domenica 20 marzo 2011

l’Unità 20.3.11
Pd: «Sì alla risoluzione ma governo sia preciso sul nostro ruolo»
I Democratici chiedono chiarezza alla maggioranza divisa fra le posizioni filo-atlantiche del Pdl a quelle isolazioniste della Lega: «Strappo grave» Pistelli: «Da Parigi precedente importante per la gestione delle crisi»
di Simone Collini


Il Pd confermerà la prossima settimana in Parlamento il sì alla risoluzione Onu sulla Libia, ma chiederà al governo indicazioni più precise sull’impegno delle nostre forze armate e anche di assumersi in pieno le proprie responsabilità smettendola di avere due linee di politica estera, una filo-atlantica (Pdl) e una isolazionista (Lega). Mentre a Parigi si svolge il vertice tra Ue, Usa e paesi arabi, mentre gli aerei italiani sono schierati in Sicilia e mentre dall’altra parte del Mediterraneo partono i raid dei caccia francesi, il governo continua a muoversi in maniera ambigua, con il premier che dice di non ritenere necessario un nostro intervento diretto e con il Carroccio che si prepara a mobilitazioni di piazza per dire no alle azioni militari. Un quadro poco rassicurante, per il Pd, che chiede al governo coerenza e senso di responsabilità. «Il Pd apprezza il risultato del vertice di Parigi, che segna un punto di condivisione importante nel metodo e nel merito fra Europa e mondo arabo e crea un precedente importante per la gestione delle crisi, che andrà coltivato anche nel futuro», dice Lapo Pistelli. Il responsabile per le Relazioni internazionali del partito sottolinea che i parlamentari del Pd non hanno fatto mancare il loro «sostegno a un decisione importante e difficile per la vita e la politica estera del nostro paese», votando sì venerdì alla risoluzione Onu nelle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato.
Il Pd è pronto a ribadire il voto favorevole la prossima settimana in Aula, ma vuole «sentire dal governo indicazioni più precise sull’impegno delle nostre forze armate» e anche verificare se l’esecutivo «sarà in grado di tenere tutta la maggioranza sulla medesima posizione». Che sono le condizioni, dice Pistelli, perché l’Italia giochi un ruolo credibile in questa delicata vicenda: «La partecipazione dell’Italia ad azioni coerenti con il mandato delle Nazioni unite deve essere piena e paritaria con gli altri partner internazionali, sia perché il futuro della Libia e del suo popolo è un interesse nazionale prioritario, sia perché occorre correggere l’incertezza dei primi giorni della crisi. E infine perché occorre reinserirsi pienamente nel cuore delle scelte europee dopo anni nei quali a causa della politica seguita dal governo ci siamo ritrovati purtroppo ai margini delle decisioni che dovrebbero coinvolgere paritariamente i principali paesi europei».
Gli scenari che possono aprirsi sono troppo delicati per essere affrontati con ambiguità. C’è il rischio di ripercussioni, la questione degli immigrati e il pericolo di infiltrazioni terroristiche. Tutte questioni all’ordine del giorno, di cui hanno discusso in un faccia a faccia a Palazzo Chigi anche il sottosegretario con delega ai Servizi Gianni Letta e il presidente del Copasir Massimo D’Alema.
Il Pd non cambierà posizione sulla risoluzione Onu, che Walter Veltroni giudica un «deterrente» che ha l’obiettivo «di far finire una guerra che c’è già». Ma vuole una correzione di rotta da parte del governo. «Faremo la nostra parte assicura il vicesegretario del Pd Enrico Letta ma lo strappo della Lega è grave e il governo non ha più la maggioranza in politica estera». Aggiunge il capogruppo del Pd in commissione Esteri al Senato Giorgio Tonini: «Il governo deve venire in aula e deve essere proprio Berlusconi ad assumersi la responsabilità di una scelta del genere. Il governo non può avere due linee di politica estera».

Corriere della Sera 20.3.11
Bersani dà la linea al Pd: «Basta divisioni interne, bisogna parlare ai cittadini»
Il confronto dopo le uscite degli ex popolari al Nord
di  Maria Teresa Meli


ROMA— La prossima Direzione del Partito democratico, prevista per il 28 marzo, rischia di diventare incandescente, dopo il preannunciato esodo di molti amministratori locali di area cattolica. I leader della minoranza interna che provengono dall’ex Margherita, come Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni, chiedono al segretario di non minimizzare la situazione. Ma i vertici del Pd sembrano invece decisi non solo a non dare troppa importanza al disagio, ma anche a puntare l’indice contro i fuoriusciti, accusandoli di aprire una discussione tutta interna al partito e incomprensibile all’esterno. In questo modo rinfocolano il sospetto di quanti, come Fioroni e Gentiloni, temono che in realtà l’esodo degli ex ppi non dispiaccia poi troppo alla dirigenza del Pd, quasi tutta di origine Ds. Ieri sulle agenzie di stampa si sono rincorse le dichiarazioni dei vari parlamentari della minoranza. Walter Veltroni, al di là delle vicende specifiche del Veneto e del Piemonte, ha scelto il silenzio ma appare preoccupato per il malessere nel partito, che a suo giudizio merita il massimo rispetto, e spera che il Pd torni al suo progetto originario. Gentiloni, che assieme a Fioroni, si sta impegnando in queste ore per evitare che altri seguano l’esempio dei transfughi del Veneto e del Piemonte, spiega che ora «la sfida è quella di riportare il Pd al suo progetto iniziale che non è quello di ridursi a una tradizionale forza della sinistra» . Per Gentiloni gli abbandoni rappresentano un «rischio per tutto il partito e per questo motivo la questione dovrà essere affrontata nella prossima direzione» . L’esponente della minoranza si rivolge non solo a Bersani ma anche a Bindi e Franceschini, cioè a «quelli che hanno condiviso l’esperienza della Margherita» , e che a suo giudizio sono i primi che «non possono minimizzare» la situazione. È un segnale molto chiaro: una chiamata di responsabilità a quei moderati del Pd che secondo la minoranza si sono troppo appiattiti sulle posizioni degli ex Ds. Molto preoccupato, ma altrettanto polemico con la maggioranza, Fioroni: «Occorre che la dirigenza nazionale si renda conto che non basta più lanciare anatemi o invettive, e tantomeno minimizzare i fatti. Il partito deve cambiare linea politica per far sentire tutti a casa propria. Mi auguro che coloro che ripetono a Bersani che tutto va bene e che i problemi dei cattolici democratici non esistono cambino idea e lavorino per un Pd più accogliente anche per i moderati che vogliono starci, ma con la schiena dritta» . Quello tra maggioranza e minoranza del Partito democratico sembra però un dialogo tra sordi. Bersani, comprensibilmente, non è contento di quanto sta avvenendo: «Il pericolo vero è che gli elettori del Pd non comprendano tutti questi nostri contorcimenti interni» . Per questa ragione ha mandato avanti il responsabile Enti Locali Davide Zoggia per esprimere sì il rammarico per queste fuoriuscite, ma anche e soprattutto per mandare questo avvertimento: «La priorità per il Pd è quella di dare risposte agli italiani» . E, sottolinea Zoggia, Andrea Causin (il consigliere regionale Veneto che l’altro ieri ha annunciato il suo abbandono) non «sembra cogliere questo aspetto del problema, ma si ferma su discussioni tutte interne che probabilmente interessano poco i cittadini» . Una dichiarazione che è apparsa eccessivamente liquidatoria non soltanto ai transfughi ma anche a molti parlamentari del Pd. Enrico Gasbarra, per fare un nome, che dice: «Sottovalutare quello che sta accadendo è un errore gravissimo, tanto più che stavolta questi abbandoni riguardano non deputati e senatori ma amministratori locali. Ci vuole un ritorno pieno alla democrazia interna» . E Gero Grassi critica il vertice che sembra «sordo» ai richiami dei moderati del partito. Tutte queste polemiche si riverseranno nella Direzione del 28, quando i leader di maggioranza e minoranza finalmente si confronteranno direttamente.

Corriere della Sera 20.3.11
Coalizioni, «vincente» l’opposizione tutta insieme
Ma se il Pd rompesse con la sinistra il 40%dei suoi elettori si ribellerebbe
di Renato Mannheimer


Benché la prospettiva di elezioni anticipate sembri sempre meno probabile — ma il clima politico potrebbe cambiare anche radicalmente da un momento all’altro — si succedono i sondaggi sulle intenzioni di voto, con risultati sostanzialmente simili in tutte le ricerche, anche se condotte da istituti diversi. Con un limite rilevante: quasi metà della popolazione evita di rispondere al quesito sulle intenzioni di voto, manifestando la propria incertezza. Buona parte di costoro è indecisa per davvero e tende a rinviare la scelta sino allo svolgimento della campagna elettorale. Ma la percentuale di chi si dichiara indeciso scema notevolmente, se il quesito posto non riguarda l’opzione per i singoli partiti ma quella per le coalizioni che si potrebbero formare, stimolate anche dalla legge elettorale in vigore. Se l’alternativa è costituita da coalizioni, quasi metà di quanti si dichiarano attualmente indecisi su cosa votare si orienta in una direzione o nell’altra. -Ciò suggerisce come, ancora oggi, gli italiani tendano a preferire una competizione tra un numero limitato di contendenti ad una gara tra una più ampia pluralità di partiti, grandi o piccoli. Per la verità, questo atteggiamento era emerso già nel 2008, quando più del 70%dei voti si era diretto verso le due forze politiche maggiori. Oggi questa tendenza si è attenuata, tanto che, nel loro insieme, Pd e Pdl raccolgono solo poco più della metà dei consensi espressi nei sondaggi. Ma questo allontanamento è dovuto più alla delusione suscitata, a torto o a ragione, da questi due partiti che ad una simpatia per la presenza di tante piccole forze. Presentando delle alternative di coalizione potenzialmente innovatrici, molti elettori si sentono nuovamente stimolati verso il voto. Con quali risultati? Abbiamo prospettato tre diverse ipotesi di coalizioni. La prima prevede l’aggregazione in un unico fronte di tutte le forze che attualmente sono ostili al governo e si collocano a sinistra, nel centrosinistra o nel centro. In questo caso, emerge la netta prevalenza della coalizione antiberlusconiana che arriverebbe, forse, a conquistare la maggioranza assoluta dei voti validi. La seconda ipotesi vede la presentazione in un’unica lista delle forze di centrosinistra e di sinistra, ma la scesa in campo separata dei partiti (Udc, Fli, Api) che si collocano oggi al centro. Anche in questo caso sembrerebbe vincere il centrosinistra, con uno scarto però talmente esiguo da rendere incerto il risultato. E da offrire un ruolo determinante alle forze di centro. Da ultimo, si è sperimentata l’eventualità che l’opposizione si separi e che una parte di quest’ultima (in particolare il Pd) si allei con il centro, mentre, a fronte di questa scelta, le forze di sinistra tout court corrano da sole. In questo caso, quasi il 40%dell’elettorato attuale del Pd dichiara di volere abbandonare il partito e di scegliere la coalizione di sinistra. Ciò porterebbe ad una rovinosa frattura all’interno delle forze di opposizione e alla inevitabile netta prevalenza del centrodestra. Insomma, la presenza di aggregazioni più ampie dei singoli partiti solleciterebbe probabilmente la partecipazione al voto e faciliterebbe la decisione per molti elettori. Allo stato attuale, l’esito favorirebbe l’opposizione, nella misura in cui quest’ultima si presenta unita.

l’Unità 20.3.11
Tornano i pacifisti sit in all’ambasciata
Contro i raid si sono esposti Idv e i partiti della sinistra radicale La condanna di Strada e la protesta davanti alla sede francese
di Alessandra Rubenni


Non esistono guerre umanitarie. Onu, Nato assassini», hanno scritto su uno striscione. Su un altro, in francese, «Sarkozy mascalzone, no ai bombardamenti sulla Libia», e ancora: «Fermiamoci, disarmiamoli». Così, tra qualche bandiera di Rifondazione e di Sinistra Critica, a Roma un centinaio di persone si sono ritrovate ieri pomeriggio a piazza Farnese, sotto l’ambasciata francese, per dire «no» ai bombardamenti europei sulla Libia.
È il fronte dei pacifisti, quello che parla la stessa lingua di Gino Strada, che sembra non avere dubbi neanche stavolta. «Io sono contro la guerra. Lo dico da lustri». E allora, anche se l’obiettivo dichiarato è quello di fermare Gheddafi e il massacro dei civili, il fondatore di Emergency con un interrogativo disegna già una scena: «Perché? chiede Chi li fermerà mirerà dritto a Gheddafi? Io sono contrario alla guerra per tante ragioni, una è che sono italiano e ho una Costituzione che ripudia la guerra». Un «no», quello che dei pacifisti, che tra le forze politiche non trova ampia sponda. A condividerlo c’è il segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero, certo, che invita alla mobilitazione, con sit-in davanti al Parlamento in occasione del voto di ratifica la prossima settimana. Ma le altre sono poche voci isolate. «L’Idv non si tirerà indietro per impedire a Gheddafi di massacrare il suo popolo. Ci impegniamo a dare il nostro apporto quando la settimana prossima si voteranno i contenuti della risoluzione dell'Onu dice pubblicamente Antonio Di Pietro e soprattutto ci impegneremo in Parlamento affinché il governo riveda quella scelta scellerata del Trattato di amicizia con Libia, cui l’Idv ha votato contro, che prevede che l’Italia non presti in alcun modo le sue basi contro Gheddafi». Proprio dall’Italia dei Valori, però, arrivano messaggi diversi: «l’Idv appoggia con convinzione la risoluzione 1979 dell'Onu ed è nettamente contraria ad un nostro intervento militare attivo in Libia», hanno fatto sapere Evangelisti, Orlando e Pedica, nelle commissioni Esteri di Camera e Senato. Dal Pd, invece, Enrico Gasbarra si schiera contro i raid in quanto «uomo cattolico» che capisce la «necessità di fermare le violenze del rais», «ma non mi hanno mai convinto gli interventi militari». Dal Pdl, fuori dal coro un Alfredo Mantovano, sottosegretario all’Interno, che parlando col Foglio allerta: «è chiaro che ci sarà una guerra e noi ne subiremo soltanto gli effetti negativi, per l’immigrazione, l’energia e il rischio terrorismo».

La Stampa 20.3.11
Libia le piazze vuote
Né mobilitazioni né bandiere i pacifisti soffrono in silenzio
Viaggio nel popolo arcobaleno Tra le denunce di Gino Strada e Paolo Ferrero e i distinguo del governatore della Puglia Vendola che fine ha fatto il movimento?
di Riccardo Barenghi


La contraddizione Tace la sinistra, solo la Lega si oppone all’intervento come contrastò l’azione in Kosovo

Magari è presto per dirlo, forse bisognerà aspettare che le bombe occidentali provochino morte e distruzione, ma certo finora c’è da segnalare l’assordante silenzio di chi contro la guerra "senza se e senza ma" si è sempre fatto sentire forte e chiaro. Da vent’anni, ossia dalla prima guerra all’Iraq nel ‘91, passando per quella nei Balcani nel ‘99, quella in Afghanistan nel 2001 (ancora in corso), la seconda contro l’Iraq nel 2003. Manifestazioni, cortei, appelli, convegni, proteste di ogni genere, marce per la pace una dietro l’altra, milioni di persone nelle piazze d’Italia. Oggi niente, ancora niente.
Assuefazione alla guerra? Difficoltà a mobilitarsi in un periodo di stanca dei movimenti? Imbarazzo perché da una parte ci sono i ribelli che muoiono per la democrazia e dall’altra un dittatore che li reprime ferocemente? Nel mondo pacifista c’è un po’ di tutto questo, anche se nessuno dei protagonisti ha cambiato idea sulla guerra. Nessuno pensa che sia giusto farla. Spiega Sergio Cofferati, ex segretario Cgil, oggi deputato europeo e all’epoca dell’Iraq leader del movimento pacifista: «Scatenare la guerra nel Mediterraneo è un gravissimo errore dalle conseguenze imprevedibili. Tanto più che quelli che oggi appaiono come i più determinati per l’intervento sono stati i più corrivi nel rapporto con Gheddafi, restituendoci la sgradevole sensazione di un sovrappiù, un eccesso di zelo o per rimuovere un passato indecente». Però i pacifisti tacciono, non si mobilitano, non manifestano... «Beh, è evidente che la presenza degli oppositori al regime crea una difficoltà e una contraddizione al movimento per la pace, una contraddizione riassunta in una domanda: come aiutarli senza bombardare?».
Già, il problema è tutto qui, ma la soluzione al momento non ce l’ha nessuno. Neanche Nichi Vendola, che però un passetto in avanti lo fa: «La domanda di libertà non può essere repressa con il terrore nel nome della non ingerenza in un Paese sovrano. Allora io mi chiedo: siamo capaci, noi mondo multipolare, di soccorrere le popolazioni aggredite?». Ovviamente Vendola non si spinge ad appoggiare bombardamenti mirati, ma si capisce che, se fossero proprio mirati, forse non scenderebbe in piazza per protestare. E a proposito di piazze, lui una risposta al silenzio dei pacifisti ce l’ha: «Negli ultimi vent’anni l’Occidente ha fatto della guerra il modello di stabilizzazione del mondo. Ne ha fatte ben quattro di guerre, questa è la quinta. Il pacifismo, quello che il New York Times ha definito la seconda potenza mondiale, si è opposto. Ma è stato sconfitto. E forse è questa la ragione del suo silenzio».
Cofferati, Vendola, ma anche Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione, Flavio Lotti, presidente della Tavola della pace (quella della marcia PerugiaAssisi), il fondatore di Emergency Gino Strada pensano tutti che l’Occidente per un mese sia rimasto a guardare quel che accadeva in Libia senza fare nulla, invece bisognava muoversi prima. «Aprendo magari un corridoio umanitario per portare aiuti ai ribelli» (Cofferati). «Non è possibile che l’Onu sia passato dalla totale inerzia alla guerra, senza prendere provvedimenti, l’embargo, le sanzioni, il congelamento dei beni libici sparsi nel nostro mondo... Invece niente» (Vendola). «Si deve aprire una trattativa per una transizione democratica in Libia e in tutti i Paesi dove c’è una rivolta per la libertà. Siamo ancora in tempo» (Ferrero). «E’ incredibile che l’Occidente abbia solo una risposta, e questa sia la guerra. Ed è altrettanto incredibile che il centrosinistra la appoggi» (Strada). «Il tema della pace è stato cancellato dalla politica e dall’informazione, ma questo non significa che non sia radicato nella coscienza di milioni di persone. Se la guerra dovesse scoppiare sul serio, sono certo che si faranno sentire» (Lotti).
Forse, chissà, vedremo domani. Per ora i pacifisti non si vedono e non si sentono. La situazione, spiega ancora Ferrero, ricorda quella della guerra nei Balcani, il famoso intervento umanitario. Allora al governo c’era D’Alema e tutto il centrosinistra era favorevole alla guerra insieme al centrodestra. Non erano d’accordo i «soliti» pacifisti e la sinistra radicale, i quali faticarono a organizzare qualche manifestazione di protesta, peraltro non oceanica. Anche perché, ieri come oggi, il movente dei bombardamenti era fornito dal massacro di civili operato da gente senza scrupoli, Milosevic e Gheddafi. Dunque non era facile opporsi. Chi si oppone invece, ieri come oggi, è la Lega, stavolta accompagnata dai giornali di centrodestra: «Costretti alla guerra» (titola Il Giornale), «Ci mancava solo la guerra al beduino» (replica Libero). E questa è una novità.

Corriere della Sera 20.3.11
La sinistra e la guerra. In Iraq no, in Libia sì
di Paolo Conti


ROMA— L’espressione è diplomatica («il complesso rapporto della sinistra con la guerra...» ). Però ieri Il Foglio ha registrato, in suo editoriale, il «sì» del Pd alla risoluzione Onu sulla Libia («La guerra che piace alla gauche» ). Sottolineando le contraddizioni: no alla cacciata di Saddam Hussein («obiettivo considerato "imperialista"), sì al bombardamento di Belgrado («considerato strumento indispensabile per l’affermazione di ideali umanitari» ). E sì oggi in Libia. Il nodo sinistra-guerra è intricato. Non tutto è lineare come il «no» di Gino Strada, identico a quello pronunciato sull’Iraq. Lo dimostra, mentre la sinistra radicale («Onu-Nato Assassini» ) manifesta davanti all’ambasciata di Francia, la spaccatura a il manifesto tra Rossana Rossanda e Valentino Parlato. Nel 1999 nessuna esitazione: entrambi per il no. Rossanda disse al Corriere della Sera: «Se si arriverà a un intervento di terra nel Kosovo, inviterò alla diserzione e me ne assumerò tutte le responsabilità» . Piero Fassino, allora ministro per il Commercio con l’estero del governo D’Alema pro intervento Nato, le rispose duramente: «Lo ripeta guardando negli occhi i bambini kosovari» . Oggi Rossanda (9 marzo scorso) è su posizioni diverse: «Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista... mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto» . Parlato è furiosamente su un altro fronte: «Questa è una guerra veterocolonialista. Francia e Inghilterra, vista la crisi dell’atomo dopo il disastro del Giappone, restituiscono il dovuto valore al petrolio e vogliono accaparrarsi quello libico» . Sorriso: «Diciamo che da questo punto di vista mi trovo su posizioni filoamericane...» . Se dovesse decidere lei, Parlato? «Al posto di Berlusconi, tratterei con Gheddafi subito e tenterei di mantenere i privilegi dei nostri accordi. Indubbiamente la penso in modo molto diverso da Rossana» . Altro che rapporto solo complesso. C’è persino il tormento. Luigi Manconi, già leader dei Verdi nel 1999, sempre con D’Alema a Palazzo Chigi, considerò «sbagliato in sé» l’intervento contro Saddam in Iraq. Invece nel 1999, sul Kosovo, i Verdi votarono un sofferto sì. Racconta oggi Manconi: «Alla fine la soluzione mi appariva inevitabile e chiara, anche perché eravamo forza di governo» . E oggi, lei che non è più parlamentare ma è l’animatore dell’associazione «A buon diritto» , avrebbe votato sì? «Però un mese fa. Si sarebbe potuto intervenire in maniera più efficace e meno cruenta, riconoscendo gli insorti e sostenendoli. Avremmo potuto farlo persino noi se non avessimo avuto con Gheddafi quel ruolo di subalternità tutto affidato alla politica di respingimenti disgraziatamente basata sulla negazione dei diritti fondamentali della persona» . C’è poi il caso articolato del Pd, maggior partito di opposizione (oggi) e di maggioranza relativa (nel 1999). Ai tempi di Saddam il no fu senza se e senza ma. Nella stagione di D’Alema a Palazzo Chigi, altro senza se e senza ma, però con un sì. Oggi altro sì privo di ombre con Gheddafi. Come si spiega un simile andamento? Dice Nicola Latorre, vicepresidente del gruppo Pd al Senato: «Sinceramente non vedo alcuna contraddizione» . Allora cominciamo da Saddam: «Lì c’era un unilateralismo ideologico degli Stati Uniti, l’assurdo tentativo di "esportare la democrazia"che inevitabilmente portò acqua al mulino della radicalizzazione dello scontro tra civiltà» . E il Kosovo? Non pesava molto, troppo, la presenza di D’Alema a Palazzo Chigi? «Dirò anzi che lì arrivammo in ritardo, a pulizie etniche già concluse, con un Occidente ottusamente lontano e miope» . E ora arriviamo alla Libia. Siamo veramente così lontani da Saddam, scusi? Cicchitto ve lo ha fatto notare. «Nulla a che vedere. Qui si interviene per tutelare i civili, non per "esportare la democrazia"ma per aiutare i libici a riprendersi la loro. Piuttosto vorrei rispondere a Cicchitto che senza di noi il governo sarebbe andato sotto...» . Infine Nichi Vendola, Sinistra Ecologia e Libertà, che non ha cambiato idea in nessuna delle occasioni di guerra: «La logica secondo cui per fermare un massacro bisogna compierne un altro pone dilemmi e prospettive inquietanti. La cosa più saggia è concentrarsi sul cessate il fuoco e puntare sull’isolamento di Gheddafi. Comunque sia, non si può invocare la non ingerenza quando si è in presenza del terrore di Stato. Ma bisogna puntare su azioni che non siano la guerra per riuscire a tenere una cornice internazionale di legalità» .

Corriere della Sera 20.3.11
Se questa (senza sentimenti) è una guerra
di Vittorino Andreoli


Sono un uomo dei sentimenti che in questo periodo assiste alle immagini della guerra in Libia. La vedo dal salotto, davanti a un teleschermo ad alta definizione. Una visione che riporta anche le emozioni e i sentimenti, poiché traspaiono dal volto delle persone, sono esplicitati dalle parole, dai discorsi e anche dai silenzi. Qualche settimana fa la guerra era in Egitto, ma poi è stata declassata appena si è riaccesa quella in Tunisia e poi è entrata nel buio della notte con la Libia. La televisione non passa più di una guerra alla volta. Come per gli omicidi efferati, uno solo per qualche mese, il più intrigante. Del resto, lo so, sono almeno quaranta i conflitti nel mondo e molti non fanno spettacolo, oppure sono troppo lontani per permettere di produrre servizi in diretta con la gente che manifesta rabbia o fa segni di vittoria mostrando l’indice e il medio delle mani a V. La Prima e la Seconda guerra mondiale non potevano diventare televisive e per questo erano più misteriose, non tanto nelle loro cause politiche — dinamiche ordinarie del potere —, ma perché ne giungeva solamente qualche fotografia ed era più facile e più semplice mostrare ancora vivo qualche soldato che aveva perso gambe e speranza. Guerre oggi diverse, combattute con strumenti sofisticati, aerei senza pilota, strategie regolate dai computer, dai computer in guerra. Io credo che non siano cambiati il loro volto, la violenza, la stupidità, ma che invece sia mutato l’uomo. Si potrebbe dire l’antropologia, l’umanesimo. È come se l’uomo del tempo presente considerasse la guerra un fenomeno banale, scontato, atteso persino per consumare le armi accumulate negli arsenali e riempirli di armi più intelligenti — cosi si chiamano. Sono spaventato da come si parla della guerra, in maniera disanimata. Da come si accenna alle imbarcazioni piene di gente che scappa dalla guerra, ridotte a numero e alla capienza dei centri di accoglienza. Sono impaurito dalla freddezza con cui si cancella la parola «rifugiato politico» , come indicasse il modo per rubare un posto in paradiso, a Lampedusa, sulla nostra convinzione che l’Italia sia l’Eden e non un inferno anche senza guerra. Sono incredulo di fronte alle riunioni dei capi di Stato che discutono delle guerre, ovunque siano, con lo stile di un convivio filosofico o peggio di un corso di aggiornamento in scienze diplomatiche. Come se non ci fosse il dolore dei bambini, delle donne, dei soldati, di chi pensa di poter liberare un Paese dalla dittatura, da un capo che tiene nella povertà la gente e si arricchisce investendo nei paradisi fiscali i proventi del petrolio, per sé e la propria famiglia. Come se fare la guerra con i sassi mentre gli aerei lanciano bombe fosse un divertimento. Sembra di trovarsi su Internet, sintonizzati sui videogiochi, su quelli in cui si può diventare un soldato e persino un eroe senza spargere una goccia di sangue. Una guerra di celluloide, un guerra che non c’è, ma più «interessante» . I sentimenti: il dolore per chi soffre, la pena per i bambini e per i vecchi, la perdita di una casa, che anche se vuota era il luogo della propria dimensione sociale. E non importa se è al confine con le zone desertiche. Anche nel deserto devono vivere i sentimenti. Io non li vedo più, tutto è morto. Di fronte al dolore dell’altro si dovrebbe correre e dare un poco di sollievo, di fronte a un bambino insanguinato si deve sentire una stretta al cuore e avvertire le lacrime scendere. La guerra è diventata banale, come la violenza in famiglia, come gli stupri che ormai non fanno più cronaca, e allora si sta a guardare dieci minuti di guerra e poi si cambia canale, si va magari sull’Isola dei famosi. Sono un uomo dei sentimenti ma so che sono morti, sono stati ammazzati. Rimane forse solo la rabbia, quella che esprime bene il potere quando è contrastato. Credevo che la guerra «fredda» fosse quella iniziata negli anni Cinquanta del Novecento, ora c’è la guerra «gelida» , totalmente disanimata. E senza sentimento tutto è banale, e acquista solo un prezzo e le compravendite, pur se di mercenari e di poveretti, non riescono a stimolare più l’umano, ammesso che ve ne sia ancora qualche residuo in quest’uomo. Viene in mente l’interrogativo di Primo Levi: «Se questo è un uomo» .

il Fatto 20.3.11
L’equivoco degli Stati uniti
di Furio Colombo


Se avete sentito parlare della nave traghetto “Mistral Express”, se ne avete seguito la strana vicenda, è più probabile che possiate orientarvi nella storia che sta per seguire, e che è la storia del nostro tempo. Dunque la “Mistral” non doveva partire, non doveva arrivare e non poteva restare nel Mar Mediterraneo che stava attraversando. Siamo a metà marzo del 2011, in una strana coincidenza con i festeggiamenti dell'Italia unita, ma questo, ormai, è solo un dettaglio di colore. È bene non entrare nel merito della triste vicenda (nave di profughi che è stata tenuta ferma e lontana nel timore che quei profughi potessero avere davvero diritto all'asilo che si temeva chiedessero, dunque respinti non perché ritenuti pericolosi vagabondi senza patria, ma perché, in base alla legge internazionale, erano in cerca di una patria e di una legge a cui affidarsi). È inutile anche ricordare che – secondo il codice Le Pen, a quanto pare adottato dal governo italiano – la nave andava tenuta al largo non “benché avesse a bordo molte donne e bambini” ma “perché aveva a bordo molte donne e bambini” che, una volta arrivati, sarebbe stato impossibile respingere.
MA RESTIAMO al fatto, senza interpretazioni. Bisogna ammettere che la nave destinata a non partire, a non arrivare e comunque fermata (abbandonata) in mare, nella notte in cui le Nazioni Unite hanno dichiarato l’intervento militare contro la Libia, è una efficace illustrazione di uno strano periodo della civiltà e della storia, quello in cui stiamo vivendo. Ha come caratteristica principale lo smantellamento, l'abbandono, il rinunciare con fastidio e con disprezzo a fatti, valori, simboli e anche norme e pratiche di diritto che fino a poco fa venivano dati per accettati e condivisi. È una lista lunga, ma basteranno alcune parole che un tempo erano chiave e simbolo. Per esempio: Stato, Patria, Identità. Vagano alla deriva come la nave degli indesiderati. Sono ormai un ingombro da cui liberarsi, o almeno questo è il suggerimento che si raccoglie oggi in Italia. Stato. L’offensiva è cominciata presto, sul terreno della contrapposizione “pubblico-privato” e con il celebre slogan “meno Stato, più mercato” che appariva fondato sul buon senso e invece ha dato inizio a un clamoroso capovolgimento. Su questo capovolgimento è basata la solitudine e l’abbandono dei cittadini americani che hanno bisogno di cure mediche, sono respinti dagli ospedali privati, mentre i centri di cura statale non esistono più. Neppure la “riforma” sanitaria di Obama ha potuto intaccare il primato del privato e riattivare il rapporto di fiducia tra Stato e cittadini.
Nel sistema sanitario americano lo Stato resta in secondo piano rispetto alla forza e ai diritti del privato. Ma persino la privatizzazione delle scorte e missioni militari, l'introduzione di formazioni di mercenari privati accanto e a sostegno degli eserciti di grandi potenze (Stati Uniti, Inghilterra), la privatizzazione dei centri di detenzione e degli specialisti di interrogatori sono un evidente segno del prevalere quasi senza limiti di tutto ciò che è privato visto come migliore o superiore. Ma il lavoro di demolizione è ancora più vasto e arriva da percorsi diversi.
Si realizza in due modi opposti e del tutto sconnessi e in contrasto, ma usati con un grado altrettanto alto di aggressività. Uno è il proclamare l'esistenza di piccole patrie confinate in parti di territorio che si presumono omogenee e storicamente legate, e che prevalgono sullo Stato un tempo ritenuto sovrano. Qui c’è un clamoroso equivoco. Se un Stato federale è vero e spontaneo e fondato dal basso, questo tipo di movimenti localistici chiede di più ma offre di più, perché ha interesse, come garanzia per il piccolo Stato, di rafforzare il più grande Stato comune. È ciò che accade negli Stati Uniti, dove la radice di appartenenza al proprio territorio (lo Stato federato) è molto forte e, al contempo, è molto forte il legame patriottico con lo Stato federale, che è sentito come patria di tutti ma anche come autorità per tutti. La situazione italiana si rappresenta nel paradosso di tanti staterelli che non esistono se non come parte di uno Stato più grande, che però rifiutano. Lo rifiutano al punto da irridere a eventi come gli anniversari di fondazione, al punto da compiere gesti ostentati di disprezzo contro l'inno nazionale (federale).
Il risultato di atti così incoerenti, ma anche protratti negli anni, ma anche praticati e rappresentati da chi è allo stesso tempo, negatore dell'unita dello Stato ma anche ministro dello Stato (il ministro dell’Interno in cravatta verde) non può che portare alla dissoluzione dello Stato stesso o almeno a ferite gravi che peggioreranno nel tempo. Patria. In un Paese come l’Italia, in cui il concetto di patria è stato a lungo giocato come strumento di guerra, non è stato facile rovesciare l'interpretazione fascista. Un grande contributo è venuto dalla Resistenza, prima guerra italiana non contro un paese nemico ma contro un'idea odiosa di persecuzione. Il grande libro della Patria ritrovata degli italiani è stato ed è la Costituzione, dove tutto è ragione di identificazione e di orgoglio e niente esclude o accusa. E, inaspettatamente, è stata la globalizzazione a provocare un risveglio del senso di appartenenza di molti Italiani. In un mondo senza frontiere, dove i prodotti si scambiano con il segno del luogo di provenienza, sono stati costretti a capire che anche i cittadini, nel vagare senza frontiere, restano legati all’immagine del loro Paese.
Purtroppo, per gli italiani, ciò è avvenuto mentre un governo privato (fondato esclusivamente su interessi privati) ha preso il controllo di tutto ciò che è pubblico, piegando, deformando, usando a piacimento anche attraverso una politica estera privata e dissennata (a sottomissione dell'Italia alla Libia di Gheddafi, i rapporti intimi e misteriosi con la Russia di Putin) e rendendo irriconoscibile l'immagine dell'Italia.
QUESTA è la scena su cui si deve trovare un senso alla parola identità. Il totale controllo mediatico creato dal conflitto di interessi ha dato vita a un personaggio unico che non ha scuola, non ha cultura, non si riconosce nella Liberazione e nella Costituzione, considera “comunista” ogni pensiero o forma di vita che non conosce, vive fra l'Isola dei famosi e i programmi tv con premi in danaro. Dopo diciotto anni di egemonia berlusconiana questo italiano standard è un tipo umano che ha delegato la propria identità all'identità di uno che considera la vera rappresentazione di se stesso. Infatti lo spirito critico è stato del tutto assorbito dall'identificazione, che ha preso il posto della identità.
Resta, come unica identità possibile, una opposizione radicata nella estraneità come presa d'atto di un distruttivo tempo d'emergenza che non consiglia e non consente il dialogo. Le piazze degli italiani, donne e studenti, operai e gente dello spettacolo, insegnanti e poliziotti, testimoniano che la gente c'è. Si attendono i partiti.

l’Unità 20.3.11
Berlusconi perde carisma E gli elettori lo salutano
Il calo di consensi del premier è dovuto a due fattori: da una parte l’incapacità di ricompensare i fedeli sostenitori, dall’altra la riscoperta da parte degli italiani di un desiderio di legame nazionale
di Michele Ciliberto


In questi giorni, a leggere i sondaggi, si starebbe cominciando a incrinare in modo significativo il consenso intorno a Silvio Berlusconi. Un giudizio confermato dalle manifestazioni di insofferenza nei confronti della sua persona che si sono avuti il 17 marzo durante le celebrazioni del 150 ̊ anniversario dell’unità nazionale. A questa considerazione farei due postille: la prima, che i sondaggi vanno presi sempre con le molle; la seconda, che Berlusconi è un gatto dalle cento vite. Guai a darlo per sconfitto; è una specie di fenice rinata molte volte dalle proprie ceneri.
Ci sono tuttavia alcuni elementi che inducono a ritenere iniziata una crisi profonda di Berlusconi e del berlusconismo e vorrei provare ad argomentare questa mia tesi muovendo da quel motivo della carismaticità che è stato spesso, e opportunamente, utilizzato a proposito di Berlusconi.
Un tratto costitutivo del potere carismatico è rappresentato dal vincolo di fedeltà e di identificazione che si stabilisce fra il capo e i suoi seguaci; ma questo vincolo funziona ed è l’altro lato della carismaticità finché il capo, il leader, è in grado di soddisfare i desideri, gli appetiti, le aspirazioni dei suoi seguaci. Quando questo non avviene, il potere carismatico crolla.
È ciò che sta accadendo in questo periodo: oggi Berlusconi non è più in grado di soddisfare gli appetiti molto concreti, molto materiali dei suoi elettori, i quali stanno cominciando a distaccarsi perciò da lui. In questo distacco non agisce una critica di ordine morale relativamente al rapporto tra sesso e potere che Berlusconi ha incarnato in questi anni e ha trasmesso come una forma naturale del proprio potere personale. L’Italia è ormai un Paese per larga parte secolarizzato, compresi soprattutto gli elettori di Berlusconi che si sono anzi spesso compiaciuti delle sue prodezze sessuali. Il distacco, se avviene, si produce su un altro terreno: quello degli interessi concreti e materiali dei suoi seguaci i quali insoddisfatti dal loro leader cominciano a prendere in considerazione la possibilità di abbandonarlo.
Ma è un processo tutt’altro che semplice e lineare, tutt’altro che scontato, proprio perché alla sua radice agiscono questi profondi e robustissimi interessi. Come si vede dalle aspettative di voto di questi giorni, resta tuttora alto il voto degli indecisi, come alto resta il numero delle schede bianche. In ciò agisce sicuramente anche una insoddisfazione degli elettori del centrosinistra che non si riconoscono nelle posizioni del Pd e, ad esempio, nelle politiche consociativistiche che il suo segretario continua a proporre ormai da un anno. Ma certamente in quel concentrato di astensione e di schede bianche c’è un ampio numero di elettori che cominciano a prendere le distanze da Berlusconi attestandosi, per ora, nella scelta dell’astensione o della scheda bianca. In questo modo essi si propongono di guadagnare tempo per cercare di capire in quale direzione evolvano effettivamente le cose e se Berlusconi sia in grado di riassumere le sue funzioni, oggi declinanti, di leader carismatico. È dunque una scelta di attesa.
Qualunque sia il giudizio che si vuol dare, quella di oggi appare una situazione più aperta e più dinamica del passato. Ma perché questo movimento si rafforzi e perché quel mare di sale di astensione cominci a sciogliersi è necessaria un’iniziativa politica anzitutto dei partiti del centrosinistra. Essi invece continuano ad apparire statici e comunque non ancora pronti a confrontarsi con una nuova dinamica politica che non può ridursi a “unioni sacre” contro Berlusconi ma deve ricominciare a pensare in termini positivi una nuova prospettiva politica; e non può non incardinarsi in una robusta riaffermazione della dialettica bipolare come predicato imprenscindibile della vita politica, presente e futura, della nostra nazione.
Il secondo aspetto, più importante, concerne la questione dei cosiddetti “legami”. La democrazia dispotica di tipo berlusconiano è incardinata sulla rottura sistematica di ogni vincolo, con l’eccezione di quello di tipo carismatico e con la riduzione di ciascuno in forme di individualismo senza porte e senza finestre. Questa è stata la condizione principale del suo dominio in questi anni. Ciò che invece colpisce nelle celebrazioni per i 150 anni è la ricerca di larga parte degli italiani di nuove forme di legami che si sono espressi in questi giorni nel raccogliersi intorno alle forme e ai miti costitutivi della nostra identità nazionale. Non bisogna naturalmente enfatizzare fenomeni di questo genere, ma certo nelle manifestazioni di questi giorni si è espresso qualcosa di nuovo, da cui deve prendere le mosse una politica che voglia proiettarsi oltre le colonne d’Ercole di Berlusconi e del berlusconismo.
Michele Ciliberto insegna Filosofia moderna alla Scuola superiore della Normale di Pisa. Per Laterza ha appena pubblicato il libro «La democrazia dispotica»

Repubblica 20.3.11
Ecco come nasce la prima parola
Tra scienza e reality caccia al segreto della prima parola
Linguista del Mit filma e registra ogni suono del figlio neonato
Undici telecamere e 14 microfoni sempre accesi, bagno incluso, per tre anni
di Elena Dusi


Giochi, parole, movimenti, direzione dello sguardo, pianti e ridolini: i primi tre anni di vita del figlio di Deb Roy, ricercatore del Mit di Boston, sono stati tutti registrati. Attimo per attimo, dalle otto del mattino alle dieci di sera, in audio e in video, la sua storia di bebè è depositata in un server del MediaLab del Massachusetts Institute of Technology.

Un fotogramma dopo l´altro, il papà e i suoi colleghi stanno ripercorrendo la sua vita in uno sforzo che durerà forse il decuplo dei tre anni di registrazione. L´obiettivo: scoprire come un bambino impara a parlare.
«Nei primi mesi di vita le abilità linguistiche si evolvono di giorno in giorno. Non ha senso effettuare una registrazione ogni tanto, come avviene negli esperimenti normali. Il processo va colto nella sua continuità, nel momento stesso in cui si svolge» spiega Roy, che nei giorni scorsi ha presentato il suo esperimento alla conferenza Ted (Technology, Entertainment and Design) a Long Beach, in California, ripercorrendo in una sequenza audio il progresso da "ga-ga" a "wa-wa" fino alla parola "water". Inconsciamente, sia i genitori che la baby sitter davanti al piccolo Roy pronunciavano le loro parole lentamente, allungando le vocali e con una forte intonazione. Man mano che il bimbo acquisiva padronanza con un vocabolo, correggevano la sua pronuncia e iniziavano a inserire la parola in frasi sempre più complesse. All´età di due anni il bambino aveva imparato 503 termini.
Più che per i risultati - la cui analisi richiederà anni e che non appaiono per ora così rivoluzionari - l´esperimento colpisce per l´invasione totale della privacy che comporta. Casa Roy è stata cablata con un chilometro di fili elettrici, 11 telecamere e 14 microfoni montati sul soffitto di tutte le stanze della casa, bagno incluso. Unica salvezza per moglie e marito: un bottone con la scritta "Oops" sulla parete di ogni camera per cancellare gli ultimi minuti di registrazione.
Nel progetto soprannominato "Speechome" (da "speech" come discorso e "home" come casa), la combinazione di audio e video ha permesso ai ricercatori del MediaLab di collegare la "nascita" di ogni parola all´attività svolta in quel momento, alla stanza occupata, all´atteggiamento di madre, padre e baby sitter e perfino alla direzione del loro volto, per capire quale oggetto stavano inquadrando con lo sguardo durante le interazioni con il bambino.
L´obiettivo finale della ricerca di Roy - dopo aver sbrogliato la matassa dei 10 milioni di parole trascritte finora, solo una parte minoritaria dei 200 gigabyte di dati accumulati ogni giorno per tre anni - sarà quella di insegnare a parlare a un computer. Oltre a un figlio in carne e ossa, il ricercatore del Mit infatti ha anche una "creatura" di silicio chiamata Ripley cui finora, con sforzi enormi, è riuscito a insegnare solo i nomi dei colori e di alcune forme geometriche. Scandagliare il metodo che un bambino usa per imparare a parlare - spera Roy - gli permetterà di applicare la stessa strategia anche a un´intelligenza artificiale. Nel frattempo, tenendo i piedi molto più per terra, lo scienziato americano ha ottenuto un finanziamento per studiare i problemi di linguaggio dei bambini autistici.

Repubblica 20.3.11
Virginia Volterra, ricercatrice del Cnr, sull’origine del linguaggio
"Darwin e Chomsky, teorie opposte ora forse scopriremo chi ha ragione"


ROMA - «Anche Charles Darwin osservava i figli e ne trascriveva le prime parole» racconta Virginia Volterra dell´Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Cnr. «Io stessa ho preparato la mia tesi di laurea con un registratore audio e una bambina da osservare. Ma per un esperimento enorme come quello del Mit sarà decisiva l´efficienza del sistema di trascrizione».
I nuovi dati faranno fare un salto di qualità alle teorie sull´apprendimento del linguaggio?
«Le tesi attuali oscillano fra due grandi teorie, quella di Darwin che sottolinea la continuità fra gesto e linguaggio e quella di Noam Chomsky, secondo cui la capacità di parlare è frutto di una facoltà speciale del cervello umano».
Cosa vuol dire continuità fra gesto e linguaggio?
«Il bambino esegue un movimento (dormire, ballare, fare ciao con la mano). Poi l´adulto dà un nome all´azione. Così il bambino impara a collegare uno schema motorio a una parola, e quindi a dare significati condivisi alle sue azioni».
I bebè capiscono molte più parole di quelle che riescono a pronunciare?
«Sì, questa è una tesi consolidata. Ed è osservabile anche negli adulti che imparano una nuova lingua. Riconoscere le parole in un discorso è molto più facile che non usarle».
Imparare una seconda lingua da piccoli dà un vantaggio anche a tutte le altre capacità cognitive?
«Sì, ma nei primi mesi di vita si usa un accorgimento: una persona, una lingua. Se i genitori hanno nazionalità diverse, è opportuno che la mamma usi una lingua e il papà un´altra. Cambiare idioma confonderebbe il bambino. Ma anche per le famiglie omogenee, allenare un figlio all´ascolto di suoni diversi con cartoni animati o filmati sottotitolati non può che fargli bene». (e.d.)

l’Unità 20.3.11
Cos’è la felicità
Noi, novelli Candide alla ricerca della bellezza nel Giappone ferito
La riflessione A proposito di un saggio di Daniel M. Haybron sul perché gli esseri umani non riescono a conseguire condizioni di felicità: il nostro sguardo sul paese messo in ginocchio dalla recente catastrofe naturale dipende dall’interiorità di quello stesso sguardo
di Nicla Vassallo


Sul Giappone si dovrà riflettere a lungo. Circa Europa e Nord America, invece, gli economisti riportano risultati discordanti: la felicità consegue il livello minimo tra i nostri quaranta e cinquant’anni, non cessa di subire incrementi nel corso dell’intera esistenza, decresce progressivamente. I risultati si spiegano non tanto coi diversi campioni statistici, quanto con la formulazione delle domande che vengono poste, in cui non sempre emerge la differenza tra felicità legata a beni interiori e felicità legata a beni esteriori, felicità congiunta a virtù e felicità congiunta a ragioni e azioni, felicità ancorata al piacere (momentaneo o stabile?) e felicità ancorata epistemicamente alla sospensione del giudizio. Qualcosa di filosofico stride.
Nel caso in cui ci venga chiesto «Tutto considerato, sei soddisfatto, abbastanza soddisfatto, per nulla soddisfatto della vita?», non solo ci troviamo nella necessità di disambiguare un «tutto considerato», verosimilmente punteggiato di felicità e infelicità, sia se riferiamo il «tutto» al presente, lo proiettiamo nel passato, lo calcoliamo sulle aspettative future, ma di equiparare pure felicità e soddisfazione, cosa non affatto scontata. Posso dichiararmi soddisfatto del mio quotidiano, e infelice della mia vita in senso ampio, grazie alla consapevolezza delle catastrofi che si abbattono sui miei simili e oggi il dramma che colpisce i giapponesi deve ricordarci quanto nella consapevolezza si situi la differenza -, mentre posso dichiararmi felice (a causa del mio buon umore, della mia ottima salute, della mia ricchezza esteriore e interiore), e insoddisfatto perché non mi accontento, pretendo senza sosta di più.
Ciò è lungi dall’implicare che non si riesca a indagare con lucidità, serietà, spessore psicologico, oltre che etico lo fa Daniel Haybron (The Pursuit of Unhappiness. The Elusive Psychology of Well Being, Oxford University Press, Oxford & New York, pp. 384) cosa comporti cercare felicità e infelicità, cosa implichi ritenere di conoscere, senza in effetti conoscere, il proprio stato psichico, cosa allontani il benessere materiale da quello emotivo, cosa distingua un buon contesto sociale dalla possibilità di scegliere individualmente quanto si preferisce. Di nuovo, però, occorre fare attenzione: Daniel M. Haybron, che analizza i motivi per cui gli esseri umani non riescono a conseguire condizioni di felicità non va confuso con uno dei tanti supponenti nouveaux philosophes (un nome a caso: Pascal Bruckner) che suggerisce banalmente che saremmo più felici se non insistessimo nel cercare la felicità. La nostra e quella altrui. Saremmo forse più felici se non insistessimo ad adoperarci per i giapponesi, sopravvissuti al terremoto e allo tsunami, minacciati e feriti dalle radiazioni, per prospettare loro una qualche felicità, che riesce a racchiudersi in un gesto, semplice e intimo, come il tenersi mano nella mano? I nouveaux philosophes non devono averci pensato. Neanche gli economisti, però, preoccupati ora più della borsa, di quanto non lo siano della felicità. Importa loro sapere che non vi è età per tenersi mano nella mano e donarsi così un eterno attimo di empatica sintonia nella disperazione?
Se, oltre la felicità, cercassimo la bellezza? Senza alcuna provocazione. Una bellezza che corrisponde a purezza, nitidezza, limpidezza. Un’immagine zen. Nulla di artificiale o artefatto, davvero. Una bellezza che si ritrova in donne e uomini speciali, nei loro corpi, nelle loro mani, nelle loro menti. Ma felicità e bellezza non si intersecano e sovrappongono, forse? Anche nella difficoltà di presentare di esse un’unica definizione capace di istanziarsi solo in alcune entità. Di più: vi sono forme di felicità e bellezza che non abbiamo ancora scoperto, ed è questa una delle ragioni per cui continuiamo a vivere, alla ricerca di queste forme, nella speranza di incontrarle.
È un luogo comune dire che felicità e bellezza stiano negli occhi di chi ci guarda. Dipende, però, da come veniamo guardate/i: come oggetti da possedere, o come persone da amare? Dipende anche da noi, se ci lasciamo guardare, come, da chi, se concediamo a chi ci guarda di guardarci negli occhi, per accedere al nostro mondo etico, al modo con cui ci recepiamo, camminando nel e per il mondo, mano nella mano. Dalla nostra interiorità dipende il nostro sguardo sul Giappone.
Nell’adeguarci agli stereotipi viviamo non di felicità e bellezze reali, bensì contraffatte. Gli stereotipi imprigionano ogni libertà, maschile e femminile, di esprimere noi stessi. Dagli stereotipi occorre fuggire, nonostante ce li portiamo avanti da secoli, limitandoci a rivisitarli: stereotipi semplicisti, incapaci di raffigurare la complessità degli esseri umani, di tutte le loro variegate bellezze, in tutti i loro complessi dolori. Quella terra lontana che a Oriente continua a tremare sta azzerando molti stereotipi (suoi, e, mi auguro, nostri), per restituirci la complessità sofferente degli esseri umani nelle loro individualità. C’è qualcosa di androgino in loro, in quei corpi sopravvissuti, in quei corpi morti, c’è il superamento della bellezza volgare (sempre che si possa dare una tale bellezza), un rifiuto determinato dello spettacolo e della spettacolarizzazione, e, di conseguenza, della differenza sessuale, insieme ad altre differenze, che si rivela non solo attraverso il corpo, ma soprattutto in qualità umane che nulla condividono con la vanità.
Detto questo, il nostro paese rimane forse uno tra i più ciechi: così come insiste sulla differenza sessuale, pare non distinguere tra la bellezza della ricerca scientifica che studia la natura, e quindi pure terremoti, tsunami, cure mediche (ricerca a cui i finanziamenti vengono negati) e alcune sue applicazioni tecnologiche (quelle che, per esempio, si concretizzano nelle centrali nucleari) su cui invece ha trionfalmente scommesso, e solo ora pare tatticamente «frenare». Il dolore dei giapponesi importa in effetti poco. A contare rimangono le logiche illogiche, indiscutibilmente strumentali, del potere. Un peccato, oltre che per la felicità, pure per l’ottimismo razionalista. Anche se Candide ou l’optimisme di Voltaire rimane una lettura appropriata per ognuno di noi, e, soprattutto, per chi parla e agisce senza alcuna istruzione competente. Senza pietas.

il Fatto 20.3.11
Monsignor Ravasi
“Ritroviamo il coraggio di parlare con gli atei”
Il ministro vaticano della Cultura “Una malattia chiudersi in un recinto”
di Marco Politi


Cattolici e atei, credenti e agnostici: faccia a faccia nella Parigi dei Lumi per un vertice inedito promosso dal cardinale Gianfranco Ravasi, ministro della Cultura vaticano. Partner del dialogo, che si svolgerà tra il 24 e il 25 marzo, sono l’Unesco, la Sorbona, l’Institut de France, il “parlamento dei sapienti” che riunisce le cinque grandi accademie francesi. È una pagina nuova nella storia della Chiesa, il tentativo di affrontare il Terzo millennio smettendola di considerare atei ed agnostici come nemici o handicappati spirituali.
“Anticlericalismo e Clericalismo” vanno superati, è l’opinione del porporato. Perché “chiudersi nel proprio recinto è una malattia sia per le religioni che per il mondo laico e per una scienza che pretenda di dare le risposte a tutte le domande”. 
L’iniziativa è sorta per impulso di Benedetto XVI, che nel 2009 affermò a Praga che andava stimolato il confronto con i non-credenti e indicò nel Cortile dei Gentili dell’antico Tempio di Gerusalemme lo spazio, dove gli aderenti ad altre religioni potevano accostarsi al Dio Sconosciuto. Sul sagrato di No-tre Dame, dove si terrà uno spettacolo per i giovani, arriverà un videomessaggio del Papa.
Cardinale Ravasi, partite dalla Francia, l’Anticristo dell’Illuminismo.
Sì, ho voluto scegliere Parigi proprio perché è un vessillo di laicità, ma devo dire subito che ho trovato un mondo laico interessato a un confronto vero sui grandi temi. 
Voglia di convertire?
Non è questo lo scopo. Non parliamo di evangelizzazione. L’obiettivo è il dia-logo. Il confronto fra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte dell’esistenza. Quando mi trovo di fronte a un ateo come Nietzsche o al discorso marxista o scientista, io ascolto, rispetto, valuto. Le religioni e i sistemi ideologici sono letture del reale e del cosmo ed è bene che si confrontino.
Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anitra zoppa? 
Il credente e l’ateo sono ciascuno portatori di un messaggio, che è ‘performativo’ poiché coinvolge l’esistenza. Sono contento di avere come interlocutori a Parigi personalità come Julia Kristeva, semiologa e psicanalista   agnostica o il genetista Axel Kahn.
Su cosa ragionare?
All’Unesco si discuterà tra credenti e laici sul ruolo della cultura ma anche delle donne nella società moderna, sull’impegno per la pace   e la ricerca di senso in un mondo che è contemporaneamente secolarizzato e religioso. Alla Sorbona il tema è emblematico: Lumi, religioni, ragione comune. All’Institut de France il dibattito sarà su economia, diritto   , arte.
Sperando di trovare punti di incontro?
Non interessano incontri o scontri generici né di accordarsi su una vaga spiritualità. E non si tratta nemmeno di un asettico convegno di matematica. Ciò che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative, ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali.
Lei ha detto recentemente che la Chiesa deve imparare ad abbattere i propri muri.
Spesso abbiamo un linguaggio eccessivamente connotato ed escludente. Dobbiamo riconoscere che esistono visioni diverse della realtà   e che dal mondo laico ci vengono rivolte domande profonde rispetto alle quali non possiamo essere evasivi.
Quali questioni considera capitali?
Le domande sul senso dell’esistenza, sull’oltre-vita, sulla morte. E ancora, la domanda sulla categoria di verità.
C’è già nel processo a Gesù: cos’è la verità?
È qualcosa che ci precede, che è ‘in sé’? Oppure, come affermano i moderni, è l’elaborazione del soggetto secondo i differenti contesti?
Immagina Parigi come tappa di una ricerca sull’etica universale, quel Weltethos che il teologo Hans Kueng espose a Benedetto XVI a Castegandolfo dopo la sua elezione? 
Penso piuttosto che si possa aprire il discorso, senza sincretismi, su ciò che significa Natura e legge naturale.
Vale la pena di indagare sulle radici ultime, che precedono le ragioni delle religioni e delle ideologie. Porre a confronto le differenti concezioni di essere ed esistere significa mettersi autenticamente a ricercare, senza pretendere di sapere a priori.
Troppe volte si è diffusa la sensazione che con l’arrivo del pensiero scientifico moderno sia stato segnato un anno zero, che annulli le elaborazioni della cultura precedente, specie quella greca e cristiana.
Invece?
Trovo tanti scienziati aperti a riflettere sulle categorie filosofiche dell’esistenza.
C’è un tema su cui si dovrebbe riflettere di più  nella civiltà contemporanea?
La potenza del male. Bisogna esserne consapevoli. Gli atteggiamenti susseguenti possono essere diversi. Per Albert Camus, nell’assenza di Dio, la risposta finale è il suicidio. Per George Berna-nos, al di là di tutte le difficoltà e fragilità, la presenza divina non abbandona mai l’umano.
La Chiesa è pronta a fare i conti con la decristianizzazione in atto nel continente europeo?
Le categorie statistiche sono insufficienti per misurare il reale. Serve un metodo qualitativo per misurare dall’interno i comportamenti sociali e personali. Harvey Cox, che aveva scritto la ‘Città secolare’, ora sostiene di essersi sbagliato. Assistiamo ad un ritorno del Sacro e a una nostalgia del Religioso, che però non trova una risposta nel istituzioni religiose. Così si manifesta in varie espressioni: movimenti, New Age, devozionalismo,   spiritualismo.
Qual via d’uscita propone?
Il cristianesimo deve tornare alle sue grandi risposte. Riuscendo a guarire il palato della società, deformato da una secolarizzazione che cerca spiritualità a basso profilo.
Non pensa che vi sia nella Chiesa ancora troppa paura della modernità?
Io nutro rispetto per la modernità, ma rivendico la legittimità di criticare una modernità superficiale, inodore, incolore, nemmeno immorale bensì a-morale. Come dice Goethe nel Faust: abbiamo dimenticato il Grande Maligno, sono rimasti i Piccoli Mascalzoni.

il Fatto 20.3.11
Dio, le mazzette e il dolore dei matti
di Riccardo Iacona


Gianni Prosperini, l’ex assessore ai Giovani e allo Sport della Giunta guidata da Roberto Formigoni, ha patteggiato una pena di 3 anni e 5 mesi per aver commesso il reato di corruzione e turbativa d’asta. In pratica si sarebbe messo in tasca una mazzetta di 430 mila euro, tutto estero su estero. Tutto dimostrato e provato: ci sono le carte, le prove dei passaggi dei soldi. Ma a Presadiretta Prosperini dichiara che lui ha patteggiato perché “quando sei dentro sei in una condizione di debolezza e non ti puoi difendere”. Insomma, bisognava uscire di prigione ad ogni costo! Angelo Graci, invece, sindaco di Licata, comune della provincia di Agrigento è indagato per corruzione perché avrebbe preso una tangente per autorizzare uno spettacolo musicale per la festa del Patrono. E per questo è stato addirittura messo agli arresti domiciliari ed esiliato per un anno fuori dal comune di Licata, nella sua casa ad Agrigento. Nel frattempo si è dimesso tutto il consiglio comunale. Eppure il sindaco non vuole mollare, contro tutto e contro tutti. Cambia assessori ogni tre mesi e continua a governare, come se non fosse successo nulla. “Dio è con me...” , dichiara ai microfoni di Presadiretta. Poi ci sono i tre ispettori della Asl che in provincia di Caserta, in cambio di mazzette non effettuavano i controlli sulla sicurezza del lavoro in cantieri e aziende della zona. Tra questi anche la Dsm Capua Spa, dove l’11 settembre scorso sono morti dentro una cisterna tre operai. E sentirete stasera le drammatiche e intense parole delle figlie di uno dei tre operai morti, Giuseppe Cecere. E poi Domenico Iannacone e Danilo Procaccianti hanno risalito la Penisola e scoperto la corruzione anche nella civilissima Parma e nel cuore del nord-est. Insomma, quello di stasera è il racconto di una malattia che si allarga, solo l’anno scorso, secondo la Corte dei conti, i casi di corruzione sono aumentati del 30 per cento, di una malattia che ci corrompe tutti, ci ruba soldi e futuro. Ma quella di stasera è una puntata speciale e per questo durerà fino a mezzanotte. Abbiamo preso questo tempo in più per farvi vedere per la prima volta come sono fatti gli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. La Commissione di inchiesta del Senato, grazie ai suoi poteri, è riuscita ad entrare senza preavviso in tutti gli Opg, portandosi una telecamera. Sono immagini mai viste, terribili. Descrivono luoghi di tortura, dove la gente vive dentro celle sporche, su letti lerci, dove si pratica la contenzione e si fa un abuso di psicofarmaci. In studio avremo il presidente della commissione Ignazio Marino che ci racconterà quello che ha visto e quello che si deve fare per chiudere definitivamente questi lager di Stato. Questa è anche l’ultima puntata di questa serie di Presadiretta che tornerà a settembre.

Corriere della Sera 20.3.11
Oggi si vota in Sassonia
L’«annus horribilis» di Frau Merkel
di Danilo Taino


Ogni giorno un nuovo test. Rischia di diventare un annus horribilis il 2011 di Angela Merkel. La cancelliera, sulle cui spalle stanno non solo la Germania ma anche la soluzione della crisi del debito in Europa, domani affronterà — con il suo partito, la Cdu — le elezioni per il Land della Sassonia-Anhalt. In partenza non era un appuntamento politicamente sensibile. Il guaio è che Frau Merkel ci arriva scossa. Questa settimana, in seguito all’emergenza atomica in Giappone, ha bloccato per tre mesi i piani di sviluppo delle centrali nucleari e ha fatto chiudere sette reattori sui 17 in attività. Ma metà dei tedeschi ritiene si tratti di una mossa non credibile, dal momento che la cancelliera-scienziata è una nota sostenitrice dell’energia nucleare. Poi, ha scelto di fare astenere la Germania nel voto che al Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha deciso la no-fly zone sulla Libia: al fianco di Russia e Cina. Ma la scelta sta provocando enormi critiche. In questa situazione, le elezioni nella Sassonia-Anhalt, un Land dell’Est, sono diventate un test politico. Se la Cdu riuscirà a confermare l’attuale maggioranza che guida — una Grande Coalizione con i socialdemocratici della Spd — bene. Ma se domani sera dovessero esserci i numeri per un governo tra la Spd e la Linke, la sinistra estrema, per la signora Merkel si tratterebbe di una sconfitta seria, soprattutto in vista di altre elezioni locali, tra sette giorni, nell’importantissimo Land del Baden-Württemberg, dal 1953 controllato dai cristiano-democratici ma oggi, secondo i sondaggi, in bilico. È che dall’inizio dell’anno la cancelliera passa da una crisi all’altra. A parte nucleare e Libia, c’è stato il ritiro della candidatura del banchiere centrale Axel Weber, sul quale Frau Merkel puntava molto, dalla corsa per la presidenza della Banca centrale europea; ci sono state le dimissioni per plagio del ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg; è arrivata la sonora sconfitta alle elezioni ad Amburgo. La signora Merkel continua a essere insostituibile nella politica tedesca: stress del genere possono però logorare anche le cancelliere d’acciaio.

l’Unità 20.3.11
Hina. Questa è la mia vita Storia di una figlia ribelle di Giommaria Monti e Marco Ventura pagine 304, euro 16,00 Piemme
Hina uccisa perché libera
di Flore Murard-Yovanovitch


È sepolta a Brescia, davanti alla pizzeria dove cercava di diventare libera e indipendente, la giovane pachistana Hina. Sgozzata dal padre a Sarezzo il 12 agosto del 2006, a colpi di 20 coltellate, perché desiderava vivere la propria libertà come voleva; seppellita una prima volta nella buca del giardino di casa, cosi lui l’avrebbe avuta sempre per sé, anche da morta.
Hina, questa è la mia vita è il racconto irrealmente vero, ad opera di due cronisti di razza, Giommaria Monti e Marco Ventura, dell’efferato omicidio che per mesi è stato la «prima pagina» dei media ed è diventato emblematico del «femminicidio» in Italia. Ricostruita senza infarciture né pietismi dal diario della ventenne, dalle pagine processuali e da decine di testimonianze e interviste: la vita di Hina, che voleva volare come farfalla. Portare i jeans e le magliette, ballare come le coetanee bresciane, amare chi le pareva e studiare. Costruirsi una propria identità.
A 17 anni, Hina si ribella al matrimonio combinato con un cugino mai visto, rifiuta le asfissianti norme di un Paese che non sente più suo: «sono musulmana ma non sono più pachistana, non voglio più esserlo. Non voglio neppure essere cristiana, sono italiana e basta». Ma la comunità di origine la addita e la rinchiude nel velenoso cerchio di pettegolezzi e rimproveri al padre, come una di «facili costumi» con «l’ombelico in vista», scavando piano il terreno del dramma. Un dramma dai risvolti bui e complicati. Consumato nel silenzio e la complicità torbida degli altri membri del clan, zii e cognati, tutti d’accordo che «questa» li svergognava; e che se non avesse accettato quell’estate stessa il ritorno in Pakistan, o di farsi «domare», si sarebbe cercata un'altra soluzione... premeditata. Neppure gli affetti e conoscenze del mondo intorno, i vicini, i premurosi carabinieri, i servizi sociali (forse fu sbagliata la scelta della «comunità di recupero», perché lei cercava una vita tutta sua), furono da riparo. Fragili tasselli nella spirale verso la tragedia finale. Persino Beppe Tempini, il suo fidanzato, presentiva che la morte della «sua bambola» era avvenuta per mano del pater familias e che lei giaceva nel giardino di casa. Hina stessa annotava nel suo diario: «Ho paura del papà, qualcosa un giorno pure me lo farà, ma io non torno indietro». Pure la madre Bushra, ambivalente e sottomessa, si era sognata il dramma. Come se la fine fosse stata da sempre, nei meandri dell’inconscio, «intuita» o saputa.
I media, in coro e troppo presto, accreditarono l’eccitante versione dell’«esecuzione islamica», dello «sgozzamento rituale e religioso». Dietro il motivo del delitto, invece, non c’era né Corano, né soltanto un folle «onore» da salvare. Ma pazza e assoluta violenza patriarcale, quella che colpisce ancora centinaia di donne nel mondo e in Italia dove, dopo Hina, ci fu ancora Sanaa e le altre, uccise da mariti, fratelli ed ex fidanzati tra le mura domestiche.
Da questo importante libro-inchiesta spuntano anche nuovi particolari: i ripetuti abusi (addirittura a sfondo sessuale, come Hina aveva denunciato prima di ritrattare) di un padre-padrone che considerava la figlia una sua esclusiva proprietà: la sua cosa. Ben poco c’entra l’origine «etnica» o il «fondamentalismo islamico», come si è troppo detto in un dibattito politico pronto sempre a sfociare in vere campagne sicuritarie per la «scarsa integrazione» di queste comunità chiuse. Il problema semmai è la universale malattia millenaria di un patriarcato che, sotto ogni cielo, e alleandosi con la religione di turno, esercita la sua violenza sulla donna libera. E la «annulla», fino a farla «sparire». In una buca.

Corriere della Sera 20.3.11
La storia di Elsa
Lontana dalla maternità, creò la vita nei romanzi Al suo addio Moravia venne con un’altra donna
di Livio Garzanti


Elsa Morante, la maggiore scrittrice del nostro Novecento, viveva nell’incanto della realtà che portava in sé, e dava una luce di magia alla sua scrittura. Creava nei personaggi la ricchezza di una profonda, dolcissima comprensione femminile. Lei, lontana da ogni maternità, creò Useppe nella Storia, forse perché la mancanza di ciò che non si è avuto fa comprendere il vero di quanto l’esperienza non ci ha dato nell’incontro con la realtà. Ricordo l’amore, quasi di rabbia, di mia madre per me; non riusciva a perdersi nella meraviglia dell’immaginario perché c’ero io, l’oggetto, ed ero ancora io a non lasciarle libera la visione del sogno. Elsa, con Useppe, come in una sorta di visione materna giunse alla conoscenza di quella dolce e tenera carnalità infantile che trascende i limiti dell’esperienza diretta del vivo. Certo fu povero il matrimonio della giovane Morante con Moravia, sempre attento, con la sua mente fredda e senza trascendenze, nel guardare le cose della vita. Elsa, come Alberto, possedeva un’intelligenza con sale ebraico, ma incarnata in una donna del nostro Sud, dove i sogni portano con sé le cose. La sua presenza fisica sembrava non volersi definire nel ricordo di un corpo morbido, infantile. In uno dei nostri primi incontri a Roma, a un tavolino di piazza del Popolo, comparve con lei in attesa, timida, piccola e magra, una donnina che Elsa mi presentò con una brevissima frase affettuosa: «È una lesbica» . Più volte mi chiesi cosa vedesse nell’omosessualità, o se la sentisse con tenerezza materna. Aveva la sapienza dei «semplici» che vivono nella loro verità lontana, in quella dimensione dove anche il suicidio entra nella favola del corpo che si libera da se stesso. Lo aveva tentato, ma riuscirono a destarla quando già si credeva tra le ombre. Era il tempo felice dei barbiturici. «Sei il solo che è venuto» , mi salutò non appena il suo occhio incerto mi riconobbe in fondo alla stanza della piccola clinica romana. Era la sua voce di protesta che ben conoscevo, asprigna, un po’ gracidante: «Non viene mai nessuno» . Era il lamento per il silenzio delle amicizie di un carattere solitario. Era arrabbiata e rattristata perché Moravia aveva venduto— disse— «la mia macchina» . Non potevo nemmeno immaginare che Elsa guidasse. Due grandi sacche di orina giallo rossicce pendevano ai due lati del letto, per l’ultimo viaggio. Le sue parole si fecero rade, lo sguardo si allontanava da me e la vedevo sorridere di un sorriso gentile, quasi scherzoso. Non mi fu immediato capire a chi si volgesse. Non l’avevo quasi notata all’arrivo, piccola, attaccata alla spalliera al fondo del letto. Era quell’antica donnetta di casa che aveva tratto Elsa dal sonno quando, già tra le ombre, vedeva la quiete della morte. Uno scherzo, un sortilegio. Così, in silenzio, comunicavano tra loro. Io ero in visita e presto le lasciai sole. Tornai il giorno dopo, la trovai sulla sedia a rotelle. Scese con me nel piccolo giardino della clinica a prendere fiato, a fissare il sole giallo dell’autunno come ultima stagione di vita. Per i funerali, alla chiesa di piazza del Popolo, c’erano meno di venti persone. Ultimo, sbarcò da un’automobile Moravia, elegante, accompagnato dalla nuova giovanissima Carmen Llera. Un tic nervoso gli scuoteva le spalle in controcampo con la sua zoppia. ©

Corriere della Sera 20.3.11
Sorridere è un bene. Anche quando è ipocrita o forzato
di Gillo Dorfles


A ccade spesso— non sempre— che, a un nostro sorriso nel chiedere un favore, nel domandare la strada, ci si veda rispondere con un analogo sorriso. Anzi— senza troppa malignità— questa reciprocità di atteggiamenti, e forse anche di sentimenti, è alla base di tutta la nostra vita di relazione. Non solo ma, se non esageriamo, è il nocciolo di tutta la nostra vita comunitaria ed è, addirittura, il primo embrione di quel do ut des che costituisce il piedestallo dei nostri rapporti interumani (senza giungere a sostenere che è anche — in senso peggiorativo — il principio base d’un rapporto «mafioso» : «Ti faccio un piacere perché tu faccia altrettanto nei miei riguardi!» ). Naturalmente, senza volere approfondire il problema, ahimè quanto più serio, della mafia, non c’è dubbio che — al di là del vero e proprio atteggiamento mafioso — esiste una «Stimmung» (un’atmosfera patetica) che entra in gioco anche senza nessuna malignità o ritorsione, soltanto come aspettativa di un modo di rispondere del prossimo secondo una istintiva sensazione di «spettanza» circa la restituzione d’un favore e persino d’un sorriso che si rivela anche nelle più futili situazioni, ma che tuttavia può giungere all’esplodere di una totale incomprensione e di offensa, solo per il non aver rispettato la reciprocità del comportamento. Ma anche a prescindere da questa patologica suscettibilità nei propri rapporti, mi sembra davvero decisivo sottolineare il fatto che un simile scambio di atteggiamenti patetici avvenga più spesso di quanto non si pensi, per un innato istinto. È ovvio — si dirà a questo punto — si tratta dei soliti «neuroni specchio» ; ossia di quei neuroni che vengono attivati alla vista d’una azione da parte del prossimo e che sono indotti a copiarla proprio in seguito all’attivazione di quella area corticale sede di queste strutture neuronali, messe in luce come è noto (e come ebbi già a ricordare su queste colonne) da parte di una prestigiosa équipe di neuroscienziati pavesi. Ebbene; è forse un po’ triste riflettere sul fatto che— se non fosse per merito di questo circuito neuronale imitativo — non avremmo la soddisfazione di veder aleggiare, sul volto del nostro interlocutore, quel benevolo sorriso che corrisponde appunto e imita istintivamente quello stesso da noi messo in atto per invogliare a rispondere a una nostra richiesta o comunque a trattarci benevolmente. La maggiore o minore cordialità e affabilità che riscontriamo nel prossimo è uno dei sintomi più indicativi circa i nostri rapporti con lo stesso e anche del modo per giudicarlo tanto più se si tratta di un «forestiero» e non di un connazionale. Questo fatto, tra l’altro, spiega molti dei nostri giudizi, spesso a vanvera, a proposito di popolazioni straniere solo in base a questi episodi di mancata reciprocità mimica. E queste situazioni tendono ancora una volta a farci riflettere su quanto spesso il nostro comportamento venga indirizzato in maniera sbagliata o insufficientemente controllata nel nostro approccio col prossimo. Molti degli equivoci nelle interferenze tra vecchi e giovani, tra datori di lavoro e impiegati, ma anche tra familiari o fidanzati... sono viziati da una insufficiente «consapevolezza» del proprio comportamento di fronte all’Altro: un comportamento che non sempre dovrà essere spontaneo e automatico; quanti, dei sorrisi che abbiamo suscitato nel prossimo (in seguito ai nostri sorrisi) erano genuini? E quante altre volte, per contro, non ci siamo resi conto della benevolenza altrui solo perché il nostro interlocutore non atteggiava al sorriso il suo volto? In definitiva: non fidiamoci troppo dei neuroni specchio (anche se, per dargli più peso, li chiamiamo «Spiegelneuronen» ) e delle loro azioni e reazioni; ma invece sforziamoci, non sempre ma alle volte, di sorridere al nostro prossimo anche se non ne abbiamo voglia. Triste doverlo ammettere: ma credo che molte delle persone più amate e vezzeggiate, lo devono ai loro — più o meno— falsi sorrisi.

La Stampa 20.3.11
“Una targa alla Ferida diva del Ventennio” E Milano si spacca
Un quartiere vuole ricordare l’attrice fucilata nel ’45
di Paolo Colonnello


Fu giustiziata dai partigiani perché considerata amica dei torturatori nazifascisti

Lei era bella, prosperosa, di una bravura istintiva che l’aveva portata a diventare una delle attrici più note del Ventennio, interpretando pellicole a fianco di Amedeo Nazzari e riscuotendo un successo che superò anche quello delle dive dell’epoca, la Calamai, la Durante, la Valli. Luisa Ferida però passò dalla leggerezza sbarazzina dei «telefoni bianchi» alla tragedia del sangue di Salò, perdendosi negli orrori del crepuscolo fascista e dei torturatori della banda Koch. E quando nell’aprile del 1945 si regolarono i conti, l’attrice, appena trentenne, dopo qualche giorno di prigionia e un processo sommario, venne scaricata da un camion davanti ai mitra dei partigiani della Brigata Pasubio in via Poliziano e uccisa, incinta di poche settimane.
Ora di lei si torna a parlare, in clima preelettorale, perché il Consiglio di Zona 8, a maggioranza Pdl, ha votato una mozione per dedicarle una targa: diva del Ventennio fucilata dai partigiani all’indomani della Liberazione. Un po’ troppo, forse, per un personaggio dai contorni ambigui come la Ferida, la cui storia, segnata dal rapporto con il suo compagno e collega Osvaldo Valenti, raccontata al cinema qualche anno fa da un film di Marco Tullio Giordana, meriterebbe un approfondimento se non altro per l’attività comprovata di collaborazionismo.
Subito sono insorte le sinistre e le associazioni dei partigiani: «Le targhe si dedicano a chi è stato un esempio positivo e Luisa Ferida frequentò sempre Villa Triste, la villa delle torture, pur sapendo tutto quello che vi avveniva», osserva Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani. Si dice «sconcertato» anche il candidato sindaco della sinistra, Giuliano Pisapia: «La targa in memoria di Luisa Ferida è un’offesa alla città di Milano, Medaglia d’oro della Resistenza. La delibera di centrodestra della Zona 8 è uno sfregio, un’insopportabile provocazione, l’ultimo di una serie di tentativi di ribaltare la storia. Milano non merita questa vergogna. Chiedo al sindaco Moratti di intervenire immediatamente bloccando la delibera».
Ma il sindaco prende tempo: «Quando si ha la responsabilità di essere sindaco le decisioni vanno sempre molto ponderate, quindi stiamo valutando e vedrò tutti i dettagli con accuratezza». I voti in questo periodo sono importanti, anche quelli di chi vorrebbe riscrivere la storia. Quando nel settembre del 1943 lasciò Roma per Venezia, Luisa Ferida lo fece soprattutto per amore, per seguire il destino del suo uomo, Osvaldo Valenti. Che aveva cominciato a frequentare i personaggi più biechi della Repubblica di Salò, entrando nella Decima Mas e diventando amico del criminale e torturatore Pietro Koch, l’aguzzino di «Villa Triste», come i milanesi avevano soprannominato Villa Fossati, un tempo sede di riunioni patriottiche e ora, nella plumbea stagione del crepuscolo fascista, attrezzata a luogo di sadismo, con cinque stanze di tortura.
Anche la Ferida, diventata cocainomane come il suo uomo, si vedeva ogni tanto varcare la soglia di Villa Triste. Nacque così la leggenda che la voleva ballare nuda davanti ai torturati sanguinanti, per eccitarli e spingerli a chissà quali confessioni. Ma non era vero, come accertò dopo la guerra un’inchiesta dei carabinieri per rispondere alla richiesta della madre di lei di percepire una pensione. La fama di «coppia maledetta» però, ormai li stava accompagnando, e non del tutto a torto vista la stretta amicizia con il «dottor Koch». I due attori vennero giustiziati su ordine, si disse allora, di Sandro Pertini. Ma anche per questa decisione non venne mai trovata alcuna prova.

Corriere della Sera 20.3.11
Ho giustiziato Eichmann. Mai più
Non volevo. Il suo sangue mi schizzò addosso: ho avuto incubi per un anno Sono diventato un religioso, oggi macello polli e pecore secondo la tradizione
di Francesco Battistini


Come vi capivate, Shalom? «Con le mani. Linguaggio del corpo. Lui non parlava yemenita e io non sapevo il tedesco. Allora facevamo così — gesticola nell’aria —, perché non avevamo altro modo. Alla fine, lui capiva me e io capivo lui» . E com’è che toccò proprio a te? «Sono yemenita, la Shoah è una cosa soprattutto degli ebrei europei: all’inizio non sapevo nemmeno chi fosse, Eichmann. L’avevo scoperto solo dopo. Un giorno il comandante venne da me, si chiamava Merhavi, e mi chiese: "Shalom, ti va di schiacciare il bottone"? È il più grande dei comandamenti: "Cancella la memoria di Amalec", di chi vuole sterminare gli ebrei... Però io dissi che non volevo. C’era qualcuno che se la sentiva, io ero l’unico che non voleva. Tirarono a sorte. E il comandante mi disse: "È un ordine. La sorte ha detto che tocca a te. Lo farai tu"» . La macelleria del boia è uno sterrato sotto l’ombra di due eucalipti e d’una lamiera ondulata, periferia di Holon, la città dei Samaritani. Un caldo pomeriggio, ci sono le donne in fila, i polli da strozzare, due occhi di capra su un tavolo e un amico che scherza: «Sembrano gli occhi di Eichmann, eh?...» . La polvere, i gatti, un gancio per appendere e dissanguare. A Shalom Nagar, certi animali viene più facile scuoiarli: «Le capre sono sfacciate. Le pecore, no: loro sono innocenti...» . Distante, discreta, una macchina da presa e una piccola troupe: chi viene qui sa di non trovare solo un religioso yemenita che macella carne come kasherut comanda. Ogni tanto, qualche padre passa in auto e indica dal finestrino: guardate quel vecchio, ragazzi, quel piccoletto col capo coperto e i cernecchi bianchi, è il secondino che ha impiccato Adolf Eichmann e vendicato milioni d’ebrei. Il boia del Boia è stato zitto quasi cinquant’anni: «Mi avevano vietato di raccontare questo segreto, non lo sapeva neanche mia moglie» . Ora ne hanno fatto il protagonista d’un documentario di 62 minuti, The Hangman. L’hanno premiato al Festival di Haifa, magari andrà a quello di Locarno. Lui non è abituato a tanta curiosità: «Alla prima venivano a stringermi la mano, a salutarmi, ero un po’ disorientato. Non immagino che cosa sarà dopo l’ 11 aprile...» . L’ 11 aprile 1961, a Gerusalemme, cominciò il processo Eichmann: la tv israeliana, il cinquantenario, lo celebrerà trasmettendo la storia di Shalom. «La sua vita m’è sembrata subito simbolica — racconta Netalie Braun, 33 anni, regista telavivi che ha filmato il boia per trenta mesi, l’unica che può girargli le domande dei giornalisti —. Voleva raccontarsi da tempo, ma all’inizio aveva paura di qualche vendetta neonazista. Siamo diventati amici. Quest’uomo è un Forrest Gump: uno che per caso s’è trovato in una storia più grande di lui» . La banalità del boia non si trova nei reportage che Hannah Arendt scrisse al processo. E di lui non s’è granché parlato al convegno che Gerusalemme ha appena dedicato al «punto di svolta» , come lo chiama Tom Segev, l’evento che mezzo secolo fa cambiò per sempre Israele: «Prima di allora — dice lo storico — la Shoah era un tabù. Commemorazioni pubbliche, certo, ma un dolore vissuto in privato. Il processo fu una terapia, la catarsi che trasformò tanti traumi privati in un trauma collettivo. L’Olocausto diventò un elemento fondante del nuovo Stato e dell’identità israeliana. Questo non significa che la terapia servì a chiarire tutto. Su Eichmann e su altri criminali nazisti, ci sono migliaia di documenti che la Germania non si decide a rendere noti. Perché? Forse per coprire altre responsabilità. Potremmo fare una domanda simile al nostro Mossad: tutti sanno come fu catturato Eichmann in Argentina, ma che sappiamo dei fallimenti? O del perché non s’è mai riusciti a processare uno come Mengele?» . Nella prigione di Ramla, dove per sei mesi Shalom fece la guardia al general manager della soluzione finale, domande così non si facevano. «Lui era il male racconta il boia— ma si sa com’erano i tedeschi. Dicevano che non ci sarebbero stati arabi o ebrei nel mondo, i bastardi e poi si mostravano così puri, così santi nelle loro azioni quotidiane... Eichmann leggeva tanto, mi diceva sempre "gracias"in spagnolo. L’accompagnavo al bagno e lui stava attento a non farmi sentire la puzza, a lavarsi le mani. Non avessi saputo chi era, l’avrei preso per un santo!» . Uno scrupoloso senza scrupoli, l’ha descritto la studiosa tedesca Irmtrud Wojak. «A sorvegliarlo eravamo in 22, divisi in cinque stanze. Yemeniti, marocchini. C’erano anche tre ebrei europei, ma a loro non era concesso d’entrare. Io stavo nella sua cella, assaggiavo i suoi cibi. La paura era che l’avvelenassero. "Perché devo assaggiare io?". Chiedevo al comandante. Rideva: "Se perdiamo uno yemenita non è una gran perdita. Ma se perdiamo lui... C’è un processo internazionale". Ci stavo io anche perché ho sempre avuto compassione dei carcerati. Non ne ho mai picchiato uno. Si sa: se ti prendi cura di qualcuno, alla fine un po’ t’affezioni» . La pietà della vittima per il carnefice, il giorno in cui schiacciò il bottone, divenne terrore. «Non avevo mai visto un uomo impiccato. Avevo 26 anni, che ne sapevo? Ero davanti a lui. Ho visto la sua faccia bianca, gli occhi fuori. Grandi, fissi, come se mi guardasse. Anche la lingua era fuori, insanguinata. Chiesi d’allontanarmi, ma il comandante disse no: "Non è un gioco, tiralo su e levagli il cappio". Tremavo. Non sapevo che avesse aria nello stomaco, che potesse parlare ancora: è come con una radio, quando le stacchi la spina e per qualche secondo continua a funzionare... Eichmann era impiccato eppure biascicava ancora parole! D’improvviso, l’aria dello stomaco gli uscì col sangue. Mi soffiò in faccia. Pensai: "Oh no, sta per mangiarmi!". Quando lo portammo alla fornace, per bruciarlo e cospargere le ceneri in mare, stavo male. Mi fecero accompagnare a casa. Mia moglie mi vide, ero tutto sporco di sangue. "Ma dove sei stato?". Mi chiese. Lo sentirai fra qualche ora al notiziario...» . Il punto di svolta d’Israele fu il non ritorno per Shalom. «Ho avuto un anno d’incubi: mi ero cosparso del suo sangue, questo è il punto. È da lì che sono diventato religioso. E ho cominciato a sentirmi un po’ meglio» . Il boia ha avuto altri lutti, gli è morto un figlio di cancro. L’hanno mandato a fare la guardia nella prigione di Hebron e pure lì, Forrest Gump, è capitato nel mezzo della strage di Baruch Goldstein, il colono ebreo che negli anni 90 massacrò decine di palestinesi mentre pregavano. «Fu un’altra prova dura. Non me la sentii di stare in un posto del genere. Vedevo le guardie che la notte picchiavano i detenuti: come siamo diventati crudeli, anche noialtri. Io avevo pietà dei miei carcerati, anche se erano terroristi. Gli arabi sono stati creati pure loro a somiglianza di Dio. Sono un popolo, hanno un’anima. Proprio come noi. E la legge ebraica dice che non devi uccidere. Non dice: non devi uccidere Mosè o Maometto. Dice che non devi uccidere. E basta» . Per la regista Netalie, il macellaio di Holon è «l’esempio di che cos’è oggi il buon ebraismo: Israele ha bisogno di questo tipo di persone» . Quando va in sinagoga, in questi giorni di Purim, Shalom ascolta il Libro di Ester. C’è la storia di Mordechai, il carnefice che alla fine diventa vittima: «Se un giorno mi chiamano e mi dicono che hanno appena condannato a morte Demjanjuk, quell’altro nazista che stanno processando, la risposta ce l’ho già: ne ho avuto abbastanza di Eichmann, grazie. Scordatevi di Demjanjuk. E dime. Questa cosa, io non la faccio più» . (Ha collaborato Ariela Piattelli)

sabato 19 marzo 2011

l’Unità 19.3.11
Col cuore gonfio
di Concita De Gregorio


Da 66 anni a questa parte non siamo mai stati così vicini dall’essere l’Italia un paese in guerra. Manca un passo, per giunta non nostro. Dipenderà, nelle prossime ore, dalle decisioni dell’America, della Francia e dell’Inghilterra, soprattutto dipenderà dagli umori del colonnello Gheddafi ed è questa una certezza che non lascia spazio a molte speranze. Gheddafi è un folle, ha i missili e probabilmente le armi chimiche, sta sotto i nostri piedi, a cento chilometri dalle nostre coste, sull’altra sponda del nostro mare. “Ci aspettano decisioni difficili”, ha detto ieri il presidente Napolitano che sa bene di cosa parla, a differenza della stragrande maggioranza degli italiani di guerre il presidente ne ha già vissuta una. Tutti gli altri, tutti noi, tutti coloro che sono nati dopo gli anni ‘40 non hanno idea. Le guerre, le bombe, i missili, le nubi, i cadaveri ai lati delle strade li abbiamo visti in tv e al cinema in così grande quantità e frequenza, veri o fiction che fossero, da essere convinti di sapere cosa siano. Invece no, non abbiamo idea. Prepariamoci a decisioni difficili dunque, sì, e ad affrontare per quanto ne saremo capaci giorni all’altezza di quelle difficoltà.
Prepariamoci a discutere di nuovo di guerra giusta, speriamo prima di sentirne il sibilo. Non si possono lasciare soli gli eroi del “nuovo risorgimento del mondo arabo”, per usare le parole di Napolitano, certo che no. Non si possono celebrare i nostri ventenni di centocinquant’anni fa e ignorare i loro ventenni oggi.
Questi di cui ci raccontano Umberto de Giovannangeli e da Bengasi Gabriele Del Grande: “Ballano, corrono, cantano e sparano in aria. Sono i ragazzi della rivoluzione. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha appena approvato la risoluzione sulla no fly zone. In strada si sono riversate migliaia di automobili. I ragazzi cantano “Irfaa raskum anta libi”, alza la testa sei un libico. I miliziani di Gheddafi continuano indisturbati a colpire i civili. In piazza ci sono migliaia di persone pigiate una contro l'altra”.
Bisogna stare con loro quali che siano gli interessi economici, militari, strategici delle superpotenze, quali che siano i reali argomenti che muovono gli Usa e la Nato, e tutti sappiamo bene quanti e quali siano, questi argomenti. Quanto specifici possano essere riguardo alla Libia. Difendere la democrazia, ammesso che sia possibile, sta di solito in fondo alla lista. A parole in cima, nella sostanza in fondo. Le guerre, sempre, muovono l’economia di chi le fa. Però certo la lotta al dittatore, il sostegno ai risorgimentali arabi accendono gli animi e le passioni: la ragione, anche. Sono una causa nobile e giusta. Dunque l’Italia è pronta, metterà a disposizioni basi e forze armate. Ha votato, solo la Lega ha fatto ostruzionismo: la seconda occasione persa, in due giorni, di stare dalla parte del Paese.
Resta molto timore del prezzo che noi e solo noi italiani potremmo dover pagare per la rapidità con cui il nostro presidente del Consiglio ora detto “Betty” dalle sue amiche a pagamento sia passato dal baciamano all’elmetto. L’amico Gheddafi, solo oggi riscoperto nemico, potrebbe risentirsene in forma personale: la categoria del tradimento, ai suoi occhi, potrebbe comprendere l’Italia intera. Un motivo in più per andare a questa guerra col cuore gonfio, e per dolerci con noi stessi noi italiani per aver lasciato così a lungo e così disastrosamente le sorti del Paese nelle mani di un venditore di menzogne mascherato da statista.

il Fatto 19.3.11
Con la Libia contro la Libia
di Furio Colombo


Eccoli che arrivano dal Consiglio dei ministri straordinario, La Russa (Difesa) e Frattini (Esteri). Vengono per informare deputati e senatori (in un’aula di Palazzo Madama) sullo stato di guerra che si sta creando con la Libia. Avete letto bene, la Libia, il Paese a cui siamo legati da un trattato fraterno mai denunciato, mai cancellato. Tanto per ricordare che trattato è, all’art. 4, comma 2 recita: “L’Italia non userà né permetterà l’uso del proprio territorio in qualsiasi atto ostile contro la Libia”. Bene, ora La Russa, il ministro della Difesa, viene a dire a deputati e senatori di una parte e dell’altra che le basi italiane sono a disposizione della Nato. Che ne è stato del Trattato di smodata amicizia con la “Grande Jamahiria popolare e socialista” (così è intestato il trattato)? Non ci crederete, ma solo Emma Bonino, e chi scrive, hanno voluto saperlo. Per non sbagliare, il ministro degli Esteri Franco Frattini profitta della benevola mancanza di curiosità del resto dell’assemblea, senza distinzione di parte.
E salta la risposta. La Russa, bisogna ammetterlo, ha un altro temperamento. È stato colorito, efficace e insistente nel mentire. La domanda era: “Ma come può il governo respingere in mare una nave con 1800 passeggeri, tra cui molte donne e bambini senza alcuna verifica di condizioni e di diritti (per esempio il diritto d’asilo   ) proprio nelle ore in cui l’Onu dà il via libera a un intervento militare che coinvolgerà tutto il Mediterraneo?”. Il ministro La Russa non esita a dire che “dopo avere accertato che venivano dal Marocco, li abbiamo riforniti di carburante e aiutati a tornare in Marocco”. Dunque una gita, di notte, con il mare forza 6. Solo La Padania potrebbe smentirlo: “Roberto Maroni è riuscito a evitare che sbarcassero a   Lampedusa 1800 stranieri della nave marocchina proveniente dalla Libia” (17 marzo). Ecco dunque l’intervento umanitario secondo Maroni: la nave veniva dalla Libia, ed è stata rimandata in Libia dove, se necessario, si può anche bombardare, ma non accogliere esseri umani. Dunque siamo in guerra con la Libia e contro la Libia. Con l’Europa e contro l’Europa. Per salvare gli assediati e per respingerli in mare se riescono a fuggire. Tragici, pericolosi, ridicoli.

il Fatto 19.3.11
Pacifismo di principio, prendere o lasciare? Io lascio
di Paolo Flores d’Arcais


Alla notizia della risoluzione dell’Onu, Bengasi assediata e in preda all’angoscia è esplosa di gioia. Sarebbe davvero assurdo che l’opinione pubblica democratica condannasse ora gli interventi aerei che alla popolazione martoriata suonano come disperata speranza.
Il pacifismo “di principio” è tassativo: mai un aereo, mai una bomba, meno che mai l’invio di un soldato. Il pacifismo “di principio” ha una sua nobiltà, ma chi lo sostiene avrebbe condannato i volontari delle brigate internazionali accorsi in Spagna a difendere la Repubblica contro “los quatros generales”. Il pacifismo “di principio” non condanna semplicemente ogni progetto (quasi sempre insensato, e altrettanto spesso ipocrita e doppio) di “esportare la democrazia”, si priva anche della possibilità di appoggiare la democrazia già esistente dove è minacciata o di sostenere una rivolta che provi ad instaurarla. 
Il pacifismo “di principio” non si presta a discussioni, proprio per il suo carattere assoluto. Prendere o lasciare. Sono per il “lasciare”, perché non ho mai creduto e non credo che la pace possa essere il valore supremo, anche a costo della libertà. Non a caso il tacitiano “hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace” fu – prima del ‘68 - la bandiera di una grande manifestazione per la libertà del Vietnam organizzata in modo autonomo rispetto al Pci. Rivoluzionario o riformista che voglia essere, credo   perciò che un democratico debba prendere posizione rispetto ad ipotesi di interventi armati senza apriorismi universali, analizzando valori e interessi in gioco, ed assumendosi le relative responsabilità.
Perciò: in Libia abbiamo una dittatura di mostruosa ferocia, contro cui si è sollevata gran parte della popolazione, nel clima di rivolte che da un paio di mesi stanno aprendo a prospettive di democrazia inaspettate l’intera Africa del nord. Rivolte con una fortissima componente giovanile, colta, laica, non ancora egemone rispetto alle influenze religiose o al potere organizzato   dei militari, ma che per la prima volta consente di parlare di speranza democratica in senso proprio. L’esito dello scontro in Libia avrà una influenza potente su tutti questi. Nella rivolta libica il peso dei settori del regime che si sono staccati da Gheddafi solo ora è assai forte, ma il carattere popolare dell’insurrezione indubbio. Gheddafi lo ha schiacciato solo con la logica dell’eccidio, con cui sta riconquistando il paese. I governi occidentali hanno colpe tremende, per i decenni e decenni delle sanguinarie dittature che i popoli tunisino, egiziano, libico hanno dovuto subire, colpe che non dovranno essere dimenticate. Con quelle dittature hanno trafficato, ben al di là delle “ragion di Stato” e di approvvigionamento energetico, e pur di trafficare hanno ignobilmente   coperto e “santificato” la quotidianità di tortura e violenza con cui l’oppressione dittatoriale si esercitava. Mai nulla hanno fatto per difendere, e non sia mai sostenere e alimentare   , le forze di un’opposizione laica e riformatrice, insomma occidentale nel miglior senso del termine, che pure esistevano, non solo embrionalmente.
Da ultimo, in Libia sarebbe bastato riconoscere subito come governo legittimo la parte del coordinamento della rivolta di Bengasi più laica e non compro-messa col vecchio regime. Sarebbe bastato bombardare la base aerea da cui Gheddafi si garantiva il controllo del cielo, grazie al quale ha potuto scatenare la sua “revanche” di sangue. Insomma si sarebbe potuto cominciare ad aiutarle appena trovarono l’eroismo della rivolta, quelle forze democratiche abbandonate e neglette per decenni. Si è traccheggiato, perché i motivi del sì o del no occidentale sono di danaro e di potere, non di libertà e democrazia. 
Ora, comunque, sembra che aerei francesi e inglesi, bombardando le basi di Gheddafi (cosa aspettano ancora?), restituiranno alla Libia insorta la speranza della liberazione. Un “vade retro” delle forze democratiche sarebbe campana a morto (e non metaforica) per gli ammutinati contro il Rais. Piuttosto, si impegnino i democratici europei a stringere rapporti con le forze laiche e riformatrici dell’Africa mediterranea, ponendo fine ad un colpevole e spocchioso disinteresse, perché alla caduta dei Mubarak Ben Ali e Gheddafi non seguano altre dittature, a cui gli establishment d’Occidente non farebbero mancare i brindisi.

il
Fatto 19.3.11
Così la comunità internazionale crea Stati figli e figliastri
di Massimo Fini


L’Onu ha autorizzato i raid aerei sulla Libia. Francia e Gran Bretagna sono già pronte a far intervenire i loro caccia perché abbattano quelli di Gheddafi che bombardano i rivoltosi libici, e non è escluso che l'Italia metta a disposizione della Nato le sue basi aeree. Non è una dichiarazione di guerra alla Libia, non sia mai, oggi ci si vergogna di fare la guerra e si preferisce chiamarla "operazione di peace keeping" a difesa dei "diritti umani".
Salta definitivamente il principio internazionale di "non ingerenza militare negli affari interni di uno Stato sovrano" insieme al diritto di Autodeterminazione dei popoli sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti i Paesi del mondo, compresi quelli che stanno per intervenire in Libia. Qui siamo in una situazione diversa dagli interventi in Iraq nel 1990 e nel 2003 e in Afghanistan nel 2001. Nel primo conflitto del Golfo, l'Iraq aveva aggredito il Kuwait, uno   Stato sovrano, sia pur fasullo creato nel 1960, esclusivamente per gli interessi petroliferi degli Stati Uniti. L'intervento quindi era legittimo, anche se il modo con cui fu condotta quella guerra fu bestiale perché gli americani, pur di non affrontare fin da subito, sul terreno, l'imbelle esercito iracheno (che era stato battuto perfino dai curdi, in quel caso Saddam fu salvato dalla Turchia il grande alleato Usa nella regione) e correre il rischio di perdere qualche soldato, bombardarono per tre mesi le principali città irachene facendo 160mila morti civili, fra cui 32.195 bambini (dati del Pentagono). Nel 2003 c'era il pretesto delle "armi di distruzione di massa". Si scoprì poi che queste armi, che Stati Uniti, Urss e Francia gli avevano fornito, Saddam non le aveva più, ma intanto gli americani hanno ridotto l'Iraq a un loro protettorato dove è in corso una feroce guerra civile fra sciiti e sunniti che provoca decine e a volte   centinaia di morti quasi ogni giorno tanto che in Occidente non se ne dà più notizia. In Afghanistan si voleva prendere Bin Laden, ma dopo dieci anni la Nato è ancora lì e occupa quel Paese, avendo provocato, direttamente o indirettamente, 60mila morti civili (e nessun Consiglio di sicurezza si è mai sognato di imporre una "no fly zone" ai caccia americani che, per battere gli insorti, bombardano a tappeto cittadine e villaggi facendo ogni volta decine di vittime civili, come sta facendo Gheddafi in Libia). La situazione è invece identica all'intervento Nato in Serbia dove, all'interno di uno Stato sovrano, c'era un conflitto fra Belgrado e gli indipendentisti albanesi, foraggiati dagli americani, del Kosovo che della Serbia faceva parte.   Noi, che non abbiamo baciato la mano a Gheddafi, che non abbiamo permesso ai suoi cavalli berberi di esibirsi alla caserma Salvo d'Acquisto e al dittatore di volteggiare liberamente per Roma avendo al seguito 500 troie, e che parteggiamo per i rivolto-si di Bengasi, siamo assolutamente contrari a qualsiasi intervento armato in Libia. Per ragioni di principio e perché questi interventi internazionali sono del tutto arbitrari. Dividono gli Stati in figli e figliastri. Nessuno ha mai proposto una "no fly zone" in Cecenia dove le armate russe di Eltsin e dell' "amico Putin" hanno consumato il più grande genocidio dell'era moderna: 250 mila morti su una popolazione di un milione. Nessuno si sogna di intervenire in Tibet (chi si metterebbe mai, oggi, contro la succulenta Cina?) o in Birmania a favore dei Karen. E così via. In ogni caso bisogna essere consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni. Se l'Italia presterà le proprie basi   per l'intervento militare in Libia non potrà poi mettersi a "chiagne" se Gheddafi dovesse bombardare Brindisi, Bari, Sigonella, Aviano o una qualsiasi delle nostre città. Gli abbiamo, di fatto, dichiarato guerra, è legittimato a renderci la pariglia.

l’Unità 19.3.11
«Siamo i più esposti
Lo scudo Nato è una garanzia»
di U. D. G.


Massimo D’Alema: la risoluzione Onu è un po’ tardiva ma ha un consenso largo ed esprime un dispositivo assai efficace Pierluigi Bersani: ora dimostriamo di essere un Paese serio

Uno scenario» come quello che apre la partecipazione dell'Italia all'intervento internazionale in Libia «comporta problemi per la sicurezza nazionale perché siamo una delle aree immediatamente esposte ad azioni ritorsive». Massimo D'Alema lo rimarca nel corso della riunione delle commissioni Esteri e Difesa al Senato. «Dobbiamo chiedere precisa l’ex titolare della Farnesina e attuale presidente del Copasir che si attivi un dispositivo di protezione della Nato, una rete di sicurezza indispensabile, perché va bene la coalizione dei “willings'”, ma la Nato è la Nato.
MOMENTO DRAMMATICO
L’aria che si respira a Palazzo Madama è quella di un momento drammatico, da condividere con un atteggiamento responsabile, bipartisan.
Senza protagonismi o fughe in avanti. «Condivido le preoccupazioni dell'onorevole D'Alema sull'attivazione della rete di protezione della Nato» nei confronti dell'Italia, afferma nella stessa riunione il ministro degli Esteri, Franco Frattini. «Esprimo il mio apprezzamento sulla risoluzione dell'Onu che interviene, anche se forse dopo un pò troppo tempo rispetto all'inizio delle ostilità, ma tuttavia con un consenso largo e significativo e con un dispositivo assai efficace e robusto», aveva rilevato nel suo intervento D’Alema, sottolineando che «è evidente che nessuna iniziativa di questo tipo si può svolgere senza il consenso dell'Italia, consenso che è necessario». «Anche per questo è molto importante dire subito sì, autorizzando il governo a prendere tutte le misure possibili» conclude l'ex ministro degli Esteri. Condivisione senza inutili «fughe in avanti». È un concetto rilanciato da Pierluigi Bersani. La questione della Libia è «una cosa seria» e non deve diventare un tema come quello «della Nazionale italiana di calcio, in cui ognuno fa lo stratega»: questo è l'invito che il segretario del Pd rivolge al Governo. «Lo dico in modo preventivo avendo già avuto qualche esperienza: non mettiamoci nelle condizioni avverte Bersani per cui si pensi di essere davanti ad un tema come la Nazionale di calcio, in cui ognuno fa lo stratega. Questa è una cosa seria, la conduciamo seriamente da Paese serio. Questo è l'invito che faccio al Governo». È nelle Commissioni parlamentari, nelle «sedi giuste» che si deve interpretare «la decisione del Consiglio di sicurezza dell' Onu conclude il leader del Pd per evitare che in quel Paese continuino le stragi dei civili e venga soffocato il movimento democratico». Un richiamo al senso di responsabilità che accompagna quanto annunciato in precedenza da Bersani: «Nei limiti della risoluzione dell'Onu siamo pronti a sostenere il ruolo attivo dell'Italia».

l’Unità 19.3.11
Il canto dei ragazzi a Bengasi in festa: alza la testa, sei un libico
La città spera e non dimentica. Appesi sotto al tribunale i ritratti dei martiri della rivoluzione del 17 febbraio: uccisi dal regime, sono i nuovi eroi
di Gabriele Del Grande


Ballano, corrono, cantano e sparano in aria. Sono i ragazzi della rivoluzione di Bengasi. Che questa volta festeggiano davvero. È da poco passata la mezzanotte del 17 marzo, e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha appena approvato la risoluzione sulla no fly zone. In strada si sono riversate migliaia di automobili. I clacson suonano all' impazzata, ma a malapena si sentono, coperti dalle continue raffiche di kalashnikov e dai botti dell' artiglieria.
Davanti al tribunale è una ressa. I ragazzi cantano “Irfaa raskum anta libi”, alza la testa sei un libico. La gioventù ha ritrovato l'orgoglio e ha scoperto con il sangue di essere una comunità, con i suoi sogni di libertà e con il suo gusto per la sfida. Anche estrema. Come quella lanciata a rischio della propria vita ai miliziani di Gheddafi, che continuano indisturbati a colpire i civili. In piazza ci sono migliaia di persone pigiate una contro l'altra.
La folla si apre soltanto per lasciare passare la sedia a rotelle di Ali. Ha il volto di un ragazzo adolescente, ma lo sguardo triste nonostante il clima di festa. Davanti a lui i ragazzi della piazza fanno la fila per baciarlo sulla fronte e stringergli la mano. “Coraggio!” gli dicono. Da quando la tv Al Arabiya ha diffuso la sua intervista, Ali è diventato il simbolo vivente delle vittime dell'oppressione di Gheddafi. In questi giorni gli ho chiesto tre volte di raccontarmi la sua storia. Ma ha sempre rifiutato. Dice che gli fa male parlarne, che è un incubo di cui non riesce a liberarsi. Si sveglia ogni mattina che gli manca l'aria, come in quella cella sotto i cadaveri sporchi di sangue. La sua storia corre sulla bocca di tutti. È l'unico superstite del massacro della caserma centrale di Bengasi. Venticinque ragazzi torturati a morte dalle milizie di Gheddafi, il 17 febbraio, dopo la manifestazione contro il regime. Alla fine del massacro, quella notte li scaricarono in mare lungo la costa, pensando che anche lui fosse morto come gli altri. Invece era vivo, è sopravvissuto e ha trovato il coraggio di raccontare. E di dire che quel giorno l'hanno picchiato, frustato e torturato, con continue scariche elettriche alla schiena e sui genitali, così – dicevano – non avrebbe messo al mondo altri bastardi. Scariche che l'hanno completamente paralizzato dalla schiena in giù.
La manifestazione va avanti fino all'alba sotto una leggera pioggia che sembra allentare le tensioni di questi ultimi giorni, con il fronte della guerra sempre più vicino alla città e con i due bombardamenti all' aeroporto. Il giorno dopo, delle sparatorie della notte non rimane traccia, salvo un po' di bossoli sparsi per terra. I volontari hanno ripulito la piazza, le macchine armate sono ferme all'esterno e migliaia di persone formano un quadrato disposte su file ordinate. Guardano la Mecca e alle spalle hanno il mare. È un rito antico quindici secoli. I tappetini a terra, i piedi scalzi e la fronte appoggiata a terra. Pregano dio in un silenzio che dà una carica mistica a quello che sta accadendo. In tutta la piazza non si vedono simboli di partiti o associazioni. Per il semplice fatto che in Libia da 42 anni partiti e associazioni sono vietati. Ci sono soltanto le vecchie bandiere tricolori dell'indipendenza. Sventolano in aria a centinaia, di tutte le dimensioni, cucite a mano nelle sartorie della città.
Posti come quello di Omar Bruim, un signore di 74 anni, di Misratah, che nelle ultime settimane ha fatto le ore piccole davanti alla vecchia e fedele macchina da cucire. Disegna a mano la mezza luna e la stella bianca, poi ritaglia la stoffa, la cuce e vende il tutto a cinque dinari nella sua bottega. A me però la bandiera la regala. Perché non lo fa per i soldi. Come buona parte dei libici, anche lui con Gheddafi ha qualche conto in sospeso. Nello specifico sono i dieci anni in cui non ha potuto vedere il figlio, fuggito in Svizzera nel 1998 per scampare al mandato d'arresto che aveva portato in carcere altri dodici studenti universitari accusati di terrorismo per aver messo in piedi una associazione di beneficenza. Il signor Omar di bandiere riesce a cucirne una ventina al giorno, poi ci sono giorni in cui ne vende di meno e altri in cui ne vende di più. Per esempio oggi che soltanto Hussein Madani ne ha comprate cinque.
Hussein ha 38 anni, la barba lunga e la battuta pronta. Lui in piazza c'è dal primo giorno delle proteste. Anzi c'è dagli anni Novanta. Da quel giugno del 1995 quando lo vennero a prendere a casa le forze di sicurezza di Gheddafi, insieme al fratello Hasan. Li portarono al carcere speciale di Abu Salim, a Tripoli. Una prigione di massima sicurezza, dedicata in quegli anni ai prigionieri accusati di terrorismo islamico. Anche se col senno di poi, è chiaro che i terroristi erano altrove. E indossavano la divisa. Husein quella notte era nella sezione a fianco e certe cose non le ha mai dimenticate. Le grida ad esempio. “Allahu akbar!” Dio è grande. Strillavano come dei pazzi quella notte. Suo fratello e gli altri. Mentre gli scaricavano addosso raffiche di mitra per sedare la rivolta. Le scariche andarono avanti per due ore. Ininterrottamente. Finché non si sentì più volare una mosca. Dicono che la mattina dopo uscirono dal carcere i camion frigorifero gocciolanti di sangue. Milleduecento morti, i cui corpi non sono mai stati ritrovati.
Molti erano di Bengasi. E oggi le loro foto sono appese sotto il tribunale della città insieme ai ritratti dei martiri della rivoluzione del 17 febbraio. Sui muri hanno scritto: “viva i martiri”. È la nuova iconografia della Libia che verrà. La Libia che ha distrutto le immagini del grande capo, e ha già iniziato a celebrare il mito popolare dei propri ragazzi morti per la libertà. Quanti siano nessuno lo sa. In tutto il paese potrebbero già essere un migliaio. Il resto dipende dagli scenari che verranno. Certo c'è la no fly zone e c'è l'annunciato coprifuoco del regime, ma dalle notizie che arrivano coi telefoni satellitari da Misurata e da Hjdabiya, sul fronte si continua a combattere.

l’Unità 19.3.11
Intervista a Hasni Abidi
«Gli insorti hanno già vinto. Il regime non ha futuro»
Secondo l’esperto la resistenza del raìs non sarà piegata facilmente ma il suo isolamento politico lo condanna al tramonto. «Con lui solo la sua tribù, i familiari e i reparti speciali»
di Anna Tito


Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha dato il via libera al blocco dello spazio aereo libico. «Peccato che sia arrivata troppo tardi, perché ormai il prezzo pagato in quantità di perdite umane è elevatissimo, e la ribellione appare decimata dice all’Unità lo specialista del mondo arabo Hasni Abidi-. Il fatto che il ministro degli esteri di Muammar Gheddafi abbia annunciato il cessate il fuoco mi appare nient’altro che una manovra, una tattica per guadagnare tempo».
Come interpreta, professore, la motivazione addotta dal ministro degli esteri Mousa Koussa, secondo il quale poiché il Paese fa parte dell’Onu "è obbligato ad accettare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza"? «Come una trappola: mira a dividere, o ad alimentare le divisioni, all’interno della Comunità internazionale, approfittando dell’astensione di Cina, Russia, Germania, Brasile e India. Il raìs aspira inoltre a creare tensioni e spaccature anche fra il popolo libico, facendo credere che vuole la pace, la conciliazione, che rispetta le risoluzioni, mentre gli avversari, quelli del Consiglio di transizione di Bengasi, sarebbero i guerrafondai. La situazione oggi mi appare alquanto incerta, molto delicata da gestire per la Comunità internazionale: la Francia ha proclamato di non riconoscere più Gheddafi come Presidente della Libia. Come si può, pertanto, dialogare con un individuo che non si riconosce più come Capo dello Stato?».
Lei aveva detto alcuni giorni fa che “gli insorti hanno vinto, almeno dal punto di vista politico”, anche se in quei giorni gli oppositori stavano soccombendo, costretti a cedere una dopo l’altra le città occupate. Cosa intendeva per vittoria politica? «Vorrei distinguere la questione militare da quella politica. Considerando la prima, Gheddafi ha un’ottima capacità di resistenza e dispone di una considerevole macchina da guerra, e sotto questo aspetto si trova indubbiamente favorito rispetto agli insorti, digiuni di qualsiasi esperienza di guerra. Sotto l’aspetto politico, ribadisco che a mio avviso gli insorti hanno avuto la meglio, in quanto interloquiscono ormai con più Paesi, hanno ancora una capitale provvisoria, Bengasi. Ma non vedremo presto la fine del regime libico, tanto più che ora Gheddafi, dovunque si rechi, stando così le cose, sarà giudicato e perseguito. Alimenta pertanto la politica della ‘terra bruciata’, e non ha mai negato che, in caso di sua caduta, non farà nulla per salvare il Paese».
Eppure un mese fa, quando iniziarono le proteste, si dava quasi per scontato che, dopo il successo delle rivolte in Tunisia e in Egitto, anche in Libia si sarebbe verificato un cambiamento di regime. Come mai questo finora non è avvenuto?
«In Libia non esistono né televisioni, né giornalisti indipendenti; il regime, insieme forse a quello nordcoreano, è l’unico Paese al mondo che non ha mai dovuto dar conto a nessuno, e ciò implica che la repressione può non avere limiti. Si è sparato sulla folla, lasciando la popolazione senza medicine né acqua, contrariamente a quanto era accaduto in Egitto e in Tunisia, dove i regimi si sentivano in dovere di curare almeno l’immagine, non fosse altro che per via dei turisti e degli investimenti; e l’esercito ha potuto dire al Presidente: “E’ finita. Se ne vada”. Ma tutto questo non esiste in Libia, dunque Gheddafi è stato finora onnipotente».
Ciò è dovuto anche agli ingenti mezzi finanziari di cui dispone nonché alla famiglia, che è ormai apertamente parte integrante del potere? «Pur immaginando lo scenario più catastrofico, ovvero che Gheddafi riesca a riconquistare Bengasi, niente sarà più come prima, sia nell’ipotesi che si ritiri, sia che vada avanti fino in fondo; la comunità internazionale non può fare marcia indietro, nessuno accoglierà il colonnello e la sua famiglia. Lui sopravviverà forse come il presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, non più riconosciuto, con un’infinità di sanzioni contro di lui, quindi condannato, il che però non implica la caduta. I familiari di Gheddafi, certo, svolgono un ruolo di rilievo nella sua salvaguardia e protezione, così come del regime libico, anche perché lui si fida solo delle milizie speciali, e non di tutto l’esercito. Cosa gli rimane? La famiglia e la tribù». Le tribù principali, Warfala e Zouwaya, si sono schierate contro Gheddafi, nonostante controllassero i proventi del petrolio insieme al Rais. Quale peso attribuisce all’iniziativa? «Ritengo importante il fatto che i capi tribù, che dal petrolio traggono non pochi benefici, abbiano fatto appello ai loro uomini per schierarsi con gli insorti. Ma non ha funzionato. Perché? Se la tribù Warfala conta più di un milione di membri, ciò non significa che tutti abbiano raggiunto l’opposizione. Un regime non cade per la posizione presa da un capo tribù, anche se i membri ascolteranno più il loro capo tribù che un militare. L’elemento tribale svolge certo un ruolo, ma non determinante».

Corriere della Sera 19.3.11
La Lega non vota e apre un caso Pd, Udc e Fli: non c’è maggioranza La Nota
Bossi: la pensiamo come la Germania. Bagnasco: l’aiuto sia prudente ma convinto
di  Paola Di Caro


ROMA— È immediato e senza condizioni il sì dell’opposizione (con l’eccezione dell’Idv, che sceglie l’astensione) alla risoluzione Onu sulla Libia che il governo sottopone al voto delle commissioni riunite Esteri e Difesa di Senato e Camera. Quello che fa discutere, e che porta Pd, Udc e Fli a puntare i dito contro una maggioranza «che non esiste più» in politica estera perché una sua componente «non si assume la responsabilità» di sostenere l’eventuale intervento armato contro Gheddafi, è invece l’atteggiamento della Lega. I leghisti hanno manifestato, come già avvenne sull’Afghanistan, tutto il loro scetticismo sull’opportunità di un intervento armato che — lo ha detto Roberto Calderoli in Consiglio dei ministri — espone l’Italia al rischio di «ritorsioni» che nemmeno l’ipotesi di uno scudo Nato — invocato da Massimo D’Alema e giudicato necessario dal ministro Franco Frattini — potrebbe impedire. «Serve un approfondimento in Parlamento, un dibattito nelle Camere» , ha insistito Calderoli, l’unico in Consiglio a rappresentare il suo partito e l’unico ad astenersi sulla risoluzione nello stesso momento in cui Umberto Bossi faceva diffondere una nota in cui sosteneva che «la Lega Nord si sente vicina alla posizione della Germania, per quanto riguarda il problema della Libia» . Ovvero, parole della Merkel, la scelta dell’intervento «non è stata ponderata al 100 per cento» . Conseguenza immediata di una presa di distanza netta, è stata la decisione dei leghisti di non partecipare al voto delle commissioni riunite di Camera e Senato, pur autorizzando lo svolgimento delle sedute. E se l’Idv si è astenuta considerando troppo timida la risoluzione, a Montecitorio si è segnalata anche l’assenza degli esponenti dei Responsabili, anche se il capogruppo Sardelli ha firmato la mozione di sostegno alla risoluzione. Senza l’apporto di Pd, Udc e Fli, insomma, la maggioranza non avrebbe avuto i voti sufficienti per approvare la risoluzione. Un fatto considerato grave dalle opposizioni, che non hanno avuto dubbi sul sì: «Siamo disponibili a sostenere un ruolo attivo dell’Italia nell’ambito della risoluzione Onu» , ha detto già nel primo pomeriggio Pier Luigi Bersani, e altrettanto hanno fatto Italo Bocchino per il Fli (che ha chiesto che l’Italia pretenda il comando delle operazioni) e Pier Ferdinando Casini per l’Udc: «Dobbiamo partecipare all’azione internazionale senza se e senza ma» . E tanto suonano convinti i sì dei leader dell’opposizione, quanto stride il silenzio scettico della Lega. Al quale però il ministro degli Esteri non vuole dare troppo peso: «Rispettiamo questa posizione, la comprendiamo, l’abbiamo vista sull’Afghanistan. La Lega alla fine mantiene una lealtà assoluta alle azioni del governo— assicura Frattini —. E poi, più ci impegniamo, più avremo forza per chiedere all’Europa condivisione nell’affrontare l’emergenza immigrati. Insomma, è una posizione politica che però non intacca la decisione che maggioranza di governo, minoranza parlamentare e governo hanno preso oggi» . Una decisione peraltro condivisa anche dal Vaticano, che — per bocca del presidente della Cei cardinal Angelo Bagnasco— chiede di «aiutare in modo prudente ma convinto» le popolazioni in Libia «che aspirano ai diritti fondamentali» .

l’Unità 19.3.11
Crisi politica
Ecco perché siamo caduti così in basso
di Vincenzo Visco


Perché ha vinto sempre il Cavaliere? È che con la crisi della prima Repubblica si è aggirato il tema vero: una ristrutturazione profonda del sistema di potere

Molti si chiedono in questi giorni come abbiamo fatto a cadere così in basso, come è possibile che accada ciò che accade. Si tratta di domande cui tutti dovremmo cercare di rispondere. A ben vedere uno degli aspetti singolari delle vicende attuali consiste nel fatto che i protagonisti di oggi sono in buona misura gli stessi che già operavano nei governi della «prima Repubblica» o loro collaboratori e sodali. Ciò è vero per il capo del Governo per alcuni ministri e persino per i faccendieri in attività, alcuni dei quali presenti non solo negli elenchi della P2, ma anche nelle cronache politicogiudiziarie del passato in quanto collegati alle vicende SindonaCalvi, o al riciclaggio di capitali, o alla mafia, alla camorra, alla banda della Magliana... In altre parole la seconda Repubblica appare come una prosecuzione distorta della prima; la vicenda di tangentopoli non è servita né a superare il malaffare di allora né tanto meno a creare una nuova classe dirigente come molti speravano potesse avvenire. La decadenza etica e politica che quella vicenda rendeva esplicita è continuata, anzi si è incrementata. Non vi sono anticorpi in azione né si vede capacità di riscossa, al contrario il Paese sembra avviato su un sentiero di decadenza economica e morale senza precedenti.
Ciò certifica evidenti fallimenti politici le cui origini vanno indagate e comprese. Molti sarebbero orientati a sottolineare che con le rivolte giustizialiste non si fanno riforme né si ricostruisce uno Stato e che anzi si creano le premesse per nuovi e più gravi disastri, ma si tratta di una spiegazione per così dire «tecnica» ( nel senso che normalmente ciò è quello che si verifica in questi casi) e parziale. Il fatto è che le forze che potevano in teoria opporsi ad una deriva degenerativa non sono state all’altezza del loro compito per insufficienze culturali e politiche, ma soprattutto perché non avevano la stessa interpretazione della vicenda italiana e del percorso di necessaria modernizzazione del Paese, e comunque non ne avevano una adeguata. Necessità già evidente negli anni ’70 (come bene aveva capito Moro) ma mai analizzata con consapevolezza e mai tematizzata esplicitamente, tanto che le pulsioni libertarie e progressiste (ancorché confuse) del ’68 furono lasciate degenerare prima nel massimalismo e nel terrorismo, e poi rifluire nell’individualismo rinunciatario del cosiddetto «edonismo reaganiano» di cui oggi viviamo la degenerazione finale , e nel corrompimento (ben più grave della corruzione stessa) delle classi dirigenti, oggi,addirittura imbarazzanti nella loro incompetenza e mediocrità.
All’origine di tutto ciò vi è probabilmente la situazione di democrazia bloccata in cui il Paese è vissuto per 50 anni e le divisioni radicali che essa provocò e che continuano ancora oggi ad essere riproposte, sia pure strumentalmente, creando diffidenza e condizionamenti. E a questo proposito grandi sono le responsabilità della sinistra (il Pci, ma non solo) per non essere stata in grado di affrontare per tempo in modo esplicito e trasparente i temi di una inevitabile evoluzione e cambiamento. Forse non era possibile, ma nei fatti i ritardi sono stati esiziali per il paese: l’assenza di alternativa ha creato un vuoto politico che ha facilitato la degenerazione della politica delle maggioranze di governo di allora sicure della propria forza e impunità. Successivamente, dopo il 1989, l’evoluzione vi è stata, in alcuni casi anche molto accelerata, ma essa non è mai stata tematizzata e quindi ha spesso creato confusione, oltre ad apparire sempre, e al tempo stesso, o insufficiente o eccessiva. Si sono così manifestate in modo chiaramente contraddittorio sia posizioni del tutto irragionevoli (soprattutto da parte sindacale) sia una acquiescenza acritica alle posizioni neoliberiste dominanti.
Al tempo stesso, dopo tangentopoli, la parte più consapevole del mondo cattolico ex Dc, pur condividendo la necessità di un nuovo equilibrio politico e di nuove alleanze, non si è posta il problema della necessità di compiere una analisi organica ed esplicita della degenerazione dei partiti di governo nella prima repubblica per trarne le necessarie conseguenze politiche; al contrario in non molti casi si è condivisa la tesi, se non del «complotto» dei giudici, di un loro eccessivo interventismo nel campo della politica. Né si volle approfondire il rapporto sempre più stretto tra crisi dei partiti, corruzione, abusi nell’economia pubblica, e lassismo tollerato in quella privata, che si traducevano nel clientelismo assistenziale, in rapporti ambigui con settori coinvolti nella illegalità, nella tolleranza dell’evasione fiscale, ecc. Le conseguenze sono state evidenti nella difficoltà di individuare una linea comune interamente condivisa all’interno del centrosinistra. In sostanza, dopo la crisi della prima Re-
pubblica sarebbe stato necessario affrontare il problema di una ristrutturazione consapevole del sistema di potere profondo che ancorché indebolito, rimaneva sempre lo stesso. Ciò non è avvenuto perché da un lato questa consapevolezza non vi è stata, o si è pensato di risolvere il problema con qualche privatizzazione o liberalizzazione, e dall’altro vi era chi riteneva che tutto sommato il sistema di potere andava bene così come era. In conseguenza il centrosinistra è andato al governo, ma non ha mai condiviso il potere, quello vero.
Tutto questo «non detto», non esplicitato, non «elaborato» ha contribuito inoltre a rendere conflittuali le coalizioni di governo e a complicare il lavoro di opposizione in un contesto di diffidenza reciproca che neanche la confluenza in un unico partito ha consentito (finora) di superare. L’esempio più evidente di questa situazione si può riscontrare nella contrapposizione artificiale tra tradizione social-democratica e liberal-democratica che viene spesso riproposta, come non fossero ambedue parte della tradizione della sinistra italiana.
Un ulteriore contributo è venuto da leggi elettorali che costringono a tenere insieme e a dare rappresentanza ad ogni spezzone di ceto politico che appaia capace di portare un contributo di voti contribuendo così alla delegittimazione della politica e al-
la confusione generale, e creando un’alternativa impossibile tra grandi ammucchiate velleitarie e improbabili aspirazioni egemoniche.
Né dalla cosiddetta società civile sempre evocata e da cui giustamente ci si aspettava una spinta al rinnovamento, è venuto un contributo utile: sempre ipercritica, polemica, insoddisfatta, pronta a rivendicare la sua presenza e il suo ruolo, ma ormai disposta a «sporcarsi le mani» nella politica di tutti i giorni, per quello che essa è. Dal canto loro i partiti non hanno mai considerato utile aprirsi veramente all’esterno, nonostante l’evidente discredito accumulato progressivamente. Sono così nati nuovi movimenti e partiti tutti intenti a fare il free-riding nella casa del vicino, piuttosto che a svolgere consapevolmente la loro funzione magari strumentalizzando lo strumento delle primarie. Le contrapposizioni personali hanno fatto il resto.
Stando così le cose non è sorprendente che Berlusconi possa aver vinto e governato per tanto tempo portando il Paese all’impantanamento attuale. È possibile superare questa situazione? Certamente ma non sarà compito né facile né di breve durata.

il Fatto 19.3.11
Dietrofront della Corte europea. Il crocifisso resta in classe
Annullata la sentenza del 2009, “è un simbolo passivo”
di Marco Politi


Il crocifisso resterà nelle classi italiane. La Grand Chambre (istanza d’appello) della Corte europea dei diritti dell’uomo decide di non decidere sul carattere impositivo dell’esposizione di un unico simbolo e annulla la decisione del 2009, che obbligava l’Italia a rimuovere il segno religioso dalle aule.
La cittadina finno-italiana Soile Lautsi perde la sua battaglia quasi decennale e l’Italia non conquista la facoltà di vivere come nella religiosissima America, dove fervente e multiforme è il sentimento religioso – spesso lodato da Benedetto XVI – ma le istituzioni pubbliche non sono contrassegnate da simboli religiosi nel rispetto della libertà di tutti e della distinzione tra Stato e Chiesa. 
Impazza il tripudio del centro-destra da Frattini alla Gel-mini, da Alemanno a Zaia, con un gran parlare di “vittoria del sentimento popolare… simbolo irrinunciabile… segno di identità e civiltà”. Per un giorno anche i leghisti adorano l’Europa. Ma egualmente in casa   Pd e Italia dei valori c’è chi come Chiti o Leoluca Orlando plaude alla “giusta sentenza”. Deluso il marito della Lautsi, Massimo Albertin, “perché la prima sentenza in questa vicenda era clamorosamente chiara”. Il giudice “anticrocifisso” Luigi Tosti, rimosso dalla magistratura, denuncia “pressioni fortissime” esercitate sulla Corte di Strasburgo. Asciutto il commento del’insegnante di Terni Franco Coppoli, allontanato nel 2009 e poi reintegrato per aver tolto il crocifisso dal’aula del suo istituto professionale: “Hanno vinto i poteri forti”. 
SOBRIA LA reazione delle autorità ecclesiastiche. Il presidente della Cei, cardinal Angelo Bagnasco, parla di “una sentenza importante, di grande buon senso”. In realtà, al di là dell’uso politico della sentenza, emerge un primo dato di fatto. Di fronte all’offensiva del governo italiano, appoggiato da dieci paesi del Consiglio d’Europa significativamente in prevalenza del’Europa orientale ex comunista, la Corte di Strasburgo si è trincerata dietro il principio di non ingerenza negli affari interni di uno stato membro, sostenendo che all’Italia andava lasciato un “margine di valutazione” autonomo nel regolare la questione.
Nessuna proclamazione, dunque, del diritto assoluto italiano a fare come sta facendo. 
Anzi nella sentenza di Strasburgo è scritto esplicitamente che “non spetta alla Corte pronunciarsi sulla compatibilità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche con il principio di laicità come si trova consacrato nel diritto italiano”. Inoltre i giudici di Strasburgo hanno ritenuto di non ingerirsi, alla luce della divergenza registrata tra Cassazione e Consiglio di Stato sul significato stesso da attribuire al crocifisso.
LA MOTIVAZIONE, che ha salvato il governo italiano dalla condanna inflitta in prima istanza, risiede nel fatto che a parere della Corte non sono stati violati i protocolli 1 e 9 dell’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che si riferiscono alla libertà di educazione e alla libertà di pensiero, coscienza e religione. 
La spiegazione ha un sapore paradossale in presenza dall’atmosfera trionfalistica degli intransigenti cristianisti: perché – così suona il verdetto – l’esposizione del crocifisso è irrilevante, non esercita nessun influsso sugli studenti.
Detto in maniera giuridicamente più forbita, i giudici di Strasburgo sostengono che l’affissione del crocifisso non è accompagnata da indottrinamento confessionale né usata come strumento influire. Di più, rappresenta un “simbolo essenzialmente passivo” e non gli si può attribuire l’influenza di un discorso didattico o di una partecipazione ad attività religiose. Peraltro, aggiungono a Strasburgo, non è accompagnato dall’insegnamento obbligatorio della religione cattolica e non produce una concreta discriminazione nei confronti degli alunni diversamente credenti. Insomma è l’apoteosi della regola (certamente non rintracciabile nel Vangelo   ): “Tanto non da fastidio a nessuno”.
Da questa elencazione traspare l’atteggiamento ponziopilatesco della Grand Chambre. Perché come sancì a suo tempo la Corte costituzionale tedesca: nessuno può essere “obbligato” a studiare “sotto” il simbolo del crocifisso. Cioè l’esposizione stessa di un segno – che i giudici tedeschi giudicarono giustamente potente – stabilisce una superiore graduatoria di valore del credo di chi vi appartiene nei confronti del credo   religioso o filosofico degli “altri”. Perciò l’aula non connotata non è offesa per nessuna religione, ma rispetto per tutte le coscienze. Come negli Stati Uniti.
Nella sua ansia di rappresentare il crocifisso buonisticamente come innocuo retaggio tradizionale, aperto a tutti, il governo italiano si è spinto però su un terreno scivoloso. L’Italia, riporta la sentenza, ha affermato di permettere il velo islamico in classe – dichiarazione fatta forse a insaputa dei membri leghisti del governo – e ha ricordato che spesso si festeggia il Ramadan in aula e che l’insegnamento delle altre fedi “può essere organizzato negli istituti per tutte le confessioni religiose riconosciute”. 
È un boomerang per il governo Berlusconi-Bossi. Perché se continuerà a non riconoscere le comunità islamiche, ci saranno genitori che potranno adire la Corte di Strasburgo lamentando una discriminazione effettiva.

La Stampa 19.3.11
La condanna di Pannella: “Le icone di altri fedeli non si possono esporre”
«Si sono manifestati una sorta di feticismo e il ritorno del tradizionalismo»
di Gia. Gal.


I credenti non dovrebbero rallegrarsi per questa sentenza». Il crocifisso può restare appeso nelle aule delle scuole pubbliche italiane e il leader dei Radicali, Marco Pannella critica l’«impapocchiamento» di Strasburgo secondo cui la presenza in classe di questo simbolo non lede il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni e il diritto degli alunni alla libertà di pensiero, di coscienza o di religione.
Perché non condivide la sentenza?
«Mi sembra evidente che anche in questo campo siamo ormai passati da una patria europea alla vecchia Europa delle vecchie patrie tradizionali e tradizionaliste. Ciò detto, vorrei far notare che la corte di Strasburgo parte dall’affermazione che non sono provate l’importanza e la funzione dell’esposizione di un importante simbolo di una importante religione su adolescenti e giovani. Quindi credo che ci sia legittimamente da chiedersi perché mai una delle suddette patrie (per conto dell’ideale patria vaticana) abbia sollevato scandalo e rabbiosa opposizione alla precedente sentenza che nel 2009 disponeva la rimozione del crocifisso dalle aule. Mi chiedo sinceramente se un autentico credente cristiano possa essere davvero fiero o felice del fatto che si riconosce a Cesare la possibilità di imporre a tutti i suoi sudditi il massimo simbolo della propria fede con la motivazione che in realtà quel simbolo non comporta alcun effetto su una parte di coloro ai quali è rivolto».
Per il fronte pro-crocifisso è una vittoria a tutto campo?
«La Corte afferma di non aver trovato prove che la presenza di un simbolo religioso in una classe scolastica possa influenzare gli alunni. In sostanza quel che resta è una volta ancora il fatto che si riconosce a Cesare il diritto di imporre (o altrimenti vietare) il simbolo del mistero della fede. Non c’è di che rallegrarsi per i giovani che credono in Gesù Cristo. A patto che i credenti provino (sia pure non più in questa inappellabile sede) che in effetti “Cristo o suoi equivalenti simbolici o storici” debbano ancora manifestarsi nella storia umana poiché per la loro religione il preannunciato avvento sulla terra di Dio non si è ancora manifestato e preghino di conseguenza».
Il crocifisso, definito simbolo passivo, provoca indottrinamento oppure no?
«Si sostiene che la presenza del crocifisso pur conferendo alla religione maggioritaria una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico non sia sufficiente a indicare che sia in atto un processo di indottrinamento. E che nel curriculum didattico non esiste un corso obbligatorio di religione cristiana e che l’ambiente scolastico italiano è aperto ad altre religioni. Altri giudicheranno il valore dell’impapocchiamento che connota questo pronunciamento».
Cosa non la convince?
«La corte europea finge di ritenere che concretamente esista nella scuola pubblica italiana il diritto o la facoltà di esibire altri simboli religiosi, per esempio la “Menorah” ebraica. E ciò a prescindere dal fatto che per la stessa Onu vadano riconosciuti pari diritti a religiosità teiste o non teiste. D’altra parte mi si consenta con gravità una battuta: non è questa l’unica manifestazione di una sorte di grave feticismo che attualmente ha per oggetto embrioni o zigoti». [GIA. GAL.]

il Fatto 19.3.11
Lo dicevamo prima di Chernobyl
di Dario e Jacopo Fo


Dimmi quante vite umane sei disposto a rischiare e ti dirò chi sei. Da quando è stata costruita la prima centrale atomica nel mondo continuiamo a protestare spaventati dai rischi colossali che questa tecnologia comporta. Da decenni i sostenitori del nucleare continuano a ripeterci che siamo degli isterici, emotivi, ascientifici, retrogradi. Dicono che ci preoccupiamo per niente: “I nostri scienziati sono i migliori del mondo, abbiamo impiegato tutti i sistemi possibili per garantire l’assoluta sicurezza di questo impianto! Smettetela di fare i maniaci dell’ecologia estrema e ottusa. Guardate il labiale: non c’è nessun pericolo nucleare!!! Poi regolarmente la tecnologia perfetta si inceppa. In questi decenni ci sono stati più di 150 incidenti in centrali nucleari con emissione di radiazioni pericolose. In alcune aree limitrofe alle centrali   si sono registrati aumenti notevoli di tumori e malformazioni nei neonati.
POI C’È STATO lo spaventoso disastro di Chernobyl... I calcoli sulle morti causate da quella fuga radioattiva sono difficili e controversi... C’è chi parla di 200 mila deceduti e altri 200 mila a rischio. Dopo Chernobyl poi sono tornati a dirci di stare calmi: “Quella centrale è esplosa perché era di un tipo vecchio, tecnologia superata. Oggi i nostri reattori nucleari invece sono nuovi di zecca, supertecnologici, non c’è nessun pericolo!!! Smettete di agitarvi come indemoniati!” Ancora il giorno dopo il terremoto, sabato 12 marzo, appariva su Il Messaggero un titolo esemplare: “Nucleare sicuro, è la prova del 9!” a firma del povero Oscar Giannino: “Quando ancora eravamo alle prime notizie del tremendo sisma che si è abbattuto sulla costa nord-orientale del Giappone, ecco che i siti e le agenzie   italiane hanno iniziato a diffondere notizie sull’allarme nucleare, orbene, se allo stato degli atti una prima cosa si può dire, è che proprio la terribile intensità del fenomeno abbattutosi sul Giappone ci consegna una nuova conferma del fatto che in materia di sicurezza di impianti nucleari, i passi in avanti compiuti negli ultimi decenni sono stati notevolissimi, tali da reggere nella realtà dei fatti senza creare pericoli per ambienti e popolazioni, proprio l’impatto di eventi terribilmente fuori scala, quale quello verificatosi e come prescrivono le norme nel cui rispetto si costruiscono oggi centrali atomiche”. Quando si dice le ultime parole famose...   In queste ore stiamo vedendo come stavano realmente le cose, al di là delle reticenze del governo giapponese e di quelle ancor maggiori della ditta che gestisce gli impianti. Scopriamo che le informazioni diffuse negli scorsi giorni erano in gran parte false, scopriamo che ci sono state esplosioni, contaminazioni e che la situazione è estremamente grave tanto che una fascia di 20 chilometri è stata evacuata e a Tokyo si è diffuso il panico e   molti fuggono dalla città. Si tratta di una situazione spaventosa, agghiacciante per questo popolo, devastati dal maremoto, distrutti dal dolore per la morte dei loro cari, senza casa, al freddo, sotto la neve, con poco cibo e una nuvola di radiazioni che gli gira sulla testa, a pregare che almeno il vento sia clemente e si porti via la peste radioattiva. Una situazione di dolore inimmaginabile. 
CERTO CONTRO le follie della terra i giapponesi avevano fatto moltissimo, il terremoto di per sé ha provocato poche vittime pur essendo enormemente più forte di quello de L’Aquila. Ma lo tsunami non c’era modo di fermarlo... E ora la fusione delle barre radioattive rischia di provocare un’ecatombe ancor più gigantesca. Un orrore incommensurabile. Ma allora, se la natura può essere così imprevedibile e in modo tanto devastante, e travolgere un popolo che alla sicurezza ci tiene, non sarebbe il caso di non rischiare mai più di aggiungere un altro rischio a quelli che in nessun modo possiamo evitare? Già è duro accettare la nostra precarietà, accettare che ti può cadere un meteorite sulla testa e non c’è elmetto che tenga... Per non parlare   dei vulcani... Ma perché costruire nel mondo centinaia di cattedrali (nucleari o chimiche) sulle quali se casca un meteorite è la fine del mondo? Nel famoso film di Kurosawa Sogni una centrale nucleare esplode e riversa un gas radioattivo che genera istantanee mutazioni nei pochi sopravvissuti in un mondo incredibilmente al panorama del dopo tsunami. Un uomo grida contro un dirigente nucleare e lo accusa indicandogli la devastazione intorno a loro: “Non pensavate che avrebbe potuto succedere?”.
MA LORO NO . Non pensavano... Qualcuno, come la Prestigiacomo, povera infelice, continua ancora a ripetere che questo disastro non fermerà il nucleare in Italia... Dicono che quella centrale giapponese è esplosa perché era di   vecchia generazione, non come quelle ultramoderne francesi che staremmo comprando noi. Ancora con queste frasi? Un’altra volta? Ma non si ascoltano quando parlano? Incredibile. E accusano chi da sempre si batte per fermare questa follia nucleare di sciacallaggio: “Vergognatevi di approfittare del lutto giapponese per sostenere le vostre idee bislacche...”. Lo dicevamo prima di Chernobyl, lo dicevamo dopo Chernobyl e continueremo a dirlo fino a che anche l’ultima centrale nucleare verrà chiusa. Solo allora staremo zitti. E proprio di fronte a questo immane disastro atomico ci rendiamo conto che c’è grande differenza nel valore che si dà alla vita umana. A nostro avviso nessun rischio è accettabile. Per i nuclearisti esiste un livello di rischio accettabile.   Pensano sempre che riguardi solo gli altri.
P.S.: Nei giorni scorsi il governo ha cancellato tutti i finanziamenti alle fonti rinnovabili. Dicono che ne creeranno di nuovi ma drasticamente tagliati e limitati. Ci sembra veramente un grande momento per massacrare lo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili in Italia.

Repubblica 19.3.11
Nucleare. Non cambio idea
di Umberto Veronesi


La politica per sua natura può avere ripensamenti, la scienza deve invece pensare più a fondo. Così ho molto apprezzato l´articolo di Francesco Merlo di ieri, perché mi invita a precisare la mia posizione sul nucleare.
Non mi occupo di sondaggi e di referendum ma devo rispettare la lezione che arriva dal Giappone.
E lo faccio pur rendendomi conto che il sovrapporsi delle dichiarazioni, l´inevitabile intreccio fra politica, cronaca e scienza di fronte a un disastro come quello giapponese, e lo sgomento generale che ci attanaglia, rendono molto difficile esprimere posizioni chiare. Il punto è molto semplice: io sono uno scienziato e il presidente dell´Agenzia per la sicurezza del nucleare. Non mi occupo di referendum, non leggo i sondaggi di nessun tipo e quindi neppure quelli che Merlo definisce "di cortile". Dunque ciò che appare come un ripensamento è invece l´esito di una riflessione. Studiando il più lucidamente possibile la dinamica di Fukushima ho pensato che ci troviamo di fronte al primo grave incidente di progettazione nucleare della storia, quindi di strategia. Gli altri due incidenti significativi, Chernobyl e Three Mile Island, sono stati infatti causati da un errore umano. Per Chernobyl più che di errore dovremmo parlare di follia. Ma anche negli Stati Uniti fu un errore dei tecnici a causare la fusione del nocciolo, che fortunatamente non causò nessuna vittima.
Va detto subito che sull´errore umano si può intervenire migliorando la preparazione, l´addestramento e le condizioni di lavoro. Un po´ come si fa con i piloti d´aereo. Invece a Fukushima non c´è stato nessun errore riconducibile al personale addetto, ma un errore di progettazione: le centrali non erano programmate per resistere a uno tsunami della portata di quello scatenatosi la scorsa settimana. Le fonti tecniche dicono che la progettazione teneva conto di tsunami di intensità minore. Ma questa è comunque una mancanza perché nel costruire una centrale nucleare sul Pacifico non si può non tenere conto della massima potenza delle forze del mare e della Terra. Non è una giustificazione il fatto che erano centrali attivate quarant´anni fa, e che erano quindi alla fine del loro ciclo vitale.
La lezione che credo dobbiamo trarre da Fukushima è che non possiamo non rivedere la strategia nella progettazione degli impianti nucleari. Il che non vuol dire ripensare o tornare sui propri passi, ma capire il problema alla radice, avere il coraggio di riconoscerlo e sforzarci di superarlo. Se è vero - ed è scientificamente vero- che senza l´energia nucleare il nostro pianeta, con tutti i suoi abitanti, non sopravviverà, non dobbiamo fare marcia indietro, ma andare avanti, ancora più in là, con la conoscenza e il pensiero scientifico. Dobbiamo pensare al futuro tenendo conto che petrolio, carbone e gas hanno i decenni contati e che sono nelle mani di pochissimi Paesi,che possono fare delle fonti di energia strumento di ricatto economico e politico; che stiamo avvicinandoci ai 7 miliardi di persone sulla Terra, con consumi sempre maggiori di energia; che le altre fonti di energia, le rinnovabili, hanno grandi potenzialità, ma per alcune non abbiamo le tecnologie che rendano accessibili i costi di trasformazione e globalmente non sono sfruttabili in modo tale da assicurare la copertura del fabbisogno. La scelta dell´energia nucleare è dunque inevitabile e il nostro compito è ora quello di garantirne al massimo la sicurezza per l´uomo e l´ambiente. Abbiamo per anni sostenuto che gli impianti di ultima generazione sono sicuri e con un rischio di incidente vicino allo zero. Oggi il Giappone ci impone di riconsiderare criticamente questa convinzione. Molti si domandano se il modello delle centrali nucleari di grossa taglia, come sono oggi tutte quelle del mondo, sia quello da continuare a realizzare; oppure se non è possibile ed opportuno considerare l´adozione di reattori più piccoli e modulari : una rete di minireattori. Alcuni di questi modelli progettuali sono già in produzione e dovremo studiarne a fondo le caratteristiche e la fattibilità.
La tragedia giapponese ci impone inoltre di pensare fuori dalle logiche nazionali. E´ evidente ora che i piani energetici devono essere discussi a livello internazionale. In Italia ci troviamo nella circostanza favorevole di partire da zero e quindi di poter scegliere, senza fretta, il modello strategico migliore.

Repubblica 19.3.11
Metodo Bellocchio la fantasia trovata in famiglia
La realtà è fantasia
In "Sorelle Mai" la capacità del regista di usare il proprio mondo familiare per costruire cinema. Un´opera minore che porta l´impronta forte di un maestro
di Paolo D’Agostini


In attesa di tornare a mordere con un´altra delle sue imprese di stile che, senza essere mai interventi diretti sull´attualità, ci parlano di chi siamo noi oggi (ma ci sarà da aspettare a sentire il regista, il quale sta incontrando molti ostacoli a varare il nuovo progetto dal titolo eloquente, "Italia mia", che promette fastidi sulla rappresentazione del potere), Marco Bellocchio va nei cinema sotto il piccolo e combattivo marchio distributivo Teodora con Sorelle Mai. Un filmino quasi privato, un´operina difficile da definire. E una sfacciataggine che soltanto un conclamato maestro può permettersi: portare sugli schermi pubblici un taccuino di appunti personali e familiari. Dentro il quale però ribolle tutta la sua storia di mai addomesticato ribelle.
Serve qualche parola per spiegare l´operazione creativo-produttiva. Da tempo Bellocchio fa annualmente ritorno al suo paese di origine, Bobbio provincia di Piacenza, per sovrintendere a una manifestazione che vi si svolge ogni estate e per allestirvi dei corsi estivi di regia. Il Laboratorio Farecinema. Nel corso del tempo (dal ‘97) gli allievi hanno elaborato, con lui e sotto la sua guida, le loro esercitazioni. A location e set di queste esercitazioni sono stati eletti luoghi della vita e del passato biografico e artistico di Marco Bellocchio, a partire dalla casa di famiglia, che fu presente anche nel suo incendiario esordio I pugni in tasca. Il "cast" è in buona parte composto da amici, parenti, familiari di Marco: suo fratello Pier Giorgio, le sue sorelle Maria Luisa e Letizia, suo figlio Pier Giorgio, sua figlia Elena di vent´anni più piccola. Della quale queste riprese raccolte via via negli anni documentano la crescita.
Dietro alle ragioni tecniche dell´usare l´universo domestico per facilitare una dimensione maneggevole e non impegnativa, e anche dietro alla libertà che in questo spirito di leggerezza viene offerta ai suoi discepoli, c´è la personalità e l´impronta forte del maestro. Il suo bisogno di riferirsi al proprio mondo per poter trasmettere qualcosa di utile, la sua incapacità di insegnare nozioni asettiche e distanti dai riferimenti che conosce e gli stanno a cuore.
Dunque i sei episodietti che compongono questo stravagante film che è in realtà secondo una logica da work in progress l´aggiornamento di un precedente "Sorelle", il cui titolo dichiara un omaggio alle due anziane sorelle di Marco che a differenza di lui sono sempre rimaste a vivere in quei luoghi (le definisce "personaggi più pascoliani che cechoviani"), mescolano finzione e storia familiare, messa in scena e memoria autobiografica, oltre che attori-familiari e attori non familiari: Donatella Finocchiaro e Alba Rohrwacher. Seguendo un plot, una traccia, che trasferisce sui personaggi sensibilità e pulsioni appartenenti e appartenute a Marco Bellocchio. Soprattutto nel personaggio affidato a suo figlio Pier Giorgio, in costante bilico tra fughe e ritorni all´amato-odiato natìo borgo selvaggio. Va da sé che non vedrete un´opera maggiore, ma state certi di vedere comunque un Bellocchio doc.

Corriere della Sera 19.3.11
Lite (politica) sulle foto di Ambra
Il «Fatto»: rappresaglia perché anti-berlusconiana. «Libero»: paranoia
di Renato Franco


MILANO— «Quindici giorni di riposo e cure dal medico di Brescia» per un «delicato problema di salute» : Ambra Angiolini è costretta a interrompere temporaneamente la tournée dello spettacolo teatrale I pugni in tasca. Non si entra nel merito del «problema di salute» , ci mancherebbe, questione di privacy. Ma per capire quello che ci può essere dietro il malessere dell’attrice lanciata ere televisive fa da Non è la Rai bisogna fare un passo indietro. E andare alla copertina di Chi, il settimanale di gossip diretto dal troppo pettegolo Alfonso Signorini. Che in copertina pubblica le foto di Ambra in atteggiamenti se non complici almeno equivoci non con il suo compagno— il cantante Francesco Renga, hanno due figli— ma con Pier Giorgio Bellocchio — attore nonché figlio del regista Marco. Ambra e Pier Giorgio sono fianco a fianco nella pièce I pugni in tasca e, stando alle foto pubblicate da Chi, tra di loro ci sarebbe qualcosa di più di un rapporto professionale. Immagini «scattate a più riprese a Roma, a Napoli, a Lamezia Terme e a Crotone, nel corso di un mese e dieci giorni circa» mostrano i due molto vicini, un bacio che potrebbe essere sulla guancia o forse no, atteggiamenti d’intesa. Chi non si limita a raccontare quello che dicono le foto, ma racconta anche i retroscena. Perché Ambra sarebbe venuta a sapere delle foto prima della loro pubblicazione e sarebbe «letteralmente disperata» . E fa quello che farebbe chiunque: chiama Signorini e cerca di convincerlo. Scrive il settimanale: «Nel corso della conversazione con Signorini, Ambra si dice "disposta a fare qualsiasi cosa", pur di tutelare i suoi familiari dalla vista di quelle immagini. "Ho fatto una cazzata. Aiutami!", supplica l’attrice» . Seguiranno altri contatti, altre telefonate, ma alla fine vale quello che il direttore ha detto subito ad Ambra: «Un servizio acquistato è un servizio pubblicato» , cioè che pubblicherà in ogni caso le foto. E così è. La questione però da umana si fa politica perché al Fatto Quotidiano non è piaciuta per niente la vicenda. Il quotidiano diretto da Antonio Padellaro (il vicedirettore è Marco Travaglio) parla di «rappresaglia» . Ambra pagherebbe per aver fatto «un percorso distante dal pensiero dominante berlusconiano» , per essersi «esposta ad Annozero contro il carrierismo a colpi di prostituzione» . E si torna alla frase «un servizio acquistato è un servizio pubblicato» : «Il discorso è ineccepibile— scrive Il Fatto —. Ma c’è un particolare: la regola vale per Ambra e non per altri. È noto, infatti, che il direttore, delle foto o dei video che gli passano fra le mani fa un uso strategico. Pubblica, acquista e non pubblica, avverte dell’esistenza delle immagini. Dipende dal soggetto. Per esempio, informa Marina Berlusconi di un video imbarazzante, realizzato con un cellulare, che riguarda Silvia Toffanin, compagna di Pier Silvio Berlusconi. Il filmato viene acquistato dalla famiglia e fatto sparire» . E ancora: «Ed è sempre Signorini che pubblica solo le immagini più "innocue"di Barbara Berlusconi» . Fino a concludere: «Una notizia si pubblica. Sì, ma sempre, non a convenienza» . Da sinistra si torna a destra, perché è Libero a rispondere al Fatto. Il quotidiano del tandem Feltri-Belpietro bolla tutto come un’ossessione: «Secondo Il Fatto, la ragazza sarebbe stata colpita dalla rivista vicina al Cav perché ha preso le distanze dal premier, scendendo in piazza e addirittura partecipando ad Annozero. Quando si dice la paranoia» . Rinviato lo spettacolo, rinviato pure il matrimonio con Renga come l’attrice aveva rivelato una decina di giorni fa. Se sia un caso o no, sono affari loro. Mercoledì Renga ha aperto il suo tour da Brescia dedicando una canzone proprio ad Ambra: «Stasera non è qui perché non sta bene. Qualche sciacallo ha cercato di rovesciare della spazzatura sulla nostra felicità e sulla nostra storia d’amore. Dedico la canzone idealmente a lei» .

La Stampa 19.3.11
“Non ho mai trovato sexy una ragazza magra”
Franca Sozzani lancia una campagna online contro l’anoressia
di Egle Santolini

«Gli stilisti non c’entrano La malattia ha molte cause: anche i siti Internet»

Se io sono mai stata a dieta? Se ho digiunato? Casomai il contrario. Mangio male, questo sì, ho il colesterolo alto. Pane, formaggi, dolci. Soprattutto dolci. Vogliamo parlare del cioccolato? Dieci, anche 12 ciocorì al giorno dalle macchinette della Condé Nast. Ecco, forse non avrei dovuto dirlo».
Franca Sozzani, direttore di Vogue Italia , lancia una campagna dal suo blog contro i siti che promuovono l’anoressia. Non sarà gentile, ma la prima cosa che devi chiederle è quanti sacrifici le costi conservare quella silhouette. Perché se sei il responsabile di uno dei giornali che determinano i canoni estetici contemporanei, e se per di più in quei canoni rientri alla perfezione, va a finire che ti carichi di una grande responsabilità. Quante ragazzine rinunciano ai loro, di ciocorì, per due fianchi un po’ più stretti? Sozzani non ha mai creduto che l’aumento dei casi di anoressia sia da imputare alla moda: il fenomeno le pare un po’ più complesso. Ma ha scoperto che c’è un nemico molto insidioso da battere.
Direttore, che cosa si propone con questa campagna?
«Una raccolta di firme per la chiusura dei siti italiani pro anoressia e per l’oscuramento di quelli stranieri. So che può sembrare poco ortodosso e perfino censorio, ma occorre un po’ di coraggio: sono migliaia e invitano le ragazze e i ragazzi a farsi del male. Io ci sono capitata dopo aver letto una recente ricerca svolta ad Haifa, secondo la quale la responsabilità principale dei disordini alimentari per i soggetti tra gli 11 e i 19 anni sarebbe di Facebook. Questa spiegazione non mi convinceva: come, prima si è data la colpa ai genitori, poi alla moda, adesso ai social network? Però sono andata a informarmi e ho trovato queste liste orribili, questi comandamenti. E il primo è: credo nella bilancia, perché quello che dice è la cosa più importante; perdere peso è bene, guadagnare peso è male». Sembrano i principi di una setta. Il culto di Ana.
«Sì, Ana è l’amica immaginaria, l’incarnazione della malattia. I più giovani vanno difesi da questi pazzi. E poi le follie sul controllo: secondo questi decaloghi demenziali, meno pesi e più potere e successo avrai. Ma dico, e allora Hillary Clinton?».
Lei sostiene che l’anoressia ha molte cause.
«C’è sempre stata, fin dai tempi delle sante digiunatrici, di Elisabetta d’Austria. Che cosa c’entrava la moda? »
Ma riconoscerà che i vestiti che pubblica su Vogue cadono meglio su un corpo magro che su un corpo grasso.
«Attenzione perché qui, è proprio il caso di dirlo, le parole hanno un peso. I vestiti stanno bene su un corpo snello, non su un corpo magro. Le curve, le morbidezze, li riempiono meglio. Non ho mai trovato sexy la magrezza. Pensi alla meravigliosa Liya Kebede: è snella ma non magra, è una donna normale, ha due figli».
Ne avrà viste, sulle passerelle, di ragazze ammalate.
«Ricordo Kim, un’americana che avrà avuto 16 anni. Si copriva con i maglioni per non mostrare le ossa sporgenti. Fece una o due sfilate, poi svenne. Arrivarono i genitori a portarla via. Parlo di una dozzina di anni fa. Adesso il periodo delle waif, dove le ragazze dovevano somigliare a degli elfi disincarnati, è finito, per fortuna».
C’è stato, di recente, il caso di Isabelle Caro.
«Che modella non fu mai, ma che voleva diventarlo. Ho letto il suo libro: non incolpa la moda, parla soprattutto dei suoi rapporti complicati con i genitori. Un caso tristissimo, che Oliviero Toscani ha utilizzato molto bene per denunciare il problema. Ma, vede, davano dell’anoressica anche a Kate Moss, e adesso dicono che ha la cellulite»
E come se lo spiega?
«Kate è sempre stata uguale. Solo che allora aveva 14 anni e adesso ne ha 37. Idem per Caroline Murphy, per Amber Valletta: il corpo si modifica, ma può restare armonico».
Da un pulpito come il suo lei che cosa fa?
«Ricordo che l’allora ministro Giovanna Melandri, qualche anno fa, per denunciare le troppo magre in passerella si rivolse direttamente ad Anna Wintour (il direttore di Vogue America, ndr). E lei le rispose: ma il problema sono le troppo grasse… È vero, in America la piaga è l’obesità. Un’intera sezione del sito di Vogue si chiama curvy, ed è dedicato a chi è orgoglioso del proprio corpo morbido. Le modelle morbide sono apprezzate e lavorano molto».
Quanto al suo, di corpo
«Mai fatto niente. Né sport né ginnastica. Questione di geni e di metabolismo».

La Stampa TuttoLibri 19.3.11
Spartaco non era certo un Garibaldi del proletariato
di Silvia Ronchey


In una lettera da Manchester del 27 febbraio 1861 Karl Marx scrisse al suo amico Engels: «Per distendermi ho letto le Guerre civili romane di Appiano. Ne emerge che Spartaco è l’uomo più folgorante della storia antica. Un grande generale (non come Garibaldi), un personaggio nobile, veramente rappresentativo del proletariato dell’antichità».
Schiavo, anche se secondo Mommsen di origini regali, ex ausiliario dell’esercito romano, ex gladiatore, Spartaco divenne il più temibile nemico di Roma capitanando un esercito di «masnadieri» e dando vita alla cosiddetta terza guerra servile, forse un atto postumo della guerra sociale, forse «un’altra guerra italica». Le sue tattiche di guerriglia furono così notevoli da rimanere nei manuali bellici e da valergli, oltre venti secoli dopo, il culto di Che Guevara. Ma fu la sua capacità di emulare l’organizzazione dell’esercito romano, che conosceva dall’interno, a fargli tenere sotto scacco, fra il 73 e il 71 a. C., l’ «impero schiavista».
La passione di Marx per Spartaco avrebbe proiettato la sua ombra statuaria sull’ideologia e sulla lotta politica del ‘900. Nel Secolo Breve sarebbe diventato l’unico vero eroe del mondo antico. Al suo nome si ispireranno lo Spartakusbund di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, e la rivolta spartachista del ’19 sarà soffocata nel sangue dai Corpi Franchi di Berlino quasi come quella del 71 a. C. dalle legioni di Crasso.
A parte l’attualità del riferimento a Garibaldi, sembra però che oggi le parole inviate a Engels abbiano definitivamente perso autorità. Per Aldo Schiavone la vicenda di quello che per il marxismo novecentesco fu l’eroe fondatore della lotta di classe è antiepica, se pur implicitamente, fin nel sottotitolo: Le armi e l’uomo . «Arma virumque cano», «Canto le armi e l’uomo», è l’incipit dell’ Eneide , in cui Virgilio celebrò l’eroismo «d’ordine» del fondatore dell'impero di Roma. Schiavone, storico eminente del mondo antico, ex direttore dell’Istituto Gramsci, propone nel suo Spartaco la prima esplicita rottura della storiografia di impostazione marxista rispetto ai paradigmi di Marx. Demitizzando la vicenda di Spartaco, negando la sua qualità di eroe di classe, revocando alla sua impresa il carattere di «rivoluzione destinata a rovesciare le basi schiavistiche della società imperiale», sottolineandone invece il carattere di avventura personale che trova significato «solo all’interno dell’orizzonte della schiavitù romana, un limite da non oltrepassare», Schiavone perviene a una dichiarazione che ha la forma di un credo e la forza di un anatema: «Credo che la dilatazione arbitraria del paradigma delle classi e delle loro eventuali forme di coscienza, fino a farne una specie di chiave universale dell’interpretazione storica, è stata una delle forme peggiori di inquinamento della conoscenza del passato mai prodotte dalla cultura europea fra XIX e XX secolo».
Si sarebbe tentati di definire il suo saggio revisionista. Ma non lo è. In primo luogo perché la lettura dei processi economici e sociali della società industriale e dei suoi sistemi produttivi, contrapposti a quelli antichi, e dunque di quel «fatto grandioso e generativo della modernità stessa dell’Occidente» che è per Schiavone la lotta di classe, derivante dalla libera condizione operaia contrapposta a quella servile dello schiavo il cui valore-lavoro non è considerato tale nel ciclo economico, resta marxiana. E in secondo luogo perché ogni revisionismo è funzionale alla riproposizione di un assunto, reazionario o meno che sia. Mentre la ricerca di Schiavone su Spartaco è libera da appartenenze e la sua visione, o revisione, della vicenda cardine della lettura ideologica marxista dell’antichità ha una sola funzione: il ripristino della libertà di interpretazione; la riabilitazione del dubbio.
«Augustin Thierry aveva chiamato la storia narrazione; Guizot, analisi; io la chiamoresurrezione», scriveva Jean Michelet. Non è solo la storia antica, ma la storiografia sull’antichitàa risorgere dalle catene dell’ideologia, in questo libro dallo stile piano, depurato dalle gergalità della saggistica engagée , ma non per questo meno tenacemente avvinto al nocciolo duro dei suoi temi di interesse.
Cercando di eludere il magnetico ipnotismo dello sguardo del vincitore (che sempre scrive la storia, e tanto più quella di Spartaco, elaborata negli anni fra Cicerone e Augusto «in ambienti contigui ai gruppi dirigenti del vertice del potere»), Schiavone riapre con rigore istruttorio il frastagliato dossier delle fonti, attento a ogni minima smagliatura nella loro trama e alle tracce che può nascondere. Ne ricava un parallelo, se non un transfert, fra Spartaco e Annibale. E coglie il momento di trasformazione della ribellione servile in un grande progetto politico di sconfitta dei «padroni del mondo».
Se è vero che l’attualizzazione di Spartaco nel marxismo novecentesco aveva più di una forzatura, se è rischioso tracciare paralleli fra la contemporeaneità e un’antichità inesorabilmente aliena dalle nostre categorie sociali, economiche, antropologiche, se la psicologia di Spartaco e il suo «paesaggio interiore» di cavaliere trace dalle oscure risorse sciamaniche e dalle certe emotività dionisiache ci sono «completamente interdetti», è altrettanto vero che in filigrana, nella «mitizzazione epica» del personaggio-simbolo della lettura marxista dell’antichità, si legge un sincero, attuale disincanto, che fa del suo libro anche un manuale di sopravvivenza politica al presente.
Perché, di tutti gli esegeti del caso Spartaco, Schiavone è oggi probabilmente più vicino al più pessimista e più lucido, il «democratico» Sallustio. Che non a caso, nel commentare quella «rivoluzione», scrive: «Solo pochi vogliono la libertà, la maggior parte vuole padroni giusti».

l’Unità 19.3.11
I volti perfetti di Lotto
Preferiva i colori freddi, ma nei ritratti era un maestro insuperabile: una mostra a Roma
di Renato Barilli


Le romane Scuderie del Quirinale ci hanno abitutato a mostre perfette dedicate ai nostri maestri del passato, così è stato per Antonello da Messina e Giovanni Bellini, ora è la volta di Lorenzo Lotto (1480?-1556), con un passaggio di mano nella curatela da Mauro Lucco a Giovanni Villa, ma con la stessa capacità di far giungere tutto il trasportabile dei relativi artisti.
Per affrontare questo grande veneziano che si innesta sul tronco già stabilito dal Bellini, non conviene però insistere oltre misura su certe sue peculiarità caratteriali, che pure esistevano per sua stessa ammissione, come sempre è meglio rifarsi a un quadro stilistico, che nei primi decenni del Cinquecento vide un aspro scontro tra due concezioni di maniera moderna. L’una proveniva da Leonardo, con epicentro nella nozione di sfumato, ovvero nella scoperta che siamo immersi nell’atmosfera, pronta a corrodere i contorni, e proprio a Venezia questa linea trionfò lungo l’asse Giorgione-Tiziano. Ma c’era negli stessi anni una diversa concezione del moderno, sostenuta dal tedesco Albrecht Dürer, artista duro di nome e di fatto in quanto eslcudeva del tutto l’atmosfera dai suoi dipinti, e dunque i contorni lineari resistevano, incisivi, martellanti. Ebbene, il Lotto aderì a questa linea, e dunque il tonalismo di Tiziano, ovvero la mistura tra i colori naturali delle cose e l’effetto esercitato su di loro dall’atmosfera, non faceva per lui.
MADONNE, BAMBINI E SANTI
A questa carenza egli rimediava conferendo un sovrappiù di energia alle Madonne e Bambino e Santi, capaci di guizzi, di impennate, ma subito bloccati da una colorazione fredda, cristallina, proprio perché non intaccata dall’aria. Dominano quindi nelle sue pale le tinte che fanno pensare a quanto si ottiene oggi verniciando alla fiamma le carrozzerie, certi verdi smeraldo o rosa ciclamino, la gamma dell’artificio, una strada su cui il Lotto si trascina dietro i bresciani e bergamaschi sul tipo del Savoldo e del Moretto, anche perché respinto da Venezia, in cui Tiziano la fa da padrone, è costretto a farsi il nido in periferia. E proprio Bergamo gli fu propizia, negli anni venti, prima di andare a isolarsi nelle Marche e a morire a Loreto. Dovunque la maniera moderna nella versione leonardesca vincesse, la Roma di Giulio II, e beninteso la Serenissima, questo artista fermo nel coltivare un rito tedesco veniva respinto, emarginato, e non possiamo dare torto ai gusti del tempo, il progresso, allora stava proprio dall’altra parte. Ma questa stessa fedeltà ad Alberto Duro gli permise di ereditarne l’estrema perizia nei ritratti, in cui lo scontroso maestro veneziano fu maestro assoluto, fino a battere il rivale Tiziano. In mostra, si affermano implacabili i volti, i mezzi busti delle persone che ebbero la fortuna di posare per lui, venendo fissati con tratto implacabile, con piena aderenza ai tratti fisionomici, con una lucida ricognizione capace di estendersi anche agli oggetti che ciascuno di loro brandisce fieramente, a indicare la professione esercitata.

Corriere della era 19.3.11
Silvia Montefoschi, la psicanalista che seguì Fellini e la Ginzburg
di Marco Garzonio


È morta Silvia Montefoschi, la psicanalista che, in una cultura psicologica al maschile, s’è distinta come una delle voci più autorevoli, coraggiose e originali nell’elaborazione di modelli teorici, nella pratica terapeutica, nella formazione di professionisti. Era nata a Roma nel 1926 e lì si formò alla scuola di Ernest Bernhard, il medico che introdusse Jung in Italia, ebbe per pazienti Federico Fellini e Natalia Ginzburg e tenne rapporti con Bobi Bazlen, trai fondatori di Adelphi, grazie a cui si diffuse un sapere psicologico attento a miti, irrazionale, sapienza orientale, religiosità e autonomo verso il freudismo allora dominante. Trasferitasi a Milano, la Montefoschi rappresentò un punto di riferimento importante negli anni 70 e 80. I suoi libri, pubblicati da Feltrinelli nell’autorevole collana di Psichiatria e di psicologia clinica diretta da Gaetano Benedetti e Pier Francesco Galli, divennero un richiamo per una generazione di studiosi e di persone alla ricerca di sé e di un senso da dare alla vita nelle tensioni anche drammatiche d’un passaggio che fu epocale. Erano gli anni frutto del ’ 68, del femminismo, dei movimenti di liberazione a livello internazionale, di un marxismo che intercettava ancora le esigenze di cambiamento ma non riusciva a uscire da schematismi ideologici, di un post concilio che accendeva le speranze dei cristiani. Silvia Montefoschi seppe interpretare il momento storico con scelte di vita rigorose. Lasciò il rifugio delle istituzioni analitiche per essere più libera nell’elaborazione del suo pensiero. Tese gli sforzi a ridare funzione «sociale» alla psicanalisi riportandola al suo compito essenziale: consapevolezza e trasformazione interiore; la convinzione era che solo dai cambiamenti interiori si può immaginare che fiorisca una nuova pratica umanistica e sociale. Meta della Montefoschi fu operare perché l’uomo e la donna lavorassero a una continua presa di coscienza della realtà e dei condizionamenti, non solo per risolvere i propri problemi personali, ma per diventare individui responsabili, che, insieme ad altri, pongono mano al cambiamento delle relazioni intersoggettive, del collettivo, delle culture di riferimento. Di lei resta di grande attualità una incondizionata fiducia nella dialettica dei saperi, nel dialogo tra le persone, nella vita interiore arricchita dal lavoro con l’inconscio e i sogni, nell’autorealizzazione di se stessi come destino che accomuna uomini, generazioni, epoche.

Corriere della Sera 19.3.11
Il sabato della luna piena gigante


Dita incrociate perché stasera il cielo sia libero dalle nuvole: si prepara uno spettacolo da non perdere, con una Luna piena gigante. È un fenomeno molto diverso dalla «superluna» degli astrologi, portatrice di sventure e catastrofi, ma un evento astronomico nel quale ogni 19 anni la Luna raggiunge la distanza minima dalla Terra. Quest’anno a renderlo interessante è il fatto che la Luna, così vicina, sarà piena e raggiungerà il culmine a mezzanotte. «La Luna raggiungerà la stessa distanza minima dalla Terra che aveva raggiunto 19 anni fa» , spiega l’astronomo Luca Nobili, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf). Questo non significa che in 19 anni la Luna non si sia avvicinata alla Terra. «La Luna si è trovata ad una distanza ancora più piccola dalla Terra nel 2008, nel 2005 e nel 1993», rileva Gianluca Masi del Planetario di Roma.