martedì 29 marzo 2011

Il Foglio 28.3.11
Nichi Vendola sta diventando un tipaccio
di Giuliano Ferrara

Questo Vendola sta rivelandosi un tipaccio. Aveva cominciato altrimenti, con l’esibizione magari stucchevole di una filialità e di una universale disponibilità all’amicizia che complicava in modo interessante le regole della politica. Era un dolce prodotto mediterraneo, un segugio del consenso incapace di strapparsi dai propri ideali molto cantati e vantati, sul modello tenero e lirico del cerasiano Nichi-ma che-stai-a-di’. Era un igenuo cantastorie del solito mondo debole e tirannico evocato per demagogia grossolana dalla sinistra pauperista e cattolico comunista, magari sfruttato dai cinici e incline anche lui a un inconsapevole cinismo, ma eccelleva in tatto e furbizia politica, distillava una certa buona educazione, portava orecchino e cultura gay come un certificato di autenticità e di nonviolenza, con un’aria domestica, di famiglia, che a tratti incantava. Che gli è successo? Ora cammina con le scarpe chiodate di un Di Pietro qualsiasi, avvampa di banalità inquisitoriale come un qualunque Saviano di passaggio, trasforma la sua vitalità in vitalismo negativo, in attacchi ad personam, in spropositata ambizione personale. Ha lasciato a sé stessa la regione-laboratorio in cui sembrava volesse sperimentare gli effetti di buongoverno di un potere benedetto dalle mamme. Si è disincagliato da un sistema di potere che lo stava attirando nel solito gorgo delle pratiche spregiudicate di clientelismo e affarismo, ma solo per sentirsi self righteous, al di sopra degli altri umanamente e moralmente, e comportarsi di conseguenza. La sua oratoria sghemba e un tanto ridicola si è rinsecchita, ha perso quella piccola aura di simpatia e di dedizione, se non di devozione, che faceva di lui e del suo giro un caso a sé. Si è in un torno troppo breve di tempo grottescamente omologato agli stilemi del gruppo burocratico che diceva di voler combattere. Ad Annalena e a me era molto piaciuta la foto pubblicata dal Giornale, la festa dei corpi in vacanza sulla spiaggia, nudi e spavaldi. Ma la reliquia parla di una allegra santità passata, smentita da pratiche attuali di consunta e convenzionale laicità del discorso politico effettivo. Sicché tutti quegli aggettivi roboanti e trasversali, che parlano di ideologia e di polvere della storia, sono diventati piccoli veleni del quotidiano politico, tentativi di gareggiare sulla via del peggio con la piccola folla di demagoghi che si battono per spartirsi la memoria di una leadership piddì ormai virtualmente estinta. Nichi-ma-che-stai-a-fa’. Il lascito di Bertinotti, gran signore di un comunismo surreale, era pur sempre ricco: la nonviolenza, prima di tutto verbale, e il garantismo giuridico sempre coltivato con cura meticolosa e sovrano disdegno per gli arruffapopoli in toga. Bertinotti ha fallito un cartello elettorale e dissipato una forza potenziale, ragion per cui ha con eleganza ritirato sé stesso dalla pugna, riservandosi un ruolo magisteriale autorevole negli ambienti che lo hanno seguito e amato per anni nelle sue traiettorie non senza importanza per la politica italiana di questi anni. Ma una battaglia perduta non autorizza gli eredi del capo a cambiare natura, basta cambiare tattica o aggiustare anche radicalmente la strategia. In Vendola si nota invece una mutazione genetica che può avere esiti autolesionistici e maleducare ancora una volta giovani generazioni di italiani invitati a un party ribaldo con l’ideologia, sconsigliati alla pratica di una libera e responsabile lotta politica senza il trucco brutale della diffamazione, della sparata grossa, della character assassination. Forse Vendola, che si proclama pasoliniano ogni due per tre, soffre della stessa sindrome finale di PPP, la disperazione di vivere unita a una caparbia volontà di potenza, tutt’uno di corpo e anima, di desiderio e psiche. Caro Nichi, vatti a rivedere “La ricotta” e riprenditi dal tuo poeta preferito le doti di ironia e di scrittura corsara che in rari ma sicuri momenti della sua vita lo hanno reso ricco di amore e di senso di giustizia, e dismetti la torvaggine culturale e civile del pasolinismo e dei pasolinidi pieni di orrore per la vita e di pietà per gli altri e per se stessi. Nichi-cerca-de-rinsavi’.

l’Unità 29.3.11
Bersani alla direzione Pd attacca l’esecutivo. E alla minoranza: «Dica che chi va via ha torto»
Lettera agli altri leader per iniziative comuni sull’informazione: «I tg non siano invasi dal premier»
«Lampedusa dimostra il fallimento del governo»
Regge la tregua interna ma la minoranza avverte: le amministrative saranno un banco di prova. Bersani ottimista: «Situazione diversa dal 2006, ma dal voto ci aspettiamo un incoraggiamento».
di Simone Collini

«Sull’immigrazione c’è stato un completo fallimento del governo. Non gli consentiremo di tenere il piede in due staffe, non possiamo avere ministri che vogliono dare soldi e altri che vogliono dare sberle. O si chiariscono le idee, ci mettono la faccia e agiscono con razionalità e organizzazione, o non chiedano la nostra collaborazione». Pier Luigi Bersani apre la Direzione del Pd mettendo in fila tutti i fallimenti del governo e lasciando per la parte finale dell’intervento le questioni interne al partito. E anche la minoranza interna sceglie il basso profilo. Del resto, con le amministrative alle porte e un esecutivo forte soltanto sul piano dei numeri in Parlamento, «non ci si può distrarre dai problemi del paese», per dirla con Bersani.
Il leader del Pd parla del «disastro politico e diplomatico» sulla crisi libica, si domanda (quando viene a sapere della videoconferenza tra Obama, Sarkozy, Cameron e Merkel) «quanti anni ci vorranno per recuperare la credibilità internazionale perduta», attacca la Lega che «fa l’anima bella del federalismo e si siede al tavolo con Saverio Romano», dice che «la scossa all’economia è finita in un comunicato stampa e la riforma epocale della giustizia si è ridotta a processi e prescrizioni brevi». Ma proprio perché Berlusconi ha come unico obiettivo, dice citando Saverio Borrelli, quello di un rovesciato «resistere, resistere, resistere», proprio perché «l’Italia non ha gover-
no» e «aumentano le responsabilità del Pd», sarebbe imperdonabile dividersi ora su questioni interne. E anche se non insiste troppo sulla strategia delle alleanze (invisa a Movimento democratico), fa sapere che manderà ai leader di tutte le altre forze di opposizione una lettera per iniziative comuni sull’informazione (un sistema di monitoraggio dei Tg e appuntamenti di mobilitazione) «perché non è più sopportabile che negli ultimi dieci giorni di campagna elettorale i tg siano invasi da Berlusconi e soci come neanche in Bielorussia».
CHI VA VIA HA TORTO
La posta in gioco è alta e Bersani chiede a tutti di impegnarsi per mettere a punto il «progetto per l’Italia» da presentare poi ai possibili alleati per «una convergenza tra forze progressiste e moderate». E se nei giorni scorsi gli esponenti della minoranza hanno colto l’occasione dell’addio di alcuni consiglieri e dirigenti locali (ieri è toccato al vicesindaco di Catanzaro Antonio Argirò, in lista con Agazio Loiero) per sollevare la questione del «disagio» dei moderati (leggi ex-ppi), Bersani ha detto di non sottovalutare il problema, ma ha aggiunto, rivolgendosi senza citarli agli esponenti di Movimento democratico che nei giorni scorsi hanno battuto su questo tasto: «Vorrei che chi ci richiama ad avere attenzione ai problemi dica che hanno torto quelli che se ne vanno via».
MODEM E LE AMMINISTRATIVE
Parole lasciate cadere nel vuoto dalla minoranza, che dopo le scintille dei giorni scorsi ieri ha scelto il basso profilo. Paolo Gentiloni non è intervenuto, Beppe Fioroni non ha partecipato per motivi personali, Walter Veltroni se n’è andato dopo aver ascoltato Bersani. Per Modem è intervenuto Giorgio Tonini, sottolineando che le amministrative «saranno decisive per sapere se siamo competitivi e se siamo in grado di recuperare i voti in uscita dal centrodestra». Lascia intendere che il confronto interno è solo rinviato alla seconda metà di maggio anche Gero Grassi: «Il partito inclusivo non bisogna solo enunciarlo ma costruirlo».
Bersani è ottimista sul voto: «Sappiamo che la situazione rispetto al 2006 è diversa, ma ci aspettiamo un incoraggiamento ad aprire la strada del cambiamento». Il Pd, dice, «è già pronto con candidati e liste a parte due o tre città». Una di queste è Cosenza. È stato convocato per domani a Roma un vertice con i dirigenti locali per sciogliere il nodo. La stragrande maggioranza del partito locale vuole l’avvocato cinquantenne Enzo Paolini, su cui sono pronti a convergere anche Sel e Idv. Le premesse perché domani sia formalizzata la sua candidatura ci sono.

l’Unità 29.3.11
L’altolà del segretario ricompatta il partito: «Alternativi alla Lega»
Il fantasma del dialogo col Carroccio scalda la Direzione L’area di Franceschini critica il voto sul federalismo Ma Boccia: «GIusto trattare». Marantelli: alleanza impossibile
di Andrea Carugati


Alternativi alla Lega». Pierluigi Bersani alla Direzione Pd tira una riga netta sulle voci di un dialogo tra i democratici e il Carroccio che possa andare oltre «il confronto di merito» sul federalismo. E rassicura così chi, come Antonello Soro e Sergio D’Antoni (e un po’ tutta l’area che fa capo a Franceschini), anche ieri ha espresso dubbi sulla scelta del Pd di astenersi sul federalismo regionale. Scelta che, nello scorso fine settimana, aveva prodotto come risultato una serie di complimenti ai democratici, rivolti da tutto il gotha leghista a partire da Umberto Bossi: «Con la sinistra dialoghiamo da tempo, se non era per loro il decreto non passava in Commissione». Se poi si conta che venerdì Calderoli era stato ospite del Nord Camp di Enrico Letta, e che proprio ieri il braccio destro di Letta, Francesco Boccia ha parlato sul Corriere di «alleanze da ridisegnare», si capisce come il tema in Direzione si presentasse assai caldo. Anche perché Rosy Bindi, sempre ieri, escludeva in un’altra intervista qualsiasi intesa col Senatur. Ieri Deborah Serracchiani, la prima a esporsi pubblicamente contro l’astensione, ha ricevuto privati complimenti per la sua uscita. E D’Antoni ha ribadito: «La Lega è antimeridionale e antisociale, siamo alternativi in tutto e per tutto». Sul fronte opposto Giorgio Merlo: «Non è un partito di destra, abbiamo il dovere di avviare un confronto di merito e politico con la Lega». Bersani sembra aver messo, per ora, d’accordo le due anime del Pd: quelli del dialogo e quelli che vedono nel Carroccio il demonio: «Siamo alternativi per i valori, ma anche perché loro hanno fatto da colonna portante a Berlusconi, sono responsabili di tutto quello che lui sta facendo. E se si siedono al tavolo con i Romano e i Cosentino, se votano le leggi ad personam non usino il federalismo come alibi».
Il leader Pd ha ribadito che «sul merito», i democratici restano disponibili al confronto. Ma non ha lesinato critiche al percorso seguito sin qui e ha lanciato un invito: «L’albero è storto, fermate la macchina, rifacciamo il punto, riprendiamo l’ordine logico della riforma. Noi non vogliamo buttare via un’occasione per fare le cose perbene». Franceschini è soddisfatto: «Lega e Berlusconi fanno parte dello stesso blocco sociale populista». Anche Enrico Letta si ritrova nelle parole di Bersani: «Dialogo sulle riforme istituzionali sì, perché ha portato risultati importanti, alleanze no. Poi, certo, se ci fosse l’occasione di far cedere Berlusconi si potrebbero fare patti anche con il “Diavolo” leghista...». Anche Boccia è d’accordo: «Andare sull’Aventino sul federalismo sarebbe una sciocchezza. Quel decreto l’abbiamo riscritto noi, e abbiamo impedito l’aumento della tasse. Ora dobbiamo ottenere dalla Lega anche la riscrittura del fisco municipale. Ma non vedo alleanze all’orizzonte ». Anche Daniele Marantelli, deputato di Varese, amico di Bossi e Maroni, chiude il discorso: «Tra due mesi si vota alle amministrative, e non c’è un solo Comune, in Lombardia, in cui il Pd sia alleato della Lega. Di cosa stiamo parlando?». «Siamo in netta competizione con loro, sono quelli che hanno tagliato 14 miliardi a Regioni ed enti locali, mentre noi il federalismo ce l’abbiamo nel dna». Prosegue Marantelli: «Il governo con più lombardi della storia cosa ha fatto per questa terra? I cartelli in dialetto. Nel loro elettorato le leggi ad personam non sono digerite: è su questo che dobbiamo lavorare, senza fare confusione...E sono certo che non dovremo aspettare 58 anni, come nel Baden Wurttenberg, per tornare a vincere al Nord».



il Fatto 29.3.11

Pd: diaspora cattolica

Bersani preoccupato: “Chi se ne va sbaglia”
di Wanda Marra


“Chi se ne va, sbaglia”. Pier Luigi Bersani, aprendo la direzione nazionale del Pd, sceglie di non evitare il tema spinoso dei continui abbandoni del partito. Sì, perché soprattutto a livello locale, e soprattutto a Nord, le uscite sono continue. Soprattutto dall’area cattolica, quella che meno gradisce la sua segreteria, e che più si riconosce nella mionoranza di Veltroni, Fioroni e Gentiloni. Tanto che l’avvertimento del segretario suona più come un’ammissione di timore e debolezza. Non per niente parla di “preoccupazione” e “disagio”.
E in effetti per i Democratici c’è poco da stare allegri. In Veneto, l’ultimo ad andarsene è stato Andrea Causin, consigliere regionale, ex Acli. “Il Pd ha assunto un profilo riformista di sinistra. E ha perso il suo disegno cattolico”. Spiega Causin: “Non siamo noi che abbandoniamo il partito, sono gli elettori che abbandonano noi. Nel 2006 in Veneto avevamo 400mila voti, nel 2008 200mila”. Ora Causin siede nel Gruppo misto. Insieme all’altro consigliere, Diego Bonaccin che l’ha preceduto nel-l’uscire dai Democratici: “Volevo un partito che andasse più al centro. Il Pd, invece, si fa influenzare da Vendola e da Di Pietro”. Bonaccin racconta che però anche “il Pdl sta implodendo”, schiacciato com’è da una Lega che al Nord stravince. E infatti, come Causin, e altri scontenti, è confluito nell’associazione Verso Nord (fondatori Massimo Cacciari e Franco Miracco, lo storico portavoce di Giancarlo Galan), che in Veneto, Lombardia, Piemonte e Friuli Venezia Giulia sta mettendo insieme transfughi del Pd e del Pdl. Portavoce è un altro fuoriuscito democratico, ex consigliere comunale a Venezia, Alessio Via-nello. E dentro ci sta pure il senatore Maurizio Fistarol, ex rutelliano della Margherita, fuoriuscito dal Pd. Due abbandoni di peso i Democratici li hanno avuti pure in Piemonte: l’europarlamentare Gianluca Susta, ex candidato rutelliano alla segreteria regionale, battuto nel 2007 da Gianfranco Morgando e Mariano Rabino, vice di Morgando ed ex consigliere regionale . Che spiega: “Il partito com’è ora tradisce il progetto originario”. Che poi è quello di Veltroni e del Lingotto. “Non ci portiamo dietro un ceto politico - dice - ma i nostri elettori. Susta alle europee ha preso 46mila voti”. Anche loro guardano a Verso Nord. Pronti ad uscire ci sarebbero ancora almeno i consiglieri regionali Angela Motta, Davide Gariglio e Mauro Laus. A trattenerli sarebbe l’imminenza del voto per il sindaco di Torino. E in effetti a sentir parlare molti degli scontenti, le amministrative sembrano un po’ il test definitivo sulla segreteria Bersani. Spiega Gianfranco Moretton, consigliere regionale del Friuli Venezia Giulia: “Per adesso non si esce. Si aspetta una correzione di rotta. A partire dalle alleanze, che devono guardare di più verso il centro”. Gli scontenti insieme a lui nella regione sarebbero molti. A cominciare dai piddini di Pordenone, pronti a candidarsi con le liste civiche e non con il partito. Ma il disagio si allarga a macchia d’olio. Tra le ultime uscite c’è il senatore del Trentino Alto Adige, Claudio Molinari, sempre ex Margherita, confluito nell’Api. Stesso percorso di un’altra transfuga recente, la senatrice Emanuela Baio Dossi, in Lombardia. Altra Regione dove lo scontento resta sotto traccia ma avanza. Nel 2009 è uscito dal Pd (e ora è attivo in Verso Nord) Nicola Pasini, che si definisce “liberale”. Non si sbilancia sui prossimi addii, perché, dice, “dare qualcuno in uscita è sempre rischioso”. Sulla porta però ci sarebbero molti anche in Emilia Romagna: in testa Mauro Bosi, consigliere regionale.
Se al Nord la situazione sembra esplosiva, tra gli indecisi c’è un nutrito drappello di parlamentari. A fotografare la situazione è il senatore Flavio Pertoldi, da Udine, per ora ancora Democratico: “Il Pd non ha rispettato il disegno cattolico moderato. Non è il progetto che pensavamo”. Si va verso una scissione? Nessuno ancora lo dice, ma lui Pertoldi, ammette la speranza che Fioroni prenda in mano la situazione. Fioroni stesso si schernisce, non parla, non vuole commentare. Prima delle amministrative, nessuno si muove. Ma pronti ad andarsene ci sarebbero tra i parlamentari, per citarne solo alcuni, il senatore eletto in Veneto Rodolfo Viola, l’onorevole Gianluca Benamati, eletto in Emilia Romagna, l’onorevole Mario Pepe, eletto in Campania, e il suo collega, Enrico Farinone, eletto in Lombardia. Si andrebbero ad aggiungere ai 21 parlamentari che hanno cambiato partito da inizio legislatura.

l’Unità 29.3.11
Miserabile tranello
di Concita De Gregorio

Gli abitanti di Lampedusa    hanno    ragione. Quelli che fanno le barricate al porto, hanno ragione. È il loro modo, l'unico che hanno per farsi vedere e sentire, per dire che non possono essere lasciati soli a portare il peso di un fardello gigantesco che riguarda l'Italia e l'Europa intera. Non può essere, l'isola, la zattera a cui duemila immigrati al giorno si aggrappano: la faranno affondare, così. Diventerà un carcere a cielo aperto e un lazzaretto, si diffonderanno malattie e paure, non ci sarà cibo a sufficienza né acqua, né un tetto. Già non ci sono, già bruciano nella notte i falò. Duemila immigrati sono arrivati nelle ultime ventiquattr’ore. In tutto, dalla scorsa settimana, cinquemila e cinquecento. Stanno per diventare il doppio degli abitanti in uno spazio di 20 chilometri quadrati. È un'isola piccola, c'è una sola scuola, le famiglie si contano e si conoscono. Oggi coi nuovi sbarchi saranno seimila, poi settemila. Quale può essere il limite fisico alla capienza? E un limite logico, esiste? E una regola da applicare, un peso da condividere? Gli abitanti di Lampedusa, le sue donne – le stesse che vestono i neonati con gli abiti dei loro figli – hanno ragione. C'è un momento in cui devi vedere l'orizzonte per resistere, per sopportare ancora. L'orizzonte qual è? Qual è il progetto, la politica che il governo italiano intende adottare per non lasciare che Lampedusa sia sommersa dall'onda di viventi in arrivo? E l'Italia dov'è? Si vede, si sente qualcuno, sull'isola, che dica: tranquilli, abbiamo un piano, sono ore eccezionali ma ci stiamo attrezzando, sappiamo come fare? No, non c'è. C’è un pugno di agenti in divisa chiamati a fronteggiare migliaia di persone di cui non conoscono la lingua. Qualche volontario, qualche mediatore. Stop. Non un presidio dedicato, non una presenza eccezionale di istituzioni e di competenze che rappresentino l’Italia. Non è neppure capace, questo governo, di essere nei fatti quel che è: un governo di destra. Esiste una legge sui respingimenti. Esistono norme che stabiliscono un tipo di accoglienza per chi è rifugiato e per chi non lo è. Chi fugge da una guerra ha diritto di essere accolto. Chi viene perché pensa che qui troverà un lavoro più redditizio o semplicemente un lavoro non ha lo stesso diritto nella stessa misura. È una distinzione a tutela di chi ha davvero bisogno. Non è una buona legge, certo, ma c'è e deve essere applicata. Molte delle persone che arrivano non hanno i requisiti per restare. Molte altre sì. Metterle tutte in un unico calderone, non respingere chi si dovrebbe respingere per esasperare gli animi delle popolazioni locali, per alimentare la paura, per dimostrare che l'onda biblica è ingovernabile è un miserabile tranello mediatico. Si può governare, si deve. Si può distinguere, osservare, riconoscere, capire. Coinvolgere le organizzazioni cattoliche se necessario, chiamare in causa le diocesi. Ricevo da un lettore, Giancarlo Bussoli, questa lettera: «Siamo stati un paese di migranti. Oggi, grazie a leggi stupide approvate per accontentare le frange più pavide ed estremiste dell'elettorato, ci dimentichiamo degli italiani che dovettero emigrare per sfamarsi o avere una speranza di avvenire. Certamente non possiamo ospitare tutti, ma bisogna fare una indagine seria e non burocratica per capire quanti fuggono dal pericolo e quanti cercano solo fortuna. Una politica con i paesi del Nord Africa che stabilisse flussi ci consentirebbe anche di rimpatriare molta gente senza doverci vergognare». Ecco, è semplicissimo. Lo scrivono le persone comuni. Rispettare le regole, chiedere aiuto a chi può e darne a chi ha bisogno, non doverci vergognare.



il Fatto 29.3.11

I Fantastici quattro escludono Berlusconi
Vertice Obama - Cameron - Sarkozy - Merkel sulla Libia: dimenticato l’amico di Gheddafi

di Francesca Cicardi

Bengasi Ci sono un americano, un britannico, un francese e una tedesca: sembra una barzelletta, nella quale la figuraccia la fa l’italiano, assente. Il premier Berlusconi non è stato interpellato nella videoconferenza a quattro (Obama, Cameron, Sarkozy e Merkel, pur essendo il cancelliere tedesco non impegnato nel conflitto libico) che ha discusso delle iniziative politico-diplomatiche che potrebbero risolvere il nodo-Gheddafi. “Non sentiamo la sindrome dell’esclusione, non stanno decidendo niente”, si è affrettato a dire il ministro Frattini.
SUL TERRENO i ribelli di Bengasi volavano verso Sirte. Dopo aver bruciato più di 200 chilometri in meno di 48 ore, già immaginavano l’ingresso trionfale nella città natale di Gheddafi. Ieri mattina prestissimo il primo annuncio della liberazione di Sirte provoca un’esplosione di gioia a Bengasi, che si è svegliata di soprassalto per gli spari delle batterie antiaeree e dei kalashnikov impazziti ed esultanti. Ma in mattinata la smentita dei media internazionali e del proprio esercito ribelle, divenuto molto più cauto nel cantare vittoria, a differenza dei primi giorni, cominciando ad imparare dai suoi errori. I rivoltosi si sono fermati a un centinaio di chilometri da Sirte, nella Valle Rossa, posizione strategica fondamentale, da dove Gheddafi lanciò la sua controffensiva tre settimane fa. Il Colonnello aveva usato la valle come base per raggruppare le sue forze, che tesero una trappola ai rivoltosi quando arrivarono a Ben Jawad.
L’Esercito della Libia libera aspetta che le forze internazionali neutralizzino le difese di Gheddafi dal cielo, per poi avanzare facilmente sul terreno. I bombardamenti alleati hanno fatto strada ai ribelli fino quasi a Sirte, ma la Nato , che assume in queste ore la guida della missione, ha già chiarito che l’intervento internazionale sarà “neutrale” e che non sostituirà l’aviazione che i rivoluzionari non hanno.
L’ALLEANZA Atlantica ha anche affermato che la sua missione è quella di proteggere i civili. Man mano che il conflitto continua, si teme che i crimini di guerra e la violazione dei diritti fondamentali siano sempre più diffusi e generalizzati. Anche da parte dei “buoni” di questo film. Nel recuperare le città perdute nelle ultime due settimane, i ribelli hanno catturato un bel numero di uomini di Gheddafi: truppe regolari, mercenari, libici e stranieri. Tutti consegnati alle autorità, che si mostrano molto caute nel trattamento dei prigionieri, che potrebbe, se gestito male, gettare discredito sul governo di Bengasi. Dopo le prime vittorie, ci furono critiche da parte dei gruppi dei diritti umani quando i ribelli mostrarono i presunti mercenari come trofei di guerra. Le autorità non sono disposte a commettere altri errori. Un portavoce del Consiglio Nazionale, Issam Gheriani, assicurava al Fatto Quotidiano che “si sta seguendo la procedura in modo preciso e secondo gli standard internazionali”, e sotto gli occhi di Emergency e Human Right Watch, che hanno due team sul posto. In città sta arrivando la maggior parte dei prigionieri, che sono stati consegnati dai ribelli all’esercito disertore, incaricato di trasportarli dal fronte e di scortarli per evitare possibili incidenti: non intendono più esporli alla stampa e neanche alla rabbia popolare dopo che sono circolate voci –forse sole leggende metropolitane - secondo le quali gli uomini di Gheddafi sono stati trovati con viagra e preservativi nelle tasche, intenzionati a violentare le donne dei rivoluzionari, le quali hanno manifestato a Bengasi contro la violenza sessuale.
Aiutiamo la nuova alba del Medio Oriente
L’intervento in Libia “non significa pretendere di esportare uno specifico modello di democrazia, ma promuovere e proteggere i diritti fondamentali, civili e politici e le libertà religiose, come pre-condizione per l'autonoma realizzazione di sistemi democratici”. Lo ha detto il capo dello Stato Giorgio Napolitano all’Assemblea generale Onu, aggiungendo che “il mondo ha una chiara responsabilità nell’aiutare questa nuova alba a divenire realtà, ma anche nell’intervenire ovunque dittature, violenze e oscurantismo tentino di contrastare il nuovo”.
La Nato non aiuta i ribelli
“Nessuno spiana la strada ai ribelli”: quelle della Nato, secondo il presidente del Comitato militare dell’Alleanza, ammiraglio Giampaolo Di Paola “sono operazioni destinate a proteggere la popolazione civile”. E i bersagli “legittimi” sono tutte le forze che attaccano o minacciano di attaccare i civili. La Nato “non è entrata in guerra”, ma ha risposto alla richiesta, contenuta nella risoluzione 1793 del'Onu, di proteggere la popolazione. Di Paola ha confermato che il piano operativo approvato dal Consiglio Atlantico prevede un impegno “iniziale” fino a 3 mesi.
Maher Assad e la repressione siriana
Il video intitolato “il corpo di Abu Addas” è stato caricato su Youtube la settimana scorsa. Ma dopo poche ore è stato rimosso. Il motivo di tanta solerzia probabilmente non risiede nella difesa della privacy del corpo disintegrato del giovane Abu, bensì nel tentativo di coprire l'identità di colui che si vede nell'atto di filmare con un cellulare quei poveri resti. Secondo i blog e i siti siriani quel qualcuno sarebbe Maher Assad, il fratello minore del presidente-dittatore siriano Bashar, noto per la sua ferocia e gli scatti d'ira. A lasciare allibiti non sono le immagini raccapriccianti dei resti, quanto l'indifferenza del presunto Maher che, senza fare una piega, senza nemmeno togliere la mano dalla tasca, con totale noncuranza indugia su quei pezzi di carne attraverso la telecamera del cellulare. “Secondo noi quell'uomo è proprio il fratello di Bashar – dicono al Fatto i fondatori della pagina Facebook, Syrian Uprising – infatti non solo gli somiglia in modo impressionante, ma i militari che gli stanno attorno sono vestiti come i suoi uomini”. Maher guida da anni la quarta squadra, un corpo militare indipendente. Le immagini del video sarebbero state girate nel 2008 nella prigione di Sednaya, a nord di Damasco.



il Fatto 29.3.11

I nuovi media in Medio Oriente
Come corre la rivoluzione al ritmo di Internet
di Carlo Antonio Biscotto


Le rivolte in Tunisia, Egitto e Libia e le manifestazioni che stanno scuotendo dalle fondamenta l’intero Medio Oriente hanno portato alla ribalta il ruolo politico dei cosiddetti “social media” come strumenti di critica dei regimi e di organizzazione del dissenso.
Che poi la prima “rivoluzione in rete” dell’era moderna abbia avuto per palcoscenico il mondo arabo e non – come molti studiosi prevedevano – l’Asia, è in parte sorprendente, ma non cambia di una virgola l’analisi del fenomeno. Non sono stati, ovviamente, Facebook e Twitter a scatenare le sollevazioni popolari contro regimi brutali, oppressivi, corrotti e impopolari, ma i social network hanno fatto emergere un malcontento diffuso che covava da tempo sotto la cenere.
E L’ONDATA di collera che investe gli autocrati arabi non risparmia nessuno... Come un tam tam, Twitter, Facebook, gli sms, i video, i blog dilagano oltre che in Tunisia, Egitto e Libia anche in Giordania, in Marocco, in Siria, nello Yemen, in Bahrein mentre in aree lontane del mondo – in Cina, ad esempio – le classi dirigenti temono il contagio. Ma il ruolo di Internet non è stato identico in tutti i Paesi. In Tunisia Twitter e Facebook sono stati elementi cruciali per la diffusione di messaggi, ma non hanno dato un contributo significativo nel far conoscere all’estero le ragioni e le dimensioni della protesta.
In Egitto, invece, gli organi d’informazione internazionali, come Al Jazeera, hanno immediatamente puntato i riflettori su quanto accadeva nel Paese. Stando a quanto riferito da Opennet Initiative, Mubarak ha progressivamente oscurato l’accesso a Internet. Non è servito: Google ha ideato un sistema che ha consentito ai rivoltosi di registrare con il cellulare brevi messaggi da postare successivamente in rete. Alcuni provider francesi hanno messo a disposizione connessioni gratuite a chi si collegava dall’Egitto. Diverso lo scenario mediatico in Libia. Anzitutto solo il 5% della popolazione ha accesso a Internet (rispetto al 34% in Tunisia e al 24% in Egitto) e inoltre l’unico provider è controllato dalla famiglia Gheddafi.
MA I GIOVAN Ilibici si sono serviti dei cellulari satellitari, della possibilità di connettersi a Internet con i telefonini di ultima generazione e hanno dato prova di grande inventiva. A lasciare stupefatti è l’accelerazione che le nuove tecnologie hanno impresso alla Storia. Quando l’uomo inventò la polvere da sparo ci vollero secoli prima che le armi da fuoco diventassero strumenti di guerra. Internet ha 20 anni, Facebook 7 e Youtube appena 6. In così poco tempo sono diventate armi letali puntate contro i palazzi del potere.
Cosa avrebbero potuto o potrebbero fare in futuro i dittatori al potere per opporsi alla marea montante di giovani che su Facebook, su Twitter, sui blog, con gli sms, con i video postati su Youtube, chiedono le dimissioni di governi corrotti e maggiore democrazia? Sparare sulla folla e oscurare Internet? Strada poco praticabile. Al mondo ci sono pochi Golia e molti Davide... online. L’economia moderna dipende sempre più da Internet emisure volte ad ostacolare le comunicazioni avrebbero pesanti ricadute sulla situazione economica. La rivoluzione è di nuovo una spontanea sollevazione di popolo. Non ci sono più gruppi di cospiratori clandestini che il potere è quasi sempre riuscito a controllare e a vanificare infiltrandoli e manovrandoli.
QUASI 500 ANNI FA Lutero rivoluzionò società e religione dell’Europa con la stampa. Con l’avvento di Internet e dei social network quel mondo è tramontato. Controllare la stampa e la tv era facile, Internet è quasi impossibile. In una vignetta apparsa su un quotidiano tunisino in lingua francese, un anziano chiede a un giovane: “Ma insomma chi è il nuovo primo ministro?” e il giovane risponde: “Facebook”.



Repubblica 29.3.11

Tra i dissidenti di Damasco "Per Assad l´ultima chance libertà o sarà il disastro"
A Dera’a spari per disperdere i manifestanti

di Alix Van Buren

CHI sbarca a Damasco nella primavera levantina, che molti vorrebbero "delle nuove libertà", stenta a rintracciare i segni delle battaglie cruente che per giorni hanno scosso le alture di Dera´a, verso il confine giordano, o che vedono schierato l´esercito a Latakia, la città vacanziera a Nord Ovest.
Alle luci della sera la capitale restituisce l´immagine di una città che assapora la tregua. Il traffico scorre senza ingorghi di raduni o checkpoint.
Però, basta allenare lo sguardo per accorgersi della presenza, discreta, della polizia in borghese: come quel gruppetto di uomini che stazionano sul crocicchio infagottati nei giubbotti in pelle nera, impegnati a sorvegliare certi snodi nevralgici.
Del resto questa è la stagione di un´inedita sfida al governo baathista siriano: la prima dall´insurrezione armata degli islamisti negli Anni Ottanta. Il bilancio degli scontri ora è di 36 morti ufficiali (126 nelle stime degli attivisti). A Dera´a la protesta non si smorza. Le forze dell´ordine, secondo i ribelli, ieri hanno sparato per disperdere i dimostranti: una ricostruzione che la Sana, l´agenzia governativa, respinge. Mentre a Latakia sono quasi tutti concordi nel descrivere un ritorno alla normalità.
Qui nel cuore della capitale, nella piazza Omayyadi dove il labirinto dei suq sbocca di fronte alla Grande moschea, in quella che una selva di sms in arrivo da telefonini libanesi (ricevuta anche dal cronista subito dopo l´atterraggio) vorrebbe trasformare nella piazza Tahrir damascena, si attardano solo negozianti e frotte di turisti europei.
Fuori delle botteghe, i televisori accesi sono sintonizzati sulla tv di Stato. C´è grande attesa per il discorso del presidente Bashar al Assad, che potrebbe arrivare a ogni ora. I siriani di entrambi i campi – riformisti o filogovernativi - aspettano dal presidente una chiara indicazione del percorso da seguire per uscire dallo "status quo": formula ricorrente nel "lessico rivoluzionario" per indicare un quinquennio di ritardi nelle riforme promesse.
L´elenco dei cambiamenti prospettati è lungo, come quello delle richieste definite «legittime» dalla stessa portavoce di Assad: la fine della legge marziale imposta ai siriani dall´avvento dei baathisti al potere nel 1963, il varo del pluralismo politico, la fine degli arresti arbitrari, la libertà d´espressione e di stampa, la lotta alla corruzione, la liberazione dei prigionieri politici, e lo scioglimento del poco amato governo del premier Naji Al Otari, irremovibile dal 2003.
Che lo "status quo" sia divenuto «un pericolosissimo pantano in cui si rischia di sprofondare tutti assieme, sia il regime sia la nazione», come dice il politologo Thabet Salem, è evidente anche alla parte dei modernizzatori nella cerchia del governo. I quali s´aspettano che oggi venga abrogato, fra l´altro, il monopolio politico del partito Baath, incontrastato da quasi un cinquantennio.
Sarà una svolta gradita, e dal prezzo non troppo elevato, se è vero che il Baath è «considerato con una certa antipatia persino dal palazzo presidenziale», come dice Ayman Abdel Noor, ex giovane baathista trasmigrato verso i ranghi della dissidenza. «È un partito fondato prima della nascita di Bashar al Assad: è superato, invecchiato, non rappresenta più la società». Abdel Noor ricorda come già nel 2005, in occasione dell´ultimo grande Congresso, al Assad «lo abbia privato del potere. Già agonizzante, gli ha staccato l´ossigeno per accelerarne la scomparsa». Oggi, secondo il dissidente, «il Baath è soltanto una maschera utile a una parte del regime».
La prova del nove, avvisa però Abdel Noor, verrà dalla normativa sui partiti politici: «E cioè se questa autorizzerà un autentico multipartitismo». Così come «la fine dello stato d´emergenza», avverte ancora, «dovrà coincidere con l´abrogazione dei decreti che garantiscono l´immunità alle forze della sicurezza».
Abdel Noor ripete con parole più o meno simili l´attesa condivisa da più parti: «Il presidente oggi ha davanti a sé un´immensa occasione: quella di passare alla storia come il leader che ha traghettato la Siria verso la modernità e la democrazia. Lo spiraglio è ancora aperto. Ma il tempo stringe». Quanto tempo calcola? Ad ascoltare il dissidente, «resta una manciata di giorni, non di più. Poi lo spiraglio si chiuderà».

l’Unità 29.3.11
Migranti: sette domande a Maroni
di Filippo Miraglia


L’accoglienza è ormai diventata una vera emergenza democratica. Il governo sta infatti cinicamente giocando sulla pelle dei migranti e delle comunità locali per raccogliere consensi elettorali, ma dimostra anche tutta la propria inadeguatezza ad esercitare il ruolo che gli compete. Lampedusa è stata fatta diventare l’emblema dell’invasione che il centrodestra strumentalmente va paventando, mentre nulla viene fatto per migliorare le condizioni degli abitanti e dei migranti trattenuti in quella che ormai è diventata una grande prigione all’aperto. Attraverso alcune domande indirizzate al ministro Maroni vorremmo provare a far emergere i fatti in tutta la loro gravità.
1) In base a quale criterio sono stati distinti i richiedenti asilo dai migranti irregolari? Ci risulta che a tanti è stato fatto firmato il modulo per l’asilo senza che nemmeno sapessero quel che facevano, mentre ad altri, che lo chiedevano, è stata negato.
2) Quanti sono coloro che hanno richiesto asilo e quanti invece hanno ricevuto un provvedimento di espulsione? In che numero e dove sono stati trasportati coloro che sono stati allontanati dall’isola? Da quanto sappiamo le scelte sono state spesso del tutto arbitrarie o affidate al caso.
3) Perché il governo non ha ancora adottato la protezione temporanea per chi fugge dalla Tunisia o da altri Paesi nordafricani, status che meglio si adatta a queste persone, previsto dall’articolo 20 del T.U. sull’immigrazione?
4) Come mai il governo scopre solo adesso le navi di linea per trasferire i migranti? Non sarà che l’uso delle navi militari – molto più costoso – evoca con maggiore efficacia il famoso «esodo biblico»?
5) Come si può pensare di convincere con una mancia di 1500 euro i tunisini a tornarsene a casa dopo che hanno pagato più o meno la stessa cifra per arrivare fin qui?
6) Perché allestire costose tendopoli che dovrebbero accogliere i migranti da espellere (maxi Cie last minute) e che diventeranno presto enormi ghetti di nuova denominazione (Cai: centri di accoglienza e identificazione) che nessuna legge prevede? Perché non ricorrere a una diffusa distribuzione sul territorio, più economica e di minore impatto sociale, accogliendo la disponibilità degli enti locali e della rete Sprar?
7) Quali misure sono state previste, nel rispetto della legge e del diritto internazionale, per accogliere i minori sbarcati a Lampedusa e i richiedenti asilo che stanno arrivando? Finora decine di ragazzini sono stati lasciati per strada.
Sarebbe importante avere risposte urgenti, viste le conseguenze negative sulle relazioni sociali e per la nostra democrazia delle scelte adottate sin qui.



il Fatto 29.3.11

Noi e loro. Clandestini come noi

di Maurizio Chierici


Le ragazze rom che a Treviso allungavano la mano della carità con un bambino accasciato fra le braccia, venivano portate via dai poliziotti del sindaco Gentilini: sfruttamento di minore a fine di lucro. Bisogna dire che la Lega ha imparato la lezione e la rigioca a Lampedusa col cinismo dei suoi ministri. Ogni giorno, un giorno dopo l'altro, arrivano barche di disperati. L'isola è un fazzoletto, chi la abita soffoca eppure noi popolo di navigatori, traghetti vacanze, ammiraglie da crociera, per settimane non riusciamo a trovare qualcosa che galleggi in modo da trasferire i fuggitivi in un posto decente. Solo annunci per calmare le rabbie: la San Marco parte da Augusta e fra poche ore è lì. Ma la partenza scivola dal mattino al pomeriggio, dal pomeriggio ai giorni dopo. Intanto gli sbarchi continuano. Dormono fra le immondizie mentre le Tv di mezzo mondo accendono le luci per documentare l'atrocità del loro cammino della speranza. Maroni e Frattini non aprono bocca fino a quando l'Europa si arrende alle immagini e apre la borsa, ecco i danè: in un lampo le navi saltan fuori. Otto anni fa la Spagna aveva accolto 160 mila profughi senza battere cassa a Bruxelles e senza piangersi addosso. Insomma, sfruttare i bambini come li sfruttano certi clochard funziona nella politica di certi nostri politici. Noi del G8 abbiamo preso l'isola in ostaggio per la commedia di una solidarietà che i popoli del nord non vogliono pagare. Adesso l'Europa tira fuori i soldi anche per il viaggio di ritorno perché chi scappa è clandestino e i clandestini devono essere rimpatriati, truffaldina dimenticanza d'aver saltato il timbro dei consolati italiani nella fuga da Tripoli: 75 mila tunisini vengono da lì. Criminali per le burocrazie e come criminali giustamente respinti. "È la legge", sussurrano le capinere del Cavaliere. Legge che esaudisce gli interessi di chi la scrive. Come la legge Mussolini che strappava dai banchi i ragazzi ebrei indegni di studiare assieme ai ragazzi ariani. Nelle carrette che attraccano a Lampedusa i ragazzi sono tanti. Nasce perfino un bambino. Bebè clandestino o bebè come gli altri? La furbizia dei politici brianzoli seppellisce la memoria di quando i lombardo-veneti giravano l'Europa come maghrebini. Figli di frontalieri fino a quindici anni fa clandestini nella Svizzera che proibiva la riunione delle famiglie. 15 mila, 22 mila piccoli italiani nascosti alla perfidia dei vicini di casa e a poliziotti che bussavano alle porte. Gli psicologi di Berna ne hanno studiato l'evoluzione, adulti labili e taciturni: anche l'insegnamento dei volontari che ne proteggevano la clandestinità li ha fatti crescere come razza a parte. Qualche tempo fa ho ricordato la storia di due fratellini italiani trapiantati a Winterthur da genitori bresciani. Nascosti nel portabagagli come cioccolata. Una spiata, scoperti: ordine di "deportazione" in Lombardia, parola implacabile di una lingua che non sfuma. Ecco che arriva la lettera di un signore della Val Camonica. Era uno dei bambini deportati e si commuove ritrovando quel dolore. Ma ringrazia per una cosa più importante; perché non ne ho ricordato il nome. "Sono vice sindaco leghista del mio paese e lei capisce che sarebbe imbarazzante". Dopo l'imbroglio di Lampedusa ho l'impressione che Bossi and company non si imbarazzano ormai di niente. 



il Fatto 29.3.11

Rifugiati nell’isola che non c’è

risponde Furio Colombo

Caro Furio Colombo, non amo la Lega e non parteggio per la Lega. Ma il problema di Lampedusa è gravissimo, è comprensibile che la popolazione abbia esaurito la pazienza. Gli arrivi continuano e lo spazio non c’è. Possiamo far finta di niente?
 Luca

CI SONO due gravi problemi, uno è la vita nell'isola di Lampedusa, dove arrivano ogni giorno centinaia di profughi, certo un dramma per chi vive e lavora nella piccola isola. Non è “l’esodo biblico” annunciato tante volte con enfasi, ma non è una convivenza facile, non per chi vive e lavora a Lampedusa, non per chi arriva, stremato, dal mare. Poi c’è, ed è grave e urgente, il problema del come accogliere e dove mandare i nuovi, disperati sopravvissuti alla traversata in mare, molti uomini giovani ma anche molti bambini. Ciò che accade, soprattutto per l'instancabile lavoro sia politico che di propaganda, della Lega Nord, è la separazione dei due problemi, come se il secondo si potesse semplicemente abolire eliminando le presenze ingombranti dei rifugiati. Per farlo bisogna, prima di tutto, cambiare le parole. Questi esseri umani vivi per miracolo e a volte portati a braccia fuori dalle barche, non devono essere chiamati profughi o rifugiati. Sono, lo dichiara il ministro dell'Interno che, nonostante l'alta carica, fa il propagandista della suo partito, la Lega Nord, “clandestini”. Se sono clandestini sono fuori legge e se sono fuori legge possono essere cacciati “secondo la legge” che è la legge voluta e imposta a tutta la maggioranza del Parlamento italiano dalla suddetta Lega Nord tramite il ricatto: o votate il nostro “pacchetto sicurezza” o la maggioranza (dunque il festoso governo Berlusconi) non esiste più. Come fare a sovrapporre e impastare insieme i due problemi in modo che appaiano una maledizione di cui è urgente liberarsi con qualunque mezzo? Se sei ministro dell'Interno è semplice, benché disumano: lasci lì i corpi esausti di coloro che sono scampati al naufragio o alla caccia in mare (si chiama “pattugliamento” o “respingimento”) li lasci a dormire per terra un po’ in tutta l'isola, compresi i bambini, li lasci senza docce e senza bagni, li lasci senza cibo in modo che diano fastidio, in cerca di soccorsi e di rifiuti per sopravvivere, fino a che la popolazione non perde la testa e va sul mare a gridare ai rifugiati stipati sulle barche che continuano ad arrivare di andar via, di sparire, di togliersi dai piedi, di togliersi dalla testa che potranno sbarcare. Che affoghino, ma basta gente sull'isola! Per quanto riguarda Maroni, ministro della Repubblica ma prima di tutto agitatore della Lega Nord, il risultato è raggiunto. Ma quando un politico ossessionato dalla sua visione xenofoba del mondo ha tanto potere a nome e per conto di un intero Paese, non si deve temere uno sbarco umanitario neppure nel caso che arrivi in porto una grande nave regolarmente noleggiata in Marocco per lasciare la Libia (siamo nei primi giorni della rivolta in quel Paese) con a bordo 1850 uomini, donne e bambini in fuga che hanno pensato all'Italia come a un Paese civile in cui attraccare, sbarcare e organizzare una nuova vita. Abbiamo visto molte fotografie dei passeggeri sul ponte: adulti che probabilmente hanno lasciato, per salvare la vita, impieghi professionali e cariche statali, hanno lasciato le loro case con le loro famiglie, niente che facesse pensare ai ripescati in mare. Ma è accaduto a Lampedusa ciò che era accaduto – nel 1942 per il piroscafo Saint Louis: aveva a bordo migliaia di cittadini tedeschi in fuga, le ultime famiglie ebree che erano riuscite a imbarcarsi. Nessun porto al mondo ha voluto quel carico di uomini, donne e bambini condannati a morte. Nessuno, come Maroni, ha voluto sapere chi fossero. Precisa il nostro (nostro, pensate) ministro dell'Interno: “Venivano dalla Libia e in Libia li abbiamo rimandati”. Uno dei figli di Gheddafi, l'amico di Berlusconi, aveva appena detto: “Li cercheremo casa per casa”. Tutto ciò ce lo ricorderanno, senza le falsificazioni attuali, i libri di storia: è avvenuto in questa Italia, ai nostri giorni. E non c’è stata alcuna indignazione da ricordare, per la nave partita e rimandata in Libia mentre infuriava la guerra civile. Come per la nave partita e ritornata ad Amburgo mentre il nazismo aveva appena scatenato persecuzione e guerra.



il Fatto 29.3.11

Ribellarsi. Ma in nome di chi?
di Paolo Flores d’Arcais


Ribellarsi è giusto? Dipende contro chi, naturalmente. E “in nome di che cosa”, per il raggiungimento di quale obiettivo, perché il “contro” non basta, il “per” per cui ci si batte può perfino essere peggiore. O equivalente. Le persone che per diventare cittadini sono entrate in rivolta in Egitto, in Tunisia, in Libia, ora in Siria e in Giordania, lo hanno fatto contro Mubarak, Ben Alì, Gheddafi, Assad, Abdullah II. Che contro tali dittatori, dal paternalista fino al mostruoso, sia giusto ribellarsi, non credo possa essere materia di discussione o dubbio tra chi frequenta queste pagine.
In nome di cosa, però? Sono davvero rivolte per la democrazia? Se l’obiettivo dei ribelli fosse una teocrazia fondamentalista, perché mai dovremmo sentirci coinvolti e solidali? L’obiezione è sacro-santa, ma questa volta suona davvero speciosa. Quello che ha sorpreso nel vento di rivolta che scuote l’intera Africa del Nord è la mancata egemonia fondamentalista, che tutti davano invece da anni come inevitabile in qualsiasi sommovimento nel mondo arabo. Protagonisti sono stati, in prima fila, i giovani con elevato livello culturale e altrettanto elevato tasso di laicità, e il loro strumento generazionale: Internet. Sia chiaro, questi stessi giovani e i “ceti medi riflessivi” locali costituiscono anche la forza più magmatica e meno organizzata, che dunque ha più difficoltà a giocare immediatamente un ruolo rispetto ai militari, alle fronde - più o meno sincere – dei vecchi regimi , ai “Fratelli musulmani” e altre componenti di ispirazione religiosa.
PER QUESTO le rivolte non sono affatto concluse, neppure in Egitto e Tunisia, e covano ancora (si spera) sotto la cenere di equilibri provvisori in cui le componenti del privilegio e dell’establishment (anche economico, non sottovalutiamolo ) hanno per ora l’egemonia. Rivolte che non hanno mostrato alcun collegamento organizzativo, ma una relazione ancora più profonda proprio perché di contagio spontaneo. Per cui è ragionevole ipotizzare che qualsiasi avanzamento o arretramento, soprattutto se drastico, della lotta in uno di questi paesi continuerà per parecchio tempo ad avere ripercussione sugli altri.
SI È TRATTATO ovunque di sollevazioni spontanee, “a mani nude”, innescate da episodi occasionali, la classica scintilla che tante volte non provoca nulla ma improvvisamente incendia la prateria. Altrettanto ovvio che in qualsiasi situazione di crisi, ben prima che precipiti, agiscono ed eventualmente “pescano nel torbido” potentati internazionali multinazionali e governativi, in primo luogo attraverso i servizi di intelligence. Insomma, qualsiasi rivolta corre il rischio di “lavorare per il re di Prussia”, come diceva il vecchio Marx. Non può certo essere un alibi per non lottare e per non schierarsi.
In Libia, ancora pochi giorni fa, la sollevazione rischiava di essere schiacciata definitivamente. Esplosa in tutto il paese, era già stata repressa a Tripoli in un “venerdì di sangue”, quando le masse uscite dalla preghiera in moschea erano state mitragliate dai corpi speciali gheddafisti. Assicuratosi il controllo della capitale, il rais aveva iniziato con successo la controffensiva e ormai l’assedio si stringeva intorno all’ultima roccaforte di Bengasi. Il centro della rivolta aspettava nell’angoscia il “bagno di sangue” promesso dal colonnello, che su questi temi è sempre di parola. Solo l’aviazione francese ha impedito l’annunciato esito di massacro, e non a caso alla notizia della risoluzione Onu Bengasi insorta è esplosa nella gioia della ritrovata speranza.
Possibile che non sappiate per quali motivi Sarkozy e gli altri leader occidentali bombardino, è la domanda (retorica) del pacifismo “di principio”. Lo sappiamo benissimo: per motivi abbietti. Lo sanno anche i sassi: per danaro e potere, i sempiterni motivi che, soli, commuovono davvero gli establishment, i privilegiati, le destre . Questi motivi abietti hanno avuto però l’effetto collaterale di salvare una insurrezione - variegata e ambigua come le precedenti di Tunisia e Egitto, ma rispetto ad esse con una componente islamica inesistente e una militare più forte – che resta per quel paese unico alambicco di speranza democratica.
A me pare che identificarsi con i giovani laici, acculturati e molto spesso disoccupati, che di questa speranza sono i portatori con le poche armi “straccione” dei disertori e la loro passione di blogger, dovrebbe per un democratico italiano esser quasi un riflesso condizionato. E dunque ad orientarci dovrebbero essere le loro richieste, i loro interessi, la solidarietà nei loro confronti, non l’ovvia ripulsa per le motivazioni dei Sarkozy. Cosa li aiuta, i mirage francesi che vogliono mettere la parola FINE al regime del colonnello (speriamo, visto che già la Nato distingue: una volta protetti i civili, rispetto allo scontro armato bisogna restare neutrali), o un ponziopilatismo occidentale che consentirebbe al macellaio di Tripoli di riprendersi il paese? Cosa ne direbbero i giovani democratici libici che sono insorti?
QUANDO SI SCRIVE, o addirittura si scende in piazza, rivendicando un obiettivo, ci si assume la responsabilità morale di ottenerlo, comprese le conseguenze immediate che porta con sé. Non quelle successive, più lontane: la storia è un affresco di “eterogenesi dei fini”. Ma quelle ovvie e inevitabili sì. E se la rivendicazione che si agita viene raggiunta bisognerebbe essere colmi di gioia. Ma quanti che hanno manifestano per la fine dei raid francesi avrebbero gioito davvero se la richiesta pacifista fosse stata accolta? Nessuno, credo, poiché ciascuno in cuor suo avrebbe saputo che in quarantottore Gheddafi avrebbe concluso a Bengasi quanto interrotto.

l’Unità 29.3.11
Blitz di Pdl e Lega, bavaglio alla Rai: stop ai talk show
Per zittire Santoro, Floris e Annunziata, ritorna lo «stop» ai dibattiti. «Per le prossime amministrative di politica si parli solo nelle “tribune”». Ma il divieto non vale per le tv private
di Natalia Lombardo

Talk show sospesi solo sulla Rai nel periodo elettorale, l’informazione politica avrà voce solo nei telegiornali e nei canali Mediaset.
Ci ha preso gusto la maggioranza a tappare la bocca a Santoro, Floris, Annunziata e anche Vespa, com’è avvenuto l’anno scorso per le Regionali, quando a dare il là era stato il radicale Beltrandi. Ora, per zittire i dibattiti sui processi di Berlusconi, ci riprovano Pdl e Lega della commissione di Vigilanza (come aveva anticipato l’Unità): vogliono sospendere i talk show assoggettandoli alla par condicio per le amministrative del 15 e 16 maggio e sostituirli con le «tribune» dando voce a «tutti i candidati» (di oltre 1300 comuni e 9 province).
La censura varrebbe però soltanto per la Rai. Le tv private, Mediaset e La7, sono sarebbero escluse perché, come ha spiegato il presidente dell’Agcom, Corrado Calabrò proprio ai parlamentari, il Tar del Lazio ha dichiarato «illegittima» la sospensione dei talk show avvenuta nel 2010, dando ragione a un ricorso Mediaset. Oltre il danno la beffa, come si dice. Pdl, Lega e pure i Responsabili a Palazzo San Macuto hanno presentato degli emendamenti al regolamento scritto dal presidente Sergio Zavoli, che prevede siano le testate regionali a gestire gli spazi per le tribune elettorali. Ma i vari Butti, Lainati, Santelli, Caparini, nell’emendamento al comma 9 dell’art.3 vogliono obbligare la Rai a «collocare le tribune politiche negli spazi delle trasmissioni di approfondimento più seguite». Insomma, Annozero, Ballarò, In Mezz’ora, Porta a Porta e L’Ultima Parola dovrebbero abolire da ora, per un mese e mezzo, il dibattito politico. Che resterebbe a Matrix, a Belpietro su Canale5, al Tg1.
Per il capogruppo Pd in Vigilanza, Fabrizio Morri, «il centrodestra è paranoico: pretende che i talk show siano piegati alle regole delle tribune, nonostante la Costituzione e la legge distinguano nettamente tra programmi di comunicazione politica e approfondimento informativo. Vogliono una tv dove a parlare di Libia, d’immigrazione, di processi a Berlusconi e prostituzione minorile, siano solo i fidatissimi Tg1, Tg5, Tg4». Il Pd darà battaglia, Michele Santoro si prepara a un bis di «Raiperunanotte» se passerà lo stop «liberticida», Floris è incredulo: «Perseverare è diabolico»; Fnsi e e Usigrai faranno «di tutto» per bloccare la nuova censura.
Mai come adesso il premier vuole controllare i media. E «prendersi» anche il Tg2, sulla cui direzione dovrebbe decidere il Cda giovedì. Susanna Petruni, berlusconiana del Tg1, potrebbe non avere i voti del consigliere Pdl Petroni e della leghista Bianchi Clerici, (entrambi multati dalla Corte dei Conti e ora è saltata alla Camera la norma «salva-manager» saltata alla Camera).
La Lega preme per Paragone, ma potrebbe avere un piatto più ricco all’uscita di Masi (non prima di giugno, forse tornerà a Palazzo Chigi, dov’è in aspettativa): il vice Marano potrebbe diventare direttore generale. Scalpitano poi gli ex An per Sangiuliano, dal Tg1; restano in pista Preziosi dal GrRai e Ida Colucci del Tg2. Dove sono senza direttore e firmano i vice: sul probabile interim a De Scalzi il Cdr protesta, non volendo lavorare nell’incertezza. 



Repubblica 29.3.11

il disegno populista

di Carlo Galli


Oggi la lotta contro i magistrati; solo ieri è finita la campagna contro i "baroni" universitari. Prima debellati questi – soltanto per i profili più importanti: un po´ di piccolo potere locale è loro rimasto – , ora minacciati quelli. Certo, la politica di Berlusconi è soprattutto una storia di salvezza personale: su questo obiettivo si orientano molte delle residue energie del governo. Ma c´è un senso anche nell´attività politica non direttamente riconducibile alle sorti individuali del premier. Ed è un pessimo senso.
Che ha come obiettivo principale la riduzione del potere e dell´influenza delle élites tradizionali, cioè di quelle vaste e articolate formazioni di specialisti intellettualmente e professionalmente qualificati che costituiscono l´ossatura di uno Stato e che garantiscono l´interfaccia tra attività di governo e dinamiche della società civile; che sono indispensabili alle strutture d´ordine e alla dinamiche di progresso. Anche se non sono portatori della razionalità stessa dello Stato – come voleva Hegel – , si tratta di ceti dal ruolo strategico, anche nel mondo d´oggi: ogni Paese li produce e li seleziona in modi diversi, secondo storia, caratteristiche e esigenze.
In alcune realtà, come la Francia, si tratta prevalentemente di grandi burocrati; in altre, di militari; in altre ancora, come l´Italia, di professori e giuristi. Sono agglomerati istituzionali, o semi-istituzionali, che costituiscono una preziosa riserva di sapere e di potere (o almeno di competenze e di influenza) nella società e nella politica; come una sorta di ossatura, di spina dorsale, del Paese, che, informalmente, ne assicura la stabilità, che ne cura e rinnova gli interessi permanenti. Un interlocutore indispensabile per la politica: non per chiedere privilegi, ma per darle aiuto, per assicurarle coerenza, per istituire con essa una dialettica il più possibile ricca e feconda. Una società democratica, uno Stato liberale, una repubblica minimamente certa di sé, si articolano anche in questa complessità, in questa ricchezza.
Contro la quale, invece, si scaglia – sistematicamente, coscientemente, coerentemente – la strategia della maggioranza: che infatti non è né liberale né democratica ma populista. E del populismo condivide il timore e il disprezzo per le élites, il risentimento contro il presunto privilegio dei "pochi" che non si presentano come parvenus ma che esibiscono un´appartenenza di ceto, comportamenti dettati non dalla smania di acquisizione o di protagonismo ma dall´ethos e dall´orgoglio professionale, dalla consapevolezza del merito, dalla certezza del dovere. Contro questi "poteri forti", contro questi "radical chic", contro questi "aristocratici da salotto", viene scatenata la massa populista; a cui si additano i professori come indecenti nepotisti, e i magistrati come impuniti persecutori di innocenti; agli uni e agli altri – pur così diversi tra loro, quanto a funzione – deve essere fatta pagare la loro aria di superiorità, il sentore di privilegio che li accompagna. In realtà, quello che devono veramente scontare è di essere un contropotere rispetto al potere politico: un contropotere debole, che chi ha vinto le elezioni – e dunque è in possesso dell´unica legittimità che, secondo il pensiero dominante, possa essere fatta valere – può spazzare via, o almeno intimidire, ridurre a più miti consigli, con una strategia di bastone (molto) e di carota (poca), volta a disarticolare i ceti, a costringere i singoli componenti alla trattativa. La Casta (vera) contro le Caste (presunte).
Fare una riforma dell´Università che ponga "al centro lo studente", istituire la responsabilità civile dei magistrati, sono – nelle condizioni di oggi – solo abili mosse demagogiche che hanno la finalità reale di ridurre all´obbedienza élites riottose. Benché sia vero che nessuna di esse è immune da pecche, anche gravi, la lotta del potere politico non è contro queste, quanto piuttosto contro il ‘sistema´ stesso delle élites, i cui membri devono limitarsi a erogare anonimamente un "servizio" tecnico meramente funzionale.
Del tutto in linea con questo intento è anche il finanziare la cultura rendendone evidente e sommamente impopolare la fonte – le accise sulla benzina – come per mettere il popolo, le masse, contro i lussi sofisticati e incomprensibili dei "pochi". E perfino la lotta contro i metalmeccanici – quel che resta dell´aristocrazia operaia – è interpretabile, oltre che nelle sue connotazioni più ovvie, anche all´interno del medesimo disegno di riduzione tendenziale della società a uno spazio liscio, disorganizzato, abitato da consumatori massificati, in cui emerge solo il potere plebiscitario di chi ha vinto le elezioni, più qualche folkloristico campanile a rappresentare le "radici" del popolo. Unica élite ammessa, a scopi meramente funzionali e, com´è giusto, rigorosamente individuali: gli avvocati difensori.
Questo è un problema per l´oggi e per il domani, durante Berlusconi e dopo Berlusconi: qualcuno, un po´ lungimirante (se c´è), dovrà pure cominciare anche a pensare in termini di ricostituzione delle élites, cioè di saperi e competenze che a partire da una specifica professionalità sappiano costituire l´ossatura generale del Paese. E intanto, per favore, coloro che stanno realizzando questa Italia invertebrata, almeno non si definiscano liberali.

l’Unità 29.3.11
Il pressing del cardinal Bagnasco che non vuole si verifichi un altro caso Eluana Englaro
La leader radicale invita alla mobilitazione per difendere il diritto a decidere della propria vita
Cei: subito la legge sul fine vita Bonino: meglio niente che questa
Legge subito per fermare la «giurisprudenza creativa» sul fine vita.È il richiamo del presidente della Cei cardinale Bagnasco a governo e maggioranza.«Meglio nessuna legge che questa» rispondono Bonino e Veronesi.
di Roberto Monteforte


Una legge sul fine vita è necessaria e urgente e va approvata dalla Camere. Non se ne può fare a meno. Lancia il suo affondo il presidente della Cei, cardinale Bagnasco che ieri ha aperto i lavori del Consiglio permanente dei vescovi. Trattando dei temi etici, non poteva mancare il capitolo dedicato alle «dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat)». La gerarchia non vuole che ci possano verificare altri casi «Eluana Englaro», la giovane donna in coma irreversibile da anni e alimentata artificialmente, cui con l’autorizzazione di un magistrato è stata sospesa l’alimentazione e l’idradazione forzata. Un «omicidio» per la Chiesa e un pericoloso cedimento verso l’«eutanasia». Da allora gerarchie e movimento cattolico spingono per la definizione di una legge che regolamenti tale materia.
NO ALLA GIURISPRUDENZA CREATIVA
Il dibattito sul testo giunto all’esame delle Camere su cui le perplessità, le critiche e i dubbi sono trasversali è in fase di stallo. Una situazione che preoccupa le gerarchie che puntavano su una sua rapida approvazione. Così era stato loro assicurato dal governo. Così ieri è arrivato il richiamo del presidente dei vescovi. Bagnasco premette che non è suo compito «suggerire spinte di tipo politico», ma il suo messaggio è chiarissimo. Chiede «di porre limiti e vincoli precisi a quella “giurisprudenza creativa” che osserva sta già introducendo autorizzazioni per comportamenti e scelte che, riguardando la vita e la morte, non possono restare affidate all’arbitrarietà di alcuno». Richiama l’esigenza di «regolare intrusioni già sperimentate, per le quali è stato possibile interrompere il sostegno vitale del cibo e dell’acqua». È un punto di principio. «Chi non comprende che il rischio di avallare anche un solo caso abuso, poiché la vita è un bene non ripristinabile, non può non indurre tutti a molta, molta cautela?». Per questo chiede «regole che siano di garanzia per persone fatalmente indifese, e la cui presa in carico potrebbe un domani aggiunge nel contesto di una società materialista e individualista, risultare scomoda». Vi è modo con la medicina «palliativa» di affrontare il «dolore soggettivo» e poi il punto per Bagnasco è la condizione di solitudine e di abbandono cui spesso i malati sono condannati, a cui rispondere accompagnando sino alla fine il congiunto ammalato. Per la Chiesa, conclude Bagnasco, «la vita di ciascuno non è solo bene dell’individuo, ma bene comune».
La replica, indiretta, non si è fatta attendere. Proprio sulla tutela del diritto individuale a decidere sulla vita ieri sono intervenuti Emma Bonino e Umberto Veronesi invitando ad una mobilitazione in difesa dell’inviolabi-
lità di tale diritto. «È meglio nessuna legge che quella ora in discussione ha detto Bonino. Deve essere chiaro che noi non vogliamo imporre niente a nessuno, ma ognuno deve essere libero di scegliere ciò che vuole: è importante fermare quella legge e aprire i registri del testamento biologico in tutti i Comuni dove ancora non ci sono». «La legge in discussione non è sul, ma contro il testamento biologico ha aggiunto Veronesi -. Noi invece vogliamo lasciare libertà a tutti, quindi anche chi vuole essere mantenuto in vita ha il diritto di esigerlo». Pronta la replica del sottosegretario alla Salute Roccella che ha messo in guardia dagli «slittamenti verso l’eutanasia».



il Fatto 29.3.11

La scuola fa, il mondo disfa
di Marina Boscaino


“L’amministrazione dello Stato, come la tutela privata, deve essere gestita nel-l’interesse di coloro che le sono stati affidati, non di coloro ai quali è stata affidata”. Sarei certamente inserita tra i professori sessantottini e comunisti, che “inculcano principi” e da cui bisogna guardarsi ricorrendo alle scuole private. Ma non ho proposto la lettura di un sovversivo; è Cicerone, De officiis - Sui doveri, monumento didattico-pedagogico destinato più di 2000 anni fa alla classe dirigente di Roma. Traduciamo, i ragazzi ed io, trovando a ogni passaggio spunti di riflessione sull’oggi; e – temo – alimentando sempre più nei diciottenni l’idea di un mondo schizofrenico, dove la scuola propone e altri dispongono in modo opposto, sconfessando contenuti, modelli, finalità. II ora: Barocco e sentimento del tempo; infinitamente grande e infinitamente piccolo; l’oltre e l’iperrealismo: quanta vicinanza con il ‘900 in un tempo lontano e in linguaggi remoti, come quelli di certi sonettisti. Mi sposto in III: Primo Levi. Il progetto è finalizzato alla riflessione su memoria e diritti umani: i sommersi e i salvati, dicotomia universale. È ancora impossibile, per fortuna, leggere la prosa sobria e asciutta di Levi (nella foto) senza avvertire palpabile l’emozione: nell’aula e nei visi dei ragazzi, così disabituati all’espressione di sentimenti non ripresi da una telecamera e magari mercificati. Giovenale e l’indignatio, musa ispiratrice di fronte all’inarrestabile dilagare del vizio.
Esco da scuola, accendo la radio, Gr1. Il Mediterraneo è una polveriera. La guerra – si chiama così: ancora, sempre, forse? – a un passo da noi e ovunque, senza condizionare le nostre vite, a parte il prezzo della benzina. Negli ultimi 2 mesi coloro che vivono dall’altra parte del mare si sono trasformati, hanno detto basta. A chi, a che cosa, in quale direzione i miei studenti non l’hanno saputo; e forse, non lo so nemmeno io. Il reattore è sempre lì, minaccioso. Andremo a votare un referendum, andranno anche loro, alcuni per la prima volta. Con quale consapevolezza? Ruby e il 6 aprile che si avvicina.
Il nostro lavoro è utile solo piegando le discipline a sapere critico, formazione e valorizzazione di strumenti per interpretare il reale. Rifiuto per lo più tecnicismi o nozionismi e preferisco una didattica basata sulla capacità di mettere in relazione – mediante concetti organizzatori – le espressioni culturali dell’uomo di ieri e di oggi. Cultura come cittadinanza consapevole, l’obiettivo. Oggi non so più: ho l’impressione di vivere una sorta di Arcadia occidentale, in cui parte della scuola – la maggior parte – fa; e una parte del mondo – la maggior parte – disfa. In cui parole, chiavi di interpretazione, raffinatezza e profondità dei percorsi appaiono ridotti alla celebrazione di se stessi, perché non riescono più – contra-stati da altri modelli, sopraffatti da altre necessità e dalla lontananza di spendibilità e utilità immediate da sms – a dire parole incancellabili. Il mondo cambia vertiginosamente e l’impressione è che i nostri linguaggi non siano più efficaci per intercettare quel cambiamento in modo significativo. Mi chiedo se a capire l’oggi e il domani globalizzati sia sufficiente penetrare lo ieri mediterraneo. Se un brano di Seneca, Dora Markus di Montale o anche la visione e il commento di La rabbia di Pasolini possano stimolare domande, fornire risposte, indicare strade. Non si tratta dell’efficacia di quei messaggi, ma dello iato tra ore di scuola e minuti del Gr. Della consapevolezza di appartenere a una comunità educante che si sente priva di mandato; che deve prendere per mano generazioni sempre più smarrite, a cui non è più in grado di garantire interpretazioni del mondo solide ed efficaci. Dubbio moltiplicato, perché delle notizie di quel Gr io per prima capisco il significato, ma mi sfugge il senso. Ogni volta è più dura. Ma ogni volta riemergo più convinta: quelle parole, immagini, formule dicono l’uomo di sempre. Non è l’Arcadia, ma il miracolo laico dell’esercizio della critica e della divergenza. Che non di rado mi pare di intuire negli sguardi dei miei alunni, di leggere nelle loro parole. 



Corriere della Sera 29.3.11
Precari, i ricorsi valgono sei miliardi

Tra le ipotesi un pacchetto di assunzioni per evitare gli effetti del verdetto di Genova

di Lorenzo Salvia



ROMA— La stima fatta dai tecnici del ministero dell’Istruzione dice che, se il caso Genova dovesse fare scuola, il costo sarebbe compreso fra i 4 ed i 6 miliardi di euro. Una piccola manovra finanziaria, visto che il decreto anti crisi dell’estate scorsa era di 24 miliardi. Quelle cifre hanno fatto preoccupare il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che le ha lette insieme alla richiesta di valutare ogni possibile intervento sugli organici, compresa l’ipotesi di un pacchetto di assunzioni per coprire i posti che ogni anno vengono assegnati di sicuro ai precari. E che potrebbe mettere le casse pubbliche al riparo dalla probabile batosta dei ricorsi. Il campanello d’allarme è suonato venerdì scorso quando il tribunale del lavoro di Genova ha condannato il ministero dell’Istruzione a risarcire 15 precari con poco più di 30 mila euro a testa. Mezzo milione in tutto. In realtà non si tratta delle prima sentenza del genere: già in passato altri tribunali avevano condannato il ministero a riconoscere ai precari diritti garantiti ai loro fortunati colleghi a tempo indeterminato: dagli scatti di anzianità al pagamento dello stipendio durante il periodo estivo. La novità della sentenza di Genova sta nella dimensione del risarcimento e nella sua motivazione giuridica: l’incompatibilità con una direttiva comunitaria che obbliga ogni Stato membro a limitare l’uso dei contratti a termine. Un mix che fa sperare chi è in attesa di un contratto vero e che potrebbe creare seri problemi al bilancio pubblico. Il verdetto di Genova è solo l’inizio: la Flc Cgil segue 40 mila persone che stanno pensando ad un ricorso simile, in tutto le persone coinvolte potrebbero essere 150 mila. Proprio per questo il governo sta studiando come intervenire e già oggi l’argomento sarà discusso al ministero dell’Istruzione insieme ai sindacati. Quali sono le possibili soluzioni? Scontata la decisione di fare appello contro la sentenza, ma si tratta solo di un modo per guadagnare tempo. La richiesta avanzata a Tremonti (valutare ogni possibile intervento sugli organici) potrebbe aprire la strada ad una proposta che fanno da tempo sia i sindacati sia il Partito democratico. L’intervento, ancora tutto da verificare, riguarderebbe un corposo pacchetto di assunzioni fatte pescando dalla lista dei precari. Una soluzione che taglierebbe il numero dei possibili ricorrenti e, almeno in teoria, potrebbe essere fatta quasi a costo zero. Una magia? In realtà no. «Una buona parte dei supplenti — spiega Massimo Di Menna della Uil scuola — viene chiamata ad inizio anno su posti non temporaneamente vuoti ma liberi» . Quei precari, cioè, non sostituiscono chi si assenta per una malattia lunga o una maternità ma coprono un posto che si sa vuoto fin dall’inizio, ad esempio per un distacco sindacale oppure perché ci sono spezzoni di cattedra che non si incastrano. In tutto sono circa 50 mila i posti che, stabilmente, vengono assegnati ai precari. Se sono sempre quelli perché non vengono assunti insegnanti a tempo indeterminato? Finora il ministero dell’Economia ha sempre negato l’ok perché un contratto a tempo determinato è flessibile, cioè può essere tagliato a differenza di uno a tempo indeterminato. Ma la sentenza di Genova cambia la carte in tavola, perché potrebbe essere meno costoso assumere adesso piuttosto che risarcire dopo. «Lo Stato — dice per la Flc Cgil Domenico Pantaleo — potrebbe addirittura guadagnarci, tanto quelli sono stipendi che paga in ogni caso mentre risparmierebbe sulla gestione delle graduatorie» . Una cosa, però, è la soluzione studiata dai tecnici, un’altra la scelta politica. E sia Gelmini che Tremonti hanno sempre parlato apertamente di necessaria riduzione degli organici. «Ma il governo deve prendere una decisione— dice per la Cisl scuola Francesco Scrima — altrimenti la questione verrà lasciata alle aule giudiziarie» . 



Corriere della Sera 29.3.11

Si è acceso Icarus: dovrà svelare i segreti dell’Universo 

L’obiettivo è capire i misteriosi «neutrini»

di Carlo Rubbia

La parola neutrino è italiana, coniata da Enrico Fermi nel 1934 per caratterizzare queste particelle dalle più straordinarie proprietà. Ogni secondo, di giorno come di notte, senza rendercene conto, siamo attraversati su ogni centimetro quadrato da ben 65 miliardi di neutrini solari, ad una velocità vicina a quella della luce. La maggioranza di questi neutrini proviene dal Sole e attraversa quasi senza effetti sia il Sole che la nostra Terra perdendosi nell’immensità del fondo cosmico. I neutrini sono simili ai ben più familiari elettroni, ma con una cruciale differenza, quella di essere elettricamente neutri e influenzati solamente dalla forza debole trasmessa dai bosoni W e Z, per la cui scoperta al Cern ho ricevuto assieme a Van der Meer il premio Nobel per la Fisica nel 1984. Un grandissimo numero di neutrini sono anche prodotti da certi tipi di decadimenti radioattivi e da reazioni nucleari come quelle prodotte dal Sole, dai raggi cosmici e soprattutto dai reattori nucleari. Forse pochi sanno che una importante frazione dell’energia prodotta dalla fissione nucleare sfugge sotto forma di neutrini. Postulato da Pauli nel 1930, il neutrino fu rivelato sperimentalmente nel 1956 da Cowan e Reines, che ricevettero solo quarant’anni dopo il premio Nobel. Il 23 febbraio 1987 neutrini provenienti dall’esplosione della supernova SN 1987A a 168 mila anni luce furono rivelati sperimentalmente in laboratori sotterranei in Giappone e negli Usa, la più luminosa esplosione stellare vista ad occhio nudo da quando Keplero osservò una supernova nel 1604. Oggi sappiamo che i neutrini saranno la fine ultima della morte di ogni stella, incluso il nostro Sole, ma fortunatamente solo tra circa cinque miliardi di anni! Per comprendere l’immensità dell’Universo che ci circonda, basti pensare che all’incirca ogni secondo una nuova supernova esplode, trasformandosi in neutrini, da qualche parte dell’Universo! I fisici sono quindi convinti che i neutrini siano uno dei più importanti e straordinari fenomeni cosmologici, in gran parte ancora tutti da scoprire, come confermato peraltro dai numerosi premi Nobel per la Fisica attribuiti a questo soggetto. Basti pensare che assieme a ogni protone proveniente dalla primordiale nucleosintesi, quella che generò circa tre minuti dopo il Big Bang tutta la materia conosciuta dell’universo — i famosi tre minuti così ben descritti dal libro di Steve Weinberg — sono generati ben un miliardo di neutrini, che ancora oggi attraversano lo spazio cosmico. Come inizialmente postulato dal nostro Bruno Pontecorvo e dimostrato da numerosi esperimenti, oggi sappiamo che esistono almeno tre tipi diversi di neutrini. Uno dei fenomeni più straordinari è che essi spontaneamente «oscillano» tra di loro e cioè viaggiando a grandi distanze si trasformano continuamente tra di loro. Da qui l’estremo interesse ad esempio del fascio di neutrini proveniente dal Cern di Ginevra che attraversando le Alpi e gli Appennini a grande distanza sottoterra, risale in superficie grazie alla rotazione della Terra e viene rilevato, unico in Europa, nei laboratori del Gran Sasso presso L’Aquila a circa 800 chilometri di distanza. I nostri esperimenti al Gran Sasso stanno mostrando ogni giorno di più come i neutrini risultanti alla fine di questo lungo viaggio siano profondamente diversi da quelli inizialmente prodotti. Questi esperimenti sono anche centrali ad un’altra delle più straordinarie scoperte degli ultimi anni e cioè l’evidenza sperimentale di quella che comunemente si chiama la «materia oscura» , che diede tra l’altro il premio Nobel nel 2006 a John Mather e a George Smoot per il successo del satellite Cobe lanciato nel 1989 e del loro successivo prodigioso lavoro di ricerca con più di mille tra ricercatori e ingegneri. Questo straordinario risultato, oggi confermato da molteplici osservazioni cosmologiche, ci dice che la materia ordinaria, quella di cui siamo fatti e caratterizzata dalla ben nota tabella degli elementi chimici di Mendeleiev, non è la forma predominante della materia dell’Universo e che una ben altra componente, molto più massiva, invisibile e fino ad ora completamente sconosciuta, in realtà controlla, grazie alla sua forza gravitazionale, la massa dell’Universo tutto intero. Da qui l’immenso interesse di scoprire la presenza in laboratorio e la vera natura della materia oscura che senza dubbio ci attraversa continuamente, un risultato le cui conseguenze immense superano largamente quelle della fisica e cosmologia, della stessa importanza della rivoluzione copernicana quando si dimostrò che la Terra non era il centro dell’Universo. Lo studio della materia oscura è un altro argomento portante dell’Infn e dei laboratori del Gran Sasso. Quest’ultimo e quello dei neutrini sono ambedue campi di ricerca ancora tutti da scoprire. E’ forse anche possibile che la materia oscura origini in una forma ancora da scoprire dovuta ai neutrini e più precisamente ai cosiddetti neutrini sterili. Ma potrebbe essere anche qualcosa d’altro, come ad esempio le particelle Susy che sono un soggetto centrale di ricerca dell’acceleratore Lhc al Cern di Ginevra. E’ questo un magnifico e meraviglioso esempio di quello che Galileo Galilei battezzò come «filosofia naturale» : solo l’esperimento potrà darci le risposte che ci attendono. E’ indubbio che queste grandissime potenziali scoperte necessitino di nuovi, più potenti strumenti di osservazione. Da qui l’importanza dell’evento che si celebra oggi ai laboratori del Gran Sasso con l’inaugurazione dell’ esperimento Icarus, un programma di altissimo livello fondato sulla tecnica innovativa di liquidi criogenici di elevatissima purezza e di centrale importanza tanto per lo studio dei neutrini a grande distanza che per il problema della materia oscura. E’ questa un’occasione per celebrare vent’anni di originale ricerca e sviluppo attraverso la realizzazione concreta in Italia di uno strumento scientifico di grandi dimensioni, di altissima tecnologia e fino ad ora unico al mondo, e che, peraltro seguendo il nostro esempio, sia americani che giapponesi hanno iniziato a sviluppare e perseguire. *Premio Nobel per la fisica



Corriere della Sera 29.3.11

Bandiere giovanili, dal ’68 francese alla primavera maghrebina

di Carlo Formenti



Nel primo Novecento i rivoluzionari europei cantavano «e noi faremo come la Russia» , nel ’ 68 impugnavano il libretto di Mao, ora tocca al Nord Africa. Il 23 marzo scorso il Knowledge Liberation Front — una rete internazionale di movimenti radicali di studenti, precari e lavoratori della conoscenza — ha indetto una conferenza stampa per annunciare tre giorni di mobilitazione contro la «finanziarizzazione delle nostre vite» . Dal comunicato si evince che il primo oggetto di contestazione sono l’aumento delle tasse di iscrizione e i concomitanti tagli di budget che Inghilterra, Francia, Italia e altri Paesi hanno imposto alle università, una scelta, si scrive, funzionale a un progetto di mercificazione della conoscenza e precarizzazione del lavoro culturale. A colpire di più, tuttavia, è il riferimento alle lotte dei giovani insorti nordafricani, descritte come modello da imitare. Un anacronistico rigurgito terzomondista? Basta rileggere gli articoli che gli inviati di tutto il mondo hanno dedicato agli eventi di Tunisia ed Egitto per capire che non si tratta di questo: se i giovani parigini, londinesi e romani possono identificarsi con i ragazzi del Cairo e di Tunisi è perché sanno che si tratta perlopiù di studenti laureati e neolaureati condannati alla disoccupazione, di persone che usano i social network come i coetanei europei, dei quali condividono ormai i valori culturali, e che l’impossibilità di trovare sbocchi occupazionali induce ad attraversare il Mediterraneo e approdare sulla sponda europea in cerca di migliori condizioni di vita. È quindi del tutto comprensibile che i giovani rivoluzionari europei li considerino «rinforzi» da arruolare nelle proprie battaglie. Comprensibile ma per nulla scontato, nel senso che questa svolta ideologica è un sintomo impressionante della velocità con cui ha camminato la storia negli ultimi decenni: il ’ 68 rivendicava un’università di massa che, si sognava, avrebbe democratizzato la politica e l’economia; ora che l’università di massa minaccia di divenire una fabbrica di precari, ci si specchia nel destino dei giovani diseredati del Maghreb. Che abbia ragione la sociologa della globalizzazione Saskia Sassen quando parla di «terzomondizzazione» dell’Occidente? 

Corriere della Sera 29.3.11
Siamo una democrazia mediamente ignorante
Un’indagine del Centro per il Libro fa il punto sul mercato editoriale
di Paolo Di Stefano

E’ molto interessante l’indagine Nielsen sull’acquisto e la lettura di libri commissionata dal Centro per il Libro presieduto da Gian Arturo Ferrari. Il risultato più rilevante è che solo il 33 per cento della popolazione italiana (un cittadino su tre) ha acquistato almeno un libro nell’ultimo trimestre 2010. Si tratta per lo più di donne (54 per cento), di un pubblico che risiede per la maggior parte tra il centro e il Nord Italia e che ha un profilo giovane (tra i 25 e i 34 anni). La libreria resta il canale preferito (65 per cento), mentre un acquirente su dieci si rivolge a internet. In media il cittadino che compra libri ha speso circa 27 euro in tre mesi, cioè 9 euro al mese, per di più nel periodo più propizio per l’editoria, come quello natalizio, in cui il libro è anche regalo. Gli altri non hanno speso niente. Dunque, il cittadino italiano ha sborsato in media, per i libri, 3 euro al mese. Se si va sulla lettura, le cose stanno ancora peggio: le persone che hanno letto almeno un libro in tre mesi sono meno degli acquirenti: in tutto, 16.8 milioni. Altro che crescita o decrescita del Pil, c’è un prodotto interno lordo che procede più lentamente di quello economico ed è quello culturale. Non si potrebbe immaginare niente di più catastrofico per lo sviluppo di un Paese. L’industria editoriale, consegnata nelle mani dei supermanager, non ha dato grandi risultati. O, meglio, se le case editrici stanno economicamente meglio che in passato, il Paese è rimasto culturalmente quello di sempre se non peggio. E se si considera la situazione al sud, la situazione è ancor meno confortante: in Calabria, solo il 6 per cento della popolazione ha acquistato più di tre libri nel periodo preso in considerazione. Non si fa che parlare di ebook, ma rimane un mercato che non sfiora neanche l’uno per cento del totale. Dunque, in attesa dell’onda digitale eternamente annunciata, parliamo di editoria cartacea. Un altro dato significativo dell’indagine Nielsen è che i libri nettamente più venduti (20 per cento del totale) sono gialli, polizieschi e thriller: cioè tutta quella massa di titoli che un tempo veniva ignorata dai sondaggi in libreria per il semplice fatto che, venendo considerata paraletteratura, finiva in edicola. Ora è la Letteratura per eccellenza. Lo stesso vale per quel 7 per cento che rientra nella categoria della narrativa rosa o d’amore. Ha ragione Ferrari (intervistato da Simonetta Fiori per la Repubblica) quando dice che «la base dei lettori italiani è vergognosamente ristretta e nessuno dà un valore sociale al libro» . Sarà vero che per migliorare le cose basterebbe che lo Stato investisse 10 milioni l’anno per un quindicennio? Se così fosse, scordiamoci ogni sogno di gloria. Visto che gli investimenti sulla cultura diminuiscono a vista d’occhio. Dice Ferrari che l’unico momento storico in cui lo Stato unitario si è prodigato per allargare la lettura è stato il ventennio fascista: non è un esempio valido, perché bisogna valutare che tipo di libri promuoveva. Fatto sta che, nel dubbio, la nostra democrazia, a giudicare da tutto, si accontenta di avere cittadini mediamente ignoranti. ©



Corriere della Sera 29.3.11

Il capitalismo contro il villaggio

Così le libertà della società borghese offuscarono l’utopia della comunità

di Giuseppe Bedeschi



A ncora oggi i termini «comunità» e «società» vengono usati in stretta correlazione fra loro e al tempo stesso come termini distinti, che designano modelli sociali diversi. La comunità indica un insieme di individui caratterizzato da rapporti di solidarietà, da interessi convergenti, e quindi coeso e compatto; la società, per contro, indica un organismo assai più complesso e soprattutto frazionato al suo interno (in primo luogo a causa della sua stratificazione sociale), percorso da spinte molteplici e da interessi divergenti. Questa distinzione/opposizione fra comunità e società è stata fissata per la prima volta con rigore concettuale in un testo pubblicato in Germania nel 1887 e considerato ben presto un classico del pensiero sociologico: Comunità e società (Gemeinschaft und Gesellschaft) di Ferdinand Tönnies, riproposto da Laterza (in libreria da dopodomani) con una bella introduzione di Maurizio Ricciardi (pp. 304, € 24). Tönnies dichiarava nella prefazione alla prima edizione di avere un grosso debito intellettuale con alcuni pensatori, fra i quali spiccava Karl Marx. E in effetti l’influsso di Marx su Tönnies è massiccio: se non si tenesse presente l'analisi marxiana, non si potrebbe intendere a fondo l’opera tönniesiana. Ai vari tipi di comunità Tönnies dedica osservazioni finissime (anche se ispirate spesso a una forte idealizzazione). La forma primaria di comunità si esprime nei rapporti fra madre e figlio, fra fratelli, fra uomo e donna in quanto coniugi. Oltre alla parentela, sono forme originarie di comunità il vicinato e l’amicizia. Ma la comunità caratterizza anche alcuni momenti della storia antica e medievale: là dove ci sono possesso e godimento di beni comuni, amici e nemici comuni, protezione e difesa reciproca. Di qui l’accurata analisi che Tönnies dedica alla comunità di villaggio che «costituisce nella sua relazione necessaria con la terra un’unica economia domestica indivisa» . Lo spirito comunitario viene negato dall’avvento del capitalismo. Nasce un mondo nuovo, in cui vanno perduti tutti i legami di solidarietà. Si costituisce la società (borghese), in cui gli uomini «sono non già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati» . Qui «ognuno sta per proprio conto e in uno stato di tensione contro tutti gli altri» ; qui «nessuno farà qualcosa per l’altro, nessuno vorrà concedere e dare qualcosa all’altro, se non in cambio di una prestazione o di una donazione reciproca che egli ritenga almeno pari alla sua» . In questa società i rapporti tra gli uomini sono rapporti di scambio, resi possibili dal denaro, e trovano la loro espressione tipica nel contratto. I prodotti del lavoro sono merci che vengono scambiate per conseguire profitto. La società diventa un unico grande mercato in cui tutti sono giuridicamente uguali, ma «la classe lavoratrice è semilibera e formalmente capace di atti arbitrari» , mentre «la classe capitalistica è completamente libera e materialmente capace di atti arbitrari» . La società (borghese) plasma ogni cosa secondo il suo meccanismo di sviluppo: lo Stato, i sistemi giuridici, la morale. Ma tutti i valori più alti vengono oscurati: la famiglia decade, la cultura è asservita agli interessi dominanti e persino le arti «vengono sfruttate capitalisticamente» . Ho già accennato al grande influsso di Marx su Tönnies, che si manifesta soprattutto nell’idea della «mercificazione» che il capitalismo attuerebbe di tutti i rapporti umani. Ma è notevole anche l’influsso di Hegel e della sua critica della «società civile borghese» , vista come un complesso di atomi, ciascuno dei quali si muove indipendentemente dagli altri e contro gli altri, senza una unificazione superiore e consapevole. L’opera di Tönnies si colloca dunque all’interno di un vasto filone della cultura tedesca di ispirazione organicistica, che postula il recupero, a un livello superiore, di una mitica unità originaria perduta. Tale filone culturale, che ha avuto i suoi principali esponenti in Hegel e in Marx, ha accomunato in una stessa condanna la società borghese moderna e il pensiero liberale, considerato come consustanziale ad essa. Ma del pensiero liberale le concezioni organicistiche non hanno colto l’energica difesa dell’individuo, dei suoi diritti e delle sue libertà. Basta scorrere a questo proposito il celebre Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819) di Benjamin Constant. Questi celebrava con eloquenza la libertà degli inglesi, dei francesi, degli americani e la definiva come il diritto di non essere sottoposto che alla legge, di non essere arrestato arbitrariamente; di esprimere la propria opinione, di scegliere il proprio lavoro, di disporre della propria proprietà; e inoltre di esercitare la propria influenza sul governo, sia concorrendo alla nomina dei suoi funzionari sia partecipando alla pubblica opinione, di cui il governo deve tener conto. Questi diritti e queste libertà restavano sostanzialmente fuori dalla rappresentazione della società moderna fornita da Marx e da Tönnies o venivano fortemente svalutati. Mentre non si può dire che il pensiero liberale ottocentesco trascurasse i pericoli e le storture della società borghese: basti pensare a Tocqueville, al suo timore per la tirannia della maggioranza, per il conformismo della società democratica di massa, per il suo individualismo egoistico e per il suo materialismo edonistico, per la dura condizione dei lavoratori dell’industria. E tuttavia, per Tocqueville, la società borghese democratica aveva garantito a tutti i diritti fondamentali della persona, aveva assicurato alla maggioranza dei cittadini un benessere maggiore rispetto al passato, aveva creato gli strumenti amministrativi e politici per correggere le storture dello sviluppo economico-sociale. Di qui la superiorità della società borghese democratica rispetto alle società precedenti. Era una valutazione robustamente realistica, quella di Tocqueville, che rifiutava le utopie del pensiero organicistico (le corporazioni di Hegel, la città del sole dei socialisti e, se l’avesse conosciuta, l’organizzazione sociale cooperativistica di Tönnies) e che indicava la strada del futuro.

Repubblica 29.3.11

Amore e carriera quanto bruciano le occasioni perdute
Due psicologi americani hanno studiato un campione di persone fra i 19 e i 103 anni Le donne pensano ai sentimenti, gli uomini al lavoro, pochi al loro ruolo di genitori
Fa soffrire di più un´azione non compiuta che una fatta in modo errato
Il senso di rincrescimento può anche essere una spinta positiva per il futuro

di Elena Dusi


Il rimpianto più grande di una vita riguarda una scelta d´amore. Accade a una persona su cinque, e alle donne il doppio delle volte rispetto agli uomini. A questi ultimi invece bruciano di più le scelte sbagliate in fatto di carriera. I litigi in famiglia, un corso di studi non portato a termine e le spese poco oculate completano il quadro dei cinque motivi di rincrescimento più diffusi.
Gli psicologi Mike Morrison dell´università dell´Illinois e Neal Roese della Northwestern University hanno domandato a un campione di 370 "americani tipici" fra i 19 e i 103 anni di indicare il principale motivo di rimpianto della loro vita. Il 18,1 per cento ha citato una storia d´amore perduta, e come prevedibile questa percentuale è risultata molto più alta fra i single. I risultati del sondaggio sono stati pubblicati sulla rivista Social psychological and personality science con il titolo "Regrets of the typical american". A citare l´amore e la famiglia come cruccio principale del proprio passato sono state il 44 per cento delle donne e il 19 degli uomini. Titolo di studio e carriera rappresentano invece un´illusione svanita per il 34 per cento degli uomini e il 27 per cento delle donne.
Più in basso nella classifica si trovano i rimpianti per non essere stati dei genitori all´altezza. Il 9 per cento degli intervistati ha il cruccio di non essere un buon padre o una buona madre, o anche solo di non trascorrere abbastanza tempo con i figli per colpa delle troppe ore dedicate al lavoro. Subito dopo in classifica (il 6 per cento degli intervistati) c´è chi si lamenta di aver trascurato la propria salute, gli amici (3,6 per cento) o la vita spirituale (2,3 per cento). L´1,5 per centro avrebbe voluto concentrarsi di più su tempo libero e piacere personale, mentre all´1 per cento è mancato il self improvement, o spazio dedicato al miglioramento di se stessi.
I rimpianti per le azioni compiute equivalgono in termini numerici a quelli per le occasioni perdute. Ma queste ultime bruciano più a lungo. E la ricerca di Morrison e Roese conferma quel che disse Mark Twain: "Fra vent´anni sarai dispiaciuto per le cose che non hai fatto più che per quelle che hai fatto". Ma quando si tratta di amore, i ricercatori hanno trovato che i rimpianti riguardano in uguale misura il senso di colpa per un partner che se n´è andato, il coraggio mancato nel momento in cui c´era da farsi avanti con la persona dei sogni oppure un comportamento che ha ferito la persona amata. Ma le azioni compiute - e il riferimento è soprattutto a un divorzio fatto alla leggera - rappresentano una delle decisioni d´amore più soggette a rimpianti, di quelli dolorosi e assai difficili da mitigare con la semplice azione del tempo.
Fra gli intervistati che avevano un titolo di studio più alto era maggiore la percentuale di rimpianti per scelte sbagliate di carriera. "Sembra che queste persone - scrivono gli autori - abbiano una sensibilità spiccatissima per il raggiungimento delle proprie aspirazioni e la realizzazione di se stessi". Fra coloro che hanno abbandonato presto la scuola, invece, il rimpianto di oggi è semplicemente non avere ottenuto un´educazione migliore. I giovani hanno motivi di rincrescimento più profondi, relativi a decisioni di vasta portata, e quasi sempre hanno in mente una via per rimediare a una mossa sbagliata. Nel bilancio di una vita di un anziano, al contrario, pesano più spesso scelte semplici, relative alla quotidianità.
La sensazione che il rimpianto sia senza ritorno, e le occasioni perdute siano svanite per sempre, riguarda ovviamente più gli anziani dei giovani. "Ma il senso di rincrescimento - scrivono i due psicologi nel loro studio - non è sempre un sentimento negativo. Anzi è qualcosa che ci dà la spinta ad agire meglio alla prossima occasione. Rappresenta una risorsa nel momento in cui ci insegna una lezione. È invece un problema quando la nostra testa continua a ripensarci in continuazione senza riuscire a evadere dal circolo chiuso". Proprio come accade dopo una scelta sbagliata in amore.

Terra 29.3.11
La vertigine immacolata di Gondry

di Francesca Pirani



Terra 29.3.11
Papilloma virus, ecco il vaccino quadrivalente
di Federico Tulli

http://www.scribd.com/doc/51783019

lunedì 28 marzo 2011

elezioni in Germania
l’Unità 28.3.11
Terza sconfitta del 2011 per la Cancelliera, frana nel Baden Württemberg dove il partito governava da 58 anni
I Grünen volano e superano la Spd. Per la prima volta un ecologista può arrivare alla presidenza del Land
Merkel perde storica roccaforte Cdu Effetto nucleare, successo dei verdi
Terza sconfitta consecutiva per Angela Merkel, che arretra nella storica roccaforte del Baden Württemberg. Vittoria dei verdi, per la prima volta alla presidenza del Land. Nell’urna ha pesato la questione nucleare
di Gherardo Ugolini


Dopo la pesante sconfitta di Amburgo e quella più attenuata della Sassonia-Anhalt, Angela Merkel incassa un’altra batosta elettorale, la terza consecutiva nel 2011. Questa volta a girare le spalle alla cancelliera è stato il Baden-Württemberg, ricco e popoloso Land meridionale, la regione della Mercedes e della Bosch, oltre che di storiche città universitarie quali Tubinga e Heidelberg. Qui la sconfitta della Cdu assume i caratteri di una svolta storica, visto che in questa regione il partito cristiano-democratico era al governo ininterrottamente da 58 anni. Secondo le proiezioni della tv tedesca, la Cdu ha perso oltre il 5% dei consensi fermandosi al 39%: una percentuale ragguardevole, ma insufficiente per continuare a governare, neppure con l’appoggio dell’Fdp, che per un soffio ha superato la soglia del 5% dimezzando comunque la quota di consensi raccolta 5 anni fa.
FATTORE GIAPPONE
Trionfatori del voto in Baden-Württemberg sono i Grünen, che passano dall’11,7% al 24,4% e molto probabilmente potranno governare la regione insieme ad una Spd in calo (dal 25,2 al 23%) e senza la Linke bloccata al 2,8% e pertanto fuori dal parlamento di Stoccarda. Si tratta senza dubbio di un risultato storico per la sinistra tedesca, non solo per la conquista di un bastione della Cdu che pareva inespugnabile, ma anche e soprattutto per il riequilibrio dei rapporti di forza al suo interno. Dato il sorpasso dei Verdi sui socialdemocratici, sarà infatti un esponente del partito ecologista a guidare il governo del Land nella prossima legislatura, e precisamente Winfried Kretschmann, docente di biologia e chimica in un liceo di Stoccarda, da sempre impegnato nelle battaglie del fronte ecologista. Fino ad oggi nella storia politica tedesca non s’era mai visto un presidente regionale espresso dai Grünen. Non c’è dubbio che sul voto di ieri ha pesato moltissimo la questione nucleare. Nel Baden-Württemberg sono stanziati ben 4 dei complessivi 17 reattori nucleari tedeschi ed è ovvio che la problematica lì sia avvertita con particolare sensibilità. Merkel ha tentato fino all’ultimo di cavalcare le paure suscitate dalla catastrofe di Fukushima, ma i suoi voltafaccia non sono bastati. La recentissima conversione all’antinuclearismo è apparsa all’opinione pubblica un espediente opportunista. E non a caso il giorno prima del voto circa 250mila persone avevano manifestato in varie città della Germania protestando contro la politica energetica del governo conservatore. Un altro fattore che ha mobilitato in massa gli elettori verdi è stato il progetto di Stefan Mappus, governatore Cdu uscente, di demolire la vecchia stazione ferroviaria di Stoccarda per costruirne una nuova ultramoderna e sotterranea. Da mesi gli oppositori manifestano contro.
Successo dei Grünen anche nell’altro Land in cui si è votato ieri, la Renania-Palatinato. Qui l’Spd, che governava con la maggioranza assoluta sotto la guida di Kurt Beck, ha subito un pesante arretramento scendendo dal 45,6 al 36%, mentre la Cdu ha confermato il 35% dei voti del turno precedente. Le perdite dell’Spd sono state compensate dai Verdi che invece triplicano i loro consensi e arrivano al 15,3%, con la conseguenza che nella prossima legislatura ci sarà al governo una maggioranza rosso-verde.La perdita del Baden-Württemberg è un bruttissimo colpo per la Bundeskanzlerin e per la sua leadership già gravemente appannata. E qualcuno fa il paragone con la perdita del Nord Reno-Vestfalia, tradizionale fortezza Spd, nel luglio 2005, in un’elezione che segnò per l’ex cancelliere Gerhard Schröder l’inizio della fine.

elezioni in Francia
Corriere della Sera 28.3.11
Crolla la destra di governo. Eliseo a rischio per Sarkozy
di  Stefano Montefiori


Ha vinto la sinistra, la destra di governo dell’Ump è crollata e il Fronte nazionale è avanzato senza sfondare. Ma il protagonista delle elezioni cantonali dall’astensionismo record (attorno al 55%) è di nuovo Marine Le Pen, che gli ultimi sondaggi danno tra un anno certamente qualificata al secondo turno delle presidenziali, mentre Nicolas Sarkozy viene sconfitto subito, al primo turno, in quasi tutte le combinazioni possibili. «D’ora in poi bisognerà fare i conti con un Fronte nazionale in prima linea — ha commentato ieri sera una trionfante Marine Le Pen —. La ricomposizione della vita politica francese è in corso, siamo riusciti a trasformare il voto di protesta in un voto di adesione» . In Francia, i 101 dipartimenti (analoghi alle province italiane) si suddividono in arrondissement dipartimentali, a loro volta suddivisi in cantoni, che eleggono i rappresentanti al consiglio generale del dipartimento. Le cantonali sono elezioni locali tradizionalmente poco appassionanti, ma stavolta giudicate un test importante per valutare le intenzioni di voto dei francesi, alla luce delle pessime indicazioni raccolte dal presidente Sarkozy nel corso di ormai molti mesi. Urne e sondaggi danno lo stesso responso: l’Ump e Sarkozy sprofondano in una crisi sempre più profonda. La possibilità che la destra di governo cambi cavallo per puntare sul premier François Fillon al posto di Sarkozy entra a far parte del dibattito politico, anche se il portavoce del governo François Baroin non ha dubbi: «Sarebbe pura follia» . Secondo i primi dati non definitivi, la sinistra guidata da Martine Aubry ha raccolto ieri il 36%dei voti, quasi il doppio di quelli dell’Ump (poco più del 18%), mentre il Fronte nazionale presente in circa un quarto dei cantoni ha ottenuto l’ 11%. «I francesi hanno aperto la strada al cambiamento, sapremo essere all’altezza» , ha commentato Martine Aubry. Le difficoltà anche interne dell’Ump sono apparse subito evidenti dopo l’affermazione del Fn al primo turno. In caso di scontro al ballottaggio tra il candidato socialista e quello frontista, «non votate né i socialisti né il Fn» , aveva detto Sarkozy. Il premier Fillon, invece, almeno in un primo momento ha chiesto ai suoi elettori di scegliere il Ps per bloccare l’avanzata della destra estrema. E la divisione tra Sarkozy e Fillon potrebbe approfondirsi, dopo le indicazioni di ieri. Tra un anno, secondo i sondaggi, passeranno il primo turno Marine Le Pen, e chiunque si candidi nei socialisti tra Dominique Strauss-Kahn, Martine Aubry e François Hollande. Per battere la gauche, Sarkozy avrebbe un’unica speranza: che a rappresentarla fosse Ségolène Royal.

l’Unità 28.3.11
Intervista a Hafiz Al Ghogha
«Libereremo Tripoli. Nessun ruolo per il raìs nel futuro del Paese»
Per il vicepresidente del governo provvisorio di Bengasi il Colonnello dovrebbe essere giudicato per i suoi crimini ma anche l’esilio è accettabile
di Umberto De Giovannangeli


Non esiste nulla di simile, non crediamo al doppio gioco di Gheddafi che finora ci ha mandato solo armi e distruzione. Lo abbiamo già avvertito che non accetteremo nessun negoziato con lui. Non credo che questa gente arrivi con un ramoscello d’ulivo, ma sicuramente con armi e bombe perché conosciamo bene Gheddafi e le sue strategie. Non li lasceremo entrare a Bengasi». Parole chiare, tanto più significative perché a pronunciarle è una delle figure più rappresentative del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), il governo degli insorti libici: Hafiz Al Ghogha, portavoce e Vicepresidente del Cnt. «Avevamo chiesto alla Comunità internazionale di agire per limitare la forza militare di Gheddafi, soprattutto aerea. L’intervento sta dando i suoi frutti. L’esercito rivoluzionario – dice a l’Unità Al Ghogha – ha lanciato con successo la controffensiva. La rivoluzione non si fermerà fino a quando non libereremo Tripoli». A chi afferma che l’intervento internazionale sia stato affrettato, il Vicepresidente del Cnt ribatte: «Semmai è stato troppo ritardato. Se non ci fossero stati i raid aerei le milizie di Gheddafi, con la loro schiacciante superiorità di armamenti, avrebbero trasformato Bengasi in un mattatoio. La riprova è nelle maschere antigas trovate nell’equipaggiamento dei miliziani al soldo del dittatore. È la dimostrazione che Gheddafi era pronto a usare armi chimiche». Sulla ventilata mediazione italiana, Al Ghogha è molto chiaro: «Non ne sappiamo nulla. Per noi non esiste alcuna mediazione italiana. Per noi Gheddafi è un criminale di guerra che va giudicato da un tribunale internazionale». La cronaca di guerra s'intreccia indissolubilmente con quella politico-diplomatica. Partiamo dal campo...
«La controffensiva è iniziata sulla direttrice ovest. I raid della coalizione hanno indebolito la potenza militare del regime, soprattutto aerea. Ed era ciò che chiedevamo. Un riequilibrio delle forze. L'esercito rivoluzionario ha riconquistato Ajdabya, Ras Lanuf, Ben Jawad, Brega. Molti miliziani pro-Gheddafi stanno trattando la resa e sappiamo di importanti defezioni anche nella nomenclatura del regime...». Siamo alla svolta militare?
«Non è ancora tempo di parlare di vittoria. Lo potremo fare solo una volta liberata Tripoli. È solo questione di tempo».
In campo c'è anche la diplomazia . Domani a Londra si terrà un importante vertice in cui verranno presentate diverse proposte per una soluzione politica e diplomatica. Si parla di una mediazione italiana...
«A noi non risulta in essere alcuna mediazione. Per quanto ci riguarda non esiste alcuna mediazione italiana....».
Ma il Cnt è pregiudizialmente contrario all'esilio del Raìs? «Per i crimini di cui si è macchiato e continua a macchiarsi, Gheddafi dovrebbe essere giudicato da un tribunale internazionale. Ma il suo destino personale è cosa secondaria. Gheddafi e i suoi figli sono il passato della Libia. Il futuro del Paese sarà senza di loro. Gheddafi non deve avere alcun ruolo, diretto o indiretto, nella transizione. Voglio essere ancora più chiaro: non c'interessa la vendetta personale. Se c'è chi riesce a convincerlo a lasciare la Libia, da noi non incontrerebbe ostacoli. Ma una cosa deve essere chiara...». Quale? «Nessuno potrà garantirgli le ricchezze che ha accumulato ai danni del popolo libico. Quelle ricchezze sono state depredate al popolo e al popolo vanno restituite».
C'è chi dice che il Cnt è «pilotato» dalla Francia... «È falso. Noi diamo atto al presidente Sarkozy di essere stato tra i più determinati nello spingere per un' azione militare a protezione della popolazione civile bersagliata dai caccia e dai cannoni di Gheddafi. Ma nessuno ci “pilota”. Saranno i libici a liberare il loro Paese e a decidere sul loro futuro. Amici di tutti, dipendenti da nessuno».
Il Cnt ha più volte rassicurato sul rispetto dei contratti sottoscritti in passato con aziende occidentali. L’Italia può stare tranquilla?
«Quello che abbiamo detto e ripetuto è che la “nuova Libia” del dopo-Gheddafi sarà uno Stato libero, democratico, indipendente che cercherà la cooperazione e il dialogo con l’Occidente. Ma è altrettanto chiaro che i rapporti economici non possono prescindere dagli eventi di queste settimane, di questi giorni, di queste ore. E saranno calibrati al sostegno che i vari Paesi europei hanno offerto alla rivolta popolare».

La Stampa 28.3.11
A Damasco il gorgo del mondo
di Lucia Annunziata


La Siria sta rapidamente raggiungendo un punto di non ritorno. Di fronte al presidente Assad si apre un bivio molto semplice: di qua le riforme, di là la repressione. Quale sarà la direzione che Damasco prenderà si saprà in non tanto tempo.
Ieri le cose lasciavano sperare: sono state annunciate la cancellazione dopo 48 anni dello stato d’emergenza imposto nel 1963 e le dimissioni dell’attuale gabinetto di governo. Ma alla fin fine, come ci hanno insegnato fin qui le altre rivolte arabe, il livello di riforme necessarie a calmare le acque o è molto alto o è inesistente. E la leadership dell’erede del Leone di Damasco, come lo definisce nella sua migliore biografia Patrick Seal, non ha mai dato fin qui particolari segni di forti capacità né strategiche né politiche - nemmeno nel senso di forza repressiva che il padre era capace di scatenare.
Per cui, se tanto dà tanto, al di là anche delle intenzioni della presidenza, molto presto la Siria potrebbe diventare terreno di intervento di altre potenze regionali.
Non intendiamo qui né un’occupazione militare né tanto meno un intervento diretto degli occidentali.
I giochi dentro questa nazione sono però troppi e troppo aperti perché la rivolta contro gli Assad proceda troppo a lungo e vada fuori controllo. La ribellione siriana sarà pure, infatti, parte dell’onda delle rivoluzioni popolari del Nord Africa, ma sposta l’asse della storia dal Mediterraneo alla regione a più alta tensione del mondo il triangolo petrolifero tra Iran, Iraq e Arabia Saudita. Il paradosso è dunque che proprio un Paese senza petrolio, qual è la Siria, rischia di aprire una falla nel faticoso equilibrio che negli ultimi dieci anni si è costruito intorno alla cassaforte energetica mondiale.
L’importanza di Damasco è scritta sulla carta geografica, dove si colloca, oggi come nei secoli scorsi, al centro di un vasto incrocio. Sul vicino Libano esercita da anni un protettorato senza scrupoli, che negli anni ha fatto sentire il suo pugno di ferro nei momenti chiave dal bombardamento contro il generale cristiano maronita Michel Aoun a Beirut Est, con cannoni di lunga gittata, nel 1989, all’uccisione nel 2005 dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri che aveva guidato la rinascita del Libano dopo la Guerra civile. Oggi il ruolo di Damasco è quello di costituire un santuario politico per gli Hezbollah che senza governare pienamente controllano la vita politica in Libano, e per le forze palestinesi radicali di Hamas nella Striscia di Gaza: è tramite la Siria, infatti, che arriva a questi movimenti l’appoggio logistico (armi) e politico dell’Iran.
A proposito di religione, va notato che la Siria è governata dagli Assad che sono una minoranza sciita alawita in un Paese a maggioranza sunnita. L’esatto contrario di quel che è stato l’Iraq di Saddam Hussein, per intenderci. Il che la dice lunga nel rapporto con l’Iraq attuale.
La tensione inter-islamica è all’origine di uno degli episodi della formazione della Siria moderna la cui memoria oggi rischia di avere molto peso negli eventi di questi giorni: nel 1982, nella città di Hama, Assad padre sterminò ventimila persone per dare una lezione ai Fratelli Musulmani. Oggi però l’esercito popolare è a maggioranza sunnita, e questo mette a rischio la coesione dell’intervento del governo centrale.
Delle frontiere che la Siria ha con Israele e con la Turchia, e del ruolo che ha nella politica di questi due Paesi, si sa molto. Infine va considerato il legame, anche sociale, fra la Giordania e la Siria, entrambi Paesi con una vasta popolazione di palestinesi, retaggio del conflitto arabo-israeliano. E in Giordania l’opposizione islamista agita le piazze e ha chiesto le dimissioni del primo ministro Maaruf Bakhit.
Quante possibilità ci sono che questo gorgo non diventi un ingovernabile caos che si scarica su tutti i Paesi confinanti?
Per Washington infatti la Siria pone un serio dilemma. L’indebolimento degli Assad sarebbe positivo per gli Usa perché indebolirebbe l’influenza regionale iraniana. Ma una crisi non risolta bene e presto rischierebbe di scalfire il precario equilibrio iracheno. Per ora si sa che a Damasco il nuovo ambasciatore Usa, Robert Ford, sta fortemente consigliando al Presidente la via delle riforme.
Ma lo scenario è pronto, come si diceva, per una sorta di apertura a un intervento di potenze esterne. È possibile che più o meno apertamente si muova l’Iran: un po’ di settimane fa, come si ricorderà, subito dopo la caduta di Mubarak, il Canale di Suez fu attraversato da due navi da guerra iraniane. La loro apparizione nel Mediterraneo suscitò allarme. Quelle navi erano dirette in Siria, e ancora lì stanno. Si muove tuttavia anche la Turchia, altra potenza che in questa crisi libica ha assunto peraltro un maggior ruolo nei confronti degli Stati Uniti. Fra Istanbul e Damasco corrono relazioni, anche recenti, «fraterne», con una vigile presenza dell’abile Erdogan sul fragile giovane Assad.
Un altro dilemma dunque si è aperto, un altro gioco nel Grande Gioco. Un altro possibile deragliamento del mondo arabo, in una maniera o nell’altra, è dietro l’angolo.

Corriere della Sera 28.3.11
Intervista a Moshe Maoz
«L’Occidente sta a guardare: adesso toccare la Siria significa sfidare Teheran»
di Francesco Battistini


Nonostante i 76 anni, il professore guarda Al Jazeera fino a tardi: «Immagini straordinarie...» . Non si perde nulla dallo Stato caserma: «Vedere la gente che strappa i ritratti degli Assad, impensabile...» . Tira fuori un’intervista di poco tempo fa, al Wall Street Journal, Bashar che cercava di svettare: «Diceva che il suo regime era più stabile di Mubarak..» . Pochi come il professor Moshe Maoz, in Israele, sanno che cosa dicono quando parlano di Siria: cattedra di Storia del Medio Oriente alla Hebrew University, insegnamento a Oxford, alla Columbia e a Harvard, già consigliere di Ben-Gurion, di Weizman, di Rabin e di Peres nei rapporti sempre problematici con le volpi di Damasco, autore nel 1995 del libro «Siria e Israele: dalla guerra alla pace» , Maoz ha consegnato qualche settimana fa in tipografia un saggio sugli «Sviluppi politici e socioeconomici della Siria moderna» . Eppure, confessa, ci capisce poco: «È difficile prevedere come va a finire. Guardi l’Egitto: sono passati quasi tre mesi e non è spuntato un leader...» . La fine della legge marziale è una svolta o un bluff? «Dal 1963, da quando il partito Baath è al potere, non c’è mai stato un governo siriano senza stato d’emergenza. Le incarcerazioni senza processo, il bavaglio ai media, la cancellazione dei diritti sono parte della Siria moderna. Bashar non può farne a meno. Bisogna capire quali riforme seguiranno: se saranno elezioni vere, il Baath è già morto» . Perché l’ideologia baathista è incompatibile con la democrazia? «Esatto. In Siria, il Baath coincide con gli Assad come in Iraq coincideva con Saddam. Governo e partito sono la stessa cosa. Impossibile che sia il governo a voltare pagina. Il Baath può sopravvivere solo in una situazione di caos, ma come uno degli elementi, altrimenti è destinato a sparire come in tutto il Medio Oriente» . Colpisce il silenzio dell’Occidente: un ministro italiano, Tremonti, lo attribuisce al fatto che non ci sia petrolio... «Per la verità, un po’ di petrolio c’è anche in Siria. Ma l’interesse dell’Occidente qui è d’altro tipo: questo è uno Stato-chiave nell’"asse del male". Americani ed europei avrebbero interesse ad appoggiare un cambiamento, perché Damasco è una via di controllo sul Libano e sull’Iraq. Se non lo fanno, è perché toccare la Siria significa sfiorare l’Iran. E ogni Paese dell’Occidente, quando si parla d’Iran, ha interessi propri e ben differenziati» . Israele per chi tifa? «Da quando sono cominciate queste rivoluzioni d’inverno, Israele è preoccupato. Assad cerca da anni la pace con Israele, è Israele che non l’ha mai voluta. E allora la nascita d’uno Stato democratico, sarebbe un vantaggio. In realtà, nessuno ci crede: la democrazia non si fa solo con le elezioni, ci vogliono le tradizioni. Qualche seme democratico non darà grandi frutti. Meglio lo status quo. Perché la vera preoccupazione israeliana è l’Iran. Con tutte queste rivolte, nessuno si occupa del programma nucleare iraniano» . Sta dicendo che l’Iran ha interesse a questa rivoluzione? «Fa comodo, finché è in Tunisia. Ma in Siria, ayatollah e Hezbollah continuano ad appoggiare Assad. Non hanno interesse al fatto che cada. Hanno paura di questo cambiamento anche più dell’Occidente» . Ma lei crede alla casuale concatenazione di queste rivolte? «Sono rivoluzioni che accomuniamo, ma molto diverse. Nascono tutte da fattori come la situazione economica e la corruzione dei governi. Di Paese in Paese, però, cambiano. Altrimenti, non si spiegherebbe perché al Cairo c’è adesso una dirigenza militare, sostenuta dal popolo, assai vicina alla dinastia alauita, minoranza contestata dal popolo, che comanda a Damasco. Bisogna guardare il cambiamento con le differenze dovute. In Siria, lo scontro fra società laica e religiosa, sarà più importante che altrove. E, più che altrove, sarà difficile capire con chi stare» .

Corriere della Sera 24.3.11
Quello sguardo sul Maghreb che divide Berlino e Parigi
di Massimo Nava


Dunque, molti italiani non hanno capito che la dittatura è a Parigi e non a Tripoli. Non si spiegherebbe altrimenti che la maggioranza dei francesi, oltre a opinionisti, partiti e giornali di destra e sinistra, nel pieno di una campagna presidenziale durissima, approvino le scelte dell’Eliseo sulla Libia. Così come molti altri non hanno capito che la democrazia e la razionale saggezza abitano nella Germania della signora Merkel, che si tiene fuori dalla guerra. Molti sospettano che i francesi siano in balia di un presidente guerrafondaio che vuole mettere le mani sul petrolio libico e si pulisce la coscienza lasciandosi consigliare dal «dandy umanitario» Bernard-Henri Lévy. Altri pensano che i tedeschi, egoisti e schiacciati dal senso di colpa della storia, si contentino di dettare regole dell’euro e vendere Mercedes. Ma ci sono aspetti meno caricaturali delle posizioni divergenti di Parigi e Berlino. Per quanto riguarda la Francia, sarebbe ingenuo credere che dietro le ragioni umanitarie non ci siano anche interessi economici. Ma questo non sminuisce il proposito di fermare i massacri e smuovere la comunità internazionale. Che cosa avremmo scritto dell’Occidente e della nostra morale dopo una nuova Srebrenica? E su quale futuro avremmo potuto costruire strategie nazionali ed europee se la primavera araba fosse stata sepolta a Bengasi? La Francia ha deciso di scommettere sulla sponda del Mediterraneo e sul futuro di un continente in cui si sono aperte molte partite: rapido ingresso nella globalizzazione, urbanesimo e crescita culturale delle nuove generazioni, concorrenza della Cina sui mercati delle materie prime, affermarsi di classi borghesi che vogliono essere padrone del proprio destino e non più in balia di dittature corrotte e sanguinarie (peraltro così sovente coccolate proprio a Parigi). Come ha avvertito Kofi Annan, nei prossimi 18 mesi si terranno 19 elezioni presidenziali in Africa. Dal Sudan alla Costa d’Avorio, dalla Nigeria al Ciad, sono in atto processi complicati: alcuni condizionati dalla rete di interessi, investimenti e ricatti di Gheddafi, molti altri in bilico fra passato e futuro. Possiamo sperare che anche in Africa le nuove generazioni raccolgano, con la velocità incomprimibile di Facebook, le stesse sfide del mondo arabo? Può essere sottovalutato il ruolo di Paesi arabi e africani nella partita libica? E magari nel conflitto fra palestinesi e israeliani? Sarebbe utile ricordare che anche dal crollo del Muro nacquero situazioni incerte, diverse, non tutte positive: la Polonia e l’Ungheria democratiche, il bagno di sangue in Romania, i Baltici europei, la Bielorussia ancora sotto dittatura, la pacifica separazione della Cecoslovacchia, i massacri nella ex Jugoslavia, la Russia oligarchica. Gli sbocchi potrebbero essere parimenti incerti e diversi nel mondo arabo e africano, ma all’interno di un processo che appare irreversibile. Forse questo intendeva lo studioso Francis Fukuyama quando parlò di fine della storia dopo la caduta del Muro. La primavera araba potrebbe ampliare il processo di globalizzazione di diritti e democrazia apertosi con il crollo del comunismo e limitato in gran parte del mondo alla globalizzazione dei mercati. Queste prospettive, per quanto visionarie, attraversano da tempo cancellerie e grande politica. Questo era il senso del famoso discorso di Obama al Cairo, a favore di «governi che riflettano la volontà dei cittadini» . Sono prospettive riducibili a rissa politica? Ha senso ritenere che l’uomo africano o l’uomo arabo siano geneticamente diversi dall’uomo comunista? O che il fanatismo religioso sia più impenetrabile e resistente di quello ideologico? Rispetto al crollo del mondo comunista, la Germania ebbe una velocità di reazione analoga a quella francese rispetto al Mediterraneo. C’erano motivazioni ideali e interessi nazionali, che avrebbero aperto al Paese le strade della riunificazione e dei nuovi mercati dell’Est. La Germania fece la corsa di testa, sfidò chi diceva di preferire che le Germanie restassero due, seppe rischiare, si caricò sulle spalle costi enormi, accettò ondate di profughi ed emigranti, ebbe un ruolo non secondario, a volte ambiguo e cinico, nella guerra dei Balcani. È dunque un fatto e non una caricatura che Berlino guardi al Maghreb con occhi diversi dalla Francia. Se le posizioni francese e tedesca meritano considerazione, diventa più comprensibile, al fuori delle polemiche, anche lo strabismo di un’Italia che vorrebbe assumere nel Mediterraneo un ruolo conseguente alla propria storia e geografia e, d’altra parte, sente storici legami con la Mitteleuropa e considera il sud del mondo più un pericolo che un’opportunità. Anche per questo scegliere è stato più difficile. Mentre sarebbe un errore un ripensamento sull’impegno militare, è una mossa azzeccata, anche nell’interesse dell’Europa, il tenere la Germania dentro la partita. Nei teatri recenti di guerra, giusta o sbagliata, l’Italia ha dimostrato di non essere seconda a nessuno. Non abbiamo mai avuto voglia di sparare per primi, ma siamo abilissimi quando si tratta di dialogare, pacificare, ricostruire. Con il sorriso che non hanno i francesi e le intuizioni che non hanno i tedeschi.

Repubblica 28.3.11
La scommessa del mondo arabo in cerca dei piccoli Mandela per creare le nuove democrazie
di Thomas L. Friedman


L´America deve prepararsi a fare da arbitro in quei Paesi, come Libia e Yemen, dove mancano del tutto le basi per la transizione
La gente lotta per governi più rappresentativi: è ciò di cui ha bisogno per superare il divario che la affligge in termini di libertà e diritti

Oggi che la Libia, lo Yemen e la Siria sono tutti coinvolti nella ribellione, non è esagerato sostenere che, per 350 milioni di arabi, il coperchio autoritario che per secoli ha soffocato la libertà nel mondo arabo potrebbe saltare tutto in una volta. Personalmente, ritengo che, con il tempo, ciò è esattamente quello che accadrà. Preparatevi a sloggiare, autocrati arabi: e anche tu, Ahmadinejad.
Da persona che ha sempre creduto nel potenziale democratico di questa parte del mondo, sono allo stesso tempo fiducioso e preoccupato sulle prospettive. Fiducioso perché i popoli arabi lottano per un governo più rappresentativo e onesto, che è ciò di cui hanno bisogno per superare l´enorme divario in termini di istruzione, libertà e autonomia delle donne, un divario che li ha tenuti in posizione arretrata. Ma compiere un tale passo significa attraversare un terreno minato fatto di problemi tribali, settari e di governance.
Il modo migliore per comprendere le potenzialità e le trappole che questa transizione presenta, è quello di pensare all´Iraq. So che in America la guerra in Iraq e lo sforzo per costruire la democrazia che ne è seguito ha costituito un elemento di divisione tale che nessuno desidera parlarne. Oggi però ne parleremo, perché quell´esperienza ci ha dato una lezione importantissima sul modo di gestire il passaggio verso il governo democratico di uno Stato arabo multi-settario, una volta che il coperchio è saltato.
La democrazia richiede tre cose: i cittadini, vale a dire persone che si considerano parte di una comunità nazionale indifferenziata, nella quale chiunque può essere governante o governato.
Richiede autodeterminazione, cioè l´andare a votare. E richiede ciò che Michael Mandelbaum definisce "libertà" (liberty). «Mentre votare determina chi governa - spiega Mandelbaum - la libertà determina ciò che i governi possono o non possono fare. Il termine libertà abbraccia tutte le regole e i limiti che governano la politica, la giustizia, l´economia e la religione».
E costruire la libertà è davvero difficile. Sarà molto arduo in quei Paesi mediorientali caratterizzati da grandi maggioranze omogenee, come l´Egitto, la Tunisia e l´Iran, dove già esiste un forte senso della cittadinanza e dove, grosso modo, l´unità nazionale è data per scontata. Lo sarà doppiamente in tutti gli altri Paesi, divisi da identità tribali, etniche e settarie e dove la minaccia della guerra civile è sempre presente.
Nessun Paese, sotto questo aspetto, era più diviso dell´Iraq. Che cosa abbiamo imparato da quell´esperienza? Per prima cosa abbiamo visto che, una volta rimosso il coperchio autoritario, le tensioni tra iracheni curdi, sciiti e sunniti sono esplose e ogni fazione ha messo alla prova la forza dell´altra in una guerra civile strisciante. Ma abbiamo appreso anche che, oltre a quella guerra, molti iracheni hanno espresso il desiderio, altrettanto forte, di vivere insieme da cittadini. Nonostante tutti gli sforzi feroci di Al Qaeda per scatenare in Iraq una guerra civile su vasta scala, ciò non è accaduto. Nelle ultime elezioni irachene, il candidato che ha conquistato più seggi, lo sciita Ayad Allawi, ha presentato un programma che coinvolgeva anche i sunniti. La lezione da trarne è che sebbene le identità settarie siano profondamente radicate e possano esplodere da un momento all´altro, nel Medio Oriente di oggi, più urbanizzato, più connesso e in cui si usano di più i social network, sono presenti anche forti controtendenze.
«Nel mondo arabo esiste un problema di cittadinanza - sostiene Michael Young, autore libanese di The Ghosts of Martyr´s Square - ma ciò accade in parte perché questi regimi non hanno mai permesso alla loro gente di essere cittadini. Malgrado questo, possiamo vedere in che modo i manifestanti in Siria abbiano cercato di mantenere un comportamento non violento e di parlare di libertà a nome dell´intera nazione».
Lezione numero due: ciò che è stato cruciale nell´impedire, in Iraq, che la guerra civile strisciante esplodesse, ciò che è stato cruciale nella stesura della loro Costituzione circa il modo di vivere insieme e ciò che è stato cruciale nell´aiutare gli iracheni a gestire elezioni eque è stato il fatto di avere un credibile arbitro neutrale durante tutta la fase della transizione: gli Stati Uniti.
L´America ha svolto il suo ruolo ad un prezzo sbalorditivo e non sempre in modo perfetto, ma lo ha svolto. In Egitto, è l´esercito egiziano a interpretare il ruolo di arbitro. Qualcuno dovrà farlo in tutti questi Paesi in rivolta in modo da poter gettare con successo le basi della democrazia e della libertà. Chi farà da arbitro in Libia, in Siria, nello Yemen?
L´ultima cosa che l´Iraq ci ha insegnato è che, sebbene gli arbitri esterni possono essere necessari, non sono tuttavia sufficienti. Alla fine dell´anno lasceremo l´Iraq. Soltanto gli iracheni potranno sostenere la loro democrazia una volta che saremo partiti. La stessa cosa vale per tutti gli altri popoli arabi che sperano di avanzare nella transizione verso l´autogoverno. Quei Paesi devono trovare i propri arbitri, i loro Nelson Mandela. Vale a dire, sciiti, sunniti e capi tribali che si alzino e dicano gli uni agli altri quello che il personaggio di Mandela dice dei sudafricani bianchi nel film Invictus: «Dobbiamo sorprenderli con la moderazione e con la generosità».
Questo è ciò che i nuovi leader dei ribelli arabi dovranno fare: sorprendersi e sorprendere gli altri con una forte volontà di unità, reciproco rispetto e democrazia. Più Mandela arabi emergeranno, più essi saranno in grado di gestire le proprie transizioni, senza generali dell´esercito o elementi esterni. Emergeranno? Stiamo a vedere e speriamo. Non c´è altra scelta. I coperchi stanno saltando.
(Copyright New York Times - La Repubblica Traduzione di Antonella Cesarini)

Corriere della Sera 28.3.11
Frattocchie, studi seri e flirt. Ma lo yoga no
Il Pd e la riedizione della scuola politica pci. Macaluso: imparagonabile. Violante: mai le divise
di Angela Frenda

qui

Repubblica 28.3.11
Una legge contro i giudici
di Giancarlo De Cataldo


Proviamo a esaminare i principali argomenti portati a sostegno dell´ormai famoso emendamento-Pini. Numero uno: i giudici che sbagliano devono pagare. Da come la cosa viene presentata, sembra che non esista alcuna forma di responsabilità. Falso.
La responsabilità esiste, e prevede che, in caso di dolo o colpa grave, sia lo Stato a indennizzare il cittadino. Obiezione, e argomento numero due: appunto, il giudice non paga mai di tasca propria. Falso. Lo Stato ha diritto di rivalsa sul giudice. Obiezione, e argomento numero tre: allora godete di un privilegio castale che vi rende diversi da tutti gli altri cittadini, medici, architetti, ingegneri, i quali, si sa, pagano di tasca propria.
Falso. Ci sono almeno due categorie di cittadini che non pagano "di tasca propria". Il personale direttivo, docente, educativo e non docente delle scuole materne, elementari, secondarie e artistiche risponde dei danni provocati dagli alunni soltanto in caso di dolo o colpa grave nella vigilanza degli stessi. La causa si propone contro lo Stato che, se ha torto, paga. E poi, sempre che esistano dolo o colpa grave, si può rivalere sul singolo, dirigente, insegnante o bidello che sia. Motivo: evitare che la scuola, della quale si riconosce la preziosa, essenziale funzione sociale, diventi una palestra di ritorsioni.
Quanto alla seconda categoria di cittadini che "non pagano di tasca propria", ne fanno parte gli amministratori dei partiti politici, i quali, in virtù di un articolo della legge sul finanziamento, "rispondono delle obbligazioni assunte in nome e per conto del partito solamente nei casi di dolo e colpa grave". A pagare per il partito insolvente, in altri termini, è lo Stato. Che adempie alle obbligazioni dei partiti attraverso un fondo di garanzia costituito presso il Ministero dell´Economia e delle Finanze, per la precisione presso il Dipartimento del Tesoro. Motivo: il riconoscimento del ruolo centrale dei partiti nella vita politica. Scuola e partiti sono dunque essenziali al funzionamento della società, e godono di un regime particolare. I giudici no.
Quarto argomento: dolo e colpa grave non bastano. Deve essere sanzionato l´errore giudiziario in sé. E infatti l´emendamento Pini introduce la categoria della "violazione manifesta del diritto" come fonte della pretesa di risarcimento. Osservazione di buon senso: il concetto di "manifesta violazione del diritto" è un motivo di ricorso in Cassazione. L´ultimo grado di giudizio esiste proprio per questo, per porre rimedio, all´interno del sistema, ai possibili deficit interpretativi delle norme. Per dirla in termini d´altri tempi, la famosa funzione "nomofilattica" della Cassazione. Qui l´emendamento Pini smaschera il suo autentico sostrato culturale. Lo fa nella parte in cui prevede l´abrogazione di un´altra norma, quella che esenta il giudice da responsabilità per "l´attività di interpretazione di norme del diritto e valutazione del fatto e delle prove".
Il diritto secondo l´on. Pini è mera applicazione della legge. Tesi antica e quanto mai controversa, cara, per intenderci, a Robespierre: in era cibernetica la si potrebbe declinare affidando il giudizio alle macchine e mandando l´uomo a casa. Ci sarà pure un motivo se ancora non ci siamo arrivati. Quinto argomento: l´ampliamento della responsabilità ci viene imposto dall´Europa. Falso, e decisamente tendenzioso. Gli organismi consultivi del Consiglio d´Europa, a partire dalla Carta di Strasburgo del 1998, raccomandano a tutti gli Stati membri di evitare la citazione diretta in giudizio del magistrato, e sconsigliano l´adozione di formule vaghe e indeterminate come "negligenza grossolana" e via dicendo. La sentenza della Corte di Giustizia Europea che si invoca oggi tratta della responsabilità per violazione del diritto comunitario non del singolo, ma dello Stato. Circostanza che fu autorevolmente ribadita dal governo attualmente in carica quando, il 20 novembre 2008, rispose a un´interpellanza parlamentare degli onorevoli Mecacci, Bernardini e altri, testualmente affermando che "la normativa posta dalla legge 117/88 (sulla responsabilità dei magistrati) come rilevato anche dalla dottrina, non è in contrasto con la decisione della Corte di giustizia richiamata nell´interrogazione". Tutti possono cambiare idea, ovviamente. Nel 2000 cambiarono il codice penale perché i giudici davano pene troppo basse agli incensurati, e bisognava dare un segnale repressivo. Oggi agli incensurati offrono il processo breve. Tutti possono cambiare idea. Ma è bene saperlo.
Sesto, e ultimo argomento: il popolo vuole che il giudice paghi di tasca propria. Vero. Contro questo argomento c´è poco da opporre. Trent´anni di bombardamento mediatico hanno scavato a fondo nelle coscienze degli italiani. Da che mondo è mondo ogni processo è una scelta fra due parti. Alla fine c´è sempre chi vince e chi perde. Da che mondo è mondo lo sconfitto se la prende con il giudice che gli ha dato torto. Da domani avrà al suo fianco, in questa nobile battaglia, la legge.

Corriere della Sera 28.3.11
La nuova religione sarà come il «Lego»
di Jacques Attali


La diffusione di democrazia e mercato genera precarietà, cui la democrazia, da sola, non basta a fornire senso. Essa infatti organizza la libertà individuale ma non costituisce, in sé, un progetto politico che possa rendere meno esposti alla precarietà. Ed ecco che rinasce il bisogno di trovare un senso alla durata, sia grazie alla nazione, sia grazie alla religione. Il giogo integralista non resisterà, ne sono convinto, al desiderio di democrazia e di consumo dei giovani di tutto il mondo. Al contrario, per reazione alla società dei consumi, la domanda di religioso diventerà più forte. Il XXI secolo sarà, all’inizio, il secolo del confronto e della concorrenza tra le religioni e all’interno del Cristianesimo e dell’Islam. In particolare, se il Cristianesimo e l’Islam rifiuteranno di prendere posizione sul preservativo, è anche perché vorranno mantenere un vantaggio demografico. Questa guerra di influenza, così tragica per l’umanità, finirà a mio avviso per risolversi con la moltiplicazione delle Chiese. Credo che noi non ci stiamo dirigendo verso un mondo religioso o laico, ma verso un individualismo che condurrà progressivamente a ciò che chiamerei la «religione Lego» , o la «religione dell’ego» , in cui ognuno prenderà qualcosa dal Cristianesimo, dall’Islam, dal Buddhismo, e questo gli permetterà di costruirsi un suo credo. — oggi l’utopia dell’immortalità è una delle più grandi della nostra società. Noi trasmettiamo ai nostri figli un senso di eternità. Cristallizziamo il tempo in oggetti, e questo ci infonde un sentimento di immortalità: non possiamo morire, crediamo, prima di avere utilizzato questi oggetti. E crediamo che la scienza ci darà l’immortalità tramite l’allungamento della durata della vita e la clonazione. Ma queste ricerche non impediranno agli uomini di avere bisogno di un patto con la morte, cioè di immaginare un aldilà. Lo si vede in particolare nella società americana, in cui la democrazia non riesce a realizzare un sogno laico. Il religioso potrebbe anche mettere sul potere politico una cappa di piombo tale da ostacolarne il funzionamento democratico. Negli Stati Uniti i predicatori giocano un ruolo sempre più rilevante nella vita politica. Lo stesso George W. Bush fu eletto grazie ai voti degli evangelici, che non smettono di crescere in tutto il mondo — oggi sono più di 160 milioni. Queste Chiese, nate dal Protestantesimo e dalla Chiesa pentecostale, utilizzano tutti i mezzi di comunicazione per fare proselitismo, promettendo la ricchezza e il Paradiso. Per il momento sono solo delle macchine per la conversione, non per la conquista del potere politico. Se le nostre società non sapranno dare un senso pieno alla morte, e se gli individui non sapranno costruire un rapporto individuale con la vita, allora certe religioni imporranno un rapporto collettivo con la morte. Da questo punto di vista l’Islam è quella che può farlo meglio. Essendo la più astratta tra le religioni è anche la più universale: se esiste una religione mondialista, quella è certamente l’Islam. Attualmente assistiamo dunque a una battaglia tra l’uniformazione delle religioni, il loro tentativo di presa globale e la loro diversificazione, la loro frammentazione e balcanizzazione. Una frammentazione che oggi è parziale ma domani sarà ancora più drastica, e in cui ciascuno porterà la propria definizione di religioso. La distinzione tra sette e religioni sarà sempre più incerta. Così potremmo tendere verso una religione individualista in cui ognuno userebbe il proprio rapporto con il mondo, la natura e quello che egli chiama — o non chiama— Dio come fattore esplicativo del mondo. È la religione Lego, dal nome del gioco di costruzioni. Il XXI secolo vedrà all’inizio sorgere ogni sorta di nuove religioni. Alcune permetteranno di credere in un’immortalità personale. Altre forniranno agli uomini una morale collettiva. Altre ancora permetteranno di pensare in modo diverso il rapporto con la natura. Tutte dureranno molto meno delle religioni attuali. Poi ognuno agirà in modo personale. Nella musica, la creazione odierna non si fonda più sulla scrittura di una partitura in note, ma su una mescolanza di opere scritte da diversi compositori precedenti, con tecniche diverse. Allo stesso modo, in materia di fede, questa vittoria dell’ «e» sull’ «oppure» farà del meticciato delle religioni l’inizio di un mondo infinitamente più vario. Un mondo in cui ciascuno si fabbricherà la propria religione, come nel Lego. Una religione personale. Una religione dell’ego.

Corriere della Sera 28.3.11
Regole per un dialogo tra le culture
La convivenza tra diversi esige certezza del diritto e più educazione
di Fred Dallmayr


Il moderno Stato-nazione mirava all’unità e all’omogeneità nazionale. Le versioni totalitarie dello Stato insistevano sulla totale uniformità. Fu contro questi modelli che, nella seconda parte del XX secolo, emerse una nuova idea politica: quella del «multiculturalismo» , che poneva l’accento sul fatto che la maggior parte degli Stati sono composti da una pluralità di sub-nazionalità e culture. Quest’idea, rispetto alle precedenti, segnava un progresso in termini di libertà democratica e di uguaglianza. Recentemente è stata però attaccata da chi sostiene che da un lato mina l’identità nazionale e dall’altro produce un miscuglio di identità scollegate tra loro e a volte inconciliabili. Sembra di nuovo emergere l’aspirazione a una identità nazionale uniforme, che è però in contrasto con l’uguaglianza dei diritti umani di tutti i cittadini. Sul piano della democrazia bisogna dire che il multiculturalismo non era una cattiva idea, ma anche che non è stato ben attuato, perché si è trascurata l’esigenza di stabilire regole adeguate e soprattutto la necessità di far leva sull’istruzione. Non ci si può aspettare che persone di culture e talvolta di lingue e religioni diverse possano convivere pacificamente in assenza di regole e di strumenti educativi. Si è dato per scontato che persone con differenti background si amino e si rispettino in modo naturale, ma è un presupposto errato. Le persone di diversa provenienza devono imparare a conoscersi e devono essere disposte a farlo. Questo tipo di apprendimento è particolarmente importante nel caso delle comunità di immigrati. Giungendo in uno Stato già esistente, queste comunità vorranno sicuramente conoscere la lingua, le tradizioni culturali e i costumi della società che le ospita. Anche la società ospitante deve però mostrarsi una buona padrona di casa e imparare a conoscere la cultura e i costumi della comunità immigrata. È uno scambio con il quale si possono accrescere fiducia e rispetto reciproci. Il cosmopolitismo trasferisce le questioni del multiculturalismo in un più ampio contesto globale. In quanto fenomeno relativamente nuovo, il cosmopolitismo deve ancora trovare forme e regole proprie, e può essere esaminato con diversi approcci. Ne voglio qui elencare sette, dei quali solo l’ultimo, il «cosmopolitismo dialogico» , dà spazio adeguato all’apprendimento, agli strumenti educativi necessari ad attuarlo. I sette tipi di cosmopolitismo sono: 1) Stato mondiale, 2) universalismo assoluto, 3) universalità morale kantiana, 4) modello del discorso razionale, 5) modello liberal-individualista, 6) cosmopolitismo agonistico, 7) cosmopolitismo dialogico (o ermeneutico). Vorrei spiegare in breve le caratteristiche e i punti di forza e di debolezza di ognuno. 1) Stato mondiale: i sostenitori di questa idea vorrebbero che il cosmopolitismo si concretizzasse in una struttura politica globale, unitaria o federale. Il vantaggio è che con uno Stato globale forte il pericolo di conflitti nazionali o etnici può ridursi. Lo svantaggio è che lo Stato globale può rivelarsi dispotico. Quale sarebbe poi il meccanismo per instaurare un tale Stato? Quali sarebbero la lingua e il sistema giuridico dominanti? 2) Universalismo assoluto: in questo caso si sostiene che, anche in assenza di un governo globale, il mondo è già uno in virtù della comune natura umana, in particolare della comune natura razionale degli esseri umani. Perciò tutte le differenze culturali, religiose e linguistiche diventano irrilevanti e obsolete. Il vantaggio qui è l’idealismo radicale, che promette di trascendere le questioni politiche più prosaiche. Il rovescio della medaglia è l’utopismo assoluto, che trascura il contesto (la «natura umana» quale lingua parla?), e il pericolo che l’universalismo venga manipolato per scopi politici molto prosaici. 3) Universalità morale kantiana: i suoi sostenitori affermano che l’universalità è un «dovere» o imperativo categorico che tutti i singoli membri della terra devono perseguire. Una caratteristica importante di questo approccio è una teoria della giustizia universale. A volte la morale kantiana è rimpiazzata o integrata da dettati religiosi o biblici. Il vantaggio è il forte richiamo morale e l’appello a un principio universale che guidi la condotta umana. Il problema è la dicotomia tra «essere» e «dover essere» e l’assenza di un percorso praticabile che porti dall’uno all’altro. 4) Modello del discorso razionale: i sostenitori di questa tesi modificano il modello kantiano, sottolineando la necessità di formulare dei principi guida attraverso un «discorso razionale» a cui tutte le persone possono partecipare. Una delle principali caratteristiche di questo modello è la sperimentazione e il riscatto delle «pretese di validità» razionali. A volte l’universalità delle pretese razionali è temperata dall’ammissione del ruolo dei contesti culturali e linguistici. I vantaggi di questo modello sono un carattere più democratico (rispetto al modello 3) e la sua opposizione al mero utilitarismo. Il lato negativo è di nuovo la distanza tra «essere» e «dover essere» e anche il carattere fortemente razionalistico del «discorso» (che sembra escludere voci meno «razionali» ). 5) Modello liberal-individualista: qui si afferma che il mondo è composto da individui che cercano ovunque di massimizzare i loro interessi individuali. Nella sua forma radicale il modello coincide con il processo di globalizzazione economica incentrato sull’iniziativa privata. A volte, l’individualismo radicale prende una strada «postmoderna» , esaltando il carattere ibrido, proteiforme e nomade di un’individualità illimitata. In una forma più sobria, l’individualismo liberale rimane legato al moderno Stato-nazione liberale. Il vantaggio di questo approccio è quello di essere facilmente comprensibile per gli individui occidentali. Lo svantaggio è che somiglia fin troppo a un elitarismo internazionale neoliberale. 6) Cosmopolitismo agonistico: sostiene che il cosmopolitismo deve essere visto come «cosmo politica» e che la politica è una lotta per il potere. Questa lotta può assumere diverse forme. I marxisti internazionalisti sostengono che la scena mondiale sia quella della «lotta di classe» . I nazionalisti di destra ritengono che la lotta globale avvenga per la supremazia nazionale su scala globale. A volte le posizioni agonistiche assumono una veste «postmoderna» , sostenendo che la politica è la lotta tra despoti e dissidenti. Il vantaggio di questo modello è la sua attenzione ai reali conflitti del mondo. Sul piano negativo si nota una impostazione manichea e si ha l’impressione che le contrapposizioni e gli scontri siano un fine in sé. 7) Cosmopolitismo dialogico: i fautori di questo modello accettano che la politica sia spesso una lotta di potere, ma insistono sul fatto che gli altri (individui, società o culture) non devono essere visti come nemici o antagonisti, ma come «altri» , meritevoli di attenzione e rispetto, un rispetto che si manifesta di preferenza con una mutua apertura al dialogo. Nell’impegnarsi in questo dialogo non si deve perseguire un interesse personale o rivendicare maggior potere, ma coltivare virtù civiche ed etiche che possono portare a una mediazione o a una composizione pacifica delle controversie. Il vantaggio di questo modello è che riconcilia «essere» e «dover essere» , realtà e utopia (offrendo un’utopia realistica). Il problema è che richiede istruzione e una trasformazione paziente ed è quindi un progetto di lungo termine. Nel mio lavoro ho sempre espresso la preferenza per il cosmopolitismo dialogico, il numero 7. Sono pronto a difendere questo modello, ma altri potrebbero voler sostenere altre opzioni. Il mio obiettivo è arrivare a formulare un «significato» di cosmopolitismo che sia accettabile per tutti. (Traduzione di Maria Sepa)

Repubblica 28.3.11
La psico economia
Se il rapporto con il denaro è lo specchio dell’anima
di Maurizio Ferraris


Due saggi ci raccontano come siamo condizionati mentalmente e nelle decisioni dal nostro rapporto con i soldi. Ecco perché questo ci fa commettere degli errori
Soffriamo molto di più per una perdita di quanto siamo felici per un guadagno
Tra gli elementi che determinano instabilità c´è la nostra incapacità di fare previsioni

Nel giro di un paio di mesi sono usciti due libri, rispettivamente di uno psichiatra, Vittorino Andreoli, e di uno psicologo cognitivo, Paolo Legrenzi. Il primo si intitola Il denaro in testa (Rizzoli), il secondo I soldi in testa (Laterza), ma non potrebbero essere più differenti. Mentre Andreoli afferma che il fatto di avere i soldi in testa è un male tipicamente contemporaneo, Legrenzi sostiene che noi abbiamo davvero i soldi in testa, e da sempre, proprio come abbiamo in testa la scrittura e la lettura: sono dotazioni specifiche della mente umana che si proietta nel mondo costruendo arte, religione, politica, filosofia e quella quintessenza degli oggetti sociali che è il denaro. Se le cose stanno così, se il denaro è necessariamente nella nostra testa prima ancora di essere nel mondo, il nostro rapporto con i soldi è davvero lo specchio dell´anima di tutti, e non solo di Arpagone o di Paperone. E ci rivela quanto siamo inclini a sbagliarci, con errori inevitabili, perché, come diceva Ippocrate, "la vita è breve, l´arte è lunga, l´occasione fuggevole, l´esperimento pericoloso, il giudizio difficile".
Per esempio, comprare azioni è il modo più conveniente per investire i propri risparmi. Ma per un immortale o almeno per uno che abbia un´aspettativa di vita superiore ai cento anni, perché le borse alla lunga crescono sempre, però in tempi lunghissimi. Inoltre le azioni hanno un altro difetto: apprendiamo tutti i giorni, dai listini di borsa, il loro valore. Come risultato, siamo informati in tempo reale delle loro vicissitudini, e possiamo facilissimamente cedere alla tentazione di venderle proprio nel momento sbagliato. Cosa che non ci verrebbe mai in mente se, come moltissimi italiani, possediamo una casa che crediamo aumenti di valore, mentre sono i nostri stipendi che si abbassano. Per esempio gli stipendi dei professori d´università sono sempre cresciuti nominalmente. Ma se li confrontiamo a qualche altro indice, come il numero di notti d´albergo che possono pagare, ci accorgiamo che nel 1955 coprivano 12 mesi, e nel 2009 un mese soltanto. Un crollo vertiginoso, di cui di solito i professori non hanno piena coscienza, risparmiandosi peraltro gravi frustrazioni, proprio come credere che casa nostra sia un affarone ci mette di buon umore.
Siamo tutti stupidi, e i professori più degli altri? No. Tutto questo ha a che fare con due grandi caratteristiche delle scimmie cappuccine e di altri primati di cui leggiamo nel libro, tra cui Legrenzi, i suoi familiari e alcuni suoi illustri maestri. Primo, il fatto che soffriamo molto più di una perdita di quanto siamo felici per un guadagno, con un atteggiamento che non è affatto irrazionale, perché una perdita può costituire un danno irreparabile (immaginiamo un nostro antenato nelle savane che perde un´arma o il cibo), mentre del guadagno in fondo si può sempre fare a meno (campavamo anche prima). Secondo, il fatto che non siamo capaci di previsioni circa un futuro in cambiamento: se uno gioca alla roulette russa mettendo un proiettile in un revolver a sei colpi ha una possibilità su sei di morire. Un gioco idiota, ma con delle probabilità calcolabili. Solo che con le finanze noi non sappiamo quasi niente, quindi i proiettili possono essere anche tre (e in questo caso le probabilità di morire non sono una su sei ma una su due) o sei (e in questo caso è morte certa). In taluni casi, poi, c´è una disparità cognitiva: c´è chi conosce effettivamente le probabilità di un evento (per esempio le assicurazioni) e chi le ignora (i clienti delle assicurazioni). La combinazione tra questi due elementi, sommati al dato centrale del timore delle perdite sta alla base dei guadagni delle assicurazioni, che ci spingono a tutelarci con cura da eventi statisticamente molto improbabili. Dal punto di vista statistico, la probabilità che ti vada a fuoco la casa è fortunatamente remota quasi quanto la possibilità di vincere alla lotteria. Ma mentre nessuno penserebbe di vivere vincendo alla lotteria, è normale tutelarsi contro l´eventualità di un incendio.
Dobbiamo rivolgerci agli esperti? Mai, perché loro non devono fare i nostri interessi, ma prima di tutto quelli degli azionisti della banca. L´investimento più sicuro e redditizio che si possa immaginare sono i cosiddetti "prodotti finanziari passivi" (in gergo Etf), con cui ci si compra in modo meccanico il listino azionario nel suo complesso. Ma nessun esperto vi consiglierà mai un investimento di questo genere, che danneggerebbe i suoi azionisti. Allora dobbiamo diventare, noi stessi, tutti economisti? No, il punto è un altro. Si tratta di capire che in quello che con tanta esattezza si chiama "il bilancio di una vita" sia economisti sia non economisti possono avere ragione, come quando Legrenzi da ragazzo andava al cinema con i genitori: se il film era brutto, il padre (manager) diceva di andarsene, visto che avevano già subito un danno, il costo del biglietto, e non era il caso di aumentarlo. La madre (musicista) diceva di restare, perché il film avrebbe anche potuto migliorare, applicando un principio di speranza. Alla fine Legrenzi propende per l´insegnamento della madre quando, parlando di educazione economica dei ragazzi, fa notare che è molto meglio educare alla tenacia e alla speranza che insegnare le regole degli interessi composti e dei giochi in borsa. Ecco il messaggio finale di questo libro che parla di soldi senza demonizzarli, perché è pieno non solo di acume e di sapere, ma anche dell´intera economia della vita di Legrenzi.

Vittorino Andreoli...
Repubblica 28.3.11
L´ossessione per il portafoglio raccontata da andreoli   
 

ROMA - Il nuovo numero di "Mente & Cervello" in edicola in questi giorni ha la copertina dedicata al tema dell´ossessione dei soldi. Il titolo è "Malati di denaro" e rimanda ad un lungo servizio nelle pagine interne di Vittorino Andreoli. L´autore racconta come "la nostra vita ruoti intorno al denaro, al desiderio di possederlo oppure all´angoscia di perderlo". E questo scatena nuove dipendenze, depressioni e lutti. Proprio per questo i soldi sono finiti "sul lettino dello psichiatra". Ma se la nostra identità è determinata dal portafoglio, la mancanza di denaro può indurre a comportamenti asociali che vengono illustrati e declinati nel corso dell´intervento curato dal celebre psichiatra.

l’Unità 28.3.11
Lo studio che lo dimostra pubblicato su «Epidemiologia e Prevenzione»
I criteri per la valutazione basati sul numero degli articoli e i finanziamenti
La ricerca italiana in campo biomedico sopravvive ai tagli
Nell’Unione Europea l’Italia è al secondo posto per numero di pubblicazioni, mentre i nostri ricercatori partecipano a oltre la metà dei progetti finanziati dall’Europa. Ma i dati si riferiscono al 2007-
di Cristiana Pulcinelli


La ricerca italiana in campo biomedico ed epidemiologico va forte. Nonostante i tagli. Lo dimostra uno studio appena pubblicato sulla rivista «Epidemiologia e Prevenzione». Gli autori, che lavorano presso il Centro di riferimento per l’epidemiologia e la prevenzione oncologica in Piemonte e l’Azienda ospedaliero-universitaria San Giovanni Battista di Torino, hanno analizzato gli articoli di epidemiologia pubblicati da ricercatori italiani, europei e statunitensi negli anni dal 2007 al 2009. Lo scopo era di valutare l’impatto della ricerca italiana rispetto agli altri paesi, sia per il numero di articoli scientifici pubblicati, sia per i finanziamenti ottenuti. È emerso che, tra i 27 paesi della Unione Europea, l’Italia è al secondo posto per numero di pubblicazioni, seconda solo alla Gran Bretagna. Inoltre, i ricercatori del nostro paese partecipano ad oltre la metà dei progetti finanziati dall’Europa.
Per la precisione, l’Italia è coinvolta nel 51,3% dei 374 studi finanziati tramite il 7 ̊ programma quadro dell’Unione Europea, disegnato allo scopo di potenziare i finanziamenti per la ricerca sanitaria: in 154 di essi partecipa almeno un ente di ricerca italiano e 38 sono coordinati da un’istituzione italiana. Mentre gli articoli pubblicati da ricercatori italiani rappresentano un ottavo della produzione europea che, nel complesso, è di poco inferiore a quella degli Stati Uniti con 50.063 articoli pubblicati contro 64.489. Anche se gli Stati Uniti presentano una crescita più rapida rispetto ai singoli Paesi europei «probabilmente perché investono di più nella ricerca scientifica» si legge nell’articolo.
Attenzione, però, dicono gli autori dello studio. Qui stiamo parlando di ricerche pubblicate dal 2007 al 2009, quindi effettuate con finanziamenti erogati negli anni precedenti. I tagli ai finanziamenti degli ultimi anni probabilmente si farebbero sentire di più. «Non abbiamo fatto una indagine precisa sui finanziamenti alla ricerca medica nel nostro paese – spiega Federica Gallo, uno degli autori dello studio tuttavia l’impressione nel mondo sanitario è che i fondi siano diminuiti. La maggior parte dei finanziamenti per la ricerca medica arrivano dalle regioni, dal ministero e dall’Unione Europea. Nel caso della Ue è diminuito il numero di finanziamenti erogati, nel caso del ministero e delle regioni sono diminuiti i budget».
ARTICOLI IN AUMENTO
Un dato è certo: dal 2000 al 2006 gli articoli scientifici redatti da gruppi di ricerca europei è aumentato del 49,37%, mentre la spesa europea per la ricerca rapportata al prodotto interno lordo (Pil) è ferma all’1,84%. Quella italiana è ferma da una decina d’anni intorno all’1% del Pil. E così, visto che la prerogativa dell’italiano è l’arte di arrangiarsi, con questa chiave si può leggere anche la bravura dei ricercatori italiani di accedere ai fondi europei quando quelli nazionali scarseggiano: «Gli studiosi italiani – si legge nell’articolo sembra sappiano sfruttare al meglio la disponibilità dei finanziamenti europei, probabilmente anche spinti dalla scarsa disponibilità di quelli interni». Ma a tutto c’è un limite.

Repubblica 28.3.11
Un volume sulla storia di Lavagnino e l´occupazione tedesca
L’uomo che salvò i capolavori
di Francesco Erbani


Lo studioso mise al sicuro molti tesori: la Fondazione Bellonci ha voluto ricordarlo così

Nella chiesa dell´Immacolata di Sutri, provincia di Viterbo, lavorarono per due ore e mezza. A mani nude smurarono «le grappe della cornice di ferro che tiene a posto il cristallo di protezione del dipinto», un Cristo in casa di Marta e Maria del cinquecentesco Jacopo Zucchi. A poca distanza piovevano grappoli di bombe. Era così che Emilio Lavagnino, durante l´occupazione tedesca di Roma, agli sgoccioli della seconda guerra mondiale, metteva in salvo quadri e altri oggetti d´arte. Un´opera avventurosa e piena di fascino, che fu decisiva per la tutela di un patrimonio minacciato e che rivive in un volume curato da Raffaella Morselli per conto della Fondazione Bellonci. Il volume - che raccoglie scritti di Andrea Emiliani, Paola Nicita, Belinda Granata e Simona Rinaldi, con la prefazione di Tullio De Mauro - s´intitola Fuori dalla guerra (Mondadori, pagg. 279) e ricostruisce le peregrinazioni di Lavagnino fra chiese e palazzi laziali alla frenetica ricerca di opere da nascondere in Vaticano, dove sarebbero state al sicuro. Ma soprattutto propone una schedatura di tutto ciò che fu salvato da Lavagnino, costruendo un´ideale galleria di capolavori che altrimenti sarebbero finiti in polvere oppure depredati dai tedeschi. Una specie di catalogo di sopravvissuti. E infine riproduce il diario tenuto dallo stesso Lavagnino e la relazione che questi stilò, dopo la liberazione di Roma, al Soprintendente.
Lavagnino era uno storico dell´arte, funzionario del ministero dell´Educazione nazionale. A lui nel 2006 ha dedicato un romanzo sua figlia, Alessandra Lavagnino (Un inverno 1943-1944, Sellerio). Fra febbraio e maggio del 1944, a bordo di una scalcinata Topolino, con le ruote procurate da Palma Bucarelli, la leggendaria direttrice della Galleria nazionale d´Arte moderna, e per il resto a sue spese, compresa la benzina raccattata al mercato nero, Lavagnino prese a battere le strade dell´alto Lazio, schivando mitragliatrici e bombe, e seguendo un itinerario fra le chiese che sapeva contenevano quadri preziosi.
Cominciò con due opere di Sebastiano del Piombo, la Pietà e la Flagellazione custodite nel Museo civico di Viterbo, seguite nella stessa città da altri quadri. È lui che racconta: «Il Girolamo da Cremona e l´Antoniazzo della Cattedrale, il polittico del Balletta di S. Giovanni in Zoccoli e la grande tavola di Lorenzo di Bicci di San Sisto». In una prima fase era accompagnato da colleghi, da un autista e anche da un ufficiale tedesco, Peter Scheibert, che poi sarebbe diventato professore di storia all´università. Ma da un certo momento in poi fece tutto quasi da solo. Dopo Viterbo eccolo a Sutri, quindi a Vetralla, Montefiascone, Bagnoregio, Orvieto, Acquapendente, Bolsena. E poi Caprarola e Ronciglione, Trevignano e Bracciano. Il suo "bottino" fu ricchissimo: quei quadri erano pregiati in sé, ma rappresentavano soprattutto l´esperienza artistica di un territorio minore, erano i simboli di un paesaggio culturale che andava sottratto alla distruzione e alla rapina e consegnato a una memoria viva. Un esempio di tutela a qualunque costo.

La Stampa 28.3.11
Il genitore perfetto? Si ispiri a Neanderthal
La provocazione di una psicologa: “I nostri antenati allevavano bimbi forti e sereni”
di Roselina Salemi


L’UNIVERSITÀ DI NOTRE DAME Lo studio è un’impietosa critica alla moderna famiglia americana
I SUGGERIMENTI «Dall’allattamento al seno al dormire nel lettone: torniamo alla naturalezza»

Pensavamo di esserci molto evoluti, con il nostro armamentario di carrozzine, passeggini, seggiolini omologati per l'auto, pappe pronte sottovuoto, costose babysitter. Pensavamo fosse giusto. Invece uno studio dell'Università di Notre Dame, nell'Indiana, severa scuola cattolica (nota per gli studi di diritto, e per aver dato alla patria una sfilza di campioni di pallacanestro) ci dice che non è così. E ci riporta a 100mila anni fa, prima dell'agricoltura e della scrittura, al tempo dei cacciatori-coglitori, antichi gruppi convenzionalmente noti come neanderthaliani.
Che forse, come genitori, erano molto più bravi di noi. L'atto d'accusa di Darcia Narvaez, docente di Psicologia a Notre Dame, parte da un'analisi spietata della società americana, già scossa dal saggio di Amy Chua, professoressa di Legge alla Law School dell'Università di Yale, che sostiene al superiorità delle mamme cinesi, più severe, su quelle occidentali. Secondo Darcia Narvaez, solo il 15 per cento delle madri Usa allatta il bambino al seno (e al massimo per 12 mesi), «lo tocca pochissimo, lo passa da una carrozzina a un passeggino, le famiglie sono frammentate e il gioco in libertà è diminuito drasticamente dagli anni '70 in poi. Questo comportamento produce generazioni fragili, con forti disagi emotivi, e un gran numero depressi, egocentrici, violenti».
Quello dei «cacciatori-coglitori» sembra un modello migliore: gruppi con una forte solidarietà sociale e una grande empatia. Le madri allattavano i figli sino a 5 anni, (soltanto a 6 il sistema immunitario è perfettamente formato). Il parto naturale permetteva alla donna di produrre gli ormoni necessari ad affrontare la cura del figlio, coccolato e tenuto in braccio. Il piccolo dormiva accanto ai genitori, per nulla sfiorati dall' idea di viziarlo. Beh, erano anche altri tempi, parecchi bambini non superavano l'undicesimo anno di età, c'erano predatori tremendi e un clima micidiale. Non era il caso di aggiungerci altro.
Nessun ricercatore ha a disposizione dati su antiche famiglie di cacciatori-coglitori per compararli con le nostre, ma il sistema di vita, praticato in luoghi spersi del mondo dove non sono arrivati né la Coca Cola, né il Grande Fratello, al massimo qualche antropologo, è ancora documentabile. E l'analisi si aggiunge ai molti studi sulla distanza emotiva che oggi separa i genitori dai figli. Yehudi Gordon, del St. John & St. Elizabeth Hospital di North London pioniere del parto in acqua in Gran Bretagna, invita le donne a essere più madri e meno lavoratrici, a restare accanto ai figli per un paio d'anni, ad allattare ed evitare, salvo in casi di vera necessità, il cesareo (che però è comodo e programmabile).
In Italia, Silvia Vegetti Finzi, docente di Psicologia Dinamica all'Università di Pavia, ha messo in guardia i genitori dai rischi di una delega precoce: babysitter, nidi («così socializza») e una valanga di attività sportive e creative riducono lo spazio di comunicazione tra genitori e figli. Anche il gioco è programmato e spesso, solitario, davanti a un computer. Certo, il discorso si fa complicato e delicato, perché le donne non hanno voglia di tornare a occuparsi soltanto di pappe e pannolini e non è che siamo commosse dalla bellezza della famiglia neanderthaliana, ma certe volte, l'evoluzione, con i suoi complicati slalom riesce a recuperare l'eredità del passato.
Una forte corrente di pensiero sostiene l'allattamento al seno, il parto naturale, il congedo (anche di paternità) e nuovi orari di lavoro per le mamme. Eve Ensler, autrice dei leggendari «Monologhi della Vagina» e di «Io sono emozione» (appena uscito da Piemme) anticipa in forma poetica, la tendenza all'ascolto di sé: «Io sono una creatura emotiva/ Io sono ciò che resta della tua memoria/ ti metto in comunicazione con la tua origine/Nulla è stato annacquato/ Nulla si è perso/ Io posso riportati indietro». Giovanni Bollea, padre della moderna neuropsichiatria infantile, scomparso lo scorso febbraio, l'ha detto in un altro modo nel bestseller «Le madri non sbagliano mai»: «Una madre in genere sa cosa è meglio per il bimbo, lo sente, lo avverte, lo percepisce, lo intuisce e, se cultura e società non la disorientano, fa la cosa giusta». Dal tempo dei cacciatori-coglitori ai giorni nostri.

La Stampa 28.3.11
Sodoma distrutta da un asteroide
Una tavoletta svela il segreto: “Sulla mitica città una palla di fuoco potente come quattro atomiche”
di Mario Baudino


E’ stato un asteroide a distruggere Sodoma e Gomorra, o almeno a dare origine alla storia biblica che riguarda le due città punite per i comportamenti sessuali piuttosto disinibiti degli abitanti. Com’è noto, alcuni di loro fecero minacciose profferte agli angeli del Signore mandati ad ammonirli, e per passare a vie di fatto fracassarono l’ingresso della casa di Lot, l’unico giusto che aveva accolti i messaggeri. L’impresa com’è ovvio non riuscì, e la punizione celeste si abbatté come un maglio, spianando col fuoco non solo le due città ma anche altri tre centri che insieme ad esse costituivano la Pentapoli. Non sapremo mai se questa sia la vera storia, ma ora la spaventosa scena è stata estratta dal tempo immemoriale del racconto biblico e ha una data precisa nel nostro calendario: il 29 giugno 3123 a. C., poco prima dell’alba.
L’hanno calcolata due scienziati inglesi, Alan Bond (membro di un centro ricerche di Abingdon) e Mark Hempsell, dell’Università di Bristol, partendo da una tavoletta sumera conservata al British Museum. I risultati delle loro ricerche sono stati pubblicati nel libro A sumerian observation of the Köfels's impact event (Un’osservazione sumera dell’impatto di Köfels). Che sarà mai Köfels? I geologi lo sanno bene. E’ una località dell’Austria, dove è noto che un’intera montagna venne spianata dall’impatto di un asteroide, evento apocalittico e non tramandato. Köfels ha però uno stretto rapporto con Sodoma e Gomorra. Proprio decrittando la tavoletta, che è una copia risalente al 700 a. C. della descrizione del cielo fatta da un astronomo sumero, i due scienziati hanno ricostruito i cieli del mondo come li aveva visti il loro antico predecessore nella notte fatale quando assistette a qualcosa di immenso: un grande oggetto luminoso che attraversava l’atmosfera a folle velocità da est a ovest.
Andava a Köfels, e stava per innescare un apocalittico bigliardo. Secondo questa ricostruzione (che pure non è accettata in blocco dalla comunità scientifica) l’asteroide si disintegrò sull’Austria, e una palla di fuoco da 800 milioni di tonnellate si abbattè sulla montagna, distruggendola. L’enorme potenza liberata fece rimbalzare un pennacchio di fuoco che risalì a 900 chilometri di altezza e rifece il cammino al contrario, rientrando nell’atmosfera sull’Egitto e scaricando sulla Pentapoli qualcosa come l’equivalente di quattro bombe atomiche ad altissimo potenziale. Così finirono Sodoma e Gomorra, e iniziò il mito dei peccatori sfrontati. Quanto agli abitanti della zona di Köfels non se ne sa nulla. Forse non ce n’erano. Forse erano pochissimi. In tal caso sarebbero nella nostra lunga storia le prime vittime di un danno collaterale. Proprio come le figlie di Lot, offerte agli assalitori pur di salvare gli angeli. Per loro fortuna i sodomiti non erano interessati.

La Stampa 28.3.11
Redon il principe dei sogni
Una grande mostra a Parigi celebra il maestro visionario che anticipò il simbolismo
di Francesco Poli


Un mondo fantastico
Ma un capolavoro come «La cellule d’or» fu bollato da Tolstoj: «È perversione dell’arte»

Inquietante e affascinante esploratore del mistero, dell’immaginario e del subcosciente, Odilon Redon ha vissuto in piena epoca naturalista, contemporaneo degli impressionisti. Grande precursore del simbolismo in arte insieme a Gauguin, di cui era amico, è stato considerato come un maestro dai Nabis Vuillard, Bonnard, Russel, Sérusier e Bernard (che lo aveva definito il Mallarmé dei pittori), e poi amatissimo da molti surrealisti. Borghese benestante, ha trascorso un’esistenza tranquilla e senza eccessi, ben lontana dallo stereotipo dell’artista «maledetto». E forse proprio per questa sua apparente normalità la sua figura appare ancora più problematica ed enigmatica. Per molti versi lo si può considerare come un caso a parte. Anche la sua affermazione come pittore è stata piuttosto tardiva. In effetti la sua ricerca e anche la sua carriera si articola in due fasi abbastanza distinte: la prima, fino alla fine degli Anni 80, è caratterizzata soprattutto dalla sua produzione grafica di acqueforti, litografie e disegni; e la seconda dalla fantasmagorica entrata in scena del colore nei meravigliosi pastelli e dipinti.
In questa grande mostra al Grand Palais è possibile ripercorrere cronologicamente con chiarezza e precisione (attraverso un centinaio di stampe e 180 disegni e dipinti) tutte le tappe fondamentali della sua evoluzione tecnica, stilistica e tematica, dalla fase più tenebrosa dei Noirs fino alle fluttuanti e iridescenti atmosfere cromatiche delle sue grandi decorazioni. È una progressione, una sorta di viaggio iniziatico ed esoterico, che va dal buio profondo verso la luminosità più accesa. Negli anni della formazione due sono i personaggi che più lo hanno influenzato. Il primo è l’incisore e illustratore Adolphe Bresdin che, a Bordeaux, gli insegna le tecniche grafiche ma gli apre anche la strada verso la dimensione del fantastico. Il secondo è il botanico Armand Clavaud che ha una visione panteista della natura e che gli fa conoscere la teoria dell’evoluzione di Darwin e gli fa amare Baudelaire, Poe, Flaubert e la poesia indiana. A Parigi frequenta per breve tempo l’atelier di Gérôme, ma la pittura che lo interessa è quella di Corot, Delacroix e di Moreau. E per quello che riguarda le incisioni studia con passione Dürer, Rembrandt e Goya a cui dedicherà un omaggio grafico.
In mostra si possono vedere le serie complete dei suoi più famosi album di litografie come ria, le forme amebiche e i microorganismi, il sole nero, l’angelo caduto, e le figure decadenti di martiri e mistici. Il tutto in atmosfere cupe, fosforescenti, cosmiche, a volte macabre e grottesche, dove non manca però una raffinatissima vena di humour noir. La dimensione letteraria è evidente ma l’artista ci teneva a precisare che i suoi lavori non erano illustrazioni ma interpretazioni assolutamente libere da condizionamenti testuali. E aveva assolutamente ragione. È vero comunque che i primi grandi estimatori delle sue invenzioni grafiche sono stati gli scrittori e i poeti, tra cui Mallarmé, suo grande amico, e Huysmans, che in A rebours ne descrive con ammirazione le opere, contribuendo non poco al loro successo.
La svolta determinante nella carriera di Redon avviene negli Anni 90 con la sua ampia retrospettiva da Durand Ruel, il mercante degli impressionisti; e con la mostra che gli organizza Ambroise Vollard, che in quegli anni è il primo a sostenere Cézanne e Gauguin. È probabile che siano anche questi galleristi ad aver spinto l’artista verso la pittura a pastello e a olio. I primi capolavori dipinti sono Yeux clos ( derivato da una litografia) e La cellule d'or . Quest’ultimo è una fantastica testa di profilo di colore blu cobalto su fondo oro, la cui novità sconcertante aveva provocato anche reazioni scandalizzate come quella (piuttosto miope) di Tolstoj che la definisce un esempio «della perversione dell’arte e del gusto nella nostra società».
Volti misteriosi, soggetti mitologici come il carro di Apollo, figure enigmaticamente allegoriche, e soprattutto fantasmagorie floreali ed esseri viventi eterei come farfalle o fluttuanti organismi biomorfici. Questi temi appaiono come sospesi in una dimensione spaziale indeterminata, quasi senza profondità, e con una delicata ma intensa energia cromatica che fa vibrare tutta la superficie delle opere in modo iridescente e quasi elettrico. I suoi mazzi di fiori, apparentemente tradizionali, sono dipinti nei particolari con una sfumata precisione apparentemente naturalistica, ma sono allo stesso tempo magicamente irreali. Tutta l’arte di Redon ha una sua particolare essenza intimistica e interiore. Questa caratteristica appare invece diluita e trasformata in qualcosa di meno intenso e più spettacolare nelle grandi decorazioni realizzate all’inizio del nuovo secolo e alla fine della sua vita. In mostra si può vedere un’accurata ricostruzione ambientale della grande e articolata decorazione, in vari pannelli, realizzata nel castello del suo amico e collezionista Domecy. L’effetto complessivo è magnifico, la qualità straordinaria, ma l’estetismo decorativo giapponesizzante e art nouveau è un rischio forse non evitato del tutto.