martedì 22 marzo 2011

Repubblica 17.3.11

Il male oscuro

Quella lotta di Ellen contro il suo corpo
Lo psichiatra Binswanger racconta un caso clinico: è la drammatica storia di una ragazza anoressica e dei tanti tentativi di cura
Aveva dimenticato i suoi primi dieci anni di vita Aspirava a qualcosa di straordinario
Aveva l’ossessione del pane. Era sempre combattuta tra la brama di divorare e quella di assottigliarsi
di Pietro Citati


Ludwig Binswanger, nato in Svizzera nel 1881, è una delle figure più significative della psicologia e della psichiatria moderna. Da un lato, era amico e collaboratore di Breuer, di Bleuler e di Freud, che inviavano malati nella sua clinica di Kreuzlingen: dall´altro, per tutta la vita lesse e meditò profondamente i libri di Husserl e di Heidegger. Tutto ciò che scrisse è imbevuto di questa doppia influenza: psicologia analitica e filosofia esistenziale si intrecciano e si fondono, entrano ognuna nel campo dell´altra, provocando ambiguità e sottigliezze. Qualche volta, le sottigliezze sono troppe; e ci troviamo smarriti in un linguaggio cifrato. Ma i suoi "casi clinici" sono bellissimi, specie quelli raccolti nel 1957 nel volume Schizofrenia: vi è attenzione, scrupolo, morbidezza, talento narrativo e una specie di disperato azzardo, che lo porta dovunque alla ricerca della verità che si nasconde. Il principale di questi testi è Il caso Ellen West, appena pubblicato da Einaudi a cura di Stefano Mistura (traduzione di Carlo Mainoldi, p. LVII-205, euro 18).
Ellen West apparteneva a una famiglia ebraica, nutrita di ansia, depressione e angoscia, dove abbondavano i suicidi. Quando Binswanger la interrogò a Kreuzlingen, Ellen aveva dimenticato i suoi primi dieci anni di vita. Tutto era avvolto in una oscurità quasi completa: o emergeva soltanto il suo istinto di negazione: «Questo nido non è un nido»: «Questo latte non è latte», ripeteva da bambina. Aspirava a qualcosa di straordinario; "Aut Caesar aut nihil". Voleva la gloria, la tensione, la violenza. A vent´anni immaginò di conoscere la felicità. Ma, subito dopo, fu assalita da una crisi profondissima e cadde nell´apatia. «Tutto per me si equivale, sono completamente indifferente, – scrisse – non conosco sentimenti di gioia e nemmeno di angoscia». «Io sto di fronte a me stessa come di fronte a una straniera». Le sembrava di camminare su una costa marina vertiginosa, in un difficile equilibrio sopra le rocce; e poi di sprofondare sempre più in basso, sempre più in basso. Attorno a lei, c´era il vuoto: la miseria dell´anima le sedeva accanto: gli uccelli tacevano e fuggivano: se apriva bocca, i fiori appassivano: dovunque, spettri erano in agguato; e il mondo diventava a poco a poco una tomba.
Quando compì ventitre anni, venne violentemente assalita dal timore di diventare grassa. «Mi sento ingrassare, diceva, ne tremo di paura, vivo in una condizione di panico». Pensava esclusivamente a dimagrire: a trentadue anni era uno scheletro; e avrebbe voluto morire, come l´uccello a cui il canto si spegne nel pieno della gioia canora, o consumarsi selvaggiamente nel proprio fuoco. «Quando vedo i cibi, e cerco di portarli alla bocca, tutto si chiude nel mio petto, e mi fa soffocare e mi brucia». Ma il suo desiderio era doppio. Il desiderio di dimagrire era un aspetto del suo desiderio di allargarsi, di estendersi e di dilatarsi. Aveva l´ossessione del pane: vagava di continuo intorno al pane chiuso nella credenza: nella sua mente, nel sonno e nella veglia, non c´era posto per nessun altro pensiero; non poteva concentrarsi né nel lavoro né nella lettura. Pensava di essere diventata come un assassino, che ha continuamente davanti agli occhi l´immagine dell´uomo che ha ucciso, ed è irresistibilmente attratto dal luogo del delitto. Così era combattuta: la brama di divorare contro la brama di assottigliarsi; e restava spossata, esausta, coperta di sudore, con le membra doloranti.
Non dobbiamo credere che il suo caso fosse una semplice forma di anoressia. Con le sue forze scatenate, andò molto più lontano: penetrò nella tragedia fondamentale del corpo, la sua apparenza, la sua sostanza, il suo rapporto con gli altri esseri umani e il resto del mondo. Si rivoltava contro la propria corporeità: ma questa rivolta aveva la conseguenza di far emergere la corporeità in primo piano, come se non ci fosse nient´altro né in lei né altrove. Si mascherava dietro la vergogna, cercando di nascondere agli occhi e agli orecchi tutto ciò che era visibile e udibile. Più tentava di celarsi, più era visibile, dava nell´occhio, o cercava drammaticamente di dare nell´occhio. Era lì, sempre, davanti agli sguardi di tutti.
Col passare dei mesi e degli anni, Ellen West si costruì un immenso campo di prigionia: una Siberia di solo ghiaccio; e desiderava la morte con lo stesso ardore con cui un soldato prigioniero tra i ghiacci desidera ritrovare la patria; «Io sono in Siberia – ripeteva: il mio cuore è una morsa di ghiaccio». Si sollevavano mura, sia pure lievi come l´aria ed il vetro. E, sulle mura, c´erano folle di nemici. Dovunque si voltasse, un uomo con la spada sguainata le impediva di fuggire. Le sembrava di essere su un palcoscenico. Cercava scampo, ma qualche oscuro nemico le si parava davanti. Se si precipitava verso la seconda, la terza, la quarta uscita del palcoscenico, trovava ogni volta un muro oscuro di cartone o di sasso. Non le restava che stramazzare su sé stessa, incapace di qualsiasi fuga. Viveva chiusa in un globo di vetro. Vedeva gli uomini attraverso una paratia trasparente, e le loro voci le giungevano fioche e attutite. Si sforzava di arrivare sino a loro, protendendo le braccia verso di loro, ma le mani continuavano ad urtare contro le opache pareti di vetro.
Verso la fine di marzo del 1921, dopo quasi tre mesi di soggiorno nella clinica di Kreuzlingen, Ellen West chiese di venire dimessa. Ludwig Binswanger era incerto: non ignorava quali rischi incombessero sulla sua fragilissima malata. Poi decise. Il 31 marzo 1921, Ellen West ritornò a casa, insieme al marito. Dapprima si sentì incapace di vivere. I vecchi sintomi si ripresentarono. Era prostrata. Tre giorni dopo, quasi all´improvviso, la sua vita si trasformò. Si alzò: fece la prima colazione con burro e zucchero; e a mezzogiorno – per la prima volta dopo tredici anni – si sentì soddisfatta, nutrita e placata. A merenda, mangiò cioccolatini e uova di pasqua. Il cibo le dava gioia, rinforzava le sue energie, alimentava il suo amore, nutriva le sue speranze, illuminava il suo intelletto. Dopo aver passeggiato col marito, lesse poesie di Rilke e di Storm, di Goethe e di Tennyson; e rise percorrendo il primo capitolo delle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain.
La durezza, la violenza, la caparbietà, la furia, lo spirito di negazione, il senso di solitudine e di prigionia, il carcere di pietra e di vetro, l´odio del corpo, il disgusto e la fame – tutto ciò che aveva reso la sua vita un inferno – scomparvero. Il mondo le svelò, dopo tanti anni, il suo volto festoso e leggero, che lei aveva appena intravisto. La sera, senza che nulla lasciasse prevedere la sua decisione, senza dubbi e incertezze, prese una dose mortale di veleno. Poi scrisse una lettera al marito: gli domandava perdono, lo ringraziava per il suo amore, lo pregava di non piangere, e infine gli spiegava che qualsiasi lotta ulteriore contro il male sarebbe stata inutile. Tutto era finito: ma lei si sentiva finalmente libera. La mattina del 5 aprile Ellen West morì. «Apparve allora, come mai nella sua vita, serena e felice e in pace con sé stessa». Possiamo dire che Ellen West fu sopraffatta dal veleno della morte? Non è certo: la morte, anche la morte volontaria, può essere un compimento, una liberazione, una pienezza.

il Riformista 11.4.07
Saggio. Il diario della donna ebrea
II caso Ellen West. L'Anne Frank della psichiatria?
di Annelore Homberg e Cecilia Iannaco


Una tragedia in due atti: suicidio e rilettura heideggeriana
L’obiettivo è “eliminare” la malattia, non il malato

Ellen West è il nome che lo psichiatra Ludwig Binswanger inventò nel 1943 per raccontare il caso clinico di una giovane donna ebrea, di probabile nazionalità americana e origini tedesche; un caso che diventerà paradigmatico per la sua psichiatria fenomenologica o daseinsanalisi e che si era concluso tragicamente più di vent'anni prima, nell'aprile del 1921.
Se il saggio di Binswanger è ben noto ai lettori italiani, non altrettanto lo è la ricerca, dai risultati a dir poco sorprendenti, che lo storico della medicina Albrecht Hirschmüller ha condotto su questo caso clinico. Il lavoro di Hirschmüller - del quale abbiamo curato l'edizione italiana per la rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla - si basa sul diario di Ellen e su un ricco carteggio, entrambi inediti, che permettono di ricostruire la storia della donna in modo assai più ampio e veritiero di quanto non abbia fatto lo stesso Binswanger. Pochi sanno infatti che il caso West si articola in due momenti.
Il primo atto di questa pièce desolante si svolge in un solo anno, tra il 1920 e il 1921, e si conclude con il suicidio della paziente. Tutto inizia quando Ellen - che stava molto male e per la quale le diagnosi future andranno dall'anoressia alla schizofrenia - si rivolge allo psicoanalista Victor von Gebsattel, che più tardi si occuperà anche lui di psichiatria fenomenologica. Questo trattamento finisce dopo sei mesi quando Gebsattel, in piena crisi mistica, manda Ellen dal suo santone; Ellen si rifiuta e prova con un altro analista, a sua volta ossessionato dal tema dell'erotismo anale. Visibilmente peggiorata, nel gennaio 1921, la donna giunge alla famosa clinica di Kreuzlingen sul Lago di Costanza. di proprietà dei Binswanger. Il giovane direttore Ludwig la riceve amabilmente ma è contrario ad ogni tipo di trattamento approfondito. Come consulente chiama il professor Hoche, stimato docente universitario, che proprio l'anno precedente aveva elaborato quel micidiale progetto di «annientamento di vita indegna di essere vissuta» che sarà poi alla base dello sterminio nazionalsocialista dei malati di mente. In tre mesi Binswanger, Hoche e il marito di Ellen giungono al verdetto che per lei non c'è alcuna speranza di miglioramento; "sanno" che è destinata al suicidio e decidono di dimetterla. È probabilmente il marito stesso a fornirle il veleno con cui la giovane donna, tornata a casa, docilmente si uccide.
Il secondo atto della tragedia - se possibile ancor più sconcertante del primo - si svolge invece dopo un silenzio di oltre vent'anni, quando Binswanger decide di riprendere la storia della paziente non per comprendere come un simile fallimento terapeutico era potuto accadere, ma per rileggerlo con le lenti di quella filosofia heideggeriana che nel frattempo ha fatto sua, e alla luce della quale la morte di Ellen diventa «una realtà inevitabile», il «necessario adempimento del senso della sua vita».
Si rimane feriti dal cinismo - ma sarebbe meglio dire dalla fatuità - con cui Binswanger riconverte la storia dell'ebrea Ellen West in una teoria del suicidio come «gesto autentico», proprio negli anni in cui, sull'altra sponda del Lago di Costanza, altri ebrei vengono condotti verso i campi di sterminio. In realtà, un'attenta analisi del materiale raccolto da Hirschmüller fa emergere l'ipotesi che questo «essere per la morte», più che della paziente, fosse piuttosto un problema dello stesso Binswanger e della filosofia che aveva adottato.
La West al contrario, chiedendo insistentemente aiuto, aveva sperato di poter guarire e vivere. Il suo cupo diario ritrae una persona drammaticamente braccata su due fronti: all'interno dalla grave malattia ed all'esterno dalle persone che la circondavano. Proprio quest'ultimo aspetto, insieme agli slanci improvvisi di speranza ed alla gioia di vivere che le pagine, in alcuni momenti, comunque trasmettono, fa apparire nella mente un'immagine che vorremmo cacciare: l'immagine di un altro diario, quello di Anne Frank.
Ricordare oggi la vera storia di Ellen West è importante per sottolineare l'esigenza di una psichiatria che, per essere tale, deve innanzitutto rifiutare un'impostazione teorica che nega l'idea di curabilità se non addirittura quella stessa di malattia mentale. Una psichiatria che al contrario tiene ben saldi i concetti medici di diagnosi, cura, guarigione anche se vengono applicati alla mente e non al corpo. Solo così si arriva a una prassi che, diversamente da quella nazista e purtroppo anche da quella di Binswanger, è volta ovviamente ad "eliminare" la malattia, e non il malato.
 
ARTICOLI STORICI:

Il Messaggero 9.11.1977
Un analista che rifiuta Freud
Intervista a Massimo Fagioli
di Fulvio Stinchelli


Quarantasei anni, faccia scavata e sguardo ardente dietro le lenti fumè un passato di rissoso eretico freudiano alle spalle, Massimo Fagioli è oggi lo psicoanalista italiano di gran lunga più seguito e ascoltato. Da due anni , nello spazio universitario concessogli dall’il- luminato pluralismo del professor Reda per l’intercessione del suo amico e collega Nicola Lalli, tiene seminari bisettimanali sempre più affollati. Terapia di gruppo? Psicodramma? L’autore di “Istinto di morte e conoscenza” respinge seccamente queste definizioni-etichetta che “lo soffocano”, dice, “senza appartenergli”. Mezzo scienziato e mezzo profeta, rinnega paternità, filosofie e ideo-logie: Freud? Un pasticcione. Lacan? Un altro che non ha capito niente. La psicoanalisi? Si, purché sia quella che passa per l’ “in-conscio marecalmo”, la “fantasia di sparizione” e l’ “istinto di annul-lamento”. Sono questi i tre cardini della “scoperta” su cui ruotano ossessivamente la dottrina e la “predicazione” di Fagioli. Lo incontriamo nel suo quieto studio di Via Nomentana, in una cornice rigorosamente freudiana: pochi libri , quadri anonimi, scrit toio modesto, poltrone comode e il sacro divanetto. Osserviamo. “Qual cosa di Herr Professor comunque rimane”. Risponde: “Restano le analisi individuali che continuo a fare, perché i seminari sono gratuiti, ma il mio vero campo d’azione è l’analisi collettiva, una cosa che Freud non ha mai fatto”. Prima di arrivare all’analisi collettiva, che è il successo del giorno, vogliamo soffermarci un attimo sul punto di partenza? “Per me tutto cominciò al liceo, quando, vivendo in ambiente medico, feci la prima osservazione: Le malattie psichiche distruggono più di quelle fisiche. Una gamba rotta o una broncopolmonite tro- vavano soluzione mentre i pazienti depressi venivano liquidati col manicomio. Decisi allora di fare medicina e specializzarmi in psichiatria. Dopo la laurea, la pratica presso l’ospedale psichia- trico di Venezia. Per un anno e mezzo mi attenni al ruolo e alle disposizioni: non dovevo far altro che girare la chiavetta e zac: elettroshock.. Allora mi chiesi: ma cosa sto facendo? Sto alla catena di montaggio? Avvito le teste? Me ne andai e cominciò un periodo duro per me. Prima Verona, dove mi cacciarono perché ero “rosso”, poi approdai a Padova, dove un minimo di ricerca si faceva. E lì mi venne la prima ispirazione. Dissi: l’istinto di morte è l’istinto di morte, d’accordo, ma questi, i malati, non muovono un dito. Dov’è tutta questa aggressività? Un esempio? Reparto agitati: trenta ricoverati, due infermieri. Mai accaduto un incidente. Allora, quest’istinto di morte non è distruzione. In-cominciai così a studiare questo istinto passando e andando sempre più a fondo nel rapporto con l’inconscio. Mi trasferii in Svizzera, dove ebbi modo di superare la sindrome del malato per vedere cosa ci fosse dietro. Nel ’64 feci la mia analisi personale, la svolta fondamentale”. C’è un episodio cui puoi legare questo del passaggio dalla psichiatria alla psicoanalisi? “Si, ed è connesso a un paziente il quale, un giorno, mi rimproverò di non averlo assistito in una de-terminata circostanza e di avergli, quindi, “fatto del male”. Ma se quel giorno, mi dissi, io ero in ospedale, come posso avergli fatto del male? Fu un’illumina-zione: è l’assenza che fa del male. Cos’è l’assenza? E’ una pulsione attiva di annullamento”. Qui spunta Lacan…. “No. Lacan dice che è una man-canza. La mia, ripeto, è pulsione attiva di annullamento. La si può verificare nel “Non visto” e nel gioco infantile del “Bubù settete”, dove il bambino appare e sparisce. Di qui mille passaggi, verifiche e confronti. Una storia lunga, che comincia, però, qui: dalla scoperta dell’annullamento”. Arrivando a questa scoperta e nel lavoro successivo, l’inse-gnamento di Freud l’ha tenuto presente? “L’ho rifiutato e lo rifiuto total-mente”.
Anche tu, però, in questa ricerca , pratichi “l’arte del sospetto”? “Ma nemmeno per idea. Il sospetto parte da una verità precostituita e accertata: Io mi metto in sospetto se temo che tu mi dia un pugno: La mia ricerca non ha condizionamenti di questo tipo”. E’ importante, secondo te, che Freud sia nato”? “Io, sulla nascita delle persone, evito di intervenire. Giusto che sia nato, lo sbaglio è che si è messo a fare lo psicoanalista. Se avesse fatto il medico generico sarebbe stato molto meglio. Diciamo le cose come stanno: esiste una bibliografia enorme, opera di predecessori di Freud, che sta a dimostrare che Freud non ha scoperto niente.
Se una certa società e una certa cultura lo idealizzano tanto ciò è dovuto al fatto che con Freud l’analisi non si fa e questa società ha paura che la gente faccia l’analisi, perché fare l’analisi sul serio significa vederci chiaro, rendersi conto dei “mucchi di sabbia” di tanta cultura, significa imparare a dire si no. E chi sa dire di no rimette tutto in discussione: affare scomodo. Freud, invece, è comodo perché finge di fare l’analisi. Infatti, non ha metodo, si limita a codificare la non-trasformazione umana. La sua è un’analisi interminabile, perché parte dal punto di vista che non c’è niente da fare e allora ricade nella vecchia psicoterapia di sostegno. Roba dei tempi di Ippocrate.
Non c’è trasformazione…..”. Invece, nella tua c’è, a quanto lasci capire. ma prima di te? “C’è Marx. Ecco uno che aveva intuito la psicoanalisi, parlando di trasformazione. Mi riferisco al giovane Marx, quello dei “Mano-scritti” e dell’ ”Ideologia tedesca”. Meno male che anche tu ha i un padre, ma veniamo ai tempi nostri: quando ti sei deciso a rompere con la Società di Psicoanalisi Italiana? “E’ una storia risaputa. Comunque, fu nel ’68. Sentii che i tempi erano matura per tirar fuori quel che avevo scoperto e già praticavo. Pubblicai il mio primo libro e fu l’innesco della reazione a catena che mi ha portato agli attuali seminari basati sull’analisi collettiva”. Anche qui c’entra Marx? “Eh, sì. Perché tutta quella gente raccolta intorno a me parla, rac-conta, domanda, ascolta e domanda ancora. E torna, puntualmente, sen-za che nessun le abbia fissato un appuntamento né un programma d’analisi.
Tutti insieme, senza pudori né resistenze. Indub-biamente, trovano quel che stavano cercando. Tutti insieme, collet-tivamente. Siamo dunque lontano dall’analisi individuale. Un po’ co-me la presa di coscienza nella fabbrica, Per me è la conferma di essere sulla via giusta. Io non uccido il paziente come fa l’analista dall’alto del suo ruolo e del suo diploma, nel chiuso dello studio. Io li affronto, lì, seduto in mezzo a a loro che sono centinaia, pronti a rimbeccarmi se dico stupidaggini. Perché la gente conosce l’analisi più di quanto comunemente si creda”. Qual’è la differenza tra analisi individuale e analisi collettiva? “ All’analisi individuale si presenta, quasi sempre, un uomo che sta molto male: è confuso, annullante, depresso. In quel caso deva fare quasi tutto l’analista, cogliendo il problema e cerando di risolverlo, direi a dispetto dello stesso ana-lizzando che vuol distruggere l’ana-lista. Questo, in un certo senso si verifica anche al seminario, ma lì la risposta è collettiva. A volte io non faccio che interpretare il sogno di uno per rispondere a quello di un altro. E’ la conferma che l’uomo è un essere sociale. Vedi che Marx torna sempre? Voglio dire che il problema della ragazza la cui madre le dà della puttana perché esce la sera è problema di migliaia di persone, non è il problema per-sonale di quella singola ragazza con quella madre. Questo è il mio la-voro, in poche parole. E allora si capisce perché tutto ciò rappresenta la distruzione di Freud”.

Il Giorno 20.1.1978
La psicoanalisi da privilegio per pochi ad attività terapeutica di gruppo
Freud non è più lusso
di Adele Cambria


I giovani della nuova sinistra, in rottura con la psichiatria tradizionale, si riuniscono sempre più numerosi a Roma intorno a un transfuga della Società Psicoanalitica Italiana, il professor Massimo Fagioli - L'analisi non si fa più individualmente, è una ricerca collettiva degli equilibri perduti - Terapia scientifica o psicodramma? - Parla il promotore del nuovo movimento
"Si potrebbe dire - scriveva Gramsci nei "Quaderni del carcere" - che l'inconscio incomincia solo dopo tante decine di migliaia di lire di rendita". Insomma, per Gramsci l'inconscio ce l'avevano i ricchi, i poveri no. Problemi di lusso, quindi, i problemi dell'inconscio, e già Lenin del resto nelle sue conversazioni con Clara Zetkin (1921), s'era riferito alla psicoanalisi come a qualcosa che "fiorisce con esuberanza sul terriccio della società borghese".
Dopo sessant'anni, oggi nessuno potrebbe sostenere quelle tesi. Il bisogno di investigazione di sé, si conoscenza e di aiuto è diventato, se non bisogno di massa, certo una domanda che avanza e si fa drammatica, specie tra i giovani e le donne; le risposte istituzionali sono largamente inadeguate: da una parte, e nei casi più gravi, la psichiatrizzazione (manicomio o clinica per malattie mentali) e dall'altra psicofarmaci più o meno rimborsati dalle mutue, qualche CIM (Centro di Igiene Mentale) assediato da richieste cui non può rispondere, e le sedute di analisi individuale, inabbordabili da chi, pur proletario o proletarizzato (operai, disoccupati, studenti, donne), l'inconscio che l'ha, ma non ha i soldi per occuparsene. Nel silenzio delle istituzioni nascono allora i gruppi, più o meno spontanei, più o meno "selvaggi", in cui la gente si aggrega e parla di sé.
Come esempio e campione, traverso il quale svolgere questo primo tema, mi pare cronisticamente corretto scegliere una realtà terapeutica che emerge, nel paesaggio a volte confuso della "analisi di gruppo", con caratteristiche non ordinarie. Alcune di esse sono percettibili, per così dire, ad occhio nudo: la gratuità assoluta e il numero dei partecipanti, complessivamente valutabile a circa seicento persone, divise in tre gruppi, che si riuniscono in tre giorni diversi della settimana, con lo stesso analista. La qualità dei partecipanti pur non essendo esclusiva di questa situazione è, qui, sottolineata da una forte omogeneità,; è quello che, a partire dal febbraio scorso, si definisce come il "Movimento", a formare la popolazione di base in questa sede (una piccola aula dell'Istituto di Psichiatria dell'Università di Roma, diretto dal professor Giancarlo Reda). E' dunque la folla giovanile - maschi e femmine - diventata protagonista, anche drammaticamente, della scena politica italiana negli ultimi dieci mesi.
Su questo strato di fondo si innestano poi iscritti al PCI (ma sempre giovani), molte donne, alcuni medici (non soltanto psichiatri o psicoanalisti) qualche "nome" del mondo dello spettacolo, ovviamente più politicizzato (il regista Marco Bellocchio, la sua compagna, l'attrice Gisella Burinato).
Fin qui gli elementi esteriori che pure distinguono questo gruppo dagli altri. Gli elementi invece più profondi di diversità sono da rintracciare nella persona dell'analista, Massimo Fagioli, e nel fatto che in questa sede si sperimenta una teoria che Fagioli rivendica come originale. Qui non si fa analisi secondo Freud, Jung, Lacan, ecc.. o attraverso una miscellanea di teorie e pratiche diverse: si fa analisi secondo quanto è scritto nei testi di Massimo Fagioli, che sono tre: "Istinto di morte e conoscenza", "Psicanalisi della nascita e castrazione", "La marionetta e il burattino".
Per capire serve intanto sapere chi è Massimo Fagioli. Buon rieducatore o guru?
Professionalmente ha tutte le carte in regola, Medico psichiatra, prime esperienze "manicomiali" a Venezia e quindi a Padova, primi tentativi (metà degli anni sessanta) di gestione diversa del manicomio, poi trasferimento in Svizzera, nella clinica dell'antropsichiatra Ludwig Binswanger, dove vive per un anno in una comunità terapeutica (malati di mente, medici, infermieri).
Tornato in Italia costituisce egli stesso una comunità di questo tipo, ed incomincia a fare analisi didattica con il freudiano Nicola Perrotti. Ammesso nella Società Psicoanalitica Italiana (Spi), esercita la professione privata, e comincia ad elaborare le teorie oggi contenute nei suoi testi, attraverso le quali si pone come "eretico" rispetto a tutt'intera la tradizione e la prassi psicoanalitica (con l'esclusione parziale di Wilhelm Reich, come l'unico che abbia tentato la saldatura tra psicoanalisi e politica).
Scrive "Istinto di morte e conoscenza" e nel cerchio chiuso dei freudiani ortodossi viene allora considerato un talento; Franco Fornari, tra gli altri, parla di "scoperta" nella psicoanalisi (Congresso di Vietri 1971). Dal momento in cui il libro è pubblicato sopravviene l'ostracismo: nel febbraio del 1976 lo si costringe ad uscire dalla Spi. Già alla fine del '75, però, erano incominciati i suoi seminari.
Sentiamo, adesso, ciò che dice Massimo Fagioli.
Si può essere psicoanalisti e non freudiani (né junghiano, né lacaniani)?
"Non è nuova la psicoanalisi, è nuovo Freud. Così come non era nuova l'America, era nuovo Colombo". Questo lo scriveva il romanziere Arthur Schnitzler, nel primo decennio del secolo. Oggi, a quarant'anni dalla morte di Freud, si può e si deve dire la verità: non era nuovo neanche Freud. La psicoanalisi è sempre esistita: è esistita in Shakespeare, nella tragedia greca. Si tratta di tradurre in scienza, utilizzabile da tutti, ciò che per gli artisti è intuizione."
Ci sono alcuni concetti-chiave della teoria che tu hai formulata, e che pratichi nei gruppi di analisi collettiva. Essi sono, mi pare, quelli di "Istinto di morte, fantasia di sparizione, inconscio mare calmo, investimento sessuale", tutto un meccanismo, se ho capito bene, che si mette in moto nell'istante della nascita e poi, ancora, "invidia e bramosia". Puoi spiegare di che si tratta?
"Dell'istinto di morte Freud ha parlato tardi, nel 1920: ma, oltre ad essere stato preceduto, su questo argomento, almeno da due dei suoi allievi, Adler e Steckel (il "furto", in Freud, è sempre presente), c'è da dire che, ancora una volta, non si inventava nulla: l'istinto di morte appartiene al nichilismo russo, si profila già nell'Ottocento. Per me istinto di morte, non è necessariamente, tendenza negativa, distruttività: è piuttosto la prima pulsione del neonato a tornare da dove è venuto, nell'utero materno..."
Ma perchè, nascendo, si dovrebbe avere voglia di tornare indietro? Perchè dare per scontata questa situazione di "pessimismo esistenziale"?
"E' una questione di pura e semplice sopravvivenza: Il contatto con la realtà esterna, la realtà inanimata (luce, freddo, ecc.) è ostile al bambino, che finallora se n'è rimasto immerso beatamente nel liquido amniotico.
Il contatto sessuale, stabilito attraverso la cute, con il corpo della madre, produce nel bambino appena nato, il ricordo di ciò che io chiamo inconscio mare calmo. Il meccanismo della nascita è il seguente: il bambino nasce e in lui opera immediatamente l'istinto di morte, come pulsione a ritornare nel ventre della madre: per sopravvivere, egli ha bisogno di annullare la realtà esterna, ostile, che lo circonda (fantasia di sparizione): però, nello stesso momento, si forma in lui il ricordo dell'inconscio mare calmo, e il bambino, esprimendo la propria libido, cerca un investimento sessuale nel rapporto umano: cerca la madre, il seno materno.
Se questo primo rapporto fallisce, fallisce anche l'uomo come essere sociale (secondo la definizione di Marx). Quindi depressione, schizofrenia, ecc.
Ma con questa teoria non ti pare di rafforzare la pressione che l'intera cultura dominante (maschile) ha fatto fino ad oggi sopra la donna, responsabilizzando soltanto lei dell'eventuale infelicità del figlio? L'inconscio mare-calmo, il seno materno ... Tutto dipende da noi, l'aborto - come del resto aveva scritto Pasolini - è un'aggressione all'eden pre-natale, al tuo, quindi, "inconscio mare calmo..." O no?
L'aborto è comunque un fallimento, ma il rapporto col corpo della madre è qualcosa che si stabilisce gradualmente - non prima, senza dubbio, del 180esimo giorno dal concepimento - e, ci tengo a sottolinearlo, ha importanza soltanto dopo la nascita del bambino. In questo, davvero, siamo tutti uguali, e tutti, quindi, potenzialmente felici , al contrario di ciò che diceva Freud, perchè tutti disponiamo di un identico inconscio-mare-calmo, al sicuro da qualsiasi aggressione, anche dalle eventuali nevrosi delle madri incinte...
E il rapporto col seno materno, come primo rapporto da cui dipenderanno tutti gli altri?
Non è importante che la madre allatti, è importante l'investimento sessuale della madre nei confronti del figlio: perciò una maternità felice è soltanto quella della donna realizzata sessualmente, che conosce il piacere del proprio corpo, che gioca col proprio corpo e con quello del bambino.
"Invidia, bramosia, frustrazione positiva" sono altre nozioni portanti della tua teoria. Che significano?
L'invidia non ha niente a che fare col desiderio, come diceva Freud. Ha a che fare con l'odio: la bramosia è il voler introiettare l'altro, mangiarlo, divorarlo: amore come possesso e distruzione, e quindi non-amore. La frustrazione positiva è invece un atteggiamento da assumere da parte di chiunque voglia, o debba, "fare l'analista" nei confronti di un altro: e significa saper dire no all'altro, nel suo stesso interesse. Esempio: quando il bambino infila le dita nella presa di corrente, tu lo strappi via dal pericolo; lo fai nel suo interesse, e gli dimostri, così, di avere interesse per lui.
Tu infatti l'adoperi nei tuoi gruppi di analisi collettiva; qual è l'obiettivo di questa attività?
L'analisi ha sempre come obiettivo la cura della psiche; è la trasformazione della psiche, che sottintende, nella maggior parte dei casi, la cura di essa. L'analisi è: interpretazione (strumento) - trasformazione (obiettivo) - cura (effetto).
Che significa per te "interpretazione"?
Significa che io, analista, debbo interpretare, cioè rendere esplicito il significato di ciò che tu mi porti in analisi : sogni, associazioni di idee, fatti tuoi, ecc.
Ma questo rigore - interpretare e basta, non dar consigli, non intervenire - non è in contraddizione con la tua polemica contro gli analisti che ascoltano, tacciono e intascano l'onorario del paziente?
Ma quelli non ascoltano neppure. Ricevono telefonate, pensano ai fatti proprio. Fanno, insomma, fantasie di sparizione sulla persona che hanno davanti. E questo succede perchè l'analista, spesso, è più malato del paziente: malato di invidia, di bramosia, di istinto di morte/annullamento. L'analisi buona è quella che realizza interamente il rapporto umano, per incominciare, tra analista ed analizzando...
Un altro dogma freudiano che tu stai abbattendo è quello del pagamento. I tuoi gruppi sono gratuiti. Allora non è vero quello che diceva Freud che, se non si paga, l'analisi non funziona, no riesce?
Il fatto del pagamento ha attinenza con la cura soltanto quando il rifiuto di pagare - se se ne hanno i mezzi - esprime la bramosia del paziente nei riguardi dell'analista. Se tu guadagni tre milioni al mese, e mi vuoi dare mille lire a seduta, questa tua bramosia va frustata, e me ne devi dare venti. Nella società di domani, comunque, l'analista dovrebbe essere retribuito dalla collettività e
quindi, gradatamente, scomparire.

Il Messaggero 29.3.1978
Psicanalisi e politica.
Si espande il fenomeno dell'"analisi collettiva", da noi già segnalato fin dal novembre scorso. Ma i suoi fondamenti teorici sono molto fragili. E il senso politico di questa moda è abbastanza equivoco. Vediamo perché.
Psiche e Fagioli
Di Sergio De Risio


Il corriere della sera del 12 marzo ha ripreso, con un articolo apologetico di Giuliano Zincone, il discorso su di uno psicoanalista cui già Il Messaggero aveva, nel novembre scorso, dedicato una pagina intera di interventi impostata criticamente. Massimo Fagioli, lo psicoanalista di cui si tratta, appare nell'ultima intervista di Zincone, se possibile, ancora più violento, in ogni caso ancora più deciso e preciso nel suo attacco radicale al pensiero di Sigmund Freud. Certamente eravamo già abituati al puntuale ricorrere nel tempo, con l'insistenza delle cose sciocche, di quelle mescolanze di discorsi oggi dette pasticci fraudo-marxisti: da Marcuse a Guattari, per menzionare solo i più recenti. Tuttavia Massimo Fagioli presenta caratteri di tale originalità nelle dichiarazioni rilasciate ai giornali (dal presentare Freud come un imbecille al presentare Marx come il legittimo inventore della psicoanalisi) che ci ha sollecitato il desiderio di andare a rivedere i temi della famosa trilogia che sostanzia la sua produzione: Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e il burattino, Psicoanalisi della nascita e castrazione umana.
Quali profonde innovazioni vi sono contenute, quali visioni inedite dell'uomo e dell'inconscio, tali da rimettere totalmente in questione metodologia e teoria psicoanalitiche, non solo ormai secondo lui banalmente borghesi, ma addirittura sadico-assassine? Deve essere senz'altro necessario leggere e meditare lungamente ed essere pronti ad abbracciare, se risulta ineluttabile, la "psicocosa" detta "collettiva" o "d'assemblea", giacché ciascuno avrebbe il dovere di sottrarsi, se mai vi fosse per qualunque ragione incappato, al compito di trucidazione della mente che l'esercizio della psicoanalisi rappresenta per Massimo Fagioli.. Deve essere senz'altro necessario prepararsi a spazzar via senza indugio il cumulo di imbecillità formulato da Freud e accogliere i suggerimenti di Fagioli, se ne dovessero conseguire una pratica di cura non dico più efficace ma almeno meno disastrosa, e un sistema teorico più ricco, più chiaro, più coerente.
Macché. Va subito detto che Massimo Fagioli non rappresenta nient'altro, dal punto di vista per così dire teorico, che un'aberrante mistura di teosofiche ingenuità lanciate lì senza pensarci su due volte, tra le pagine come tra le persone, in uno stile che risulta da un uso degradante della terminologia freudiana spinta fino ai confini dell'insignificanza più totale. Che dice dunque Fagioli? Che Freud è un imbecille perchè non avrebbe capito che la pulsione di morte è " pulsione attiva di annullamento"; che l'imbecillità si raddoppia perchè Freud non ha mai usato il termine fagioliano di "Fantasia di sparizione"; che il ruolo del concetto di castrazione nella teoria è troppo scomodo e che sarebbe meglio rimpiazzarlo col concetto di "Nascita"; che non esiste scissione nell'essere dell'uomo; che il "super-io" tanto varrebbe fosse chiamato per esempio "Andreotti" ( rapito anche quello, chi sa, scomparirebbe pure la nevrosi); che è importante la "separazione" da mamma e papà, e se la cosa dovesse comportare un poco di dolore, sarebbe allora opportuno sbrigarsi a diventare collettivista. La separazione infatti (egli crede di scoprire) è la dinamica fondamentale di quattro momenti: la nascita, lo svezzamento; la visione dell'essere umano diverso, la pubertà.
Che cosa ne hanno fatto, di questa separazione, Freud, Klein, Winnicott, Bion, Lacan? Non ne hanno mai parlato? Ma si, qualcuno ne ha parlato, però giocava a fare il Re, l'Imperatore, forse l'imperialista, insomma tutti si sono schierati come un esercito compatto, crudele, cieco e perfidamente mirante a trucidare ogni possibilità di nascere e di crescere; a metà strada tra la strage di Erode e l'uso del preservativo.
Solo lui Fagioli, promuove la nascita: Egli la promuove nel "collettivo".
Questo termine va dunque approfondito perchè rivela, nell'uso che Fagioli ne fa per la pratica e per la teoria, il senso esatto della sua operazione. Il Collettivo è per Fagioli lo strumento per attaccare la "scientificità", la "Teoresi", che, come in questo caso giustamente egli intravede, costituiscono la forza della psicoanalisi stessa. Nella trentacinquesima delle lezioni introduttive allo studio di tale disciplina Freud scriveva: "Il pensiero scientifico è ancora troppo giovane tra gli uomini, non ha potuto ancora risolvere troppi dei grandi problemi. Una Weltanchaung costruita sulla scienza, oltre che accentuare il mondo esterno reale, ha essenzialmente tratti negativi, come il richiamo alla verità, il rifiuto delle illusioni. Chi tra i nostri simili è malcontento di questo stato di cose, chi chiede di più per potersi momentaneamente consolare, se lo procuri dove lo trova. Noi non ce ne avremo a male, non lo possiamo aiutare, ma non possiamo nemmeno, in onor suo, pensare diversamente".
E' chiaro che Fagioli è uno di questi malcontenti, ed è un grave errore che ciò di cui ha bisogno se lo vada a cercare in maniera tanto maldestra; affogando cioè la psicoanalisi nella modalità sciatta della ideologizzazione. Che cosa tanto affanno gli consente di trovare? " La nostra dizione, realtà non materiale - scrive Fagioli - si riferisce ed intende proporre un pensare e un discorso sulla realtà dell'uomo che si costituisce come totalità". " La realtà non materiale umana - scrive altrove - una volta che sia vista e pensata come verità umana di essere per essere in rapporto con l'altro e realizzata per essere stati in rapporto con l'altro, si costituisce come essere dell'uomo totale, senza scissione di anima e di corpo, di ragione e sessualità". In sostanza dunque ciò che trova è schematicamente enunciabile così : "La prassi di essere insieme restituisce l'uomo ad una Totalità"
Credo che non valga la pena di scomodare teologia o metafisica per qualificare in qualche modo la mescolanza di osservazioni che costituiscono il corpus fagioliano: teologia e metafisica, sotto i colpi del pensare di Nietzsche o di Heidegger, rivelano una capacità speculativa che non può comunque essere ridotta a qualche accenno di farneticazione.
Per poter costituire questa credenza immaginaria nella Totalità, Fagioli abbandona la scienza, quella di Freud, "che non considera tutto, è incompleta, non ha la pretesa di essere chiusa in sé e di formare un sistema", e si lascia andare a qualche slogan alla moda. Crede che basti magari evocare il fatto che la scienza non è neutrale e pretende che questa magica formula diventi un buon lasciapassare per ogni tipo di sciocchezza. Qui è davvero l'anti Freud.
Il progetto freudiano infatti mina, pur nella sua gigantesca compattezza, metodicamente ogni tentativo di "totalizzazione". La struttura della metodologia freudiana si presenta come continuamente costruibile, anticipando di fatto alcune delle formalizzazioni più importanti della moderna epistemologia circa lo statuto della scienza. Se quest'ultima, e con essa la psicoanalisi, ha da tempo abbandonato le ingenue fantasie positiviste, non è certo per cadere nelle subdole reti di un nuovo Tutto inesistente. Si capisce bene, a questo punto, perchè Fagioli intende liquidare in psicoanalisi i concetti di castrazione, di limite, di mancanza, e ammorbidire in modo completamente narcisistico il difficile problema di ciò che Freud designava come " Narcisismo Primario"
Vale ora la pena di chiedersi in che rapporto stanno le idee così tracciate di Fagioli con la pratica della cosiddetta " psicoanalisi di assemblea". Cosa vi vanno a desiderare i giovani della Nuova Sinistra, cosa lo stesso Fagioli? "Cercano tutto " si potrebbe dire parafrasando un altro slogan di ormai decennale memoria. Cercano tutto, senza fare niente, se non qualche esercizio spirituale. Incapaci di risolvere vere e proprie frustrazioni nate da un certo impegno nel politico, si ritrovano insieme a lamentare. Sono seicento? Data la natura delle cose direi che sono ancora pochi: è assai probabile che diventino presto di più. Quanti sono oggi coloro che cercano, per riprendere Freud, di potersi momentaneamente consolare?
Un'ultima parola sul tipo di legame che probabilmente tiene uniti assemblearmente seminarista e seminarizzati. In Psicologia della masse e analisi dell'Io, fin dal 1921 veniva messo in primo piano il ruolo specifico del capo nel contesto di qualsivoglia formazione collettiva. Il capo va ad occupare, nel soggetto, il posto dell'ideale. Come è noto, innamoramento e ipnosi sono le condizioni che Freud sinotticamente o in parallelo pensava di evocare, ed è già di per sé più che significativo. Più tardi Bion mostrava come questo posto di capo o leader, qualora fossero sufficientemente sviluppati un vertice ed un'attenzione analitica, si rivelasse prezioso osservatorio delle tensioni interne alla formazione collettiva e delle tensioni tra la formazione collettiva e il leader stesso. Si poteva cioè sviluppare, con il concorso collettivo, una funzione analitica nel gruppo. Cosa accade dove vertice ed attenzione analitica sono così palesemente soppiantati? Personalmente propendiamo per l'ultima ipotesi che Guarini indicava nell'intervento da lui dedicato all'argomento, quella più derisoria: Il politico che rispunta, travestito da Psicomante, proprio nel luogo in cui il gregge, forse senza saperlo, progetta di abolirlo!

Corriere della Sera 9.3.1978
Psicoanalisi d'assemblea all'Università
A Roma è scoppiato l’anti Freud
di Giuliano Zincone


Roma – "Ho sognato che rimproveravo mio figlio. Poi stiravo un suo grembiule, usando acqua distillata, e il grembiule diventava un fazzoletto. Cambia scena, ci sono dei bambini che giocano. Parlo con uno di loro, il suo muco mi va in bocca. Penso alla nascita". Siamo in un’aula dell’istituto di psichiatria dell’università di Roma, assistiamo a uno dei tre seminari settimanali tenuti dal professor Massimo Fagioli. La stanza è affollata da duecento persone, arrivate con due ore di anticipo per assicurarsi i posti migliori. Per curarsi collettivamente, raccontando i propri sogni, Fagioli risponde: "Tu annulli la nascita. Al tuo bambino dai un fazzoletto per piangere, invece di dargli investimento sessuale (interesse). La madre tenta sempre di annullare la nascita, l'Io del bambino". Gli analizzandi sono quasi tutti giovani: studenti, psicanalisti in crisi, casalinghe, gente del cinema, intellettuali. I seminari sono gratuiti, il metodo analitico è fondato sulle teorie di Massimo Fagioli, contenute nei suoi tre libri, Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e il burattino. Psicoanalisi della nascita e castrazione umana (Ed. Armando), Freud non è solo rifiutato, ma severamente sbeffeggiato. Senza il minimo riguardo, Fagioli lo definisce come "il vecchio imbecille sadico". Jung, invece, è paragonato a un "manicomio medioevale". I pazienti vengono da esperienze di estrema sinistra, molti sono tuttora militanti. Il loro atteggiamento, nei seminari, non manifesta, in genere, disturbi gravi o disperazioni, ma una specie di ansietà, una scontentezza profonda e diffusa. La fame di benessere mentale sta diventando un fenomeno di massa, tra i giovani e gli intellettuali delle nostre città. Le radio private trasmettono sempre più spesso conversazioni, sfoghi, interpretazioni selvagge dei sogni. Si moltiplicano i gruppi d'incontro, i gruppi reichiani, si importa dall’America la "terapia dell’urlo", la "terapia del contatto". Le istituzioni psichiatriche sono screditate, i movimenti dell’antipsichiatria, i "manicomi aperti", oscillano tra la negazione della malattia mentale e la ammissione della propria impotenza. Molti psicoanalisti confessano candidamente di non credere nell’efficacia terapeutica del proprio mestiere. Fagioli, invece, ci crede. Ha comunicato nel 1975 questo lavoro all’università, con un piccolo seminario per colleghi sfiduciati. E adesso ha in cura tre grossi gruppi, seicento persone in tutto, legate a lui (e tra di loro) dalla voglia di liberarsi della "corazza caratteriale" del "linguaggio della razionalità cosciente" di "debellare le tre streghe che rendono pazzi gli uomini: "invidia, bramosia, fantasia di sparizione" e di riscoprire il proprio Io, "l’inconscio mare calmo". La famiglia e la coppia, istituzioni che i rotocalchi danno per sepolte, sono al centro dei sogni e delle ansie degli analizzandi: Le interpretazioni di Fagioli tentano costantemente di recuperare i racconti e le preoccupazioni individuali alla dimensione collettiva, al rapporto con l'esperienza analitica e col gruppo. "Sogno che la mia ragazza è incinta". Nasce un bambino. I preparativi per il parto comprendono l’uso di sacchi di plastica: dentro ci mettiamo carne, latte". Risponde Fagioli:" All’inizio non riuscivi a capire il lavoro di analisi, perché l’analisi è frustrazione. Ma non è vero che non hai capito: il bambino è nato. Vorresti metterlo nella plastica, come per dire che non ha un Io. E invece lo ha: il vecchio Imbecille (Freud) non ci convince. Ti fa rabbia che il bambino, cioè l'Io, venga fuori a tuo dispetto. Ma in una situazione di analisi collettiva è proprio così: che tu lo voglia o no, l’inconscio reagisce". Un altro giovane: "Per motivi materiali mi riesce difficile separarmi dai miei genitori. Tento di farlo, ma con odio e desiderio di vendetta": Fagioli: "No, l’odio e la rabbia li hai nei nostri confronti, perché il seminario ti impedisce di fare i tuoi giochetti furbastri". Certo, per un osservatore esterno, molte allusioni (come questa sui "giochetti furbastri") sono incomprensibili. Chi partecipa, invece, non solo capisce tutto, ma stabilisce con gli altri dei rapporti molto particolari, fino a sognare soggetti analoghi. Alcuni analizzandi provano a mettersi (o a rimettersi) in proprio, a "curare" a pagamento altre persone. Ma incorrono nella scomunica: con estrema durezza, Fagioli accusa in pubblico i rei confessi di seminare ansia e paralisi nella assemblea, di derubare e rovinare i loro "pazienti". Ecco un’analista selvaggia ammettere in lacrime la propria colpa: "La settimana scorsa hai detto cose terribili sul mio conto. Ho sognato tanto sangue che usciva da tutte le aperture del mio corpo". Fagioli le risponde seccamente di restituire alle sue vittime i soldi che ha rubato. "I miei genitori si separarono quando avevo quattro anni – racconta una ragazza -. Mio padre sparò a mia madre, tentò di uccidere anche me, mi rincorse con una pistola. Adesso sogno ancora che mio padre vuole uccidermi. Sogno un bambino sgozzato. Molto sangue. Sogno che un giudice mi chiede di raccontare i momenti belli della mia vita. E io mi sento in colpa: non posso rispondere, perché di momenti belli non ne ho avuti mai". Interpreta Fagioli: "il bambino sgozzato è l’Io. Per recuperarlo devi superare l’identificazione con tuo padre e con tua madre. Devi mettere la tua storia personale in un discorso sociale, in un rapporto. Non sei sola. Molti padri, molti psicoanalisti tentano di ammazzare i figli, pazienti". Prevalgono nei seminari, la fede nel maestro e l’ansia di esserne gratificati. Ma ci sono anche casi di scetticismo. "Massimo, mi chiamo Emilia, devo assolutamente parlarti. E’ la prima volta che vengo, non mi convinci, a sentire tutti questi sogni non mi sono divertita per niente…..". La interrompe un’altra donna, piangendo: "Quando neghi il ruolo di Massimo uccidi i bambini. Ho sognato che ero a Parigi, in una situazione di post-sessantotto, al pronto soccorso, vedo una testa e le tolgo il cervello. Ho fatto cose tremende nella realtà materiale, faccio male ai bambini, lunedì scorso mi hai detto quel che mi merito, mi sono sentita una delinquente, e mia figlia mi dice sempre vaffanculo. L’unico che aiuta sei tu". Il marito di questa signora è riuscito a scrivere una sceneggiatura e lei lo invidia. Il giorno dopo, Fagioli dirà al marito: "Ieri tua moglie Caterina ha avuto una crisi di invidia nei tuoi confronti. Lei non ammette che una persona possa realizzarsi, fare progressi". No, Fagioli non è certo un analista permissivo, non usa la bacchetta magica per far sparire i sentimenti di colpa dei pazienti. Ma questa, forse, è una delle cause del suo successo, nei confronti di un gruppo sociale per il quale la contestazione del principio d’autorità ha coinciso con la caduta di un intero sistema di valori. A noi sembra che (al di là dei suoi compiti specifici) Fagioli interpreti in modo piuttosto "contemporaneo" un ideale di società fraterna (non gerarchica) capace di darsi discipline e regole del gioco orientate verso finalità comuni. "Bisogna prima far l’amore con la madre, e poi uccidere il padre", dice Fagioli, capovolgendo la storia di Edipo. Il che significa (se interpretiamo correttamente) che, prima di abbattere l’autorità, è necessario esser certi della propria identità e dei propri fini. Molti giovani e molti intellettuali, orfani di utopie e delusi dall’azzeramento culturale generato dalle loro esperienze recenti, vogliono sentirsi dire proprio questo. E, in attesa della "società fraterna" accettano di buon grado l’autorità ("liberante" ma ben presente) di Massimo Fagioli. Parliamo col professore. E’ molto severo. Condanna l'omosessualità ("è annullamento, è legata alla pulsione di morte"), condanna la masturbazione ("è fantasticheria sadomasochista"), condanna i suoi colleghi che negano il loro ruolo ("ma poi ricorrono ai farmaci"). "Io – dice – credo nella cura, credo nella conoscenza e nella trasformazione, come Marx. Individuo le dimensioni disumane (indifferenza, invidia, bramosia) e le frustro. La frustrazione genera interesse, desiderio di cambiare, di guarire. Con l’analisi collettiva il salto di qualità è enorme, il lavoro è molto più efficace. Ma alla base ci sono le mie teorie. Io ho avuto il coraggio e la capacità di rifiutare Freud, l’imbecille che non aveva capito niente, che era al livello di un medico che crede che il fegato sia nella coscia sinistra". La teoria di Fagioli è abbastanza complicata da riferire. L’analista ce ne offre uno schema: "La malattia mentale non è congenita. Tutti gli uomini nascono sani. Trasformano l’esperienza materiale del loro rapporto col liquido amniotico in "inconscio mare calmo". La prima fantasia-ricordo (Io) è l’inconscio mare calmo che corrisponde a interesse e desiderio. Questo sentimento dovrebbe trovare risposta nella madre, che invece non lo soddisfa. Anzi, la madre tratta il bambino con fastidio, come un oggetto vile da plasmare, educare. Il desiderio infantile di ricevere latte e interesse diventa delusione. Il desiderio delusione si scinde in odio, rabbia, invidia, bramosia. Genera rapporti sadomasochisti o indifferenza. Eliminare l'indifferenza e frustrare il sadomasochismo porta alla scoperta dell’inconscio mare calmo, al recupero dell'Io, alla guarigione". Una teoria come questa, fondata sui "rapporti", privilegia necessariamente la dimensione collettiva e sociale. "Per me – dice Fagioli – non c’è sessualità senza socialismo, e non c’è socialismo senza sessualità. La società borghese è masturbatoria, divide nettamente il comportamento pubblico da quello privato. Nella società borghese, uno può essere un buon cittadino anche se violenta la moglie e picchia i figli, basta che rispetti il codice penale. Ci si meraviglia se i bambini diventano pazzi. Ecco, questa cose bisogna combatterle, non rassegnarsi, non assumere un atteggiamento consolatorio. Un analista che consola, condanna a morte il paziente. Viviamo in una società dove la famiglia ha ancora un enorme potere distruttivo, dove c’è una miseria sessuale tremenda. La gente, a casa, si annulla, assume dei ruoli astratti: i genitori, i figli, non sono più persone con le quali stare bene, ma autorità, sudditi, maschere"" Fagioli è severo anche con quei gruppi di psichiatri che privilegiano l’azione politica rispetto alla terapia. "Loro – dice – pensano che tutti i mali vengano dalla società e che quindi o si fa la rivoluzione o non si può curare nessuno E invece non è vero, non è automatico che tutto si aggiusti, dopo aver risolto i problemi politici ed economici. Ci vuole un interesse specifico per la dimensione psichica. Questo è il nostro compito. La trasformazione politica spetta ai partiti di sinistra. E, nel frattempo, rassegnarsi è un delitto, bisogna lavorare nonostante le istituzioni, nonostante la società. Altrimenti si finisce in un vicolo cieco: devo fare la rivoluzione perché la società mi condiziona, ma siccome la società mi condiziona non posso fare la rivoluzione. Troppo comodo". G. Zi.


l’Unità 22.3.11
Bersani presenta a sindacati e imprese il Piano per la crescita che verrà recapitato a Tremonti
Da Confindustria a Cgil preoccupazione per l’inerzia dell’esecutivo di fronte alla crisi
Camusso sul documento «Bene sull’occupazione femminile, più spazio alle politiche sociali»
Economia, il Pd sfida il governo «Pronti a discutere le riforme»
Bersani illustra alle parti sociali il Piano di crescita del Pd: «Ora pronti a discutere in Parlamento di riforme economiche». Camusso: «Bene sull’occupazione femminile, ma rafforzare la parte sulle politiche sociali».
di Simone Collini


«Noi siamo pronti a discutere in Parlamento di riforme economiche, se si vogliono fare sul serio». Pier Luigi Bersani lo dice al termine di un incontro a porte chiuse con i vertici di Confindustria, Confcooperative, Cgil, Cisl, Uil e altre associazioni di imprenditori e di lavoratori. Un appuntamento voluto dal leader del Pd per illustrare alle parti sociali il Piano per la crescita e le riforme messo a punto dal suo partito. Novanta pagine che spaziano dalle proposte di riforma fiscale a quelle per il rilancio della politica industriale, dal lavoro alle pensioni, dalla Green economy al Mezzogiorno, e che sebbene il responsabile Economia del Pd Stefano Fassina definisca «un contributo» al Piano che dovrà presentare a Bruxelles entro metà aprile il nostro governo (così come quelli di tutti gli altri Paesi Ue) è «alternativo» alle politiche del centrodestra e costituisce una sfida lanciata a un esecutivo che, denuncia con «preoccupazione» Bersani, «non si occupa di lavoro, redditi, servizi». Questioni, dice il leader Pd, «rimaste senza presidio» e che andrebbero invece urgentemente affrontate da un paese come il nostro che è «uno di quelli maggiormente indebitati e con le prospettive di crescita più lenta di tutta l’Ue».
PIANO ALTERNATIVO
Tra le proposte contenute nel documento c’è, a livello europeo, l’istituzione di un’agenzia per il debito che acquisti i titoli dei paesi comunitari ed emetta eurobond garantiti in modo collettivo, un piano europeo di investimenti per l’occupazione e una tassa sulle transazioni finanziarie. Sul piano nazionale, il piano del Pd sottolinea la necessità di aumentare il tasso di occupazione femminile (dall’attuale 47% al 60% in dieci anni con l’obiettivo di 3 milioni di donne occupate in più) e su una maggiore specializzazione produttiva del paese, ammortizzatori sociali sia per i contratti a termine che per quelli a tempo indeterminato ed incentivi alle aziende che puntano su efficienza energetica e rinnovabili. Tutte proposte che verranno fatte recapitare al ministro Giulio Tremonti e su cui il Pd è pronto ad aprire un confronto in Parlamento: «Da molti mesi chiediamo al governo una discussione sull’economia e ci proveremo anche adesso dice Bersani ma non dò eccessiva fiducia al governo perché c’è una totale distrazione sui questi temi».
LE PARTI SOCIALI APPREZZANO
Chi non si distrae su queste questioni sono le associazioni incontrate a Roma dai vertici del Pd. Un po’ tutti apprezzano la volontà dei Democratici di aprire con loro un confronto sulle proposte di riforma (con il segretario dell’Ugl Giovanni Centrella che ringrazia anche il Pd perché «è rimasto l’unico partito che ascolta tutte le confederazioni»). Ma che a parlare sia il segretario della Cgil Sussanna Camusso o la vicepresidente di Confindustria Cristiana Coppola, la preoccupazione per la situazione economica dell’Italia si fa sentire. Camusso condivide che in Europa «manchi una politica per la crescita» e anche il ragionamento del Pd sull’occupazione femminile come «strumento che determina di per sé occupazione e ulteriore crescita». Il segretario Cgil esprime però perplessità sulla specializzazione produttiva («è giusta ma non sufficiente») e dice che nel documento del Pd occorre «rafforzare la parte che riguarda le politiche sociali». Il segretario della Uil Luigi Angeletti sottolinea la «convergenza sull’esigenza di fare riforme su lavoro e fisco» mentre il segretario confederale della Cisl Maurizio Petriccioli chiede al governo «che il necessario rigore dei conti pubblici sia coniugato con una politica di crescita». Quanto alla vicepresidente di Confindustria Coppola, nel suo intervento fa notare che se non ci saranno cambiamenti nei piani nazionali di riforma fin qui prospettati dai diversi governi europei, «l’Italia rischia di ritrovarsi alle ultime posizioni delle graduatorie in tutti gli indicatori». In particolare a meno di sostanziali modifiche nel 2020 il nostro paese sarà quello che destina la quota minima di investimenti su ricerca e sviluppo, dopo Cipro e Malta.

l’Unità 22.3.11
Il male minore
di Luigi Manconi


Nella società del rischio, può accadere di trovarsi sotto ricatto. Può succedere più di una volta nell’esistenza del singolo così come nella vita sociale. E può capitare che il ricatto fisico – l’intimidazione, la pressione intollerabile, attuata con mezzi coercitivi che limitano la libertà e l’autonomia – si intrecci a quello ideologico o morale. È lecito pagare un riscatto per una persona cara quando so che, così facendo, alimento il mercato dei sequestri? È indispensabile sapere che non esistono soluzioni semplici né vie di uscita lineari. Ed è altrettanto indispensabile capire che non è possibile restare innocenti né scegliendo una strada né optando per quella in apparenza opposta. Bombardare Tripoli significa – anche provocare danni incalcolabili e causare vittime civili.
Non bombardare Tripoli significa – anche – non impedire (= consentire) che Muammar Gheddafi, porti a compimento il massacro degli oppositori. C’è una “terza soluzione”? Oggi non so, ieri certamente sì. Ma andava perseguita per tempo, molte settimane fa. Una soluzione che prevedesse il riconoscimento degli insorti, il sostegno alla loro mobilitazione, il ricorso a tutti gli strumenti di pressione nei confronti del regime, una intelligente politica delle sanzioni, un’opera di isolamento internazionale attraverso il coinvolgimento di paesi arabi e africani e – so di scandalizzare o di passare per ingenuo l’offerta di una via d’uscita tramite la concessione di un salvacondotto e la possibilità dell’esilio (ciò che non venne fatto e che forse si sarebbe potuto fare per Saddam Hussein). Di tutto questo, nulla è stato nemmeno tentato. Per più ragioni, e una riguarda direttamente l’Italia. Nel 2008 il nostro Paese ha firmato un Trattato di amicizia con la Libia, che traduceva il progetto iniziale del Governo Prodi in un dispositivo prevalentemente finalizzato a una politica di “contrasto all’immigrazione”. Sta qui l’origine del disastro.
Risarcimenti abnormi e cooperazione industriale, forniture d’armi e mercato dell’energia: come merce di scambio, il pattugliamento congiunto del Mediterraneo, i campi profughi in Libia, il blocco delle partenze dalle coste africane, la strage di migranti nel deserto. Tutto ciò senza che alla Libia venisse chiesto un solo atto di rico-
noscimento formale e sostanziale dei diritti universali della persona, della tutela dell’incolumità dei migranti e dei profughi, delle convenzioni internazionali a presidio della dignità umana. In assenza di tutto ciò l’Italia ha chiesto solo un’opera di polizia, esercitata sempre con rigidità e talvolta con efferatezza, “nella piena cooperazione” tra le forze di sicurezza di un regime dispotico e quelle di un sistema democratico.
Si trattava di un’operazione di facciata crollata dopo diciotto mesi e comunque resa vana dal fatto che i flussi di migranti si ingrossassero e scegliessero rotte diverse da quelle per Lampedusa. Ciò ha consentito al ministro Maroni di dichiarare “sbarchi zero”, senza indicare quanti, nel frattempo, fossero approdati in Calabria o in Puglia, e quanti fossero morti in mezzo al mare e nel deserto. È questo che evidentemente, ha impedito all’Italia di adottare quella “terza soluzione” prima indicata, e di svolgere quel ruolo quando sarebbe stato possibile esercitarlo. Ma oggi, nella situazione ormai precipitata, è ancora giusto invocare il ricorso esclusivamente a strumenti diversi da quelli militari? È ancora possibile evitare di rispondere con la forza alla forza? È attuabile una strategia interamente affidata a mezzi politici e diplomatici? A me non sembra più tempo. E, dunque, si impone quel principio fondamentale, così elementare e ragionevole e, insieme, così eticamente fondato, ancorché terribilmente doloroso, che è il “male minore”. Possiamo, sì, continuare a batterci perché politica e diplomazia prendano il posto delle armi, ma a patto di sapere che ogni secondo che passa aumenta la possibilità di Gheddafi di fare strage del suo popolo.
Si può dire: preferisco che la strage si compia, con le sue conseguenze, piuttosto che arrendermi alla guerra e a ciò che la guerra porta con sé. Nell’un caso come nell’altro, non avremo salvato l’anima e saremo corresponsabili, anche solo per impotenza o ignavia, di nuovi morti. Ma una scelta va fatta. E io scelgo il male minore.

il Fatto 22.3.11
La giornalista contro la linea del suo “manifesto”
Rossanda: “Le armi? Colpa di Gheddafi”
di Wanda Marra


“Solidale” con chi cerca di liberarsi di Gheddafi, ma d’accordo con Gino Strada quando dice “che la guerra non bisogna farla mai”. Rossana Rossanda nel suo ragionamento tiene insieme la complessità di molti che sono stati pacifisti “senza se e senza ma”. Nel 1999, mentre la sinistra si schierava con l’intervento in Kosovo, dichiarava al Corriere della Sera: “Se si arriverà a un intervento di terra nel Kosovo, inviterò alla diserzione e me ne assumerò tutte le responsabilità”. Ma questa volta la Rossanda, fondatrice del Manifesto, è entrata in aperta polemica con la linea del suo giornale, più morbido con il Rais. Scriveva il 9 marzo: “Al Manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia   né uno Stato progressista... mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto”. In feroce contrapposizione Valentino Parlato, altro vate del quotidiano, che parlava di una “guerra veterocolonialista” e si spingeva a dire: “Tratterei   con Gheddafi subito e tenterei di mantenere i privilegi dei nostri accordi”. Lei, la Rossanda, insisteva: “Ma chi, se non l’ottusità di Gheddafi, è responsabile se l’opposizione è diventata aspra, scinde la Cirenaica, cerca armi e il conflitto diventa guerra civile?”.
Sono in molti in questo momento a trovarsi su posizioni opposte a quelle che ci si aspetterebbe. “Dubbi” arrivano da Giuliano Ferrara a Roberto Formigoni, ad Alfredo Mantovano. Contrarietà netta da Sgarbi e no di Calderoli. “Guerra da matti” titolava ieri Libero. Convintamente per l’intervento invece Paolo Flores d’Arcais (che era in prima linea a sfilare per la pace nel 2003). E Bersani detta la linea del sì al Pd.
Rossanda, qual è la sua posizione   sull'intervento in Libia?
Sono solidale con le forze che cercano di liberarsi da Gheddafi. Ha rappresentato un progressismo nei confronti della monarchia ma da tempo non è che il leader di un gruppetto autoritario e dispotico.
Crede alle ragioni dell'intervento umanitario?
No. Non conosco interventi di guerra umanitari.
C'era un’altra soluzione che non fosse la guerra?
Certo che c’era. Si trattava di dare, prima di tutto da parte delle sinistre europee, solidarietà alle forze che esprimono i bisogni sociali e di democrazia politica nei paesi arabi, che l’Europa sembra ignorare del tutto. E si trattava anche di accogliere, da parte della società civile e politica, le domande di aiuto con denaro   e mezzi e forse anche con la partecipazione di qualcosa di simile a quelle che erano state le brigate internazionali. Non degli eserciti.
Gino Strada ha detto al “Fatto”: si è lasciato che la situazione si incancrenisse, ma la guerra non bisogna farla mai. Lei è d'accordo?
Del tutto.
Come mai il movimento pacifista tace?
Non saprei dirlo. Si spiega solo con il ripiegamento individualista su se stessi che è proprio delle folle e delle opinioni pubbliche di tutto il nostro continente, e del quale è un elemento minore la recente vetta di astensionismo raggiunta nelle elezioni francesi di novembre.
È vero che l'opinione pubblica è addormentata? 
Io non sono una sostenitrice del ruolo decisivo dell’opinione pubblica, che è più sensibile ai problemi dell’onestà e della legalità che alle priorità politiche e sociali in senso proprio. Le tv e i governi che direttamente o indirettamente   la dirigono fanno di tutto per spostarla fuori dal terreno politico in senso proprio. Penso che una sinistra seria potrebbe risvegliare la parte più sana, che esiste ancora, di una società oggi avvilita.

il Riformista 22.3.11
«Non vedo scontri di civiltà Il futuro è di chi non ha passato»
Paolo Branca. Per l’islamista non c’è nessun conflitto di valori culturali in atto. «Le popola- zioni, soprattutto quelle giovani, stanno rea- gendo a regimi fondati sull’esclusione sociale»
di Davide Cadeddu

qui
http://www.scribd.com/doc/51282796

La Stampa 22.3.11
Guerre Usa. Rivelazioni
Sullo «Spiegel» foto choc: “Un’altra Abu Ghraib”
Afghanistan 2010: soldati americani uccidono civili indifesi. Accuse e critiche al presidente Obama
di Francesco semprini

Sullo «Spiegel» I reporter tedeschi hanno trovato circa 4000 video con cui si documentava l’orrore

Sono bastate poche ore perché le immagini apparse su Der Spiegel si trasformassero nell’Abu Ghraib di Barack Obama. Un’altra pagina buia della storia militare americana. Si tratta di foto che ritraggono i militari statunitensi in Afghanistan mostrare come trofei i corpi di civili uccisi senza motivo. Tre scatti definiti dagli stessi vertici del Pentagono «ripugnanti», destinati ad alimentare le tensioni tra Washington e Kabul e diventare un’arma di propaganda per le milizie talebane.
I protagonisti delle fotografie pubblicate il 20 marzo del magazine tedesco, sono membri del «Kill Team», tristemente noti per le loro gesta inumane. Der Spiegel ha coperto i volti dei cadaveri per evitare che le loro espressioni di morte fossero visibili, ma le facce dei soldati e i loro visi quelli pieni di sadico compiacimento sono chiari. Lo squadrone della morte, composto da militari statunitensi, è stato accusato di aver ucciso civili indifesi in maniera indiscriminata. Cinque soldati provenienti dalla 5 Striker Brigade della 2 Infantry Division, con base nello Stato di Washington, saranno giudicati dalla corte marziale per l’omicidio di tre persone. Altri sette membri sono accusati di crimini meno pesanti. Lo squadrone inscenava finti combattimenti per attaccare a caso afghani inermi con armi e granate. La vicenda è venuta alla luce grazie a un altro soldato che ha informato un ispettore dell’esercito di quanto stava avvenendo pagando sulla sua stessa pelle visto che è stato picchiato dai suoi commilitoni per «averli traditi».
Gli episodi avvenuti nel distretto di Maiwand, a Kandahar, una delle province a più alta intensità taleban, sono stati documentati con foto scattate dagli stessi membri del «Kill Team», le stesse apparse due giorni fa per la prima volta in Germania. Una delle immagini ritrae il soldato Jeremy Morlock, di Wasilla, in Alaska, posare con volto sorridente vicino a un afghano morto, il cui corpo quasi completamente nudo è coperto da sangue. Morlock alza per i capelli la testa della sua vittima come fosse un trofeo: ora deve rispondere di omicidio. Un altro scatto immortala il soldato Andrew Holmes inginocchiato accanto allo stesso cadavere. Su di lui pende lo stesso capo di imputazione. Una terza immagine mostra invece due civili afghani senza vita i cui corpi sono appoggiati sulla schiena uno accanto all’atro, le braccia distese sul suolo e intorno vestiti macchiati di sangue. Dell’esistenza delle foto ne avevano parlato gli avvocati difensori di alcuni soldati ma la loro pubblicazione era stata vietata, non si capisce infatti come Der Spiegel ne sia venuto in possesso.
Gli scatti hanno riportato subito alla mente quelli della prigione di Abu Ghraib, in Iraq, dove alcuni soldati americani si resero responsabili di torture nei confronti di prigionieri iracheni. Il tutto con una vasta documentazione fotografica venuta alla luce nel 2004, creando dure proteste specie tra il mondi islamico e andando a incidere sulla popolarità dell’ex presidente George W. Bush e della sua guerra nel Golfo. E mentre già si parla di «Abu Ghraib di Obama», diplomazia e vertici militari Usa assicurano che i responsabili saranno puniti. «L’esercito degli Stati Uniti si impegna a rispettare il codice di guerra, i diritti umani e le disposizioni sul trattamento dei combattenti, dei non combattenti e delle vittime - spiega il Pentagono in una nota -. I militari che si rendono responsabili di violazioni e comportamenti offensivi saranno trattati nella maniera appropriata».
"Si apre in questi giorni il processo per omicidio nei confronti di cinque soldati L’esercito si è scusato «Scene ripugnanti in contrasto con i valori della US Army»"

Repubblica 22.3.11
Fine vita, una legge che sa di muffa
di Aldo Schiavone


Non c´è, per gli umani, esperienza più soggettiva e incomunicabile della morte: ma insieme anche più condivisa. Questo doppio statuto - il massimo dell´impenetrabilità per il massimo della diffusione - contribuisce ad avvolgerla in un paradosso d´ombra che sempre si rinnova, e da cui non si esce. Ma non è solo un grumo pietrificato nell´immobilità, la morte. Per attenuare l´impatto emotivo della sua presenza, la fantasia mitico religiosa di molte civiltà ha spesso cercato di distendervi sopra immagini meno dure, che racchiudessero almeno un punto di luce. Fra le più comuni, quelle del viaggio, della partenza: con acque da attraversare e nocchieri da ricompensare, fino alle parole struggenti del Vangelo di Luca - «Ora lascia che il tuo servo vada, Signore… Nunc dimittis servum tuum, Domine», o al congedo misterioso e incantato di Socrate dai suoi giudici, nell´apologia platonica.
È anche storia, dunque, la morte. Storia delle emozioni che induce; storia delle pratiche - tecniche e sociali - che l´accompagnano e ne definiscono la condizione. Ebbene, è proprio questo punto capitale - della storicità del morire - quello che lo sgangherato disegno di legge sul cosiddetto testamento biologico più colpevolmente ignora, con conseguenze culturalmente e normativamente disastrose. I nodi che vengono al pettine sono due, ed entrambi decisivi: quello della pretesa "naturalità" della morte, e quello della "indisponibilità" assoluta della vita: la loro combinazione determina la cornice ideologica che fa da supporto all´intero testo. Ma è un quadro sbagliato, prima che inaccettabile.
L´idea che domina i nostri legislatori è ancora quella secondo cui «una persona non debba morire prima che la sua vita sia giunta al suo termine naturale». Ma basta riflettere con un po´ d´attenzione non prevenuta per rendersi conto che la "naturalità" di questo confine già non esiste più. La medicalizzazione della morte - un fenomeno imponente degli ultimi decenni - lo ha letteralmente divorato. In realtà, è l´intera base biologica delle nostre esistenze a essere ormai - sin dalla nascita - completamente attraversata dall´artificialità della tecnica: che aiuta, sostiene, corregge, modifica, protegge. E questo intervento integratore e manipolatore si moltiplica nella fase terminale della vita - quando essa non si consumi in un lampo - che risulta pervasivamente scandita in ogni sua vicenda unicamente dall´efficacia delle tecniche in campo. La "naturalità" è completamente perduta: sopravvive solo come ideologia consolatoria e deresponsabilizzante. Al suo posto c´è - e ancor più ci sarà nell´immediato futuro - un intreccio inestricabile fra naturale e artificiale, fra "techne" e "bios", nel quale non è che la scelta della ragione, senza alcun canone esterno a lei, a poter individuare una soglia, un limite (provvisorio) da non oltrepassare.
E dunque, non c´è alcuna "natura" da ascoltare, che possa farci da guida - e per fortuna, va aggiunto: perché "secondo natura" quasi tutti noi non ci saremmo da un pezzo. La verità è che la tecnica ci permette, e sempre di più ci permetterà in futuro, di prolungare - anche in modo indefinito - stati di fine vita accompagnati o meno da forme di coscienza. Raggiunto questo punto, siamo già comunque oltre ogni "naturalità" dell´umano. E sarà solo una decisione interamente umana - che non avrà nulla a che fare con il rispetto di una "natura" che in quel momento non esiste più - a poter stabilire se e quanto far durare una simile condizione, tutta sotto il dominio dell´artificiale. Il resto, son soltanto sofismi (e ne abbiamo sentito di degni della migliore tradizione, come quando si vorrebbe distinguere fra alimentazione forzata e terapia farmacologica).
Ma allora chi è che decide, e come? (ed è il secondo punto di cui dicevo). È evidente che intorno a questo nodo si combatte una battaglia di potere di importanza primaria; la Chiesa si è impadronita da millenni dei due punti chiave del nostro percorso di vita: l´ingresso e l´uscita - come nasciamo e come moriamo - e non vuole abbandonarli, cercando ora in qualche modo di tenere insieme medicalizzazione e teologizzazione della morte. Il suo cavallo di battaglia è adesso costituito dall´idea della sacralità della vita - della sua totale "indisponibilità" da parte di chiunque - che mai finora era stata enunciata con tanta determinazione, tenuto conto che in passato le gerarchie cattoliche non avevano esitato a far comminare la morte (dal proprio "braccio secolare") in caso di gravi devianze religiose, avevano teorizzato la guerra "giusta", e avevano ammesso la condanna capitale nell´ordinamento giuridico che reggeva la sovranità temporale del papato, fino al 1870.
Non ho difficoltà ad ammettere che trovo la novità di questo principio - la sua carica "rivoluzionaria" rispetto all´insieme della nostra storia - un passo avanti decisivo nella strada dell´incivilimento umano. Ma di quale "vita" qui si parla? Di un puro guscio biologico affidato alle macchine, ormai privo di qualunque funzione riconducibile al pensiero? O anche di stati di coscienza artificialmente prolungati al costo di sofferenze giudicate insopportabili da chi le patisce? Nelle condizioni attuali delle tecnologie mediche, non c´è altra strada che stabilire ancora una volta limiti e confini, dettati solo dalla ragione dal buon senso, oltre i quali il principio dell´"indisponibilità" della vita, estremizzato per motivi solo ideologici, si rovescerebbe tragicamente nel suo contrario - nella condanna al prolungamento di uno stato intermedio fra la vita e la morte che, esso sì, non avrebbe più nulla di umano - se non fosse temperato da un´altra regola, che chiamerei di "autodeterminazione ai margini", affidata alla volontà del soggetto in gioco. Altrimenti, molto meglio nessuna legge che un pasticcio che sa solo di potere e di muffa.

Repubblica 22.3.11
Un saggio dello psicanalista Benvenuto su com'è cambiata la percezione sociale
Perché essere gelosi non va più di moda
"L'ossessione dell'esclusività è caduta in disgrazia, sembra un lugubre retaggio del passato. Così la possessività si rivela più per quel che si fa che in quel che si sente"
di Luciana Sica


ome geloso - scrive Roland Barthes - soffro quattro volte: perché sono geloso; perché mi rimprovero di esserlo; perché temo che la mia gelosia ferisca la persona che amo; perché cedo a una banalità». Nei Frammenti di un discorso amoroso, alla fine degli anni Settanta, il critico francese inserisce la figura della gelosia in una sentimentalità "oscena". Eppure quel desiderio di possedere la persona amata - condito dal timore, il sospetto, la certezza della sua infedeltà - non è scomparso, neppure in questo tempo che qualcuno ha chiamato delle "passioni tristi".
«Nel deserto degli affetti di oggi, la possessività è anche più imbarazzante e in genere viene rimossa, schivata, occultata, dissimulata...»: a dirlo è lo psicoanalista Sergio Benvenuto, che a La gelosia ha dedicato un libro in uscita per il Mulino (pagg. 136, euro 9,90). "Impulso naturale o passione inconfessabile?", già il sottotitolo rende problematico un tema che l´autore ripensa anche attraverso la letteratura, il cinema e il teatro.
Davvero la gelosia è solo un banalissimo istinto?
«La gelosia è un sentimento universale, ma anche un´istituzione sociale che ogni epoca e ogni società valuta, censura, esalta, condanna, autorizza. Per dirla con Pasolini, la verità non è in un sogno, ma in molti sogni. Analogamente, la verità sulla gelosia non è detta da una sola teoria, ma da più teorie, anche se io la vedo soprattutto come invidia della libertà dell´altro - e spesso prende il posto lasciato vuoto dall´amore. In Occidente, quella che gli anglofoni definiscono romantic jealousy è ormai un sentimento caduto in disgrazia, appare come un retaggio di una lugubre epoca di chiusura, non più giustificato e privo di istituzioni di sostegno - com´erano le attenuanti per il delitto d´onore. La possessività gelosa si rivela allora più in quel che si fa che in quel che si sente o si dice di sentire. Ma se tendiamo a negare, agli altri e soprattutto a noi stessi, di provare gelosia, inevitabilmente questo sentimento si esprimerà in forme camuffate, ellittiche, anche barocche».
Che intende dire?
«Ci sono varie strategie "antigelose", per evitarne la sofferenza. Alcune sono più soft, come quella molto sospetta di dichiarare orrore della gelosia, o di trovarla impensabile, pur avendo sotto gli occhi prove schiaccianti dell´infedeltà. Ma tra i vari antidoti, più gli uomini che le donne "scelgono" quella che io chiamo la gelosia negativa, fino a ricavare un piacere del tutto stravagante nell´essere traditi: basta che non venga mai spezzata la complicità del gioco. Altrimenti può esplodere la violenza».
Alle Perversioni (Bollati Boringhieri), ha dedicato un saggio importante qualche tempo fa: a lei il "geloso negativo" non sembra un bel po´ masochista?
«La psichiatria oggi chiama le perversioni "amori sbagliati"... Può anche essere una "perversione masochista" spingere la persona amata nelle braccia di altri o di altre, e trarne piacere. Ma qui a contare è l´assenza diffusa di tolleranza nei confronti di un sentimento che inquieta. In effetti ammettere di essere gelosi è aver già perso la partita, significa riconoscere di non aver nessun controllo sull´altro e che l´altro ha il potere spaventoso di tormentarci. Implica un senso d´inferiorità ("cosa ha quell´altro che io non ho?") e una penosa ferita narcisistica. Molti uomini hanno un divorante bisogno di essere amati, proprio per sostenere un´autostima che fa acqua da tutte le parti. Il "geloso negativo" è un bricoleur dell´amore: la promiscuità della sua donna alla fine dimostra che lei ama davvero lui solo».
Insiste molto sulla gelosia maschile. Ma le donne non sono spesso gelosissime?
«Certo che lo sono, ogni volta che non si sentono abbastanza desiderate dal loro compagno - il che è abbastanza frequente. Per gli uomini è diverso, anche perché non possono fingere più di tanto: è il piacere femminile che spesso è truccato».
Non era Freud a dire che c´è una componente omosessuale nella gelosia?
«C´è senz´altro un interesse sghembo per il rivale. Non a caso gli uomini gelosi spesso preferiscono la compagnia maschile a quella femminile, e attribuiscono alle loro donne un desiderio che non osano sessualizzare... La competizione amorosa può portare due uomini a uccidersi, ma anche ad amarsi».

il Fatto 22.3.11
Parlare con gli atei
di Paolo Flores d’Arcais


Stimato cardinal Ravasi, ho letto con crescente interesse l’intervista – impegnata e soprattutto impegnativa – che ha concesso a Marco Politi per questo giornale. Le sue parole mi hanno colpito, tra l’altro, per un tono appassionato di autenticità che non sempre si avverte in altri uomini di Chiesa del suo altissimo livello gerarchico. Lei enuncia come obiettivo delle sue iniziative “il dia-logo” con gli atei, dunque un parlarsi-fra che non aggiri la controversia, anzi, visto che lo intende come “il confronto tra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte dell’esistenza”. E perché non ci siano dubbi che tali “Logoi” debbano essere anche quelli più radicalmente conflittuali con la fede cattolica, esemplifica con gli ateismi di stampo nicciano, marxista, scientista: insomma tutto il “vade retro” del moderno relativismo (condannato dagli ultimi due Pontefici come incubatore di nichilismo   ). Ateismi radicali che, aggiunge, “io ascolto, rispetto, valuto”.
DI PIÙ. Marco Politi molto opportunamente insiste: “Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anatra zoppa?”. Bella metafora, in effetti, per stigmatizzare l’atteggiamento paternalistico che spinge ancora troppo spesso la Chiesa a scegliere come interlocutori solo quei “gentili” (“Cortile dei gentili” si intitola la sua iniziativa) che sembrano soffrire la condizione della mancanza di fede come un’amputazione ontologica o esistenziale. “Atei” sì, ma “alla ricerca di Dio”. Sembra proprio che invece lei questa volta voglia promuovere il confronto con l’intera costellazione dell’ateismo hard: “non interessano incontri o scontri generici, né di accordarsi su una vaga spiritualità” perché “quel che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative” smettendola di “essere evasivi” rispetto alle “profonde domande che ci vengono   rivolte dal mondo laico”. Apprezzo “toto corde”. Del resto dirigo da un quarto di secolo una rivista di adamantina laicità (tanto che viene spesso tacciata   di “laicismo” proprio perché non è laicità “rispettosa”, da anatre zoppe) che del confronto senza diplomatismi con uomini di fede, anche della Chiesa gerarchica, si è fatta un punto d’onore. Praticandolo.
Spero perciò sinceramente che alle sue parole seguano i fatti. Non solo a Parigi, anche in Italia. Negli ultimi anni l’atteggiamento è stato però di segno opposto. Il dia-logo con l’ateismo è stato sistematicamente rifiutato dalla Chiesa gerarchica e anche da lei personalmente. Si tratta di una verità inoppugnabile, di cui purtroppo posso dare testimonianza diretta.
Quando nell’anno del giubileo MicroMega pubblicò un almanacco   di filosofia dedicato a Dio, con saggi in maggioranza di ispirazione atea, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinal Ratzinger, non solo accettò di collaborare con un suo testo, ma anche di presentare il numero in una controversia pubblica con me al teatro Quirino di Roma, gremito all’inverosimile e con duemila persone che seguirono il dibattito sulla strada attraverso altoparlanti di fortuna. Se guardo ai due o tre anni successivi, posso constatare che accettarono pubbliche controversie i cardinali Schönborn, Tettamanzi, Piovanelli, Caffarra, Herranz e infine nel 2007, presso la Scuola normale superiore di Pisa, il patriarca di Venezia Angelo Scola. 
Da allora l’atteggiamento della Chiesa gerarchica si è rovesciato. MicroMega ha proseguito nella volontà di un confronto franco, “ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali”, secondo quanto lei dice di auspicare. Ma ci siamo trovati di fronte al muro di un sistematico rifiuto. Sia chiaro, un Principe della Chiesa ha tutto il diritto di rifiutare il confronto se non ritiene l’interlocutore all’altezza,   senza con ciò smentire la sua volontà di dia-logo. Pretende solo atei più autorevoli. Ma visti i precedenti fin troppo lusinghieri in fatto di porporati che hanno accettato la discussione con Micro-Mega e con me, non è certo questo il motivo del rifiuto.
SUL QUALE non provo neppure ad avanzare ipotesi. Mi interessa il futuro. Vorrei prenderla in parola, nella sua volontà di “dia-logo”, e organizzare con lei occasioni di confronto proprio con il metodo e sui temi che lei illustra nell’intervista. Discutere tra atei-atei e Chiesa gerarchica per “ricercare senza pretendere di sapere a priori”, su questioni che spaziano dal “senso dell’esistenza   ” alla “oltrevita, la morte, la categoria della verità” o “su ciò che significa Natura e legge naturale”, visto che da qui nascono le questioni eticamente sensibili che sempre più affollano l’agenda politica non solo italiana.
Si tratta, del resto, di temi previsti nel confronto con il cardinal Ratzinger, che non fu possibile affrontare per mancanza di tempo (vi era anche quello del Gesù storico, che certamente a lei, biblista di fama, interesserà). La invito dunque alle “Giornate della laicità” che si svolgeranno a Reggio Emilia dal 15 al 17 aprile, a cui hanno rifiutato di partecipare i quindici cardinali che abbiamo invitato, e nelle quali potrà discutere con atei non “anatre zoppe” come Savater, Hack, Odi-freddi, Giorello, Pievani, Luzzatto, e buon ultimo il sottoscritto.   Se poi la sua agenda non le consentisse di accogliere questo invito, le propongo di organizzare insieme, lei ed io, una serie di confronti nei tempi e luoghi che riterrà opportuni. Devo però dirle, in tutta franchezza, che non riesco a liberarmi dalla sensazione – negli ultimi anni empiricamente suffragata – che il “dia-logo” che lei teorizza voglia invece eludere il confronto proprio con l’ateismo italiano più conseguente. Con la speranza che i fatti mi smentiscano e che lei possa accettare la mia proposta, le invio intanto i miei più sinceri auguri di buon lavoro. 

il Fatto 22.3.11
Pensare fa bene
Gli italiani riscoprono Gramsci
Dopo Sanremo, in libreria “Odio gli indifferenti”
Qui di seguito parte del discorso pronunciato il 16 maggio 1925 alla Camera, contenuto nel libro “Odio gli indifferenti”. 


Presidente: Ha facoltà di parlare l’onorevole Gramsci.

Gramsci: Il disegno di legge contro le società segrete è stato presentato alla Camera come un disegno di legge contro la massoneria; esso è il primo atto reale del fascismo per affermare quella che il Partito fascista chiama la sua rivoluzione. [...] Il fascismo, dunque, afferma oggi praticamente di voler “conquistare lo Stato”. Cosa significa questa espressione ormai diventata luogo comune? E che significato ha, in questo senso, la lotta contro la massoneria? [...] La massoneria, dato il modo con cui si è costituita l’Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la massoneria è stata l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo. [...] La borghesia industriale non è stata capace di frenare il movimento   operaio, non è stata capace di controllare né il movimento operaio, né quello rurale rivoluzionario. La prima istintiva e spontanea parola d’ordine del fascismo, dopo l’occupazione delle fabbriche è stata perciò questa: “I rurali controlleranno la borghesia urbana, che non sa essere forte contro gli operai”. Se non m’inganno, allora, onorevole Mussolini, non era questa la vostra tesi, e tra il fascismo rurale e il fascismo urbano dicevate di preferire il fascismo urbano...

Mussolini: Bisogna che la interrompa per ricordarle un mio articolo di alto elogio del fascismo rurale del 1921-22. 

Gramsci: Ma questo non è un fenomeno puramente italiano, quantunque in Italia, per la più grande debolezza del capitalismo abbia avuto il massimo di sviluppo [...]. Quali erano le debolezze della borghesia capitalistica italiana prima della guerra, debolezze che hanno portato alla creazione di quel determinato sistema politico massonico che esisteva in Italia, che ha avuto il suo massimo sviluppo nel Giolittismo? Le debolezze massime della vita nazionale italiana erano in primo luogo la mancanza di materie prime, cioè l’impossibilità della borghesia di creare in Italia una industria che avesse una sua radice profonda nel paese e che potesse progressivamente svilupparsi, assorbendo la manodopera esuberante. In secondo luogo, la mancanza di colonie legate alla madre patria, quindi l’impossibilità per la borghesia di creare   una aristocrazia operaia che permanentemente potesse essere alleata della borghesia stessa. Terzo la questione meridionale, cioè la questione dei contadini, legata strettamente al problema dell’emigrazione, che è la prova della incapacità della borghesia italiana di mantenere...

Mussolini: Anche i tedeschi sono emigrati a milioni.

Gramsci: Il significato dell’emigrazione in massa dei lavoratori è questo: il sistema capitalistico, che è il sistema predominante, non è in grado di dare il vitto, l’alloggio e i vestiti alla popolazione, e una parte non piccola di   questa popolazione è costretta a emigrare [...] È questa la debolezza fondamentale del sistema capitalistico italiano, per cui il capitalismo italiano è destinato a scomparire tanto più rapidamente quanto più il sistema capitalistico mondiale non funziona   più per assorbire l’emigrazione italiana, per sfruttare il lavoro italiano, che il capitalismo nostrale è impotente a inquadrare. I partiti borghesi, la massoneria, come hanno cercato di risolvere questi problemi? Conosciamo nella   storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia per risolvere la questione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolittiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di stabilire una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia settentrionale per opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-proletaria la massa dei contadini italiani, specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto successo. [...] Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l’aristocrazia operaia e i contadini poveri di tutta Italia. Abbiamo avuto il programma che possiamo dire dal Corriere della Sera, giornale che rappresenta una forza non indifferente nella politica nazionale: 800.000 lettori  sono anch’essi un partito. Voci: Meno... Mussolini: La metà! E poi i lettori dei giornali   non contano. Non hanno mai fatto una rivoluzione. I lettori dei giornali hanno regolarmente torto!

Gramsci: Il Corriere della Sera non vuole fare la rivoluzione.

Farinacci: Neanche l’Unità!

Gramsci: [...] il Corriere della Sera ha sostenuto sempre un’alleanza tra gli industriali del Nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale sul terreno del libero scambio. L’una e l’altra soluzione tendevano essenzialmente a dare allo Stato italiano una più larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le “conquiste” del Risorgimento   . Che cosa oppongono i fascisti a queste soluzioni? Essi oppongono oggi la legge cosiddetta contro la massoneria; essi dicono di volere così conquistare lo Stato. In realtà il fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia avesse in Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La “rivoluzione” fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo a un altro personale.

Mussolini: Di una classe a un’altra, come è avvenuto in Russia, come avviene normalmente in tutte le rivoluzioni, come noi faremo metodicamente! (Approvazioni.)

Gramsci: È rivoluzione solo quella che si basa su una nuova classe. Il fascismo non si basa su nessuna classe che non fosse già al potere... 

Mussolini: Ma se gran parte dei capitalisti ci sono contro, ma se vi cito dei grandissimi capitalisti che ci votano contro, che sono all’opposizione: i Motta, i Conti...

Farinacci: E sussidiano i giornali sovversivi!

Mussolini: L’alta banca non è fascista, voi lo sapete!

Gramsci: La realtà dunque è che   la legge contro la massoneria non è prevalentemente contro la massoneria; coi massoni il fascismo arriverà facilmente a un compromesso.

Mussolini: I fascisti hanno bruciato le logge dei massoni prima di fare la legge! Quindi non c’è bisogno di accomodamenti.

Gramsci: Verso la massoneria il fascismo applica, intensificandola, la stessa tattica che ha applicato a tutti i partiti borghesi non fascisti: in un primo tempo ha creato un nucleo fascista in questi partiti; in un secondo periodo ha cercato di esprimere dagli altri partiti le forze migliori   che gli convenivano, non essendo riuscito a ottenere il monopolio come si proponeva...

Farinacci: E ci chiamate sciocchi?

Gramsci: Non sareste sciocchi solo se foste capaci di risolvere i problemi della situazione italiana...

Mussolini: Li risolveremo. Ne abbiamo già risolti parecchi.

Gramsci: [...] Come si fa quando un nemico è forte? Prima gli si rompono le gambe, poi si fa il compromesso in condizioni di evidente superiorità.

Mussolini: Prima gli si rompono le costole, poi lo si fa prigioniero, come voi avete fatto in Russia! Voi avete fatto i vostri prigionieri e poi li tenete, e vi servono!

Gramsci: Far prigionieri significa appunto fare il compromesso: perciò noi diciamo che in realtà la legge è fatta specialmente contro le organizzazioni operaie   . Domandiamo perché da parecchi mesi a questa parte senza che il Partito comunista sia stato dichiarato associazione a delinquere, i carabinieri arrestano i nostri compagni ogni qualvolta li trovano riuniti in numero di almeno tre...

Mussolini: Facciamo quello che fate in Russia... 

Gramsci: In Russia ci sono delle leggi che vengono osservate: voi avete le vostre leggi...

Mussolini: Voi fate delle retate formidabili. Fate benissimo! (Si ride.)

Gramsci: In realtà l’apparecchio poliziesco dello Stato [italiano] considera già il Partito comunista come un’organizzazione segreta.

Mussolini: Non è vero!

Gramsci: Intanto si arresta senza nessuna imputazione specifica chiunque sia trovato in una riunione di tre persone, soltanto perché comunista, e lo si butta in carcere.

Mussolini: Ma vengono presto scarcerati. Quanti sono in carcere? Li peschiamo semplicemente per conoscerli! 

Gramsci: È una forma di persecuzione sistematica che anticipa e giustificherà l’applicazione della nuova legge. Il fascismo adotta gli stessi sistemi del governo Giolitti. Fate come facevano nel Mezzogiorno i mazzieri giolittiani che arrestavano gli elettori di opposizione... per conoscerli.

Una voce: C’è stato un caso solo. Lei non conosce il Meridione.

Gramsci: Sono meridionale!

Repubblica 22.3.11
Il centro studi, nonostante i tagli, pubblica i 114 volumi usciti tra il ´22 e il ´29
Da Goethe a Salvemini scoprite l’editore Gobetti
di Massimo Novelli


TORINO - «Penso un editore come un creatore». Andando esule a Parigi nel febbraio del 1926, dove sarebbe morto nel volgere di due settimane, Piero Gobetti aveva progettato di dare vita a una casa editrice di respiro europeo, ricominciando la sua febbrile attività di organizzatore culturale interrotta dai fascisti. Nella sua breve esistenza, spezzata a nemmeno 26 anni, era riuscito però a farsi «editore ideale» di 114 libri, usciti dal ‘22 fino al ‘29. Un patrimonio notevole che comprende, tra le altre, opere di Guglielmo Alberti, Luigi Einaudi, Ubaldo Formentini, Goethe, Longfellow, Malaparte, Montale (Ossi di seppia, edito nel 1925), Francesco Nitti, Alessandro Passerin d´Entreves, Giuseppe Prezzolini, Francesco Ruffini, Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini, Stuart Mill, don Sturzo, oltre che dello stesso Gobetti.
Non più riproposte, nella maggior parte dei casi, da allora, saranno ora ripubblicate, da settembre, in edizione anastatica e con postafazioni di studiosi contemporanei. La ristampa coincide con il cinquantesimo anniversario della fondazione del Centro studi Piero Gobetti, tra i promotori dell´iniziativa editoriale: ciò rappresenta uno sforzo notevole, considerando il momento difficile che sta vivendo per i tagli ai finanziamenti da parte del ministero dei Beni culturali e, soprattutto, della Regione Piemonte. Sulla vicenda si è espresso il capo dello Stato Giorgio Napolitano, auspicando una politica «più generosa» per la cultura in una lettera a Carla Gobetti, presidente del centro. A consentire il recupero dell´editoria gobettiana, in ogni caso, saranno le Edizioni di Storia e di Letteratura di Roma, l´Università di Torino, l´Accademia dei Lincei, l´Accademia torinese delle Scienze e la Fondazione Basso.