domenica 27 marzo 2011

il Fatto 27.3.11
“Indignarsi non basta”
Ingrao si racconta in un libro-intervista
Il dubbio e la passione
di Pietro Ingrao


Esce domani per Aliberti il volume “Indignarsi non basta”, che raccoglie una serie di conversazioni intrattenute con Pietro Ingrao da Maria Luisa Boccia e Adriano Olivetti a partire dal dicembre 2009. Ne pubblichiamo un’anticipazione.

La politica nella mia vita è una passione tenace. Ancora oggi, in età così avanzata, non è spenta. Esito a spiegarla con una motivazione morale. Non la vivo come un dover essere. Anzi. Sono scosso da passioni vitali, direi dalla corporeità della vita. Salvo, della mia vicenda, l’inizio del percorso, il mio resistere che poi divenne la Resistenza. Su tutto il resto c’è molto da discutere, da ripensare. Non sono stato mai uomo della regola. Mi piacciono troppe e disparate cose della vita e, con gli anni, questa disposizione si è acuita. Perciò siate gentili con la mia vecchiaia.
(Alberto Olivetti) Quando dici che la passione politica non è stata motivata da una scelta morale cosa intendi?
Mi pesa la sofferenza altrui. Non è un sentimento altruistico. Sono io che sto male, che vivo come insopportabili le condizioni di vita degli oppressi e degli sfruttati. La politica è stata innanzitutto un agire per me, non per gli altri. Certo, come ho avuto modo di scrivere, gli altri c’entrano. Senza gli altri io non esisto (neppure sarei nato). E non penso di poter alleviare, se non insieme ad altri, quella sorta di nausea psichica che mi pesa addosso. Quel moto interiore si è espresso in un’adesione al movimento comunista.
(Maria Luisa Boccia) Ti ha mosso alla politica una sofferenza: passione è patire. Da politico, puoi dire che la politica è la tua professione?
A me che sono stato tutta la vita dentro la politica – le norme, le istituzioni, lo Stato – non è affatto estraneo il distacco. Mi è accaduto molte volte di chiedermi cosa avevo a spartire con tutto questo. A cominciare da un’acuta percezione di quanto sia mutilante, nella sua astrazione, la norma. E ogni ordine, ogni forma, ogni misura riduttivi rispetto alla vita. Sono stati momenti di forza e di libertà quelli in cui mi sono detto: “Io non sono di questa città” – si chiamasse partito, Parlamento, Stato – “non è la mia questa legge”. E sono ripartito, nel mio fare politica, praticando il dubbio. Ben presto, la politica è diventata attività quotidiana. Diversamente da come spesso sono descritto, non sono un utopista visionario, affezionato all’idea comunista. La politica mi ha interessato nel suo farsi. Mi accade, ancora oggi, di prestare a attenzione ai suoi passaggi tattici. Pure, non ho mai creduto alla politica come tecnica e poteri separati. Tanto meno al carattere risolutore della decisione e della forza. Per me politica è: io e altri insieme, per influire, fosse pure per un grammo, sulle vicende umane. Fuori di questo agire collettivo non saprei fare politica. Francamente non credo che me ne sarei interessato. In realtà nella politica ci sono stato intero. E però non sono mai stato solo quello. Sono dunque scisso, tra l’essere dentro la politica in tutti i suoi aspetti e il consapevole rifiuto di accettarne la misura, la logica.
(Maria Luisa Boccia) In occasione della festa per i tuoi novanta anni, il 30 marzo del 2005, all’Auditorium di Roma, dicesti: “Ho imparato in questo secolo l’indicibile dell’umano, di ognuno di noi e della relazione con l’altro che non possiamo mai afferrare fino in fondo. La mia paura è che mi venga tolto non tanto il pane e nemmeno la Costituzione, ma questa idea dell’umano”. Poi hai rivolto un appello a tutti noi che eravamo presenti: “Vi prego, non permettete che la domanda sull’essere umano venga cancellata”.
È la radice della mia passione, tuttora tenace. Quella domanda ha alimentato la mia pratica del dubbio e, allo stesso tempo, mi ha spinto a “impicciarmi” quotidianamente delle vicende politiche. Se talvolta ho potuto appagare il desiderio di trovare la parola, o l’atto, che quella passione richiedevano, sono convinto di doverlo alla fecondità del dubbio. In questo riconosco oggi il mio apporto al pensiero e all’agire politico. Dubitare non è stato per me segno di debolezza, di indecisione. Al contrario è stata un’attitudine costruttiva.
(Alberto Olivetti) È stato da poco tradotto in italiano dall’editore torinese Add “Indignez-vous!”, un opuscolo scritto da Stéphane Hessel, uno dei protagonisti della Resistenza francese. È un appello, divenuto un evento editoriale, che si rivolge ai giovani. Non è usuale che un uomo autorevole, di novantatré anni, si rivolga ai giovani e trovi così largo ascolto.
Senza dubbio Hessel interpreta un bisogno di agire in prima persona assai avvertito e che non trova modi efficaci per esprimersi. Anche in Italia la politica, per come si rappresenta, non comunica con questa esigenza. Risulta lontana, c’è un vuoto di rappresentanza. E sono lontani dalla vita, soprattutto da quella dei giovani, i partiti, i sindacati, i loro linguaggi. Hessel ribadisce un concetto fondamentale. La politica, dice, è questione di ognuno di noi. Ognuno si deve porre la domanda “che faccio io?”, rispetto a un mondo segnato da guerre, ingiustizie, violenze. Indignarsi è questo.
(Alberto Olivetti) Anche tu, a vent’anni, ti sei indignato. Non comincia allora e così il tuo impegno politico?
Ricordo il fatto che ha deciso del tipo della mia indignazione. Francisco Franco attraversa lo stretto di Gibilterra, invade la Spagna. Quel giorno mi sono indignato. Mi sono interrogato su quello che io stavo facendo e su quello che accadeva nel mondo. Che dovevo fare io e con me i miei compagni di studio, e gli amici intorno a Rudolf Arnheim, con cui condividevo l’amore per il cinema “come arte”? Il 17 luglio 1936, il giorno dello sbarco di Franco, è quello in cui ho detto no e ho intrapreso, con altri, un altro percorso. Da lì sono cominciate la mia esperienza e la riflessione sul soggetto politico collettivo. Nella primavera del 1940, l’impressione era che la Germania avesse in pugno il mondo e che, varcata la Manica, la guerra-lampo sarebbe finita con la vittoria di Hitler. Facevo già parte di un gruppo clandestino, era piccola cosa, rischiava di diventare nulla. Non potevo immaginare cosa sarebbe successo. Ma l’immagine era quella di un mondo che andava contro tutto quello che avevo dentro. Ricordo di essermi posto, con il lutto nel cuore, la domanda secca “che faccio io?”.

La Stampa 27.3.11
Edgar Morin Intervista
“Salvarsi dalla catastrofe è improbabile, perciò ci spero”
Parla il grande sociologo, che ha incendiato il dibattito in Francia con il suo nuovo libro in cui indica La Via “per l’avvenire dell’umanità”
di Alberto Mattioli


GLI IMPREVISTI DELLA STORIA «Atene che resiste ai persiani e regala al mondo la democrazia: chi avrebbe potuto pensarlo?»
C’È SINISTRA E SINISTRA «In Europa è sclerotizzata, in America Latina sa progettare e attuare il cambiamento»

Il primo problema da risolvere per intervistare Edgar Morin è trovarlo. Alle soglie dei 90 anni (li compie l’8 giugno), dopo aver scritto i sei volumi della Méthode , molti altri libri e un’infinità di articoli, il celebre sociologo e filosofo francese (ma di famiglia italiana e d’ascendenza ebraico-spagnola, il vero nome è Nahoum), non ha nessuna intenzione di andare in pensione. Torna dal Marocco e subito riparte per il Brasile. Bisogna prenderlo al volo mentre, nella sua casa parigina, si prepara a ripartire per Torino dove da domani sarà festeggiato come merita. Continua a pensare e a scrivere come ha sempre fatto: interdisciplinare e indisciplinato. Il suo ultimo libro, La Voie («La Via», la maiuscola è più che voluta), sottotitolo «Per l’avvenire dell’umanità», ha incendiato il dibattito intellettuale francese. È un catalogo dei molti mali del mondo (sociali, politici, economici, ambientali, educativi e così via) e delle possibili riforme, prima che la catastrofe sia definitiva.
La constatazione è pessimista, il programma ottimista.
«Non ragiono per certezze, ma per probabilità. È probabile che il mondo corra verso una catastrofe. Ma la storia è piena di avvenimenti improbabili che si verificano con effetti benefici. Pensi ad Atene: nessuno avrebbe potuto pensare che una piccola città potesse sopravvivere a due attacchi dell’enorme impero persiano e regalare al mondo la democrazia».
Applichiamo la lezione all’attualità politica. Cosa pensa delle rivoluzioni arabe?
«Dimostrano che il mondo arabo non è necessariamente condannato o alla dittatura militare o a quella teocratica. Le aspirazioni profonde dei popoli sono sempre quelle: dignità, libertà, democrazia. Gli arabi domandano oggi, con più fortuna, quello che chiedevano i cinesi a Tienanmen. Certi principi hanno effetti di lunghissima durata. Quelli del 1789, nel breve termine, hanno provocato la guerra, il Terrore, l’Impero e la Restaurazione. Ma, nel lungo, hanno fecondato il mondo e abbattuto il comunismo: il 1789 ha sconfitto il 1917».
Lei sta riformando l’insegnamento superiore in Brasile...
«Lì c’è una vitalità straordinaria. Mentre in Europa la sinistra è sclerotizzata, le “sinistre” dell’America Latina dimostrano la capacità di progettare il cambiamento e anche di attuarlo. Parlo al plurale perché Lula, Kirchner, Bachelet, Correa non sono la stessa cosa, mentre Chávez è solo un dittatore delirante».
I suoi giudizi su Obama sono piuttosto contrastanti.
«Ho avuto e ho molta simpatia per lui. Intanto perché credo che sia lucido e abbia davvero una visione planetaria, pur restando profondamente americano. È lo stato di crisi profonda del mondo a impedirgli di realizzare i suoi progetti. In alcuni casi è stato troppo prudente, per esempio sull’economia; in altri ha fatto errori di strategia. Laddove ha potuto intervenire per promuovere i diritti umani, come in Tunisia ed Egitto, lo ha fatto; altrove non può, come in Arabia Saudita. Ma di una cosa sono certo: se non sarà rieletto lui, il prossimo presidente sarà perfino peggio di Bush».
Lei ha dichiarato di aver conservato le aspirazioni della giovinezza ma perdendone le illusioni. E rimpianti ne ha?
«Forse solo di essere diventato comunista, prima di Stalingrado. Sapevo tutto delle purghe, della dittatura, di Stalin e così via, ma lo giustificavo con il fatto che l’Urss era in guerra e accerchiata. Ho capito in ritardo di essermi sbagliato. Anche se aver vissuto nel Partito comunista è stata un’esperienza umana straordinaria. Faceva davvero pensare a una Chiesa. Ho scoperto lì un aspetto della natura umana, il fanatismo settario».
Si consoli: lei hai capito dopo la guerra, i suoi compagni italiani nel ’56 quando è andata bene, oppure nel ’68 o mai...
«Dipende dalla differente natura dei due partiti. Quello francese era più rigido, più duro. Quando non ci credevi più, la tua fede crollava di colpo, senza mezze misure. Quello italiano era più dolce, più sfumato. Ricordo una conversazione con il mio amico Bruno Trentin, di certo un comunista dal volto umano. Era appena uscito Arcipelago Gulag e lui diceva che in fondo Stalin e Solzenicyn erano due facce della stessa medaglia. Non capiva che bisognava scegliere».
Perché il pamphlet del suo amico e coetaneo Stéphane Hessel, Indignezvous! , «Indignatevi!», ha tanto successo?
«Perché è stato l’elettrochoc su un’opinione pubblica letargica, assuefatta a continui casi di corruzione e alla deriva xenofoba e razzista. Hessel ha il merito di dire a tutti di non rassegnarsi. Aggiungo che, a 93 anni, Hessel appare una persona esemplare: ha fatto la Resistenza e si è sempre battuto per i diritti dell’uomo. Se ci fosse un Nobel della dignità, bisognerebbe darglielo».
Ma lei o Hessel parlate a una società dove la voglia di impegnarsi latita.
«Noi abbiamo fatto la Resistenza e, nonostante gli amici morti, abbiamo avuto fortuna: dal ’45 a oggi nessuna generazione ha conosciuto questa esperienza, questo dono di sé. Me lo dicono molti giovani: eravate fortunati, avevate la cosa più bella, una causa magnifica percui battersi. La nostra causa, sì, era giusta, ma aveva delle ombre. Ha ragione Grossman: Stalingrado è la più grande vittoria del Novecento, ma anche la più grande sconfitta, perché ha eliminato il nazismo però ha regalato altri vent’anni allo stalinismo».
E oggi?
«Oggi invece c’è una causa altrettanto grande per cui battersi e che non ha ombre: salvare l’umanità. È un impegno cui sono chiamati tutti. Non c’è più una classe sociale che deve redimere il mondo, il proletariato industriale o i poveri del Terzo mondo o gli intellettuali. No: oggi la battaglia devono combatterla tutti. Lo dico, da laico, agli uomini e alle donne di buona volontà».

l’Unità 27.3.11
A Torino si chiude oggi il 15 ̊ Congresso Nazionale dell’Associazione Partigiani d’Italia
Vi fanno parte anche i «nuovi resistenti»: hanno dai 18 ai 30 anni e un grande entusiasmo
L’Anpi rilanciata dalla forza dei giovani «Antifascismo futuro della democrazia»
Commozione per il messaggio di Armando Cossutta. «Dobbiamo proporci come punto di riferimento per i giovani, gli intellettuali, per tutti coloro che vogliono riempire il vuoto democratico del Paese».
di Andrea Liparoto


«Più forza all’antifascismo, più futuro per la democrazia» è la sfida che l’Anpi vuole lanciare al Paese dal suo 15 ̊ Congresso Nazionale in corso di svolgimento a Torino nell’ambito delle Celebrazioni ufficiali del 150 ̊ dell’Unità d’Italia (oggi la giornata conclusiva).
Una sfida ambiziosa, “partigiana”, che oggi può assumere gambe robuste grazie a energie nuove, creative, diffuse: sono i giovani, i nuovi “resistenti” che da 5 anni stanno entrando in massa nell’Associazione, mettendo a disposizione un meraviglioso entusiasmo civile e una intelligenza vivissima. Li vedi allora intervenire dal palco del Congresso col fazzoletto tricolore hanno tra i 18 e i 30 anni e parlare con coscienza e cognizione di diritti e Costituzione, della necessità della sua difesa e piena attuazione: «Questo Paese non è quello per cui i partigiani hanno sacrificato la loro vita!». Il lavoro privato di dignità, tagli alla scuola e alla cultura, beni comuni svenduti. E poi la Libia: no alla guerra! La Costituzione, ancora.
Davanti a questi ragazzi, pieni di fiducia ed emozione chi l’Anpi l’ha inventata più di 60 anni fa e portata ad essere ancora oggi una associazione autorevole, trasparente, capace di avere peso nelle scelte politiche, nella vita pubblica: i partigiani, proprio loro. Puoi contarli facilmente in questo Congresso: sono pochissimi, venti, forse trenta. Qualche nome: Massimo Rendina, tra coloro che liberarono Torino dal nazifascismo, Franco Busetto, Didala Ghilarducci, Marisa Ombra, Lino “William” Michelini, Raimondo Ricci, presidente nazionale dell’Anpi uscente.
IL MESSAGGIO DI COSSUTTA
Manca uno tra i protagonisti appassionati del nuovo corso avviato dall’Associazione: Armando Cossutta. Condizioni di salute sfavorevoli non gli hanno permesso di essere presente. Ma in un messaggio ci ha tenuto a dire la sua: «Dobbiamo riconoscere che abbiamo grandi responsabilità perché come Anpi possiamo e dobbiamo svolgere un ruolo assai rilevante. Insieme alla orgogliosa difesa della memoria storica, dobbiamo e possiamo sviluppare una forte iniziativa politica proponendoci come punto di riferimento per i giovani, gli intellettuali, per tutti coloro che vogliono riempire il vuoto democratico del Paese (...) Il compito di noi vecchi partigiani non può che essere quello di passare al più presto il testimone a chi per ragioni anagrafiche partigiano non è stato, ai partigiani di oggi e di domani. (...) Solo in questo modo faremo dell’Anpi una istituzione viva, capace di rappresentare ed organizzare in ogni fase storica le migliori energie del Paese».
I presupposti ci sono tutti: la presenza dell’Associazione in tutte le 110 province italiane, una forte crescita di iscritti (oggi sono circa 120.000, 15.000 in più rispetto al 2010), una riorganizzazione interna tale da permettere di comunicarsi efficacemente all’esterno (l’Anpi è anche su Facebook con più di 50.000 simpatizzanti ed ha un sito completamente rinnovato, www.anpi.it). Una sfida, dunque. Che è già realtà.

il Fatto 27.3.11
Tendopoli di stracci per gli immigrati che Frattini vuole pagare e a cui Lombardo sparerebbe. Chi soffia sul fuoco?
La peste
Lampedusa è una fogna a cielo aperto Lombardo: ci vogliono i mitra
di Enrico Fierro


Fate presto. Fate presto a cancellare quello che i nostri occhi e le telecamere delle tv di tutto il mondo hanno visto in queste ore a Lampedusa. Uomini ammassati come bestie, costretti a dormire vicino alle loro feci, avvolti in coperte bagnate e teli di plastica, ricoverati in una tendopoli improvvisata su quella che qui già chiamano la collina del disonore, e bambini “ospitati” dietro il filo spinato, la fila sotto il sole per un cibo scadente e insufficiente. Fate presto a cancellare la vergogna di tunisini e italiani costretti a vivere su questo pezzo di roccia alla deriva nel Mediterraneo. Fate presto perché dal mare sta arrivando un’altra tragedia. Nuovi disperati, sono 600, i più arrivano dalla Libia. Quando sono le cinque della sera ci comunicano che il “vascello fantasma” esiste, è a 60 miglia dall’isola, e che sono già partite due motovedette della Guardia di Finanza per recuperare l’umanità che è a bordo. Sono eritrei, somali, libici, gente fuggita dall’inferno di Gheddafi. Sono 350 almeno, la metà donne, una ha partorito e il suo piccolo è salvo grazie a un elicottero della nave “Etna”, e poi bambini dai 20 giorni ai due anni. Hanno paura, dicono usando il telefono satellitare. “La notte abbiamo imbarcato acqua, le onde fanno vacillare la barca. Fate presto!”. Arriveranno in nottata, ma li porteranno a Linosa, e comunque a Lampedusa continuerà la macabra conta delle entrate e delle uscite. Gli aerei hanno portato via sulla terraferma 350 tunisini, ma ne sono sbarcati almeno 300. In nottata toccheranno terra altri 350 profughi. Oggi arriverà un traghetto che ne imbarcherà 800. Numeri. La realtà è che sull’isola ci sono ancora 4mila disperati. Uomini in carne ed ossa che si mescolano in questa giostra della disperazione ai lampedusani. Popolo sfortunato, che vede la sua terra ridotta ad enorme campo profughi. “Pasqua è saltata, qui non ci sono prenotazioni”, si disperano gli albergatori. Ieri è arrivata l’acqua che scarseggiava da giorni. I corpi sono provati, gli animi in fiamme. E allora, per capire, è necessario farla questa terribile via Crucis fermandosi a tutte le stazioni del calvario di Lampedusa.
Stazione marittima
Qui d’estate arrivano corpi profumati e belli, volti allegri di gente in vacanza. Ora è un dormitorio dove sono ammassate centinaia di persone. I cessi sono intasati, l’odore di merda e piscio è insopportabile. I giacigli di cartone e coperte sono marci di sudore. Fuori tre cessi chimici collassati da tempo. “Stamattina – ci dice un volontario della Croce Rossa – hanno svuotato quintali di feci”. Sopra la Stazione marittima c’è il Darfur. Una tendopoli di stracci e fogli di plastica, cassette per il pesce e cartoni. Da lassù si vede il molo, o meglio, le migliaia di corpi tunisini che lo occupano. Molti hanno dormito all’aperto, tutti aspettano il pranzo e il numero della salvezza. Verranno portati con i bus al Cie dove gli verrà dato un nuovo numero. Chi è sbarcato prima, parte prima per l’Italia. È ora di pranzo quando arriva un altro barcone con 130 disgraziati, tutti maschi, tre sono minori, uno sta male e lo portano via in ambulanza. Anche loro si mettono in fila per prendere una busta gialla. La apriamo: il pranzo di oggi prevede un piatto di plastica, ricoperto di plastica, con dentro un paio di cucchiaiate di riso al pomodoro, due panini e una bottiglia di acqua. Fine. “Questo ci dà l’Italia, un grande Paese che costringe migliaia di uomini a vivere come animali. Noi siamo un popolo povero, ma alla frontiera di Ras El Jadir, abbiamo costruito una tendopoli civile, assicuriamo un pasto decente a 90mila profughi dalla Libia”. Il signor Lotfi è partito da Sfax, in Tunisia ha lasciato due figli e una moglie, vuole andare in Francia. “Non mi aspettavo tutto questo”. Meglio non dirgli che a pochi passi da noi, quegli enormi tir parcheggiati con la scritta “Ministero dell’Interno” contengono tende e docce, cessi chimici e attrezzature . Non le hanno scaricate perché i lampedusani giorni fa hanno protestato. “La nostra isola non può diventare un campo profughi”. La politica si è fermata e i Tir sono lì, chiusi e sorvegliati dai bersaglieri. E oggi Lampedusa è un Lazzaretto a cielo aperto. “Siamo pochi, qui se scoppia un casino ci buttano a mare. Sarà guerra civile”, si sfoga un giovane finanziere da ore sotto il sole.
Parole e proiettili
Lampedusa è pronta ad esplodere, la politica dovrebbe tacere o pronunciare parole sobrie. E invece, Raffaele Lombardo, governatore di una Regione senza bussola, parla e le parole le sbaglia tutte. Qualcuno, forse un immigrato, ha occupato un suo casotto in campagna e lui è arrabbiato assai. “Lo avevo detto che bisognava uscire col mitra”. Oggi arriva a Lampedusa. Speriamo bene. Abdel, invece, a mare si butta davvero. Da una ventina di minuti è sul ciglio del molo e fissa l’acqua, vede qualcosa, tira via maglietta e pantaloni e si lancia. Riemerge rapido: in mano ha un polipo di cinque chili. I suoi compagni applaudono. “Questo è il nostro pranzo”. Si ride, ma solo per un attimo. Area marina protetta, qui, in locali angusti, anche la scorsa notte hanno dormito buona parte dei 200 minori arrivati dal mare. “Non è vietato, ma non entrate che è meglio”, mi dice un volontario. Entro con un dottore di “Medici senza frontiere”. Il liquido giallo e puzzolente che ha allagato le stanze ci arriva alle caviglie. In fondo a questa laguna putrida un ragazzo tunisino tormenta i tasti di un pianoforte . Neder Suai ha 15 anni, parla solo arabo e ci fa capire che ha male al piede. Toglie scarpa e calzini e ci mostra un arto livido, tumefatto, le dita piegate, avrebbe bisogno di un paio di scarpe più comode. Il medico che ci accompagna scuote la testa: “Va portato subito in ospedale”. I minori ora li hanno portati in una casa della fraternità della Parrocchia e nella ex base militare Loran. Andiamo. C’è la recinzione, un cancello e dietro le camerate. Operai stanno rinforzando le difese con filo spinato nuovo di zecca. I ragazzini ci parlano con le dita aggrappate al reticolato. “Io voglio tornare a casa, ho sbagliato, voglio la mia famiglia”. Salah Eddin ha 15 anni e viene da Zarzis, un asciugamano bianco sulla testa a proteggersi dal sole. Gli occhi annegati nelle lacrime. Nel suo sogno italiano il filo spinato non c’era.

il Fatto 27.3.11
La frontiera di Agrigento
Clandestini, i pm sommersi dalla Bossi-Fini
di Giuseppe Giustolisi


Gli sbarchi incessanti di immigrati a Lampedusa significano anche emergenza giudiziaria. Lo stanno toccando con mano nelle stanze della Procura di Agrigento, che ha giurisdizione su Lampedusa, magistrati e cancellieri, alle prese con le migliaia di nuovi indagati che potrebbero moltiplicarsi nel giro di poco tempo. L’allarme l’ha lanciato alcuni giorni fa il procuratore Renato Di Natale, da tre anni al timone di un ufficio che, in questa fase storica, è da considerare l’ufficio giudiziario più caldo del Paese. “A noi continuano ad arrivare le denunce per immigrazione clandestina e riusciamo a malapena ad iscriverli”, ha detto Di Natale, “Fino ad oggi ne abbiamo iscritti quattromila, ma c’è un totale intasamento nel nostro ufficio iscrizioni”. Per un ufficio che procede alla media di 13 mila fascicoli su clandestini all’anno, il rischio concreto è che la nuova emergenza di questi giorni possa fare lievitare i numeri fino a 20 mila.
PER OGNUNO di questi immigrati ci sarà una doppia iscrizione nel registro degli indagati: una per immigrazione clandestina e un’altra per ingresso in Italia senza l’esibizione di documenti. “Se ci sono 8 mila arrivi di clandestini a Lampedusa, ci saranno 16 mila iscrizioni nel registro degli indagati”, ha ricordato Di Natale. E a questi reati andrebbe aggiunto anche il reato di false generalità visto che, come ha fatto sapere il procuratore , alcuni degli immigrati tunisini potrebbero avere dato nomi falsi. Un lavoro che sta impegnando i pm agrigentini a tempo pieno che potrebbe concludersi con un non luogo a procedere per coloro ai quali verrà riconosciuto lo status di rifugiato politico. Ma questa è la stranezza della legge Bossi-Fini che i magistrati sono tenuti ad applicare.
Altro problema che si pone è il sequestro delle barche e la loro custodia. Il procuratore Di Natale dovrebbe nominare custode l’agenzia delle dogane di Porto Empedocle e sarà l’Esercito a vigilare sulle barche.
Una situazione paradossale per l’ufficio che fu del giudice ragazzino Rosario Livatino e che da anni soffre di problemi di organico, come spesso denunciato da Di Natale. Adesso sono otto i sostituti presenti in Procura, rispetto ai tredici previsti. Ad aprile ne arriveranno altri tre grazie a una deroga alla legge Mastella che vieta ai magistrati con meno di quattro anni di anzianità di svolgere le funzioni di pubblico ministero.
UN RAFFORZAMENTO d’organico che peraltro era stato previsto ben prima dell’emergenza di questi giorni, dopo un incontro al ministero della Giustizia fra Alfano, il procuratore Di Natale e il presidente dell’Ordine degli Avvocati Nino Graziano. E che in ogni caso non è nulla rispetto al pericolo collasso che incombe in Procura. “Facciamo appello a chi ha il potere o il dovere di decidere in condizioni di emergenza di trovare una soluzione perché altrimenti sarà il caos. Saremo al collasso totale”, va ripetendo Di Natale. Si è mossa anche l’Anm di Agrigento: sta valutando se chiedere formalmente al governo risorse ad hoc e personale aggiuntivo per l’emergenza.

Repubblica 27.3.11
Le strutture religiose accolgano gli immigrati
di Chiara Saraceno


Sarebbe bello che le istituzioni religiose aprissero almeno una parte delle proprie strutture per dare un´ospitalità decente alle migliaia di immigrati, in primis ai minori non accompagnati, che arrivano a Lampedusa in fuga dall´incertezza e dai pericoli dei loro paesi in conflitto. Sarebbe non solo una doverosa compartecipazione all´azione di solidarietà collettiva cui tutti siamo chiamati a fronte di questa emergenza umanitaria, ma un atto di restituzione di un mancato introito per il bilancio pubblico (stimato in 70-80 milioni di euro) in un periodo di tagli alla spesa sociale che colpiscono soprattutto i cittadini più vulnerabili. Soprattutto sarebbe una, sia pure temporanea, dimostrazione che effettivamente quelle strutture hanno finalità religiose e assistenziali e non commerciali e quindi la giustificazione formale del sostanzioso sconto Ici di cui beneficiano gli immobili destinati "esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive o per uso culturale" ha un effettivo fondamento. Ricordo che, nonostante il parere contrario della Corte di giustizia Europea che giustamente ha parlato di trattamento di favore lesivo della concorrenza, il governo lo ha mantenuto e introdotto anche nel decreto sulla fiscalità municipale, anche se, specie per le "strutture ricettive", è spesso davvero difficile non definirle commerciali. Non basta la pur benemerita opera della Caritas, oggi in prima linea anche a Lampedusa, a giustificare perché i vari conventi trasformati in strutture alberghiere a Roma come a Venezia e in altre città debbano pagare meno Ici di qualsiasi altro albergo, pensione o bed and breakfast, facendo anche concorrenza sleale. Questo è il momento di dimostrare che sono innanzitutto dedicate allo svolgimento d attività assistenziali ed anche ricettive non commerciali.
Sarebbe anche opportuno che il governo ripensasse alla sua decisione di non avere un unico election day, buttando al vento centinaia di migliaia di euro. E´ stata una scelta sconsiderata in sé, appunto in un periodo di tagli dolorosi, ma lo è tanto più ora, quando le immagini dei profughi ridotti in condizioni disumane non possono non lasciarci pieni di vergogna. Lo scarto tra spreco e bisogno è letteralmente intollerabile.
Sarebbe infine bello che quest´anno lo Stato, a fronte di tagli alla spesa sociale e viceversa crescenti domande di sostegno in una situazione in cui una emergenza sociale non ne cancella un´altra, indicasse due-tre priorità sociali su cui si impegna a spendere l´8 per mille che gli verrà destinato nelle dichiarazioni dei redditi. Offrirebbe ai cittadini una alternativa effettiva, invogliando una quota maggiore di contribuenti ad indicare il proprio destinatario di elezione: tra le diverse chiese e confessioni religiose e, appunto, lo Stato. E´ bene ricordare, infatti, che solo una minoranza dei contribuenti indica un destinatario dell´8 per mille. Chi non sceglie, è convinto che i soldi rimangano nel bilancio pubblico. Ma non è così. L´intero ammontare dell´8 per mille delle entrate è ripartito sulla base delle scelte effettuate. Chi conquista la maggioranza della minoranza che sceglie, conquista perciò anche la maggioranza dell´intero ammontare. Come nelle elezioni, chi si astiene di fatto è come se votasse con la maggioranza. In una situazione di risorse scarse e bisogni gravi crescenti, mi sembra davvero non solo poco democratico, ma uno spreco non mettere i cittadini di fronte a possibilità di scelta effettiva sugli obiettivi concreti, in campo sociale, su cui distribuire l´8 per mille.

l’Unità 27.3.11
D’Alema lancia la sfida al governo a conclusione della conferenza Pd sull’immigrazione
Sul conflitto in Libia: «Italia senza peso nei vertici, tenta di cavalcare la scelta Nato»
«Basta alimentare la paura accogliamoli come rifugiati»
Massimo D’Alema propone al governo di considerare tutti «rifugiati» gli immigrati in arrivo. Dal centrodestra critiche e attacchi. Il presidente Copasir: «False le voci sui servizi, si lascino lavorare senza gossip».
di Natalia Lombardo


«Consideriamo come rifugiati i 20mila che stanno arrivando dal NordAfrica: accogliamoli regolarmente e poi negoziamo il rientro in patria, semmai anche assistito da noi dal punto di vista economico». È la proposta di Massimo D’Alema, presidente del Copasir. È insensato, spiega, dibattere se chi arriva sulle nostre coste sia rifugiato o clandestino: «C’è una battaglia culturale della Lega per considerarli clandestini. Ma è un'idiozia: una volta stabilito che sono clandestini che facciamo, li processiamo tutti? Altro che processo breve...», ironizza concludendo la prima conferenza nazionale del Pd sull’immigrazione. Una due giorni di confronti tra diverse esperienze di chi è impegnato anche politicamente in Italia, che sia cinese o marocchino, con la coccarda tricolore addosso. E proprio grazie agli immigrati «che sono graditi e indispensabili, producono l’11 % del Pil» che l’Italia si ringiovanisce, osserva D’Alema, che indica come centrale, anche per il Pd, il tema «dei diritti politici» come il voto.
Sulla Libia critica il governo: nei vertici internazionali «credo non dica nulla, non ha peso» e se «l’America ha deciso di affidare il comando alla Nato, l’Italia sale sul’elefante e dice che è una sua vittoria». Secondo l’ex premier «l’azione militare non è in contraddizione con l’azione politica», però rileva che con i raid della coalizione «l’offensiva di Gheddafi si è fermata».
Il governo «non è attrezzato» a far fronte a quello che sta facendo diventare emergenza per «alimentare la paura», gli sbarchi. Così «viene il sospetto che la visione tutta quella gente ammassata lì sul molo di Lampedusa non dispiaccia per ragioni propagandistiche, perché se li avessero accolti decentemente, non si sarebbero neanche visti, non si poteva fare propaganda», commenta riferendosi a quando era premier: «Nessuno ha visto i kosovari ammassati: ne vennero 25mila, furono ospitati e poi tornarono a casa loro senza drammi».
Il presidente del Copasir respinge le indiscrezioni sul presunto ruolo dei servizi segreti italiani in Libia: «Si sono sentite notizie contraddittorie, confuse, false. Vengono riprese voci prive di fondamento», un atteggiamento «grave» perché «i servizi vanno lasciati operare, senza diventare argomento di gossip».
Insomma, secondo D’Alema con i conflitti in Nord Africa «cambierà tutto», l’Occidente paga lo scotto di aver tollerato «dittature» per aver garantita la sicurezza» e ora deve cogliere questa occasione unica, come lo fu il crollo del Muro di Berlino. Ma il governo è sordo, come «se la Germania di Khol avesse detto: «Stanno arrivando con le Trabant, invece di festeggiare la democrazia». Senza paura dell’Islam, del resto, «in Italia vinse la Dc, un passo avanti dal fascismo»
Perché la «politica sicuritaria» non premia e la legge sull’immigrazione «genera clandestini». «Se il presidente degli Stati Uniti, la cui nonna ha festeggiato in Kenia l'elezione, fosse stato in Italia, avrebbe dovuto chiedere il permesso di soggiorno», è il paradosso reale. Così D’Alema si dice «immigrato da trenta generazioni, ci sarà voluto qualche secolo prima che il figlio di “Alim” diventasse D'Alema», più vicino ai Saraceni che ai Longobardi... La «via italiana» alla convivenza è «politica», tema del convegno aperto da Livia Turco, organizzato dal Forum Immigrazione del Pd, coordinato da Marco Paciotti. Per D’Alema la via è quella dei «diritti politici: di voto e di cittadinanza», superando lo Ius sanguinis irragionevole: «È assurdo che chi lavora qui non ha il diritto di voto e chi è figlio o nipote di emigranti italiani, ma vive all'estero, scelga chi deve governare l'Italia».

il Fatto 27.3.11
Pace con chi? Guerra con chi?
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, ma siamo in pace o in guerra? Se è guerra, come finisce?
Marcella

LA RISPOSTA alla legittima domanda di chi ci scrive è un salto a ostacoli. Primo ostacolo, le parole che stiamo usando. Fonti autorevoli, media e politici, si muovono lungo due percorsi, usano due lingue. In una si dice “pace” intendendo l’esito di questa impresa, ovvero un po’ di democrazia e di libertà nella Libia del dopo Gheddafi; si dice “guerra” per raccontare ciò che sta accadendo adesso, rischi, pericoli e vittime. Ciò che accade, nel modo strano e confuso che conosciamo, non è né pace né guerra. È uno strano e a momenti inspiegabile susseguirsi di eventi in cui, da una parte e dall’altra riesce difficile trovare un senso, una logica, un esito. Gheddafi perde o vince, scompare o resta? La coalizione senza strategia certa e senza comando certo, sta portando l'aiuto risolutivo di cui si è parlato, oppure ha solo tamponato e rallentato il peggio? Secondo ostacolo: perché l’America è così indecisa al punto da dare l’impressione che Barack Obama non sia in grado di fare né la pace né la guerra, perché l’Europa è così divisa (al punto da apparire senza potere), perché la celebratissima Nato è tenuta a distanza, come è tenuta a distanza la partecipazione – che potrebbe essere preziosa – della Turchia? Ho chiamato “ostacoli” queste diffuse e legittime domande, perché rendono ancora più difficile raggiungere il punto cruciale: che cosa sono oggi pace e guerra? Qualunque sia la decisione morale, non c’è (non c’è ancora) risposta a questa domanda. Infatti i due termini non rappresentano una semplice contrapposizione fra due fatti opposti. Della guerra sappiamo tutto, al punto che possiamo decidere di rifiutarla, a costo di sfidare pericoli e minacce molto grandi. È l’atteggiamento chiamato “pacifismo” che rifiuta quel fatto concreto, materiale, pesante, tangibile che è la guerra. Il paradosso è che, a sua volta “il pacifismo” non può diventare evento o catena di eventi, perché è rifiuto o assenza dell’evento guerra. Il problema è che non c’è – o non è facile – esprimere una cultura della pace con una sua logica e una sua strategia come la logica e la strategia della guerra. Attraverso i millenni la cultura della guerra si è evoluta molte volte dal peggio a una sorta di “meglio”, con regole che si presumevano umanitarie, per poi tornare al peggio quando sono diventate peggiori non le intenzioni soggettive di uccidere, ma la potenza incontrollabile degli strumenti. Invece, salvo lo strappo che è sempre apparso ammirevole ma non imitabile del Francescanesimo, non c’è stata alcuna evoluzione nella cultura e nella strategia della pace, che resta non guerra o rifiuto della guerra. Tutti sappiamo dire, con orrore o entusiasmo, che cosa è la guerra, che cosa produce e comporta. Alla pace si dedica fede in nome di un valore morale che non è connesso con ciò che sta accadendo e non produce una sua strategia che non sia il rifiuto della guerra. Naturalmente non è vero, o almeno il discorso non finisce qui. Al contrario, qui inizia. Ma il mondo (tutto) si muove per ora in questo vuoto. È il problema di Obama, premio Nobel per la Pace, che non vuole la guerra ma non ha strumenti per creare uno stato di pace che gli altri esseri umani possano condividere in senso attivo e partecipe e non solo attraverso l’astensione. Manca il rapporto fra pace e non violenza. Manca una capacità di rappresentare la pace che non suggerisca – a tutti i non credenti nella pace come valore – solo rassegnazione e inazione. Ciò che invece sta diventando chiaro anche agli iperrealisti che hanno bisogno di vedere azione per credere nel senso di una decisione, è che la guerra, a causa della sua troppa potenza, della sua strumentazione incontrollabile ed eccessiva, persino in operazioni limitate, è diventata uno strumento inagibile. Lo è quando la potenza eccessiva è di una delle parti. Lo è, più spesso, quando le due parti hanno simile forza distruttiva, e diventa impossibile immaginare la tanto invocata “exit strategy” salvo l’uso di armi estreme. Inevitabile aggiungere a questo quadro tremendo la variabile del terrorismo che sfugge a ogni ragionevole previsione e – quasi sempre – all’intelligence. È il momento della cultura della pace, non ideologica ma logica. Una grande avventura della cultura potrebbe essere sul punto di cominciare.

La Stampa 27.3.11
Medioriente dietro la crisi
Dopo le colonie, il Rinascimento
La tesi del politologo Usa Parag Khanna: sono saltati i confini disegnati nell’800, ora tutto cambierà
di Maurizio Molinari


I NUOVI PARAMETRI I Paesi si definiscono su base etnica o religiosa A dispetto dei confini
L’ENTROPIA UNIVERSALE Pashtunistan, Kurdistan, Beluchistan: si fondano su identità preesistenti

Le rivolte arabe come l’inefficacia dell’Onu e la debolezza dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) sono manifestazioni dello stesso fenomeno: la dissoluzione dell’architettura internazionale frutto dell’era coloniale, che schiude le porte a un «nuovo Rinascimento» destinato ad avere per protagonisti popoli definiti su base etnica, individui armati di cellulari e gruppi accomunati da perseguire singoli obiettivi. È questa la tesi che Parag Khanna, 34 anni, esperto di strategia della «New American Foundation» di Washington, illustra nelle 221 pagine di «How to Run the World» (Come governare il mondo), offrendo una chiave di lettura per comprendere quanto sta avvenendo da Tripoli a Srinagar.
«Chi si è affrettato a dichiarare morta la globalizzazione deve ricredersi, siamo nel bel mezzo di una dissoluzione degli Stati post-coloniali destinata a far emergere popoli congelati dalla Storia» sostiene Khanna, parlando di «entropia universale», un movimento «dall’ordine medioevale in cui viviamo» a una «fase di disordine» segnata da «forza di idee, identità e individui», i cui sintomi sono nelle nuove tecnologie vettori di libertà, nella moltiplicazione di associazioni che perseguono obiettivi come le fonti alternative di energia e nel risveglio di etnie congelate da intese fra potenze risalenti all’800.
Per motivare questa tesi, Khanna esamina quanto sta avvenendo sul terreno. In Africa i confini fra gli Stati sono nella maggioranza dei casi ancora quelli disegnati dal Congresso di Berlino del 1884, quando a guidare la Germania era Bismarck, con il risultato di avere in Sudan uno Stato grande il doppio dell’Alaska in via di disintegrazione - dalla recente indipendenza del Sud alle violenze in Darfur -, in Nigeria una delle maggiori potenze petrolifere lacerata dalle faide fra cristiani e musulmani, e nella Repubblica democratica del Congo una «obsoleta finzione» voluta da Leopoldo II del Belgio per controllare le miniere di cobalto a dispetto delle differenze fra oltre 200 etnie.
In Medio Oriente è invece l’eredità dell’accordo SykesPicot del 1916, con la spartizione dei territori dell’Impero Ottomano fra Londra e Parigi, a essere all’origine di confini fittizi: dall’Iraq del dopo-Saddam, dove a imporsi sono sciiti, sunniti e curdi, all’ex Palestina britannica dove esiste la Giordania - artificialmente creata nel 1922 - mentre manca uno Stato per i palestinesi a fianco di Israele. Post-coloniali sono anche i confini della Libia governata da Gheddafi, che prima di essere invasa dagli italiani nel 1911 era divisa nelle stesse Tripolitania, Cirenaica e Fezzan che stanno riemergendo adesso.
Spostandosi verso l’Asia centrale lo scenario non cambia perché Iran, Afghanistan e Pakistan sono Stati che le potenze coloniali crearono attorno a gruppi etnici - persiani e pashtun - a dispetto di altri, come i beluchi. Per Khanna, se il «vecchio colonialismo» generò confini artificiali - come quelli che lacerano il Kashmir - c’è un «nuovo colonialismo» che vorrebbe mantenerli ma si scontra con «l’entropia universale» destinata a cambiare la geopolitica con l’affermarsi di realtà come il Pashtunistan, il Beluchistan o il Kurdistan, fondate sull’identità di popoli realmente esistenti in «zone del mondo ricche di risorse lungo l’antica Via della Seta».
Ai governanti che tentano di salvare Stati artificiali come la Somalia temendo l’«avvento dei terroristi», Khanna risponde che «se il problema sono gli Stati falliti la soluzione non sono i governi centralizzati» ma l’autodeterminazione dei popoli che vi risiedono. In concreto ciò significa che il XXI secolo potrebbe veder nascere una moltitudine di nuove nazioni portando a un «risveglio della diplomazia che è il secondo mestiere più antico del mondo», con il risultato di far emergere «un mosaico di movimenti, accordi, network e codici» destinati a sostituire organizzazioni internazionali centralizzate al punto da risultare immobili, come dimostra il fallimento del Wto sul commercio globale e l’incapacità della Conferenza di Copenhagen di arrivare a un accordo sul clima, «sebbene una moltitudine di individui e Ong già operino singolarmente contro i gas serra mentre una nuova generazione di mercanti domina gli scambi globali». È questa la genesi del «Rinascimento» che Khanna vede all’orizzonte, destinato a essere però basato su un documento già esistente che rappresenta il legame fra presente e futuro: la Dichiarazione universale dei diritti umani.

Repubblica 27.3.11
Cosa resterà dopo le rivolte arabe dietro i dittatori, piccoli leader crescono
Dal ruolo dei militari all´ascesa dei Fratelli musulmani
I nuovi capi devono muoversi in contesti più simili a regimi pluralisti che alle odiate autocrazie
di Renzo Guolo


Chi governerà i paesi della Mezzaluna dopo le cadute degli autocrati? Previsioni assai difficili: l´inverno dello scontento arabo è un´onda lunga che travolge assetti e certezze consolidate. Ma, qui come altrove, la lettura deve partire dalle strutture di continuità del potere e dalle forze che più saranno capaci di adattarsi al vento impetuoso della transizione.
Un ruolo chiave lo giocherà comunque l´ambiente militare vero fattore unificante di società assai diverse, dall´Algeria all´Egitto. In Siria più che il Baath svuotato di funzioni dirigenti come già in Iraq, conta l´appartenenza alle nuove asabiya, le solidarietà che forgiano rapporti fondati su antiche ma anche nuove relazioni. Prima ancora che alawiti, i siriani che contano si sono formati alla Scuola di artiglieria di Aleppo. Dunque, come in Egitto, in Siria l´esercito pesa. Ma se cadesse Bashar Assad e la maggioranza sunnita prendesse il potere, un ruolo decisivo lo avrebbero i Fratelli musulmani, che qui hanno posizioni più radicali dei loro confratelli egiziani. Soprattutto dopo che Assad padre annientò buona parte dell´organizzazione facendo tirare a alzo zero contro Hama, città in cui la Fratellanza era insorta. Le vittime furono decine di migliaia. Almeno sino a questi caldi giorni le "regole di Hama" erano un terribile monito per i nemici del regime.
Anche in Egitto l´esercito è un fattore chiave e non è detto che alcuni membri dell´organismo che guida la transizione non diventi il fiduciario di questa potente struttura che garantisce al tempo stesso coesione nazionale e il sistema di alleanze internazionali. Ma all´ombra delle Piramidi contano anche i Fratelli musulmani, che hanno una forza radicata nella società e si disputeranno il consenso con laici come El Baradei, che potrebbe coagulare attorno a sè i ceti modernizzanti, con il segretario della Lega araba Abu Moussa o con Nour, il capo del partito centrista e laico Ghad.
In Tunisia contano uomini legati al passato regime come Sebsi e Morjane ma anche il capo dell´opposizione Chebbi, oltre che il leader del partito En Nahda Gannouchi, movimento di matrice islamista che guarda ormai più all´esperienza dell´Akp turco che alla Fratellanza musulmana, dalla quale pure deriva.
Situazione inversa a quella siriana è quella del Bahrein, dove la maggioranza sciita è governata da una dinastia sunnita sorretta da Riad. Qui l´appartenenza religiosa diventa discriminante per capire come andranno le cose. In Libia si guarda agli uomini del Consiglio nazionale provvisorio, nel quale vi sono membri della società civile come Tarbel, leader della protesta a Bengasi, ma anche ex membri del regime come Jalil e Yunis.
Anche nello Yemen, dove vacilla il lungo potere di Saleh, sono alcuni ex a giocare un ruolo rilevante come i già ministri al Ahmar e al Iryani o il rappresentate alla Lega araba Mansour.
Come si vede, il futuro dei paesi arabi non ha solo un volto nuovo. Del resto, le sommosse sono state innescate da giovani che non avevano esperienza politica e dunque il dopo presenta evidenti fattori di continuità, almeno nei leader. Le rivolte non sono necessariamente rivoluzioni, anche se è evidente che i nuovi leader dovranno muoversi in contesti più simili a regimi pluralisti che alle odiate autocrazie.

l’Unità 27.3.11
Intervista a Bijan Zarmandili
«È rivolta popolare lo Tsunami arabo travolgerà Assad»
L’esperto di Medio Oriente: «La statua del leone di Damasco data alle fiamme è un segnale eclatante A differenza del Cairo, i militari garanti del regime»
di Umberto De Giovannangeli


Il grande tsunami che dopo la Tunisia e l'Egitto sta ora scuotendo al Siria, è destinato a ridisegnare gli equilibri di potenza nell'intero Medio Oriente«. A sostenerlo è Bijan Zarmandili, scrittore e analista iraniano, profondo conoscitore del «pianeta mediorientale».
Il «grande tsunami» che scuote il l Vicino Oriente rischia di travolgere anche la Siria di Bashar al Assad? «Direi proprio di sì. C'è una protesta che si sta trasformando in una rivolta popolare che mette in pericolo 40 anni di dominio della famiglia Assad. La statua del defunto presidente, il “leone di Damasco” Hafez al Assad, data alle fiamme a Daraa, è il segnale più eclatante, politico e insieme di fortissimo impatto simbolico, della trasformazione di una protesta in rivolta. E qui bisogna fare una riflessione più ampia...». Quale?
«Il processo cominciato nel mondo arabo con la caduta del tunisino Ben Ali e dell'egiziano Mubarak, rischiava e rischia di interrompersi on la guerra in Libia; nel senso che i carri armati di Gheddafi e l'inevitabile intervento dei caccia della coalizione dei “volenterosi”, potrebbero cancellare quella civiltà politica, quella nuova cultura politica di Piazza Tahrir. Non più le ragioni della libertà, della democrazia, le ragioni strutturali delle società arabe, ma di nuovo uno scontro tra l'Occidente e il mondo arabo e islamico per delle ragioni che sono legate a un duplice controllo: quello delle fonti energetiche gas e petrolio – e il controllo del territorio. La rivolta in atto in Siria va vista all'interno di questo contesto nuovo, per verificare se è ancora in atto il processo antecedente la guerra in Libia, oppure se l'intervento armato per fermare la violenza del Raìs libico contro il suo popolo, ha già modificato il quadro precedente».
Le vicende siriane portano a interrogarsi anche sul rapporto tra Damasco e Teheran, e sul ruolo dell'Iran in questo scenario...
«Anche in questa direzione, la rivolta in Siria è determinante per i futuri scenari geopolitici nella regione mediorientale. Se l'uscita di scena degli alleati dell'Occidente in Tunisia ed Egitto, ha di fatto tolto all'Occidente dei tradizionali punti di riferimento, la crisi siriana completa questo quadro da un altro punto di vista: cioè che anche il fronte tradizionale anti-occidentale, fino ad oggi rappresentato dall'asse Teheran-Damasco, è entrato in crisi. Il che significa che si sta delineando una prospettiva geopolitica completamente modificata. Va ricordato in proposito che dopo la pace di Camp David tra l'Egitto e Israele, fin d'allora la Siria è stata il punto più avanzato del cosiddetto “fronte del rifiuto”. Il sostegno della Repubblica islamica dell'Iran, ha fatto sì che progressivamente la Siria ha acquisito le caratteristiche di potenza regionale, in competizione soprattutto con l'altra potenza regionale contrapposta: Israele. Questa mappa va ora ridisegnata». Quando si parla di Siria è inevitabile guardare anche al Libano...
«L'asse tra Damasco e Teheran inevitabilmente include anche il Libano, considerato storicamente come “cortile” della casa siriana. L'Iran, a sua volta, stringendo un'alleanza, non solo politica ma anche militare con gli hezbollah libanesi – divenuti una delle forze-cardine della politica e delle istituzioni libanesi – ha di fatto accorciato la sua distanza con il nemico principale della Repubblica islamica, vale a dire Israele, aprendo virtualmente un fronte potenziale di guerra con lo Stato ebraico».
Sia in Tunisia che in Egitto, l'esercito ha giocato un ruolo di primaria importanza. E in Siria? «Forse ancora di più. Bashar al Assad con la morte del padre non ha avuto né il tempo ma forse neppure la capacità politica di controllare completamente gli apparati militari siriani, essenziali per la gestione politica del Paese. Si è detto persino che sono stati i militari in questi ultimi giorni a neutralizzare le ambizioni o le illusioni di Bashar di riformare il regime. E quindi non è escluso che nella situazione attuale, a dettare le “leggi” della repressione e della salvaguardia del regime, siano soprattutto i militari».


l’Unità 27.3.11
«Il Pd si prepari la caduta di Silvio non è lontana»
di Marco Ventimiglia


Usciamo da questi tre giorni dopo aver respirato tanto ossigeno, con la sensazione che siamo veramente vicini allo “switch off”, a quel “dopo” che ha rappresentato il filo conduttore dei nostri dibattiti». È un Enrico Letta particolarmente soddisfatto quello che congeda i suoi ospiti sull’assolata riva del Lago d’Iseo dopo la conclusione del “Nord Camp”, l’appuntamento voluto dal vicesegretario del Pd che quest’anno ha assunto una valenza particolare incrociandosi con l’eccezionalità del momento politico ed internazionale.
Uno switch off che è stato inteso in vario modo. Qual è l’interpretazione autentica? «Io lo intendo come una cosa che travalica la fine dell’era Berlusconi, perché con l’uscita di scena del premier si chiuderà di fatto anche la seconda Repubblica e noi democratici dobbiamo essere fin d’ora protagonisti, senza subire gli eventi ma cercando di essere ancor più sul territorio, popolari nel senso letterale della parola: in mezzo al popolo».
Visto da Nord Camp, questo può apparire un Paese, che cerca di evolvere. Ma fuori c’è un’altra Italia...
«È vero, c’è anche un’altra Italia, quello che temo sia assuefatta a tal punto da accettare di avere un premier condannato in primo grado. Questo non deve accadere, così come il Pd non deve farsi trascinare da una caduta di Berlusconi che ritengo ormai vicina. Occorre ricordarsi che cosa accadde in Italia quando venne giù il Muro di Berlino: la Dc
pensò che l’unica cosa da fare era festeggiare, invece bisognava cambiare, e in fretta. Quel che successe dopo lo sappiamo».
Tema portante della giornata è stata la giustizia. L’avvocato Gaetano Pecorella, parlamentare Pdl, ha ammesso candidamente che la prescrizione breve è fatta per Berlusconi.
«E la cosa mi ha impressionato non poco, tanto più che si tratta di un’affermazione fatta non da un pasdaran del premier, ma da un apprezzato professionista che anche qui ha esposto delle tesi interessanti». Il pm di Milano, Francesco Greco, è stato invece molto duro definendo incostituzionale la prescrizione breve e parlando di una riforma con cui «si vuol passare da mani pulite a mani libere». Condivide?
«I giudizi di Greco fotografano la realtà delle cose. La riforma della giustizia non è altro che un tentati-
vo di rivincita di Berlusconi sulla magistratura. Per questo la nostra posizione deve essere netta, con la massima determinazione dei democratici nell’evitare che il provvedimento vada avanti».
Sono stati diffuse anche delle interessanti rilevazioni effettuate dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli. Gli italiani pensano che il peggio della crisi debba ancora venire e solo uno su 10 ritiene positiva la situazione economica. In un Paese normale l’opposizione vincerebbe anche con il cavallo di Caligola.
«Beh, quando sarà il momento ci presenteremo davanti agli elettori con qualcosa di ben più consistente... In ogni caso i sondaggi già adesso parlano chiaro. Qualunque sia la coalizione comprendente il Pd, è destinata a prevalere sul centrodestra. Questo Berlusconi lo sa benissimo, e non a caso la parola elezioni è scomparsa dal suo vocabolario». La statistica non fa sconti neanche al Pd. Molti dei suoi elettori affermano che non esiste una reale alternativa a Berlusconi.

il Fatto 27.3.11
Imbrogli e bugie
di Furio Colombo


Vorrei provare a spiegare perché, il giorno in cui si è discussa in Parlamento la “Mozione Libia”, ovvero il tentativo di mostrare al mondo, o almeno alla Lega di Bossi, il senso della nostra avventura d’oltremare, quel giorno i due ministri sostituti Frattini e La Russa, sostituti nel senso che sedevano al posto del presidente del Consiglio, che è il solo responsabile della pace e della guerra di un Paese, perché quel giorno (Camera dei deputati, 24 marzo) i due ministri avessero un’aria modesta e spaesata al punto da suggerire al deputato Di Pietro la non impropria definizione di “coniglio” per almeno uno dei due, il ministro degli Esteri Frattini. Curiosamente il ministro ha mimato l’insulto dirigendosi di corsa verso l’uscita e rendendosi latitante di fronte all’aula affollata e ai benevoli fotografi che non hanno immortalato l’istante (dopo tutto il regime non è finito e molti servizievoli direttori di giornali sono ancora saldi nelle loro mansioni).
La finta discussione sulla politica estera
ECCO, nonostante qualche guizzo caratteriale di La Russa, i due sono apparsi generici e schivi nelle parole, disorientati nel comportamento e incerti non tanto sulla vicenda parlamentare di quel momento quanto – si vedeva benissimo – sulla vera storia, cioè su ciò che sta davvero accadendo in Italia, intorno all’Italia e nel mondo. Interventisti o neutralisti? Ai due sembrava prematuro pronunciarsi. Sentite come spiegano l’assenza in aula del presidente del Consiglio: “Per tenersi disponibile nel dopo”. Vuol dire che stanno immaginando un dopo nel quale Berlusconi avrà un ruolo,dunque un dopo con Gheddafi in sella? Non seguono spiegazioni, ma l’ansia di andarsene da un’aula di Parlamento da cui potrebbero venire (ma non vengono) domande imbarazzanti. Soltanto dopo – alla lettura della mozione di politica estera scritta dalla Lega, e dunque dal ministro dell’Interno, e fatta documento proprio dal ministro degli Esteri – soltanto dopo avere appreso dei colpi di mano degli avvocati di Berlusconi che intanto avevano luogo nella Commissione Giustizia, soltanto a nomina avvenuta di un nuovo ministro in odore di mafia (colpo di mano subìto, o prezzo pagato, ma i “responsabili” hanno già avvertito che non sarà il solo) soltanto a fine mattina si è capito che non si è mai discusso di politica estera o di affari del mondo. Il tema erano la volontà della Lega (qualunque problema del mondo si risolve cacciando i migranti) il ricatto dei “responsabili” (si tratta di non far mancare i voti,e quella mattina la mozione Lega sulla politica estera dell’Italia è stata approvata con soli sette voti di maggioranza) e soprattutto i processi di Berlusconi. Questo imbroglio presentato sotto mentite spoglie è l’Italia. E poiché l’Italia è osservata con attenzione e sospetto da tutti gli altri Paesi d’Europa, è bene sapere che cosa fa questo governo (si potrebbe dire: a che punto si spinge la malafede del malgoverno ) nelle sue sedi legislative. Ricostruiamo dunque il sensodi una mattina politicamente importante,vissutaallaCameradei deputati il 24 marzo scorso.
Ricordiamochesiamonelpieno di un intervento militare pericoloso e caotico, con migliaia di morti, la buona intenzione di salvare i civili e nessunacertezza sulla strategia, la conduzione, l’evolversi dell’operazione detta “Odissea all’alba”. Ricordiamo che l’Italia ha subito partecipato, annunciando di avere usato le armi, di non avere usato le armi, e di avere messo a tacere i radar libici senza precisare con quali strumenti che non siano armi. Ricordiamo infine che l’Italia è legata alla Libia da un trattato di “partenariato” (che vuol dire“amici alla pari, stessi diritti, stessi doveri”) molto stringente che prevede la assoluta non ingerenza dell’Italia negli affari libici e l’impedimento a usare territorio o basi italiane contro la Libia in caso di conflitto, un trattato che non è mai stato revocato o cancellato, e la cui revoca o cancellazione è stata chiesta solo dai deputati radicali eletti nel Pd, più poche altre firme, ed è stato prontamente respinto dai voti di tutta la Camera.
Date queste premesse, giudicate ciò che la maggioranza della Camera (Lega più Pdl più quella parte dei focosi “responsabili” alleati di ventura di Berlusconi) che quella mattina hanno ritenuto utile (utile per loro)votare: 1 - “Occorre riattivare non appena possibile gli accordi bilaterali in materia energetica stipulati dall’Italia con la Libia”.
È una dichiarazione difficile da collegare con la partecipazione alle operazioni militari nei cieli della Libia. La notte prima c’erano stati 153 attacchi aerei, con la partecipazione degli aerei italiani. Forse senza usare le armi, ma in tal caso saranno state un ingombro.
Migranti,non clandestini
2 - “Bisogna rendere immediatamente operativo il pattugliamento del Mediterraneo in funzione di deterrente e di contrasto alle organizzazioni criminali e terroristiche e come prevenzione migratoria”. Il conflitto di parole e di idee appare ridicolo al punto di essere umiliante per un Parlamento democratico. Il pattugliamento è ovviamente in contrasto con lo stato di guerrae la fuga di coloro che potrebbero essere vittime. E il concetto di “prevenzione migratoria” svela il presunto intento di contrasto al terrorismo, di cui, in questa sollevazione democratica, non c’è traccia.
3 - L’Italia chiede fondi all’Europa e ridistribuzione dei nuovi arrivati in ogni Paese europeo. Il silenzio d’Europa è certo egoistico. Ma dice forte e chiaro la piena mancanza di rispetto per questa Italia che a Lampedusa ha creato deliberatamente un inferno, con l’espediente di lasciare sul posto i migranti, detti “clandestini”, il più a lungo possibile.
E intanto spende tempo e denergia a cambiare le leggi per salvare Berlusconi dai suoi processi, e a nominare ministri indagati per mafia al fine di avere un margine piccolo ma sufficiente di voti.
Infatti, tutto il tempo che non viene dedicato alla grave questione della guerra, la gravità dell’errore di invocare non solo la non cancellazione, ma la conferma di un trattato di collaborazione militare con un Paese sotto attacco anche italiano e, contro ogni buon senso, la richiesta di conferma di quel trattato nella parte che riguarda il petrolio, è impegnato a strappare nelle commissioni nuovi frammenti di norme che giovano (o giovano ancora di più) agli interessi esclusivi di una persona sola, il premier. E nel frattempo si compie il delitto di proclamare “clandestini” cioè criminali coloro che credono di trovare in Italia una terra di salvezza, di libertà, di diritti. Uno di loro, al Tg3 del 25 marzo, ore 19, ha detto rivolto alla telecamera e dunque a tutti noi, e indicando l’orrore creato a Lampedusa dal ministro leghista Maroni come immagine dell’Italia governata da Bossi e Berlusconi: “Credete che questa sia Europa? No”. E chi ha sentito quel “no” non lo dimenticherà.



La Stampa 27.3.11
Bossi e l’elogio del Pd “Salvato il federalismo”
“Il governo? Ora si va avanti, ma c’è qualcosa da cambiare”
di Francesco Spini


Se il Pd non si fosse astenuto, insomma «senza il vostro contributo fondamentale, il federalismo non usciva dalla Bicamerale, questo è certo». Umberto Bossi si ritrova sullo stesso palco - in una sala di Besozzo - il deputato Pd Daniele Marantelli. Si discute di federalismo e dintorni in un convegno a cui doveva esserci il mondo (da Giulio Tremonti a Vasco Errani, fino a tre presidenti di parlamenti esteri) ma dove alla fine l’unico big a presentarsi è lui, il Senatùr. Ma diventa occasione d’oro per rendere merito alla sinistra che ha permesso il sì al federalismo regionale: «Vi ringraziamo - dice il ministro delle Riforme e leader della Lega rivolto al deputato Pd -, il vostro apporto è stato importante». Perché, prosegue Bossi, «questa volta non vi siete defilati» come in altre occasioni. Col varesino Marantelli la mette così: «Ecco, ti sei guadagnato dieci voti, non di più però...».
La luna di miele che il Carroccio ostenta con il Pd - e che tiene sul chi va là gli uomini del Pdl - prosegue. «È un dialogo lungo, che con la sinistra va avanti da tanto tempo; adesso si è mossa, prima non si muoveva». Bisogna dunque aspettarsi sorprese sul fronte del governo? A bordo palco della Sala Duse della cittadina varesina, il Senatùr fa spallucce. «Cosa volete cambiare? Io ho bisogno dei voti di Berlusconi e di far passare il federalismo al consiglio dei ministri. Poi vediamo... Sicuramente c’è da aggiungere qualcosa di nuovo». Un qualcosa di nuovo che potrebbe essere la moneta di scambio con la fedeltà mostrata al governo negli ultimi difficili mesi, con la stoica resistenza portata avanti anche quando la base masticava amaro. Oggi Bossi si mostra allineato. Col Cavaliere «non voglio mica litigare» neanche sui sottosegretari all’Agricoltura, dove ci son le quote latte da sistemare. Difende la proposta di introdurre la responsabilità civile dei magistrati, «che non possono non pagare mai oppure mettersi d’accordo fra di loro, mentre ci sono poveracci che vengono condannati magari ingiustamente». E ritrova unità anche sulle elezioni amministrative. Sembrano rientrate le tentazioni di far correre il Carroccio in solitaria in posti come Busto Arsizio e Varese. «Sono convinto che non si può ottenere il federalismo e subito dopo tirare un pacco a Berlusconi», dice Bossi. Dunque «si fanno accordi». Con eccezioni «dove Lega e Pdl hanno sempre litigato», come a Gallarate.
Uno che lui vorrebbe tener fuori dai ragionamenti sulle amministrative è Casini. Un’alleanza con l’Udc? « Spérem de no », risponde in dialetto. Speriamo di no, «hanno votato contro il federalismo, quindi...». Un club di indesiderabili in cui iscrive anche la finiana Futuro e Libertà, anche perché «noi vorremmo fare degli accordi con chi non litiga, con chi ti permette di amministrare le città». Poi però si torna sul palco dove c’è Marantelli, tra l’altro pure consigliere della fondazione dedicata a Carlo Cattaneo, organizzatrice del convegno. Il deputato Pd, vecchio amico di Bossi, rilancia su alcuni temi cari al Carroccio e a Bossi, come la questione del Senato delle regioni. Bossi gli va dietro volentieri: «Io l’avevo fatto tanti anni fa, con la devoluzione. Poi guardacaso l’avete fatta bocciare voi». Una volta che la riforma fiscale sarà legge è tema da riprendere, perché «il federalismo non esiste senza un Senato delle regioni. Non penso che Berlusconi si metterà di traverso». Anche perché, ragiona, «Berlusconi senza i voti della Lega cosa fa?». Prima però va messo al sicuro il federalismo anche grazie «alla sinistra che c’ha dato una mano». Marantelli ne approfitta, gli chiede garanzie che le risorse tagliate agli enti locali con la manovra 2010 venganoeffettivamente ripristinate. «Io sono in buoni rapporti con Tremonti - gli risponde il Senatùr - e comunque la Lega ha il suo peso nel governo. I soldi ci saranno: non faremo fermare le Ferrovie Nord, la gente non dovrà andare in bicicletta a lavorare». In sala doveva esserci anche Errani, governatore Pd dell’Emilia-Romagna e presidente della conferenza dei governatori. E Bossi ringrazia «il gatto nero, come lo chiamiamo io e Tremonti». Di lui dice che «è un balòss », un furbastro. Ma pure «un amico, uno che ci ha dato una mano». Resta il tempo per sistemare il caso Parmalat: «Dall’ultimo consiglio dei ministri so che non andrà ai francesi, resterà qui». Come la Fiat, che «non va via. Sono i giornalisti che inventano le cose...».

Corriere della Sera 27.3.11
«Il rischio degli ex ppi veltroniani? Finire come i Responsabili»
di Marco Gasperetti


CORTONA (Arezzo)— Doveva essere il giorno del confronto-scontro con Maroni, è diventata la giornata degli affondi tra «aree fraterne» del Pd. Saltata la tavola rotonda con il titolare del Viminale (per l’impegno in Tunisia) il convegno di Areadem di Franceschini è stato vivacizzato da un «quasi» litigio tra Franco Marini e Paolo Gentiloni, numero due dell’area Modem di Veltroni e una polemica che ha scosso il Partito democratico. Gentiloni, intervenuto ieri mattina, chiede «un cambio di passo» nella segreteria del partito. «Perché non ci possiamo permettere una sconfitta e per questo abbiamo bisogno del Pd che abbiamo sognato» , spiega. Lanciando poi un avvertimento: «Guai a sottovalutare lo stillicidio di abbandoni anche nelle nostre file» . La risposta di Marini arriva nel pomeriggio. Ed è una staffilata. «I veltroniani rischiano di finire come il gruppo dei Responsabili. Invece di fare critiche esasperate conducano una battaglia nel partito per cambiarlo» . Parole che provocano la reazione del veltroniano Walter Verini: «Stentiamo a credere vere le frasi attribuite a Franco Marini. Sono parole al limite dell’insulto politico. Frasi che fanno male al Pd perché delineano un partito intollerante e chiuso al pluralismo delle opinioni» . In serata una precisazione dello stesso Marini: «Il rischio di essere avvicinati ai Responsabili non l’ho mai rivolto genericamente ai veltroniani. La mia preoccupazione è riferita alle dichiarazioni ripetute di un disagio degli ex Popolari nei Modem che sarebbe causa di abbandono» .

l’Unità 27.3.11
A Roma nuova scuola di partito: «Officina politica». Formerà i giovani nei week end. Tutti vestiti uguali
A Cortona scontro Franceschini-Gentiloni. Marini: «I veltroniani come i responsabili». «Un insulto»
Pd, nasce la nuova Frattocchie «con la divisa»
Da Cortona il Pd lancia la nuova Frattocchie. Una scuola per i giovani dove tutti saranno vestiti in divisa ma potranno fare lezione soltanto nei week end. Sarà a Roma e si chiamerà «Officina politica».
di Simone Collini


Da Sant’Agostino in Cortona a San Bernardo sulla Laurentina, tutti in tuta bianco-rosso-verde Pd ma non per «andar per funghi», bensì per lavorare all’«Officina politica». Mentre è in corso il convegno di Area democratica che si chiude oggi con l’intervento di Dario Franceschini, si viene a sapere che il Pd organizzerà per un anno a partire dal prossimo 8 aprile un master di formazione politica riservato ad amministratori locali, consiglieri, segretari di circolo under 35. Un’iniziativa voluta da Pier Luigi Bersani e a cui ha lavorato la responsabile Formazione del partito Annamaria Parente. Guai a parlar di nuove Frattocchie, che già ieri Paolo Gentiloni è arrivato a Cortona lanciando la «sfida» per «un cambio di passo» perché «oggi il Pd è una promessa non mantenuta» e perché soprattutto sul territorio «una delle tradizioni tende ad essere molto determinante» (gli hanno risposto Franceschini dicendo che «le difficoltà si superano con il lavoro e non con la lamentazione» e Franco Marini dicendo che «i veltroniani rischiano di finire come il gruppo dei Responsabili», parole definite da Walter Verini «al limite dell’insulto dalle quali Franceschini dovrebbe prendere le distanze»). Però l'impostazione sarà quella.
Proprio qui, nell'ex convento di Sant'Agostino, l'allora segretario Walter Veltroni organizzò la prima scuola di formazione politica del Pd. Bersani, giusto mentre faceva sapere che era pronto a candidarsi a segretario, criticò quell’esperienza dicendo che il riformismo «non è andar per funghi» e la formazione è cosa diversa dall’ascoltare «Rifkin, poi un altro professorone, un altro ancora, e alla fine non si capisce l’obiettivo». Veltroni non la prese bene, tanto che quando pochi mesi dopo si dimise, rivendicò tra le buone cose compiute proprio la scuola di Cortona, «che non era un andar per funghi» (frase che non tutti i presenti compresero). Dopo quello della «Summer school» stagionale, ora il leader Pd prova a riapplicare il modello Frattocchie della formazione permanente. Anche perché, ha confessato ad Annamaria Parente, «la formazione è fondamentale, se non fossi segretario vorrei fare il tuo mestiere». Lei parla di questa «Officina politica» che si svolgerà nella Casa San Bernardo, in piena campagna romana con frati trappisti come unici vicini. «La scuola è aperta ai soli iscritti, a quelli che una volta si chiamavano i quadri del partito», spiega facendo emergere anche un’altra differenza rispetto alle scuole degli anni passati, quando veniva comunicata con orgoglio l’alta partecipazione dei non iscritti. Le lezioni si svolgeranno per un week-end al mese fino all’aprile dell’anno prossimo. Sono previste tre aree di studio – cultura politica, istituzioni e comunicazione – e potranno partecipare giovani sotto i 35 anni (metà uomini e metà donne) indicati dai dirigenti locali di ogni singola regione. «Avranno una formazione concreta sulla politica ma anche sull’amministrazione – dice Parente – impareranno come si fa un comunicato stampa ma studieranno anche a fondo il patto di stabilità interno, perché l'obiettivo è formare la classe dirigente del partito del futuro». Le lezioni saranno tenute la mattina e il pomeriggio da docenti ed esperti delle varie materie. I dirigenti saranno ammessi per raccontare le loro esperienze solo la sera (nel primo fine settimana presenti Bersani e Bindi). Verranno distribuite ai partecipanti delle tute con i colori e il simbolo del Pd. La responsabile formazione del Pd sorride alle facili ironie sulla divisa o sulla voglia di imitare anche nell’abbigliamento i vicini, ma risponde che anche una cosa semplice come vestire tutti lo stesso abito può servire a «creare un senso di appartenenza. Che non fa male».

il Riformista 27.3.11
Appello da sinistra per riformare la giustizia
Idee. I direttori di Mondoperaio (Covatta), Le Nuove Ragioni del Socialismo (Macaluso), La Critica Sociale (Carluccio) hanno promosso questo documento. Il Riformista aderisce

qui
http://www.scribd.com/doc/51635025

il Riformista 27.3.11
«La gente cambia governi guardando la tv la sera»
Ettore Bernabei. «Funziona così da sempre. Nel ‘92 il “mugugno” da insoddisfazione televisiva tolse sei punti alla Dc. E nel 2001 e 2008...
di Angela Gennaro

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l’Unità 27.3.11
Acqua e nucleare, a Roma sfila il popolo del sì: «Siamo 300mila»
Corteo per l’acqua pubblica e contro il nucleare. I sindaci siciliani raccontano lo scandalo delle privatizzazioni nell’isola, gli aquilani raccolgono le firme per la ricostruzione. La protesta: senza Election Day buttati 300 milioni.
di Jolanda Bufalini


Alex Zanotelli è proprio alla testa del corteo, mentre si aspetta di partire, gli aretini indossano i berretti a forma di rubinetto oppure sistemano il saio e i sandali, perché si ispirano a San Francesco: «Laudato si mi Signore / per Sor Acqua, la quale / è molto utile/humile et pretiosa/ et casta». Si avvicinano le aretine e le pistoiesi, «Padre Zanotelli, deve venire da noi..», lui spiega: «La cosa più importante con la raccolta delle firme per il referendum sull’acqua è che per la prima volta si è costituito, lentamente e trasversalmente, un soggetto politico dal basso, un movimento di cittadinanza attiva che la Costituzione riconosce, a cui i partiti devono rispondere. L’altra cosa importante è che se ci tolgono l’acqua ci tolgono tutto e nel Sud del mondo, se oggi ci sono 3 miliardi di affamati, con l’acqua privatizzata avremmo miliardi di assetati».
Dalla Toscana sono arrivati numerosi e, particolarmente arrabbiati, sono gli aretini, con la gestione della multinazionale Suez, si sono ritrovati con «tariffe più care, meno investimenti, utili garantiti per la compagnia, debiti di 58 milioni di euro». Gocce azzurre dipinte sul volto, azzurro dei comitati per l’acqua pubblica, giallo di Legambiente, bianco del Wwf, giallo e nero anti nuclearista, rosso delle bandiere dei partiti ma in fondo al corteo, perché in testa stanno i gonfaloni della Marche, del Lazio, della Lombardia, della Sicilia. Facce spesso cotte dal sole: il mondo che si è raccolto ieri a piazza Esedra a Roma e ha sfilato fino a San Giovanni è quello, dei piccoli centri legati all’agricoltura, dove si fa la raccolta dei rifiuti porta a porta e il compostaggio si produce in casa.
Ci sono i sindaci ribelli della Sicilia, dove una legge di Cuffaro ha anticipato quella nazionale. A Burgio (Agrigento), racconta il sindaco Vito Ferrantelli, 15 sindaci con la fascia tricolore hanno impedito, il 20 gennaio 2009, ai commissari della privatizzazione di insediarsi. Commissario nominato da Totò Cuffaro era l’avvocato Felice Crosta, quello divenuto celebre per la pensione da funzionario regionale di 1390 euro al giorno. Michele Botta, sindaco di Menfi, racconta che nel 1885, era primo cittadino un oculista che si accorse che la gente si ammalava per l’acqua infetta. «Andò a cercarla a 30 km, investendo 389mila lire dell’epoca, da allora manteniamo in efficienza la rete. Perché dovremmo cederla?». Ad Agrigento, racconta Antonella Leto (FpCgil) la gara di affidamento è stata fatta la notte del 24 dicembre 2007, ha partecipato una sola impres. Anche a Palermo la gara è stata fatta per un solo consorzio di imprese. Il commissario dell’Ato di Palermo era Rosario Mazzola, che al tempo stesso sedeva nel cda della Genova Acque. Bartolo Vienna, sindaco di Geraci Sicula, «La soluzione per una gestione efficiente sono ambiti territoriali più vasti, il bilancio di un singolo comune non regge la gestione del depuratore». Giovanna Battaglia è presidente del Consiglio comunale di Saponara (Me). È riuscita a far aderire ai comitati per l’acqua Messina, la Provincia e tutti i comuni. Punta il dito anche contro Bruxelles: «Hanno tolto i finanziamenti ai piccoli coltivatori che hanno cura del territorio, preferiscono pagare i Canadair per spegnere gli incendi nei terreni lasciati abbandonati».
In piazza, gli aquilani raccolgono firme per la legge di iniziativa popolare sul sisma. È il rush finale, «bravissimi e solidali in Toscana, Veneto, Friuli. A l’Aquila hanno firmato tutti spiega Sara Vegni ora speriamo nell’ impegno delle altre regioni».

il Fatto 27.3.11
La scoria siamo noi
Da nord a sud: 23 siti dove è stata raccolta la “spazzatura” nucleare italiana. E sono a rischio
di Elisabetta Reguitti


Centrali sì, centrali no? Il vero problema è la monnezza nucleare che rimane, di cui non ci si occupa e che preoccupa. Dunque quando si parla di nucleare bisogna ricordare che le questioni che si aprono vanno poi anche chiuse. A lanciare l’allarme è il responsabile di Greenpeace Italia Pippo Onufrio.

   Semplificando: esistono due categorie di scorie radioattive. Una, in termini quantitativi, rappresenta il 90% con un tasso di radioattività del 10%. Secondo le linee guida dell’ agenzia atomica di Vienna andrebbe costruito un deposito di superficie vincolato per tre secoli (se fosse stato costruito al tempo dell’ Unità d’Italia saremmo a metà dell’opera). Mentre l’altra (denominata categoria tre) in termini di volume è solo il 5 % ma contiene il 90% della radioattività. Per queste ultime, ad oggi, non esiste ancora alcuna soluzione. In Italia poi si complicano, perché come spiega Onufrio , “buona parte dei rifiuti si trova all’interno di impianti posizionati vicino all’acqua e dunque con un ancora maggiore pericolo di contaminazione con l’ambiente esterno. In questa situazione totalmente fuori controllo come si può anche solo tentare di rilanciare il nucleare?”. Ci sono però altri pericoli. Un esempio? “ Gli ottanta bidoni di scorie liquide, altamente pericolose, conservate a Saluggia e che pare non interessino a nessuno di quelli impegnati a promuovere il nucleare e contemporaneamente affossare la promozione di fonti rinnovabili”.
Riassumendo: cosa c’è di nucleare in Italia oltre ai quattro reattori dimessi (Caorso, Trino Vercellese, Garigliano e Latina)?
Ecco la situazione – aggiornata al 21 agosto 2009 – ricostruita attraverso Greenpeace.
Caorso. Il reattore nucleare, originariamente destinato alla produzione di energia elettrica, venne arrestato nel 1988. Da allora rimangono stoccati 1.880 mc di rifiuti radioattivi e 1032 elementi di combustibile irraggiato (pari a 187 tonnellate).
Latina. Il reattore nucleare modello Gcr venne fermato nel 1986 contiene circa 900 mc di scorie radioattive.
Garigliano (Caserta). Il reattore nucleare del Garigliano destinato alla produzione di energia elettrica venne fermato nel 1978 per problemi di varia natura, ad oggi contiene circa 2.200 mc di scorie radioattive. Saluggia (Vercelli) Il centro nucleare di Saluggia, per ritrattamento del materiale radioattivo, venne fermato nel 1983. Oggi è utilizzato come deposito di rifiuti radioattivi. Si parla di 1.600 mc di scorie radioattive e 53 elementi di combustibile irraggiato (2 tonnellate). È gestito da Fiat-Avio.
Da non dimenticare poi anche i depositi per la raccolta di materiale a bassa radioattività e sorgenti radioattive dimesse come Compoverde (Milano), “Controlsonic” (circa 1.000 mc di rifiuti radioattivi), il deposito “Crad”, attualmente in esercizio e circa 1.000 mc di rifiuti radioattivi. Il deposito “Gammatom” altrettanti 1.000 mc di rifiuti radioattivi e “Protex”: impianto-deposito contiene 1.000 mc di rifiuti a bassa radioattività. Nel deposito nucleare “Sorin” gli mc sono sempre 1.000 stessa quantità è stoccata al centro “Cemerad” in funzione.
Ispra. Gli impianti del centro nucleare Ccr-Ispra comprendono: il reattore nucleare di ricerca “Ispra 1” ed “Essor”, attualmente in fase di disattivazione. Assieme ad altri sistemi, complessivamente, stiamo parlando all’incirca di 3.000 mc di materiale radioattivo ed alcune decine di elementi di combustibile irraggiato.
Legnano (Milano). Impianto nucleare di Legnano è destinato alla ricerca universitaria è in esercizio contiene poche decine di mc di rifiuti radioattivi e qualche decina di elementi di combustibile irraggiato.
Trino Vercellese. Nel reattore nucleare Pwr di Trino Vercellese creato per produrre energia elettrica (arrestato nel 1987) ad oggi rimangono stoccati 780 mc di scorie radioattive e 47 elementi di combustibile irraggiato ( pari a 14,3 tonnellate).
Rotondella (Matera). Costruito come impianto pilota del “ciclo U-Th” subì però l’interruzione nel 1978. È gestito dall'Enea vi sono stoccati circa 2.700 mc di scorie ma soprattutto 64 elementi di combustibile irraggiato (1,7 tonnellate) provenienti da una centrale nucleare Usa. Bosco Marengo (Alessandria) Questo centro nucleare fu costruito per la fabbricazione di combustibile per reattori è in fase di disattivazione ma contiene circa 250 mc di rifiuti radioattivi.
Pavia Il reattore nucleare “Lena” dell’Università di Pavia usato per la ricerca è in funzione e contiene poche decine di mc di materiale radioattivo e qualche elemento di combustibile irraggiato.
Milano. Il reattore nucleare “Cesnef” usato per la ricerca è in funzione. Anche qua sono presenti poche decine di mc di materiale radioattivo e qualche elemento di combustibile irraggiato.
Montecuccolino (Bologna). Questo reattore nucleare è gestito dall’Enea ed è in fase di disattivazione.
Pisa. Centro “Cisam” per la ricerca militare. È in fase di disattivazione e contiene pochi mc di rifiuti radioattivi oltre ad elementi di combustibile irraggiato.
Casaccia (Roma). Esistono diverse attività tra le quali: l’impianto di trattamento e deposito di rifiuti radioattivi, attualmente in esercizio, dove sono stoccati circa 6.300 mc di rifiuti ai quali si aggiungono quelli dell’impianto “Plutonio” (60mc), “Opec1” utilizzato “per le celle calde per esami post irraggiamento”, non è attivo, ma viene usato per lo stoccaggio di rifiuti nucleari. Infine c’è “Triga”, attualmente attivo, che contiene 147 elementi di combustibile irraggiato.

l’Unità 27.3.11
La proposta Un’imposta dell’1% sul 5% delle famiglie, la cui ricchezza supera gli 800mila euro
Un’entrata pari a una Finanziaria: «Ingenti risorse per la collettività e maggiore equità»
Cgil: tassare gli ultraricchi porterebbe 18 miliardi l’anno
Il rilancio della Cgil: una tassa sulle grandi ricchezze ispirata al modello francese, con un’imposta dell’1% a carico del 5% delle famiglie «ultraricche», potrebbe generare un gettito di 18 miliardi di euro l’anno.
di La. Ma.


Un impatto minimo per un’entrata significativa e strutturale, delle dimensioni di una Finanziaria. Questa la proposta della Cgil: introdurre una tassa ordinaria sulle grandi ricchezze, in media dell’1% a carico delle famiglie con una ricchezza oltre gli 800mila euro, che potrebbe generare un gettito di circa 18 miliardi l’anno. La Cgil spiega che un’imposta di questo tipo, «ispirata al modello francese», colpirebbe «solo il 5% più ricco e ricchissimo della popolazione e non toccherebbe nessun altro ceto e reddito». Del resto, come dice la leader Cgil Susanna Camusso, finora il governo «ha deciso di non fare per negare la crisi: è necessario cambiare una cultura secondo la quale l’unico modo di competere è quello di limitare i diritti dei lavoratori».
ALIQUOTE
La proposta è stata elaborata dal dipartimento politiche economiche del sindacato, in vista dello sciopero generale del 6 maggio. La tassa, come quella che in Francia chiamano «sulle fortune», colpirebbe «tutte le famiglie la cui ricchezza mobiliare e immobiliare, superi gli 800mila euro l’anno al netto dei mutui e delle altre passività finanziarie», dice la Cgil. E ne sarebbe escluso chi, pur essendo proprietari di una o più abitazioni, nonchè depositi in conto corrente, titoli di Stato o altre obbligazioni, non raggiungano il limite indicato.
La Cgil calcola circa 18 miliardi l’anno con una aliquota dell’1%. Ma «anche solo una aliquota media dello 0,55% (primo scaglione francese) sulla ricchezza netta totale, superiore agli 800mila euro complessivi, al netto delle detrazioni, detenuta da circa il 5% delle famiglie più ricche d’Italia, comporterebbe un gettito di 9,8 miliardi». Alcuni esempi, a prescindere dal reddito Irpef: chi è proprietario di una casa dove abita con un valore di 450mila euro, un’altra casa con un valore di 250mila euro ma che paga un mutuo su questa di 20 anni (per un montante di 150mila) e detiene anche 100mila euro tra depositi bancari, titoli di Stato, obbligazioni, azioni, partecipazioni, per un totale di 650mila euro, non sarebbe soggetto all’imposta. Mentre chi è proprietario di una casa dove abita con un valore di 500mila euro, un’altra casa di 300mila euro e detiene 100mila euro in depositi bancari, titoli di Stato e obbligazioni, azioni e fondi comuni di investimento, per un totale di 900mila euro, pagherebbe 8mila euro.
La tassa «oltre a creare ingenti risorse per la collettività, avrebbe un effetto in termini di equità in un paese sempre più diseguale», ricorda la Cgil. Ogni indagine della Banca d’Italia rileva infatti, dal 1995 ad oggi, che il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% dell’intera ricchezza netta, a fronte del 50% della popolazione (la metà più povera) che ne detiene meno del 10%. In pratica, circa 2,4 milioni di famiglie posseggono mediamente quasi 1.600.000 euro di patrimonio immobiliare e finanziario, a fronte di 12 milioni di famiglie che posseggono meno di 70mila euro. Il patrimonio del 5% più ricco è mediamente 2 milioni e 300mila euro.

La Stampa 27.3.11
La rabbia degli inglesi nella Londra del lusso
In 250 mila in piazza contro i tagli di Cameron: “Fate pagare le tasse ai ricchi”
di Mattia Bernardo Bagnoli


ASSALTO AI NEGOZI I manifestanti hanno occupato Fortnum&Mason, il famoso tempio della gastronomia

Pagate le tasse. Tutte, fino all’ultimo penny, come i comuni cristiani. Il ruggito dei ragazzi della primavera londinese non potrebbe essere più terra terra, pragmatico tanto quanto il loro Paese. Una bella differenza da «fate l’amore non fate la guerra». Sarà forse che, in tempi di globalizzazione del capitale, è meglio guardare al sodo. E allora, mentre a Londra piovono centinaia di migliaia di persone da ogni angolo della Gran Bretagna per partecipare alla grande manifestazione anti-tagli indetta dai sindacati, un manipolo di attivisti di UKuncut, il movimento che da mesi si batte per evidenziare le storture del sistema tributario britannico, ha preso d’assalto Fortnum&Mason, grande magazzino e gastronomia simbolo dell’alta società inglese - fornitore ufficiale della casa reale, tanto per intenderci. L’accusa è semplice: non ha corrisposto al fisco (attraverso metodi del tutto legali) una cifra pari a 40 milioni di sterline. Intanto i servizi pubblici si riducono e la gente deve tirare la cinghia perché c’è il debito pubblico da ripianare.
Ecco allora spiegato in un colpo solo ciò che unisce la minoranza di scalmanati alla maggioranza pacifica del «March for the Alternative», la Marcia per l’Alternativa organizzata dal Trades Union Congress (Tuc). L’evento, al di là della deriva «antagonista», è chiaramente un successo. Secondo il Tuc al corteo hanno preso parte almeno 250 mila persone. Ma il numero esatto poco importa, è la qualità che conta. In piazza, sintetizza Christine Nugent, ricercatrice e veterana dell’era Thatcher, non ci sono «i soliti sospetti». Ovvero i professionisti del malcontento. Ma quella Gran Bretagna media «strizzata» da tasse, inflazione, riduzione degli stipendi e, quando va proprio male, disoccupazione. Una fetta importante del Paese che per il leader laburista Ed Miliband si è già stancata della ricetta lacrime e sangue propinata da Tory e Liberaldemocratici. L’occasione per rivolgersi direttamente alla «maggioranza silenziosa» è troppo ghiotta per lasciarsela scappare. «I Conservatori - grida Miliband dal palco di Hyde Park - hanno subito sostenuto che non sarei dovuto venire qui a parlare. Ma oggi sono orgoglioso di essere qui: l’alternativa esiste». Ovvero sforbiciare la spesa pubblica ma non in modo così aggressivo e profondo come impongono Cameron e compagni.
Ad animare la piazza, ad ogni modo, non è solo una questione di «ritmo» ma anche di «strategia». «Un governo coraggioso», dice Len McCluskey, segretario di Unite, prima sigla sindacale del Regno Unito, «farebbe più attenzione alle tecniche di riduzione dell’impatto fiscale messe in campo dalle aziende». «L’evasione legale» costerebbe infatti all’erario di Sua Maestà 25 miliardi di sterline all’anno.
«Noi non marceremo e basta per poi essere ignorati», tuona Sally Mason di UKuncut. «Fortnum&Mason è un simbolo di ricchezza e d’ingordigia, dove i cestini del picnic arrivano a costare 25 mila sterline. Il governo sta compiendo una scelta ben precisa: chiude un occhio sull’evasione fiscale legale e al contrario se la prende con lo Stato sociale. Ecco perché siamo pronti a forme di disobbedienza civile». Il che comprende occupare un intero piano dell’esclusivo negozio mentre, accampati sulla balconata d’ingresso, degli attivisti scrivono sulla facciata con le bombolette «Tory feccia» e «pagate le tasse». Fuori l’atmosfera si fa ovviamente tesa. Polizia e manifestanti si scontrano, alcune filiali delle banche Hsbc e Santander vengono assaltate, gli agenti di Scotland Yard effettua 75 arresti mentre si registrano 38 feriti in entrambi gli «schieramenti», inclusi cinque poliziotti. «Spero che questi scontri - ha commentato Brendan Barber, capo del Tuc - non finiscano per distogliere l’attenzione dal messaggio lanciato oggi in modo pacifico da centinaia di migliaia di persone. Il governo ora rifletta. David Cameron parla tanto di Big Society. Bene, eccola qua».

il Fatto 27.3.11
Ora la Gelmini deve risarcire i precari
Il Tribunale di Genova prevede 500 mila euro per 15 insegnanti
di Caterina Perniconi


Se lavori in un’azienda privata, dopo tre anni di contratti a termine continuativi devi essere assunto. Ma se il tuo datore di lavoro è lo Stato la stessa regola non vale. O almeno, non valeva fino a pochi giorni fa, quando il Tribunale del Lavoro di Genova ha riconosciuto a 15 insegnanti precari un risarcimento di 30 mila euro circa ciascuno, per un totale di oltre 500 mila euro.
I GIUDICI LIGURI hanno ritenuto che se il ricorso allo stesso docente precario è ripetuto nel tempo, e da più di tre anni, non è una necessità temporanea ma stabile, e quindi la scuola si trova in una situazione di utilizzo illegale del contratto a termine.
I posti vacanti che il ministero dell’Istruzione potrebbe assegnare ai precari sono oltre 10 mila, mentre le supplenze annuali ammontano a 120 mila. La sentenza va a correggere il conflitto esistente da quanto previsto dalla normativa europea sulle assunzioni a tempo determinato e quella italiana che non prevede per il ministero gli stessi obblighi imposti ai privati. “É una sentenza molto importante – spiega il segretario della Flc Cgil, Mimmo Pantaleo – dopo il collegato lavoro abbiamo presentato oltre 40 mila ricorsi come questo sia sul versante dell’immissione in ruolo che per il riconoscimento delle carriere. Stiamo richiedendo da mesi un incontro al ministero per risolvere il problema dei precari senza ricorrere al giudice e a contenziosi infiniti, nella completa sordità del ministro”. Martedì, infatti, è previsto un incontro tra il Miur e i sindacati sul tema, ma sarà un tavolo tecnico. “Serve invece la volontà politica di parlare della scuola e dei suoi problemi per risolverli – continua Pantaleo – e non stiamo chiedendo una sanatoria, ma la copertura dei posti vacanti, lo sblocco del turnover con la sostituzione dei 27 mila insegnanti che vanno in pensione e il cambio dei meccanismi di reclutamento”.
LA PROPOSTA della Cgil è quella di trasformare il meccanismo esistente, dove c’è un organico di diritto (gli assunti) e uno di fatto (conteggiando anche i precari) in un organico funzionale, stabile per almeno 3 o 4 anni, “in modo da offrire qualità e continuità alle famiglie e agli studenti”.
“È una sentenza e una vittoria importante per uomini e donne che lavorano da troppo tempo in una situazione di precariato con passione e competenza per l’educazione dei cittadini di domani – dichiara Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Pd – il ministro e il governo devono ripensare alle politiche disastrose nella scuola pubblica”. Come la Cgil, anche per i democratici il problema si risolve “in un solo modo: cancellando la terza tranche di tagli, stabilizzando i centomila precari che stanno lavorando su posti vacanti (non costa molto di più allo stato, visto che già vengono pagate loro le ferie non godute e la disoccupazione), l’assegnazione di un organico funzionale a ciascuna scuola autonoma per dare continuità didattica agli studenti con bisogni speciali, per le supplenze brevi, per la qualificazione dei piani di offerta formativa”.
TRA L’ALTRO, se la sentenza del Tribunale di Genova venisse applicata a tutti gli insegnanti precari con almeno tre anni di continuità lavorativa, il ministero dovrebbe pagare più di 4 miliardi di euro, annullando di fatto oltre la metà dei tagli alla scuola.
“É una grande vittoria e già ci stiamo muovendo con ricorsi – spiega Caterina Altamore, la docente palermitana precaria che lo scorso anno ha fatto lo sciopero della fame davanti a Montecitorio per chiedere un posto di ruolo – dopo 10 anni di incarichi continuativi ritengo che questa sentenza renda giustizia al mio lavoro. Stanno provocando un danno all’erario enorme e questi soldi non dovrebbe metterli lo Stato ma i responsabili politici di questa situazione che ha il solo scopo di rovinare la vita ai docenti e agli studenti della scuola pubblica”. Ma per i precari è ancora presto per stappare lo champagne. Il ministero ha annunciato un ricorso sulla sentenza e la partita per i diritti è ancora tutta da giocare.

il Fatto 27.3.11
L’impero sanitario soffocato dai debiti
La rete di amici degli amici che sostiene Don Verzé
di Giovanna Lantini


Milano. “Chi ha dubbi sul San Raffaele si rassegni a vedere accadere nuovi prodigi”. Soltanto una settimana fa don Luigi Verzé rispondeva alle indiscrezioni dell’Espresso sulla forte esposizione debito-ria (900 milioni di euro) della Fondazione Centro San Raffaele del Monte Tabor. Passando dai prodigi alle cose terrene, alle banche il manager di Dio mandava a dire che con gli interessi del suo gruppo (260 milioni in 20 anni), “possono pagarsi lo stipendio di diversi loro dirigenti”. A loro come ai fornitori (“benefattori del San Raffaele per la loro pazienza”) però, evidentemente non bastano più né interessi, né attese di prodigi.
Buco da milioni nell’impero del confessore
IL PIANO di salvataggio della Fondazione che dovrà vedere la luce entro un mese, sembrerebbe, in base alle prime indiscrezioni, la risposta a un aut aut. Senza sconti. Qualcosa dev’essersi quindi inceppato nel circolo “virtuoso” dell’impero del confessore di Silvio Berlusconi. Del resto sono stati due anni molto impegnativi questi ultimi, per le aziende nell’orbita del colosso sanitario, come per gli influenti amici del don.
Sul fronte degli affari, oltre al buco da 10 milioni causato da un famoso jet di proprietà di una società del gruppo, si sono registrati lo stallo della partecipata per la telemedicina Telbios e i rilievi delle Entrate a Science Park Raf, il gestore del parco scientifico di Segrate. Sembrerebbe poi arrancare la facoltà universitaria del filosofo Massimo Cacciari. E forse l’offerta di una cattedra alla laureanda Barbara Berlusconi non ha giovato al prestigio accademico. Al rettore non rimane ch esperare in una compensazione a medicina con le emule dell’altra celebre “laureata” della sua università, Nicole Minetti, che dall’igiene dentale del Vita Salute è stata proiettata nella lista Formigoni e ai festini di Arcore.
Qualche consolazione potrebbe invece arrivare dallo smaltimento dei rifiuti e produzione di elettricità della partecipata Blu Energy Milano. Don Verzé, come racconta Berlusconi, perdona i peccatori senza ascoltare i loro peccati. Non stupisce quindi che a guidare l’azienda (882 mila euro di utili e un debito di 130 milioni a fine 2009) risulti ancora Giuseppe Grossi, l’ex re delle bonifiche che ad aprile dovrebbe andare a processo per associazione a delinquere finalizzata alla truffa, frode fiscale e appropriazione indebita nella vicenda Santa Giulia. Grossi, tra i fedelissimi di don Luigi, però un po’ di purgatorio se l’è fatto: nel cda della Fondazione non siede più da quando nel 2009 venne arrestato . Per la sostituzione le preferenze di don Luigi erano tutte per il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli, impedito da altri incarichi. È toccato allora al banchiere aggiusta tutto, Carlo Salvatori, cui è appena stato affidato l’incarico di districare gli ingarbugliati affari della Fondazione. Non potrà certo puntare sui frutti della ricerca della quotata MolMed (biotecnologie), da sempre in perdita e nel cui cda Luigi Berlusconi siede accanto a Marina Del Bue, la sorella di Paolo, fondatore di Arner, la banca del premier, nonché imputato al processo per la compravendita dei diritti tv di Mediaset. Del resto Arner è stata tra i soci della prima ora di MolMed, accanto all’amico Ennio Doris, ma come molti, a partire dal gruppo San Raffaele che non aveva fondi, con l’ultimo aumento di capitale ha fatto un passo indietro. Fininvest no.
I fondi regionali grazie a Nichi Vendola
UN PO’ di respiro potrebbe invece arrivare dalla controllata Edilraf che in estate dovrebbe iniziare a consegnare gli appartamenti della Residenza il Ruscello, un complesso residenziale a Cologno Monzese che offre agevolazioni ai dipendenti dell’ospedale interessati all’acquisto. Basta che si rivolgano al referente dell’ufficio vendite, Diego Catania, manager del San Raffaele che lo rappresenta, come presidente, anche nell’Associazione italiana tecnici di radiologia interventistica. Difficile poter contare, poi, su nuovi sforzi di sostegno da perte del governatore della Puglia, Nichi Vendola, che per l’amico e potenziale elettore don Luigi si è già speso molto sponsorizzando la nascita a Taranto della Fondazione San Raffaele del Mediterraneo, con un ospedale che sostituirà quelli del territorio via 120 milioni di fondi regionali. Un’operazione già in ritardo sui tempi previsti non senza incidenti di percorso. Come la nomina a presidente della Fondazione di Paolo Ciaccia, socio dell’assessore regionale al Bilancio, poi sostituito con Vittorio Dall’Atti, già presidente del collegio sindacale dell’ente, nonché componente della commissione per la valutazione dei candidati direttori generali delle ASL pugliesi. Insomma, ora a don Verzé sarebbero davvero preziosi i servigi del “fedele e leale” Pio Pompa per il quale la direzione del Sismi consisteva per i raffaelliani “nella possibilità di sostenere adeguatamente progetti di consolidamento economico e sviluppo futuro”, anche attraverso centri scientifici congiunti tra il San Raffaele e i servizi. Un vero e proprio dono dal cielo, poi, sarebbero donatori generosi, benché interessati, come quel senatore Enrico Pianetta cui la collaboratrice di giustizia Perla Genovesi ha attribuito l’agevolazione dif inanziamenti gonfiati in favore del San Raffaele e garantiti da un buon posto in lista elettorale.
Dalla cacciata ai consigli di Geronzi
MOLTO probabile invece che il sacerdote possa fare sempre affidamento anche in un momento difficile come questo sul ministro della Salute Ferruccio Fazio, già suo uomo al San Raffaele, sostenitore delle attività del don in Sicilia e a Roma. Il ministro, del resto, ha già dato il placet al riassetto del “grande pilastro della sanità milanese”. Tutt’altra pasta rispetto a Rosy Bindi, che nel 1998 aveva cacciato don Luigi da Roma,costringendolo a vendere l’ospedale della capitale agli Angelucci.
Anche allora i conti di don Verzé erano in tensione, con le banche che si erano girate dall’altra parte: anche l’amico Cesare Geronzi, dopo averlo invano difeso accomunando gli interessi del sacerdote a quelli della “sua” Banca di Roma, gli consigliò di tornare a Milano. Dove la Cariplo (oggi Intesa), primo creditore del San Raffaele, gli paventava la chiusura dei rubinetti e il commissariamento. E chissà se anche in queste ore, a 11 anni di distanza, per il don si è palesato il “sorriso amaro” di Giovanni Bazoli, 78enne presidente del consiglio di Sorveglianza di Intesa Sanpaolo.

l’Unità 27.3.11
I motivi del declino di un Paese sperduto
Un libro del sociologo Carlo Donolo analizza la melma in cui siamo caduti per individuare possibili vie di fuga. Senza lamenti ma con senso di realtà
di Goffredo Fofi


Distinguere i buoni-veri dai buoni-finti è, oggi come oggi, molto difficile. Più facile è distinguere tra i libri buoni e quelli che toccano i problemi fondamentali con la superficialità dei piccoli profittatori opportunisti. Il dovere di chi segue la produzione libraria e in generale artistica e culturale è quello di segnalare il meglio, soprattutto tra i saggi che parlano dell’Italia e dei suoi problemi, e per fortuna ce ne sono diversi che non sono né pretestuosi né ruffiani, perché nonostante tutto l’università continua ad avere, in alcune sacche e in alcuni anfratti, molte teste pensanti e riesce ancora a produrre molti giovani di talento che non fuggono dall’Italia appena possibile (ma se lo fanno, hanno tutte le ragioni per farlo) e che sono interessati a una conoscenza attiva e propositiva, a confrontarsi con la realtà. Lo fa l’università, non lo fanno i media, quasi sempre micidiali.
Dei tanti libri inutili che narrano le pene dell’Italia odierna l’elenco di quelli brutti sarebbe interminabile, ma è piuttosto lungo anche quello dei buoni, e uno in particolare dovrebbe sollecitare l’attenzione dei lettori, Italia sperduta di Carlo Donolo (Donzelli). Donolo è un sociologo serio, seriamente preoccupato di capire l’Italia, le ragioni del nostro declino e anche i pochi motivi di speranza, l’indicazione pur generica di qualche strada possibile, di qualche accidentato sentiero per uscirne. Il suo è anzitutto un libro di analisi e constatazione e non indulge ai toni lamentosi o altisonanti dei più, e cioè alla retorica. Se si vuole uscire dalla melma in cui ci siamo ridotti e abituati a vivere, bisogna capire come e perché ci sia-
mo finiti. Con parole certamente diverse da quelle di Donolo, ricavo dalla sua analisi: la grande miseria intellettuale e morale dei ceti dirigenti (anche di sinistra) e il risultato della loro incapacità o delle loro truffe. “illegalità e corruzione, criminalità organizzata, inefficienza delle istituzioni, crisi fiscale, bassa produttività, disoccupazione”; il populismo che trionfa e che ha la sua base in una piccola borghesia amorale e aggressiva, familista e lobbista, stupida e frastornata, che è divenuta la forza maggiore e decisiva nel paese, sostanzialmente amorale essa cerca di mantenere i suoi standard anche in una situazione di sviluppo bloccato e si lascia incantare e manipolare dalla sua parte più ricca e più cinica; un sistema elettorale decisamente antidemocratico; l’incertezza e lo sconcerto dei più giovani di fronte a modelli piuttosto ignobili (e che, comunque, anche quando sembrano migliori, non hanno la vista lunga e le gambe solide, la mente aperta e il cuore al posto giusto, e non sembrano tenere in alcun conto valori come la sincerità e l’interesse pubblico.
La nostra classe dirigente, insiste Donolo, è “socio-culturalmente omogeneizzata per stile di vita e ambizioni, abituata a un tenore di vita stravagantemente più elevato di quello della popolazione lavoratrice, auto-referenziale nel lessico, nei gesti, nelle condotte, e occupa-
ta in maniera preponderante dalle questioni interne. Poca capacità di rispondere alle esigenze sociali e poco senso di responsabilità, poca cultura europea, poca fantasia” e una “costante dipendenza da cattive abitudini”. E a sinistra? “Un riformismo che si potrebbe dire mai nato, fragile, poco convinto, attratto dal moderatismo, poco incline a dire la verità”. Il risultato è una società senza conoscenza e senza morale, un’identità già fragile ma mai così tanto, per non parlare della perdita di senso della politica che è diventata casta e mestiere, mai vocazione alta alla responsabilità verso la “res publica”. Eppure le potenzialità ci sarebbero, ma anche Donolo è costretto a constatare senza mezzi termini sia la presenza di una gran quantità di “buoni” che la loro debolezza e l’incapacità di collegarsi e farsi politica.
Queste forze ci sono “in ogni settore e in ogni territorio: ma sono frammentarie, divise, spesso isolate, e non hanno ancora elaborato un lessico comune, per quanto sotto molti aspetti ne esistano ormai tutte le precondizioni. Molti dei migliori italiani tacciono: per la sorpresa dell’essere andati così avanti nel degrado, per lo choc di constatare la fragilità degli anticorpi, per la sofferenza della solitudine e della mancanza di prospettive”. La nota finale è decisamente malinconica e, per quel che mi riguarda, condivisibile: “Quelli della mia generazione che, come si dice, hanno fatto il ’68, chiudono un ciclo di vita tra rassegnazione, indignazione e frustrazione, con il rimorso di lasciare ai giovani una società intimamente corrosa e un patrimonio di beni comuni pericolante”.

l’Unità 27.3.11
La filosofia e il Giappone
Là dove non si bada al pericolo cosa cresce?
di Francesca Rigotti


A Komaba, uno dei vari campus sui quali è distribuita l'Università di Tokyo, la prima dell'Asia, una delle prime dieci al mondo, i viali percorsi da studenti, docenti e personale sono accompagnati da filari di alberi. Ero lì in gennaio, ospite del Center of Philosophy e gli alberi erano tutti nudi e spogli. Mi dissero: «In primavera, sa, saranno tutti fioriti e sarà bellissimo».
Ero lì l'11 gennaio, avrei potuto esserci l'11 marzo, è un caso, come è un caso che la data della sciagura naturale abbia copiato quella della sciagura artificiale, ancora un 11 di mese dispari di anno dispari (gli dei non amano i numeri dispari). Immagino che adesso saranno fioriti davvero quegli alberi, in uno sfavillio di rosa e di bianco, come se la natura volesse ostentare la sua potenza, qui in modo benevolo, davanti a coloro che con pubertario ottimismo pensano che i problemi che la tecnica ha causato dalla tecnica stessa verranno prima o poi risolti. E' questa la mentalità che si può riassumere col celebre verso del poeta lirico tedesco Friedrich Hölderlin: «Là dove c'è pericolo, cresce anche ciò che salva» (Wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch).
Si tratta di un motivo condiviso da filosofi quali Heidegger, Benjamin, Adorno, Agamben, secondo i quali il potere salvifico cresce proporzionalmente al pericolo («solo quando la casa brucia il problema architettonico fondamentale diventa visibile per la prima volta», scrive per esempio Giorgio Agamben in Quel che resta di Auschwitz).
La tecnica stessa ci salverà dai problemi della tecnica, si ripetono per convincersi che sia vero, e via a progettare e a costruire sempre più grandi dighe, grandi centrali e grandi ponti proprio là dove c'è pericolo, col pensiero che alla fine sarà sempre la scienza ad offrire la soluzione. Nel campus di Komaba, il prestigioso Center of Philosophy si riduce a due stanzette strapiene di libri e di computer; il suo direttore, Yasuo Kobayashi, un filosofo giapponese che parla meravigliosamente francese, i molti collaboratori e persino la segretaria, condividono un unico locale per di più poco riscaldato perché, come mi è stato spiegato, a causa della crisi economica la temperatura negli uffici e nelle case viene mantenuta bassa. Io guardavo e ascoltavo, stupefatta, ammirata e in cuor mio stregata da tanta sobrietà, cortesia e disponibilità, e insieme serietà, preparazione, competenza e impegno.
Come staranno ora è difficilmente immaginabile, ora che devono convivere anche con l'angoscia passata e futura delle scosse, con la distruzione operata dall'onda, con la paura più che giustificata e umana delle radiazioni nucleari. Là dove non si è badato al pericolo cresce infatti qualcosa di terribile, non certo la salvezza.

La Stampa 27.3.11
Riflessioni sull’omicidio dei coloni
di Abraham Yehoshua


Nel cuore del Negev, il più grande deserto di Israele, c’è il famoso kibbutz Sde Boker. Famoso non solo perché i centri abitati del Negev sono pochi e ciascuno di essi merita di essere menzionato, ma soprattutto perché il primo capo del governo israeliano, David Ben Gurion, vi si stabilì già agli inizi degli Anni 50.
Tale scelta fu fatta per proporre alla giovane nazione di cui lui era il principale architetto la sfida di un insediamento nazionale nella regione più desertica di Israele.
Una regione vasta più della metà del suo territorio e scarsamente popolata da ebrei. «Nel Negev si determinerà il destino del popolo ebraico», aveva dichiarato Ben Gurion. E questa semplice frase è incisa su una grande roccia all’ingresso di uno dei campi militari sparsi nel deserto.
La tomba di Ben Gurion si trova nel kibbutz Sde Boker e la lapide riporta, su sua richiesta, solo tre date: quella della nascita, quella della morte, e quella della sua immigrazione in Israele. La semplice casetta di legno dove lui e sua moglie Paula hanno vissuto fino alla morte è ancora meta di pellegrinaggio per molti israeliani e turisti.
Nell’istituto di studi superiori intitolato a Ben Gurion e situato vicino al kibbutz si tengono numerose attività accademiche fra le quali ogni anno, in inverno, un festival di poesia denominato «Poesia nel deserto». A esso partecipano poeti ma anche autori di prosa, ai quali viene chiesto di leggere le loro opere. Nonostante Tel Aviv disti da Sde Boker soltanto un paio d’ore, io sono solito invitare i miei tre figli e i miei sei nipoti a unirsi a me e a mia moglie per un soggiorno nel deserto, ritenendo che ogni israeliano debba recarsi una o due volte all’anno in quei luoghi e trascorrervi almeno una notte.
Abbiamo così preso alloggio in una fattoria poco lontana da Sde Boker, chiamata Zeit Midbar (Olivo del deserto): io e mia moglie nell’unico bungalow disponibile mentre i miei figli, con relativi coniugi e prole, in tende indiane riscaldate. Lì abbiamo goduto per lunghe ore l’atmosfera del deserto, la sua luce particolare, le sue voci e la vista dei pacifici animali che ci gironzolavano intorno.
Quello stesso giorno ci sono giunte le terribili notizie del terremoto in Giappone e dell’omicidio della famiglia di coloni nell’insediamento di Itamar: padre, madre e tre figlioletti, tra cui una neonata di quattro mesi, brutalmente assassinati nel sonno da due terroristi palestinesi provenienti da un vicino villaggio.
Questo abominevole delitto è stato esplicitamente condannato non solo dal presidente dell’Autorità palestinese, ma anche dai direttori di alcuni importanti giornali della West Bank. Il primo ministro israeliano però, non contento delle condanne giunte da tutto il mondo e dall’Autorità palestinese, ha deciso di infliggere una punizione collettiva ai palestinesi annunciando l’immediato proseguimento della costruzione degli insediamenti in molte zone dei territori occupati. Dico «punizione collettiva» perché quale colpa hanno per esempio gli abitanti di Betlemme di un omicidio perpetrato a parecchi chilometri di distanza dalle loro case per essere espropriati da terreni destinati al futuro sviluppo dei loro figli?
La terra è una delle principali componenti dell’identità di un popolo, forse la più importante. L’ampio deserto che ci circonda è parte rilevante e preziosa della mia identità di israeliano e di quella dei miei figli. Se qualcuno ci espropriasse anche di una sua piccola parte protesterei e lotterei con tutte le mie forze. Lo Stato di Israele nei confini del 1967 occupava tre quarti della Palestina originale mentre allo Stato palestinese rimaneva solo un quarto. Perché dovremmo impossessarci di altri territori quando abbiamo a disposizione spazi vuoti che il padre della nostra nazione, David Ben Gurion, vedeva giustamente (sotto un profilo pratico, non romantico) come potenziali zone di insediamento?
Dopo tutto, con i moderni mezzi di trasporto (che continueranno a migliorare), il Negev non è lontano dal centro di Israele. E con i sofisticati mezzi tecnologici a nostra disposizione potremmo costruire nel Negev meravigliose città moderne come è accaduto in molti luoghi desolati del mondo. Perché investire denaro in provocatori insediamenti all’interno del tessuto del popolo palestinese, insediamenti che suscitano una forte opposizione nel mondo e nello Stato ebraico e per la cui esistenza e sicurezza entrambe le parti devono pagare con spargimenti di sangue? Il passato ci ha già insegnato che insediamenti simili nella penisola del Sinai sono stati sradicati dal governo di destra con l’avvento della pace con l’Egitto. E altri irrazionali insediamenti ebraici nel cuore dei campi profughi della Striscia di Gaza sono stati rimossi con il pugno di ferro dal leader più nazionalista di Israele, l’ex primo ministro Ariel Sharon. Perché ripetere errori che l’intera comunità internazionale condanna? Perché stabilirsi provocatoriamente su territori che creeranno nuovi contrasti, quando invece Israele ha a sua disposizione ampie aree desertiche che attendono solo di essere popolate da ebrei (una scelta corretta anche da un punto di vista ecologico e morale)?
Queste sono state le nostre riflessioni nell’udire le tremende notizie di quel triste venerdì giunte da lontano e da vicino mentre a Sde Boker, fiorente kibbutz nel deserto, ascoltavamo le poesie di amici che ancora credono, giustamente, che la poesia sia in grado di penetrare profondamente nei cuori.

il Fatto 27.3.11
Ma quanto era pacifista Sofocle
di Giovanni Ghiselli


La Medea di Euripide, disgustata dal padre dei suoi figli e pronta a ucciderli per farlo soffrire, dice alle donne Corinzie: “Preferirei stare tre volte accanto a uno scudo che partorire una volta sola”. Eppure nella letteratura antica non mancano le maledizioni della guerra. Gli orrori cui assistiamo rendono attuali e ancora una volta necessarie rileggere queste deprecazioni sante.
GIÀ NELL'ILIADE, un poema pur pieno di battaglie sempre sonanti, Zeus dice ad Ares: “Tu per me sei il più odioso tra gli dei che abitano l’Olimpo” . Il dio della guerra non è ben reputato: secondo il Coro dei “Sette a Tebe” di Eschilo, una tragedia piena di Ares, questo nume è un massacratore che soffia con furiosa violenza e contamina la pietà.
Nell'“Agamennone” il medesimo dio viene definito “il cambiavalute dei corpi”, nel senso che la guerra distrugge la vita e arricchisce gli speculatori: “Invece di uomini, tornano a casa urne e ceneri”. Nell’“Edipo re” sempre Ares viene deprecato da Sofocle come "il dio disonorato tra gli dei" . Empedocle di Agrigento nel “Poema lustrale” narra che gli uomini della primitiva età felice non avevano Ares come dio, né il Tumulto della battaglia, ma solo Cipride regina. Il sangue chiama altro sangue: e colpo e contraccolpo, e l’eccesso sull’eccesso si posa. I poeti antichi mettono anche in rilievo le sofferenze delle donne per le guerre degli uomini. Nell'“Edipo re” il coro deplora i lutti causate dal conflitto cui è seguita la peste, materiale e morale: "Le spose e anche le madri canute, di qua e di là, presso la sponda dell'altare, gemono supplici per le pene luttuose". La guerra porta sempre con sé rovine e degradazioni “collaterali”. Viceversa, la concordia viene raccomandata dalle commedie pacifiste di Aristofane che dichiara guerra alla guerra: nella “Pace”, la festa per la bella Irene odora di frutta, di conviti, di grembi di donne che corrono verso la campagna e altre cose buone.
NEGLI “ACARNESI”, altra commedia pacifista di Aristofane, Diceopoli racconta che dei giovanotti ateniesi avvinazzati rapirono una prostituta di Megara, e i Megaresi, per rappresaglia, ne sottrassero due ad Aspasia. Per tre puttane dunque Pericle scatenò la guerra del Peloponneso. Nella “Lisistrata” infine, le femmine greche fanno lo sciopero del sesso per indurre i maschi protervi alla pace. Euripide attribuisce a Poseidone una condanna delle devastazioni belliche nel prologo delle “Troia-ne”: “È stolto tra i mortali chi distrugge le città, gettando nella desolazione templi e tombe, asili sacri dei morti; tanto poi egli stesso deve morire”. L’impero è frutto di devastazioni e rapine, e dove fanno il deserto, i ladroni del modo, lo chiamano pace, scriverà Tacito.
Nell'“Elena”, nell’“Elettra” e nell'“Oreste”, Euripide sostiene che a Troia non è mai andata Elena, ma gli dèi ci hanno mandato un suo fantasma, affinché i mortali, troppo grevi, si massacrassero a vicenda alleggerendo la terra. Le guerre combattute per degli idoli non possono che essere perdute. Perdute da tutti, prima di tutti però dai poveri delle due parti. Concludo con Brecht: “La guerra che verrà non è la prima. Ce ne sono state altre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente”. Io spero che presto la guerra susciti abominio e diventi tabù, come l’incesto.

Corriere della Sera 27.3.11
L’«eretico» del Cnr: i terremoti? Castigo divino
Nuove polemiche sullo storico de Mattei. «Riaffermo solo la tradizionale dottrina cattolica»
di Antonio Carioti


MILANO — «Gli attacchi contro di me sono un tipico esempio della dittatura del relativismo denunciata da Benedetto XVI. Perché non ho fatto altro che riaffermare la tradizionale dottrina cattolica sulla provvidenza» . Roberto de Mattei, vicepresidente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), è di nuovo nell’occhio del ciclone. Dopo il discusso convegno antidarwiniano da lui organizzato nel 2009, ora lo storico romano, docente presso l’Università europea di Roma (legata ai Legionari di Cristo), è nel mirino per una conversazione a Radio Maria, nella quale ha sostenuto che i terremoti «sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio» e che in alcuni casi possono essere castighi divini. Online sono state raccolte migliaia di firme per chiederne le dimissioni, da parte di chi considera le sue posizioni «al di fuori del pensiero razionale» su cui si basa il metodo scientifico. «Innanzitutto— replica de Mattei— non parlavo come vicepresidente del Cnr, ma da cittadino e da credente. Mi sono limitato a riprendere un libretto del 1911 scritto da monsignor Mazzella, arcivescovo di Rossano Calabro, che commentava il terremoto di Messina del 1908 riflettendo sul mistero del male. Il punto è che, come insegnano san Tommaso e sant’Agostino, nell’universo non accade nulla che non sia voluto, o almeno permesso, da Dio per precise ragioni. E tra di esse non è da escludere l’ipotesi di un castigo divino, anche se in materia non vi è certezza» . Ma il Dio cristiano non è amore? «Certo, infatti nel mio discorso non c’è alcun compiacimento. Esso nasce, al contrario, dalla convinzione che uno dei modi per aiutare spiritualmente chi soffre sia trovare una ragione alta e nobile per le disgrazie che l’hanno colpito, spiegando che anche le catastrofi sono originate dall’amore divino, che trae sempre il bene dal male» . Però la scienza indica cause geologiche per i terremoti. «Qui siamo su un piano diverso. Avanzare questa motivazione per chiedere che io mi dimetta equivale a esigere la cacciata dall’università di un fisico che crede al dogma della transustanziazione, certamente antiscientifico, per cui al momento della consacrazione eucaristica pane e vino diventano corpo e sangue di Cristo. Con questa logica scandalosa si arriverebbe a precludere ai cattolici ogni incarico pubblico» . D’altronde de Mattei non si stupisce per gli attacchi degli atei: «Conosco la loro intolleranza: a parte Piergiorgio Odifreddi, non hanno mai accettato di confrontarsi con le mie idee, lanciano solo invettive. Mi colpiscono semmai il silenzio e l’ateismo pratico di certi cattolici, per i quali Dio sarebbe assente dalla storia, avrebbe creato l’universo per poi disinteressarsene» . Alcuni teologi infatti spiegano le sciagure naturali con una meccanica propria del mondo, non riconducibile alla volontà di Dio. «San Paolo scrive che il male e la morte sono entrati nel mondo attraverso il peccato originale di Adamo ed Eva. Da quella colpa derivano tutte le lacrime e i dolori dell’umanità. Oggi però nel mondo cattolico è penetrata una visione evoluzionista e poligenista, per cui il genere umano non proverrebbe da una coppia primordiale. Ma Pio XII nell’enciclica Humani Generis ha riaffermato che l’esistenza personale di Adamo ed Eva fa parte del magistero della Chiesa. Questa è una delle tante ragioni per cui un cattolico non può accettare le teorie di Darwin. Perciò mi stupisce che un semievoluzionista come il cardinale Gianfranco Ravasi presieda il Pontificio consiglio per la cultura» . Secondo lei non è adatto all’incarico? «Si chiede a me di lasciare la vicepresidenza del Cnr, ma sarebbe più logico che si dimettesse Ravasi, che sostiene in campo esegetico e scientifico posizioni non del tutto coerenti con la tradizione della Chiesa. Oltretutto l’evoluzionismo è indimostrabile sul piano sperimentale: di fatto è un mito che si sta sgretolando. Sono sempre più numerosi gli scienziati che lo rigettano, come quelli che ho riunito a Roma due anni fa. Ma Ravasi non ha invitato nessuno di loro al convegno a senso unico su Darwin organizzato nel marzo 2009 alla Gregoriana: neppure Josef Seifert, che è membro della Pontificia accademia per la vita» .

il Riformista 27.3.11
La cantina dell’elettricista con 271 opere di Picasso
di Francesco Bonami

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il Riformista 27.3.11
Dossier Antigone
Vivere l’adolescenza rinchiusi in una cella
di Giacomo Russo Spena

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Corriere della Sera Salute 27.3.11
Molti artisti spinti dalla passione per la musica ignorano i segnali di fatica
Clara Schumann, la pianista che non volle arrendersi al dolore
di Alice Vigna


Nel 1857, Clara Wieck-Schumann scriveva al violinista Joseph Joachim: «Ho dovuto cancellare il concerto. I dolori alle braccia sono tornati, ho passato una notte terribile» . Clara componeva musica, come il marito Robert Schumann, ed era una pianista: fu una delle prime donne a tenere concerti in giro per l'Europa, ma la sua vita di musicista fu minata dal dolore cronico. Un dolore contro cui divette combattere per anni e che derivava proprio dalla passione per il pianoforte, instillata dal padre fin da piccolissima. Papà Friedrich Wieck nel 1815, quattro anni prima che Clara nascesse, aveva aperto a Lipsia una scuola per musicisti; quando si rese conto che Clara aveva un talento musicale innato (a quattro anni già sapeva suonare a orecchio alcune melodie) iniziò a insegnarle il pianoforte. Friedrich era un maestro inflessibile, ma illuminato: profondo conoscitore delle teorie pedagogiche di Pestalozzi e Rousseau, non voleva che Clara si stancasse, per cui ogni giorno la bimba suonava per tre ore, poi per altre tre ore doveva fare esercizio fisico all'aria aperta. Perché non accumulasse tensioni, Friedrich insegnò a Clara a suonare mantenendo gomiti e polsi rilassati, con la massima economia dei movimenti; la sottoponeva a esercizi di stretching per le dita, le insegnava la postura migliore al piano. Clara suonò per la prima volta in pubblico a dieci anni: già allora chi la ascoltava restava incantato dalla perfezione della tecnica, dalla creatività e dalla dolcezza di giovanissima pianista. L a sua vita cambiò nel 1830, quando il ventenne Robert Schumann iniziò a prendere lezioni di pianoforte in casa Wieck. Clara si innamorò ben presto di Robert, ma la relazione fu osteggiata dal padre di lei, che forse si era accorto delle fragilità psicologiche dell'uomo. Clara e Robert riuscirono a sposarsi nel 1940, quando lei compì 21 anni. Per i primi anni tutto andò bene, poi le frequenti amnesie di Robert, i suoi disturbi nervosi e la sua instabilità si aggravarono finché, nel 1954, il musicista fu ricoverato nel manicomio di Endenich, a Bonn, dove morì due anni dopo. È dal ricovero di Robert che cominciano i guai di Clara. Rimasta sola a dover mantenere i 7 figli, si accollò un'enorme quantità di lavoro. Nel 1854 inanellò ben 22 concerti europei in appena due mesi, negli anni successivi non si risparmiò. E ben presto il suo corpo le chiese un conto salato: Clara cominciò ad accusare dolori fortissimi soprattutto al braccio sinistro. Spesso non riusciva a dormire, annullò diversi concerti, le cure a base di oppio e l'immobilità non le giovarono, perché dopo poco tempo i dolori ritornavano. M a Clara non volle fermarsi e anzi decise di impegnarsi in performance sempre più difficili: nel 1861 suonò l'impervio concerto N. 1 in re minore di Brahms, che le richiese uno sforzo fisico immenso. «La Wieck-Schumann soffriva di quella che oggi chiamiamo "sindrome da sovraccarico — spiega Rosa Maria Converti, responsabile dell'ambulatorio "Sol Diesis"dedicato ai musicisti, dell'Istituto don Gnocchi di Milano —. È una delle patologie più frequenti dei pianisti e dipende dal fatto che il musicista suona pezzi che sono al di sopra delle sue possibilità, senza un'adeguata preparazione fisica, oppure suona troppo: c'è chi va avanti anche 15 ore, magari senza pause, senza stretching» . Clara, grazie alla forza di volontà, alla ferrea disciplina e alle buone regole di postura apprese fin da piccola non cedette, anche se le capitava di non riuscire a muovere altro che le dita. Poi, fra il 1873 e il 1875, il crollo: annullò tutti i concerti in Inghilterra e negli Stati Uniti per trovare finalmente una soluzione al suo dolore cronico e rischiò di cadere in depressione mentre tentava i curarsi in ogni modo, facendosi visitare da innumerevoli medici. N el gennaio del 1875 andò a Kiel, dal famoso medico Friedrich von Esmarch. E lui la curò con un approccio che precorreva di cento anni le moderne teorie di medicina del dolore, in un modo che oggi si chiamerebbe «multidisciplinare» : la sottopose a massaggi e fisioterapia per sciogliere le tensioni muscolari, parlò molto con lei in una sorta di psicoterapia che mirava a restituirle fiducia e toglierle l'ansia. Soprattutto, non le proibì il piano come avevano fatto tutti gli altri: la spronò a suonare ritrovando il piacere di farlo, all'inizio dieci minuti per volta, ignorando il dolore. Oggi sappiamo che servì per restituire a Clara un rapporto positivo con lo strumento e soprattutto per «cancellarle» dal cervello l'associazione negativa fra il pianoforte e il dolore, associazione ormai automatica che contribuiva a innescare i sintomi. «Anche oggi la multidisciplinarità è fondamentale per guarire i musicisti con sindrome da sovraccarico — interviene Converti —. Purtroppo nel nostro Paese non ci sono molti centri che possano seguire in questo modo gli artisti, in più quando il dolore cronico è grave e compromette la vita quotidiana è difficile tornare come prima. Anche per questo è indispensabile la prevenzione attraverso abitudini corrette: una vita regolare, l'esercizio ritmato dalle pause, il controllo della postura e dello strumento. Se compare il dolore non bisogna ignorarlo, ma individuarne la causa: può bastare un cambio di tecnica o di impostazione posturale per risolvere il problema» . Fu così anche per Clara: già nel marzo del 1875 tornò sul palcoscenico. Aveva imparato a dosare le forze, a scegliere un repertorio che non la stremasse (non suonò più i concerti per piano di Brahms); il dolore ogni tanto tornava, ma lei non lo temeva più perché sapeva come affrontarlo. Clara continuò a comporre e a suonare fino alla morte, nel 1896.

Corriere della Sera Salute 27.3.11
Oggi anche i farmaci e la chirurgia possono aiutarci a non soffrire


Sono almeno sei milioni gli italiani che soffrono di dolore cronico: un dolore che non se ne va da mesi, che spesso porta a disturbi come l'ansia o la depressione, che rivina la vita. Un dolore che va curato, per quanto possibile. «In realtà, bisognerebbe evitare di arrivarci, perché è difficile combatterlo— osserva Alessandro Sabato, presidente dell'Associazione italiana per lo studio del dolore—. Ad esempio, intorno ai trent'anni sarebbe opportuno fare un'analisi della postura: molti dei dolori cronici alla colonna con cui tocca convivere più avanti negli anni dipendono da posizioni scorrette acquisite nel tempo. Inoltre, il dolore non va ignorato: insieme con il medico bisogna capire l'origine del dolore e cercare di risolverlo, prima che si instauri il circolo vizioso che lo cronicizza» . È una questione anche e soprattutto di "testa": quando proviamo dolore, nel cervello si attivano meccanismi neurali che lo associano a un certo stimolo. La ripetizione dello stimolo poi porterà sempre alla comparsa del dolore, perché il cervello lo "ricorda": proprio come successe a Clara Wieck-Schumann, che stava male anche solo sedendosi al pianoforte. Le patologie che possono innescare il dolore cronico sono innumerevoli, dall'artrite all'osteoporosi, dall'emicrania ai tumori. Per curarlo, non bisogna avere paura dei farmaci: «Gli oppioidi, ad esempio, sono molto più maneggevoli di quanto si pensi: escludendo dalla terapia chi ha caratteristiche che potrebbero facilitare una dipendenza, come i forti fumatori, i bevitori, chi gioca d'azzardo o ha subito violenze, il rischio di dipendenza è dello 0,19%— spiega Sabato—. Anche i cannabinoidi, soprattutto quelli endogeni, potrebbero rivelarsi utili nella cura del dolore: molti nuovi farmaci sono già in fase avanzata di sperimentazione. Le tecniche più invasive, poi, non sono più risolutive dei medicinali: anche con la neurostimolazione (si usa una specie di pacemaker impiantato chirurgicamente che, attraverso un catetere, dà piccoli impulsi elettrici al midollo bloccando il segnale del dolore, che non arriva più al cervello) si possono avere ricadute» . Quanto serve l’intervento multidisciplinare nella cura del dolore cronico? «Molto, anche se il ruolo di psicoterapia o fisioterapia non è ancora definito con certezza. Di fatto, però, sono pochissimi i centri che riescono davvero a fornirlo ai pazienti» conclude Sabato.