensa che molti di questi saggi risalgono ai secondi anni Quaranta, cioè a poco prima che Orwell morisse (di tubercolosi) a soli 46 anni. Presagendo una crisi della letteratura e del romanzo tra i nuovi media, Orwell toglie a ogni «attore» della scena il suo alibi prediletto: ai lettori quello del costo dei libri, esortandoli ad ammettere che la lettura è svago «meno eccitante» del cinema o del pub; ai critici quello di avere «moglie e figli» , esigenza che non giustifica l’emissione di «complimenti stucchevoli» a tanti libri mediocri, complimenti che hanno «lo stesso valore del sorriso di una prostituta» ; e ai politici, ai professori e ai giornalisti quello di un confortante conformismo, che li porta a usare una corriva vaghezza stilistica— gergo, enfasi, similitudini logore— «come fa la seppia col suo inchiostro» . Quanto agli scrittori, più che gli avvertimenti diretti (l’ironia sulle prime «scuole di letteratura» ), la vera lezione arriva dallo spietato auto-scavo (Perché scrivo) in cui Orwell vede la scrittura come una «dolorosa malattia» : una lotta inesauribile tra le ragioni dell’impegno civile e quelle dell’estetica, tra il desiderio di «cambiare l’idea altrui» e la soggezione al «piacere dell’impatto di un suono con un altro» , tra l’espressività e la precisione. Come si possa arrivare alla «quadratura» di una simile tensione lo mostra proprio questa raccolta, in cui troviamo complessi chiaroscuri critici (da Swift a Henry Miller), inaspettati abbandoni autobiografici (Giorni felici, penetrazione nel mondo «subacqueo» dell’infanzia) e un lotto di sconvolgenti racconti giovanili. Niente di più adeguato, come congedo, dell’Elogio del rospo, dello schiudersi dei suoi occhi dorati dopo il letargo. In realtà, è un elogio della primavera, descritta nel suo preannunciarsi per minimi rintocchi naturalistici («un azzurro più intenso tra due comignoli» ) come fossero un dono fantastico e inaspettato delle cadenze cosmiche; tanto più inaspettato dopo inverni particolarmente duri e prolungati. Più che una metafora, è un’apertura: l’invito a non rimuovere, insieme all’utopia, anche lo slancio della speranza, o almeno quello della possibilità.

il Fatto 16.3.11
Il nuovo portale Treccani.it 
Online 60 anni di sapere
di Federico Mello


L’aveva già detto in altre occasioni, Giuliano Amato, presidente dell’Istituto Treccani: “Se Diderot vivesse oggi farebbe l’enciclopedia su Internet”. Non sappiamo se l’illuminista padre dell’enciclopedia sarebbe andato online nel-l’epoca di Wikipedia. Ma di certo oggi, a digitalizzare il sapere, ci sta provando seriamente l’Istituto Treccani che non a caso ha scelto la vigilia dell’anniversario dell’Unità per lanciare il suo nuovo por-tale Treccani.it  , completamente ripensato e ridisegnato, online da ieri. Realizzato in collaborazione con Banzai Consulting, promette di essere una manna per studenti, cittadini, navigatori e studiosi affamati di cultura e conoscenza. A fare la differenza, innanzitutto, è il motore di ricerca interno, un motore semantico che ordina i risultati in base alla rilevanza dei risultati (un po’ come fa Google). Grande attenzione anche alle singole voci che hanno una nuova (e più chiara) formattazione e link interni. Dalla home page, si può cercare un lemma nell’enciclopedia (sono in tutto 150 mila), nel vocabolario (tra 127 mila voci) o nel dizionario biografico (sono 25 mila le biografie). Ma ci sono anche percorsi di navigazione arricchiti da foto e citazioni, e valorizzati da “tag” che raggruppano per argomenti le varie voci. Il sito, infine, contiene una sezione community per gli utenti, una sezione scuola, una web-tv, e una rassegna stampa quotidiana con gli articoli più significativi nel campo dell’arte, della cultura e dell’editoria. Tutto è gratis. E tutto è così bello da non sembrare vero. “Come sosterrete il sito?” hanno chiesto ieri i giornalisti in conferenza stampa. “In futuro potremmo implementare dei servizi a pagamento” ha risposto l’amministratore delegato Franco Tatò. In prospettiva, appare molto dispendiosa la mole di lavoro necessaria a mantenere su alti livelli un portale del genere. Ci si penserà in futuro (come succede sempre sul web). Ora gli inter-nauti tutti possono godersi questa sorella maggiore di Wikipedia e i 60 anni di sapere che porta online.

Corriere della Sera 16.3.11
Svolta della Treccani: tutta in Rete e gratis
Amato: oggi lo farebbe anche Diderot, vogliamo diffondere ancora più cultura
di  Paolo Conti


ROMA — Per il 150 ° anniversario dell’Unità d’Italia l’Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani investe sulle nuove generazioni e presenta www. treccani. it, l’ «Enciclopedia degli italiani» , secondo la definizione dell’amministratore delegato Franco Tatò, interamente online. Non un semplice restyling del vecchio Portale ma una vera e propria rifondazione con uno storico e coraggioso passaggio dell’Enciclopedia Italiana in rete e gratuita: 150.000 lemmi, 127.000 voci del vocabolario, 25.000 biografie contenute nel Dizionario biografico degli italiani, monumentale opera che impegna da anni l’Istituto e a lungo ancora lo impegnerà. Tutto liberamente consultabile. Annuncia il presidente dell’Istituto, Giuliano Amato: «La nostra è una sfida che ci consente di diffondere ancora più cultura di quanto abbiamo fatto fino a oggi, un vero e proprio servizio a un numero sempre più vasto di utenti. Credo che se oggi un Diderot decidesse di creare la prima enciclopedia lo farebbe su Rete. La Treccani ha segnato la storia d’Italia per buona parte dei 150 anni che celebriamo. Ora entra nei 150 anni futuri e si rivolge alle generazioni che ne saranno protagoniste con l’immutata qualità del suo lavoro culturale» . Di fatto il sito (partner tecnologico e web è «Banzai Consulting» con «Liquida» e «Label formazione» ) si propone come un motore di ricerca di alto profilo culturale, inevitabilmente alternativo a quelli più utilizzati, il primo tra i quali è Wikipedia. Tatò nega ogni rivalità: «Non c’è alcun duello, noi stessi ospitiamo voci di Wikipedia laddove non arriviamo perché non possiamo proporre proprio "tutto"» . L’operazione ha richiesto tre anni di lavoro e un investimento di due milioni di euro. La vera novità sta nel sistema di consultazione che, sottolinea il direttore editoriale dell’Enciclopedia Massimo Bray, è insieme statistico e semantico: «Quello semantico usa la base-dati della lingua italiana Treccani e quindi offre risposte molto più pertinenti di un motore localizzato da una lingua straniera. Non aggrega solo per frequenza d’uso delle parole, e facendo quindi emergere i significati più utilizzati, ma presta attenzione al valore intrinseco della risposta, alla sua validità scientifica » . All’Enciclopedia assicurano che verrà garantito una sorta di «presidio della qualità» per preservare il marchio nonostante la gran mole di dati online. Altra novità sarà la web tv che permetterà agli utenti di formulare quesiti articolati in varie discipline e di ottenere una risposta articolata, qualche giorno dopo, con un intervento di un esperto. La navigazione sul Portale Treccani offrirà percorsi arricchiti da foto, citazioni, immagini e rinvii a voci collegate. Quindi continui suggerimenti operativi per possibili approfondimenti. Chiarisce Amato: «Ci saranno ancora opere che punteranno sulla carta, soprattutto quelle relative all’arte e specificatamente quelle di pregio. Proseguirà naturalmente il lavoro enciclopedico. Ma si possono e si devono raggiungere sempre più utenti, e questo sarà possibile solo online. In conclusione si procederà su un doppio binario, come già avviene col Dizionario biografico, i cui prodotti vengono messi subito in Rete appena pronti e poi pubblicati con il metodo tradizionale, seguendo il criterio alfabetico» .

L’Osservatore Romano 16.3.11
La spiritualità degli angeli e l'associazione Opus Sanctorum Angelorum
Quelli che vedono la faccia del Padre


Con data 2 ottobre 2010, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha inviato ai presidenti delle Conferenze episcopali una lettera circolare sull'associazione Opus Angelorum, lettera poi pubblicata ne "L'Osservatore Romano" del 5 novembre 2010, a pagina 5. In questa lettera, la Congregazione informa, in particolare, sull'approvazione dello Statuto dell'Opus Sanctorum Angelorum da parte della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica e sull'approvazione della "formula di una consacrazione ai SS. Angeli per l'Opus Angelorum" da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede. Sembra pertanto opportuno illustrare brevemente la spiritualità di quest'Opera dei santi Angeli, la quale, così come si presenta oggi, è "un'associazione pubblica della Chiesa in conformità con la dottrina tradizionale e le direttive della Suprema Autorità, diffonde la devozione nei riguardi dei SS. Angeli tra i fedeli, esorta alla preghiera per i sacerdoti, promuove l'amore per Cristo nella Sua passione e l'unione ad essa" (Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede).
Qual è dunque la spiritualità di quest'associazione? E qual è stato il suo cammino fino allo stato attuale cui si riferisce la lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede? L'Opus Sanctorum Angelorum è nata a Innsbruck (Austria) nell'anno 1949. La signora Gabriele Bitterlich, sposa e madre di tre figli, è stata all'origine di questo movimento. Dall'anno 1949, ha sviluppato una coscienza personale sempre più chiara che il Signore Gesù Cristo voleva che i fedeli venerassero e invocassero di più i santi angeli e si aprissero al loro potente aiuto. Da autentica cristiana, però, sempre ha professato di sottomettersi in tutto all'autorità della Chiesa. In quegli anni, questa autorità era il vescovo di Innsbruck, monsignor Paulus Rusch, con il quale è rimasta sempre in contatto. A partire dall'anno 1961, l'Opus Angelorum si è esteso in diversi Paesi del mondo. Così, dall'anno 1977, è stata l'autorità suprema della Chiesa a esaminare le dottrine e pratiche particolari dell'Opus Angelorum.
Con l'approvazione del movimento, la Chiesa ha riconosciuto la fondamentale validità dell'intuizione fondatrice della signora Bitterlich, ma d'altra parte ha anche rilevato, nel considerevole insieme dei suoi scritti, diverse dottrine e, in particolare, "teorie... circa il mondo degli angeli, i loro nomi personali, i loro gruppi e funzioni", "estranee alla S. Scrittura e alla Tradizione", le quali "non possono servire da base alla spiritualità e all'attività di associazioni approvate dalla Chiesa" (cfr. decreto Litteris diei della Congregazione per la Dottrina della Fede, 6 giugno 1992). Poiché l'Opus Angelorum ha obbedito alla Chiesa abbandonando quelle dottrine e le loro conseguenze pratiche, essa si presenta oggi a pieno titolo come un movimento ecclesiale chiamato a collaborare, mediante il proprio carisma, alla missione evangelizzatrice e salvatrice della Chiesa.
La base della sua spiritualità è dunque la Parola di Dio, la quale si trova nella Sacra Scrittura e nella tradizione viva della Chiesa, che sono autenticamente interpretate dal magistero. Una sintesi della dottrina del magistero riguardo al mondo angelico si trova nel Catechismo della Chiesa Cattolica (Ccc, cfr. pp. 328-336, 350-352).
Vi si legge, in primo luogo, che "l'esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede" (Ccc, 328). "In tutto il loro essere, gli angeli sono servitori e messaggeri di Dio. Per il fatto che "vedono sempre la faccia del Padre... che è nei cieli" (Matteo 18,10 ), essi sono "potenti esecutori dei suoi comandi, pronti alla voce della sua parola" (Salmo 103, 20)" (Ccc 329); "sono creature personali e immortali" (Ccc 330).
Gesù Cristo non è solamente il centro degli uomini, ma anche degli angeli: "Cristo è il centro del mondo angelico. Essi sono "i suoi angeli"... Sono suoi perché creati per mezzo di lui e in vista di lui... Sono suoi ancor più perché li ha fatti messaggeri del suo disegno di salvezza" (Ccc 331). "Essi, fin dalla creazione e lungo tutta la storia della salvezza, annunciano da lontano o da vicino questa salvezza e servono la realizzazione del disegno salvifico di Dio" (Ccc 332). Perciò, questo servizio si riferisce allo stesso Verbo incarnato e al suo Corpo sulla terra, la Chiesa. "Dall'Incarnazione all'Ascensione, la vita del Verbo incarnato è circondata dall'adorazione e dal servizio degli angeli... Essi proteggono l'infanzia di Gesù, servono Gesù nel deserto, lo confortano durante l'agonia, quando egli avrebbe potuto da loro essere salvato dalla mano dei nemici come un tempo Israele. Sono ancora gli angeli che "evangelizzano" (Luca 2,10) annunziando la Buona Novella dell'Incarnazione e della Risurrezione di Cristo. Al ritorno di Cristo, che essi annunziano, saranno là, al servizio del suo giudizio" (Ccc 333).
"Allo stesso modo tutta la vita della Chiesa beneficia dell'aiuto misterioso e potente degli angeli" (Ccc 334). "Nella Liturgia, la Chiesa si unisce agli angeli per adorare il Dio tre volte santo; invoca la loro assistenza ..., e celebra la memoria di alcuni angeli in particolare (san Michele, san Gabriele, san Raffaele, gli angeli custodi)" (Ccc 335).
Così, "dal suo inizio fino all'ora della morte la vita umana è circondata dalla loro protezione e dalla loro intercessione. "Ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore, per condurlo alla vita"". Fin da quaggiù, la vita cristiana partecipa, nella fede, alla beata comunità degli angeli e degli uomini, uniti in Dio" (Ccc 336). Con ragione quindi la "Chiesa venera gli angeli che l'aiutano nel suo pellegrinaggio terreno" (Ccc 352).
La particolarità dell'associazione Opus Sanctorum Angelorum consiste nel fatto che i suoi membri portano la devozione ai santi angeli a quello sviluppo pieno che si manifesta e si rende concreto in una "consacrazione ai santi Angeli", in modo simile a quello verificatosi nella storia della Chiesa nei riguardi della devozione al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore immacolato della Madonna (consacrazione al Cuore del Signore Gesù e di sua Madre).
Attraverso la consacrazione all'angelo custode si entra nell'Opera dei santi Angeli. La consacrazione ai santi Angeli è fatta da quei membri che vogliono impegnarsi di più per i fini spirituali del movimento. Questa consacrazione è intesa come un'alleanza del fedele con i santi angeli, e cioè, come un atto cosciente ed esplicito di riconoscere e prendere sul serio la loro missione e posizione nell'economia della salvezza. Come molte spiritualità hanno le loro espressioni tipiche, ad esempio il Totus tuus" di Giovanni Paolo II, così la spiritualità della consacrazione ai santi Angeli nell'Opus Angelorum potrebbe caratterizzarsi con le parole "cum sanctis angelis", cioè, "con i santi angeli" oppure "in comunione con i santi angeli".
Infatti, nella fede e nella carità teologale è possibile una "convivenza" dei fedeli con i santi angeli come veri amici (cfr. san Tommaso, Summa Theologiae II-II, q. 25. a. 10; q. 23, a. 1, ad 1.) e così anche una intima collaborazione spirituale con loro per i fini del disegno salvifico di Dio nei confronti di tutte le creature (cfr. Efesini 1,9-10; Colossesi 1,15-20; Giovanni 12,32; 17,21-23; Apocalisse 10,7; 19,6-9), giacché da parte loro è garantita la cooperazione per tutte le nostre opere buone (cfr. Ccc 350: "Ad omnia bona nostra cooperantur angeli, gli angeli cooperano ad ogni nostro bene (san Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I, 114, 3, ad 3)".
Questa convivenza e collaborazione spirituale dei fedeli con i santi angeli, in cui consiste proprio, secondo lo Statuto summenzionato, la "natura" dell'Opus Angelorum, richiede ovviamente non solamente la fede e l'amore ai santi angeli - in primo luogo al proprio angelo custode - ma anche l'applicazione prudente dei criteri di "discernimento degli spiriti". Qui viene a proposito la seguente spiegazione che si trova nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (pagina 162: commento ad un dipinto di Jan Van Eyck, riprodotto alla pagina precedente): "Come nella visione della scala di Giacobbe - "gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa" (cfr. Genesi 28,12) - gli angeli sono dinamici e instancabili messaggeri, che collegano il cielo alla terra. Tra Dio e l'umanità non c'è silenzio e incomunicabilità, ma dialogo continuo, comunicazione incessante. E gli uomini, destinatari di questa comunicazione, devono affinare questo orecchio spirituale, per ascoltare e comprendere questa lingua angelica, che suggerisce parole buone, sentimenti santi, azioni misericordiose, comportamenti caritatevoli, relazioni edificanti".
L'Opus Angelorum si fonda sulla prontezza incondizionata di servire Dio con l'aiuto dei santi angeli e ha come finalità il rinnovamento della vita spirituale nella Chiesa con il loro aiuto nelle cosiddette "direzioni (o dimensioni) fondamentali" di adorazione, contemplazione, espiazione e missione (apostolato).
L'aiuto degli angeli e l'unione degli uomini con essi permettono a quest'ultimi di vivere meglio la fede e anche di testimoniarla con più forza e convinzione. I santi angeli, infatti, contemplano continuamente la faccia di Dio (cfr. Matteo 18, 10) e vivono in costante adorazione. In modo particolarmente efficace possono quindi illuminare i fedeli che si aprono coscientemente alla loro azione, i quali fedeli sono da loro aiutati a contemplare nella fede i divini misteri: Dio stesso e le sue opere (theologia e oikonomia, cfr. Ccc 236), a crescere così nella conoscenza e nell'amore di Dio, a rimanere alla Sua presenza e realizzare un'adorazione particolarmente reverente e amorevole, dedicandosi alla maggiore glorificazione di Dio. L'adorazione, specialmente l'adorazione eucaristica, occupa, quindi, nell'Opus Angelorum il primo posto.
Come lo stesso Signore Gesù Cristo è stato fortificato dal Padre celeste attraverso un angelo per sopportare la passione redentrice (cfr. Luca 22,43), così i membri dell'Opus Angelorum confidano sull'aiuto dei santi angeli per seguire Cristo con carità espiatrice per la santificazione e salvezza delle anime, e particolarmente per i sacerdoti. Perciò, c'è nell'Opus Angelorum anche il pio esercizio della Passio Domini, cioè un tempo di preghiera settimanale (giovedì sera e venerdì pomeriggio), in cui i membri si uniscono spiritualmente al Redentore nel mistero della sua passione salvifica. Cristo crocifisso e risorto è, infatti, il centro tanto degli uomini quanto dei santi angeli.
Con l'approvazione dell'Opus Sanctorum Angelorum, la Chiesa ha dato la benedizione a un movimento che si caratterizza, certo, per una devozione peculiare ai santi angeli, ma anche ed essenzialmente - in conformità con le proprietà caratteristiche degli angeli - per un orientamento assoluto verso Dio e il suo servizio, verso Cristo Redentore, la croce, l'Eucaristia, a gloria di Dio e per la santificazione e salvezza delle anime. Davvero, la coscienza viva della presenza e dell'aiuto misterioso e potente dei santi angeli, servi e messaggeri di Dio, è atta a spingere i fedeli a dedicarsi con fiducia alla prima e sostanziale missione della Chiesa: la salvezza delle anime a gloria di Dio.