mercoledì 23 marzo 2011

l’Unità 23.3.11
Il Pd sta con l’Onu
Il Pd all’attacco: «Italia irrilevante Presto una nostra mozione»
Il Pd pronto a presentare una propria risoluzione se il governo arriverà in Parlamento con «furbizie e ambiguità». D’Alema attacca il ministro «dell’attacco» La Russa e il comportamento «disgustoso» della Lega sui profughi.
di Simone Collini


Il Pd è disposto a votare soltanto una risoluzione che ricalchi quella approvata la scorsa settimana dall’Onu. Se invece il governo, per ottenere il via libera da parte della Lega, dovesse presentare in Parlamento un testo sulla crisi libica che contenga anche dei riferimenti alla tutela degli accordi energetici e alla difesa dei nostri confini per bloccare gli immigrati, il Pd voterà contro e presenterà una propria risoluzione. In tal caso oggi, al Senato, non dovrebbero esserci sorprese. Ma domani alla Camera, dove il distacco è minore, i rischi per il governo aumentano, anche se Berlusconi ce la metterà tutta con il rimpasto per garantirsi la maggioranza.
IL PD STA CON L’ONU
Pier Luigi Bersani ha riunito ieri la segreteria e ha convocato per questa mattina il coordinamento del Pd (l’organismo di cui fanno parte tutti i big) e poi deputati e senatori per una riunione congiunta. L’obiettivo, in questa situazione che tra contrasti nell’alleanza internazionale e ambiguità italiche si fa di giorno in giorno più delicata, è capire se il governo punti a sfilarsi e, per quanto riguarda il Pd, arrivare al voto in Parlamento compatti. Defezioni ci saranno, sia tra i cattolici che tra quanti puntano a un rapporto più stretto con la sinistra (esprimono perplessità o netta contrarietà Enrico Gasbarra, Vincenzo Vita, Paolo Nerozzi, Andrea Sarubbi e un’altra decina di parlamentari). Ma saranno «casi di coscienza» isolati che non impensieriscono Bersani. Il leader del Pd vuole schierare i gruppi parlamentari, anche presentando una propria risoluzione se quella del governo conterrà «furbizie e ambiguità», su una linea basata su due punti cardine. Il primo guarda alle Nazioni unite: «Bisogna stare nella risoluzione Onu che dice di impedire a Gheddafi di aggredire il suo popolo. Poi bisognerà passare la mano alla diplomazia per favorire la transizione». Il secondo al Colle.
INTERVENTO DI NAPOLITANO
Giorgio Napolitano ieri ha sottolineato che la Carta dell’Onu prevede anche la possibilità di ricorrere a «risposte militari» per assicurare la pace e la sicurezza internazionale ed è anche intervenuto sul tema del comando unificato della missione dicendo che «la Nato rappresenta la soluzione di gran lunga più appropriata». Che il Capo dello Stato si esponga sul tema della crisi libica viene giudicato positivamente dal Pd, che invece critica duramente il fatto che oggi a riferire al Senato ci siano Frattini e La Russa.
BERLUSCONI ASSENTE E NOSTALGICO
«È gravissimo che il presidente del Consiglio non venga al Senato ad assumersi la responsabilità del comportamento del governo sulla Libia», dice Anna Finocchiaro ricordando che gli altri premier, da Zapatero a Cameron, non si sono sottratti. Anche D’Alema tra una frecciata al ministro «dell’attacco» La Russa, una sottolineatura a beneficio di chi è contro la missione («nel conto di quel che accade va considerato quante vite umane sono state salvate dall’intervento dell’Onu») e un duro attacco alla Lega («è disgustoso che si agiti a scopi di propaganda» la questione dei profughi) critica l’assenza in Parlamento e le disattenzioni a Parigi di Berlusconi: «Lì avevamo il dovere di chiedere chiarezza, cosa è andato a fare? È forte solo quando deve parlare contro i giudici. In momenti come questi si avverte drammaticamente che il paese avrebbe bisogno di un governo e non ce l’ha». Il premier deve riferire in Parlamento anche per evitare che Frattini oggi dica una cosa e il premier, dietro le quinte un’altra, come che è «addolorato per Gheddafi». Parole gravi, per Bersani: «È una indecorosa nostalgia che aggiunge una nota di confusione e di discredito nella posizione del governo italiano».

Repubblica 23.3.11
D’Alema: l´Italia è senza governo premier spettatore davanti alla guerra
"E Maroni e Frattini hanno speculato sulla tragedia"
La prescrizione breve: ecco a che cosa pensava Berlusconi a Parigi. Magari si messaggiava con qualche fedelissimo
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA - L´intervento in Libia «era necessario, ma è stato tardivo e male organizzato. Il governo italiano sconta la sua scarsa credibilità, e un premier che nelle riunioni importanti pensa ad altro. Quanto alla Lega, è disgustoso che speculi sulla tragedia dei profughi per i propri interessi elettorali». Il presidente del Copasir Massimo D´Alema - ospite di Repubblica Tv - definisce gravissima la scelta di Berlusconi di non presentarsi al Senato per spiegare le ragioni dell´azione italiana. Ma comincia dal principio, dal perché questa è una guerra indispensabile.
Presidente, la coalizione dei volenterosi ha agito troppo presto o troppo tardi?
«La guerra non è cominciata con la risoluzione dell´Onu. La guerra in Libia c´era, c´era un capo che stava massacrando il suo popolo. L´azione internazionale è partita quando i carri armati di Gheddafi erano alla porte di Bengasi. L´intervento quindi era necessario, è stato forse tardivo, certo molto male organizzato».
La coalizione è partita già divisa. La Francia non vuole l´ombrello Nato, l´Italia preme per ottenerlo. Cosa è mancato?
«Dopo il voto dell´Onu, i Paesi che hanno deciso di agire dovevano chiarire tra di loro modalità e obiettivi precisi. Mi domando cosa abbia fatto nella riunione di Parigi il presidente del Consiglio italiano, che ora parla come se fosse un semplice spettatore. Era lì che bisognava avanzare condizioni e richieste. Io concordo in pieno con la necessità di un coordinamento Nato. La Nato può garantire che si perseguano solo gli scopi fissati dalla risoluzione, che non si vada ognuno per conto proprio. Diminuendo così il rischio di vittime civili. Ma questa richiesta bisognava farla prima».
Lei stesso aveva sollecitato il ruolo della Nato in chiave di scudo per il nostro Paese. Siamo realmente più esposti al rischio terrorismo?
«Il ministro dell´Interno ha detto che tra gli immigrati possono esserci infiltrazioni terroristiche. Poco dopo il ministro degli Esteri ha detto che non c´è questo pericolo. Non stiamo parlando delle previsioni sul campionato di calcio. Per questo ho chiesto al ministro della Difesa di venire davanti al Copasir a dirci come stanno le cose. Trovo molto gravi le parole dette sugli immigrati. Quando ci fu la guerra del Kosovo ospitammo decine di migliaia di profughi, l´Italia può farlo. E´ disgustoso che di fronte a questa tragedia si speculi invece di agire».
Come valuta la decisione del premier di non partecipare al dibattito in Senato e come voterete sulle mozioni?
«Ritengo grave che il presidente del Consiglio non si assuma le sue responsabilità. Noi abbiamo già votato l´autorizzazione ad agire nell´ambito della risoluzione Onu, e quello siamo disposti a votare. Se verranno con dei pasticci contro gli immigrati per accontentare la Lega non credo che potremo votarli».
I pacifisti oggi dicono: si dovevano cercare altre strade, bisognava avviare un´azione politica.
«E´ chiaro che una volta fermati i carri armati di Gheddafi si apre uno spazio per l´iniziativa politica, credo che sia necessario avviarla già da adesso, ma prima bisogna imporre il cessate il fuoco. Io non sono pacifista, sono per la libertà, la democrazia e i diritti umani. Rispetto il pacifismo integrale ma i governi a volte sono costretti a usare la forza anche per imporre la pace».
Nichi Vendola dice: serviva una forza di interposizione.
«In Libano fu inviata una forza di interposizione perché si era già ottenuto un cessate il fuoco. Bisogna misurarsi con la realtà. Gran parte della sinistra europea è schierata dalla parte di un´azione internazionale. Spero che Nichi si muova in sintonia con queste voci».
In questo quadro in commissione alla Camera è passata la prescrizione breve. Da qui all´estate il processo Mills a carico del premier sarà estinto.
«La prescrizione breve, ecco a cosa pensava Berlusconi a Parigi e magari si messaggiava con i fedelissimi. Se uno va alla riunione di Parigi avendo in mente la Questura di Milano da chiamare per qualche ragazza, non può certo pensare all´Onu o alla Libia. Avevano detto di aver messo da parte queste furberie in nome delle grandi riforme: era falso».

il Fatto 23.3.11
I pacifisti provano a rialzare la testa
Strada attacca Napolitano, ieri sit in della sinistra radicale
di Wanda Marra


“Sento le più alte cariche dello Stato dire coglionerie: qualcuno è arrivato al punto di dire che mentre mandiamo i Tornado non siamo in guerra. Nessuna guerra può essere umanitaria, ed è questa la più disgustosa menzogna per giustificare la guerra che è sempre un crimine contro l’umanità”. Lunedì sera, terzo giorno di guerra alla Libia, Ambra Jovinelli, a Roma. A parlare dal palco è Gino Strada, in piedi, sotto un faretto, volto ieratico, pause teatrali, che punta il dito direttamente contro il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
IL QUALE domenica ha usato tutto il peso della sua carica per diffondere un messaggio: “Non siamo in guerra, ma all'interno di un'azione dell'Onu”. Alla serata organizzata da Emergency per presentare il nuovo mensile E ci sono almeno 1600 persone. Catturate, ipnotizzate da Strada che ribadisce il suo no addirittura filosofico alla guerra, e che mette insieme la tragedia giapponese e la guerra libica. È il primo momento di raccordo di un movimento pacifista esitante, assente, addormentato nel momento dell’inizio dei raid aerei sulla Libia, ma anche diviso dalle ragioni dell’intervento umanitario e della rivoluzione libica. All’Ambra Jovinelli ci sono don Luigi Ciotti, Erri De Luca, Maurizio Landini della Fiom, Fiorella Mannoia, Vauro. Ma anche Ezio Mauro, che in totale controcanto, ribadisce che “si deve andare incontro al bisogno di libertà del popolo libico”. Dichiarava ieri Vauro: “Lì c’è una vera e propria guerra civile. In altri paesi del Nord Africa la libertà se l’è presa la popolazione. Intervento umanitario? Guarda caso si fa sempre dove ci sono delle risorse petrolifere”. E poi denuncia il “grottesco” della politica italiana. Di certo la violenza degli attacchi e lo spettacolo di confusione e di indecisione offerto dalla coalizione aiutano i pacifisti a venire allo scoperto. E ieri a Roma c’è stato il primo presidio, a Piazza Navona, organizzato dalla Federazione della Sinistra. “Napolitano ha detto delle cose imperdonabili”, fa eco a Strada Alfio Nicotra, responsabile Pace di Rifondazione. Ma per la verità è un raduno per pochi intimi.
“LE GRANDI manifestazioni non hanno prodotto nulla: e forse è anche per questo che ora non ce ne sono”. Fiducioso Paolo Ferrero: “Quando sarà chiaro che questo intervento non solo non risolve i problemi umanitari, ma li crea, la mobilitazione ci sarà”. Poi, rispetto alla evidente pochezza della reazione pacifista spiega: “È come col Kosovo, con molta parte della sinistra schierata per l’intervento”. In effetti, il Pd è “in prima linea nel fronte interventista”, come ironizza qualcuno, nonostante le prime crepe (“dubbi” ci sono tra i cattolici e la sinistra del partito è su altre posizioni), Vendola si è espresso con chiarezza contro la guerra solo domenica, l’Idv èsulla linea del “ni”. Per il no alla guerra senza se e senza ma restano i pacifisti di sempre: Arci e Fiom, che giovedì faranno una prima riunione di coordinamento. Ieri, intanto, a Milano, in piazza San Babila, circa 150 militanti si sono ritrovati sotto le insegne di Prc-Fds, Sinistra ecologia e libertà, Sinistra critica, oltre a quelle dell’Arci e di Emergency.
E POI, ci sono i cattolici di base, Pax Christi, la Tavola per la pace. Il tentativo è quello di “girare” sulle ragioni della pace il corteo già previsto per sabato a Roma (partenza alle 14 e 30 da piazza Esedra) per l’acqua pubblica e contro il nucleare. Peccato, però, che nessuna richiesta ufficiale sia arrivata agli organizzatori, il comitato Referendario per l’Acqua bene comune. “Va bene manifestare per vari temi, ma nessuno ci metta il cappello”.

Corriere della Sera 23.3.11
I raid dividono il Pd: cattolici «tentati» dal corteo di Vendola
di Maria Teresa Meli


ROMA — Ufficialmente il Pd è compatto e univoco nel suo sì ai bombardamenti sulla Libia. Ma in realtà dietro la linea della fermezza si nascondono malumori, dissapori e dubbi. La stessa Rosy Bindi non ha nascosto le sue perplessità ai vertici del partito. «Ci sono dei problemi e delle difficoltà che non possiamo fare finta di non vedere» , è la sua riflessione ad alta voce, che ha finito per coinvolgere tutti i big di Largo del Nazareno. Anche perché le perplessità sollevate dalla presidente del partito sembrano confermare le paure del gruppo dirigente del Pd. La preoccupazione è una sola e si può riassumere in questo interrogativo: può il Partito democratico dimostrarsi più realista del re? Certo, la chiara presa di posizione di Giorgio Napolitano e la risoluzione dell’Onu coprono abbondantemente le spalle del Pd. Ma fino a quando? Se infatti i bombardamenti dovessero continuare senza un apparente sbocco positivo della situazione, o se il governo dovesse marcare la differenza e assumere la linea della prudenza, il partito di Bersani rischierebbe di trovarsi troppo esposto sul fronte della guerra. Questo quando la maggior parte del «popolo» della sinistra è palesemente contro l’offensiva in Libia. Talmente contro che Nichi Vendola è stato costretto a cambiare la sua posizione e dal sì (con tanti se e tanti ma) all’intervento è passato al no secco per non scontentare i suoi elettori. Ma anche nel Pd c’è chi ritiene che i bombardamenti non siano la risposta giusta. E non si tratta dei pacifisti di sempre, come l’ex presidente di Legambiente Roberto Della Seta, che, anzi, è schieratissimo con la linea interventista. A macerarsi fra i dubbi sono i cattolici come Enrico Gasbarra, Gero Grassi e Andrea Sarubbi (deputati) e Lucio D’Ubaldo e Roberto Di Giovanpaolo (senatori). Alcuni di loro in Aula voteranno «no» , altri si conformeranno alla linea del partito, ma sabato saranno tutti in piazza, con Vendola, per manifestare la loro ostilità alla guerra. Lo stesso Beppe Fioroni, leader degli ex popolari del Partito democratico, ha molti dubbi. Voterà senz’altro a favore dell’intervento, come deciso dalla dirigenza, però non riesce a nascondere perplessità e timori: «Mi preoccupo per il dopo: che sarà della Libia? I Paesi che fanno parte della coalizione dei volenterosi hanno un piano o vanno avanti secondo la logica del giorno per giorno?» . Fioroni sa che i cattolici del Pd sono in sofferenza e perciò ha convocato per oggi un incontro di ex ppi: sarà un modo per ascoltare le ragioni e i timori dei renitenti alla guerra. Anche la sinistra del Pd è alquanto tiepida. I senatori Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi tirano il freno a mano e il loro leader, Sergio Cofferati, rimugina sul da farsi. Persino l’ala ulivista preferisce la linea della cautela. Come spiega Mario Barbi: «Al momento non è chiaro quale sia l’analisi che sta a monte dell’azione in corso e sarebbe bene che l’Italia non nascondesse la testa sotto la sabbia ma ponesse le questioni politiche che non possono essere risolte dall’azione militare» . Stamattina Pier Luigi Bersani riunirà il caminetto del Pd per evitare strappi e tentennamenti: un lusso che il partito, di fronte a una maggioranza così sfilacciata, non può certo permettersi. M. T. M.

Repubblica 23.3.11
Tutti i dubbi dei pacifisti
di Tzvetan Todorov


L´intervento militare in Libia ha suscitato in Francia un coro di consensi, provenienti sia dai partiti rappresentati in Parlamento, come già per la guerra in Afghanistan, sia dai commentatori. Sentiamo dire che la Francia ha messo a segno un colpo da maestro. Il capo nemico è designato solo in termini superlativi: è diventato il demente, il pazzo, l´aguzzino, il tiranno sanguinario, o addirittura descritto, con riferimento alle sue origini, come «astuto beduino». Si fa scialo di eufemismi: anziché di uccidere a freddo si parla di «assumersi le proprie responsabilità»; non si raccomanda di limitare il numero dei cadaveri, bensì di procedere «senza eccesso di forze dirompenti». Per giustificare l´entrata in guerra si adducono paragoni azzardati: non intervenire equivarrebbe a ripetere gli errori commessi nel 1937 con la Spagna, nel 1938 a Monaco, nel 1994 in Ruanda…
Chi traccheggia è stigmatizzato. La Germania non è stata all´altezza, l´Europa ha dato prova di una sorprendente ritrosia, se non addirittura della sua abituale pusillanimità. I Paesi emergenti sono colpevoli di non voler correre rischi - come se a rischiare grosso fossero i guerrafondai della capitale francese!
È vero che a differenza della guerra in Iraq, l´intervento in Libia è stato approvato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ma legalità è sinonimo di legittimità? Alla base della decisione si trova un concetto introdotto di recente: la responsabilità di proteggere la popolazione civile di un Paese dalle minacce provenienti dai suoi stessi dirigenti. Ora, dal momento in cui questa "protezione" non ha più il significato di assistenza umanitaria, ma quello dell´intervento militare di un altro Stato, non si vede cos´abbia di diverso dal "diritto d´ingerenza" che i Paesi occidentali si erano arrogati qualche anno fa. Se ogni Stato potesse decidere di avere il diritto di intervenire sui suoi vicini per difendere una minoranza maltrattata, numerose guerre scoppierebbero all´istante. Basti pensare ai ceceni in Russia, ai tibetani in Cina, agli sciiti nei Paesi sunniti (e viceversa), ai palestinesi nei territori occupati da Israele… Certo, dovrebbero essere autorizzate dal Consiglio di Sicurezza. Il quale ultimo ha però una particolarità, che è al tempo stesso il suo peccato originale: i suoi membri permanenti dispongono di un diritto di veto su tutte le decisioni, e ciò li pone al disopra della legge che lo stesso Consiglio di Sicurezza dovrebbe incarnare: non potranno mai essere condannati, come non lo saranno i Paesi che scelgono di sostenere! E quel che è peggio, per sottrarsi al veto intervengono senza l´autorizzazione delle Nazioni Unite, come nel caso del Kosovo e in quello dell´Iraq. L´invasione armata di quest´ultimo Paese, fondata su un pretesto fittizio (la presenza di armi di distruzione di massa) è costata centinaia di migliaia di morti; eppure i Paesi invasori non hanno subito la benché minima sanzione ufficiale. L´ordine internazionale incarnato dal Consiglio di Sicurezza consacra il regno della forza, non del diritto.
Ma almeno stavolta, si dirà, si interviene in difesa dei principi, non degli interessi. Ne siamo proprio sicuri? La Francia ha continuato per molto tempo a sostenere le dittature al potere nei Paesi vicini, quali la Tunisia e l´Egitto. Scegliendo oggi di dare il suo appoggio agli insorti libici, Parigi spera di ripristinare il proprio prestigio. E al tempo stesso dà una dimostrazione dell´efficienza delle sue armi, ponendosi così in una posizione di forza nei futuri negoziati. Sul piano interno, condurre una guerra vittoriosa - e per di più in nome del Bene - serve sempre a risollevare la popolarità dei dirigenti. Considerazioni analoghe si possono fare nel caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Si insiste molto sulle dichiarazioni di sostegno (prima che avesse incominciato a cambiare parere) della Lega araba, le cui opinioni peraltro sono raramente tanto apprezzate in Occidente! A ben guardare, nel caso presente gli Stati che ne fanno parte hanno vari interessi in gioco. L´Arabia Saudita e i suoi alleati sono pronti a sostenere gli occidentali nel confronto con il rivale libico, dato che ciò consente loro di reprimere impunemente i movimenti di protesta all´interno dei propri confini. I sauditi, non proprio esemplari in fatto di istituzioni democratiche, hanno incoraggiato la repressione nello Yemen e sono già intervenuti militarmente nel Bahrein, scegliendo, in questi due Stati vicini, di "proteggere" i dirigenti contro la popolazione.
Il colonnello Gheddafi massacra la sua gente: non sarebbe giusto rallegrarsi di poterglielo impedire, quali che siano le giustificazioni addotte o i motivi reconditi di questa scelta? L´inconveniente sta però nel fatto che la guerra è un mezzo tanto potente da far dimenticare il proprio obiettivo. Solo nei videogiochi si possono distruggere gli armamenti senza toccare gli esseri umani; nelle guerre reali, neppure gli "interventi chirurgici" più precisi riescono ad evitare i "danni collaterali", cioè i morti, le sofferenze, le distruzioni. A questo punto ci si addentra in una serie di calcoli dall´esito incerto: senza l´intervento, le perdite umane e materiali sarebbero più o meno gravi? Davvero non esistevano altri modi per impedire il massacro della popolazione civile? Una volta incominciata, la guerra non rischia di procedere secondo la sua propria logica, anziché obbedire alla lettera della risoluzione iniziale? È il caso di incoraggiare la guerra civile nel Paese, o la sua spartizione? Non si rischia di compromettere lo slancio democratico della popolazione rendendola dipendente dagli ex Stati colonizzatori?
Non esistono guerre pulite né guerre giuste, ma solo guerre inevitabili, come lo è stata la seconda guerra mondiale combattuta dalle forze alleate. Non è però il caso dell´attuale conflitto armato. Prima di intonare inni alla gloria di quest´impresa, veramente migliore di tutte le altre, forse sarebbe bene meditare sulle lezioni che Goya trasse duecento anni fa da un´altra guerra combattuta in nome del Bene: quella dei reggimenti napoleonici che portavano i diritti umani agli spagnoli. I massacri commessi in nome della democrazia non addolciscono la vita più di quelli perpetrati per fedeltà a Dio o ad Allah, alla Guida o al Partito. L´esito è sempre lo stesso: I disastri della guerra.
(Traduzione di Elisabetta Horvat) L´ultimo libro di Tzvetan Todorov, storico e saggista, pubblicato in Italia è "La bellezza salverà il mondo" per Garzanti

Repubblica 23.3.11
Pacifisti senza se e qualche ma...
Molti sì all´intervento in Libia arrivano da sinistra. E il fronte del no fa adepti a destra. La nuova guerra ha trasformato la galassia "no war". Così
di Anais Ginori


Colombe a destra, falchi a sinistra. Davanti all´attacco alla Libia, in Europa (e in Italia) il fronte degli antimilitaristi cambia assetto Politici e intellettuali giocano in ruoli differenti dal passato, quando giudicarono la missione in Iraq. Il movimento ora scende in piazza. E intanto cerca un´altra identità. Così è cambiata la mappa dei "no war"
L´ex sessantottino Daniel Cohn-Bendit ha modificato la sua posizione: oggi è interventista
In un decennio le opinioni pubbliche occidentali hanno dovuto affrontare quattro conflitti

«L´uso della forza è legittimo, necessario». A parlare così non è un guerrafondaio, ma anzi il capo di governo occidentale che per primo si è sfilato dall´Iraq. Il discorso del socialista José Luis Zapatero davanti al parlamento spagnolo ben rappresenta lo straniamento del popolo pacifista in queste ore. L´intervento in Libia è stato approvato ieri a Madrid con appena tre voti contrari e un´astensione, contestato solo da uno sparuto gruppo di pacifisti. Anche il premier spagnolo entra a far parte dei nuovi interventisti di sinistra mentre nelle destre europee, non solo in Italia, avanzano i pacifisti realisti, accodati al niet della Germania di Angela Merkel. L´intervento militare in Libia cambia le posizioni, inverte le parti solitamente assegnate, impone nuovi distinguo, forse archivia categorie del passato.

Come ai tempi della guerra in Kosovo, poi dell´Afghanistan e dell´Iraq, il fronte "no war" è attraversato da proclami ma anche dubbi e affronta in ordine sparso la sua quarta guerra in poco più di un decennio. Il movimento pacifista, che il New York Times ha definito la "seconda potenza mondiale", si scopre fragile al suo interno. Questa volta la mobilitazione stenta a partire, forse perché molti hanno ancora negli occhi le immagini alla tv di Gheddafi che tratta gli oppositori come «ratti» da sterminare in un «bagno di sangue». A complicare il quadro c´è oggi il mandato dell´Onu, che mancava per l´Iraq e in qualche modo legittima la «responsabilità di proteggere» le popolazioni civili, anche con l´uso della forza. Esitazioni che hanno scatenato immancabili ironie degli americani, che hanno visto scendere in piazza gli europei contro le "loro" guerre. "Che fine hanno fatto i pacifisti?" si chiede l´Atlantic Monthly.

I pacifisti tout court
«Quando comincia un conflitto c´è sempre un momento di tentennamento e riflessione, anche per l´Iraq è stato così» racconta il militante britannico Andrew Burgin di Stop the War Coalition che ha appena organizzato presidi a Londra. «Ma presto la gente inizierà a chiedersi qual è il vero motivo per cui stiamo bombardando la Libia e allora capiranno che le vittime civili sono solo un pretesto per sporchi interessi economici». Il pacifismo puro e duro ha reagito con appelli che circolano online. L´Italia sarà il primo Paese a rappresentare in piazza l´ala più intransigente alla guerra con la manifestazione di sabato, capeggiata da Emergency, l´associazione Libera di don Luigi Ciotti e Pax Christi. «Il tema della pace è stato cancellato dalla politica e dall´informazione - spiega Flavio Lotti della Tavola della Pace - ma questo non significa che non sia radicato nella coscienza di milioni di persone. Se la guerra dovesse scoppiare sul serio, sono certo che si faranno sentire». Non è un conflitto, come gli altri, questo è certo. E allora, anche da noi, avvengono saldature di persone portatrici di storie molto differenti tra loro. «Noi, che siamo cittadini di un Paese che porta grandi responsabilità per la situazione che storicamente si è creata in Libia, ci dichiariamo disponibili a sostenere ogni azione legittima che contribuisca a fermare lo spargimento di sangue e a trovare una soluzione politica alla crisi, mentre dichiariamo la nostra ferma contrarietà a ogni azione bellica condotta dall´esterno contro un Paese sovrano». È l´incipit di un appello lanciato da Giulietto Chiesa, giornalista, ex eurodeputato, comunista, che non a caso lo definisce «parere comune di privati cittadini» e lo titola "Uniti ma diversi". Perché a firmarlo, tra gli altri, sono pacifisti a tutto tondo come padre Alex Zanotelli, accanto ad Angelo Del Boca, scrittore e storico del colonialismo italiano, e un saggista come Massimo Fini, non proprio ascrivibile al movimento Arcobaleno.

Come la Spagna del ´36
Ad ogni guerra si riproducono le lacerazioni nel popolo di sinistra. Ma oggi tutto è diverso. Per alcuni l´appoggio ai ribelli di Bengasi, con la speranza di un avvenire democratico per la Libia, è doveroso. «Hanno i nostri stessi valori, vogliono libertà e democrazia. Bisogna impedire a un tiranno di spezzare la rivoluzione» dice Jean-Luc Melenchon, nuova stella dell´estrema sinistra in Francia. Ed ecco quindi il paradosso dei pacifisti Verdi tedeschi che criticano la Cancelliera per non aver partecipato alla coalizione che sta bombardando Tripoli. «È scandaloso essersi chiamati fuori» dice l´ex ministro degli Esteri Joschka Fischer. Per l´altro esponente di spicco del partito, Daniel Cohn-Bendit, intellettuale condiviso con la Francia, si rischia di ripetere l´errore del 1936, quando la Madrid democratica fu lasciata sola contro il putsch di Franco. L´esempio dei nuovi interventisti di sinistra viene proprio dalla Spagna, con Zapatero l´ex pacifista convertito alla guerra in Libia.

La destra non bellicista
Per convenienza, perché al primo posto vengono gli interessi nazionali. È la vera novità di questa guerra. L´astensione della Germania all´Onu durante il voto per la risoluzione sulla Libia ha fatto scuola. Angela Merkel ha diviso il suo stesso schieramento. «La nostra discussione per il voto sulla Libia mi rattrista» ha commentato ieri la Cancelliera nel corso di un incontro della Cdu. «È stata una scelta fatta con argomenti ponderati». Più che un pacifismo etico, è una scelta dettata da interessi materiali e non ideologici, a cui si richiamano in Italia anche la Lega e alcuni giornali di destra. Non è un´opposizione alla guerra tout court, ma il rifiuto di questa guerra.

Diversamente interventisti
È il pacifismo "realista", che prevede l´intervento umanitario per fermare ulteriori massacri di civili e liberare il popolo libico dal Nerone di Tripoli. La condizione per tutti è il mandato dell´Onu che ha coniato appositamente un nuovo principio, inaugurato con questa guerra: la responsabilità di proteggere i civili. È una posizione a cui si richiamano diverse associazioni umanitarie straniere, tra cui Medecins du Monde. È una scelta senza "se" e con alcuni "ma", come quella del presidente delle Acli, Andrea Olivero. «Il comando delle operazioni in Libia deve passare il prima possibile all´Onu: solo le Nazioni Unite possono garantire la trasparenza e la legittimità internazionale di un intervento che sia davvero e solamente a scopi umanitari».

Repubblica 23.3.11
Il crimine dell’indifferenza
di Barbara Spinelli


Non è mai cosa semplice giustificare una guerra, per chi è mandato al fronte ma anche per chi ha l´incarico di iniziarla, di deciderne i fini e la fine. Non è facile neanche per chi, sui giornali, cerca di dire la verità della guerra, le sue insidie. La più grande tentazione è di rifugiarsi nei luoghi comuni, nelle frasi fatte, nelle menzogne. Frasi del tipo: nessuna guerra è buona; nessun politico ragionevole s´impantana in paesi lontani; nessuna guerra, infine, va chiamata guerra.
Il governo italiano è specialista di quest´ultima menzogna: la più ipocrita. Né si limita a mentire: un presidente del Consiglio che si dice «addolorato per Gheddafi» senza sentir dolore per le sue vittime non sa la storia che fa, né perché la fa.
A questi luoghi comuni sono affezionati sia gli avversari incondizionati delle guerre, sia i governi che le guerre le fanno senza pensarle, o pensandone i moventi (petrolio e gas libici) senza dirli. I luoghi comuni sempre rispondono al primo istinto, più facile. Memorabile fu quel che disse il premier Chamberlain, nel ´38, quando Hitler volle prendersi la Cecoslovacchia: «Un paese lontano, dei cui popoli non sappiamo nulla». Sono frasi che circolano, immemori, da secoli. Perché combattere per Bengasi? Siamo usciti dal colonialismo dimenticando che la tattica di Mussolini in Libia (far terra bruciata) è imitata da Gheddafi nel suo Paese. Frasi simili possono esser dette solo da chi immagina che il proprio interesse (personale, nazionale) sia disgiunto dal mondo. Non c´è solo la banalità del male. Esiste anche la banalità dell´indifferenza a quel che succede fuori casa. Lo scrittore Hermann Broch parlò, agli esordi del nazismo, di crimine dell´indifferenza.
L´Onu nacque per arginare questo crimine, nel dopo guerra. La Carta delle Nazioni unite garantisce la sovranità degli Stati, nel capitolo 1,7, ma nello stesso paragrafo stabilisce che il principio di non ingerenza «non pregiudica l´applicazione di misure coercitive a norma del capitolo 7»: capitolo che chiede al Consiglio di sicurezza di accertare «l´esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione», e gli consente (se l´aggressore non è dissuaso) di «intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite» (articoli 39 e 42 del capitolo 7).
Le Nazioni Unite hanno commesso innumerevoli errori in passato, ma i peccati maggiori sono stati di omissione, non di interventismo: basti pensare al genocidio in Ruanda, cui Kofi Annan, allora responsabile delle operazioni militari Onu, restò indifferente nel ´94. Nonostante ciò l´Onu è l´unico organismo multinazionale che possediamo, la sola risposta ai luoghi comuni di cui il nazionalismo è impregnato. La sua Carta non è diversa dalle Costituzioni pluraliste dei paesi usciti dal nazifascismo come l´Italia e la Germania. Non è lontana, pur mancando di autorevolezza sovranazionale, dallo spirito dell´Unione europea: l´assoluta sovranità non è inviolabile, se gli Stati deragliano. D´altronde l´Onu ha imparato qualcosa dal Ruanda. Nel 2005, su iniziativa dello stesso Kofi Annan, ha approvato il principio della «Responsabilità di proteggere» le popolazioni minacciate dai propri regimi (Responsibility to Protect, detto anche RtoP), anche se è imperativa l´approvazione del Consiglio di sicurezza. È il principio invocato in questi giorni a proposito della Libia.
A partire dal momento in cui questa responsabilità viene codificata, lo spazio delle ipocrisie si restringe e più intensamente ancora le ragioni della guerra vanno meditate: specie nei Paesi arabi, dove spesso dominano tribù anziché Stati moderni. Anche questo è difficile: dai tempi di Samuel Johnson sappiamo che «la prima vittima delle guerre è la verità», e quest´antica saggezza va riscoperta. Se l´Italia «non è in guerra», cosa fanno i nostri caccia nei cieli libici? Pattugliano per far scena, senza difendersi se attaccati, addolorati anch´essi per Gheddafi? È questo, ministro Frattini, quel che dice agli aviatori? Frattini riterrà la domanda incongrua, e lo si può capire. È lo stesso ministro che il 17 gennaio, in un´intervista al Corriere, definì Gheddafi un modello di democrazia per il mondo arabo: un mese dopo la Libia esplodeva. Come mai la maggioranza non l´ha estromesso dal governo, come i gollisti hanno fatto col ministro degli esteri Michèle Alliot-Marie?
Ma forse c´è un motivo, per cui le parole vane si moltiplicano. In parte nascono da vecchi riflessi, impermeabili all´esperienza. In parte sono frutto di una confusione mentale profonda: l´Onu è di continuo invocata, ma quando agisce e l´America di Obama sceglie la via multilaterale molti perdono la bussola. In parte è l´Onu, prigioniera dei protagonismi nazionali, a evitare parole chiare. Di qui le tante ambiguità della risoluzione sulla Libia: un testo che vuol accontentare tutti e in realtà non sa quello che vuole, né quello che non vuole. Perfino sulla questione cruciale regna il buio: non si vuol spodestare Gheddafi, e però non pochi chiedono proprio questo. Il primo a tentennare è Obama: stavolta non vuole cambi di regime alla Bush, ma il risultato è che ciascuno nell´amministrazione dice la sua come in un giardino d´infanzia. Il 18 marzo il Presidente annuncia che «il cambiamento nella regione non sarà e non può esser imposto dagli Usa né da alcuna potenza straniera: in ultima istanza, sono i popoli del mondo arabo a doverlo compiere». Tre giorni dopo, il 21 marzo in Cile, ripete che la missione è proteggere i civili ma aggiunge: «La politica degli Stati Uniti ritiene necessario che Gheddafi se ne vada: tale politica sarà sostenuta da mezzi aggiuntivi». Ben altro aveva detto domenica il capo di stato maggiore Michael Mullen: l´obiettivo è di «limitare o eliminare le capacità del dittatore di uccidere il proprio popolo e di sostenere lo sforzo umanitario», non di provocare un cambio di regime. Per lui, Gheddafi può anche restare al potere.
Non è l´unica ambiguità: gli interventisti proclamano di non volere occupazioni né attacchi terrestri, ma nutrono parecchi dubbi in proposito. Anche perché con la sola aviazione e gli spazi aerei interdetti si ottiene poco, o peggio ancora: in Bosnia-Erzegovina, la no-fly zone fra il ´93 e il ´95 non impedì il massacro di 8000-10000 musulmani bosniaci a Srebrenica, città sotto tutela dell´Onu.
Non meno equivoco è il ritardo con cui l´Onu interviene. Il divieto di sorvolo poteva essere imposto prima, quando Gheddafi non aveva ancora riconquistato città e creato una spartizione di fatto della Libia. Uno dei difetti dei cieli interdetti è la scelta dei tempi. Le no-fly zone in Iraq (1991-2002) furono istituite dopo che a Nord l´orrore era già avvenuto (3.000-4.000 villaggi curdi distrutti da Saddam con armi chimiche, nell´88, più di 1 milione di morti), e nel Sud il divieto restò inascoltato.
L´Europa non solo è inesistente, ma pericolosa nella sua frantumazione: la scommessa fatta da Obama sulla sua autonomia è fallita, e non per sua colpa. Uno dei motivi per cui Lega araba è incollerita pur volendo l´intervento è la fretta di Sarkozy, che ha fatto partire i propri aerei senza mai consultare gli arabi. Non basta qualche aereo del Qatar per riempire il vuoto, abissale, di politica. Sarkozy interventista pensa ai suoi casi elettorali non meno della Merkel anti-interventista: di qui il litigio sulla guida o non guida della Nato. Quanto all´Italia, vale la pena ricordare quel che scriveva oltre un secolo fa lo scrittore Carlo Dossi, consigliere di Crispi: «La politica internazionale attuale dell´Italia non è che politica di rimorchio. L´Italia governativa non ha più propria opinione, né ardisce mai d´iniziare un affare o un´impresa, anche se vantaggiosa. Essa si accosta sempre al parere altrui. E neppure osa aderirvi schiettamente. Piglia busse, tace e ubbidisce».
Ancora non sappiamo se il mondo arabo sia scosso da tumulti, da clan rivoltosi, o da rivoluzioni che edificano nuovi Stati. Una cosa però già la sappiamo: una vera discussione sulla democrazia è in corso, e a questa discussione gli occidentali non partecipano, per ignoranza o disprezzo. La settimana scorsa, la Bbc ha diffuso un dibattito organizzato dalla Fondazione Qatar (il Doha Debate) in cui una platea di giovani arabi discuteva dell´Egitto. La maggioranza ha votato una mozione in cui si chiede di non indire subito le elezioni, perché la democrazia «non si esaurisce nelle urne»: è fatta di infrastrutture democratiche, di costituzioni garanti delle minoranze, di separazione dei poteri. Ha detto Marwa Sharafeldine, attivista democratica egiziana: «La democrazia fast-food può solo creare indigestioni». Non lascia spazio che ai ricchi, agli organizzati come i fondamentalisti islamici.
Pensando all´Italia, ho avuto l´impressione che anche noi avremmo bisogno di partecipare a questa conversazione mondiale, cominciata in ben sedici Paesi arabi. Forse impareremmo qualcosa sulle nostre democrazie fast-food: dove regnano i clan, le cerchie di amici, e i capipopolo che si sentono in tale fusione col popolo da ritenersi, come Gheddafi, politicamente immortali.

Repubblica 23.3.11
Così rischiano i gioielli dell’Unesco "Facili bersagli di bombe e scontri"
Gli archeologi: da Cirene a Tolemaide, patrimonio immenso senza difese
di Pietro Del Re


Che cosa accadrebbe se un precisissimo missile diretto contro un radar di Gheddafi deviasse di un pelo la sua virtuosa traiettoria e centrasse il teatro o le terme o il mercato delle rovine romane di Leptis Magna? O se un razzo katiuscia sparato dalla controffensiva del Colonnello in Cirenaica colpisse il tempio di Zeus o il santuario di Apollo della splendida città ellenistica di Cirene? «Quello che preoccupa e che stupisce è che non siano state prese precauzioni per tentare di salvaguardare uno dei patrimoni archeologici più preziosi del pianeta», dice la professoressa Barbara Barich dell´Università La Sapienza, che insegna Etnografia preistorica dell´Africa e che scava da circa quattro decenni in Libia, dove prima della rivolta del 17 febbraio lavorava una dozzina di missioni archeologiche italiane. «Tutti i siti più importanti sono costieri, perciò sono tutti a rischio. I miei timori non nascono soltanto dalle bombe intelligenti che possono sbagliare bersaglio. Penso anche ai numerosi siti archeologici che potrebbero diventare il palcoscenico del conflitto. Mi chiedo perché nessuno ne parla e perché nessuno ha ancora dato l´allarme. Se Roma fosse bersagliata da caccia militari, credo che ai piloti sarebbe espressamente vietato di colpire luoghi come San Pietro. In Libia, ciò non accade».
Le minacce gravano anche sui giacimenti preistorici del Paese. Sempre in Cirenaica, a Jebel Akhdar, c´è un enorme sito che per decenni è rimasto chiuso per motivi militari e che è stato riaperto agli scavi solo 2007 grazie all´Università di Cambridge: «È un luogo essenziale per capire il popolamento del Mediterraneo dell´Homo sapiens proveniente dall´Africa. Ora, pur non trattandosi di una città greca, è una splendida grotta che si vede dalla costa e che spero venga risparmiata dai bombardamenti». All´inizio della rivoluzione libica, le bombe di Gheddafi non hanno invece risparmiato la città occidentale di Nalut, che è stata pesantemente colpita con i suoi castelli medioevali.
I dubbi della professoressa Barich sono condivisi da molti suoi colleghi. Dice il professor Savino Di Lernia, responsabile della missione italo-libica nell´Acacus e nel Messak: «Ciò che temo di più per il patrimonio archeologico della Libia è che venga usato come forma di pressione e di rivendicazione. Basti pensare alle statue dei Budda abbattute in Afghanistan dai taliban. Non mi sorprenderebbe se ora, di fronte ad una vasta propaganda contro l´Italia, ci fosse un gesto dissennato contro i siti».
Le vestigia monumentali del paese sono concentrate nel nord del Paese. Sono città fenice, puniche, greche e romane. Nel corso della Storia recente, queste ultime sono state utilizzate per sottolineare alternativamente l´amicizia o l´inimicizia tra la Libia e l´Italia. Spiega ancora in professor Di Lernia: «Penso, nella fattispecie, a Sabratha, che si trova vicino a Tripoli dove si sono verificati alcuni scontri. O anche a Leptis Magna che si trova a metà strada tra Tripoli e Misurata e a Cirene, nel cuore della Cirenaica. Siti inseriti nella lista dell´Unesco e che potrebbero nuovamente essere usati strumentalmente contro di noi».
Rientrato in Italia in fretta e furia il 25 febbraio con un aereo militare, Di Lernia sottolinea che «il primo problema per molti di questi siti è che sono stati inglobati nelle città e delle periferie urbane: da questo punto di vista Sabratha e Cirene sono due punti critici».
C´è poi un altro tipo di ritorsione possibile, che potrebbe avere conseguenze nefaste a lungo termine. Consiste, per esempio, nel distruggere un sito archeologico in Cirenaica, annullando i futuri introiti turistici della regione. In situazioni di conflitto il patrimonio artistico può diventare merce di scambio. Ma può anche essere impiegato per affermare o negare l´identità libica.
Se i siti a rischio sono tutti sulla costa, quelli nel sud-ovest e del sud-est, famosi per un´archeologia molto antica e per l´arte rupestre preistorica sono più al sicuro. «Tuttavia, proprio ieri le forze delle coalizione hanno bombardato la città di Saba, nel sud del Paese, vicino agli scavi della missione che dirigo».
Un dato appare certo, spiega infine il professore. «Gli occidentali non potranno salvare il patrimonio artistico dell´Unesco, poiché nessun intervento può essere messo in cantiere se non richiesto dal paese che ospita i beni archeologici».

il Fatto 23.3.11
Chi odia la Costituzione
È in libreria “Diritti e libertà nella storia d’Italia. Conquiste e conflitti. 1861-2011” di Stefano Rodotà (Donzelli, pagg. 166, 15 euro). Ecco una parte del capitolo sugli ultimi 15 anni
di Stefano Rodotà


Si sono avuti casi in cui le norme europee hanno consentito di eliminare violazioni dei diritti presenti nella legislazione italiana, com’è avvenuto nel 2011 per i diritti degli immigrati. E questo è, per molti versi, un esito paradossale, perché nella Costituzione italiana già sono presenti i principi che possono consentire la tutela di libertà e diritti vecchi e nuovi, come testimoniano molte sentenze della Corte costituzionale proprio nella materia dell’immigrazione. Il paradosso nasce dal fatto che negli ultimi anni si è passati da una delegittimazione della Costituzione nel dibattito pubblico a un suo abbandono nel momento in cui si legiferava proprio su libertà e diritti. Non ci si è limitati, come si era cominciato a fare negli anni Ottanta, a disprezzare la Costituzione definendola “minestra riscaldata” o “ferrovecchio”, anche se proprio queste parole sono tornate nella discussione più recente. La maggioranza di centrodestra ha cominciato a comportarsi come se la Costituzione non esistesse, come se fosse un intralcio o un ostacolo di cui era giusto liberarsi nel momento della legislazione e dell’azione di governo. Mai come in questi anni, per reagire a quest’orientamento, si sono moltiplicati gli appelli al presidente della Repubblica perché rinviasse al Parlamento leggi per le quali esistevano ragionevoli dubbi di costituzionalità. In alcuni casi il rinvio vi è stato, ad opera del presidente Ciampi in materia di informazione e del presidente Napolitano in materia di lavoro. Ma ben più numerose sono state le situazioni nelle quali i presidenti della Repubblica hanno esercitato la loro “persuasione morale” o un vero e proprio potere di interdizione preventiva per evitare che si giungesse all’approvazione di norme palesemente incostituzionali. Si è così determinata una situazione di conflitto prima strisciante, poi sempre più palese. È divenuto fatto costante nella vita istituzionale un agire di governi e maggioranze di centrodestra “ai margini della Costituzione”. Questa è una constatazione, visto che, oltre al ricordato esercizio da parte dei presidenti della Repubblica delle loro legittime prerogative, la Corte costituzionale è dovuta intervenire per ristabilire la legalità violata da leggi particolarmente espressive degli orientamenti di queste maggioranze (i vari “lodi” a tutela di Berlusconi, la legge sulla procreazione assistita). Ma le sentenze della Corte costituzionale e le decisioni dei presidenti della Repubblica non sono state percepite come l’esercizio di legittimi poteri di controllo, volti a garantire eguaglianza tra i cittadini e diritti delle persone, ma come indebite invasioni di campo. In più occasioni, governi e maggioranze di centrodestra hanno polemizzato aspramente con il presidente della Repubblica e con la Corte costituzionale, in particolare con quest’ultima, presentata come un organo politicizzato, orientato “a sinistra”, invasivo delle competenze parlamentari, e per ciò continuamente minacciato di riforme che ne ridimensionerebbero la funzione. Un conflitto istituzionale, senza precedenti nella storia della Repubblica, ha così caratterizzato gli ultimi anni. Si sono riaffacciate proposte di riforma costituzionale che, a parte ogni valutazione di merito, modificherebbero radicalmente il sistema, con incidenza profonda proprio sulle garanzie di libertà e diritti. Questioni generali e temi specifici si sono intrecciati, e considerando più da vicino alcuni di questi è possibile cogliere meglio quali caratteristiche sia venuta assumendo la società italiana, quali siano i soggetti in campo, quali gli interessi più o meno visibili. (...)

l’Unità 23.3.11
Dopo le promesse Sindacati e associazioni non si accontentano: una settimana per dire no
Da sabato a lunedì le giornate nazionali per lo spettacolo con incontri, dibattiti e proiezioni
La cultura dice basta. È sciopero generale
I sindacati nazionali Cgil, Cisl e Uil il 25 marzo lanciano una giornata di sciopero generale della produzione culturale e di spettacolo insieme all’Agis. Poi ci sono le «giornate nazionali» e molto altro ancora.
di Luca del Fra


«Molti hanno ricordato in questi giorni come l’unità del paese è stata viva nella cultura prima ancora che a livello politico: oggi la cultura, con le sue proteste, ci indica che il paese sta morendo». Così Cecilia D’Elia, rappresentante dell’Unione Provincie Italiane e assessore alla cultura della provincia di Roma, sintetizza le ragioni della mobilitazione che attraverserà l’Italia durante per un’intera settimana.
Dopo le promesse dei giorni scorsi del ministro dell’Economia Giulio Tremonti e di Silvio Berlusconi di reintegro degli investimenti alla cultura, venerdì il Ministero ha fatto richiesta al governo di circa 400 milioni di euro per il 2011 da ripartire tra i Beni e Attività Culturali: richiesta che, come al solito, non è calendarizzata in Consiglio dei ministri.
La novità tuttavia è che sindacati e associazioni di categoria non sembrano accontentarsi delle «promesse»: infatti, negli ultimi due anni a seguito delle reiterate decurtazioni ai fondi per la cultura, ci sono state numerose proteste e scioperi che, puntualmente, si sopivano per gli impegni di reintegro delle risorse più volte presi dal ministro Sandro Bondi e da altri rappresentanti dell’esecutivo, impegni mai mantenuti.
Stavolta a pochi giorni dalle promesse ecco invece ripartire gli scioperi, le giornate di sensibilizzazione, una campagna di comunicazione, i flash mob che attraverseranno moltissime città italiane a cominciare da oggi. Stamane a Roma, l’Agis infatti porta in piazza Montecitorio ballerine e ballerini, coreografi,
compagnie, maestranze in difesa della danza, tra le arti più penalizzate nel nostro paese.
Domani sarà invece il turno del ministero dell’Economia, per un sit in di protesta dei lavoratori del teatro di prosa. I sindacati nazionali Cgil, Cisl e Uil il 25 marzo lanciano una giornata di sciopero generale della produzione culturale e di spettacolo unitamente all’Agis che promuove una serrata dei teatri. Da Bolzano a Catania, in ogni città in cui c’è un teatro o un luogo di cultura ci saranno presidi, manifestazioni proteste. Solo a Roma e provincia –ha ricordato il presidente dell’Agis Paolo Protti–, «aderiranno alla protesta ben 40 teatri», che vanno dal celeberrimo Argentina fino al Velly di Formello. «A causa dei tagli e delle dichiarazioni contraddittorie del Governo –ha insistito Protti– l’intero settore produttivo si sta fermando, con effetti sia da un punto di vista socio-culturale che economico». Nelle stesse ore a Cinecittà si terrà una assemblea pubblica sul futuro del grande centro cinematografico e di tutto il settore audiovisivo e, a dimostrazione della capillarità dello sciopero, incroceranno le braccia anche le troupe di fiction come Provaci ancora prof. e Rex stagione quinta.
Dal 26 al 28 marzo, mentre nel resto del pianeta si festeggerà la giornata mondiale del teatro, in Italia Agis, Associazione nazionale comuni italiani, Fai, Federculture, Unione delle Province, Confederazione delle province e delle regioni autonome all’unisono lanciano le giornate per la sopravvivenza del teatro. Le hanno intitolate le giornate nazionali per lo spettacolo e la cultura e, come ha spiegato il presidente di Federculture Roberto Grossi: «È soprattutto una campagna di comunicazione, il cui slogan “Divieto di cultura”, la dice lunga sul suo significato». L’iniziativa prevede incontri nei luoghi della cultura, auditoria, teatri, biblioteche, musei, con distribuzione di materiale informativo, la proiezione di un filmato ad anello.
«Ancora oggi troppe persone non sanno quello che sta accadendo –ha spiegato Andrea Ranieri dell’Anci–, quindi non faremo una manifestazione d’opposizione, anche perché molti comuni che aderiscono sono retti dal centrodestra. La nostra intenzione è invece parlare alla gente e far capire come la cultura italiana sia oramai al collasso».
Il 27 marzo il Piccolo di Milano, dopo il successo del Flauto magico di Peter Brook e in attesa del nuovo spettacolo di Patrice Chéreau, darà vita a una non stop di 12 ore nel chiostro del teatro Grassi a via Rovello, dove sarà distribuita una cartolina preaffrancata con il logo di «divieto di cultura», da rispedire al governo presso Palazzo Chigi. Un’iniziativa che verrà imitata da molti altri in tutto il paese. La giornate nazionali per la cultura e lo spettacolo termineranno il 28 marzo al teatro Regio di Torino con un incontro pubblico dove i promotori stenderanno un bilancio e lanceranno nuove iniziative.

Corriere della Sera 23.3.11
Bobbio: la linfa vitale di ogni democrazia è il diritto al dissenso
Da socialista difese le libertà borghesi
di Antonio Carioti


Conviene leggere direttamente i testi di Norberto Bobbio (1909-2004), perché su di lui circolano molte leggende. Prima fra tutte quella che ne fa il santone di una sfuggente ideologia «azionista» , a volte esaltata, più spesso esecrata. In realtà nel Partito d’Azione, effimero incontro di variegate correnti antifasciste, Bobbio non ebbe gran peso. Vi militò durante la Resistenza, fu candidato nelle sue liste alla Costituente, scrisse sulla stampa azionista. Ma negli atti dei tre congressi svolti dal Pd’A, raccolti in volume anni fa da Giancarlo Tartaglia, il nome del filosofo torinese non figura mai. Ha poco senso anche metterne in dubbio la caratura liberale, rinfacciandogli il costante dialogo con i comunisti. Bobbio si collocò sempre nella sinistra, che identificava con il valore dell’eguaglianza. Ovvio che si ponesse come interlocutore del Pci, la forza maggiore del movimento operaio. In altre parole, Bobbio era socialista ed è ozioso dargli lezioni di liberalismo classico. Del resto non nascondeva la sua distanza dai fautori più accesi del mercato: nel volume Il futuro della democrazia, in edicola domani con il «Corriere» , si trova, per esempio, un saggio in cui Bobbio presenta l’offensiva neoliberista degli anni Ottanta come un’insidia per la democrazia, che a suo avviso non può fare a meno dello Stato sociale. Vero è invece che, all’interno di una sinistra italiana a lungo dominata dal marxismo, Bobbio si distinse per una difesa strenua della libertà individuale, cui attribuiva un «valore universale» , non riducibile alla sua origine storica di prodotto delle rivoluzioni borghesi. Non concepiva un socialismo che sacrificasse i diritti del singolo e su questo incalzò ostinatamente i comunisti, dimostrando in modo inoppugnabile che il pensiero di Karl Marx non conteneva affatto una teoria valida della politica e dello Stato. Bobbio, insomma, era nella sostanza un socialdemocratico, refrattario però alla collaborazione governativa con i democristiani. Sperava invece nell’alternativa di sinistra (lo scrive anche in un passo del libro in edicola con il «Corriere» ) e perciò si sforzava di indurre il Pci ad accettare i valori dell’Occidente. Quando il comunista Giorgio Amendola, nel 1964, propose di creare un partito unico della sinistra, Bobbio si disse d’accordo, ma aggiunse che la nuova ipotetica formazione avrebbe dovuto necessariamente svolgere una politica socialdemocratica. Più tardi il filosofo torinese appoggiò il nuovo corso del Psi di Bettino Craxi. Ma non ne condivise mai le tendenze presidenzialiste e plebiscitarie. Convinto fautore del «governo delle leggi» , Bobbio era assai diffidente verso ogni forma di potere personale carismatico, anche sotto spoglie socialiste. Logica, di conseguenza, la sua profonda avversione per Silvio Berlusconi. Se poi il cosiddetto «azionismo» s’identifica, nella caricatura corrente, con una forma di giacobinismo proteso alla rigenerazione morale dell’Italia, da compiersi magari per via giudiziaria, Bobbio c’entra ben poco. A parte le sue critiche, che pure non mancarono, ai magistrati di Mani pulite per l’uso eccessivo della custodia cautelare in carcere, lo studioso piemontese guardava alla politica con malinconico realismo. Lungi dall’affidare alle istituzioni un ruolo pedagogico, aveva una visione procedurale della democrazia, come insieme di norme che permettono di cambiare i governanti senza spargimento di sangue. E tra le regole del gioco considerava fondamentali quelle volte a garantire il diritto al dissenso. Maestro del disincanto e non certo dell’utopia, Bobbio era sordo alle sirene rivoluzionarie. Molti suoi allievi avevano militato nel movimento studentesco, ma lui considerava il Sessantotto una stagione tutto sommato «ingannevole» . La sua disillusione, però, non era mai sfociata nel cinismo. Non si stancava di deplorare la qualità «men che mediocre» della democrazia italiana, continuava a denunciare l’ipoteca minacciosa (e spesso omicida) dei «poteri invisibili» sulla vita pubblica. Per questo coloro che nel cinismo amano crogiolarsi proprio non lo sopportano. Nemmeno adesso che è morto.

La Stampa TuttoScienze 23.3.11
Intervista «Troppi medici stanno alimentando il mito che tutto dipenda solo da una mancanza di serotonina»
“La malinconia è un diritto”
La denuncia dello studioso: ora smettete di divorare antidepressivi
di Massimiliano Panarari


«Libri di successo come la Pillola della Felicità hanno fornito alibi illusori»
Gary Greenberg Psicoterapeuta

La società della competizione estrema ha rimosso il «diritto alla malinconia», trasformandola nel «male oscuro», da eliminare a tutti i costi; o, per meglio dire, costringendoci a pagare i costi sempre più salati di un'enorme gamma di farmaci antidepressivi che hanno reso sempre più ricche le multinazionali farmaceutiche e hanno trasfigurato l'esistenza di una parte di noi.
Questo «j'accuse» è contenuto in un saggio che descrive (non senza essere, a volte, persino ironico) passato, presente e futuro della depressione: «La storia segreta del male oscuro» è stata scritta dallo psicoterapeuta e scrittore statunitense Gary Greenberg, che è una firma anche di una serie di riviste prestigiose come «New Yorker», «Harper's» e «Wired». Uno che di depressione se ne intende, avendola vissuta nella duplice veste di paziente che ne ha sofferto e di psicologo «vecchio stile» che la cura. Dottor Greenberg, quali sono le origini di questa specie di «ideologia della felicità» a tutti costi che governa le nostre società? «La felicità è stata concepita come un obiettivo dell'esistenza almeno a partire dall'Età dell’Oro di Atene, ma l'idea che questo scopo sia sempre giusto, e il dovere di perseguirlo da parte di ogni cittadino, si rivela relativamente nuova. Si tratta di uno sviluppo dell'Illuminismo, che sposta l'attenzione dalla Chiesa all'individuo, e dal paradiso alla Terra. E, naturalmente, qui in America, è stata custodita all'interno della Costituzione come uno dei diritti inalienabili dell'uomo». Che cosa non la convince degli psicofarmaci? Perché è così critico? «Una delle cose più strane nella rivoluzione degli antidepressivi - e un indizio del fatto che non si tratta di pura biochimica - è negli stessi farmaci che l'hanno scatenata, vale a dire gli SSRI, gli “inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina” che fecero la loro prima apparizione negli Usa nel 1988: questi non sono più efficaci di quanto lo fossero quelli appartenenti alla generazione di medicine inventate all'indomani della scoperta della serotonina stessa da parte di Betty Twarog nel lontano 1952. Il più delle volte, anzi, negli esperimenti clinici non danno risultati migliori dei placebo. E allora viene da pensare che, se la depressione fosse davvero un fatto biochimico e se i farmaci fossero realmente mirati sulle cause responsabili, funzionerebbero molto meglio». Qual è il ruolo di «Big Pharma» in questa abolizione della tristezza dalla vita quotidiana di noi occidentali? C'è qualcuno che ne parla addirittura in termini di un «Grande complotto». «Non so di un complotto, né posso dire nulla a riguardo, ma, una volta stabilito che la ricerca della felicità rappresenta lo scopo principale della vita, risulta piuttosto facile vendere alla gente prodotti destinati ad aiutarli in questo obiettivo. E il fondamento della vendita di un prodotto - non importa di che genere o di quale natura sia - consiste, come si sa, nel convincere le persone di tre cose: che sono scontente, che i loro problemi derivano da certe mancanze e che il prodotto in questione sopperirà a tali carenze».
E nel caso specifico degli antidepressivi? «In questo caso l'insufficienza corrisponde alla scarsità o alla mancanza di serotonina e il prodotto è il farmaco che la fornisce. L'idea che l'infelicità corrisponda a una carenza di serotonina che le medicine possono curare, nella migliore delle ipotesi, è chiaramente un mito. Ma si tratta di un mito assai potente, alla cui creazione ha contribuito molto anche il libro di Peter Kramer, “La pillola della felicità”, che è andato a ruba negli Anni 90, più o meno nello stesso periodo in cui le prescrizioni di Prozac cominciavano a invadere i ricettari. E non credo si tratti di una coincidenza. Kramer diede voce a qualcosa di cui tutti noi - pazienti, parenti e amici, oltre che medici e industrie farmaceutiche - avevamo bisogno: una giustificazione credibile per l'assunzione di farmaci il cui effetto principale era farci stare meglio con noi stessi. E non solo: ha anche scritto un libro che ha fatto tantissimo per anticipare quel “clima di opinioni” nel quale pensiamo alla nostra infelicità come a una malattia». Quanto ci costa il business globale degli psicofarmaci? «Su scala mondiale vengono spesi, ogni anno, oltre 20 miliardi di dollari in antidepressivi e nei soli Stati Uniti ne fanno uso almeno 30 milioni di persone». Come ci si può liberare dalle forme più eccessive di dipendenza dagli psicofarmaci? E come si può guarire dalla depressione? «Penso che soltanto la verità ci renderebbe davvero liberi. Se i medici smettessero di dire alle persone che la loro sofferenza deriva da squilibri biochimici, e che la loro depressione è - come se si trattasse del diabete - una malattia cronica che necessita di un trattamento farmacologico, tutti questi individui potrebbero finalmente compiere scelte più informate rispetto all'eventualità e al tipo di medicine da prendere. I dottori dovrebbero anche dire di più ai pazienti in merito agli effetti collaterali e alle conseguenze derivanti dall'interrompere l'assunzione di antidepressivi. E, infine, anche una serie di limiti alla facoltà di fare pubblicità da parte delle aziende farmaceutiche aiuterebbe i consumatori a effettuare delle scelte più consapevoli».

La Stampa TuttoScienze 23.3.11
Noi, gli irrequieti cacciatori che tradirono le scimmie
“Ecco come le prime tribù rivoluzionarono i rapporti sociali”
di Gabriele Beccaria


GLI SCIMPANZE’ Ogni maschio ha contatti con non più di una decina di propri simili
GLI UMANI Il nomadismo permette a chiunque di conoscere un migliaio di individui

Sono i relitti del nostro passato più remoto ed ecco perché sono così preziosi. Forse custodiscono la risposta a una delle domande più appassionanti: perché, a un certo punto della storia, intorno a 5 milioni di anni fa, abbiamo cominciato a separarci dalla scimmie e a prendere la strada che ci ha reso umani?
I resti variopinti di quell’era oscura trascinano oggi nomi bizzarri, su cui spesso la nostra pronuncia scivola: sono le tribù Gunwinggu, Ladrabor Inuit, Mbuti, Apache, Aka, Ache, Agta e Vedda. Custodiscono gli ultimi «selvaggi», i parenti derelitti e impresentabili, messi da parte dalla civiltà globale e di cui i nuovi popoli dell’iPhone e dell’iPad si vergognano, ma rappresentano un tesoro per gli antropologi. Per esempio per due professori americani, Kim Hill della Arizona State University e Robert Walker della University of Missouri: hanno studiato il loro presente e, spiando le esistenze e le storie di non più di 5 mila individui, sono sicuri di avere aperto uno spiraglio sui meccanismi che hanno trasformato la nostra specie. Il mistero svelato (così pensano) adesso sta scritto sulla prestigiosa rivista «Science».
Si parte da un dato incontestabile. Tra il 90 e il 95% della nostra storia collettiva si è perpetuato in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, composti, probabilmente, da una trentina di individui alla volta. Il resto, l’agricoltura, le città, gli imperi, le auto, i computer e le astronavi occupano un arco cronologico breve come un battito di ciglia e, quindi, a chi possiede lo sguardo dell’antropologo molto meno significativo. Se si vuole decifrare il perché delle nostre caratteristiche - quelle che ci hanno reso la specie invasiva per eccellenza - bisogna addentrarsi nel tempo lontanissimo degli agguati alle renne e degli inseguimenti dei bisonti.
Finora la teoria più accreditata sosteneva che la vita di quegli antenati (per alcuni decisamente grama e per altri tutto sommato oziosa) fosse cementata da legami di tipo scimmiesco. Come accade per gli scimpanzé - si ripeteva - erano le donne a lasciare il gruppo, mentre i maschi rimanevano attaccati al luogo di nascita, costruendo e disfando fragili rapporti, costantemente sospesi tra gli estremi della sottomissione e dell’aggressività. Hill e Walker sono arrivati alla conclusione che non è affatto così. Perché - ragionano - se avessimo replicato gli stessi modelli sociali degli altri primati, non ci saremmo evoluti. Saremmo rimasti molti passi indietro rispetto a come siamo diventati o, addirittura, non avremmo nemmeno cominciato la nostra corsa darwiniana.
In realtà - osservando 32 tribù attuali - i due hanno dedotto che le prime società dovevano essere strutturate più o meno allo stesso modo. Se in alcuni clan sono spesso le ragazze ad andarsene, in altri sono perlopiù i ragazzi, mentre è frequente che fratelli e sorelle rimangano insieme anche durante l’età adulta. In generale non ci sono regole fisse e immutabili e - fatti i calcoli - si è scoperto che non oltre il 10% dei componenti è formato da parenti di vario grado. La maggioranza ècomposta da «sconosciuti», che costruiscono coppie e reti di relazioni e che (anche questa è una differenza fondamentale rispetto alle scimmie) possono andare e venire, incarnando un nomadismo da tribù a tribù. Nessuno di questi micromondi è chiuso. Al contrario è in perenne mutazione e consanguinei e amici compongono affreschi mutevoli che si propagano anche molto lontano rispetto ai luoghi d’origine. Se li si dovesse rappresentare, non sarebbero alberi, ma reti che ricordano quelle internettiane.
L’effetto, quindi, è straordinario, instillato da un meccanismo che moltiplica all’infinito le opportunità. Un dato parla per tutti: uno scimpanzè maschio interagisce nel corso della vita con una decina di propri simili e si accontenta. Un cacciatore, grazie alla perenne mobilità che lo caratterizza e ai vari livelli di relazioni interpersonali, anche con un migliaio di individui. Si crea così un social network ante litteram, segnato - spiegano Hill e Walker - da due caratteristiche-chiave (e qui si arriva al punto fondamentale): la cooperazione e l’apprendimento sociale.
Le tante tribù antiche (come le poche attuali) hanno fatto di sicuro le loro guerre, ma meno di quanto si pensi. Erano troppo legate da fili invisibili di conoscenze, affetti e amori e impegnate a scambiarsi notizie e informazioni, oltre ad abbondanti dosi di gossip. Chiacchiere e saperi hanno infranto barriere, stimolato la curiosità, acceso la creatività. In una parola, hanno pungolato le nostre capacità cognitive e reso sofisticato il linguaggio. Dagli scambi è nata l’accumulazione e da questa i germi di tante metamorfosi. I vantaggi della collaborazionee dell’insegnamento reciproco - ipotizzano i professori - ci hanno fatto imboccare un percorso evolutivo unico.
Controprova: quando un gruppo diventa troppo piccolo e perde i contatti, si imbarbarisce, smarrendo ciò che già sapeva. E’ accaduto agli Ache del Paraguay, che a un certo punto hanno dimenticato come si accendesse un fuoco.

La Stampa TuttoScienze 23.3.11
Il super-occhio è italiano
Astrofisica. Il progetto per spiare i buchi neri: l’Esa l’ha scelto tra 47 arrivati da tutta Europa Battezzato «Loft», il satellite verificherà le implicazioni della teoria della Relatività di Einstein
di Barbara Gallavotti


E’ una giungla là fuori e un giovane esperimento di astrofisica deve lottare duramente per conquistarsi uno spazio in orbita, là dove volteggiano quelli che ce la hanno fatta, come il telescopio spaziale Hubble o il satellite Planck. L'Agenzia Spaziale Europea ha appena finito di selezionare quattro candidati destinati a contendersi il diritto di essere realizzati nel prossimo decennio e, tra questi, c'è «Loft» («Large Observatory For x-ray Timing»), un progetto guidato da ricercatori italiani dell' Istituto Nazionale di Astrofisica, con la collaborazione di numerosi altri enti di ricerca italiani ed esteri. I quattro protagonisti sono stati scelti fra 47 progetti concorrenti. Ora i loro programmi di ricerca saranno approfonditi e fra due anni l'Esa li valuterà nuovamente, portando il numero dei possibili candidati a due. Poi seguiranno altri due anni di studio e quindi, nel 2015, si arriverà alla scelta definitiva. Alla fine solo uno dei quattro giovani talenti otterrà un posto fra le stelle, ma in fondo non capita lo stesso anche agli aspiranti divi del cinema?
Quello che conta, per ora, è che «Loft» abbia superato la prima prova. Ad ammaliare i giudici deve essere stato il suo grande occhio: 12 metri quadri pensati per guardare verso buchi neri e stelle di neutroni e svelare i segreti della loro natura. È un occhio che ha un fratello, una sorta di gemello diverso già all'opera lontano dagli spazi cosmici. Nelle grotte del Cern di Ginevra, infatti, si trova l'esperimento «Alice», e qui le particelle prodotte nell'acceleratore Lhc vengono registrate da strumenti sviluppati dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare: i medesimi che sono serviti da modello per donare a «Loft» uno sguardo imbattibile. In fondo, anche se in maniera diversa, sia i fisici del Cern che gli astrofisici cercano di dare risposta ai grandi interrogativi sull'Universo, e i due occhi lontani sono un esempio di come nella Grande Scienza lo yin e lo yang di competizione e collaborazione si fondano incessantemente l'uno nell'altro.
«Uno dei principali obiettivi del nostro progetto è studiare come si comporta la luce, quando si trova molto vicina a un buco nero», spiega Marco Feroci, il fisico che con Luigi Stella è alla guida di «Loft». I contorcimenti della luce sono uno dei pochi indizi su cui possiamo contare per comprendere la struttura intima dei buchi neri. Inoltre, osservare il comportamento della luce in condizioni tanto particolari è essenziale per verificare la correttezza di tutte le implicazioni della teoria della Relatività di Albert Einstein: basterebbe una piccola contraddizione fra le previsioni teoriche e i dati forniti da strumenti come «Loft» per far crollare alcune delle più radicate certezze della fisica moderna. Un altro dei grandi misteri dell' astrofisica riguarda il tipo di particelle che compongono la materia, quando si trova a densità estreme, come avviene nelle stelle di neutroni. «Al loro interno potrebbero esserci quark del tipo chiamato "strano" o particelle ancora più esotiche e “Loft” ci consentirebbe di individuarle grazie alla sua capacità di captare i raggi X. Sappiamo infatti che la radiazione X emessa dalle stelle di neutroni subisce effetti che in ultima analisi sono in relazione con il tipo di particelle che le formano», continua Feroci.
«Loft» sembra avere il talento necessario per diventare un puntino brillante sulle nostre teste. I suoi concorrenti però non sono da meno. Gli altri tre progetti mirano rispettivamente a studiare l'atmosfera di pianeti al di fuori del Sistema Solare, a raccogliere campioni dalla superficie di un asteroide e a effettuare alcune misure di precisione con lo scopo (ancora una volta!) di verificare i particolari della teoria della Relatività. In un modo o nell'altro, tutti puntano a rispondere a una delle grandi domande che l'Esa ha indicato come prioritarie per migliorare la conoscenza dell' Universo e che vanno dalla soluzione dei misteri sulla sua origine alla scoperta delle leggi fondamentali che lo governano, e dalla comprensione dei fattori necessari per la comparsa della vita alla soluzione degli ultimi enigmi sul Sistema Solare. Le regole del gioco sono semplici: scelto il progetto vincitore, l'Esa si occuperà delle spese per confezionare il satellite che porterà in orbita gli esperimenti e del suo lancio: una cifra che nel caso del prescelto fra i quattro concorrenti non dovrà superare i 470 milioni di euro. Il costo degli esperimenti veri e propri previsto per «Loft» è invece un po' più di 100 milioni di euro e dovrebbe essere sostenuto dal consorzio di istituti di ricerca coinvolti, e in particolare dalle agenzie nazionali come l'Agenzia Spaziale Italiana dalla quale dipende il ruolo guida dell'Italia.
Dal punto di vista pratico la sfida è su più fronti. In primo luogo bisogna trovare la giusta alchimia di risorse umane: tra preparazione e presa dati questi esperimenti possono durare anche più di 20 anni e diverse delle persone che partecipano al loro inizio andranno in pensione prima della fine. È essenziale quindi che siano arruolati da subito dei giovani che garantiscano una continuità.
E poi c'è un problema logistico, perché il finanziamento è affidato a istituzioni che dipendono da Paesi differenti. «Un po' come avviene al Cern, anche noi lavoriamo su progetti destinati a durare tempi molto lunghi. A differenza del Cern, però, non abbiamo una sede unica a cui fare riferimento. Ma soprattutto il Cern può contare su finanziamenti garantiti - dice Feroci -. Noi, invece, siamo più esposti a cambiamenti improvvisi».

Corriere della Sera 23.3.11
Hawking e Penrose alla ricerca delle leggi che reggono il cosmo
La sfida è definire la «teoria del tutto»
di Stefano Gattei


«Che cosa sappiamo sull’universo, e come lo sappiamo?» : con questa domanda Stephen Hawking apriva nel 1988 Dal Big Bang ai buchi neri, diventato in poche settimane un bestseller nel campo della divulgazione cosmologica. Lo scienziato occupava la prestigiosa cattedra «lucasiana» di matematica all’Università di Cambridge, che prima di lui era stata, fra gli altri, di Newton, Babbage e Dirac, e arrivò a conquistare milioni di lettori in tutto il mondo, coniugando il rigore espositivo a una prosa accattivante. Al grande successo del volume contribuì non poco anche un’abile strategia editoriale, che sfruttò l’impatto emotivo della malattia — il «morbo di Gehrig» — che da anni costringe Hawking a comunicare con un computer e un sintetizzatore vocale montati sulla sua sedia a rotelle. Oltre a possedere notevoli doti umane, Hawking ha al suo attivo anche una lunga serie di importanti contributi scientifici. In particolare, a partire dal 1965, in collaborazione con Roger Penrose, fisico e matematico di Oxford, lavorò alla teoria dei buchi neri e delle singolarità gravitazionali dello spaziotempo. E nei primi anni Settanta inaugurò un originale filone di ricerca applicando tecniche di meccanica quantistica in un contesto di relatività generale, dimostrando, fra l’altro, che i buchi neri non sono in realtà del tutto «neri» , ma emettono radiazione (la «radiazione di Hawking» , appunto) e sono quindi destinati a «evaporare» lentamente. Dal punto di vista filosofico, Hawking ha da sempre fatto propria una posizione «convenzionalista» : ai suoi occhi, una teoria cosmologica è costituita semplicemente da un modello dell’universo, o di una sua parte limitata, e da un insieme di regole che mettono in relazione le quantità presenti nel modello con l’esperienza. Una teoria, in altre parole, non può né deve aspirare alla verità: è sufficiente che descriva con precisione un ampio numero di osservazioni e faccia predizioni ben definite. In questo senso, e solo in questo senso, Hawking afferma che fine ultimo della scienza è arrivare a formulare una singola «teoria del tutto» , in grado di descrivere l’intero universo in cui viviamo. Se mai vi perverremo essa dovrà diventare, col tempo, comprensibile a tutti, almeno nei suoi aspetti generali. Perciò ognuno dovrebbe essere in grado di partecipare alla discussione di quesiti fondamentali, quali perché noi e l’universo esistiamo. Scienza specialistica e divulgazione «leggera» — nel senso che Italo Calvino diede a questo termine in Lezioni americane: non superficiale e sciatta, tesa soltanto a rincorrere il successo commerciale, ma rigorosa e articolata, pur senza cadere nell’eccessivo tecnicismo— sono dunque alleate e non rivali nella diffusione del sapere scientifico e della consapevolezza critica. Il dialogo fra Hawking e Penrose, raccolto nelle lezioni tenute all’Isaac Newton Institute for Mathematical Sciences dell’Università di Cambridge nel 1994, si muove proprio in questa direzione, documentando una discussione intensa ma accessibile su alcune idee chiave relative alla natura dell’universo. Scriveva Kant, in Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? (1784), che il solo modo per attuare il «rischiaramento» tra gli uomini è quello di «fare uso pubblico della ragione in tutti i campi» . Egli invitava gli studiosi a confrontarsi con l’intero spettro dei lettori, evitando di rivolgersi ai soli specialisti, poiché la scienza può salvaguardare la propria libertà soltanto a condizione di rivolgersi a tutti. Lo aveva ben capito Galileo, che scelse il volgare per raggiungere il maggior numero possibile di lettori. Come lui, molti grandi scienziati si sono cimentati in esposizioni divulgative dei propri risultati: se infatti da un lato la comunicazione efficace di idee e scoperte rende la scienza un sapere controllabile perché pubblico, dall’altro lato le restituisce la tipica problematicità che la caratterizza, salvaguardandola tanto da ingerenze esterne quanto dai danni di un’esasperata parcellizzazione specialistica. E contribuisce a rafforzarne i legami con gli altri campi del sapere.

l’Unità 23.3.11
Durante la dinastia Tudor Gli scambi più in voga? Favori e denaro in cambio di prestazioni sessuali
«Wolf Hall» Basta leggere il romanzo di Hilary Mantel per capire che la storia si ripete spesso...
Intrighi di corte e vecchi vizietti. I festini ai tempi di Enrico VIII
«Wolf Hall» di Hilary Mantel (pagine 779, euro 22,00, Fazi) è il ritratto dell’Inghilterra dei Tudor. Protagonista Thomas Cromwell, venuto dal nulla e dedito ai mestieri più disparati...
di Rock Reynolds


Così va spesso il mondo, diceva Alessandro Manzoni mascherando la critica dell’occupazione austriaca di Milano del XIX secolo con quella spagnola del XVII secolo. Lapalissiano, certo, ma il mondo forse era sempre andato così e, a giudicare dalla pericolosa commistione tra sesso e potere e, talvolta, pure religione, non si direbbe che il quadro sia particolarmente cambiato. Ai tempi del Manzoni e a quelli in cui si colloca il suo grande romanzo, I promessi sposi, non c’erano la televisione e Internet, mentre oggi sull’Italia non pesa la dominazione di una potenza straniera, ma pare proprio che certe lezioni non aprano mai gli occhi all’umanità.
Chissà se, oltre alla sete di avventura, è proprio l’anelito di illuminazione a fare del romanzo storico un genere narrativo sempreverde. Wolf Hall (Fazi Editore, traduzione di Giuseppina Oneto, pagine 779, euro 22,00) della pluripremiata Hilary Mantel è certamente un romanzo storico, ma è anche molto di più, a partire dalla mole non indifferente. Attraverso la figura di Thomas Cromwell, assurto al titolo di Conte di Essex pur non essendo di nobili natali e da lì, dopo essere entrato nelle grazie di Enrico VIII, al titolo di vicereggente della chiesa Anglicana di fresca fondazione, Wolf Hall è l’affresco epico di uno dei periodi più controversi e allo stesso tempo rivoluzionari della storia europea, quello della dinastia Tudor sotto il regno di Enrico VIII. Sarà perché il sovrano di turno era uno che con le donne aveva un conto aperto, avendone sposate ben sei, oltre ad essersi accompagnato con innumerevoli concubine, ma può essere interessante leggere tra le righe di questo romanzo intenso e ottimamente scritto per individuare inquietanti analogie con il mondo d’oggi.
Tutto il marciume della politica di oggi affonda, dunque, le radici nelle debolezze maschili e nella consapevolezza femminile di disporre di una merce unica in grado di farle superare il ruolo di subalternità a cui la società ha relegato la donna?
Qualcuno si chiederà se questo è un romanzo oppure se è storia. Ma, se per quello, c’è gente che si chiede se il malcostume dilagante e sbandierato da chi dovrebbe rappresentare un esempio di dirittura morale per il paese non sia in realtà un feuilleton creato dai media a uso e consumo di una fazione politica. Se pensate che certe fragilità maschili siano solo appannaggio del mondo d’oggi, perfezionato dalla chirurgia estetica e ringiovanito dalle pastiglie azzurre, Wolf Hall vi chiarirà le idee. Allo stesso modo, però, gli intrighi di corte, l’abbondanza di lacchè e cicisbei nonché di donne di facili costumi e perbenisti dalla grande propensione al vizio vi farà ripiombare nella quotidianità, a patto che non pronunciate mai la parola «prostituta» ai danni di chi vende il proprio corpo, almeno fintanto che una corte non abbia dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che un meretricio è stato consumato, magari con gli ometti in bianco della polizia scientifica che raccolgono gli assolutamente indispensabili reperti organici. Solo che al tempo di Enrico VIII non c’erano CSI, talent show e grandi fratelli. Ma gli scambi più in voga erano sempre gli stessi: favori e denaro in cambio di prestazioni sessuali. Enrico VIII lo sapeva bene e lo sapeva bene anche Thomas Cromwell, la cui vertiginosa ascesa e altrettanto fulminea rovina furono in gran parte frutto di tale consapevolezza.
E, anche allora, nel mezzo stava la religione. Ovvio che, come magistralmente evidenzia la Mantel, non furono né il sesso né la religione a guidare le scelte del sovrano, ma di certo le due cose ebbero un peso non indifferente nel dipanarsi degli eventi. In questo caso, i vertici religiosi lottarono con il licenzioso monarca, facendo dei suoi comportamenti moralmente non in linea con la decenza del buon cristiano un cardine della propria crociata. Ce ne vorrebbero, vien quasi da dire, di alte gerarchie religiose che prendano posizioni meno sfumate in merito alla morale. Pare quasi che la stirpe vescovile abbia perso una certa verve censoria. E l’abbia persa a senso quasi unico. Di fronte al potente cardinale Wolsey, Cromwell chiede, «Monsignore, come si chiama una puttana quando è figlia di un cavaliere?» Con la classica abilità salomonica, l’alto prelato
risponde: «Davanti a lei, ‘la mia signora’. Alle spalle... be’ come si chiama?». Insomma, pare quasi che la parola puttana, di cui per secoli gli uomini si son riempiti la bocca con grande soddisfazione maschilista, d’improvviso sia diventata sconveniente. Meno male che le parole di Wolsey ci ricordano che non basta fare sfoggio di una laurea col massimo dei voti o di una lingua straniera parlata correntemente o, magari ancora, di qualche sbandierato talento nel mondo dello spettacolo perché una donna che ha determinati atteggiamenti possa a ragione considerarsi al di sopra di certi sospetti. Così come una posizione di potere e prestigio non fa di chi la occupa un uomo automaticamente integerrimo.
I festini non sono certo un’invenzione dei nostri tempi e, di certo, non c’è bisogno di andare in Brianza per trovarne. Anzi, ai tempi di Enrico VIII erano festoni. E, allora come oggi, poteva capitare che il sovrano mettesse a rischio la propria sorte politica pur di placare i propri impulsi. Nel caso del sovrano Tudor, è ancora dibattuta la causa della sua morte, secondi alcuni storici conseguenza di una malattia venerea.
Gli esempi di cadute di tono nella storia del mondo non si contano. C’è sempre un sovrano, più o meno illuminato, e ci sono sempre i vertici di una religione organizzata e una, anzi, tante donne. Nell’Inghilterra dei Tudor non si chiamavano veline e ci piacerebbe che questa parola sparisse dal nostro vocabolario, o meglio, non ci entrasse affatto.
Qualcuno potrebbe dire che dipende sempre dai punti di vista, che tutto è relativo. Vero. Se poteste chiedere a un cardinale inglese del XVI secolo come si chiama una donna che si vende in cambio di favori, la risposta sarebbe inequivocabile. Se volete avere la stessa risposta al giorno d’oggi, forse fareste bene a chiederlo a qualcun altro. Come dice la Bibbia, «Chi si arricchisce in fretta non sarà innocente», ma anche, «Il Signore corregge chi ama». Corregge, dunque, non unge soltanto.

l’Unità 23.3.11
Audio, video, web È la Divina Commedia edita da Zanichelli
Presentata ieri mattina, nella splendica corince del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, una nuova edizione della Divina Commedia pubblicata da Zanichelli (commedia. zanichelli.it).
di Roberto Carnero


occio multimediale al poema dantesco: «un’opera dinamica – spiegano dalla casa editrice bolognese – con la quale abbiamo inteso gettare un ponte tra le architetture narrative medievali e le tecnologie del terzo millennio». Si tratta di una versione del testo di Dante curata da Riccardo Bruscagli e Gloria Giudizi. Accanto al testo e al commento (e a un dvd con un ricco corredo multimediale), la vera novità è la lettura integrale, offerta in un cd audio mp3, dell’intero capolavoro dantesco da parte di un attore di razza come Ivano Marescotti.
Nel panorama editoriale non mancavano certo le edizioni della Divina Commedia. Come mai, dunque, l’idea di una nuova versione? Spiega Bruscagli (docente di Letteratura italiana presso l’Università di Firenze): «Spesso i commenti scolastici alla Commedia dantesca sembrano voler formare, negli studenti, tanti piccoli dantisti. In tal modo il linguaggio degli apparati è troppo tecnicistico e quindi risulta ostico e alla fine respingente. Noi abbiamo voluto proprorre invece un commento semplice, capace di guidare con essenzialità il lettore alla comprensione del testo. La scuola non deve formare dei lettori professionisti, ma dei lettori per passione. E questo è lo scopo del nostro lavoro su Dante. Un autore che ha in sé, appunto, la straordinaria capacità
di appassionare». Ivano Marescotti racconta invece, da attore, la sfida della sua lettura integrale della Commedia: «Un’impresa, come direbbe Dante, da far tremare le vene e i polsi. Mi sono formato sui grandi interpreti vocali di Dante, da Vittorio Sermonti ad Arnoldo Foà. Li ho ascoltati per imparare da loro e li trovo straordinari. Io, però, ho cercato di fare qualcosa di diverso: non restituire Dante in maniera calligrafica, bensì interpretarlo portando nel testo l’ascoltatore attraverso la forza emotiva del racconto. Ho dunque cercato di superare il sacro timore reverenziale che all’inizio provavo, per lasciarmi trascinare dall’enorme potere espressivo dei suoi versi».
Il volume è indirizzato principalmente (ma non solo) al mondo della scuola, dove Dante, per fortuna (almeno finché anche l’istruzione non sarà federalista), continua a rimanere lettura obbligatoria nel triennio delle superiori. Nell’universo dell’editoria scolastica in questi giorni – giorni in cui gli insegnanti sono chiamati a scegliere i libri di testo per il prossimo anno scolastico – c’è grande fermento. Le nuove disposizioni legislative prevedono che a partire dall’anno scolastico 2011-2012 i libri di testo siano prodotti esclusivamente in due versioni: «on-line» (cioè scaricabili da internet) oppure «mista» (ovvero su web e su carta). È prevedibile che i docenti, al momento delle adozioni, si orienteranno su questa seconda forma, perché optare per la prima significherebbe mandare in pensione i tradizionali volumi cartacei. E ciò determinerebbe un evidente impoverimento culturale, che è quanto si vuole evitare. Per questo ben vengano inziative come questa Divina Commedia di Zanichelli, che unisce le nuove metodologie (audio, video, web) alla persistenza del libro di carta.

Corriere della Sera 23.3.11
Padre Pio: non ho mai baciato una donna, neppure mia mamma
di Luigi Accattoli


«Mai ho baciato una donna. Anzi dico davanti al Signore che neppure volevo dare baci alla mamma: la facevo piangere perché non le scambiavo i suoi baci, ma avrei creduto far male» : così giura Padre Pio da Pietrelcina davanti al domenicano Paul-Pierre Philippe (1905-1984) che il 22 febbraio 1961 lo interroga a nome del Papa Giovanni XXIII. Il documento con quel drammatico giuramento era inedito fino a ieri e ne dà conto — insieme ad altri tre o quattro testi mai usciti finora dal segreto degli archivi vaticani — Stefano Campanella nel volume Oboedientia et pax. La vera storia di una falsa persecuzione (coedizione Libreria Editrice Vaticana ed Edizioni Padre Pio, pp. 260, e 15) presentato ieri alla stampa presso la Radio Vaticana. Il teologo domenicano francese, che sarà vescovo e cardinale, non credette al povero frate stimmatizzato che aveva allora 74 anni. «La Chiesa teme e trema per lei» , gli disse e scrisse parole di fuoco nella relazione al Sant’Uffizio che fino a ieri era stata letta solo da una manciata di addetti ai lavori: «Padre Pio è passato insensibilmente da manifestazioni minori di affettuosità (con le sue donne "predilette", ndr) ad atti sempre più gravi, fino all’atto carnale» . Egli è «un falso mistico» e «un disgraziato sacerdote che approfitta della sua reputazione di santo per ingannare le vittime» . Il suo caso costituisce «la più colossale truffa che si possa trovare nella storia della Chiesa» . Il «consultore» del Sant’Uffizio propose drastiche misure repressive: sospensione delle Confessioni e della Messa, «trasferimento in un convento lontano» . Ma le proposte non furono accolte e Padre Pio potè continuare con il regime «controllato» di accesso a lui da parte dei fedeli che era stato stabilito quattro mesi prima a seguito della «relazione» del «visitatore» Carlo Maccari. Perché il severo censore non fu creduto? Perché il buon Papa Giovanni volle sentire l’altra campana, che era l’arcivescovo di Manfredonia Andrea Cesarano, suo coetaneo e già collega in diplomazia, che gli disse che erano «tutte calunnie» . E il Papa: «Hanno persino inciso i baci…» . Attraverso buchi nei muri delle due stanze dove Padre Pio riceveva uomini e donne erano stati piazzati due microfoni collegati «a un registratore di marca Geloso» ed erano state incise «espressioni osate» e suoni di «baci ripetuti» . In uno dei testi fino a ieri inediti — intitolato Relazione Mario Crovini — si riferisce questo dialogo tra una delle donne e Padre Pio: «Cleonice Morcaldi: Io mi sento tutta accalorata…; Padre Pio: Chisto è o guanto mio (Questo è il mio guanto)» . Pare che Cesarano — che era campano e dunque attrezzato per capire le «devote» di Padre Pio — sia stato convincente con Giovanni XXIII: «Per carità, non si tratta di baci peccaminosi. Posso spiegarti (Cesarano dava del tu al Papa, ndr) cosa succede quando accompagno mia sorella da Padre Pio» . Gli raccontò che quando la sorella riusciva a prendere la mano del frate «gliela baciava e ribaciava» rumorosamente. Il Papa ne fu «consolato» e lo mandò dai cardinali Tardini e Ottaviani: «Di’ a loro ciò che hai raccontato a me» . La paranoia su Padre Pio «in pericolo di dannazione per i suoi peccati con le donne» era già documentata nei volumoni della Causa di beatificazione (1999). In essi figura una «testimonianza» resa da tale Fra Celestino di Muro che narra come vi fossero in quel tempo a San Giovanni Rotondo persone che consideravano Padre Pio «posseduto dal demonio» , tanto che «Padre Giustino da Lecce (uno dei confratelli, ndr), con libretto e con segni di croce verso padre Pio che dormiva, faceva gli esorcismi» . Ma ora — dai nuovi documenti — sappiamo quanto in alto fosse arrivata quella paranoia e come sia stata fermata solo dal buon senso di Papa Roncalli soccorso dall’amico Cesarano. Fino alla lettura di questo libro amavo schematizzare così il tormentato rapporto di Padre Pio con i Papi: un Papa lo capiva (Benedetto XV, Pio XII, Paolo VI) e un altro no (Pio XI, Giovanni XXIII). Ora che ho visto i documenti prodotti da Campanella aggiusto il tiro su Roncalli: egli all’inizio non lo capiva, ma infine lo capì e lo protesse dall’esilio e dalla clausura.

Terra 23.3.11
Emergenza infinita: seimila tunisini sull’isola
di Alessia Mazzenga

qui
http://www.scribd.com/doc/51362312

martedì 22 marzo 2011

Repubblica 17.3.11

Il male oscuro

Quella lotta di Ellen contro il suo corpo
Lo psichiatra Binswanger racconta un caso clinico: è la drammatica storia di una ragazza anoressica e dei tanti tentativi di cura
Aveva dimenticato i suoi primi dieci anni di vita Aspirava a qualcosa di straordinario
Aveva l’ossessione del pane. Era sempre combattuta tra la brama di divorare e quella di assottigliarsi
di Pietro Citati


Ludwig Binswanger, nato in Svizzera nel 1881, è una delle figure più significative della psicologia e della psichiatria moderna. Da un lato, era amico e collaboratore di Breuer, di Bleuler e di Freud, che inviavano malati nella sua clinica di Kreuzlingen: dall´altro, per tutta la vita lesse e meditò profondamente i libri di Husserl e di Heidegger. Tutto ciò che scrisse è imbevuto di questa doppia influenza: psicologia analitica e filosofia esistenziale si intrecciano e si fondono, entrano ognuna nel campo dell´altra, provocando ambiguità e sottigliezze. Qualche volta, le sottigliezze sono troppe; e ci troviamo smarriti in un linguaggio cifrato. Ma i suoi "casi clinici" sono bellissimi, specie quelli raccolti nel 1957 nel volume Schizofrenia: vi è attenzione, scrupolo, morbidezza, talento narrativo e una specie di disperato azzardo, che lo porta dovunque alla ricerca della verità che si nasconde. Il principale di questi testi è Il caso Ellen West, appena pubblicato da Einaudi a cura di Stefano Mistura (traduzione di Carlo Mainoldi, p. LVII-205, euro 18).
Ellen West apparteneva a una famiglia ebraica, nutrita di ansia, depressione e angoscia, dove abbondavano i suicidi. Quando Binswanger la interrogò a Kreuzlingen, Ellen aveva dimenticato i suoi primi dieci anni di vita. Tutto era avvolto in una oscurità quasi completa: o emergeva soltanto il suo istinto di negazione: «Questo nido non è un nido»: «Questo latte non è latte», ripeteva da bambina. Aspirava a qualcosa di straordinario; "Aut Caesar aut nihil". Voleva la gloria, la tensione, la violenza. A vent´anni immaginò di conoscere la felicità. Ma, subito dopo, fu assalita da una crisi profondissima e cadde nell´apatia. «Tutto per me si equivale, sono completamente indifferente, – scrisse – non conosco sentimenti di gioia e nemmeno di angoscia». «Io sto di fronte a me stessa come di fronte a una straniera». Le sembrava di camminare su una costa marina vertiginosa, in un difficile equilibrio sopra le rocce; e poi di sprofondare sempre più in basso, sempre più in basso. Attorno a lei, c´era il vuoto: la miseria dell´anima le sedeva accanto: gli uccelli tacevano e fuggivano: se apriva bocca, i fiori appassivano: dovunque, spettri erano in agguato; e il mondo diventava a poco a poco una tomba.
Quando compì ventitre anni, venne violentemente assalita dal timore di diventare grassa. «Mi sento ingrassare, diceva, ne tremo di paura, vivo in una condizione di panico». Pensava esclusivamente a dimagrire: a trentadue anni era uno scheletro; e avrebbe voluto morire, come l´uccello a cui il canto si spegne nel pieno della gioia canora, o consumarsi selvaggiamente nel proprio fuoco. «Quando vedo i cibi, e cerco di portarli alla bocca, tutto si chiude nel mio petto, e mi fa soffocare e mi brucia». Ma il suo desiderio era doppio. Il desiderio di dimagrire era un aspetto del suo desiderio di allargarsi, di estendersi e di dilatarsi. Aveva l´ossessione del pane: vagava di continuo intorno al pane chiuso nella credenza: nella sua mente, nel sonno e nella veglia, non c´era posto per nessun altro pensiero; non poteva concentrarsi né nel lavoro né nella lettura. Pensava di essere diventata come un assassino, che ha continuamente davanti agli occhi l´immagine dell´uomo che ha ucciso, ed è irresistibilmente attratto dal luogo del delitto. Così era combattuta: la brama di divorare contro la brama di assottigliarsi; e restava spossata, esausta, coperta di sudore, con le membra doloranti.
Non dobbiamo credere che il suo caso fosse una semplice forma di anoressia. Con le sue forze scatenate, andò molto più lontano: penetrò nella tragedia fondamentale del corpo, la sua apparenza, la sua sostanza, il suo rapporto con gli altri esseri umani e il resto del mondo. Si rivoltava contro la propria corporeità: ma questa rivolta aveva la conseguenza di far emergere la corporeità in primo piano, come se non ci fosse nient´altro né in lei né altrove. Si mascherava dietro la vergogna, cercando di nascondere agli occhi e agli orecchi tutto ciò che era visibile e udibile. Più tentava di celarsi, più era visibile, dava nell´occhio, o cercava drammaticamente di dare nell´occhio. Era lì, sempre, davanti agli sguardi di tutti.
Col passare dei mesi e degli anni, Ellen West si costruì un immenso campo di prigionia: una Siberia di solo ghiaccio; e desiderava la morte con lo stesso ardore con cui un soldato prigioniero tra i ghiacci desidera ritrovare la patria; «Io sono in Siberia – ripeteva: il mio cuore è una morsa di ghiaccio». Si sollevavano mura, sia pure lievi come l´aria ed il vetro. E, sulle mura, c´erano folle di nemici. Dovunque si voltasse, un uomo con la spada sguainata le impediva di fuggire. Le sembrava di essere su un palcoscenico. Cercava scampo, ma qualche oscuro nemico le si parava davanti. Se si precipitava verso la seconda, la terza, la quarta uscita del palcoscenico, trovava ogni volta un muro oscuro di cartone o di sasso. Non le restava che stramazzare su sé stessa, incapace di qualsiasi fuga. Viveva chiusa in un globo di vetro. Vedeva gli uomini attraverso una paratia trasparente, e le loro voci le giungevano fioche e attutite. Si sforzava di arrivare sino a loro, protendendo le braccia verso di loro, ma le mani continuavano ad urtare contro le opache pareti di vetro.
Verso la fine di marzo del 1921, dopo quasi tre mesi di soggiorno nella clinica di Kreuzlingen, Ellen West chiese di venire dimessa. Ludwig Binswanger era incerto: non ignorava quali rischi incombessero sulla sua fragilissima malata. Poi decise. Il 31 marzo 1921, Ellen West ritornò a casa, insieme al marito. Dapprima si sentì incapace di vivere. I vecchi sintomi si ripresentarono. Era prostrata. Tre giorni dopo, quasi all´improvviso, la sua vita si trasformò. Si alzò: fece la prima colazione con burro e zucchero; e a mezzogiorno – per la prima volta dopo tredici anni – si sentì soddisfatta, nutrita e placata. A merenda, mangiò cioccolatini e uova di pasqua. Il cibo le dava gioia, rinforzava le sue energie, alimentava il suo amore, nutriva le sue speranze, illuminava il suo intelletto. Dopo aver passeggiato col marito, lesse poesie di Rilke e di Storm, di Goethe e di Tennyson; e rise percorrendo il primo capitolo delle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain.
La durezza, la violenza, la caparbietà, la furia, lo spirito di negazione, il senso di solitudine e di prigionia, il carcere di pietra e di vetro, l´odio del corpo, il disgusto e la fame – tutto ciò che aveva reso la sua vita un inferno – scomparvero. Il mondo le svelò, dopo tanti anni, il suo volto festoso e leggero, che lei aveva appena intravisto. La sera, senza che nulla lasciasse prevedere la sua decisione, senza dubbi e incertezze, prese una dose mortale di veleno. Poi scrisse una lettera al marito: gli domandava perdono, lo ringraziava per il suo amore, lo pregava di non piangere, e infine gli spiegava che qualsiasi lotta ulteriore contro il male sarebbe stata inutile. Tutto era finito: ma lei si sentiva finalmente libera. La mattina del 5 aprile Ellen West morì. «Apparve allora, come mai nella sua vita, serena e felice e in pace con sé stessa». Possiamo dire che Ellen West fu sopraffatta dal veleno della morte? Non è certo: la morte, anche la morte volontaria, può essere un compimento, una liberazione, una pienezza.

il Riformista 11.4.07
Saggio. Il diario della donna ebrea
II caso Ellen West. L'Anne Frank della psichiatria?
di Annelore Homberg e Cecilia Iannaco


Una tragedia in due atti: suicidio e rilettura heideggeriana
L’obiettivo è “eliminare” la malattia, non il malato

Ellen West è il nome che lo psichiatra Ludwig Binswanger inventò nel 1943 per raccontare il caso clinico di una giovane donna ebrea, di probabile nazionalità americana e origini tedesche; un caso che diventerà paradigmatico per la sua psichiatria fenomenologica o daseinsanalisi e che si era concluso tragicamente più di vent'anni prima, nell'aprile del 1921.
Se il saggio di Binswanger è ben noto ai lettori italiani, non altrettanto lo è la ricerca, dai risultati a dir poco sorprendenti, che lo storico della medicina Albrecht Hirschmüller ha condotto su questo caso clinico. Il lavoro di Hirschmüller - del quale abbiamo curato l'edizione italiana per la rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla - si basa sul diario di Ellen e su un ricco carteggio, entrambi inediti, che permettono di ricostruire la storia della donna in modo assai più ampio e veritiero di quanto non abbia fatto lo stesso Binswanger. Pochi sanno infatti che il caso West si articola in due momenti.
Il primo atto di questa pièce desolante si svolge in un solo anno, tra il 1920 e il 1921, e si conclude con il suicidio della paziente. Tutto inizia quando Ellen - che stava molto male e per la quale le diagnosi future andranno dall'anoressia alla schizofrenia - si rivolge allo psicoanalista Victor von Gebsattel, che più tardi si occuperà anche lui di psichiatria fenomenologica. Questo trattamento finisce dopo sei mesi quando Gebsattel, in piena crisi mistica, manda Ellen dal suo santone; Ellen si rifiuta e prova con un altro analista, a sua volta ossessionato dal tema dell'erotismo anale. Visibilmente peggiorata, nel gennaio 1921, la donna giunge alla famosa clinica di Kreuzlingen sul Lago di Costanza. di proprietà dei Binswanger. Il giovane direttore Ludwig la riceve amabilmente ma è contrario ad ogni tipo di trattamento approfondito. Come consulente chiama il professor Hoche, stimato docente universitario, che proprio l'anno precedente aveva elaborato quel micidiale progetto di «annientamento di vita indegna di essere vissuta» che sarà poi alla base dello sterminio nazionalsocialista dei malati di mente. In tre mesi Binswanger, Hoche e il marito di Ellen giungono al verdetto che per lei non c'è alcuna speranza di miglioramento; "sanno" che è destinata al suicidio e decidono di dimetterla. È probabilmente il marito stesso a fornirle il veleno con cui la giovane donna, tornata a casa, docilmente si uccide.
Il secondo atto della tragedia - se possibile ancor più sconcertante del primo - si svolge invece dopo un silenzio di oltre vent'anni, quando Binswanger decide di riprendere la storia della paziente non per comprendere come un simile fallimento terapeutico era potuto accadere, ma per rileggerlo con le lenti di quella filosofia heideggeriana che nel frattempo ha fatto sua, e alla luce della quale la morte di Ellen diventa «una realtà inevitabile», il «necessario adempimento del senso della sua vita».
Si rimane feriti dal cinismo - ma sarebbe meglio dire dalla fatuità - con cui Binswanger riconverte la storia dell'ebrea Ellen West in una teoria del suicidio come «gesto autentico», proprio negli anni in cui, sull'altra sponda del Lago di Costanza, altri ebrei vengono condotti verso i campi di sterminio. In realtà, un'attenta analisi del materiale raccolto da Hirschmüller fa emergere l'ipotesi che questo «essere per la morte», più che della paziente, fosse piuttosto un problema dello stesso Binswanger e della filosofia che aveva adottato.
La West al contrario, chiedendo insistentemente aiuto, aveva sperato di poter guarire e vivere. Il suo cupo diario ritrae una persona drammaticamente braccata su due fronti: all'interno dalla grave malattia ed all'esterno dalle persone che la circondavano. Proprio quest'ultimo aspetto, insieme agli slanci improvvisi di speranza ed alla gioia di vivere che le pagine, in alcuni momenti, comunque trasmettono, fa apparire nella mente un'immagine che vorremmo cacciare: l'immagine di un altro diario, quello di Anne Frank.
Ricordare oggi la vera storia di Ellen West è importante per sottolineare l'esigenza di una psichiatria che, per essere tale, deve innanzitutto rifiutare un'impostazione teorica che nega l'idea di curabilità se non addirittura quella stessa di malattia mentale. Una psichiatria che al contrario tiene ben saldi i concetti medici di diagnosi, cura, guarigione anche se vengono applicati alla mente e non al corpo. Solo così si arriva a una prassi che, diversamente da quella nazista e purtroppo anche da quella di Binswanger, è volta ovviamente ad "eliminare" la malattia, e non il malato.
 
ARTICOLI STORICI:

Il Messaggero 9.11.1977
Un analista che rifiuta Freud
Intervista a Massimo Fagioli
di Fulvio Stinchelli


Quarantasei anni, faccia scavata e sguardo ardente dietro le lenti fumè un passato di rissoso eretico freudiano alle spalle, Massimo Fagioli è oggi lo psicoanalista italiano di gran lunga più seguito e ascoltato. Da due anni , nello spazio universitario concessogli dall’il- luminato pluralismo del professor Reda per l’intercessione del suo amico e collega Nicola Lalli, tiene seminari bisettimanali sempre più affollati. Terapia di gruppo? Psicodramma? L’autore di “Istinto di morte e conoscenza” respinge seccamente queste definizioni-etichetta che “lo soffocano”, dice, “senza appartenergli”. Mezzo scienziato e mezzo profeta, rinnega paternità, filosofie e ideo-logie: Freud? Un pasticcione. Lacan? Un altro che non ha capito niente. La psicoanalisi? Si, purché sia quella che passa per l’ “in-conscio marecalmo”, la “fantasia di sparizione” e l’ “istinto di annul-lamento”. Sono questi i tre cardini della “scoperta” su cui ruotano ossessivamente la dottrina e la “predicazione” di Fagioli. Lo incontriamo nel suo quieto studio di Via Nomentana, in una cornice rigorosamente freudiana: pochi libri , quadri anonimi, scrit toio modesto, poltrone comode e il sacro divanetto. Osserviamo. “Qual cosa di Herr Professor comunque rimane”. Risponde: “Restano le analisi individuali che continuo a fare, perché i seminari sono gratuiti, ma il mio vero campo d’azione è l’analisi collettiva, una cosa che Freud non ha mai fatto”. Prima di arrivare all’analisi collettiva, che è il successo del giorno, vogliamo soffermarci un attimo sul punto di partenza? “Per me tutto cominciò al liceo, quando, vivendo in ambiente medico, feci la prima osservazione: Le malattie psichiche distruggono più di quelle fisiche. Una gamba rotta o una broncopolmonite tro- vavano soluzione mentre i pazienti depressi venivano liquidati col manicomio. Decisi allora di fare medicina e specializzarmi in psichiatria. Dopo la laurea, la pratica presso l’ospedale psichia- trico di Venezia. Per un anno e mezzo mi attenni al ruolo e alle disposizioni: non dovevo far altro che girare la chiavetta e zac: elettroshock.. Allora mi chiesi: ma cosa sto facendo? Sto alla catena di montaggio? Avvito le teste? Me ne andai e cominciò un periodo duro per me. Prima Verona, dove mi cacciarono perché ero “rosso”, poi approdai a Padova, dove un minimo di ricerca si faceva. E lì mi venne la prima ispirazione. Dissi: l’istinto di morte è l’istinto di morte, d’accordo, ma questi, i malati, non muovono un dito. Dov’è tutta questa aggressività? Un esempio? Reparto agitati: trenta ricoverati, due infermieri. Mai accaduto un incidente. Allora, quest’istinto di morte non è distruzione. In-cominciai così a studiare questo istinto passando e andando sempre più a fondo nel rapporto con l’inconscio. Mi trasferii in Svizzera, dove ebbi modo di superare la sindrome del malato per vedere cosa ci fosse dietro. Nel ’64 feci la mia analisi personale, la svolta fondamentale”. C’è un episodio cui puoi legare questo del passaggio dalla psichiatria alla psicoanalisi? “Si, ed è connesso a un paziente il quale, un giorno, mi rimproverò di non averlo assistito in una de-terminata circostanza e di avergli, quindi, “fatto del male”. Ma se quel giorno, mi dissi, io ero in ospedale, come posso avergli fatto del male? Fu un’illumina-zione: è l’assenza che fa del male. Cos’è l’assenza? E’ una pulsione attiva di annullamento”. Qui spunta Lacan…. “No. Lacan dice che è una man-canza. La mia, ripeto, è pulsione attiva di annullamento. La si può verificare nel “Non visto” e nel gioco infantile del “Bubù settete”, dove il bambino appare e sparisce. Di qui mille passaggi, verifiche e confronti. Una storia lunga, che comincia, però, qui: dalla scoperta dell’annullamento”. Arrivando a questa scoperta e nel lavoro successivo, l’inse-gnamento di Freud l’ha tenuto presente? “L’ho rifiutato e lo rifiuto total-mente”.
Anche tu, però, in questa ricerca , pratichi “l’arte del sospetto”? “Ma nemmeno per idea. Il sospetto parte da una verità precostituita e accertata: Io mi metto in sospetto se temo che tu mi dia un pugno: La mia ricerca non ha condizionamenti di questo tipo”. E’ importante, secondo te, che Freud sia nato”? “Io, sulla nascita delle persone, evito di intervenire. Giusto che sia nato, lo sbaglio è che si è messo a fare lo psicoanalista. Se avesse fatto il medico generico sarebbe stato molto meglio. Diciamo le cose come stanno: esiste una bibliografia enorme, opera di predecessori di Freud, che sta a dimostrare che Freud non ha scoperto niente.
Se una certa società e una certa cultura lo idealizzano tanto ciò è dovuto al fatto che con Freud l’analisi non si fa e questa società ha paura che la gente faccia l’analisi, perché fare l’analisi sul serio significa vederci chiaro, rendersi conto dei “mucchi di sabbia” di tanta cultura, significa imparare a dire si no. E chi sa dire di no rimette tutto in discussione: affare scomodo. Freud, invece, è comodo perché finge di fare l’analisi. Infatti, non ha metodo, si limita a codificare la non-trasformazione umana. La sua è un’analisi interminabile, perché parte dal punto di vista che non c’è niente da fare e allora ricade nella vecchia psicoterapia di sostegno. Roba dei tempi di Ippocrate.
Non c’è trasformazione…..”. Invece, nella tua c’è, a quanto lasci capire. ma prima di te? “C’è Marx. Ecco uno che aveva intuito la psicoanalisi, parlando di trasformazione. Mi riferisco al giovane Marx, quello dei “Mano-scritti” e dell’ ”Ideologia tedesca”. Meno male che anche tu ha i un padre, ma veniamo ai tempi nostri: quando ti sei deciso a rompere con la Società di Psicoanalisi Italiana? “E’ una storia risaputa. Comunque, fu nel ’68. Sentii che i tempi erano matura per tirar fuori quel che avevo scoperto e già praticavo. Pubblicai il mio primo libro e fu l’innesco della reazione a catena che mi ha portato agli attuali seminari basati sull’analisi collettiva”. Anche qui c’entra Marx? “Eh, sì. Perché tutta quella gente raccolta intorno a me parla, rac-conta, domanda, ascolta e domanda ancora. E torna, puntualmente, sen-za che nessun le abbia fissato un appuntamento né un programma d’analisi.
Tutti insieme, senza pudori né resistenze. Indub-biamente, trovano quel che stavano cercando. Tutti insieme, collet-tivamente. Siamo dunque lontano dall’analisi individuale. Un po’ co-me la presa di coscienza nella fabbrica, Per me è la conferma di essere sulla via giusta. Io non uccido il paziente come fa l’analista dall’alto del suo ruolo e del suo diploma, nel chiuso dello studio. Io li affronto, lì, seduto in mezzo a a loro che sono centinaia, pronti a rimbeccarmi se dico stupidaggini. Perché la gente conosce l’analisi più di quanto comunemente si creda”. Qual’è la differenza tra analisi individuale e analisi collettiva? “ All’analisi individuale si presenta, quasi sempre, un uomo che sta molto male: è confuso, annullante, depresso. In quel caso deva fare quasi tutto l’analista, cogliendo il problema e cerando di risolverlo, direi a dispetto dello stesso ana-lizzando che vuol distruggere l’ana-lista. Questo, in un certo senso si verifica anche al seminario, ma lì la risposta è collettiva. A volte io non faccio che interpretare il sogno di uno per rispondere a quello di un altro. E’ la conferma che l’uomo è un essere sociale. Vedi che Marx torna sempre? Voglio dire che il problema della ragazza la cui madre le dà della puttana perché esce la sera è problema di migliaia di persone, non è il problema per-sonale di quella singola ragazza con quella madre. Questo è il mio la-voro, in poche parole. E allora si capisce perché tutto ciò rappresenta la distruzione di Freud”.

Il Giorno 20.1.1978
La psicoanalisi da privilegio per pochi ad attività terapeutica di gruppo
Freud non è più lusso
di Adele Cambria


I giovani della nuova sinistra, in rottura con la psichiatria tradizionale, si riuniscono sempre più numerosi a Roma intorno a un transfuga della Società Psicoanalitica Italiana, il professor Massimo Fagioli - L'analisi non si fa più individualmente, è una ricerca collettiva degli equilibri perduti - Terapia scientifica o psicodramma? - Parla il promotore del nuovo movimento
"Si potrebbe dire - scriveva Gramsci nei "Quaderni del carcere" - che l'inconscio incomincia solo dopo tante decine di migliaia di lire di rendita". Insomma, per Gramsci l'inconscio ce l'avevano i ricchi, i poveri no. Problemi di lusso, quindi, i problemi dell'inconscio, e già Lenin del resto nelle sue conversazioni con Clara Zetkin (1921), s'era riferito alla psicoanalisi come a qualcosa che "fiorisce con esuberanza sul terriccio della società borghese".
Dopo sessant'anni, oggi nessuno potrebbe sostenere quelle tesi. Il bisogno di investigazione di sé, si conoscenza e di aiuto è diventato, se non bisogno di massa, certo una domanda che avanza e si fa drammatica, specie tra i giovani e le donne; le risposte istituzionali sono largamente inadeguate: da una parte, e nei casi più gravi, la psichiatrizzazione (manicomio o clinica per malattie mentali) e dall'altra psicofarmaci più o meno rimborsati dalle mutue, qualche CIM (Centro di Igiene Mentale) assediato da richieste cui non può rispondere, e le sedute di analisi individuale, inabbordabili da chi, pur proletario o proletarizzato (operai, disoccupati, studenti, donne), l'inconscio che l'ha, ma non ha i soldi per occuparsene. Nel silenzio delle istituzioni nascono allora i gruppi, più o meno spontanei, più o meno "selvaggi", in cui la gente si aggrega e parla di sé.
Come esempio e campione, traverso il quale svolgere questo primo tema, mi pare cronisticamente corretto scegliere una realtà terapeutica che emerge, nel paesaggio a volte confuso della "analisi di gruppo", con caratteristiche non ordinarie. Alcune di esse sono percettibili, per così dire, ad occhio nudo: la gratuità assoluta e il numero dei partecipanti, complessivamente valutabile a circa seicento persone, divise in tre gruppi, che si riuniscono in tre giorni diversi della settimana, con lo stesso analista. La qualità dei partecipanti pur non essendo esclusiva di questa situazione è, qui, sottolineata da una forte omogeneità,; è quello che, a partire dal febbraio scorso, si definisce come il "Movimento", a formare la popolazione di base in questa sede (una piccola aula dell'Istituto di Psichiatria dell'Università di Roma, diretto dal professor Giancarlo Reda). E' dunque la folla giovanile - maschi e femmine - diventata protagonista, anche drammaticamente, della scena politica italiana negli ultimi dieci mesi.
Su questo strato di fondo si innestano poi iscritti al PCI (ma sempre giovani), molte donne, alcuni medici (non soltanto psichiatri o psicoanalisti) qualche "nome" del mondo dello spettacolo, ovviamente più politicizzato (il regista Marco Bellocchio, la sua compagna, l'attrice Gisella Burinato).
Fin qui gli elementi esteriori che pure distinguono questo gruppo dagli altri. Gli elementi invece più profondi di diversità sono da rintracciare nella persona dell'analista, Massimo Fagioli, e nel fatto che in questa sede si sperimenta una teoria che Fagioli rivendica come originale. Qui non si fa analisi secondo Freud, Jung, Lacan, ecc.. o attraverso una miscellanea di teorie e pratiche diverse: si fa analisi secondo quanto è scritto nei testi di Massimo Fagioli, che sono tre: "Istinto di morte e conoscenza", "Psicanalisi della nascita e castrazione", "La marionetta e il burattino".
Per capire serve intanto sapere chi è Massimo Fagioli. Buon rieducatore o guru?
Professionalmente ha tutte le carte in regola, Medico psichiatra, prime esperienze "manicomiali" a Venezia e quindi a Padova, primi tentativi (metà degli anni sessanta) di gestione diversa del manicomio, poi trasferimento in Svizzera, nella clinica dell'antropsichiatra Ludwig Binswanger, dove vive per un anno in una comunità terapeutica (malati di mente, medici, infermieri).
Tornato in Italia costituisce egli stesso una comunità di questo tipo, ed incomincia a fare analisi didattica con il freudiano Nicola Perrotti. Ammesso nella Società Psicoanalitica Italiana (Spi), esercita la professione privata, e comincia ad elaborare le teorie oggi contenute nei suoi testi, attraverso le quali si pone come "eretico" rispetto a tutt'intera la tradizione e la prassi psicoanalitica (con l'esclusione parziale di Wilhelm Reich, come l'unico che abbia tentato la saldatura tra psicoanalisi e politica).
Scrive "Istinto di morte e conoscenza" e nel cerchio chiuso dei freudiani ortodossi viene allora considerato un talento; Franco Fornari, tra gli altri, parla di "scoperta" nella psicoanalisi (Congresso di Vietri 1971). Dal momento in cui il libro è pubblicato sopravviene l'ostracismo: nel febbraio del 1976 lo si costringe ad uscire dalla Spi. Già alla fine del '75, però, erano incominciati i suoi seminari.
Sentiamo, adesso, ciò che dice Massimo Fagioli.
Si può essere psicoanalisti e non freudiani (né junghiano, né lacaniani)?
"Non è nuova la psicoanalisi, è nuovo Freud. Così come non era nuova l'America, era nuovo Colombo". Questo lo scriveva il romanziere Arthur Schnitzler, nel primo decennio del secolo. Oggi, a quarant'anni dalla morte di Freud, si può e si deve dire la verità: non era nuovo neanche Freud. La psicoanalisi è sempre esistita: è esistita in Shakespeare, nella tragedia greca. Si tratta di tradurre in scienza, utilizzabile da tutti, ciò che per gli artisti è intuizione."
Ci sono alcuni concetti-chiave della teoria che tu hai formulata, e che pratichi nei gruppi di analisi collettiva. Essi sono, mi pare, quelli di "Istinto di morte, fantasia di sparizione, inconscio mare calmo, investimento sessuale", tutto un meccanismo, se ho capito bene, che si mette in moto nell'istante della nascita e poi, ancora, "invidia e bramosia". Puoi spiegare di che si tratta?
"Dell'istinto di morte Freud ha parlato tardi, nel 1920: ma, oltre ad essere stato preceduto, su questo argomento, almeno da due dei suoi allievi, Adler e Steckel (il "furto", in Freud, è sempre presente), c'è da dire che, ancora una volta, non si inventava nulla: l'istinto di morte appartiene al nichilismo russo, si profila già nell'Ottocento. Per me istinto di morte, non è necessariamente, tendenza negativa, distruttività: è piuttosto la prima pulsione del neonato a tornare da dove è venuto, nell'utero materno..."
Ma perchè, nascendo, si dovrebbe avere voglia di tornare indietro? Perchè dare per scontata questa situazione di "pessimismo esistenziale"?
"E' una questione di pura e semplice sopravvivenza: Il contatto con la realtà esterna, la realtà inanimata (luce, freddo, ecc.) è ostile al bambino, che finallora se n'è rimasto immerso beatamente nel liquido amniotico.
Il contatto sessuale, stabilito attraverso la cute, con il corpo della madre, produce nel bambino appena nato, il ricordo di ciò che io chiamo inconscio mare calmo. Il meccanismo della nascita è il seguente: il bambino nasce e in lui opera immediatamente l'istinto di morte, come pulsione a ritornare nel ventre della madre: per sopravvivere, egli ha bisogno di annullare la realtà esterna, ostile, che lo circonda (fantasia di sparizione): però, nello stesso momento, si forma in lui il ricordo dell'inconscio mare calmo, e il bambino, esprimendo la propria libido, cerca un investimento sessuale nel rapporto umano: cerca la madre, il seno materno.
Se questo primo rapporto fallisce, fallisce anche l'uomo come essere sociale (secondo la definizione di Marx). Quindi depressione, schizofrenia, ecc.
Ma con questa teoria non ti pare di rafforzare la pressione che l'intera cultura dominante (maschile) ha fatto fino ad oggi sopra la donna, responsabilizzando soltanto lei dell'eventuale infelicità del figlio? L'inconscio mare-calmo, il seno materno ... Tutto dipende da noi, l'aborto - come del resto aveva scritto Pasolini - è un'aggressione all'eden pre-natale, al tuo, quindi, "inconscio mare calmo..." O no?
L'aborto è comunque un fallimento, ma il rapporto col corpo della madre è qualcosa che si stabilisce gradualmente - non prima, senza dubbio, del 180esimo giorno dal concepimento - e, ci tengo a sottolinearlo, ha importanza soltanto dopo la nascita del bambino. In questo, davvero, siamo tutti uguali, e tutti, quindi, potenzialmente felici , al contrario di ciò che diceva Freud, perchè tutti disponiamo di un identico inconscio-mare-calmo, al sicuro da qualsiasi aggressione, anche dalle eventuali nevrosi delle madri incinte...
E il rapporto col seno materno, come primo rapporto da cui dipenderanno tutti gli altri?
Non è importante che la madre allatti, è importante l'investimento sessuale della madre nei confronti del figlio: perciò una maternità felice è soltanto quella della donna realizzata sessualmente, che conosce il piacere del proprio corpo, che gioca col proprio corpo e con quello del bambino.
"Invidia, bramosia, frustrazione positiva" sono altre nozioni portanti della tua teoria. Che significano?
L'invidia non ha niente a che fare col desiderio, come diceva Freud. Ha a che fare con l'odio: la bramosia è il voler introiettare l'altro, mangiarlo, divorarlo: amore come possesso e distruzione, e quindi non-amore. La frustrazione positiva è invece un atteggiamento da assumere da parte di chiunque voglia, o debba, "fare l'analista" nei confronti di un altro: e significa saper dire no all'altro, nel suo stesso interesse. Esempio: quando il bambino infila le dita nella presa di corrente, tu lo strappi via dal pericolo; lo fai nel suo interesse, e gli dimostri, così, di avere interesse per lui.
Tu infatti l'adoperi nei tuoi gruppi di analisi collettiva; qual è l'obiettivo di questa attività?
L'analisi ha sempre come obiettivo la cura della psiche; è la trasformazione della psiche, che sottintende, nella maggior parte dei casi, la cura di essa. L'analisi è: interpretazione (strumento) - trasformazione (obiettivo) - cura (effetto).
Che significa per te "interpretazione"?
Significa che io, analista, debbo interpretare, cioè rendere esplicito il significato di ciò che tu mi porti in analisi : sogni, associazioni di idee, fatti tuoi, ecc.
Ma questo rigore - interpretare e basta, non dar consigli, non intervenire - non è in contraddizione con la tua polemica contro gli analisti che ascoltano, tacciono e intascano l'onorario del paziente?
Ma quelli non ascoltano neppure. Ricevono telefonate, pensano ai fatti proprio. Fanno, insomma, fantasie di sparizione sulla persona che hanno davanti. E questo succede perchè l'analista, spesso, è più malato del paziente: malato di invidia, di bramosia, di istinto di morte/annullamento. L'analisi buona è quella che realizza interamente il rapporto umano, per incominciare, tra analista ed analizzando...
Un altro dogma freudiano che tu stai abbattendo è quello del pagamento. I tuoi gruppi sono gratuiti. Allora non è vero quello che diceva Freud che, se non si paga, l'analisi non funziona, no riesce?
Il fatto del pagamento ha attinenza con la cura soltanto quando il rifiuto di pagare - se se ne hanno i mezzi - esprime la bramosia del paziente nei riguardi dell'analista. Se tu guadagni tre milioni al mese, e mi vuoi dare mille lire a seduta, questa tua bramosia va frustata, e me ne devi dare venti. Nella società di domani, comunque, l'analista dovrebbe essere retribuito dalla collettività e
quindi, gradatamente, scomparire.

Il Messaggero 29.3.1978
Psicanalisi e politica.
Si espande il fenomeno dell'"analisi collettiva", da noi già segnalato fin dal novembre scorso. Ma i suoi fondamenti teorici sono molto fragili. E il senso politico di questa moda è abbastanza equivoco. Vediamo perché.
Psiche e Fagioli
Di Sergio De Risio


Il corriere della sera del 12 marzo ha ripreso, con un articolo apologetico di Giuliano Zincone, il discorso su di uno psicoanalista cui già Il Messaggero aveva, nel novembre scorso, dedicato una pagina intera di interventi impostata criticamente. Massimo Fagioli, lo psicoanalista di cui si tratta, appare nell'ultima intervista di Zincone, se possibile, ancora più violento, in ogni caso ancora più deciso e preciso nel suo attacco radicale al pensiero di Sigmund Freud. Certamente eravamo già abituati al puntuale ricorrere nel tempo, con l'insistenza delle cose sciocche, di quelle mescolanze di discorsi oggi dette pasticci fraudo-marxisti: da Marcuse a Guattari, per menzionare solo i più recenti. Tuttavia Massimo Fagioli presenta caratteri di tale originalità nelle dichiarazioni rilasciate ai giornali (dal presentare Freud come un imbecille al presentare Marx come il legittimo inventore della psicoanalisi) che ci ha sollecitato il desiderio di andare a rivedere i temi della famosa trilogia che sostanzia la sua produzione: Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e il burattino, Psicoanalisi della nascita e castrazione umana.
Quali profonde innovazioni vi sono contenute, quali visioni inedite dell'uomo e dell'inconscio, tali da rimettere totalmente in questione metodologia e teoria psicoanalitiche, non solo ormai secondo lui banalmente borghesi, ma addirittura sadico-assassine? Deve essere senz'altro necessario leggere e meditare lungamente ed essere pronti ad abbracciare, se risulta ineluttabile, la "psicocosa" detta "collettiva" o "d'assemblea", giacché ciascuno avrebbe il dovere di sottrarsi, se mai vi fosse per qualunque ragione incappato, al compito di trucidazione della mente che l'esercizio della psicoanalisi rappresenta per Massimo Fagioli.. Deve essere senz'altro necessario prepararsi a spazzar via senza indugio il cumulo di imbecillità formulato da Freud e accogliere i suggerimenti di Fagioli, se ne dovessero conseguire una pratica di cura non dico più efficace ma almeno meno disastrosa, e un sistema teorico più ricco, più chiaro, più coerente.
Macché. Va subito detto che Massimo Fagioli non rappresenta nient'altro, dal punto di vista per così dire teorico, che un'aberrante mistura di teosofiche ingenuità lanciate lì senza pensarci su due volte, tra le pagine come tra le persone, in uno stile che risulta da un uso degradante della terminologia freudiana spinta fino ai confini dell'insignificanza più totale. Che dice dunque Fagioli? Che Freud è un imbecille perchè non avrebbe capito che la pulsione di morte è " pulsione attiva di annullamento"; che l'imbecillità si raddoppia perchè Freud non ha mai usato il termine fagioliano di "Fantasia di sparizione"; che il ruolo del concetto di castrazione nella teoria è troppo scomodo e che sarebbe meglio rimpiazzarlo col concetto di "Nascita"; che non esiste scissione nell'essere dell'uomo; che il "super-io" tanto varrebbe fosse chiamato per esempio "Andreotti" ( rapito anche quello, chi sa, scomparirebbe pure la nevrosi); che è importante la "separazione" da mamma e papà, e se la cosa dovesse comportare un poco di dolore, sarebbe allora opportuno sbrigarsi a diventare collettivista. La separazione infatti (egli crede di scoprire) è la dinamica fondamentale di quattro momenti: la nascita, lo svezzamento; la visione dell'essere umano diverso, la pubertà.
Che cosa ne hanno fatto, di questa separazione, Freud, Klein, Winnicott, Bion, Lacan? Non ne hanno mai parlato? Ma si, qualcuno ne ha parlato, però giocava a fare il Re, l'Imperatore, forse l'imperialista, insomma tutti si sono schierati come un esercito compatto, crudele, cieco e perfidamente mirante a trucidare ogni possibilità di nascere e di crescere; a metà strada tra la strage di Erode e l'uso del preservativo.
Solo lui Fagioli, promuove la nascita: Egli la promuove nel "collettivo".
Questo termine va dunque approfondito perchè rivela, nell'uso che Fagioli ne fa per la pratica e per la teoria, il senso esatto della sua operazione. Il Collettivo è per Fagioli lo strumento per attaccare la "scientificità", la "Teoresi", che, come in questo caso giustamente egli intravede, costituiscono la forza della psicoanalisi stessa. Nella trentacinquesima delle lezioni introduttive allo studio di tale disciplina Freud scriveva: "Il pensiero scientifico è ancora troppo giovane tra gli uomini, non ha potuto ancora risolvere troppi dei grandi problemi. Una Weltanchaung costruita sulla scienza, oltre che accentuare il mondo esterno reale, ha essenzialmente tratti negativi, come il richiamo alla verità, il rifiuto delle illusioni. Chi tra i nostri simili è malcontento di questo stato di cose, chi chiede di più per potersi momentaneamente consolare, se lo procuri dove lo trova. Noi non ce ne avremo a male, non lo possiamo aiutare, ma non possiamo nemmeno, in onor suo, pensare diversamente".
E' chiaro che Fagioli è uno di questi malcontenti, ed è un grave errore che ciò di cui ha bisogno se lo vada a cercare in maniera tanto maldestra; affogando cioè la psicoanalisi nella modalità sciatta della ideologizzazione. Che cosa tanto affanno gli consente di trovare? " La nostra dizione, realtà non materiale - scrive Fagioli - si riferisce ed intende proporre un pensare e un discorso sulla realtà dell'uomo che si costituisce come totalità". " La realtà non materiale umana - scrive altrove - una volta che sia vista e pensata come verità umana di essere per essere in rapporto con l'altro e realizzata per essere stati in rapporto con l'altro, si costituisce come essere dell'uomo totale, senza scissione di anima e di corpo, di ragione e sessualità". In sostanza dunque ciò che trova è schematicamente enunciabile così : "La prassi di essere insieme restituisce l'uomo ad una Totalità"
Credo che non valga la pena di scomodare teologia o metafisica per qualificare in qualche modo la mescolanza di osservazioni che costituiscono il corpus fagioliano: teologia e metafisica, sotto i colpi del pensare di Nietzsche o di Heidegger, rivelano una capacità speculativa che non può comunque essere ridotta a qualche accenno di farneticazione.
Per poter costituire questa credenza immaginaria nella Totalità, Fagioli abbandona la scienza, quella di Freud, "che non considera tutto, è incompleta, non ha la pretesa di essere chiusa in sé e di formare un sistema", e si lascia andare a qualche slogan alla moda. Crede che basti magari evocare il fatto che la scienza non è neutrale e pretende che questa magica formula diventi un buon lasciapassare per ogni tipo di sciocchezza. Qui è davvero l'anti Freud.
Il progetto freudiano infatti mina, pur nella sua gigantesca compattezza, metodicamente ogni tentativo di "totalizzazione". La struttura della metodologia freudiana si presenta come continuamente costruibile, anticipando di fatto alcune delle formalizzazioni più importanti della moderna epistemologia circa lo statuto della scienza. Se quest'ultima, e con essa la psicoanalisi, ha da tempo abbandonato le ingenue fantasie positiviste, non è certo per cadere nelle subdole reti di un nuovo Tutto inesistente. Si capisce bene, a questo punto, perchè Fagioli intende liquidare in psicoanalisi i concetti di castrazione, di limite, di mancanza, e ammorbidire in modo completamente narcisistico il difficile problema di ciò che Freud designava come " Narcisismo Primario"
Vale ora la pena di chiedersi in che rapporto stanno le idee così tracciate di Fagioli con la pratica della cosiddetta " psicoanalisi di assemblea". Cosa vi vanno a desiderare i giovani della Nuova Sinistra, cosa lo stesso Fagioli? "Cercano tutto " si potrebbe dire parafrasando un altro slogan di ormai decennale memoria. Cercano tutto, senza fare niente, se non qualche esercizio spirituale. Incapaci di risolvere vere e proprie frustrazioni nate da un certo impegno nel politico, si ritrovano insieme a lamentare. Sono seicento? Data la natura delle cose direi che sono ancora pochi: è assai probabile che diventino presto di più. Quanti sono oggi coloro che cercano, per riprendere Freud, di potersi momentaneamente consolare?
Un'ultima parola sul tipo di legame che probabilmente tiene uniti assemblearmente seminarista e seminarizzati. In Psicologia della masse e analisi dell'Io, fin dal 1921 veniva messo in primo piano il ruolo specifico del capo nel contesto di qualsivoglia formazione collettiva. Il capo va ad occupare, nel soggetto, il posto dell'ideale. Come è noto, innamoramento e ipnosi sono le condizioni che Freud sinotticamente o in parallelo pensava di evocare, ed è già di per sé più che significativo. Più tardi Bion mostrava come questo posto di capo o leader, qualora fossero sufficientemente sviluppati un vertice ed un'attenzione analitica, si rivelasse prezioso osservatorio delle tensioni interne alla formazione collettiva e delle tensioni tra la formazione collettiva e il leader stesso. Si poteva cioè sviluppare, con il concorso collettivo, una funzione analitica nel gruppo. Cosa accade dove vertice ed attenzione analitica sono così palesemente soppiantati? Personalmente propendiamo per l'ultima ipotesi che Guarini indicava nell'intervento da lui dedicato all'argomento, quella più derisoria: Il politico che rispunta, travestito da Psicomante, proprio nel luogo in cui il gregge, forse senza saperlo, progetta di abolirlo!

Corriere della Sera 9.3.1978
Psicoanalisi d'assemblea all'Università
A Roma è scoppiato l’anti Freud
di Giuliano Zincone


Roma – "Ho sognato che rimproveravo mio figlio. Poi stiravo un suo grembiule, usando acqua distillata, e il grembiule diventava un fazzoletto. Cambia scena, ci sono dei bambini che giocano. Parlo con uno di loro, il suo muco mi va in bocca. Penso alla nascita". Siamo in un’aula dell’istituto di psichiatria dell’università di Roma, assistiamo a uno dei tre seminari settimanali tenuti dal professor Massimo Fagioli. La stanza è affollata da duecento persone, arrivate con due ore di anticipo per assicurarsi i posti migliori. Per curarsi collettivamente, raccontando i propri sogni, Fagioli risponde: "Tu annulli la nascita. Al tuo bambino dai un fazzoletto per piangere, invece di dargli investimento sessuale (interesse). La madre tenta sempre di annullare la nascita, l'Io del bambino". Gli analizzandi sono quasi tutti giovani: studenti, psicanalisti in crisi, casalinghe, gente del cinema, intellettuali. I seminari sono gratuiti, il metodo analitico è fondato sulle teorie di Massimo Fagioli, contenute nei suoi tre libri, Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e il burattino. Psicoanalisi della nascita e castrazione umana (Ed. Armando), Freud non è solo rifiutato, ma severamente sbeffeggiato. Senza il minimo riguardo, Fagioli lo definisce come "il vecchio imbecille sadico". Jung, invece, è paragonato a un "manicomio medioevale". I pazienti vengono da esperienze di estrema sinistra, molti sono tuttora militanti. Il loro atteggiamento, nei seminari, non manifesta, in genere, disturbi gravi o disperazioni, ma una specie di ansietà, una scontentezza profonda e diffusa. La fame di benessere mentale sta diventando un fenomeno di massa, tra i giovani e gli intellettuali delle nostre città. Le radio private trasmettono sempre più spesso conversazioni, sfoghi, interpretazioni selvagge dei sogni. Si moltiplicano i gruppi d'incontro, i gruppi reichiani, si importa dall’America la "terapia dell’urlo", la "terapia del contatto". Le istituzioni psichiatriche sono screditate, i movimenti dell’antipsichiatria, i "manicomi aperti", oscillano tra la negazione della malattia mentale e la ammissione della propria impotenza. Molti psicoanalisti confessano candidamente di non credere nell’efficacia terapeutica del proprio mestiere. Fagioli, invece, ci crede. Ha comunicato nel 1975 questo lavoro all’università, con un piccolo seminario per colleghi sfiduciati. E adesso ha in cura tre grossi gruppi, seicento persone in tutto, legate a lui (e tra di loro) dalla voglia di liberarsi della "corazza caratteriale" del "linguaggio della razionalità cosciente" di "debellare le tre streghe che rendono pazzi gli uomini: "invidia, bramosia, fantasia di sparizione" e di riscoprire il proprio Io, "l’inconscio mare calmo". La famiglia e la coppia, istituzioni che i rotocalchi danno per sepolte, sono al centro dei sogni e delle ansie degli analizzandi: Le interpretazioni di Fagioli tentano costantemente di recuperare i racconti e le preoccupazioni individuali alla dimensione collettiva, al rapporto con l'esperienza analitica e col gruppo. "Sogno che la mia ragazza è incinta". Nasce un bambino. I preparativi per il parto comprendono l’uso di sacchi di plastica: dentro ci mettiamo carne, latte". Risponde Fagioli:" All’inizio non riuscivi a capire il lavoro di analisi, perché l’analisi è frustrazione. Ma non è vero che non hai capito: il bambino è nato. Vorresti metterlo nella plastica, come per dire che non ha un Io. E invece lo ha: il vecchio Imbecille (Freud) non ci convince. Ti fa rabbia che il bambino, cioè l'Io, venga fuori a tuo dispetto. Ma in una situazione di analisi collettiva è proprio così: che tu lo voglia o no, l’inconscio reagisce". Un altro giovane: "Per motivi materiali mi riesce difficile separarmi dai miei genitori. Tento di farlo, ma con odio e desiderio di vendetta": Fagioli: "No, l’odio e la rabbia li hai nei nostri confronti, perché il seminario ti impedisce di fare i tuoi giochetti furbastri". Certo, per un osservatore esterno, molte allusioni (come questa sui "giochetti furbastri") sono incomprensibili. Chi partecipa, invece, non solo capisce tutto, ma stabilisce con gli altri dei rapporti molto particolari, fino a sognare soggetti analoghi. Alcuni analizzandi provano a mettersi (o a rimettersi) in proprio, a "curare" a pagamento altre persone. Ma incorrono nella scomunica: con estrema durezza, Fagioli accusa in pubblico i rei confessi di seminare ansia e paralisi nella assemblea, di derubare e rovinare i loro "pazienti". Ecco un’analista selvaggia ammettere in lacrime la propria colpa: "La settimana scorsa hai detto cose terribili sul mio conto. Ho sognato tanto sangue che usciva da tutte le aperture del mio corpo". Fagioli le risponde seccamente di restituire alle sue vittime i soldi che ha rubato. "I miei genitori si separarono quando avevo quattro anni – racconta una ragazza -. Mio padre sparò a mia madre, tentò di uccidere anche me, mi rincorse con una pistola. Adesso sogno ancora che mio padre vuole uccidermi. Sogno un bambino sgozzato. Molto sangue. Sogno che un giudice mi chiede di raccontare i momenti belli della mia vita. E io mi sento in colpa: non posso rispondere, perché di momenti belli non ne ho avuti mai". Interpreta Fagioli: "il bambino sgozzato è l’Io. Per recuperarlo devi superare l’identificazione con tuo padre e con tua madre. Devi mettere la tua storia personale in un discorso sociale, in un rapporto. Non sei sola. Molti padri, molti psicoanalisti tentano di ammazzare i figli, pazienti". Prevalgono nei seminari, la fede nel maestro e l’ansia di esserne gratificati. Ma ci sono anche casi di scetticismo. "Massimo, mi chiamo Emilia, devo assolutamente parlarti. E’ la prima volta che vengo, non mi convinci, a sentire tutti questi sogni non mi sono divertita per niente…..". La interrompe un’altra donna, piangendo: "Quando neghi il ruolo di Massimo uccidi i bambini. Ho sognato che ero a Parigi, in una situazione di post-sessantotto, al pronto soccorso, vedo una testa e le tolgo il cervello. Ho fatto cose tremende nella realtà materiale, faccio male ai bambini, lunedì scorso mi hai detto quel che mi merito, mi sono sentita una delinquente, e mia figlia mi dice sempre vaffanculo. L’unico che aiuta sei tu". Il marito di questa signora è riuscito a scrivere una sceneggiatura e lei lo invidia. Il giorno dopo, Fagioli dirà al marito: "Ieri tua moglie Caterina ha avuto una crisi di invidia nei tuoi confronti. Lei non ammette che una persona possa realizzarsi, fare progressi". No, Fagioli non è certo un analista permissivo, non usa la bacchetta magica per far sparire i sentimenti di colpa dei pazienti. Ma questa, forse, è una delle cause del suo successo, nei confronti di un gruppo sociale per il quale la contestazione del principio d’autorità ha coinciso con la caduta di un intero sistema di valori. A noi sembra che (al di là dei suoi compiti specifici) Fagioli interpreti in modo piuttosto "contemporaneo" un ideale di società fraterna (non gerarchica) capace di darsi discipline e regole del gioco orientate verso finalità comuni. "Bisogna prima far l’amore con la madre, e poi uccidere il padre", dice Fagioli, capovolgendo la storia di Edipo. Il che significa (se interpretiamo correttamente) che, prima di abbattere l’autorità, è necessario esser certi della propria identità e dei propri fini. Molti giovani e molti intellettuali, orfani di utopie e delusi dall’azzeramento culturale generato dalle loro esperienze recenti, vogliono sentirsi dire proprio questo. E, in attesa della "società fraterna" accettano di buon grado l’autorità ("liberante" ma ben presente) di Massimo Fagioli. Parliamo col professore. E’ molto severo. Condanna l'omosessualità ("è annullamento, è legata alla pulsione di morte"), condanna la masturbazione ("è fantasticheria sadomasochista"), condanna i suoi colleghi che negano il loro ruolo ("ma poi ricorrono ai farmaci"). "Io – dice – credo nella cura, credo nella conoscenza e nella trasformazione, come Marx. Individuo le dimensioni disumane (indifferenza, invidia, bramosia) e le frustro. La frustrazione genera interesse, desiderio di cambiare, di guarire. Con l’analisi collettiva il salto di qualità è enorme, il lavoro è molto più efficace. Ma alla base ci sono le mie teorie. Io ho avuto il coraggio e la capacità di rifiutare Freud, l’imbecille che non aveva capito niente, che era al livello di un medico che crede che il fegato sia nella coscia sinistra". La teoria di Fagioli è abbastanza complicata da riferire. L’analista ce ne offre uno schema: "La malattia mentale non è congenita. Tutti gli uomini nascono sani. Trasformano l’esperienza materiale del loro rapporto col liquido amniotico in "inconscio mare calmo". La prima fantasia-ricordo (Io) è l’inconscio mare calmo che corrisponde a interesse e desiderio. Questo sentimento dovrebbe trovare risposta nella madre, che invece non lo soddisfa. Anzi, la madre tratta il bambino con fastidio, come un oggetto vile da plasmare, educare. Il desiderio infantile di ricevere latte e interesse diventa delusione. Il desiderio delusione si scinde in odio, rabbia, invidia, bramosia. Genera rapporti sadomasochisti o indifferenza. Eliminare l'indifferenza e frustrare il sadomasochismo porta alla scoperta dell’inconscio mare calmo, al recupero dell'Io, alla guarigione". Una teoria come questa, fondata sui "rapporti", privilegia necessariamente la dimensione collettiva e sociale. "Per me – dice Fagioli – non c’è sessualità senza socialismo, e non c’è socialismo senza sessualità. La società borghese è masturbatoria, divide nettamente il comportamento pubblico da quello privato. Nella società borghese, uno può essere un buon cittadino anche se violenta la moglie e picchia i figli, basta che rispetti il codice penale. Ci si meraviglia se i bambini diventano pazzi. Ecco, questa cose bisogna combatterle, non rassegnarsi, non assumere un atteggiamento consolatorio. Un analista che consola, condanna a morte il paziente. Viviamo in una società dove la famiglia ha ancora un enorme potere distruttivo, dove c’è una miseria sessuale tremenda. La gente, a casa, si annulla, assume dei ruoli astratti: i genitori, i figli, non sono più persone con le quali stare bene, ma autorità, sudditi, maschere"" Fagioli è severo anche con quei gruppi di psichiatri che privilegiano l’azione politica rispetto alla terapia. "Loro – dice – pensano che tutti i mali vengano dalla società e che quindi o si fa la rivoluzione o non si può curare nessuno E invece non è vero, non è automatico che tutto si aggiusti, dopo aver risolto i problemi politici ed economici. Ci vuole un interesse specifico per la dimensione psichica. Questo è il nostro compito. La trasformazione politica spetta ai partiti di sinistra. E, nel frattempo, rassegnarsi è un delitto, bisogna lavorare nonostante le istituzioni, nonostante la società. Altrimenti si finisce in un vicolo cieco: devo fare la rivoluzione perché la società mi condiziona, ma siccome la società mi condiziona non posso fare la rivoluzione. Troppo comodo". G. Zi.


l’Unità 22.3.11
Bersani presenta a sindacati e imprese il Piano per la crescita che verrà recapitato a Tremonti
Da Confindustria a Cgil preoccupazione per l’inerzia dell’esecutivo di fronte alla crisi
Camusso sul documento «Bene sull’occupazione femminile, più spazio alle politiche sociali»
Economia, il Pd sfida il governo «Pronti a discutere le riforme»
Bersani illustra alle parti sociali il Piano di crescita del Pd: «Ora pronti a discutere in Parlamento di riforme economiche». Camusso: «Bene sull’occupazione femminile, ma rafforzare la parte sulle politiche sociali».
di Simone Collini


«Noi siamo pronti a discutere in Parlamento di riforme economiche, se si vogliono fare sul serio». Pier Luigi Bersani lo dice al termine di un incontro a porte chiuse con i vertici di Confindustria, Confcooperative, Cgil, Cisl, Uil e altre associazioni di imprenditori e di lavoratori. Un appuntamento voluto dal leader del Pd per illustrare alle parti sociali il Piano per la crescita e le riforme messo a punto dal suo partito. Novanta pagine che spaziano dalle proposte di riforma fiscale a quelle per il rilancio della politica industriale, dal lavoro alle pensioni, dalla Green economy al Mezzogiorno, e che sebbene il responsabile Economia del Pd Stefano Fassina definisca «un contributo» al Piano che dovrà presentare a Bruxelles entro metà aprile il nostro governo (così come quelli di tutti gli altri Paesi Ue) è «alternativo» alle politiche del centrodestra e costituisce una sfida lanciata a un esecutivo che, denuncia con «preoccupazione» Bersani, «non si occupa di lavoro, redditi, servizi». Questioni, dice il leader Pd, «rimaste senza presidio» e che andrebbero invece urgentemente affrontate da un paese come il nostro che è «uno di quelli maggiormente indebitati e con le prospettive di crescita più lenta di tutta l’Ue».
PIANO ALTERNATIVO
Tra le proposte contenute nel documento c’è, a livello europeo, l’istituzione di un’agenzia per il debito che acquisti i titoli dei paesi comunitari ed emetta eurobond garantiti in modo collettivo, un piano europeo di investimenti per l’occupazione e una tassa sulle transazioni finanziarie. Sul piano nazionale, il piano del Pd sottolinea la necessità di aumentare il tasso di occupazione femminile (dall’attuale 47% al 60% in dieci anni con l’obiettivo di 3 milioni di donne occupate in più) e su una maggiore specializzazione produttiva del paese, ammortizzatori sociali sia per i contratti a termine che per quelli a tempo indeterminato ed incentivi alle aziende che puntano su efficienza energetica e rinnovabili. Tutte proposte che verranno fatte recapitare al ministro Giulio Tremonti e su cui il Pd è pronto ad aprire un confronto in Parlamento: «Da molti mesi chiediamo al governo una discussione sull’economia e ci proveremo anche adesso dice Bersani ma non dò eccessiva fiducia al governo perché c’è una totale distrazione sui questi temi».
LE PARTI SOCIALI APPREZZANO
Chi non si distrae su queste questioni sono le associazioni incontrate a Roma dai vertici del Pd. Un po’ tutti apprezzano la volontà dei Democratici di aprire con loro un confronto sulle proposte di riforma (con il segretario dell’Ugl Giovanni Centrella che ringrazia anche il Pd perché «è rimasto l’unico partito che ascolta tutte le confederazioni»). Ma che a parlare sia il segretario della Cgil Sussanna Camusso o la vicepresidente di Confindustria Cristiana Coppola, la preoccupazione per la situazione economica dell’Italia si fa sentire. Camusso condivide che in Europa «manchi una politica per la crescita» e anche il ragionamento del Pd sull’occupazione femminile come «strumento che determina di per sé occupazione e ulteriore crescita». Il segretario Cgil esprime però perplessità sulla specializzazione produttiva («è giusta ma non sufficiente») e dice che nel documento del Pd occorre «rafforzare la parte che riguarda le politiche sociali». Il segretario della Uil Luigi Angeletti sottolinea la «convergenza sull’esigenza di fare riforme su lavoro e fisco» mentre il segretario confederale della Cisl Maurizio Petriccioli chiede al governo «che il necessario rigore dei conti pubblici sia coniugato con una politica di crescita». Quanto alla vicepresidente di Confindustria Coppola, nel suo intervento fa notare che se non ci saranno cambiamenti nei piani nazionali di riforma fin qui prospettati dai diversi governi europei, «l’Italia rischia di ritrovarsi alle ultime posizioni delle graduatorie in tutti gli indicatori». In particolare a meno di sostanziali modifiche nel 2020 il nostro paese sarà quello che destina la quota minima di investimenti su ricerca e sviluppo, dopo Cipro e Malta.

l’Unità 22.3.11
Il male minore
di Luigi Manconi


Nella società del rischio, può accadere di trovarsi sotto ricatto. Può succedere più di una volta nell’esistenza del singolo così come nella vita sociale. E può capitare che il ricatto fisico – l’intimidazione, la pressione intollerabile, attuata con mezzi coercitivi che limitano la libertà e l’autonomia – si intrecci a quello ideologico o morale. È lecito pagare un riscatto per una persona cara quando so che, così facendo, alimento il mercato dei sequestri? È indispensabile sapere che non esistono soluzioni semplici né vie di uscita lineari. Ed è altrettanto indispensabile capire che non è possibile restare innocenti né scegliendo una strada né optando per quella in apparenza opposta. Bombardare Tripoli significa – anche provocare danni incalcolabili e causare vittime civili.
Non bombardare Tripoli significa – anche – non impedire (= consentire) che Muammar Gheddafi, porti a compimento il massacro degli oppositori. C’è una “terza soluzione”? Oggi non so, ieri certamente sì. Ma andava perseguita per tempo, molte settimane fa. Una soluzione che prevedesse il riconoscimento degli insorti, il sostegno alla loro mobilitazione, il ricorso a tutti gli strumenti di pressione nei confronti del regime, una intelligente politica delle sanzioni, un’opera di isolamento internazionale attraverso il coinvolgimento di paesi arabi e africani e – so di scandalizzare o di passare per ingenuo l’offerta di una via d’uscita tramite la concessione di un salvacondotto e la possibilità dell’esilio (ciò che non venne fatto e che forse si sarebbe potuto fare per Saddam Hussein). Di tutto questo, nulla è stato nemmeno tentato. Per più ragioni, e una riguarda direttamente l’Italia. Nel 2008 il nostro Paese ha firmato un Trattato di amicizia con la Libia, che traduceva il progetto iniziale del Governo Prodi in un dispositivo prevalentemente finalizzato a una politica di “contrasto all’immigrazione”. Sta qui l’origine del disastro.
Risarcimenti abnormi e cooperazione industriale, forniture d’armi e mercato dell’energia: come merce di scambio, il pattugliamento congiunto del Mediterraneo, i campi profughi in Libia, il blocco delle partenze dalle coste africane, la strage di migranti nel deserto. Tutto ciò senza che alla Libia venisse chiesto un solo atto di rico-
noscimento formale e sostanziale dei diritti universali della persona, della tutela dell’incolumità dei migranti e dei profughi, delle convenzioni internazionali a presidio della dignità umana. In assenza di tutto ciò l’Italia ha chiesto solo un’opera di polizia, esercitata sempre con rigidità e talvolta con efferatezza, “nella piena cooperazione” tra le forze di sicurezza di un regime dispotico e quelle di un sistema democratico.
Si trattava di un’operazione di facciata crollata dopo diciotto mesi e comunque resa vana dal fatto che i flussi di migranti si ingrossassero e scegliessero rotte diverse da quelle per Lampedusa. Ciò ha consentito al ministro Maroni di dichiarare “sbarchi zero”, senza indicare quanti, nel frattempo, fossero approdati in Calabria o in Puglia, e quanti fossero morti in mezzo al mare e nel deserto. È questo che evidentemente, ha impedito all’Italia di adottare quella “terza soluzione” prima indicata, e di svolgere quel ruolo quando sarebbe stato possibile esercitarlo. Ma oggi, nella situazione ormai precipitata, è ancora giusto invocare il ricorso esclusivamente a strumenti diversi da quelli militari? È ancora possibile evitare di rispondere con la forza alla forza? È attuabile una strategia interamente affidata a mezzi politici e diplomatici? A me non sembra più tempo. E, dunque, si impone quel principio fondamentale, così elementare e ragionevole e, insieme, così eticamente fondato, ancorché terribilmente doloroso, che è il “male minore”. Possiamo, sì, continuare a batterci perché politica e diplomazia prendano il posto delle armi, ma a patto di sapere che ogni secondo che passa aumenta la possibilità di Gheddafi di fare strage del suo popolo.
Si può dire: preferisco che la strage si compia, con le sue conseguenze, piuttosto che arrendermi alla guerra e a ciò che la guerra porta con sé. Nell’un caso come nell’altro, non avremo salvato l’anima e saremo corresponsabili, anche solo per impotenza o ignavia, di nuovi morti. Ma una scelta va fatta. E io scelgo il male minore.

il Fatto 22.3.11
La giornalista contro la linea del suo “manifesto”
Rossanda: “Le armi? Colpa di Gheddafi”
di Wanda Marra


“Solidale” con chi cerca di liberarsi di Gheddafi, ma d’accordo con Gino Strada quando dice “che la guerra non bisogna farla mai”. Rossana Rossanda nel suo ragionamento tiene insieme la complessità di molti che sono stati pacifisti “senza se e senza ma”. Nel 1999, mentre la sinistra si schierava con l’intervento in Kosovo, dichiarava al Corriere della Sera: “Se si arriverà a un intervento di terra nel Kosovo, inviterò alla diserzione e me ne assumerò tutte le responsabilità”. Ma questa volta la Rossanda, fondatrice del Manifesto, è entrata in aperta polemica con la linea del suo giornale, più morbido con il Rais. Scriveva il 9 marzo: “Al Manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia   né uno Stato progressista... mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto”. In feroce contrapposizione Valentino Parlato, altro vate del quotidiano, che parlava di una “guerra veterocolonialista” e si spingeva a dire: “Tratterei   con Gheddafi subito e tenterei di mantenere i privilegi dei nostri accordi”. Lei, la Rossanda, insisteva: “Ma chi, se non l’ottusità di Gheddafi, è responsabile se l’opposizione è diventata aspra, scinde la Cirenaica, cerca armi e il conflitto diventa guerra civile?”.
Sono in molti in questo momento a trovarsi su posizioni opposte a quelle che ci si aspetterebbe. “Dubbi” arrivano da Giuliano Ferrara a Roberto Formigoni, ad Alfredo Mantovano. Contrarietà netta da Sgarbi e no di Calderoli. “Guerra da matti” titolava ieri Libero. Convintamente per l’intervento invece Paolo Flores d’Arcais (che era in prima linea a sfilare per la pace nel 2003). E Bersani detta la linea del sì al Pd.
Rossanda, qual è la sua posizione   sull'intervento in Libia?
Sono solidale con le forze che cercano di liberarsi da Gheddafi. Ha rappresentato un progressismo nei confronti della monarchia ma da tempo non è che il leader di un gruppetto autoritario e dispotico.
Crede alle ragioni dell'intervento umanitario?
No. Non conosco interventi di guerra umanitari.
C'era un’altra soluzione che non fosse la guerra?
Certo che c’era. Si trattava di dare, prima di tutto da parte delle sinistre europee, solidarietà alle forze che esprimono i bisogni sociali e di democrazia politica nei paesi arabi, che l’Europa sembra ignorare del tutto. E si trattava anche di accogliere, da parte della società civile e politica, le domande di aiuto con denaro   e mezzi e forse anche con la partecipazione di qualcosa di simile a quelle che erano state le brigate internazionali. Non degli eserciti.
Gino Strada ha detto al “Fatto”: si è lasciato che la situazione si incancrenisse, ma la guerra non bisogna farla mai. Lei è d'accordo?
Del tutto.
Come mai il movimento pacifista tace?
Non saprei dirlo. Si spiega solo con il ripiegamento individualista su se stessi che è proprio delle folle e delle opinioni pubbliche di tutto il nostro continente, e del quale è un elemento minore la recente vetta di astensionismo raggiunta nelle elezioni francesi di novembre.
È vero che l'opinione pubblica è addormentata? 
Io non sono una sostenitrice del ruolo decisivo dell’opinione pubblica, che è più sensibile ai problemi dell’onestà e della legalità che alle priorità politiche e sociali in senso proprio. Le tv e i governi che direttamente o indirettamente   la dirigono fanno di tutto per spostarla fuori dal terreno politico in senso proprio. Penso che una sinistra seria potrebbe risvegliare la parte più sana, che esiste ancora, di una società oggi avvilita.

il Riformista 22.3.11
«Non vedo scontri di civiltà Il futuro è di chi non ha passato»
Paolo Branca. Per l’islamista non c’è nessun conflitto di valori culturali in atto. «Le popola- zioni, soprattutto quelle giovani, stanno rea- gendo a regimi fondati sull’esclusione sociale»
di Davide Cadeddu

qui
http://www.scribd.com/doc/51282796

La Stampa 22.3.11
Guerre Usa. Rivelazioni
Sullo «Spiegel» foto choc: “Un’altra Abu Ghraib”
Afghanistan 2010: soldati americani uccidono civili indifesi. Accuse e critiche al presidente Obama
di Francesco semprini

Sullo «Spiegel» I reporter tedeschi hanno trovato circa 4000 video con cui si documentava l’orrore

Sono bastate poche ore perché le immagini apparse su Der Spiegel si trasformassero nell’Abu Ghraib di Barack Obama. Un’altra pagina buia della storia militare americana. Si tratta di foto che ritraggono i militari statunitensi in Afghanistan mostrare come trofei i corpi di civili uccisi senza motivo. Tre scatti definiti dagli stessi vertici del Pentagono «ripugnanti», destinati ad alimentare le tensioni tra Washington e Kabul e diventare un’arma di propaganda per le milizie talebane.
I protagonisti delle fotografie pubblicate il 20 marzo del magazine tedesco, sono membri del «Kill Team», tristemente noti per le loro gesta inumane. Der Spiegel ha coperto i volti dei cadaveri per evitare che le loro espressioni di morte fossero visibili, ma le facce dei soldati e i loro visi quelli pieni di sadico compiacimento sono chiari. Lo squadrone della morte, composto da militari statunitensi, è stato accusato di aver ucciso civili indifesi in maniera indiscriminata. Cinque soldati provenienti dalla 5 Striker Brigade della 2 Infantry Division, con base nello Stato di Washington, saranno giudicati dalla corte marziale per l’omicidio di tre persone. Altri sette membri sono accusati di crimini meno pesanti. Lo squadrone inscenava finti combattimenti per attaccare a caso afghani inermi con armi e granate. La vicenda è venuta alla luce grazie a un altro soldato che ha informato un ispettore dell’esercito di quanto stava avvenendo pagando sulla sua stessa pelle visto che è stato picchiato dai suoi commilitoni per «averli traditi».
Gli episodi avvenuti nel distretto di Maiwand, a Kandahar, una delle province a più alta intensità taleban, sono stati documentati con foto scattate dagli stessi membri del «Kill Team», le stesse apparse due giorni fa per la prima volta in Germania. Una delle immagini ritrae il soldato Jeremy Morlock, di Wasilla, in Alaska, posare con volto sorridente vicino a un afghano morto, il cui corpo quasi completamente nudo è coperto da sangue. Morlock alza per i capelli la testa della sua vittima come fosse un trofeo: ora deve rispondere di omicidio. Un altro scatto immortala il soldato Andrew Holmes inginocchiato accanto allo stesso cadavere. Su di lui pende lo stesso capo di imputazione. Una terza immagine mostra invece due civili afghani senza vita i cui corpi sono appoggiati sulla schiena uno accanto all’atro, le braccia distese sul suolo e intorno vestiti macchiati di sangue. Dell’esistenza delle foto ne avevano parlato gli avvocati difensori di alcuni soldati ma la loro pubblicazione era stata vietata, non si capisce infatti come Der Spiegel ne sia venuto in possesso.
Gli scatti hanno riportato subito alla mente quelli della prigione di Abu Ghraib, in Iraq, dove alcuni soldati americani si resero responsabili di torture nei confronti di prigionieri iracheni. Il tutto con una vasta documentazione fotografica venuta alla luce nel 2004, creando dure proteste specie tra il mondi islamico e andando a incidere sulla popolarità dell’ex presidente George W. Bush e della sua guerra nel Golfo. E mentre già si parla di «Abu Ghraib di Obama», diplomazia e vertici militari Usa assicurano che i responsabili saranno puniti. «L’esercito degli Stati Uniti si impegna a rispettare il codice di guerra, i diritti umani e le disposizioni sul trattamento dei combattenti, dei non combattenti e delle vittime - spiega il Pentagono in una nota -. I militari che si rendono responsabili di violazioni e comportamenti offensivi saranno trattati nella maniera appropriata».
"Si apre in questi giorni il processo per omicidio nei confronti di cinque soldati L’esercito si è scusato «Scene ripugnanti in contrasto con i valori della US Army»"

Repubblica 22.3.11
Fine vita, una legge che sa di muffa
di Aldo Schiavone


Non c´è, per gli umani, esperienza più soggettiva e incomunicabile della morte: ma insieme anche più condivisa. Questo doppio statuto - il massimo dell´impenetrabilità per il massimo della diffusione - contribuisce ad avvolgerla in un paradosso d´ombra che sempre si rinnova, e da cui non si esce. Ma non è solo un grumo pietrificato nell´immobilità, la morte. Per attenuare l´impatto emotivo della sua presenza, la fantasia mitico religiosa di molte civiltà ha spesso cercato di distendervi sopra immagini meno dure, che racchiudessero almeno un punto di luce. Fra le più comuni, quelle del viaggio, della partenza: con acque da attraversare e nocchieri da ricompensare, fino alle parole struggenti del Vangelo di Luca - «Ora lascia che il tuo servo vada, Signore… Nunc dimittis servum tuum, Domine», o al congedo misterioso e incantato di Socrate dai suoi giudici, nell´apologia platonica.
È anche storia, dunque, la morte. Storia delle emozioni che induce; storia delle pratiche - tecniche e sociali - che l´accompagnano e ne definiscono la condizione. Ebbene, è proprio questo punto capitale - della storicità del morire - quello che lo sgangherato disegno di legge sul cosiddetto testamento biologico più colpevolmente ignora, con conseguenze culturalmente e normativamente disastrose. I nodi che vengono al pettine sono due, ed entrambi decisivi: quello della pretesa "naturalità" della morte, e quello della "indisponibilità" assoluta della vita: la loro combinazione determina la cornice ideologica che fa da supporto all´intero testo. Ma è un quadro sbagliato, prima che inaccettabile.
L´idea che domina i nostri legislatori è ancora quella secondo cui «una persona non debba morire prima che la sua vita sia giunta al suo termine naturale». Ma basta riflettere con un po´ d´attenzione non prevenuta per rendersi conto che la "naturalità" di questo confine già non esiste più. La medicalizzazione della morte - un fenomeno imponente degli ultimi decenni - lo ha letteralmente divorato. In realtà, è l´intera base biologica delle nostre esistenze a essere ormai - sin dalla nascita - completamente attraversata dall´artificialità della tecnica: che aiuta, sostiene, corregge, modifica, protegge. E questo intervento integratore e manipolatore si moltiplica nella fase terminale della vita - quando essa non si consumi in un lampo - che risulta pervasivamente scandita in ogni sua vicenda unicamente dall´efficacia delle tecniche in campo. La "naturalità" è completamente perduta: sopravvive solo come ideologia consolatoria e deresponsabilizzante. Al suo posto c´è - e ancor più ci sarà nell´immediato futuro - un intreccio inestricabile fra naturale e artificiale, fra "techne" e "bios", nel quale non è che la scelta della ragione, senza alcun canone esterno a lei, a poter individuare una soglia, un limite (provvisorio) da non oltrepassare.
E dunque, non c´è alcuna "natura" da ascoltare, che possa farci da guida - e per fortuna, va aggiunto: perché "secondo natura" quasi tutti noi non ci saremmo da un pezzo. La verità è che la tecnica ci permette, e sempre di più ci permetterà in futuro, di prolungare - anche in modo indefinito - stati di fine vita accompagnati o meno da forme di coscienza. Raggiunto questo punto, siamo già comunque oltre ogni "naturalità" dell´umano. E sarà solo una decisione interamente umana - che non avrà nulla a che fare con il rispetto di una "natura" che in quel momento non esiste più - a poter stabilire se e quanto far durare una simile condizione, tutta sotto il dominio dell´artificiale. Il resto, son soltanto sofismi (e ne abbiamo sentito di degni della migliore tradizione, come quando si vorrebbe distinguere fra alimentazione forzata e terapia farmacologica).
Ma allora chi è che decide, e come? (ed è il secondo punto di cui dicevo). È evidente che intorno a questo nodo si combatte una battaglia di potere di importanza primaria; la Chiesa si è impadronita da millenni dei due punti chiave del nostro percorso di vita: l´ingresso e l´uscita - come nasciamo e come moriamo - e non vuole abbandonarli, cercando ora in qualche modo di tenere insieme medicalizzazione e teologizzazione della morte. Il suo cavallo di battaglia è adesso costituito dall´idea della sacralità della vita - della sua totale "indisponibilità" da parte di chiunque - che mai finora era stata enunciata con tanta determinazione, tenuto conto che in passato le gerarchie cattoliche non avevano esitato a far comminare la morte (dal proprio "braccio secolare") in caso di gravi devianze religiose, avevano teorizzato la guerra "giusta", e avevano ammesso la condanna capitale nell´ordinamento giuridico che reggeva la sovranità temporale del papato, fino al 1870.
Non ho difficoltà ad ammettere che trovo la novità di questo principio - la sua carica "rivoluzionaria" rispetto all´insieme della nostra storia - un passo avanti decisivo nella strada dell´incivilimento umano. Ma di quale "vita" qui si parla? Di un puro guscio biologico affidato alle macchine, ormai privo di qualunque funzione riconducibile al pensiero? O anche di stati di coscienza artificialmente prolungati al costo di sofferenze giudicate insopportabili da chi le patisce? Nelle condizioni attuali delle tecnologie mediche, non c´è altra strada che stabilire ancora una volta limiti e confini, dettati solo dalla ragione dal buon senso, oltre i quali il principio dell´"indisponibilità" della vita, estremizzato per motivi solo ideologici, si rovescerebbe tragicamente nel suo contrario - nella condanna al prolungamento di uno stato intermedio fra la vita e la morte che, esso sì, non avrebbe più nulla di umano - se non fosse temperato da un´altra regola, che chiamerei di "autodeterminazione ai margini", affidata alla volontà del soggetto in gioco. Altrimenti, molto meglio nessuna legge che un pasticcio che sa solo di potere e di muffa.

Repubblica 22.3.11
Un saggio dello psicanalista Benvenuto su com'è cambiata la percezione sociale
Perché essere gelosi non va più di moda
"L'ossessione dell'esclusività è caduta in disgrazia, sembra un lugubre retaggio del passato. Così la possessività si rivela più per quel che si fa che in quel che si sente"
di Luciana Sica


ome geloso - scrive Roland Barthes - soffro quattro volte: perché sono geloso; perché mi rimprovero di esserlo; perché temo che la mia gelosia ferisca la persona che amo; perché cedo a una banalità». Nei Frammenti di un discorso amoroso, alla fine degli anni Settanta, il critico francese inserisce la figura della gelosia in una sentimentalità "oscena". Eppure quel desiderio di possedere la persona amata - condito dal timore, il sospetto, la certezza della sua infedeltà - non è scomparso, neppure in questo tempo che qualcuno ha chiamato delle "passioni tristi".
«Nel deserto degli affetti di oggi, la possessività è anche più imbarazzante e in genere viene rimossa, schivata, occultata, dissimulata...»: a dirlo è lo psicoanalista Sergio Benvenuto, che a La gelosia ha dedicato un libro in uscita per il Mulino (pagg. 136, euro 9,90). "Impulso naturale o passione inconfessabile?", già il sottotitolo rende problematico un tema che l´autore ripensa anche attraverso la letteratura, il cinema e il teatro.
Davvero la gelosia è solo un banalissimo istinto?
«La gelosia è un sentimento universale, ma anche un´istituzione sociale che ogni epoca e ogni società valuta, censura, esalta, condanna, autorizza. Per dirla con Pasolini, la verità non è in un sogno, ma in molti sogni. Analogamente, la verità sulla gelosia non è detta da una sola teoria, ma da più teorie, anche se io la vedo soprattutto come invidia della libertà dell´altro - e spesso prende il posto lasciato vuoto dall´amore. In Occidente, quella che gli anglofoni definiscono romantic jealousy è ormai un sentimento caduto in disgrazia, appare come un retaggio di una lugubre epoca di chiusura, non più giustificato e privo di istituzioni di sostegno - com´erano le attenuanti per il delitto d´onore. La possessività gelosa si rivela allora più in quel che si fa che in quel che si sente o si dice di sentire. Ma se tendiamo a negare, agli altri e soprattutto a noi stessi, di provare gelosia, inevitabilmente questo sentimento si esprimerà in forme camuffate, ellittiche, anche barocche».
Che intende dire?
«Ci sono varie strategie "antigelose", per evitarne la sofferenza. Alcune sono più soft, come quella molto sospetta di dichiarare orrore della gelosia, o di trovarla impensabile, pur avendo sotto gli occhi prove schiaccianti dell´infedeltà. Ma tra i vari antidoti, più gli uomini che le donne "scelgono" quella che io chiamo la gelosia negativa, fino a ricavare un piacere del tutto stravagante nell´essere traditi: basta che non venga mai spezzata la complicità del gioco. Altrimenti può esplodere la violenza».
Alle Perversioni (Bollati Boringhieri), ha dedicato un saggio importante qualche tempo fa: a lei il "geloso negativo" non sembra un bel po´ masochista?
«La psichiatria oggi chiama le perversioni "amori sbagliati"... Può anche essere una "perversione masochista" spingere la persona amata nelle braccia di altri o di altre, e trarne piacere. Ma qui a contare è l´assenza diffusa di tolleranza nei confronti di un sentimento che inquieta. In effetti ammettere di essere gelosi è aver già perso la partita, significa riconoscere di non aver nessun controllo sull´altro e che l´altro ha il potere spaventoso di tormentarci. Implica un senso d´inferiorità ("cosa ha quell´altro che io non ho?") e una penosa ferita narcisistica. Molti uomini hanno un divorante bisogno di essere amati, proprio per sostenere un´autostima che fa acqua da tutte le parti. Il "geloso negativo" è un bricoleur dell´amore: la promiscuità della sua donna alla fine dimostra che lei ama davvero lui solo».
Insiste molto sulla gelosia maschile. Ma le donne non sono spesso gelosissime?
«Certo che lo sono, ogni volta che non si sentono abbastanza desiderate dal loro compagno - il che è abbastanza frequente. Per gli uomini è diverso, anche perché non possono fingere più di tanto: è il piacere femminile che spesso è truccato».
Non era Freud a dire che c´è una componente omosessuale nella gelosia?
«C´è senz´altro un interesse sghembo per il rivale. Non a caso gli uomini gelosi spesso preferiscono la compagnia maschile a quella femminile, e attribuiscono alle loro donne un desiderio che non osano sessualizzare... La competizione amorosa può portare due uomini a uccidersi, ma anche ad amarsi».

il Fatto 22.3.11
Parlare con gli atei
di Paolo Flores d’Arcais


Stimato cardinal Ravasi, ho letto con crescente interesse l’intervista – impegnata e soprattutto impegnativa – che ha concesso a Marco Politi per questo giornale. Le sue parole mi hanno colpito, tra l’altro, per un tono appassionato di autenticità che non sempre si avverte in altri uomini di Chiesa del suo altissimo livello gerarchico. Lei enuncia come obiettivo delle sue iniziative “il dia-logo” con gli atei, dunque un parlarsi-fra che non aggiri la controversia, anzi, visto che lo intende come “il confronto tra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte dell’esistenza”. E perché non ci siano dubbi che tali “Logoi” debbano essere anche quelli più radicalmente conflittuali con la fede cattolica, esemplifica con gli ateismi di stampo nicciano, marxista, scientista: insomma tutto il “vade retro” del moderno relativismo (condannato dagli ultimi due Pontefici come incubatore di nichilismo   ). Ateismi radicali che, aggiunge, “io ascolto, rispetto, valuto”.
DI PIÙ. Marco Politi molto opportunamente insiste: “Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anatra zoppa?”. Bella metafora, in effetti, per stigmatizzare l’atteggiamento paternalistico che spinge ancora troppo spesso la Chiesa a scegliere come interlocutori solo quei “gentili” (“Cortile dei gentili” si intitola la sua iniziativa) che sembrano soffrire la condizione della mancanza di fede come un’amputazione ontologica o esistenziale. “Atei” sì, ma “alla ricerca di Dio”. Sembra proprio che invece lei questa volta voglia promuovere il confronto con l’intera costellazione dell’ateismo hard: “non interessano incontri o scontri generici, né di accordarsi su una vaga spiritualità” perché “quel che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative” smettendola di “essere evasivi” rispetto alle “profonde domande che ci vengono   rivolte dal mondo laico”. Apprezzo “toto corde”. Del resto dirigo da un quarto di secolo una rivista di adamantina laicità (tanto che viene spesso tacciata   di “laicismo” proprio perché non è laicità “rispettosa”, da anatre zoppe) che del confronto senza diplomatismi con uomini di fede, anche della Chiesa gerarchica, si è fatta un punto d’onore. Praticandolo.
Spero perciò sinceramente che alle sue parole seguano i fatti. Non solo a Parigi, anche in Italia. Negli ultimi anni l’atteggiamento è stato però di segno opposto. Il dia-logo con l’ateismo è stato sistematicamente rifiutato dalla Chiesa gerarchica e anche da lei personalmente. Si tratta di una verità inoppugnabile, di cui purtroppo posso dare testimonianza diretta.
Quando nell’anno del giubileo MicroMega pubblicò un almanacco   di filosofia dedicato a Dio, con saggi in maggioranza di ispirazione atea, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinal Ratzinger, non solo accettò di collaborare con un suo testo, ma anche di presentare il numero in una controversia pubblica con me al teatro Quirino di Roma, gremito all’inverosimile e con duemila persone che seguirono il dibattito sulla strada attraverso altoparlanti di fortuna. Se guardo ai due o tre anni successivi, posso constatare che accettarono pubbliche controversie i cardinali Schönborn, Tettamanzi, Piovanelli, Caffarra, Herranz e infine nel 2007, presso la Scuola normale superiore di Pisa, il patriarca di Venezia Angelo Scola. 
Da allora l’atteggiamento della Chiesa gerarchica si è rovesciato. MicroMega ha proseguito nella volontà di un confronto franco, “ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali”, secondo quanto lei dice di auspicare. Ma ci siamo trovati di fronte al muro di un sistematico rifiuto. Sia chiaro, un Principe della Chiesa ha tutto il diritto di rifiutare il confronto se non ritiene l’interlocutore all’altezza,   senza con ciò smentire la sua volontà di dia-logo. Pretende solo atei più autorevoli. Ma visti i precedenti fin troppo lusinghieri in fatto di porporati che hanno accettato la discussione con Micro-Mega e con me, non è certo questo il motivo del rifiuto.
SUL QUALE non provo neppure ad avanzare ipotesi. Mi interessa il futuro. Vorrei prenderla in parola, nella sua volontà di “dia-logo”, e organizzare con lei occasioni di confronto proprio con il metodo e sui temi che lei illustra nell’intervista. Discutere tra atei-atei e Chiesa gerarchica per “ricercare senza pretendere di sapere a priori”, su questioni che spaziano dal “senso dell’esistenza   ” alla “oltrevita, la morte, la categoria della verità” o “su ciò che significa Natura e legge naturale”, visto che da qui nascono le questioni eticamente sensibili che sempre più affollano l’agenda politica non solo italiana.
Si tratta, del resto, di temi previsti nel confronto con il cardinal Ratzinger, che non fu possibile affrontare per mancanza di tempo (vi era anche quello del Gesù storico, che certamente a lei, biblista di fama, interesserà). La invito dunque alle “Giornate della laicità” che si svolgeranno a Reggio Emilia dal 15 al 17 aprile, a cui hanno rifiutato di partecipare i quindici cardinali che abbiamo invitato, e nelle quali potrà discutere con atei non “anatre zoppe” come Savater, Hack, Odi-freddi, Giorello, Pievani, Luzzatto, e buon ultimo il sottoscritto.   Se poi la sua agenda non le consentisse di accogliere questo invito, le propongo di organizzare insieme, lei ed io, una serie di confronti nei tempi e luoghi che riterrà opportuni. Devo però dirle, in tutta franchezza, che non riesco a liberarmi dalla sensazione – negli ultimi anni empiricamente suffragata – che il “dia-logo” che lei teorizza voglia invece eludere il confronto proprio con l’ateismo italiano più conseguente. Con la speranza che i fatti mi smentiscano e che lei possa accettare la mia proposta, le invio intanto i miei più sinceri auguri di buon lavoro. 

il Fatto 22.3.11
Pensare fa bene
Gli italiani riscoprono Gramsci
Dopo Sanremo, in libreria “Odio gli indifferenti”
Qui di seguito parte del discorso pronunciato il 16 maggio 1925 alla Camera, contenuto nel libro “Odio gli indifferenti”. 


Presidente: Ha facoltà di parlare l’onorevole Gramsci.

Gramsci: Il disegno di legge contro le società segrete è stato presentato alla Camera come un disegno di legge contro la massoneria; esso è il primo atto reale del fascismo per affermare quella che il Partito fascista chiama la sua rivoluzione. [...] Il fascismo, dunque, afferma oggi praticamente di voler “conquistare lo Stato”. Cosa significa questa espressione ormai diventata luogo comune? E che significato ha, in questo senso, la lotta contro la massoneria? [...] La massoneria, dato il modo con cui si è costituita l’Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la massoneria è stata l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo. [...] La borghesia industriale non è stata capace di frenare il movimento   operaio, non è stata capace di controllare né il movimento operaio, né quello rurale rivoluzionario. La prima istintiva e spontanea parola d’ordine del fascismo, dopo l’occupazione delle fabbriche è stata perciò questa: “I rurali controlleranno la borghesia urbana, che non sa essere forte contro gli operai”. Se non m’inganno, allora, onorevole Mussolini, non era questa la vostra tesi, e tra il fascismo rurale e il fascismo urbano dicevate di preferire il fascismo urbano...

Mussolini: Bisogna che la interrompa per ricordarle un mio articolo di alto elogio del fascismo rurale del 1921-22. 

Gramsci: Ma questo non è un fenomeno puramente italiano, quantunque in Italia, per la più grande debolezza del capitalismo abbia avuto il massimo di sviluppo [...]. Quali erano le debolezze della borghesia capitalistica italiana prima della guerra, debolezze che hanno portato alla creazione di quel determinato sistema politico massonico che esisteva in Italia, che ha avuto il suo massimo sviluppo nel Giolittismo? Le debolezze massime della vita nazionale italiana erano in primo luogo la mancanza di materie prime, cioè l’impossibilità della borghesia di creare in Italia una industria che avesse una sua radice profonda nel paese e che potesse progressivamente svilupparsi, assorbendo la manodopera esuberante. In secondo luogo, la mancanza di colonie legate alla madre patria, quindi l’impossibilità per la borghesia di creare   una aristocrazia operaia che permanentemente potesse essere alleata della borghesia stessa. Terzo la questione meridionale, cioè la questione dei contadini, legata strettamente al problema dell’emigrazione, che è la prova della incapacità della borghesia italiana di mantenere...

Mussolini: Anche i tedeschi sono emigrati a milioni.

Gramsci: Il significato dell’emigrazione in massa dei lavoratori è questo: il sistema capitalistico, che è il sistema predominante, non è in grado di dare il vitto, l’alloggio e i vestiti alla popolazione, e una parte non piccola di   questa popolazione è costretta a emigrare [...] È questa la debolezza fondamentale del sistema capitalistico italiano, per cui il capitalismo italiano è destinato a scomparire tanto più rapidamente quanto più il sistema capitalistico mondiale non funziona   più per assorbire l’emigrazione italiana, per sfruttare il lavoro italiano, che il capitalismo nostrale è impotente a inquadrare. I partiti borghesi, la massoneria, come hanno cercato di risolvere questi problemi? Conosciamo nella   storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia per risolvere la questione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolittiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di stabilire una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia settentrionale per opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-proletaria la massa dei contadini italiani, specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto successo. [...] Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l’aristocrazia operaia e i contadini poveri di tutta Italia. Abbiamo avuto il programma che possiamo dire dal Corriere della Sera, giornale che rappresenta una forza non indifferente nella politica nazionale: 800.000 lettori  sono anch’essi un partito. Voci: Meno... Mussolini: La metà! E poi i lettori dei giornali   non contano. Non hanno mai fatto una rivoluzione. I lettori dei giornali hanno regolarmente torto!

Gramsci: Il Corriere della Sera non vuole fare la rivoluzione.

Farinacci: Neanche l’Unità!

Gramsci: [...] il Corriere della Sera ha sostenuto sempre un’alleanza tra gli industriali del Nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale sul terreno del libero scambio. L’una e l’altra soluzione tendevano essenzialmente a dare allo Stato italiano una più larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le “conquiste” del Risorgimento   . Che cosa oppongono i fascisti a queste soluzioni? Essi oppongono oggi la legge cosiddetta contro la massoneria; essi dicono di volere così conquistare lo Stato. In realtà il fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia avesse in Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La “rivoluzione” fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo a un altro personale.

Mussolini: Di una classe a un’altra, come è avvenuto in Russia, come avviene normalmente in tutte le rivoluzioni, come noi faremo metodicamente! (Approvazioni.)

Gramsci: È rivoluzione solo quella che si basa su una nuova classe. Il fascismo non si basa su nessuna classe che non fosse già al potere... 

Mussolini: Ma se gran parte dei capitalisti ci sono contro, ma se vi cito dei grandissimi capitalisti che ci votano contro, che sono all’opposizione: i Motta, i Conti...

Farinacci: E sussidiano i giornali sovversivi!

Mussolini: L’alta banca non è fascista, voi lo sapete!

Gramsci: La realtà dunque è che   la legge contro la massoneria non è prevalentemente contro la massoneria; coi massoni il fascismo arriverà facilmente a un compromesso.

Mussolini: I fascisti hanno bruciato le logge dei massoni prima di fare la legge! Quindi non c’è bisogno di accomodamenti.

Gramsci: Verso la massoneria il fascismo applica, intensificandola, la stessa tattica che ha applicato a tutti i partiti borghesi non fascisti: in un primo tempo ha creato un nucleo fascista in questi partiti; in un secondo periodo ha cercato di esprimere dagli altri partiti le forze migliori   che gli convenivano, non essendo riuscito a ottenere il monopolio come si proponeva...

Farinacci: E ci chiamate sciocchi?

Gramsci: Non sareste sciocchi solo se foste capaci di risolvere i problemi della situazione italiana...

Mussolini: Li risolveremo. Ne abbiamo già risolti parecchi.

Gramsci: [...] Come si fa quando un nemico è forte? Prima gli si rompono le gambe, poi si fa il compromesso in condizioni di evidente superiorità.

Mussolini: Prima gli si rompono le costole, poi lo si fa prigioniero, come voi avete fatto in Russia! Voi avete fatto i vostri prigionieri e poi li tenete, e vi servono!

Gramsci: Far prigionieri significa appunto fare il compromesso: perciò noi diciamo che in realtà la legge è fatta specialmente contro le organizzazioni operaie   . Domandiamo perché da parecchi mesi a questa parte senza che il Partito comunista sia stato dichiarato associazione a delinquere, i carabinieri arrestano i nostri compagni ogni qualvolta li trovano riuniti in numero di almeno tre...

Mussolini: Facciamo quello che fate in Russia... 

Gramsci: In Russia ci sono delle leggi che vengono osservate: voi avete le vostre leggi...

Mussolini: Voi fate delle retate formidabili. Fate benissimo! (Si ride.)

Gramsci: In realtà l’apparecchio poliziesco dello Stato [italiano] considera già il Partito comunista come un’organizzazione segreta.

Mussolini: Non è vero!

Gramsci: Intanto si arresta senza nessuna imputazione specifica chiunque sia trovato in una riunione di tre persone, soltanto perché comunista, e lo si butta in carcere.

Mussolini: Ma vengono presto scarcerati. Quanti sono in carcere? Li peschiamo semplicemente per conoscerli! 

Gramsci: È una forma di persecuzione sistematica che anticipa e giustificherà l’applicazione della nuova legge. Il fascismo adotta gli stessi sistemi del governo Giolitti. Fate come facevano nel Mezzogiorno i mazzieri giolittiani che arrestavano gli elettori di opposizione... per conoscerli.

Una voce: C’è stato un caso solo. Lei non conosce il Meridione.

Gramsci: Sono meridionale!

Repubblica 22.3.11
Il centro studi, nonostante i tagli, pubblica i 114 volumi usciti tra il ´22 e il ´29
Da Goethe a Salvemini scoprite l’editore Gobetti
di Massimo Novelli


TORINO - «Penso un editore come un creatore». Andando esule a Parigi nel febbraio del 1926, dove sarebbe morto nel volgere di due settimane, Piero Gobetti aveva progettato di dare vita a una casa editrice di respiro europeo, ricominciando la sua febbrile attività di organizzatore culturale interrotta dai fascisti. Nella sua breve esistenza, spezzata a nemmeno 26 anni, era riuscito però a farsi «editore ideale» di 114 libri, usciti dal ‘22 fino al ‘29. Un patrimonio notevole che comprende, tra le altre, opere di Guglielmo Alberti, Luigi Einaudi, Ubaldo Formentini, Goethe, Longfellow, Malaparte, Montale (Ossi di seppia, edito nel 1925), Francesco Nitti, Alessandro Passerin d´Entreves, Giuseppe Prezzolini, Francesco Ruffini, Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini, Stuart Mill, don Sturzo, oltre che dello stesso Gobetti.
Non più riproposte, nella maggior parte dei casi, da allora, saranno ora ripubblicate, da settembre, in edizione anastatica e con postafazioni di studiosi contemporanei. La ristampa coincide con il cinquantesimo anniversario della fondazione del Centro studi Piero Gobetti, tra i promotori dell´iniziativa editoriale: ciò rappresenta uno sforzo notevole, considerando il momento difficile che sta vivendo per i tagli ai finanziamenti da parte del ministero dei Beni culturali e, soprattutto, della Regione Piemonte. Sulla vicenda si è espresso il capo dello Stato Giorgio Napolitano, auspicando una politica «più generosa» per la cultura in una lettera a Carla Gobetti, presidente del centro. A consentire il recupero dell´editoria gobettiana, in ogni caso, saranno le Edizioni di Storia e di Letteratura di Roma, l´Università di Torino, l´Accademia dei Lincei, l´Accademia torinese delle Scienze e la Fondazione Basso.