venerdì 18 marzo 2011

Agi 18.3.11
Alla Fiera di Lipsia Istinto di morte e conoscenza in tedesco


(AGI) - Roma, 18 mar. - Domani sara' presentato alla Fiera del Libro di Lipsia e il giorno seguente sara' in libreria 'Todestrieb und Erkenntnis', la versione tedesca di 'Istinto di Morte e Conoscenza', il libro della 'teoria della nascita' scritto dallo psichiatra Massimo Fagioli quarant'anni fa, nel 1970. Lo si legge in una nota della casa editrice 'L'Asino d'oro' che di 'Istinto di Morte e Conoscenza' ha pubblicato nel 2010 una nuova edizione. 'Todestrieb und Erkennis', edito dallo storico marchio tedesco 'Stroemfeld Verlarg', e' stato curato da Anna Homberg, Cecilia Iannaco e Antonio Marinelli che domani, alla Fiera del Libro di Lipsia (17-20 marzo), la citta' che ha dato i natali a Nietzsche, Wagner, Bach e Leibniz, lo presenteranno insieme all'autore, lo psichiatra dell'Analisi Collettiva. Secondo uno dei traduttori, la psichiatra tedesca Homberg, il testo tedesco offrira' risposte ai tanti che in Germania fanno ancora i conti con l'orrendo fenomeno del nazismo: "le radici pulsionali dell'anaffettivita' scoperte da Fagioli potrebbero dare una risposta estremamente importante e innovativa alla loro domanda "come e' potuto accadere", evitando pero' ogni pessimismo su una natura umana sempre pensata come necessariamente malvagia ed aggressiva". E aggiunge, "in questi tempi in cui all'estero gli eventi italiani spesso suscitano stupore e ilarita', mi pare particolarmente indicato ricordare ai lettori della mia patria che in Italia si fanno anche ricerche scientifiche importantissime di cui questo libro coraggioso e' espressione fondamentale". (AGI) Red/Pat


l’Unità 18.3.11
«Resisteremo al raìs nemico della sua gente»
Parla un membro del Consiglio di transizione che riunisce le opposizioni: al mondo chiediamo solo di togliere al Colonnello la supremazia aerea
di U. D. G.


Messaggio da Bengasi assediata: «Li stiamo aspettando e non molliamo, stiamo cercando con tutti i mezzi a nostra disposizione di impedire il sorvolo basso dei bombardieri...Siamo già riusciti ad abbattere due aerei di Gheddafi...». A parlare è Ibrahim Al Agha, membro del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), l'organismo che riunisce tutte le forze libiche anti-Gheddafi. Riusciamo a entrare in contatto telefonico con Al Agha dopo che la tv di Stato libica aveva annunciato la conquista di Misurata da parte delle forze lealiste. Al Agha invita a diffidare dei proclami della propaganda del regime: «Non vi meravigliate di sentire fra poco che le truppe del Colonnello hanno occupato Parigi e Londra, questi sono professionisti della menzogna». «Cos'altro aspetta la Comunità internazionale, gli Stati Uniti, l'Europa per impedire che gli aerei di Gheddafi continuino a bombardare e a spostare nel Paese armi e mercenari? dice a l'Unità Al Agha -. Noi resisteremo fino all'ultimo uomo, non ci arrenderemo mai al criminale che ha dichiarato guerra al popolo. Ma Gheddafi ha ordinato ai suoi miliziani di eliminare tutti quelli che ritengono essere “complici” degli insorti, anche se i “complici” sono donne e bambini... Al mondo ripetiamo: non saranno le parole a fermare un criminale di guerra di nome Muammar Gheddafi».
La tv di Stato ha appena annunciato la conquista di Misurata e l'attacco finale a Bengasi: in 48 ore tutto sarà finito, ha proclamato il figlio di Gheddafi, Saif al Islam...
«Non date retta ai professionisti della menzogna...A Misurata si continua a combattere mentre qui a Bengasi il morale è alto...Li stiamo aspettando e non molliamo. Non è vero che le truppe governative sono alle porte di Bengasi. Si trovano ancora nei pressi di Ajdabiya, a 200 chilometri da qui. E ad Ajdabiya la resistenza è accanita».
Sempre la tv di Stato ha annunciato bombardamenti aerei sull'aeroporto di Bengasi. Può confermarlo? «Ci sono stati alcuni raid a cui abbiamo risposto con la contraerea...Siamo riusciti ad abbattere due aerei di Gheddafi. Al figlio del tiranno dico: vieni a prenderci se ne hai il coraggio...».
Mentre parliamo, il Consiglio di Sicurezza deve ancora decidere sulla «no fly zone». Cè ottimismo sul via libera...
«Da giorni chiediamo un'azione internazionale che indebolisca la forza militare, soprattutto aerea, di Gheddafi. La gente che si è ribellata al regime si sente abbandonata, tradita...Soprattutto da chi ha la forza per agire e sin qui non lo ha fatto...». A chi si riferisce in particolare?
«Al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Lui ha giustamente esaltato le masse che in Tunisia ed Egitto si sono rivoltate contro regimi dispotici e corrotti, rivendicando libertà e diritti. Ed è quello che chiediamo anche noi: libertà e diritti; è per realizzarli che stiamo combattendo. Obama ha usato parole durissime contro Gheddafi. Ma non saranno le parole a fermare i bombardamenti, a impedire altri massacri. Noi non vogliamo soldati stranieri in Libia. Saranno i libici a sconfiggere il dittatore. Chiediamo che gli sia impedito di avere la supremazia aerea. A Obama, come ai leader europei, al mondo libero chiediamo di essere coerenti con quanto affermato. Non c'è altro tempo da perdere. Se vince Gheddafi non solo saranno cancellate nel sangue le speranze di fare della Libia un Paese libero, democratico, pluralista, ma ad essere rafforzati saranno tutti quei dittatori che nel mondo, non solo in quello arabo, si sentiranno incoraggiati a seguire la strada di Gheddafi nel reprimere nel sangue ogni rivolta. Questa è la posta in gioco. Libertà o dittatura. Noi abbiamo scelto. Non lasciateci soli. Gheddafi è una minaccia per tutti. Anche per l’Italia».

l’Unità 18.3.11
Sorelle Mai
Verità e finzione di famiglia
di Alberto Crespi


Può non apparire evidente, guardando i film, ma è dai tempi dei Pugni in tasca il suo clamoroso esordio, nel 1965 che Marco Bellocchio usa il cinema per raccontarci in filigrana la propria vita. Non si tratta di un’autobiografia diretta: è troppo esperto di psicologia, Bellocchio, per non sapere che la verità si nasconde sempre dietro molteplici filtri. Per altro il tempo ha fatto bene a questo artista, che da diversi anni attraversa una fase creativa particolarmente felice: pensate a L’ora di religione, a Buongiorno notte, a quel capolavoro indiscusso che è Vincere. Quindi anche l’autobiografia, per quanto indiretta, ha raggiunto toni sereni e ironici che ai tempi dei Pugni in tasca sarebbero stati impensabili. Sorelle Mai ne è la prova.
Il «Mai» scritto con la maiuscola non è un refuso. Nel film Mai è il cognome della famiglia che vive, fra alti e bassi economici e psicologici, nel vecchio palazzo dove già Bellocchio girò I pugni in tasca (che giustamente viene, a un certo punto, evocato). Ma le due sorelle Mai, anziane zie della protagonista Sara, hanno il volto e la voce di Letizia e Maria Luisa Bellocchio, autentiche sorelle dell’autore che da anni compaiono con piccoli ruoli nei suoi film. Crediamo che su di loro nessuno potrebbe parlare meglio, e con maggior cognizione, dello stesso Bellocchio: «Nella mia storia giovanile c’è stata la ribellione e il coraggio del distacco, che non ha lasciato in me rimpianti o sensi di colpa, se non l’inevitabile confronto tra il mio destino e quelle delle mie sorelle che sono rimaste in paese. Senza aver avuto la possibilità di una vita autonoma (nel senso che sono sempre state scoraggiate ad averla), sono rimaste sempre in casa come certe signorine dell’Ottocento, in un mondo gozzaniano o pascoliano, o cechoviano». Trasformarle, nel film, da sorelle Bellocchio in sorelle Mai è anche un sottile gioco di parole che sembra confermare in modo «soft», a distanza di 45 anni, il rifiuto radicale della famiglia borghese sul quale era costruito I pugni in tasca. Ma c’è anche tanto affetto.
Fosse solo un ritratto di famiglia, Sorelle Mai sarebbe una cosa a metà fra un home-movie e un documentario. Ma la memoria personale si incrocia, nel film, con un’attività pubblica. Da anni Bellocchio dirige a Bobbio, il suo paese natale in provincia di Piacenza, il laboratorio di regia Fare Cinema. Nell’arco di una decina d’anni, con attori amici e complici, Bellocchio ha svolto un lavoro di sperimentazione drammaturgia che ha fatto felicemente confluire nel film. Ecco dunque che le «vere» sorelle interagiscono con personaggi di finzione: Sara, loro nipote (Donatella Finocchiaro), è un’aspirante attrice trasferitasi a Milano; sua figlia Elena, che nel film cresce da 4 a 14 anni, vive al paesello con le zie (è Elena Bellocchio, vera figlia di Marco); il fratello di Sara, Giorgio, va e viene, sempre incerto sul futuro proprio e della nipote (e qui l’attore è Pier Giorgio Bellocchio, il figlio più grande di Marco, figura ricorrente del suo cinema). Ospite nella casa avita c’è anche una giovane professoressa di liceo interpretata da Alba Rohrwacher. Il suo pezzo viene dai laboratori di Fare Cinema ed è come un piccolo film nel film, che sposta momentaneamente l’attenzione e lascia la voglia di saperne di più: come se Marco dovesse prima o poi farlo, un film sul mondo della scuola...
Forse vi siete persi, in questo labirinto di «vero o falso» nel quale Sorelle Mai trascina lo spettatore. Ma sappiate che al cinema non vi perderete. Ha del miracoloso il modo in cui Bellocchio mescola realtà e finzione, vita vissuta e vita ricostruita, scardinando definitivamente l’artificiale distinzione fra documentario e film narrativo. Lo aveva già fatto in Vincere, dove i filmati di repertorio diventavano il vero e proprio inconscio di Mussolini e degli altri personaggi. Qui si ripete in modo più discreto, meno «urlato», forse addirittura più affascinante. E altrettanto geniale.

Repubblica Bologna 18.3.11
"Racconto la prigionia delle mie Sorelle Mai"
Il regista questa sera al Rialto presenta il suo ultimo film con episodi molto autobiografici
di Emanuela Giampaoli


«Ho accettato l´idea di tenere il laboratorio di regia Fare Cinema, a Bobbio, nel piacentino, mettendo dentro all´esperienza qualcosa di personale che mi consentisse un atteggiamento non teorico ma di partecipazione e personale divertimento. Si vede infatti nel film una bambina, mia figlia, crescere dai quattro ai quattordici anni».
Così il regista Marco Bellocchio che, questa sera alle 22.30 sarà al Rialto (alle 20 sarà invece al cinema D´Azeglio di Parma) per presentare «Sorelle Mai», da oggi nelle sale, spiega la genesi della sua ultima opera proiettata fuori concorso al Festival di Venezia 2010.
Una pellicola che, a metà strada tra finzione e documentario, tra saggio scolastico e sperimentazione, tra verità e messa in scena, nasce dai seminari che il regista di «Vincere» e de «I pugni in tasca» tiene tutte le estati da dieci anni ma poi diventa quasi un filmino familiare, anche se molto sui generis.
Sei gli episodi, fortemente autobiografici, girati tra il `99 e il 2008 intorno alla dimora dei Bellocchio nella campagna piacentina e alle due sorelle di Marco, Letizia e Marisa, che lì abitano da sempre.
«Mai è un cognome di fantasia - svela il regista - ma allude anche a quella trappola che per le due sorelle è stata la famiglia. Senza aver avuto la possibilità di una vita autonoma, sono rimaste sempre in casa come certe signorine dell´Ottocento, in un mondo gozzaniano o pascoliano, o cecoviano. Io che sono più giovane non ho responsabilità oggettive di questa loro "prigionia", ma sento ugualmente una certa tristezza per la loro vita di confortevoli rinunce».
Intorno a loro ci sono il nipote Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio) che inquieto viene e va, la piccola Elena che cresce (Elena Bellocchio) e Sara, sorella di Giorgio (Donatella Finocchiaro), che fa l´attrice a Milano. Tutto in quello stesso luogo dove 45 anni fa si era svolto il dramma de «I pugni in tasca», diventato il manifesto della ribellione contro l´istituto familiare.
Ma Bellocchio avverte: «Ho inserito dei piccoli frammenti de «I pugni in tasca» non per una citazione intellettualistica, ma perché essendo gli stessi luoghi, gli stessi ambienti, mi piaceva inabissare improvvisamente e rapidamente la storia di «Sorelle Mai» in un´altra lontanissima nel tempo. Vissuta e rappresentata cinquant´anni prima. La casa del mio primo film da allora non è molto cambiata. Ma, almeno per me, non è più popolata di fantasmi». Altri interpreti di "Sorelle Mai" Donatella Finocchiaro, Alba Rohrwacher, Gianni Schicchi, Silvia Ferretti. 

Repubblica 18.3.11
Chi ha paura della Filosofia?
Così l´Ungheria criminalizza gli intellettuali
di Ágnes Heller


L´obiettivo è quello dell´intimidazione: farti tacere educatamente se non vuoi essere denunciato
Sono stata tacciata di essere una pensatrice "liberale" che nel loro lessico è sinonimo di "antipatriottico"
La Heller, celebre studiosa, racconta la campagna di diffamazione che il governo di Budapest ha organizzato contro di lei e altri suoi colleghi

Dall´Illuminismo in poi, scrittori, teatranti, musicisti e redattori e cronisti dei giornali di qualità si sono fatti carico delle responsabilità che derivano dalla libertà di opinione. In altre parole, i loro pensieri e le loro convinzioni hanno cominciato a essere dettati dalla propria coscienza e dalla propria ragione, e non più dai loro signori e maestri. Nel campo della filosofia, invece, la riflessione indipendente è da sempre una delle "malattie professionali" del filosofo, ma l´Illuminismo ha esteso questo morbo a tutti coloro che successivamente sono stati designati con il termine di "intellettuali".
Gli intellettuali critici ebbero il loro momento di gloria sotto le dittature. Furono loro a incarnare l´idra a sette teste in rivolta contro la tirannia. E se una delle teste cadeva, per corruzione, assassinio, invio in campi di internamento o di sterminio, o ancora per esilio forzato o incarcerazione, altre spuntavano a prendere il loro posto. Un drago che si è dimostrato invincibile.
Con l´arrivo della democrazia, finisce l´eroismo! Ma il coraggio civico resta sempre di attualità. È questione di investire tempo ed energia, di rifiutare le promozioni facili per mantenere desto lo spirito critico. È la tensione che scaturisce dal dibattito, lo scambio incessante di argomentazioni e controargomentazioni che alimentano la dinamica della società moderna
Per anni ho creduto che la filosofia fosse diventata una disciplina universitaria come le altre, una professione che si occupava del proprio passato e dalla museificazione della sua storia, che interessava soltanto i suoi rappresentanti. La funzione critica che tradizionalmente svolgeva ormai veniva assolta dai vari media.
E poi, la sorpresa. Il nuovo Governo ungherese, appena entrato in carica, ha lanciato una campagna di diffamazione contro i filosofi ungheresi, e attraverso di loro contro tutta la filosofa critica, sottoposta ad attacchi in serie lanciati simultaneamente da tre quotidiani e tre reti televisive. La campagna è durata quasi due mesi, insistendo sempre sulle stesse accuse, asserzioni stucchevoli e reiterate da tempo smentite. L´accusa, ripetuta fino alla nausea, era che «la banda Heller», con mezzi sospetti e con il pretesto di lavori di ricerca, aveva rubato, sottratto mezzo miliardo di fiorini (quasi 2 milioni di euro).
Di che si trattava? Su un centinaio di progetti sono sei quelli sotto accusa. Le cifre destinate ai vari lavori in questione (ricerca, traduzione, curatela di opere…) sono state sommate, e una persona è stata additata come capro espiatorio. Perché proprio io, che su sei direttori di progetto non ho mai percepito un centesimo? Gli accusatori non hanno fatto mistero delle loro ragioni. Sono stata tacciata di «filosofa liberale», e «liberale», nel lessico del Governo attuale, è sinonimo di «opposizione», «diabolico», «antipatriottico». Questi sei bersagli selezionati sono stati scelti perché rappresentano il gruppo ideale per criminalizzare tutti coloro che mettono in discussione la politica del Governo ungherese, in particolare la recentissima legge sui mezzi di informazione.
Quali sono gli obbiettivi politici di questa criminalizzazione? Tanto per cominciare l´intimidazione degli intellettuali critici, in particolare dei filosofi. Costringerli a stare sul chi vive, indurli a tacere educatamente se non vogliono essere denunciati e trattati come vengono trattati i criminali comuni.
Inoltre, questa campagna consente di criminalizzare anche numerosi esponenti del Governo precedente e l´ex primo ministro social-liberale. In generale sulla base del pretesto che in questi ultimi dieci anni l´indebitamento dell´Ungheria ha raggiunto un livello preoccupante. Questo fatto, che è una questione di politica economica, ora viene presentato come un atto criminale, come se la precedente dirigenza si fosse intascata milioni di euro.
Assistiamo a un Kulturkampf, a un´offensiva del potere contro gli intellettuali. La maggior parte delle personalità di rilievo dell´élite culturale è stata «eliminata». È il caso, ad esempio, del direttore artistico e direttore d´orchestra dell´Opera di Budapest Adam Fischer, famoso a livello mondiale, o ancora del direttore del Balletto e di un gran numero di direttori di teatro, di redattori televisivi, di presentatori, di opinionisti, di giornalisti. Ed è in questo contesto che si inserisce l´attacco contro i filosofi.
Abusando della sua maggioranza parlamentare di due terzi, questo Governo di destra che si proclama «rivoluzionario» ha fatto approvare una legge sui mezzi di informazione gravemente in contraddizione con lo spirito democratico europeo. È stata creata una commissione ad hoc, composta unicamente da esponenti del partito di maggioranza, con la missione di controllare e definire sanzioni nei confronti dei media, inclusa la carta stampata (fino ad ora, la competenza per giudicare un reato mediatico – che si trattasse di diffamazione o di altro – spettava a un tribunale indipendente).
Quando molti deputati europei sono insorti contro questa grave violazione della libertà di stampa, il capo del Governo, Viktor Orbán, se l´è presa con gli intellettuali critici (i famosi «liberali»), accusati di aver pugnalato alla schiena il Governo legittimo del loro Paese, di essere dei nemici della patria, attribuendo a loro la responsabilità del fatto che l´Unione Europea non abbia apprezzato a dovere la particolarità di questo hungaricum, come chiamiamo noi le specialità magiare. Questo non lo nego, e mi dichiaro colpevole, come tantissimi altri colleghi. Ma la stampa europea non ha avuto bisogno di noi per lanciare l´allarme, perché la limitazione della libertà di stampa si può propagare come una malattia contagiosa, e bisogna fermarla fin dal manifestarsi dei primi sintomi.
Tuttavia, il Governo è ricorso a ogni genere di riforme per mettere alla prova i nervi degli intellettuali, sensibili al rispetto dei diritti. Ad esempio, eliminando metodicamente i contrappesi istituzionali, concentrando i poteri, nazionalizzando i contributi versati alle casse pensionistiche private, limitando l´indipendenza della Banca centrale, introducendo e applicando leggi a effetto retroattivo e altre misure ancora. Gli economisti e i politologi «liberali» si ritrovano in questo caso alleati dei filosofi.
Un motivo di soddisfazione però c´è, in tutta questa triste faccenda. La solidarietà che ci è stata manifestata dai filosofi del mondo intero, e dagli intellettuali e dai liberi pensatori in genere, ci riconforta. L´eco è stato più ampio di quello che ci si sarebbe potuti immaginare. Petizioni e lettere di protesta sono affluite dai quattro angoli del pianeta, da tutti i Paesi d´Europa. Ovunque, la stampa si è mobilitata.
Sembra finalmente che la libertà di espressione, la libertà di opinione, la libertà di pensiero siano concetti che non conoscono confini. E che anche la filosofia, alla fine, non sia diventata un vecchio leone sdentato.
(Traduzione di Fabio Galimberti) Le Monde 14 mars 2011

il Fatto 18.3.11
Beltrandi, se c’è lui Berlusconi sta tranquillo
di Paola Zanca


La sua ossessione, da buon radicale, si chiama par condicio. E per difenderla è riuscito perfino a cadere nel trappolone che portò alla sospensione dei talk show prima delle regionali del 2010. A un anno di distanza, Marco Beltrandi, 42 anni da Bologna, è tornato a far parlare di sé. Mercoledì, a Montecitorio ha votato contro la mozione Franceschini che chiedeva l’accorpamento delle amministrative con i referendum su acqua, nucleare e legittimo impedimento. Un voto pesante, che, insieme alle assenze tra le fila dell’opposizione, ha fatto perdere la possibilità di mandare sotto il governo su una questione così importante. Una scheggia impazzita , che nessuno, nemmeno i suoi compagni di squadra sono riusciti a fermare. Lunedì, raccontano, ha annunciato il suo voto contrario in una riunione-fiume nella sede di via di Torre Argentina. Ancora ieri ribadiva la sua coerenza: “I miei compagni radicali lo sanno: io sono ferocemente contrario all’abbinamento amministrative e referendum. Lo ritengo un escamotage per raggiungere il quorum”. Non sia mai. Hanno riprovato a convincerlo due giorni dopo, durante il voto. Quando sul pannello delle votazioni elettroniche si è accesa la lucina rossa in alto a sinistra dell’emiciclo, i compagni di banco hanno urlato: “Cambia, cambia!”. Avrebbe fatto in tempo, la votazione è rimasta aperta a lungo. Invece no, ha preferito restare sulla sua posizione e farsi processare da tutto il Pd in Transatlantico.
D’ALTRONDE, controcorrente Beltrandi lo è. Sono passati i tempi, era l’ultima legislatura Prodi, lo ricordano disciplinato vicepresidente in commissione Trasporti. Da quando è finito nella Vigilanza Rai si è fatto riconoscere eccome.
È il marzo di quattro anni fa quando vota insieme a Storace una risoluzione contro Lucia Annunziata, colpevole di non invitare ospiti di centro-destra a In mezz'ora. La stagione della Annunziata è ancora a metà, in studio da lei c’è già stato Fini, c’è stato Tremonti. Per questo il capogruppo dell’Ulivo Fabrizio Morri bollò come “grave” il comportamento di Beltrandi, lui fece spallucce: “Grave – disse – è che il centrosinistra non rispetti i principi stabiliti dalla legge di pluralismo”. Un anno dopo è la volta dell’elezione del presidente della commissione di Vigilanza. Al termine di una querelle durata sei mesi , il Pd Riccardo Villari viene eletto con i voti del centrodestra. I democratici lo cacciano dal partito, i commissari, pur di mandarlo via, si dimettono in massa. Beltrandi e il collega Mpa Luciano Sardelli sono gli unici due a rimanere al loro posto e a invitare Villari a non andarsene. Servirà l’intervento dei presidenti delle Camere Fini e Schifani per sbloccare la situazione: revoca degli incarichi a tutti, si riparte da zero.
ORA A CAPO della Vigilanza Rai c’è Sergio Zavoli, e Beltrandi è rimasto il battitore libero di un tempo. È suo – siamo a febbraio del 2010 – il testo del regolamento per la campagna elettorale che prevede nell’ultimo mese solo tribune elettorali. Lo votarono Pdl, Lega e Udc. Il dirigente radicale era convinto di ottenere spazio sulla tv pubblica anche per il suo partito (“Avremo per la prima volta negli spazi più ambìti del palinsesto Rai una vera par condicio”), finì con un colossale bavaglio: la sospensione di tutti i programmi di approfondimento per quattro settimane.
Ora il referendum. Pur di evitare “gli escamotage per raggiungere il quorum” Beltrandi ha deciso che i cittadini italiani dovranno tornare due volte alle urne, a fine maggio e il 12 giugno. Lui insiste: “Il mio dissenso è politico, figuriamoci se intendo passare in maggioranza”. Ma c’è chi maliziosamente ricorda i numerosi incontri del leader Marco Pannella con Silvio Berlusconi, alla vigilia della riforma “epocale” della Giustizia, tema assai caro ai Radicali stessi. In verità, lo stesso Pannella ha definito il voto di Beltrandi “politicamente errato”. Altri maligni erano già andati oltre: “Beltrandi? Non è così intelligente da aver votato contro per fare un favore a Berlusconi”.

Corriere della Sera 18.3.11
La casa popolare della Polverini «A 130 euro al mese»
Sull’Aventino per 15 anni per 5 stanze
di Paolo Foschi


ROMA— Anche Renata Polverini finisce al centro di «affittopoli» . La governatrice del Lazio proprio l’altro ieri aveva istituito una «commissione ispettiva» sull’Ater (l’azienda dell’edilizia popolare) di Roma. Obiettivo: fare luce su eventuali abusi e favoritismi nei contratti di affitto e di vendita delle case pubbliche. Da settimane il centrodestra accusa la vecchia giunta Veltroni di aver svenduto case ad amici e amici di amici. Ma ieri, appena 24 ore dopo l’annuncio della linea dura, Renata Polverini si è ritrovata a sua volta sotto accusa. Tirata in ballo da un’inchiesta pubblicata sul sito Internet de l’Espresso. Secondo la ricostruzione del settimanale (suffragata da certificati anagrafici), l’ex sindacalista per 15 anni, fino al 2004, ha avuto la propria residenza insieme al marito Massimo Cavicchioli in una casa dell’Ater in via Bramante, all’Aventino, quartiere extra lusso, usufruendo di un canone ultra-popolare: circa 130 euro al mese per 4 vani più bagno e cucina. E ancora oggi, sostiene il giornale, Cavicchioli risulta residente nell’appartamento. Renata Polverini, cercata tramite la propria portavoce, ha preferito non commentare: «Domani (oggi per chi legge, ndr) forse parlerà di questa storia» . La governatrice -secondo la ricostruzione de l’Espresso -dal settembre del 2004 abita e ha la propria residenza in un elegante appartamento a San Saba, altra zona extra lusso in pieno centro della Capitale. Si tratta di una casa acquistata nel 2002 dallo Ior: nove stanze, due box e tre balconi, pagata appena 272 mila euro (somma con la quale all’epoca a Roma si acquistavano sul mercato al massimo 70-75 metri fuori dal centro). E sempre nello stesso stabile aveva poi comprato nel 2004, quando ancora era residente nella casa Ater, un altro appartamento gemello, stavolta a 666 mila euro (valore sempre di molto inferiore rispetto ai prezzi di mercato), di proprietà di una società in affari con la Santa sede. Non solo. Da inquilina delle case popolari, ricostruisce il settimanale, Renata Polverini, mentre stava scalando i vertici del sindacato Ugl fino a diventarne leader, dal 2001 era stata protagonista di una girandola di compravendite immobiliari (compreso un appartamento al Torrino ex Inpdap acquistato alle condizioni riservate agli inquilini, anche se lei non lo era), cessioni e donazioni con un vorticoso giro di centinaia di migliaia di euro. Insomma un tenore di vita ben diverso da quello che si richiede come requisito per usufruire dei canoni agevolati delle abitazioni popolari riservate a persone con redditi bassi e senza casa. Ancora oggi sul citofono della casa di via Bramante si leggono tre cognomi: Polverini R.-Cavicchioli M. -Berardi (è la famiglia della suocera defunta della governatrice). «Non abitano più qui da tempo» , dicono però gli altri inquilini. L’appartamento, a quanto pare, è vuoto. «Se le notizie riportate dall’Espresso fossero confermate, sarebbero molto gravi. Ci auguriamo che Renata Polverini faccia chiarezza al più presto» , è il commento di Vincenzo Maruccio, dell’Italia dei Valori.

Repubblica 18.3.11
Il segretario della Cgil: redistribuzione senza gravare sui Bot
Camusso: "Aiuti fiscali ai redditi bassi e tasse sui patrimoni oltre 800mila euro"


ROMA Di crisi, ripresa e lavoro non se ne parla quasi più, ma il 2011 rischia di essere un anno in cui le condizioni del paese possono peggiorare ulteriormente. Per questo serve un governo responsabile, che intervenga anche partendo dalle tasse. Susanna Camusso, leader della Cgil, ha in proposito un´idea precisa, raccontata ieri a RepubblicaTv intervistata dal vicedirettore di Repubblica Massimo Giannini.
Berlusconi sta cercando di convincere Tremonti ad avviare una riforma fiscale, lei è d´accordo?
«Da tempo diciamo che è necessaria, ovviamente bisogna vedere di che riforma si tratta».
Il premier dice che la sinistra vuole la patrimoniale, è così?
«Non mi risulta che sia così. Per quanto riguarda la Cgil sicuramente sì: siamo convinti che vada introdotta una patrimoniale sopra gli 800 mila euro».
Tassando i Bot?
«No, non bisogna pensare ai bassi redditi o a chi si è comprato casa con venti anni di mutuo. Bisogna invece pensare a chi ha tante ville e grandi patrimoni, all´aumento della tassazione sulle rendite finanziare, al fatto che le stock option devono essere trattate come il reddito da lavoro. Serve una riforma fiscale che ridistribuisca risorse verso il basso, ai dipendenti, pensionati e redditi bassi. E che le tolga alla rendita per darle alla produzione delle imprese».
Del federalismo fiscale cosa ne pensa?
«Che così com´è contiene in sé due ingiustizie: affida più competenze a comuni e regioni, ma sottrae loro risorse mettendo in difficoltà le amministrazioni. In più l´aumento delle addizionali e l´aumento del costo dei servizi colpiranno ancora una volta lavoratori dipendenti e pensionati. Chi dichiara tutto il reddito e non evade».
Da parte del sindacato la risposta a tutto questo può continuare ad essere lo sciopero generale? Cgil ne ha in programma uno il 6 maggio.
«Lo sciopero non basta, ma va fatto. Di fronte alla situazione attuale ci sono troppi silenzi e poche assunzioni di responsabilità. Se le cose non vanno bene bisogna dirlo, lo sciopero è lo strumento che ha il sindacato per farlo. Il tema di questa manifestazione sarà proprio la mancanza di responsabilità della classe dirigente: se si cominciasse a discutere pubblicamente su cosa fare, come intervenire, noi non saremmo costretti a scioperare».
Qual è lo stato dell´arte dei rapporti fra Cgil, Cisl e Uil?
«Sappiamo che i lavoratori hanno bisogno di unità e abbiamo fatto una proposta: ridiamoci delle regole e coinvolgiamo i lavoratori quando siamo in dissenso. Ma forse a qualche sindacato pare più utile ottenere il riconoscimento del governo che provare a determinare un cambiamento».

giovedì 17 marzo 2011

il Riformista 17.3.11
Bersani adesso vuole cavalcare i referendum

di Ettore Colombo
qui
http://www.scribd.com/doc/50931482

il Riformista 17.3.11
Beltrandi, il radicale che affonda i referendum



Poteva finire 276 a 275, è finita 275 a 276. Decisivo per affossare le mozioni dell’opposizione che alla Camera dei deputati chiedeva l’election day per accorpare il voto delle amministrative con quello dei referendum è stato il voto del deputato radicale Marco Beltrandi, eletto nelle file del Partito democratico.
Tutta la cultura della “democrazia diretta”, gli anni di battaglie per i referendum, le polemiche sulle date impossibili con le quali li si depotenziava impedendo di fatto il raggiungimento del quorum, le denunce per gli sprechi economici di una doppia consultazione a quindici giorni di distanza, gli scioperi della fame, quelli della sete, i bavagli di Marco Pannella in televisione, le accuse ai Comuni che non mettevano a disposizione i funzionari per la raccolta delle firme... tutto buttato al vento con il gesto di Marco Beltrandi che schiaccia consapevolmente il pulsante “sbagliato”.
Non ci basta la fantasia per immaginare i motivi che hanno convinto il deputato radicale a questo voto. E le orecchie ancora ci fanno male per lo stridore delle unghie radicali sugli specchi del buon senso dopo aver letto il loro comunicato con il quale assolvono Bertrandi dall’accusa di essere il responsabile dell’affossamento dell’election day. Ci piacerebbe conoscere le ragioni (se sono pubblicamente confessabili) tanto del gesto del primo quanto della sua giustificazione da parte dei secondi.



La Stampa 17.3.11
Election Day I Radicali affossano mozione Pd



Decisivo, per affossare alla Camera le mozioni delle opposizioni che chiedevano «l’election day», è stato il radicale Marco Beltrandi. Il deputato radicale eletto nelle file del Pd infatti ha votato ieri in Aula contro la richiesta del suo partito, così come quelle di Idv e Udc, di accorpare le amministrative ai referendum. Il risultato finale è stato 276 no contro 275 sì. Voto sul quale hanno pesato anche le assenze nelle file delle opposizioni. Non hanno partecipato al voto 10 deputati del Pd, 8 di Fli, 4 dell’Udc e 2 dell’Idv.
Immediata la reazione polemica all’interno del Pd con Rosi Bindi che ha definito la decisione di Beltrandi una scelta gravissima: ci sono dei momenti nei quali la disciplina di un gruppo è fondamentale». Sulla stessa linea il capogruppo Franceschini: «Per un voto, solo per un voto! Potevamo vincere». È chiaro, ha spiegato, «che era solo una mozione, ma sarebbe stato difficile per il governo non tenerne conto. Beltrandi è stato irresponsabile». Beltrandi però si difende: «Il mio “no” è politico. Accorpare il voto è solo un pretesto per aggirare una legge che impedisce ai referendum di essere validi se non raggiungono la metà più uno dei votanti. Così facendo ogni governo potrebbe accorpare o meno il voto per influenzare il risultato dei referendum». [R.I.]

Corriere della Sera 17.3.11
No all’election day per un voto. Decide un radicale
di Monica Guerzoni


ROMA — Il dito premuto sul pulsante rosso, i colleghi del Pd che gridano «Marco, ma che fai? Devi votare sì...» e lui che tira dritto, si schiera col Pdl e regala alla maggioranza la vittoria, spazzando via in un sol colpo la chimera dell’election day. Marco Beltrandi, bolognese, 41 anni, già noto alle cronache parlamentari per aver teorizzato il «bavaglio» per i talkshow, è il deputato radicale che ha mandato in fumo il colpaccio progettato dalle opposizioni alla Camera. Per un solo voto — il suo — Dario Franceschini si è visto respingere la mozione che avrebbe impegnato il governo ad accorpare la data del referendum con quella delle amministrative. Il governo, che pure schierava ministri e sottosegretari neanche fosse un voto di fiducia, ha rischiato grosso. Il duello sulle date è finito 276 a 275, il radicale è stato bersagliato da un fuoco amico di insulti e, fuori dall’Aula, nel Pd è partita la caccia al traditore. «La scelta di Beltrandi è gravissima— si sfoga la presidente Rosy Bindi —. Ci sono momenti in cui la disciplina di un gruppo è fondamentale» . Beltrandi sarà punito? «Se chiederò l’espulsione? — dice la Bindi —. No, queste cose le decide il capogruppo» . Franceschini è furioso. Giorni a telefonare, spedire sms per precettare i suoi per un voto ritenuto cruciale... Tutto sfumato per l’impuntatura di un singolo. «È una cosa inaccettabile» , tuona il presidente dei deputati e annuncia «un ufficio di presidenza per eventuali provvedimenti» . La tattica del reclutamento aveva dato i suoi frutti, il governo era andato sotto due volte sul garante per l’infanzia e non mancava che la ciliegina sulla torta. E invece no, Beltrandi ha votato in dissenso rischiando il linciaggio. Venduto? «No — giura, all’apparenza poco turbato dal processo che lo vede imputato —. È che non mi piacciono i sotterfugi. I miei compagni radicali sanno che sono ferocemente contrario all’abbinamento tra amministrative e referendum, perché è un escamotage per raggiungere il quorum» . Tutto qui, assicura il radicale. Nessuna trattativa col Pdl, nessuna tentazione di voltare gabbana. Lo accusano di contribuire allo sperpero di 300 milioni di soldi pubblici e lui si difende, serafico: «Perché tutto questo scandalo su di me? C’erano molti assenti anche nel Pd. Il gruppo ha perso 22 parlamentari e nessuno si è indignato. C’erano anche diversi imboscati nei corridoi...» . Al mattino il Pd aveva nascosto qualche deputato per giochetti tattici, ma nel voto delle polemiche erano rientrati tutti. E i dieci assenti? «Abbiamo sette malati, Fassino è impegnato a Torino, Gozi era in Tribunale e Farina non so — fa di conto Ettore Rosato, uno dei deputati più vicini a Franceschini —. Mancavano anche due idv e otto di Fli. Ma ormai il danno è irrecuperabile» . Beltrandi parla di «dissenso politico» e giura di non voler saltare il fosso. Ma le sue spiegazioni non convincono il Pd, che chiede conto del fattaccio ai Radicali. Rita Bernardini e gli altri sapevano che il pannelliano covava lo strappo, con lui hanno discusso animatamente senza convincerlo. Il presidente dei Radicali, Silvio Viale, giudica «incomprensibile» il suo voto, però lo difende: «Non ha capito che sarebbe stato determinante» . A sentire i deputati del Pd, lo aveva capito eccome. Tutti hanno sentito Roberto Giachetti gridare «Marco, è meglio se non voti!» . Il Pd avrebbe perso lo stesso, ma almeno avrebbe salvato la faccia.

 

Corriere della Sera 17.3.11

Libia, è l’ora di dire la verità, l’Europa non sta facendo niente 
di Paolo Lepri



Forse il tempo è ormai scaduto per istituire la no fly zone in Libia, come sostiene l’ex ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, e fermare così i bombardamenti contro i «ribelli» pilotati dalla tenda del colonnello Gheddafi. «Anche se si decidesse subito — ha detto Kouchner, che di emergenze umanitarie se ne intende — sarebbe troppo tardi: da tre settimane poveri civili stanno morendo e noi non stiamo facendo niente» . Sarà il Consiglio di Sicurezza dell’Onu a decidere nelle prossime ore, anche se sono legittime le preoccupazioni di chi teme che il profeta del Libro Verde riesca nel frattempo a riprendere totalmente il controllo della situazione. Ai quindici capi di Stato e di governo dei Paesi che siedono nel massimo organismo delle Nazioni Unite sono arrivate ieri sera le parole chiare del presidente francese Nicolas Sarkozy. «Dal 26 febbraio — si legge nella lettera dell’Eliseo — il regime ha proseguito le sue azioni assassine contro il popolo libico. Bisogna agire» . Londra è con la Francia, che ha detto di aver raccolto l’appello della Lega Araba. La Germania preme sul freno. Gli altri europei balbettano. Comunque vadano le cose, l’Europa non sembra assolutamente in grado di essere un protagonista, o almeno un punto di riferimento, in questa terribile crisi. Nonostante le lezioni arrivate dalla Tunisia e dall’Egitto. Troppi calcoli, troppo poco coraggio. C’è addirittura chi sta pensando alla parte da recitare in un futuro che preveda ancora la presenza di Gheddafi al comando. L’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, che guida il gruppo dei liberaldemocratici all’Assemblea di Strasburgo, si è definito non a caso «disgustato» . «Sarà un’altra pagina nera. Io sono un europeista convinto ma non conto più sull’Europa, quanto sulla Francia, la Gran Bretagna o gli Stati Uniti» . Forse Verhofstadt ha ragione. Le geometrie cambiano. Si può sperare ormai solo in un cambio di marcia improvviso, magari sull’onda della discussione alle Nazioni Unite. Il presidente permanente dell’Ue, Herman Van Rompuy, ha detto ieri che il Consiglio nazionale libico di transizione continua ad essere «un interlocutore valido» . Interlocutori di che cosa? Bisogna che l’Europa si schieri con forza al loro fianco, con tutti i mezzi a disposizione, e li aiuti a rovesciare definitivamente il regime.

 

Repubblica 17.3.11

Parla l’ex ministro francese Kouchner, l'inventore dell’ingerenza umanitaria già teorizzata ai tempi dell’Iraq
“L’Europa litiga e il raìs massacra il popolo intervenire in Libia è un dovere civile"
Purtroppo l’esperienza nella ex Jugoslavia dimostra che non basta a fermare i massacri. Ma è meglio di niente


di Anais Ginori


BRUXELLES - «La lentezza politica dell´Europa è disperante». L´ex ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner torna a parlare dopo l´allontanamento dal governo quattro mesi fa, rompendo un lungo, inusuale silenzio mediatico. «Abbiamo il diritto-dovere di intervenire nella guerra in Libia per fermare i massacri della popolazione civile» è l´appello di Kouchner in linea con la sua dottrina dell´ingerenza umanitaria già teorizzata ai tempi dell´Iraq, quando faceva il french doctor.
Eppure la proposta di Nicolas Sarkozy per bombardamenti aerei mirati è stata finora bocciata da gran parte dei paesi Ue.
«Sarkozy è stato accusato di avere iniziative affrettate, di non essersi consultato abbastanza con gli altri partner europei. Ma ha detto solo le cose giuste, anzi forse ha parlato già troppo tardi. Il tempo gioca a favore di Gheddafi. Se aspettiamo ancora un po´ sarà lui ad aver vinto e non ci sarà più nulla su cui discutere e riunirsi».
Anche gli Stati Uniti però frenano su l´intervento in Libia. Su quale base giuridica si può entrare in guerra con il regime di Gheddafi?
«Semplicemente perché sappiamo che sono in atto crimini contro l´umanità, come ha riconosciuto la recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell´Onu. E questa è un ragione sufficiente, prevista dal diritto internazionale. Uno Stato, sebbene ancora sovrano, non può uccidere la sua popolazione».
E´ il famoso diritto all´ingerenza umanitaria, che ha già dimostrato molti limiti in passato.
«Preferisco chiamarla responsability to protect, secondo la dicitura votata dall´Assemblea dell´Onu nel 2005. Credo che si tratti della più importante svolta diplomatica del ventunesimo secolo. Non si può più continuare a ragionare come nel Novecento. La situazione della Libia lo conferma".
L´Onu però esamina solo l´ipotesi della no-fly zone. E´ una misura adatta?
«Purtroppo l´esperienza nella ex Jugoslavia dimostra che non basta a fermare i massacri. Ma è meglio di niente, anche se temo che, anche in questo caso, arriveremo in ritardo. Siamo in una vera e propria emergenza, non è più il momento di tentennare».

 

il Fatto 17.3.11
Rivoluzione triste
Il 17 febbraio Bengasi si proclamava libera da Gheddafi. Oggi la città ricorda l’anniversario con l’incubo dell’attacco finale del raìs
di Stefano Citati


Se le truppe di Gheddafi entreranno a Bengasi non spareranno sulla Croce Rossa (come è avvenuto nel recente passato), o almeno sul suo personale: i funzionari dell’organizzazione di soccorso internazionale ha deciso di evacuare il suo personale. Pessimo segno: alla città ribelle rimane solo il tempo di morire. Esattamente un mese dopo l’inizio della sua rivoluzione oggi – sotto un cielo previsto nuvoloso – la popolazione festeggerà un anniversario triste, tra timori e inquietudini crescenti per, da una parte l’avanzata finale delle forze del Colonnello e, dall’altra, la fuga, l’abbandono e il disinteresse della comunità internazionale.
IL 17 FEBBRAIO il vessillo della vecchia Libia reale soppiantò ovunque in città, e in tutta la Cirenaica, quella verde della Jamahiriya (Repubblicapopolare)diGheddafi. Furono giorni eroici, tragici ed esaltanti. Centinaia di morti uccisi spesso dalla contraerea ad alzo zero delle truppe del Colonnello in fuga. Un’epopea fugace che da rivolta divenne guerra di libertà, di conquista e poi di resistenza: storia prima felice, poi dolentissima e funesta. Come le previsoni dei prossimi giorni per i patrioti che vedono svanire le loro posizioni e il favore (solo espresso e mai realizzato) del mondo (l’Onu ha annunciato che discuterà di una risoluzione per la creazione di una “No fly zone”, che pare ormai fuori tempo massimo).
Sul fronte lungo un mese tra ribelli e gheddafiani si è arenata la rivoluzione del mondo arabo, il vento che sembrava senza fine e senza ostacoli che dalla Tunisia è passata all’Egitto (due confinanti della Libia) e, in varie misure (e fortune), a quasi tutti i paesi del Maghreb e del Mondo Arabo. Il sogno sta per infrangersi a Bengasi e svanire tre le trattative a cui Gheddafi piegherà con il ricatto i rivoltosi e il mondo immobile davanti alle coste, e le sabbie d’oro nero, della Libia. Oggi, 17 marzo, potrebbe essere anche il giorno della vendetta del Colonnello (le cui truppe ieri avrebbero fermato 4 reporter del New York Times ad Ajdabya, 170 chilometri da Bengasi), e la fine triste della rivoluzione libica.

La Stampa 17.3.11
“Reclusi all’inferno” In un video l’orrore degli ospedali giudiziari
La denuncia: “Condizioni disumane”
di Flavia Amabile


Un letto dove si viene legati e un foro nel mezzo per la caduta degli escrementi ed un paziente, completamento nudo, bloccato con corde intorno alle braccia e alle gambe. Il letto è arrugginito, per l’urina che da anni lo bagna. C’è anche questo nelle immagini presentate ieri mattina dalla Commissione d’inchiesta sul Sistema sanitario nazionale per denunciare l’orrore degli Ospedali psichiatrici giudiziari italiani.
Le immagini sono contenute in un video girato in sei strutture. «È semplicemente un inferno dei dimenticati», denuncia il presidente della commissione, Ignazio Marino. Il video sarà trasmesso domenica prossima nel programma «Presa diretta» di Raitre.
I detenuti sono in condizioni che Marino definisce «disumane». Sporcizia ovunque, spazi angusti, bottiglie d’acqua nel buco dei bagni alla turca per rinfrescarle o per impedire la risalita dei topi. Loro, i malati prigionieri, in molti casi si trovano negli ospedali per reati minori che risalgono anche ad molti anni addietro e soffrono di patologie mentali per le quali non sono però curati: pochissimi infatti i medici presenti, e nessuno psichiatra, per 4 ore a settimana in strutture in cui si contano anche 300 persone.
«Qui ti uccidono piano piano», dice uno di loro. «Sono luoghi infernali, rimasti inalterati dal 1930 all’epoca del Codice Rocco - spiega Ignazio Marino -. Molti vi sono rinchiusi anche per reati minori di decenni prima ed in numerosi casi esiste anche la proroga, per cui una persona viene mantenuta negli Opg per mancanza di percorsi alternativi di assistenza, fino ad arrivare a una condizione che gli stessi magistrati definiscono di “ergastolo bianco”. Non possiamo tollerare che persone vengano dimenticate così per decenni e vogliamo arrivare - aggiunge Marino - ad un superamento definitivo degli Opg». Vale a dire chiuderne almeno tre su sei e, comunque, arrivare all’individuazione di nuove strutture a custodia attenuata anche più necessarie dopo le vicende di Montelupo Fiorentino (dove un internato è morto per aver inalato del gas) e Aversa (dove due guardie della polizia penitenziaria sono arresti domiciliari per aver abusato di un internato trans).
La commissione sta realizzando un monitoraggio settimanale dei sei Opg per arrivare alla «liberazione» di 376 internati (su un totale di circa 1500) per i quali non sussiste il requisito della pericolosità sociale: i primi 65 sono già usciti. Per altri 115 è stata prevista una proroga della pena. Di questi ultimi, solo 5 sono ancora internati, perché ritenuti socialmente pericolosi, per gli altri accade qualcosa di diverso, sono dentro perché «il territorio li rifiuta».
L’iniziativa ha il sostegno della maggioranza. Lo ha ricordato il senatore Michele Saccomanno, del Pdl, relatore dell’inchiesta. «Lo sforzo economico a sostegno della riabilitazione e presa in carico di questi cittadini da parte della sanità regionale c’è: la commissione ha ottenuto dal governo l’impegno per uno stanziamento di 10 milioni di euro per l’assistenza».

Guarda il video su www.lastampa.it

La Stampa 17.3.11
 “Io, in balìa di un fratello che nessuno vuole curare”
di F. Ama.


L’appello di L. M. I medici continuano a dire che non spetta a loro trattenerlo Cerchiamo solo di limitare i danni

È il 23 febbraio scorso quando nell’aula della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia del Sistema sanitario prende la parola una donna che viene indicata come L.M. È stata lei a scrivere alla commissione per denunciare la storia di suo fratello, R., che da dodici anni attende una cura mai arrivata. R. ha 37 anni, soffre di «disturbo bipolare», racconta la sorella, una malattia maniacodepressiva. «R. ha subito il suo primo ricovero nel 1997, circa due mesi dopo la morte di nostro padre. Da allora non è mai stato sottoposto ad un programma di recupero, ma lo si è solo sottoposto ad una serie inenarrabile di TSO (Trattamenti sanitari obbligatori), con gli unici due disarmanti risultati: il primo, è che la malattia si è ormai cristallizzata, mescolandosi all’alcolismo ed all’abuso di droghe leggere; il secondo è che noi familiari abbiamo subito fino ad oggi le sue continue crisi maniacali, senza alcuna possibilità di difesa». Anzi, a rischio della stessa vita, come si capirà dal seguito del racconto.
«L’unica cosa che facciamo è cercare di limitare quotidianamente i danni che provoca. Tutta la famiglia subisce i suoi stati di esaltazione», spiega. La situazione precipita il 30 ottobre. R., in evidente stato di ebbrezza ed agitazione, viene accompagnato a casa dai carabinieri, insieme all’auto di mia madre, che lui guida senza patente. Pochi minuti dopo punta il coltello alla gola di mia madre, che viene salvata dall’intervento di un altro fratello. Il giorno seguente prende a martellate la porta della casa. Le Forze dell’ordine convincono la famiglia a non far intervenire il 118, per evitarsi evidentemente ulteriori verbali e seccature burocratiche. R. viene quindi semplicemente ammonito verbalmente dai carabinieri e si rifugia in casa per qualche ora, dopo di che «riprende l’auto di mia madre ed esce nuovamente».
Per trattenerlo in ospedale è necessaria una denuncia, sostengono i medici. La famiglia va a sporgere querela. «Ma i medici continuano a sostenere che non sarà nelle loro facoltà trattenere R. e che in ogni caso qualora i tempi della magistratura si fossero prolungati non avrebbero potuto garantirci che R. non fosse dimesso». In realtà la famiglia può opporsi alle dimissioni, lo fa e ottiene come risposta la promessa di una commissione esterna per valutare il caso.

il Fatto 17.3.11
Non chiamateli ospedali: viaggio nell’inferno dei manicomi criminali
di Silvia D’Onghia


Andrea, 25 anni fa, si è vestito da donna ed è andato davanti a una scuola; Mario, nel 1992, ha compiuto una rapina da settemila lire fingendo di avere una pistola in tasca; Luca ha iniziato a star male quando è morto suo padre, nel 1997; Fabio sarebbe dovuto uscire alla fine dello scorso anno, ma non ha fatto in tempo, è morto prima. I nomi sono di fantasia, le storie no: sono tutte storie di uomini e donne rinchiusi negli ospedali psichiatrici giudiziari, strutture sparse per il territorio nazionale, regolate dal codice Rocco del 1930, per lo più fatiscenti e in stato di semi abbandono. Come chi vive al di là di quelle sbarre. Anzi, peggio, chi vive là dentro è completamente abbandonato.
La commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, sta ora cercando di portare alla luce quelle storie, di renderle pubbliche, di far conoscere agli italiani la vergogna di Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Monte-lupo Fiorentino, Secondigliano. Luoghi in cui si entra se si commettono reati bagatellari (che presuppongono pene inferiori ai due anni) e si è affetti da una malattia psichiatrica o se si viene pro-sciolti perché incapaci di intendere e di volere. Luoghi in cui si entra per ricevere cure e dai quali si rischia di non uscire vivi. Luoghi in cui le proroghe di sei mesi sono moduli fotocopiati, in cui il paziente riceve le cure - quando va bene - di un medico generico che trascorre quattro ore a settimana in una struttura che ospita 300 persone. Tra le corsie degli Opg gli psicofarmaci diventano caramelle, il mondo esterno non entra in alcun modo, non ci sono attività ricreative, di socializzazione. Ci sono invece i letti di contenzione, con i materassi bucati al centro per far cadere le feci e l’urina, il ferro arrugginito e le lenzuola cambiate una volta ogni due settimane. Non ci sono infermieri, ma agenti penitenziari (l’unico istituto che fa eccezione è quello di Castiglione delle Stiviere, nel mantovano, dove sono rinchiuse anche 90 donne).
DA QUANDO la commissione sta visitando (ogni settimana) gli Opg, delle 376 persone giudicate non socialmente pericolose, e che quindi potrebbero essere prese in cura dalle Asl, ne sono uscite soltanto 65. Ma cosa impedisce a un uomo di uscire da una struttura che è peggio del carcere iracheno di Abu Ghraib? “Prima del nostro intervento, l’inedia – spiega il senatore Marino –: i pazienti venivano tenuti dentro attraverso il meccanismo delle proroghe, che venivano fotocopiate senza che neanche si aggiornasse lo stato di salute. Adesso c’è chi non è disponibile ad accoglierli: le Asl ci rispondono spesso di non aver i fondi necessari e i giudici di sorveglianza sono costretti a firmare le proroghe perchè mancano le misure alternative. Siamo riusciti a sbloccare i 5 milioni di euro stanziati con decreto del presidente del Consiglio dei ministri nel 2008, fondi che adesso verrano distribuiti alla Regioni. Ma abbiamo bisogno che tutti conoscano queste realtà”. Ed è per questo che, durante le visite a sorpresa (che solo i parlamentari possono fare) effettuate dai membri della commissione negli Opg, è stato girato un video: immagini raccapriccianti che sono visibili sul nostro sito internet ( www.ilfattoquotidiano.it  ) e che verranno trasmesse integralmente domenica da Riccardo Iacona nel corso della trasmissione Report. Un documento che mostra muri scrostati, finestre sostituite da cartoni, fornelletti per cucinare accanto a bagni alla turca, letti accatastati in celle microscopiche. Ma che soprattutto testimonia come si può ridurre un uomo quando, anziché curato, viene trattato come gli animali nelle peggiori situazioni di cattività.
“TORTURA, di questo si tratta”, racconta ancora Marino mostrando il video. Eppure nessuno dei parenti di queste persone ha pensato (ancora) di fare causa allo Stato, perchè “ancor più che nelle carceri – spiega Iacona – gli Opg sono una discarica sociale”. Chi ha i soldi per pagarsi un buon avvocato, certo non finisce di trascorrere i suoi giorni in un ergastolo bianco. Ma forse è anche per questo che la vita delle circa 1500 persone sepolte lì dentro non interessa quasi a nessuno.



Repubblica 17.3.11

Il male oscuro

Quella lotta di Ellen contro il suo corpo
Lo psichiatra Binswanger racconta un caso clinico: è la drammatica storia di una ragazza anoressica e dei tanti tentativi di cura
Aveva dimenticato i suoi primi dieci anni di vita Aspirava a qualcosa di straordinario
Aveva l’ossessione del pane. Era sempre combattuta tra la brama di divorare e quella di assottigliarsi
di Pietro Citati



Ludwig Binswanger, nato in Svizzera nel 1881, è una delle figure più significative della psicologia e della psichiatria moderna. Da un lato, era amico e collaboratore di Breuer, di Bleuler e di Freud, che inviavano malati nella sua clinica di Kreuzlingen: dall´altro, per tutta la vita lesse e meditò profondamente i libri di Husserl e di Heidegger. Tutto ciò che scrisse è imbevuto di questa doppia influenza: psicologia analitica e filosofia esistenziale si intrecciano e si fondono, entrano ognuna nel campo dell´altra, provocando ambiguità e sottigliezze. Qualche volta, le sottigliezze sono troppe; e ci troviamo smarriti in un linguaggio cifrato. Ma i suoi "casi clinici" sono bellissimi, specie quelli raccolti nel 1957 nel volume Schizofrenia: vi è attenzione, scrupolo, morbidezza, talento narrativo e una specie di disperato azzardo, che lo porta dovunque alla ricerca della verità che si nasconde. Il principale di questi testi è Il caso Ellen West, appena pubblicato da Einaudi a cura di Stefano Mistura (traduzione di Carlo Mainoldi, p. LVII-205, euro 18).
Ellen West apparteneva a una famiglia ebraica, nutrita di ansia, depressione e angoscia, dove abbondavano i suicidi. Quando Binswanger la interrogò a Kreuzlingen, Ellen aveva dimenticato i suoi primi dieci anni di vita. Tutto era avvolto in una oscurità quasi completa: o emergeva soltanto il suo istinto di negazione: «Questo nido non è un nido»: «Questo latte non è latte», ripeteva da bambina. Aspirava a qualcosa di straordinario; "Aut Caesar aut nihil". Voleva la gloria, la tensione, la violenza. A vent´anni immaginò di conoscere la felicità. Ma, subito dopo, fu assalita da una crisi profondissima e cadde nell´apatia. «Tutto per me si equivale, sono completamente indifferente, – scrisse – non conosco sentimenti di gioia e nemmeno di angoscia». «Io sto di fronte a me stessa come di fronte a una straniera». Le sembrava di camminare su una costa marina vertiginosa, in un difficile equilibrio sopra le rocce; e poi di sprofondare sempre più in basso, sempre più in basso. Attorno a lei, c´era il vuoto: la miseria dell´anima le sedeva accanto: gli uccelli tacevano e fuggivano: se apriva bocca, i fiori appassivano: dovunque, spettri erano in agguato; e il mondo diventava a poco a poco una tomba.
Quando compì ventitre anni, venne violentemente assalita dal timore di diventare grassa. «Mi sento ingrassare, diceva, ne tremo di paura, vivo in una condizione di panico». Pensava esclusivamente a dimagrire: a trentadue anni era uno scheletro; e avrebbe voluto morire, come l´uccello a cui il canto si spegne nel pieno della gioia canora, o consumarsi selvaggiamente nel proprio fuoco. «Quando vedo i cibi, e cerco di portarli alla bocca, tutto si chiude nel mio petto, e mi fa soffocare e mi brucia». Ma il suo desiderio era doppio. Il desiderio di dimagrire era un aspetto del suo desiderio di allargarsi, di estendersi e di dilatarsi. Aveva l´ossessione del pane: vagava di continuo intorno al pane chiuso nella credenza: nella sua mente, nel sonno e nella veglia, non c´era posto per nessun altro pensiero; non poteva concentrarsi né nel lavoro né nella lettura. Pensava di essere diventata come un assassino, che ha continuamente davanti agli occhi l´immagine dell´uomo che ha ucciso, ed è irresistibilmente attratto dal luogo del delitto. Così era combattuta: la brama di divorare contro la brama di assottigliarsi; e restava spossata, esausta, coperta di sudore, con le membra doloranti.
Non dobbiamo credere che il suo caso fosse una semplice forma di anoressia. Con le sue forze scatenate, andò molto più lontano: penetrò nella tragedia fondamentale del corpo, la sua apparenza, la sua sostanza, il suo rapporto con gli altri esseri umani e il resto del mondo. Si rivoltava contro la propria corporeità: ma questa rivolta aveva la conseguenza di far emergere la corporeità in primo piano, come se non ci fosse nient´altro né in lei né altrove. Si mascherava dietro la vergogna, cercando di nascondere agli occhi e agli orecchi tutto ciò che era visibile e udibile. Più tentava di celarsi, più era visibile, dava nell´occhio, o cercava drammaticamente di dare nell´occhio. Era lì, sempre, davanti agli sguardi di tutti.
Col passare dei mesi e degli anni, Ellen West si costruì un immenso campo di prigionia: una Siberia di solo ghiaccio; e desiderava la morte con lo stesso ardore con cui un soldato prigioniero tra i ghiacci desidera ritrovare la patria; «Io sono in Siberia – ripeteva: il mio cuore è una morsa di ghiaccio». Si sollevavano mura, sia pure lievi come l´aria ed il vetro. E, sulle mura, c´erano folle di nemici. Dovunque si voltasse, un uomo con la spada sguainata le impediva di fuggire. Le sembrava di essere su un palcoscenico. Cercava scampo, ma qualche oscuro nemico le si parava davanti. Se si precipitava verso la seconda, la terza, la quarta uscita del palcoscenico, trovava ogni volta un muro oscuro di cartone o di sasso. Non le restava che stramazzare su sé stessa, incapace di qualsiasi fuga. Viveva chiusa in un globo di vetro. Vedeva gli uomini attraverso una paratia trasparente, e le loro voci le giungevano fioche e attutite. Si sforzava di arrivare sino a loro, protendendo le braccia verso di loro, ma le mani continuavano ad urtare contro le opache pareti di vetro.
Verso la fine di marzo del 1921, dopo quasi tre mesi di soggiorno nella clinica di Kreuzlingen, Ellen West chiese di venire dimessa. Ludwig Binswanger era incerto: non ignorava quali rischi incombessero sulla sua fragilissima malata. Poi decise. Il 31 marzo 1921, Ellen West ritornò a casa, insieme al marito. Dapprima si sentì incapace di vivere. I vecchi sintomi si ripresentarono. Era prostrata. Tre giorni dopo, quasi all´improvviso, la sua vita si trasformò. Si alzò: fece la prima colazione con burro e zucchero; e a mezzogiorno – per la prima volta dopo tredici anni – si sentì soddisfatta, nutrita e placata. A merenda, mangiò cioccolatini e uova di pasqua. Il cibo le dava gioia, rinforzava le sue energie, alimentava il suo amore, nutriva le sue speranze, illuminava il suo intelletto. Dopo aver passeggiato col marito, lesse poesie di Rilke e di Storm, di Goethe e di Tennyson; e rise percorrendo il primo capitolo delle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain.
La durezza, la violenza, la caparbietà, la furia, lo spirito di negazione, il senso di solitudine e di prigionia, il carcere di pietra e di vetro, l´odio del corpo, il disgusto e la fame – tutto ciò che aveva reso la sua vita un inferno – scomparvero. Il mondo le svelò, dopo tanti anni, il suo volto festoso e leggero, che lei aveva appena intravisto. La sera, senza che nulla lasciasse prevedere la sua decisione, senza dubbi e incertezze, prese una dose mortale di veleno. Poi scrisse una lettera al marito: gli domandava perdono, lo ringraziava per il suo amore, lo pregava di non piangere, e infine gli spiegava che qualsiasi lotta ulteriore contro il male sarebbe stata inutile. Tutto era finito: ma lei si sentiva finalmente libera. La mattina del 5 aprile Ellen West morì. «Apparve allora, come mai nella sua vita, serena e felice e in pace con sé stessa». Possiamo dire che Ellen West fu sopraffatta dal veleno della morte? Non è certo: la morte, anche la morte volontaria, può essere un compimento, una liberazione, una pienezza.

il Riformista 11.4.07
Saggio. Il diario della donna ebrea
II caso Ellen West. L'Anne Frank della psichiatria?
di Annelore Homberg e Cecilia Iannaco


Una tragedia in due atti: suicidio e rilettura heideggeriana
L’obiettivo è “eliminare” la malattia, non il malato

Ellen West è il nome che lo psichiatra Ludwig Binswanger inventò nel 1943 per raccontare il caso clinico di una giovane donna ebrea, di probabile nazionalità americana e origini tedesche; un caso che diventerà paradigmatico per la sua psichiatria fenomenologica o daseinsanalisi e che si era concluso tragicamente più di vent'anni prima, nell'aprile del 1921.
Se il saggio di Binswanger è ben noto ai lettori italiani, non altrettanto lo è la ricerca, dai risultati a dir poco sorprendenti, che lo storico della medicina Albrecht Hirschmüller ha condotto su questo caso clinico. Il lavoro di Hirschmüller - del quale abbiamo curato l'edizione italiana per la rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla - si basa sul diario di Ellen e su un ricco carteggio, entrambi inediti, che permettono di ricostruire la storia della donna in modo assai più ampio e veritiero di quanto non abbia fatto lo stesso Binswanger. Pochi sanno infatti che il caso West si articola in due momenti.
Il primo atto di questa pièce desolante si svolge in un solo anno, tra il 1920 e il 1921, e si conclude con il suicidio della paziente. Tutto inizia quando Ellen - che stava molto male e per la quale le diagnosi future andranno dall'anoressia alla schizofrenia - si rivolge allo psicoanalista Victor von Gebsattel, che più tardi si occuperà anche lui di psichiatria fenomenologica. Questo trattamento finisce dopo sei mesi quando Gebsattel, in piena crisi mistica, manda Ellen dal suo santone; Ellen si rifiuta e prova con un altro analista, a sua volta ossessionato dal tema dell'erotismo anale. Visibilmente peggiorata, nel gennaio 1921, la donna giunge alla famosa clinica di Kreuzlingen sul Lago di Costanza. di proprietà dei Binswanger. Il giovane direttore Ludwig la riceve amabilmente ma è contrario ad ogni tipo di trattamento approfondito. Come consulente chiama il professor Hoche, stimato docente universitario, che proprio l'anno precedente aveva elaborato quel micidiale progetto di «annientamento di vita indegna di essere vissuta» che sarà poi alla base dello sterminio nazionalsocialista dei malati di mente. In tre mesi Binswanger, Hoche e il marito di Ellen giungono al verdetto che per lei non c'è alcuna speranza di miglioramento; "sanno" che è destinata al suicidio e decidono di dimetterla. È probabilmente il marito stesso a fornirle il veleno con cui la giovane donna, tornata a casa, docilmente si uccide.
Il secondo atto della tragedia - se possibile ancor più sconcertante del primo - si svolge invece dopo un silenzio di oltre vent'anni, quando Binswanger decide di riprendere la storia della paziente non per comprendere come un simile fallimento terapeutico era potuto accadere, ma per rileggerlo con le lenti di quella filosofia heideggeriana che nel frattempo ha fatto sua, e alla luce della quale la morte di Ellen diventa «una realtà inevitabile», il «necessario adempimento del senso della sua vita».
Si rimane feriti dal cinismo - ma sarebbe meglio dire dalla fatuità - con cui Binswanger riconverte la storia dell'ebrea Ellen West in una teoria del suicidio come «gesto autentico», proprio negli anni in cui, sull'altra sponda del Lago di Costanza, altri ebrei vengono condotti verso i campi di sterminio. In realtà, un'attenta analisi del materiale raccolto da Hirschmüller fa emergere l'ipotesi che questo «essere per la morte», più che della paziente, fosse piuttosto un problema dello stesso Binswanger e della filosofia che aveva adottato.
La West al contrario, chiedendo insistentemente aiuto, aveva sperato di poter guarire e vivere. Il suo cupo diario ritrae una persona drammaticamente braccata su due fronti: all'interno dalla grave malattia ed all'esterno dalle persone che la circondavano. Proprio quest'ultimo aspetto, insieme agli slanci improvvisi di speranza ed alla gioia di vivere che le pagine, in alcuni momenti, comunque trasmettono, fa apparire nella mente un'immagine che vorremmo cacciare: l'immagine di un altro diario, quello di Anne Frank.
Ricordare oggi la vera storia di Ellen West è importante per sottolineare l'esigenza di una psichiatria che, per essere tale, deve innanzitutto rifiutare un'impostazione teorica che nega l'idea di curabilità se non addirittura quella stessa di malattia mentale. Una psichiatria che al contrario tiene ben saldi i concetti medici di diagnosi, cura, guarigione anche se vengono applicati alla mente e non al corpo. Solo così si arriva a una prassi che, diversamente da quella nazista e purtroppo anche da quella di Binswanger, è volta ovviamente ad "eliminare" la malattia, e non il malato.


il Fatto 17.3.11
Letti di cemento e avanzi di pasta ecco come vivono i migranti
Il Fatto dentro il Cie di Lampedusa, dove restano 3 mila persone
di Giampiero Calapà


Dentro il Centro di accoglienza di Lampedusa. Militarizzato, ma pieno di falle, la realtà di questi giorni di emergenza straordinaria si mostra cruda e drammatica. Gente ammassata a dormire, anche sul cemento, una situazione igienico-sanitaria ormai fuori controllo, fotografia di una disperazione umana che ha abbattuto i confini della civiltà, mentre pensava di trovare “Lamerica” qui, in questo avamposto italiano in terra africana. Quasi tremila persone in un Centro che ne può contenere 860.
Contrada Imbriacola è a pochi minuti dal cuore del paese: durante la prima notte di grande emergenza, dopo gli sbarchi di lunedì e martedì, il Centro diventa un colabrodo. Le recinzioni, lontano dall'ingresso principale, sono bucate. I migranti tunisini, recuperati in mare dalle motovedette, dopo ore di navigazione su barconi fatiscenti, sono ammassati nel Centro, che ormai scoppia. Entrano e escono quando vogliono, infatti. Dalla parte opposta rispetto al cancello d’ingresso del Centro, c’è una collinetta, i migranti scarpinano da qui.
Già nel pomeriggio di martedì era cominciato il via vai, perché i quattrocento uomini di polizia, carabinieri e finanza non possono far nulla per trattenerli tutti dentro. Il controllo è quello che è. Per questo per oggi è previsto sull’isola l'arrivo di cento uomini dell'esercito. Con l’inviato del Tg1 Marco Bariletti, a cena, ipotizziamo di provare ad entrare nel Centro, per documentare la vita dei disperati che hanno appena messo piede in Italia. Lui è a Lampedusa da più tempo, disegna una cartina del Centro su un tovagliolo, per mostrare da dove arriveremo e da dove proveremo ad entrare, segnando anche i punti in cui è probabile la presenza degli agenti. La tv del ristorante sta trasmettendo la partita di calcio fra Bayern Monaco e Inter, quando decidiamo di muoverci verso Contrada Imbriacola.
È UNA SERATA luminosa, sulla collinetta riusciamo a farci strada tra i rovi e le erbacce senza torcia. Decidiamo che uno di noi, Bariletti, rimanga fuori. Mi passa il suo telefonino provvisto di telecamera, e via. Comincia la discesa verso il varco nella recinzione, insieme a tre migranti che stanno rientrando proprio in quel momento. La mimetizzazione, tra loro, è totale. Nessuno chiede chi sei, da dove vieni. Sono abituati, in queste ore, ad incontrare altri disperati in cerca di fortuna che non hanno mai visto prima. L’ora è tarda, la stanchezza si fa sentire, non hanno quindi nessuna voglia di conversare. Dopo il giro in paese e una birra, l’unico obiettivo è rientrare e trovare un letto, un giaciglio, sul quale riposare la notte.
Una volta dentro, facendo attenzione a non calpestare il filo spinato, il Centro si presenta così: a destra, verso il cancello e la strada d’accesso, ci sono gli uffici delle forze dell’ordine e delle organizzazioni umanitarie, la fila dei migranti in coda per la mensa, zona da evitare; a sinistra c’è quello che ci interessa, i container con i letti e i bagni. Stracolmi, tanto che appena varcata la soglia del Centro, c’è un giaciglio collettivo di fortuna. Una piccola spianata dove sono sistemati dei materassi, poche coperte vere, molte di carta. Dormono in questo posto almeno una cinquantina di persone. Non c’è soluzione di continuità tra chi dorme e chi è sveglio, gruppi di persone si muovono a pochi metri, discutono, alzano la voce, chiedono agli operatori del Centro coperte, scarpe. Alcuni, dopo le quindici ore di traversata in mare tra la Tunisia e Lampedusa, hanno ancora addosso gli stessi vestiti inzuppati . Proprio in quel momento arriva una furgone con delle coperte e degli indumenti.
È SUBITO ressa quando si apre la portiera. Accorre anche qualcuno di quelli che stava dormendo, sollevando l’involucro bianco di quella carta usata da coperta. Dentro i container i bagni sono già in condizioni pietose, lungo gli stretti corridoi ci sono i piatti di plastica (in cui i migranti hanno mangiato porzioni di penne al pomodoro), stracci, indumenti. Dentro le camerate, almeno cinquanta persone, alcuni dormono, altri parlano ancora, anche animatamente. Le luci sono accese per tutti, comunque. Alcuni di loro fermano l’intruso, altri lo salutano perché ci avevano già scambiato due parole prima, in paese. E una volta riconosciuto come “italiano” fioccano le richieste: sigarette, un euro, un caffè, “amico domani sei ancora qui? Ci vediamo in paese, mi offri una birra?”. Tutti comunque sono molto cordiali, anche quello arrivato tardi per la moneta da un euro: “No, per me niente allora?”. Arriva un operatore del Centro, bisogna affrettarsi ad uscire dal container. Fuori sulla sinistra cinque o sei poliziotti chiacchierano tra loro. Non si accorgono di nulla, la mimetizzazione tra i migranti continua a funzionare. Ma è inutile rischiare ancora. Le immagini ci sono. Si può uscire, attraversare di nuovo il buco nella recinzione, inerpicarsi sulla collinetta, ritrovare il collega e ritornare in albergo, per dormire in un letto vero.

il Fatto 17.3.11
Sorelle mai
di Marco Bellocchio, con Pier Giorgio Bellocchio


I pugni in tasca li ha ancora, Marco Bellocchio, ma disegna cinema a mano libera: Sorelle mai è un’(in)fedele autobiografia e, soprattutto, il piccolo film di un grande regista. Un paese (Bobbio), un decennio (1999-2008), sei episodi realizzati con gli studenti del laboratorio Fare Cinema e tre generazioni a confronto: due ottuagenarie (Letizia e Maria Luisa Bellocchio), attaccate alla terra e a un'altra Italia; il nipote Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio), che va e viene portando inquietudini e coccole per la piccola Elena (Elena Bellocchio); Sara (Donatella Finocchiaro), sorella di Giorgio e madre assente di Elena , che fa l’attrice a Milano. I Buddenbrook all’emiliana? Inquieta l’alchimia di pubblico e privato, urgente e poetica la messa in scena, più che a Mann piacerebbe a Duchamp: è un sorprendente ready-made. (Fed. Pont.)



il Riformista 17.3.11

Riconoscimento per i due grandi vecchi del cinema italiano
Bondi, ultimo tango a Venezia
B&B quasi fatta

Bellocchio e Bertolucci. Leone d’oro al primo e presidenza della giuria della Biennale al secondo. L’idea della coppia a Venezia piace e il sottosegretario Giro manda segnali positivi a Baratta. Se l’ufficialità arrivasse con il ministro ancora in carica, il titolare dimissionario dei Beni culturali avrebbe l’opportunità di chiudere con un gesto di distensione

qui

http://www.scribd.com/doc/50931510

il Fatto

il Fatto 17.3.11
Il metodo Signorini per Ambra Angiolini
di Antonella Mascali


Se ti chiami Ambra Angiolini e a 15 anni sei stata il “ fenomeno” di Non è la Rai, se poi hai fatto un percorso distante dal pensiero dominante berlusconiano, se poi sei scesa in piazza contro “il puttanaio” dell’inquilino di Palazzo Chigi, se poi ti sei esposta ad Annozero contro il carrierismo a colpi di prostituzione, allora scatta la rappresaglia. Ieri sulla copertina del settimanale Chi diretto da Alfonso Signorini, spin doctor del presidente del Consiglio, campeggia una foto dell’attrice che bacia un collega (e non il suo compagno).
Fin qui potrebbe sembrare un servizio per gli amanti di gossip. E se fosse così non ce ne occuperemmo. Ma è il giornale che lo pubblica che fa la differenza. C’è un resoconto dettagliato del tentativo di Ambra di non far pubblicare quelle foto. Il direttore, si legge nel servizio, ad Angiolini “risponde che l’unica cosa che lui può fare è darle voce”, perché “un servizio acquistato è un servizio pubblicato”. Ha ragione Berlusconi: Signorini è proprio “un diavolo”. Il suo discorso è ineccepibile . Ma c’è un particolare: la regola vale per Ambra e non per altri. È noto, infatti, che il direttore, delle foto o dei video che gli passano fra le mani fa un uso strategico. Pubblica, acquista e non pubblica, avverte dell’esistenza delle immagini. Dipende dal soggetto. Per esempio, informa Marina Berlusconi di un video imbarazzante, realizzato con un cellulare, che riguarda Silvia Toffanin, compagna di Pier Silvio Berlusconi. Il filmato viene acquistato dalla famiglia e fatto sparire. Ed è sempre Signorini che pubblica solo le immagini più “innocue” di Barbara Berlusconi, con un ragazzo fuori da una discoteca. Si racconta anche di foto innocenti, ma non gradite, del ministro Angelino Alfano, ritratto su una spiaggia mentre si fa fare la manicure. Quelle immagini passate per Chi non sono mai state pubblicate. Se invece le foto sono di una donna che ha dichiarato: “Ormai sembra che tutto si debba chiedere a Berlusconi. La società si ammala per questo motivo”, allora Alfonso Signorini tira fuori la regola d’oro dei giornalisti: una notizia si pubblica. Sì, ma sempre, non a convenienza.

La Stampa 17.3.11
Muti: la nostra identità si risveglia in musica
Il Maestro ha diretto ieri a Roma il “Nabucco” di Verdi “Uso le note per aggregare persone, culture, religioni diverse”
di Sandro Cappelletto


Esportiamo il cortocircuito tra melodramma opera e nazione

Sono nato a Napoli, il 28 luglio 1941, durante la guerra, da madre napoletanissima e padre pugliese. Mi riportarono subito a Molfetta, e mantengo dentro di me lo stesso amore per l'una e per l'altra patria: amo definirmi un apulo-campano». Così scrive di sé Riccardo Muti, all'inizio di «Prima la musica, poi le parole», la sua autobiografia. Meridionale, dunque; e fieramente. Poi il diploma al Conservatorio di Milano, le prime affermazioni al Maggio Musicale di Firenze, il lungo incarico alla guida dell'orchestra della Scala, in questi giorni la presenza a Roma per una serie di recite del Nabucco di Verdi, diretto ieri sera alla presenza del Presidente della Repubblica.
La carriera di un musicista non ha patria e lo sanno bene i cantanti, i direttori, gli strumentisti italiani che sono stati per secoli, e continuano a essere, infaticabili emigranti. Muti non fa eccezione: i successi a Filadelfia, il sodalizio con l'orchestra dei Filarmonici di Vienna, la presenza costante al festival di Salisburgo, il recente incarico a Chicago.
Tuttavia, in questi giorni sembra che attraverso di lui si sia di nuovo acceso il cortocircuito tra musica - più esattamente: il melodramma, l'opera in musica - e nazione. Una nazione affaticata, che trova motivi per dividersi, per precisare, per distinguere, anche in questo giorno di festa, e che sembra ritrovare una vernice comune negli entusiasmi che questa musica ancora accende. «Non c'è, né ci deve essere che una musica grata alle orecchie degli italiani nel 1848. La musica del cannone! Io non scriverei una nota per tutto l'oro del mondo: ne avrei un rimorso, consumare della carta da musica, che è buona per fare cartucce», scriveva Verdi il 21 aprile 1848, nella sua più celebre lettera patriottica. E meno male che non è stato di parola.
E un secolo dopo, commentava Massimo Mila: «Soltanto in Italia in rapporto di filiazione tra l'artista e la nazione procede in questa direzione e riguarda assai più lo spirito che i sensi».
Oggi, siamo allo stesso punto. Così, ogni recita - e sono tutte esaurite - di questo Nabucco romano diventa un sacrificio collettivo: un atto sacro, a fortissima temperatura emotiva. Dopo il Va' pensiero - «che non può diventare inno nazionale perché esprime il dolore, il compianto di un popolo incatenato», precisa Muti - il Maestro chiede al pubblico di cantare e di unirsi al coro del Teatro dell'Opera di Roma. Superata ogni remora, ogni dubbio se concedere o non concedere il bis, quel coro sembra diventare un momento identitario, e condiviso: «Era già successo alla Scala: sapevo bene, in teoria, di non poter concedere il bis: il divieto faceva parte di quel codice scaligero che aveva dato al teatro negli anni Venti il suo meritato carisma e la funzione di modello agli occhi del mondo. Ma alla terza richiesta mi chiesi che fare: “Se non lo fai - dicevo fra me e me - deludi migliaia di persone, se lo fai spezzi una tradizione sacra”». La spezzò, rispettando la richiesta che partiva dall'emozione della sala gremita, e da se stesso.
«Continuo a combattere per un'Italia - che amo profondamente - e per un'Europa che denotano gravi segni di stanchezza, di smarrimento. Altre nazioni, tecnologicamente, culturalmente si stanno prendendo il futuro. Non vorrei che in questo futuro l'Europa e l'Italia rimanessero soltanto una specie di museo. Magari con la scritta “chiuso”»: un rischio concreto che Muti ha esplicitamente evocato l'altra sera, spezzando un'altra tradizione e parlando al pubblico durante lo spettacolo.
Ma un'identità musicale italiana capace di imporsi come codice linguistico internazionale è assai più antica di Verdi: «Mozart è stato il più grande operista italiano del Settecento. Certe sue creazioni, penso a Così fan tutte, ma non solo, non sarebbero state possibili senza la conoscenza dell' opera italiana e in particolare napoletana di quel secolo». In questa direzione vanno le esecuzioni di compositori e titoli italiani usciti dal repertorio più frequentato, che Muti da alcuni anni costantemente ripropone, in un lavoro tenace, non episodico.
La musica ha un'altra caratteristica preziosa: unisce e non divide, in un mondo contemporaneo che vede ancora contrapposizioni feroci tra popoli, tra Stati. Questa la strategia di Le vie dell'amicizia, la manifestazione legata al festival di Ravenna, che ha fatto tappa in diverse città del Mediterraneo, del Medio oriente, del Nord Africa e, in Italia, a Trieste: «Trieste come città di confine, città ponte tra l'Italia, la Slovenia e la Croazia. Un concerto che ha avuto un significato sociale, ma anche politico: amicizia significa fratellanza, ricucire ciò che è stato strappato. Trieste, in memoria degli orrori avvenuti nella Risiera di San Sabba, il lager dove furono torturati, uccisi, avviati ai campi di sterminio migliaia di italiani, soprattutto ebrei; e degli orrori delle foibe istriane, che inghiottirono migliaia di altri sventurati».
Maestro, fa politica o musica? «Uso la musica anche per aggregare persone, culture, religioni, popoli diversi. Faccio musica, non politica. La mia politica è fare appello continuo e appassionato per la cultura. Ho sempre combattuto contro lottizzazioni, partigianerie». Per un'altra Italia, quella che festeggeremo nel 2161.



Repubblica 17.3.11

Muti: "Non toccate Mameli è meglio di Va’ Pensiero"
Il direttore d’orchestra: "Quelle note rappresentano la storia di tutti noi e sarebbe assurdo cambiarle con Verdi"
"Il Nabucco è meravigliosamente poetico ma è un canto di perdenti: è una lamentazione, una preghiera"
di Leonetta Bentivoglio



Che cosa accende la fiamma del Nabucco? Perché batte invariabilmente forte il cuore patriottico di questo monumento musicale? «Perché vi si specchia l´essenza stessa dell´Italia», risponde uno straordinario specialista di opere verdiane come Riccardo Muti, «anche se l´opera è basata sulla Bibbia». Ma al di là dell´argomento biblico, con la sua violenta storia di un popolo, gli Ebrei, esule e asservito a un tiranno, il re di Babilonia, fu in qualche modo facile, per un Paese frammentato e oppresso come l´Italia in cui debuttò il Nabucco (Scala, 1842), proiettare la speranza di un prossimo risorgimento in quel grandioso affresco musicale. Lo fece soprattutto ritrovandosi nel Va´, pensiero, pagina corale di inestinguibile efficacia, in grado di sollecitare un desiderio di riscatto che continua a riguardarci anche in quest´Italia odierna, invelenita dagli scandali e soffocata nelle sue risorse culturali. Lo ha dimostrato Muti qualche sera fa, sul podio della prima del Nabucco a Roma, accogliendo la richiesta di bissare quel coro, e anzi invitando il pubblico a unirsi al canto collettivo, in un´onda clamorosa di emozioni condivise che sfidava coraggiosamente il rischio della retorica.
«Io credo davvero nella bandiera e nella patria», afferma il direttore d´orchestra con la consueta veemenza. «Ci ho creduto fin da bambino, essendo cresciuto in una terra del Sud dove questi valori sono radicati. L´ho ribadito anche in periodi in cui la fede nel tricolore sembrava politicamente sospetta. Ho sempre creduto nell´Italia, nella sua gente, nei suoi talenti. E continuo a credere in quel suo ricco patrimonio artistico e culturale che ci rappresenta e fa la nostra grandezza nel mondo. Per questo andrebbe difeso».
Crede anche nell´Inno di Mameli?
«Certo: mi coinvolge e mi commuove. Non mi pongo mai di fronte a questo pezzo con un atteggiamento giudicante, come un critico che ne analizza la fattura. Nell´inno italiano sono nato: fa parte del nostro Dna. È la musica dei milioni di miei connazionali che hanno sacrificato la vita per la loro terra. D´altra parte, con qualche rara eccezione, come l´inno tedesco, derivato da un quartetto di Haydn, e come l´inno inglese e quello russo, nessun Paese, per i suoi inni, conta su pagine musicali di autentico pregio. Non sono pensate in profondità, ma fatte per spronare un popolo, imprimergli vigore e motivarlo. Anche la Marsigliese, cantata con fierezza dai francesi, al cui spirito nazionale si armonizza egregiamente, non spicca per qualità musicale».
Lei ha eseguito tanto l´Inno di Mameli, persino in luoghi del mondo difficili e remoti grazie ai "Viaggi dell´Amicizia" del Ravenna Festival, dove dirige ogni volta l´inno locale accanto al nostro.
«È così che sono diventato un esperto di inni! Ho diretto l´egiziano, il tunisino, l´armeno, il marocchino, il siriano, il libanese… A noi si uniscono di volta in volta musicisti e coristi del posto, e per loro imparare il testo è un´impresa. Parole come "dell´elmo di Scipio s´è cinta la testa", per uno straniero, possono essere uno scioglilingua. Il 9 luglio saremo a Nairobi, e a cantare l´Inno di Mameli ci saranno anche i bambini del Kenya. Sono situazioni coinvolgenti e unificanti. Comunque, accanto ai vari inni, posso testimoniare che il nostro non sfigura mai, anzi: spesso è il migliore».
Resta dunque convinto che non va messo in discussione?
«Non avrebbe senso: Fratelli d´Italia è la nostra storia. È i nostri eroi e caduti. È i valori e gli onori della patria. Trovo assurdi certi appelli alla sua sostituzione. Teniamoci l´Inno di Mameli e che Dio ce lo conservi».
Eppure, come lei ci ha di nuovo fatto comprendere nei giorni scorsi a Roma, il Va´, pensiero è l´Italia…
«La sua poesia è magistrale, ma non potrà mai essere un inno, perché è un canto di perdenti, dove gli Ebrei piangono l´esilio e la sconfitta. In realtà è una lamentazione e una preghiera. Fu Verdi a spiegare che, scrivendo quel coro, aveva in mente il Salmo "Superflumina Babylonis". È grave e sottovoce, dal tempo lento, e il suo carattere desolato esprime dolore e rimpianto. Non nacque per fomentare la ribellione contro gli invasori austriaci, e infatti nella sua malia sommessa non ha il senso di riscossa di un coro risorgimentale. Eppure, grazie alla sua forza evocativa, il Va´, pensiero è divenuto il sogno della patria persa, il sentimento di un´identità comune e il riflesso di istanze di liberazione".
Perché allora non considerarlo un possibile inno?
«Perché è inimmaginabile, per esempio, il Va´, pensiero cantato da una squadra di sportivi: farebbe crollare la pressione. Ci vuole un altro piglio, un vigore particolare, che quello di Mameli possiede. Bisogna anche capire che il Va´, pensiero non vive solo di una meravigliosa melodia, ma di una superba orchestrazione e di una serie di linee di contrappunto che la attraversano dandole un significato profondo e complesso. Per eseguire quella pagina, insomma, non si può prescindere dal contesto di orchestrazione e armonizzazione concepito per Nabucco dal compositore".
Che cos´ama di quest´opera verdiana?
«La sua sinfonia strepitosa dal punto di vista della forma, dell´incisività, della potenza ritmica e rivoluzionaria. Le sue pagine corali ispirate al Rossini tragico, e altre di estrema raffinatezza cameristica. Il bellissimo uso strumentale dell´orchestra e la definizione di figure ben stagliate e caratterizzate, con due giganti quali Nabucco e Abigaille, che sono porte d´accesso ai personaggi immensi della maturità verdiana: in Nabucco c´è già tutto il Verdi degli anni successivi».

La Stampa 17.3.11
“Cari ragazzi, vi porto con me nello spazio”
L’astrofisica Margherita Hack in tivù con “pillole di scienza”
di Egle Santolini


SUL CANALE SKY DEAKIDS «I bambini sono curiosi e per niente spaventati da certe idee catastrofiste» Sulla cultura scientifica grava il pregiudizio che sia per “piccoli intelletti” Risale ai tempi di Croce
La tragedia in Giappone? Eventi come quello accadono una volta ogni qualche secolo
I VERI RISCHI «Vogliamo parlare delle migliaia di persone che vivono sulle falde del Vesuvio, vulcano attivo?»

A 88 anni Margherita Hack si mette a fare la tivù dei ragazzi, candidandosi al ruolo di nonna (o bisnonna) per bambini curiosi. Che magari poi diventeranno scienziati e un giorno si ricorderanno di quella vecchia signora dagli occhi azzurri che gli parlò per la prima volta di asteroidi e buchi neri.
Succede da lunedì 21 marzo sul canale satellitare DeAKids, numero 601 della piattaforma Sky, dedicato ai ragazzini dai sei ai 12 anni. Il programma Big Bang! – In viaggio nella spazio con Margherita Hack consiste di pillole di cinque-sei minuti l’una sparse nel palinsesto, in cui la professoressa Hack dialoga con Federico Taddia: «Un formato molto adatto a Internet, e infatti è anche quella la destinazione», informa Massimo Bruno, responsabile del canale. S’immagina che Taddia vaghi nello spazio e da lì dialoghi con Margherita: che compare in una finestra elettronica e racconta ai bambini, per esempio, che cos’è un asteroide, e se è vero che ce n’è uno che minaccia di cadere sulla terra nel 2036 (risposta: «Sì, si chiama Apophis cioè il distruttore, potrebbe fare danni incommensurabili ma tanto io non ci sarò e vi dovrete arrangiare da soli»). O anche se è vero che il sole prima o poi – molto poi - esploderà, o che cosa sono i buchi neri, quesito quest’ultimo che, dice la Hack, suscita un gran successo le volte che incontra in pubblico i più piccoli, «ma qualche volta i piccini si sbracciano a far domande ma poi le risposte non le ascoltano». Corredato di animazioni e grafiche per rendere il tutto più appetibile, Big Bang! debutta con l’equinozio di primavera e una maratona speciale di cartoni dedicata allo spazio, e prende spunto da un libro, Perché le stelle non ci cadono in testa , che Taddia e la professoressa hanno dedicato ai lettori junior. Perché fare divulgazione si può, nonostante tutto: e nonostante gravi sulla cultura scientifica,come sottolinea la superastronoma, «un pregiudizio che risale ai tempi di Croce e di Gentile, quando le discipline umanistiche erano considerate per spiriti magni e quelle scientifiche per piccoli intelletti».
La professoressa trova i bambini curiosi, non spaventati da certe idee catastrofiste («a farmi le domande sulle profezie Maya sono sempre i loro genitori») e utili alla ricerca, perché spesso dai quesiti più semplici possono venire degli spunti interessanti. Quanto alla sua infanzia, ricorda che il suo sogno era di fare «l’esploratrice nell’Africa nera» e le sue letture «le storie d’avventura».
Hack è considerata una delle astrofisiche più eminenti al mondo (ma non diciamo bischerate) e le hanno pure dedicato un asteroide: omaggio di cui è grata ma anche un po’ infastidita, «perché anche se non vorrei mai che quegli astronomi toscani che ci han pensato ci rimanessero male, è come quando ti regalano un bel libro molto pesante e poi te lo devi portare a casa». Le stelle, spiega il suo compagno di avventure Taddia, non l’hanno però mai emozionata in senso stretto, «e infatti le definisce “palloni di gas”. Mai che tu abbia espresso un desiderio vedendone una, vero Marghe?». Precisazione dell’indomita Marghe: «No, non mi emozionano. Ma sono belle, come tutta la natura».
E in questi giorni di allarme per il mondo, «di troppe chiacchiere e di poco ragionamento», è soprattutto al rigore e al sangue freddo che la professoressa fa appello: «Penso che in Italia si andò a votare per un referendum sul nucleare spinti dall’ondata emotiva di Chernobyl, e che fra tre mesi succederà lo stesso. E penso che di energia abbiamo bisogno essendo completamente dipendenti da altri paesi, ma che razionalmente il nucleare ne è una fonte più sicura e molto meno inquinante di altre». E allora non resta che «affidarsi ai numeri, alle probabilità: eventi come quello che si è verificato in Giappone accadono una volta ogni qualche secolo. Piuttosto sono gli italiani a farmi paura, vista la nostra abitudine di prendere tutto sottogamba: è questo il rischio vero. Vogliamo parlare delle migliaia di persone che vivono sulle falde del Vesuvio, un vulcano che non è spento?».



Corriere della Sera 17.3.11

Se le scienze spiegano la politica

Meno filosofia, più biologia: la provocazione di Brooks e Fukuyama

di Massimo Gaggi



NEW YORK— Harold ed Erica seguiti dalla nascita alla morte mentre crescono, studiano, si amano, si tradiscono, lavorano (lui saggista un po’ svagato e poi analista in un think tank, lei professionista molto determinata che arriva alla Casa Bianca come vicecapo dello staff del presidente), frequentano i luoghi canonici dell’establishment colto: dal forum di Davos ai meeting dell’Iniziativa filantropica di Bill Clinton, passando per il Council on Foreign Relations e le mobilitazioni di Medici senza frontiere. Poi si ritirano (ovviamente ad Aspen, mecca dello sci e della convegnistica), infine muoiono. «Personaggi col calore di due avatar» sono partiti all’attacco i critici di The Social Animal, il libro di David Brooks— metà racconto, metà indagine socioculturale— pubblicato un paio di settimane fa negli Stati Uniti da Random House. Brooks non è un romanziere né un vero scienziato sociale. Il columnist del «New York Times» è un saggista conservatore, un moderato con una vena satirica che venne fuori soprattutto in Bobos in Paradise, graffiante ritratto di dieci anni fa dei «borghesi bohémien» . Stavolta, però, Brooks indossa altri abiti. Reduce da tre anni di letture scientifiche e colloqui con neuroscienziati, sociologi, studiosi di economia comportamentale e psicologi dell’età evolutiva, tenta l’impervia e ambiziosa strada di un saggio che— usando la forma del racconto nel tentativo di alleggerire la lettura — usa i risultati delle più recenti indagini scientifiche per ricostruire i meccanismi che guidano i comportamenti umani e la ricerca del successo. Un viaggio dentro l’uomo, il suo bisogno di rapporti sociali, amicizia, amore. Le sue scelte guidate più dall’istinto e dalle emozioni che dalla razionalità cartesiana. E l’impatto di questi meccanismi sulla realtà politica. Sono bastati pochi giorni per fare di The Social Animal il libro più discusso del momento, tra apprezzamenti e molte critiche che Brooks ha sicuramente favorito fissando l’asticella molto in alto: «Filosofia e teologia— sostiene il saggista— oggi ci aiutano meno che in passato, si sono come atrofizzate. Il loro posto viene preso sempre più da scienziati e ricercatori che scavano nella natura dell’uomo. Per questo ha passato gli ultimi tre anni a discutere con gli scienziati. Che non sono dei tecnici, dei materialisti, ma uomini che cercano la verità» . Le accuse sono quelle immaginabili: un divulgatore acuto e ironico che si è preso troppo sul serio, che scimmiotta il Rousseau dell’Emilio, finendo per sfornare un’opera seriosa, pesante e priva di una reale autorevolezza scientifica. Ma il suo invito a esplorare nuovi orizzonti, le descrizioni dei modi in cui reti di neuroni inviano segnali che determinano il comportamento, attirano l’attenzione e l’apprezzamento di intellettuali liberali come Paul Berman, interessati a come le neuroscienze possono influenzare non solo il modo di valutare le scelte individuali ma anche l’agire politico. Proprio per questo discussioni e polemiche su Brooks sono destinate a incrociarsi col dibattito su un altro attesissimo saggio: The Origins of Political Order («Le origini dell’ordinamento politico» ) di Francis Fukuyama. Il nuovo libro dell’autore reso celebre vent’anni fa da La fine della storia, uscirà in America il 12 aprile, ma anche qui già si comincia a discutere sulla base di qualche anticipazione e dei resoconti di recenti discussioni accademiche che lo stesso Fukuyama ha avuto con i professori di alcuni atenei. Il filosofo americano di origine giapponese segue un percorso diverso: ripercorre i comportamenti sociali, l’evoluzione culturale e quella delle istituzioni politiche delle varie civiltà che si sono succedute nei secoli. Ma anche lui propone un percorso alternativo e innovativo. E anche Fukuyama ha arricchito negli ultimi anni le sue visioni filosofiche con incursioni nelle scienze naturali (come il saggio del 2002 Il nostro futuro postumano. Conseguenze della rivoluzione biotecnologica). Stavolta si concentra sugli aspetti culturali, non su quelli biologici, dell’evoluzione sociale. Secondo il «New York Times» e politologi come il danese George Sorensen, questo saggio, che parte dal cacciatore preistorico e dalle prime tribù unite da fattori religiosi, diventerà un nuovo classico nello studio dell’evoluzione politica delle società. Con la Cina che, con un sistema politico molto centralizzato, diventa uno Stato assai prima di un’Europa che rimane sostanzialmente tribale anche nell’era delle deboli monarchie, costrette a dividere il potere coi signori feudali. Solo Inghilterra e Danimarca riescono a darsi organizzazioni di governo forti, basate sullo Stato di diritto. Il saggio (si ferma alla Rivoluzione francese, ma sarà seguito da un secondo volume che arriverà fino ai giorni nostri) descrive come un «incidente della storia» il passaggio dello Stato di diritto, basato su fattori religiosi, a un sistema fondato su meccanismi democratici. Un incidente felice che si deve fare di tutto per conservare, ma in una convivenza forzata con altri sistemi come l’autocrazia imperiale cinese. I due saggi seguono traiettorie diverse, ma con vari incroci. Gli autori, oltre che l’interesse per le scienze naturali, condividono il fatto di essere dei conservatori moderati che, in seguito all’attentato alle Torri gemelle, appoggiarono l’interventismo di Bush. Salvo poi pentirsi, tutti e due, dopo il disastro dell’Iraq. Ora Fukuyama riflette sull’ «estrema difficoltà di creare istituzioni politiche per una società diversa dalla propria» . Mentre Brooks, un conservatore «hamiltoniano» , si professa liberale, ma si mostra anche convinto che, davanti a un’umanità che gioca su un piano inclinato, sia opportuno un intervento statale correttivo, capace di ripristinare la parità senza essere invasivo né assistenziale. Due saggi che susciteranno controversie, ma che aiutano a rileggere le vicende chiave degli ultimi anni — gli interventi in Iraq e Afghanistan, la guerra Usa contro il terrorismo e il crollo di un sistema finanziario che era stato costruito sulla teoria del comportamento razionale del soggetto economico— in una luce nuova.