domenica 3 aprile 2011


Il Sole 24 Ore Domenica 19.4.09
L’inedito di Franco Volpi censurato dal figliastro
E alla fine dico: «Good-bye Heidegger»
di Franco Volpi


Riportiamo qui di seguito parte di una lettera di Franco Volpi, morto prematuramente martedì scorso, ad Armando Massarenti - nel quadro di uno scambio in occasione della pubblicazione del volume di scritti heideggeriani che Massarenti aveva curato per il Sole 24 Ore - in cui lamentava la censura degli eredi sulla introduzione ai Beiträge di Heidegger (Contributi alla filosofia, traduzione di Franco Volpi e Alessandro Iadicicco, Adelphi 2007):
«Caro Massarenti, (...) Al mio ritorno [da Santiago del Cile] ho parecchie cose da raccontarti: la mia introduzione ai Beiträge (che stanno uscendo da Adelphi) è stata considerata troppo critica dal figliastro di Heidegger e censurata. È ancora in corso una trattativa per tentare di salvare capra e cavoli (dunque ti pregherei di mantenere ancora assoluto riserbo sulla questione), ma davvero mi viene voglia di seguire l'esempio di Maurizio Ferraris e scrivere un libello: Good-bye Heidegger. A Santiago del Cile, dove vado per una conferenza di chiusura al congresso di fenomenologia ed ermeneutica, volevo parlare di Heidegger e Wittgenstein, ma ho deciso cambiare tema e ho dato come nuovo titolo proprio questo: "Good-bye Heidegger. La mia introduzione censurata ai Beiträge"».
Era l’11 ottobre 2007. Qualche tempo più tardi, il 18 novembre, dopo ulteriori scambi, Franco Volpi spedì a Massarenti il brano più significativo che era stato censurato, rimasto finora inedito. Lo proponiamo qui per la prima volta. È un paragrafo dell’introduzione ai Contributi alla filosofia intitolato «Naufrago nel mare dell'Essere».

I «Contributi alla filosofìa»? «Il diario di un naufragio. Avventurandosi troppo in là nei mari dell'Essere, il suo pensiero va a fondo»
L’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Heidegger, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi alla filosofia. È forse un caso che Heidegger ponga in esergo ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961) una epigrafe tratta dall'Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Contributi? Questi terminano con una "fuga" che tratta dell'ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione: «Quasi due millenni e non un solo nuovo dio!».
Forse Heidegger non è più riuscito a risollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche. Nella triste luce dell'esaurimento, l'Essere - quest'ospite solitamente fugace dei nostri pensieri - rimane per il grande Heidegger l'ultima chimera che valga la pena di sognare. Tutti i suoi sforzi mirano a quest'unica meta, l'Essere, ma i sentieri si sono interrotti. La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo "procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofìsta, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose - l'Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo - soffiando sul mito greco-germanico dell'originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l'aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell'etimologia si rivela un abuso (...). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l'uomo funge da pastore dell'Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell'ultimo Heidegger, bensì l'ammirazione supina e spesso priva di spirito critica che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Certo, i comuni mortali spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero allora davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell'Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime.

La Stampa Tuttolibri 2.4.11
Fox, la teologia messa all’indice
di Gianni Vattimo

Il libro di Matthew Fox In principio era la gioia inaugura degnamente la nuova collana di teologia diretta da Vito Mancuso e Elido Fazi, che ne è l’editore (pp. 423, 19,50). Lo si può e deve raccomandare senz’altro come fonte di edificazione spirituale, come manuale di meditazione, come guida per una possibile esperienza mistica. Come molto spesso la teologia non è edificante, così l’edificazione sembra prestarsi poco a discussioni e argomentazioni teologiche. Che il libro sia qualcosa di più di un banale testo di edificazione, tuttavia, lo possiamo indurre dal fatto, per nulla trascurabile, che in conseguenza della sua pubblicazione (1983) l'autore fu espulso (1993), per iniziativa dell’allora cardinale Ratzinger, capo del Sant’Uffizio, dall’ordine domenicano, nel quale era stato discepolo di un grande teologo come Chenu. Se per alcuni già questa espulsione è una raccomandazione positiva, ce n’è un’altra che si scopre solo dopo la lettura delle dense trecento pagine del libro, e che suona così «Tutto questo libro, in realtà, non è altro che l’esposizione della spiritualità degli anawim , degli oppressi» (p. 331).
Non occorre dunque motivare ulteriormente la simpatia che sentiamo fin dall’inizio per il libro e il suo autore. Anche se alcuni elementi che lo caratterizzano suscitano qualche resistenza: la sistematicità della costruzione, che ripete e anche rinnova certi schemi tipici dei manuali di spiritualità della tradizione cattolica, con la articolazione di Via positiva, Via negativa, Via creativa, Via trasformativa; la fluviale abbondanza delle citazioni messe in esergo ai vari capitoli, dove è convocata tutta la storia della mistica, della poesia, del pensiero spirituale non solo dell’Occidente (e che ha anche il senso positivo di offrire una specie di summa antologica di questo pensiero). Soprattutto, ciò che attrae ma anche respinge nel libro, è il suo tono «positivo», che fa pensare talvolta a certe forme di nuova religiosità «americana» (New Age) verso cui nutriamo rispetto ma che non sentiamo nostre.
Il perché di un certo disagio verso quest’ultimo aspetto del libro è anche la sua sostanza teorica e teologica. La reazione di sospetto è motivata per l’appunto da ciò che ancora domina la nostra esperienza religiosa: siamo tutti figli di Agostino, direbbe Fox, cioè succubi di un’educazione che ci ha abituati a pensare la storia della salvezza come redenzione dalla caduta originaria nel peccato. Non per nulla il titolo inglese del libro è Original Blessing , Benedizione originale. Noi di originale abbiamo sempre conosciuto soprattutto il peccato: l’atto d’amore che ha dato luogo alla creazione, la benedizione originale, è stato subito macchiato dalla storia del serpente e della mela. La storia dei nostri rapporti con Dio è una storia di caduta, pena e redenzione, anche questa però operata solo in forza di un sacrificio, di una pena che lo stesso Figlio di Dio si sarebbe caricato sulle spalle sopportando il dolore della Crocifissione.
Ma, dice Fox, «nessuno credeva al peccato originale prima di Agostino», così per esempio Sant’Ireneo di Lione che scriveva duecento anni prima di lui (p.49). La «benedizione», l’atto di amore con cui Dio crea il mondo e ci dà la vita è un’idea biblica molto più originaria. Agostino ha costruito la dottrina del peccato originale solo negli ultimi anni della sua vita, fondandosi su un passo della lettera di Paolo ai Romani (5,12) che egli legge come se dicesse che con Adamo tutti gli uomini hanno peccato, e perciò portano in sé la stessa colpa. La filosofia occidentale (Kant: l’idea del «male radicale») ha ripreso questa dottrina ritenendo che l’inclinazione al male sia un dato naturale nell’uomo, con conseguenze importanti anche sul modo di intendere la società. E anche tutto il modo che abbiamo ereditato di considerare il corpo, i sensi, l’erotismo è profondamente legato a questo primato del peccato.
Fox si propone l’impresa niente affatto semplice di ripensare il cristianesimo fuori dalla corrusca luce che via ha imposto l'agostinismo. Non certo facendo come se di peccato non si debba più parlare - egli stesso, nelle quattro sezioni in cui illustra le sue quattro «vie», dedica pagine intense a come si configura il peccato dal punto di vista di ciascuna di esse: che si riduce sempre a una qualche forma di resistenza inerte (egoistica, conservatrice) contro la positività della relazione con il mondo, con la natura, con gli altri.
Ma le disavventure che ha incontrato con la gerarchia cattolica avvertono della difficoltà anche teorica della sua posizione, almeno sul piano dottrinale. La Chiesa ha sempre lasciato molta libertà ai tanti mistici che Fox richiama nel libro, da Ildegarda di Bingen a Meister Eckhart a Giuliana di Norwich a Simone Weil - certo non a Giordano Bruno, che è uno dei grandi ispiratori di questo testo. Ma sul piano della dottrina accettata e insegnata il discorso era ed è ancora molto più rigido. Ognuno di noi, e Fox stesso e i suoi discepoli, può (dovrebbe anzi) praticare in privato la propria religione con questo spirito di benedizione dimenticando la cupa idea della colpa collettiva. Ma da questa idea dipendono troppe «discipline», rapporti di potere, veri e propri privilegi della casta (!) sacerdotale perché una proposta di rinnovamento teologico e spirituale come questa non si scontri alla fine con la necessità di una autentica rivoluzione. Forse sarebbe ora, ma vi pare che sia il tempo propizio?
"Un «manuale di spiritualità» per ripensare la fede cristiana senza la paura del peccato"

La Stampa Tuttolibri 2.4.11
Benedetto XVI Gesù è per tutti
di Enzo Bianchi

«E voi, chi dite che io sia?». A questa domanda di Gesù, è Pietro, voce unificante del gruppo degli apostoli, a rispondere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,15-16). Se ci pensiamo bene, è proprio innanzitutto a questo interrogativo essenziale che il successore di Pietro è chiamato in ogni tempo e ancora oggi a rispondere, facendosi interprete della fede della chiesa tutta. Ed è quanto papa Benedetto XVI fa anche con la seconda parte della sua opera su Gesù di Nazaret. (Libreria Editrice Vaticana, pp. 380, 20), affrontando la vicenda di Gesù e della fede dei discepoli «dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione».
Come già per la prima parte di quest’opera di ampio respiro, l’approccio mira a far emergere quel consenso ecclesiale, quel sensus fidei nel leggere la figura di Gesù che ha attraversato la storia della chiesa e che, nel corso dei secoli e fino ai decenni più recenti, ha saputo far tesoro di studi, commenti, interpretazioni, metodologie anche assai diverse tra loro. Qualcuno si è chiesto se vale la pena che un Papa metta tante energie nello scrivere libri, magari sottraendo tempo al suo «governo», pensato secondo i criteri politici di tutti i governi del mondo. Ma Benedetto XVI fa ciò che gli compete ed è decisivo per il suo ministero petrino: confermare la fede in Gesù Cristo. Questo è l’insegnamento determinante per un papa: perciò un atto deliberatamente non magisteriale come il libro, è tuttavia una confessione di fede fatta dalla chiesa oggi, in sinfonia con la grande tradizione cattolica.
Anche il linguaggio volutamente piano e pedagogico, capace di distillare gli elementi più consolidati dell’esegesi storico-critica e di fonderli con la lettura sapienziale propria della grande tradizione patristica e spirituale, rende quest’opera di Benedetto XVI particolarmente appetibile anche per il largo pubblico: un ragionare discorsivo che viene incontro alla sete di conoscenza e al desiderio di comprensione che è presente anche in molte persone lontane o marginali rispetto alla compagine ecclesiale. Ora, si tratta di un approccio fondamentale proprio per i capitoli conclusivi dei Vangeli, che trattano la passione, morte e risurrezione di Gesù: brani che affrontano da un lato il cuore dell’incontro-scontro tra la figura e la predicazione di Gesù e le istituzioni religiose giudaiche e l’autorità politica romana e, dall’altro, il nodo stesso dell’interpretazione degli scritti del Nuovo Testamento.
Semplice rielaborazione storica di eventi accaduti o non piuttosto riflessione interpretativa che riesce a coniugare l’esperienza vissuta dai primi discepoli con la fede della chiesa nascente? In questo senso alcuni critici dell’opera del papa finiscono per incespicare nelle loro stesse argomentazioni: non si può infatti invocare la «storicità» di alcuni brani evangelici per contrapporla all’interpretazione teologica della prima comunità cristiana di cui risentirebbero altri passaggi neotestamentari.
Non solo lo studioso, ma anche il lettore ordinario sa che l’intero Nuovo Testamento è stato scritto dopo la risurrezione di Gesù o, se si vuole, dopo la predicazione di questo evento sconvolgente ad opera dei primi discepoli. È quindi questo dato «di fede» a costituire da subito il criterio interpretativo di tutta la vicenda storica di Gesù. Questo non significa - e il lavoro di Benedetto XVI lo evidenzia con singolare efficacia - "Un linguaggio piano e pedagogico, un ragionare discorsivo che si rivolge anche a chi è lontano dalla Chiesa"
Che la dimensione storica non abbia spazio nell’ambito della predicazione e dell’autocomprensione della chiesa, ma piuttosto che «l’incarnazione», il calarsi del Figlio di Dio nella condizione umana abbraccia non solo le debolezze della carne umana ma anche la fragilità di un annuncio non scrutabile esaurientemente alla luce dei soli dati storico-critici.
Per i cristiani non è decisiva innanzitutto la parola «Dio», bensì la conoscenza di Gesù Cristo, colui che ha «narrato Dio», come testimonia il prologo del quarto Vangelo. È attraverso la conoscenza di Gesù Cristo, della sua vita, delle sue parole, della sua passione, morte e risurrezione che si giunge ad aver fede e a conoscere il «Dio che nessuno ha mai visto». Sovente i cristiani, soprattutto nel recente passato erano istruiti intellettualmente su Dio, la sua esistenza, la sua provvidenza: erano credenti in un Dio attorniato da santi con cui avevano maggiore familiarità e di cui conoscevano le «storie», ma pochi tra di loro arrivavano ad avere fede in Gesù Cristo attraverso la conoscenza della sua vita e morte narrate dai Vangeli.
Benedetto XVI con questa sua rilettura di Gesù Cristo apre, forse come mai avvenuto prima, una conoscenza essenziale alla fede dei cristiani che non sono teisti, né in certo senso monoteisti, ma aderenti a un Dio unico che è una comunione di amore e che si è rivelato pienamente e definitivamente nella vita umana di Gesù Cristo suo Figlio.
La fede cristiana, allora, non è meno solida per il fatto di fondarsi non su una prova incontrovertibile - almeno secondo i criteri moderni - della risurrezione di Gesù, bensì sulla testimonianza di uomini e donne semplici ma divenuti «affidabili» per quanti ne hanno ascoltato la predicazione. Ammettere che la fede si basa non sull’aver visto o toccato con mano alcunché, bensì sulle umanissime parole e sui gesti concreti di persone «normali» dotate di risorse intellettuali e di patrimoni culturali più o meno ricchi, significa compiere il primo passo nella comprensione che la rivelazione, l’invito pressante all’amore rivolto da Dio al suo popolo e portato a compimento nella vita di Gesù e nella sua morte per gli altri «non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?... Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (Dt 30,12-14)».

Repubblica 2.4.11
Viviamo in una dittatura del calcolo pur vedendone i limiti Per questo abbiamo l'esigenza di rifondare l'umanesimo
Unire Illuminismo e Romanticismo è la sfida del secolo
di Edgar Morin

Viviamo in una dittatura del calcolo pur vedendone i limiti Per questo abbiamo l´esigenza di rifondare l´umanesimo
Unire Illuminismo e Romanticismo è la sfida del secolo

La cultura occidentale, da sempre prigioniera del mito della ragione, ha idealizzato una razionalità pura, radicalmente separata dalle emozioni e dalle passioni. Antonio Damasio ci ha però insegnato che la razionalità pura non esiste. Ogni attività razionale è sempre accompagnata da una dimensione emotiva. Anche il più razionale dei matematici è animato dalla passione della matematica. Non si può pensare – come faceva Hegel – che tutto sia riconducibile al dominio della ragione, al contrario dobbiamo essere coscienti che moltissimi aspetti del reale sfuggono alla comprensione razionale. Una razionalità aperta e non ottusa, dovrebbe cercare di comprendere e integrare quest´altra dimensione.
La nostra cultura, invece, ha sempre inseguito un illusorio dominio della ragione, favorendo – come ha ricordato Adorno – una razionalità puramente strumentale, spesso al servizio di progetti deliranti. Per questo, lo sviluppo della civiltà occidentale – tutto sotto il segno dell´efficacia economica e del dominio della natura – è spesso figlio dell´hybris nata da una ragione troppo sicura di sé. Lo sviluppo scientifico ed economico – che pensavamo essere perfettamente razionale – produce così risultati del tutto irrazionali, come ad esempio la distruzione della biosfera, che è la nostra condizione vitale. 
Questa visione riduttiva e semplicistica della razionalità è all´origine dell´odierna dittatura del calcolo, che il razionalismo occidentale considera una condizione necessaria e sufficiente per dominare la realtà, dimenticando che molti degli aspetti essenziali della nostra vita – l´amore, l´odio, il desiderio, la gelosia, la paura, ecc. – sfuggono del tutto ad ogni logica quantitativa. E perfino negli ambiti in cui il calcolo dovrebbe trionfare, ad esempio l´economia, la dimensione irrazionale è spesso decisiva, come ha dimostrato l´ultima crisi. 
A questa razionalità chiusa e ottusa, va contrapposta un´altra razionalità, aperta e autocritica, che è sempre stata una corrente minoritaria del pensiero occidentale. È la razionalità di Montaigne, ma anche di Montesquieu o Lévi-Strauss. Una razionalità critica che accetta l´idea che le sue teorie possano essere rimesse in discussione. Essa non solo riconosce i propri errori, come ha insegnato Popper, ma sa anche accettare ciò che sfugge al suo dominio e alla sua comprensione. «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce», ha scritto Pascal, ricordandoci l´importanza delle passioni, che devono essere integrate alle nostre modalità di conoscenza e di relazione con il mondo. Accanto alla lucidità razionale, occorre quindi valorizzare il potere conoscitivo delle passioni e delle emozioni (da sottoporre comunque a un controllo critico). Tra ragione e passione il dialogo deve essere continuo. Questa esigenza non è una novità. Basti pensare a Jean-Jacques Rousseau, che già ai tempi dell´Illuminismo sottolineava l´insufficienza del pensiero razionale e l´importanza dei sentimenti. Lo stesso vale per il romanticismo. 
Oggi sarebbe importante tenere insieme le verità dell´illuminismo e quelle del romanticismo. Purtroppo non lo si fa quasi mai, perché siamo tutti prigionieri di una logica binaria che domina anche il mondo dell´educazione, dove si privilegia la razionalità, in nome di un universo fatto solo di certezze e una visione riduttiva dell´uomo. In realtà, accanto ad alcuni arcipelaghi di certezze incontestabili, noi ci muoviamo in un universo fatto da oceani d´incertezza. Se veramente volessimo insegnare ai giovani la complessità della realtà umana, dovremmo spiegare loro che, accanto all´homo sapiens, figura sempre l´homo demens, giacché il delirio e la follia sono da sempre una delle polarità umane. Come pure, accanto all´homo oeconomicus, non manca mai l´homo ludens, quello che adora il sogno e il gioco. Insomma, l´homo faber non è solo un inventore di macchine, ma anche un produttore di miti e di credenze che non poggiano certo sulla razionalità. Riconoscere questa ricchezza e questa complessità è oggi una necessità, perché solo così sarà possibile affrontare le sfide della contemporaneità.
(testo raccolto da Fabio Gambaro)

Repubblica 2.4.11
Le cinque virtù dell’uomo nuovo
di David Brooks

L´Occidente è abituato a valutare gli uomini basandosi solo sulla razionalità, sull´efficienza e sulla competenza professionale. Ma la storia dimostra che le società complesse hanno bisogno di altri criteri: bisogna tener conto delle relazioni tra le persone, delle loro aspirazioni, dei loro sentimenti, tentando di unire illuminismo e romanticismo. Dalla sintonia al desiderio di trascendenza, ecco cinque punti per fondare un nuovo umanesimo

Dobbiamo puntare a una visione diversa più ricca e profonda Che tenga conto dell´importanza dei rapporti tra le persone
Per la nostra società l´essere umano è una creatura divisa in due: ragione e sentimento. Sappiamo parlare della prima ma siamo impreparati sul secondo
Dalla sintonia al desiderio di infinito ci salveranno le qualità emotive

Sono stato testimone di un buon numero di errori politici. Dopo il crollo dell´Unione Sovietica, gli Stati Uniti inviarono sul posto un gruppo di economisti, senza mettere in conto il basso livello di "fiducia sociale" di quel mondo. Al momento dell´invasione dell´Iraq, i vertici americani si trovarono impreparati di fronte alla complessità culturale di quel Paese, e ai traumi psicologici di assestamento dopo il regime di terrore di Saddam.
Avevamo un sistema finanziario basato sull´idea che i dirigenti delle banche fossero esseri razionali, non soggetti ad abbandonarsi in massa ad azioni insensate. In questi ultimi trent´anni abbiamo tentato in vari modi di riformare il nostro sistema scolastico, sperimentando di tutto, dai megaistituti alle miniscuole, dai charter ai voucher.
Ma per troppo tempo abbiamo eluso la questione centrale: quella del rapporto tra docenti e allievi.
Sono arrivato a credere che questi errori nascano tutti da un unico equivoco, dovuto a una concezione semplicistica della natura umana. La nostra società – e non mi riferisco solo al mondo politico, ma a numerose altre sfere – vede l´essere umano come una creatura divisa in due parti distinte: da un lato la ragione, di cui è giusto fidarsi; dall´altro le emozioni, che sono invece sospette. Si tende a credere che il progresso sociale sia portato avanti dalla sola ragione, nella misura in cui riesce a reprimere le passioni.
Questa concezione conduce a una distorsione della nostra cultura, che esalta il razionale e il cosciente, ma resta nel vago sui processi in atto negli strati più profondi. Siamo bravissimi a parlare di cose materiali, ma quando si tratta di emozioni la nostra abilità viene meno.
Cresciamo i nostri figli focalizzando tutta l´attenzione sugli aspetti misurabili attraverso i voti o i test attitudinali; ma spesso non abbiamo nulla da dire sugli aspetti più importanti, come il carattere o il modo di gestire i rapporti. Nella vita pubblica, le proposte politiche provengono spesso da esperti perfettamente a loro agio in correlazione con quanto può essere misurato, quantificato o aggiudicato, ma che ignorano tutto il resto.
Eppure, mentre siamo tuttora invischiati in questa concezione amputata della natura umana, vediamo emergere una visione nuova, più ricca e profonda, grazie all´opera di un gran numero di ricercatori delle più diverse discipline, dalla neuroscienza alla psicologia, dalla sociologia all´economia comportamentale e via dicendo.
Questo corpus di ricerche, disperso ma sempre crescente, ci richiama alla mente una serie di concetti chiave. Ricordiamo innanzitutto che la parte più importante della mente è quella inconscia, sede dei più straordinari prodigi del pensiero. In secondo luogo, l´emozione non è contrapposta alla ragione; sono anzi le nostre emozioni ad attribuire valore alle cose, e a costituire la base della ragione. Infine, noi non siamo individui che costruiscono relazioni reciproche, bensì animali sociali profondamente interpenetrati gli uni con gli altri, "emersi" proprio grazie alle nostre relazioni.
Alla luce di questo, la visione illuminista francese della natura umana, che pone in primo piano l´individualismo e la ragione, appare fuorviante, mentre sembra più vicina al vero quella dell´illuminismo britannico, che privilegia il senso sociale e non ci descrive come creature divise. Il nostro progresso non avviene solo grazie alla ragione e al suo dominio sulle passioni. Evolviamo anche educando le nostre emozioni.
Una sintesi di queste ricerche apre nuove prospettive in tutti i campi, dal mondo economico alla politica, passando per la famiglia. E porta a non privilegiare più lo sguardo analitico sul mondo, ma piuttosto il modo in cui le persone lo percepiscono per organizzarlo nella loro mente. Si guarda un po´ meno ai tratti individuali, e si presta maggiore attenzione alla qualità dei rapporti tra gli esseri umani.
Cambia anche il modo di vedere quello che chiamiamo «capitale umano». Nel corso degli ultimi decenni si è affermata la tendenza a definirlo nel senso più restrittivo del termine, ponendo l´accento sul quoziente di intelligenza e sulle competenze professionali – che certo sono importanti. Ma le nuove ricerche pongono in luce tutta una serie di talenti più profondi, che abbracciano sia l´aspetto razionale che quello emotivo, fondendo insieme queste due categorie:
1) Sintonia: la capacità di immedesimarsi nella mente altrui, prendendo conoscenza di ciò che ha da offrire.
2) Ponderatezza: la capacità di osservare serenamente i moti della propria mente e di correggerne gli errori e i pregiudizi.
3) Metis (da Metide, dea greca della saggezza, ndt) : la capacità di individuare gli schemi e i modelli di sistemi aggregati (pattern) comprendendo l´essenza delle situazioni complesse.
4) Simpatia: la capacità di inserirsi nell´ambiente umano che ci circonda e di evolvere all´interno dei movimenti di un gruppo.
5) Limerence (termine coniato dalla psicologa Dorothy Tennov per descrivere lo stadio finale, quasi ossessivo dell´amore romantico, uno sorta di ultra attaccamento, ndt): più che un talento, è una motivazione. Se la mente cosciente è avida di denaro e di successo, quella inconscia ha sete dei momenti di trascendenza in cui, mettendo a tacere la skull line - la «linea del cranio» - ci abbandoniamo perdutamente all´amore per l´altro, all´esaltazione per una missione da svolgere, all´amore di Dio. Un richiamo che sembra manifestarsi in alcuni con potenza molto maggiore rispetto ad altri.
Le tesi elaborate sul subconscio da Sigmund Freud hanno avuto effetti di vasta portata sulla società, oltre che sulla letteratura. Oggi, centinaia di migliaia di ricercatori stanno facendo emergere una visione sempre più accurata dell´essere umano. E pur essendo di natura scientifica, il loro lavoro orienta la nostra attenzione verso un nuovo umanesimo, poiché sta incominciando a porre in luce la compenetrazione tra emotività e razionalità.
Mi sembra di intuire che questo lavoro di ricerca avrà effetti di vasta portata sulla nostra cultura, cambiando il nostro modo di vedere noi stessi. E chissà che magari un giorno non riesca persino a trasformare la visione del mondo dei nostri politici.
(L´autore è un editorialista del New York Times, il suo ultimo libro, che ha ispirato questo articolo, si intitola "The Social Animal")
© 2011 The New York Times - Distributed by The New York Times Syndicate
(Traduzione di Elisabetta Horvat)


l’Unità 3.4.11
Bersani insiste:«Berlusconi confonde la sopravvivenza con la governabilità. Ora le urne»
Ma per andare ad elezioni prima dell’estate le Camere andrebbero sciolte entro metà aprile
L’opposizione vuole il voto Si gioca tutto in dieci giorni
Il leader del Pd denuncia la vendita in atto in Parlamento e torna a chiedere le urne anticipate. Udc diffidente sull’uscita di Montezemolo. Casini: «No ai tatticismi come i peggiori vecchi politici».
di S.C.

ROMA «Berlusconi potrà comprare uno, due parlamentari, ma tutti vedono che non c’è il governo, che da mesi non fanno nulla». Pier Luigi Bersani denuncia la compravendita in atto e torna a chiedere le elezioni anticipate. Domani si apre una settimana parlamentare decisiva per capire quanto sia solida la tenuta della maggioranza. Ma per il leader del Pd (che domani incontra i segretari di Cgil, Cisl e Uil per parlare della situazione economica del Paese e di come favorire la ripresa) non c’è bisogno di nessuna prova d’aula perché se anche il governo non dovesse andare sotto come è successo giovedì scorso, sarebbe la dimostrazione di una pura «sopravvivenza, che Berlusconi confonde con la governabilità». Per questo Bersani in sintonia su questo con il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini oltre che con quello dell’Idv Antonio Di Pietro e con i vertici di Futuro e libertà chiede il voto anticipato.
Non tutti nel Pd sono su questa posizione. Walter Veltroni fa notare che «nello scenario attuale» (che va dalla guerra in Libia alla crisi economica) le urne «per ora non sarebbero la scelta giusta» e che sarebbe invece auspicabile un nuovo governo di centrodestra senza Berlusconi o un governo di transizione per approvare una nuova legge elettorale e poi indire nuove elezioni.
Soluzione che lo stesso Bersani vorrebbe veder realizzata, e su cui ha lavorato nei mesi scorsi insieme ai leader del Terzo polo. Salvo poi dover riconoscere la difficoltà a realizzarla, visto che Berlusconi non ha la minima intenzione di farsi da parte e che sul piano dei numeri l’asse Pdl-Lega è sempre maggioranza sia alla Camera che al Senato. Dice allora Bersani rispondendo a chi gli domanda un commento sulla posizione espressa da Veltroni che il Pd «non è precluso a niente». Ma aggiunge: «Noto solo che dopo la nostra proposta di governo di transizione sono arrivati i Responsabili, che hanno in mano la situazione. Per questo, per non stare dove siamo, l’ipotesi è solo quella delle elezioni
anticipate, che sono meglio di questa situazione».
DIECI GIORNI PER LA SVOLTA
Il problema è che per votare prima dell’estate, ovvero entro giugno, le Camere andrebbero sciolte non oltre la metà di aprile. Il margine di tempo è troppo stretto, e a meno di novità eclatanti nella prossima decina di giorni, le urne non potranno che allontanarsi.
L’unica novità di queste ore è il venire allo scoperto di Luca Cordero di Montezemolo, che per la prima volta ha confessato apertamente la sua «tentazione di entrare in politica» e poi ieri assicurato (con un’intervista rilasciata alla rivista “Max” prima di partire con la famiglia per una vacanza a Dubai): «Non credo agli “one man show” né in azienda né in politica».
L’uscita del presidente della Ferrari però non viene accolta con unanime entusiasmo neanche all’interno del Terzo polo, che pure dovrebbe essere per lui quello di riferimento. Se il vicepresidente di Fli Italo Bocchino valuta «molto positivamente» un impegno politico da parte di Montezemolo, Casini lancia una sollecitazione non nascondendo però una certa insofferenza per i continui stop and go del presidente della Ferrari: «La società civile non può fare tatticismi come i peggiori vecchi politici dice il leader dell’Udc Montezemolo la smetta con i sì o i no, entri in campo, si muova, che tutti noi lo aspettiamo per cambiare le cose».

l’Unità 3.4.11
Primarie, gli iscritti Pd vogliono contare di più
Bersani: «Le consultazioni tratto distintivo del Pd ma hanno bisogno di una manutenzione» Sondaggio Ipsos sul partito. Per il 60% degli intervistati il progetto è «tuttora valido» Per l’83% serve più spazio per gli amministratori locali e rinnovare (63%) il gruppo dirigente
di Simone Collini

Le primarie come le facciamo noi? È, secondo la definizione dei docenti statunitensi invitati in Italia da Pier Luigi Bersani, il modello «a giungla». Lo raccontano i partecipanti al seminario organizzato a Roma dal Pd. Due giorni di conclave durante i quali i dirigenti democrats hanno discusso
a porte chiuse di sistemi democratici, ruolo dei partiti, formule organizzative. E che saranno alla base dei lavori di una conferenza nazionale sul Pd che verrà organizzata dopo l’estate. Per ora siamo ai contributi teorici. Ma alla fine del percorso si tramuteranno in modifiche concrete.
Sulle primarie e sul loro rapporto con elettori ed iscritti sono intervenuti per illustrare le esperienze dei loro paesi i due docenti di Harvard Daniel Ziblatt e Stephen Ansolabehere, il tedesco Frank Decker e il francese
Yves Meny. Soprattutto i due statunitensi hanno confermato che un modello di primarie aperto a tutti, senza nessun tipo di filtro, rischia di creare problemi. Spiegazione di cui non avrebbero neanche avuto bisogno i dirigenti del Pd, dopo il pasticciaccio di Napoli. Ma Bersani ha colto l’occasione per ribadire che da una parte le primarie sono «assolutamente confermate come tratto distintivo del Pd», dall’altra c’è la necessità di ragionare su «idee e proposte per una manutenzione di questo strumento in modo da non deteriorarlo». Ignazio Marino sottolinea che «le primarie si confermano un punto qualificante del partito» e anche il fatto che i professori di Harvard hanno evidenziato «lo straordinario vantaggio ad avere un albo degli elettori che è diverso dal semplice albo degli iscritti». Questione che non sfugge neanche a Bersani.
È probabile che nel partito si levino voci contrarie alle modifiche al modello attuale, ma Bersani ha già in mano uno strumento che dimostrerebbe che sono gli stessi iscritti ed elettori del Pd a chiedere cambiamenti. Si tratta di un sondaggio Ipsos illustrato proprio al seminario. Il 42% degli iscritti e il 55% degli elettori si sono detti favorevoli alle primarie aperte a tutti quando si tratta di scegliere i candidati sindaci, presidenti di Provincia o di Regione. Percentuali che scendono invece al 30% (iscritti) e 49% (elettori) quando si tratta di scegliere i dirigenti del partito. Sempre per eleggere i dirigenti Pd preferirebbero un Albo a cui iscriversi prima della convocazione delle primarie il 27% degli iscritti e il 24% degli elettori. Ma il 42% degli iscritti e il 23% degli elettori vorrebbero che si lasciasse ai soli tesserati la decisione.
Dal sondaggio sono emersi anche altri dati interessanti, a cominciare dal fatto che per quasi il 60% degli intervistati il «progetto» Pd è «tuttora valido» mentre per gli altri «non ha ancora espresso tutte le sue potenzialità». Secondo la ricerca, inoltre, il principale «punto di debolezza» del partito è «l’eccesso di divisioni interne», mentre quello di maggior forza è aver saputo individuare le priorità del paese e le proposte per affrontarle (la graduatoria delle tematiche ha ai primi posti precarietà, scuola e economia). La maggior parte degli intervistati (83%) chiede più spazio per gli amministratori locali perché più vicini ai cittadini e ritiene che pur a fronte dei progressi ci sia ancora molto da fare (per il 61% degli iscritti e per il 63% degli elettori) sul tema del rinnovamento dei gruppi dirigenti.

Repubblica 3.4.11
Bersani annuncia modifiche. Sondaggio Ipsos tra iscritti e elettori
Pd: "Primarie sì ma corrette" E la base chiede meno divisioni
Bersani: fallito il bipolarismo perché non c´è legittimazione reciproca

ROMA - Pier Luigi Bersani conferma le primarie. Per gli iscritti e per gli elettori. «Sono il nostro tratto distintivo», dice al seminario a porte chiuse del Pd su "Trasformazione del sistema democratico". Conquista così il plauso dei tifosi dei gazebo a cominciare da Ignazio Marino. Ma il segretario insiste per una correzione: «Va fatta una messa a punto. Sono uno strumento, non un mito», spiega. Il sondaggio Ipsos, illustrato nella sala dell´hotel Parco dei Medici a Roma, del resto non lascia spazio a dubbi. Il popolo democratico considera a larga maggioranza le primarie il mezzo migliore per scegliere sindaci, governatori e dirigenti di partito. Il progetto del Pd viene considerato valido dal 60 per cento degli elettori. Con un´alta percentuale che considera inespresse «le potenzialità» della nuova forza politica. E che in larghissima parte dice al gruppo dirigente: «Il principale punto di debolezza è l´eccesso di divisioni interne».
Il Pd ha invitato ospiti stranieri, americani e europei. Per due giorni si è chiuso in conclave. Qualche assenza di peso, Veltroni e Fioroni avevano altri impegni. Ma Modem era presente con Minniti. Gli invitati hanno raccontato le loro esperienze di primarie e di partito. Bersani ha tirato le somme esprimendo in maniera netta le sue idee. «Il presidenzialismo è legittimo, ma preferisco la formula del parlamentarismo rafforzato - dice il leader -. E considero il bipolarismo fallito, purtroppo. Da noi non funziona perché non c´è legittimazione reciproca». Annuncia che il Pd cercherà ancora di attuare l´articolo 49 della Costituzione. E la prossima settimana una proposta di legge firmata da Ugo Sposetti verrà discussa alla Camera. Invita le correnti a organizzarsi «altrimenti sono strutture verticistiche». Alla fine Bersani avverte: «Non illudiamoci che la storia del berlusconismo sia finita con la fine di Berlusconi. L´antipolitica è ancora in agguato».
(g. d. m.)

Repubblica 3.4.11
Sit-in e notti bianche: "Basta leggi ad personam"
Martedì la "giornata della Democrazia". Mobilitati anche terremotati e precari
In prima fila Libertà e Giustizia, Articolo 21 e Popolo Viola, ma anche il Pd scende in piazza
di  Carmine Saviano

ROMA - Una settimana di mobilitazioni. Per manifestare l´indignazione dei cittadini nei confronti del governo di Silvio Berlusconi. Una protesta diffusa, capillare, che aumenta di ora in ora. E che va dalle leggi ad personam, alla mancata ricostruzione de L´Aquila. Dagli attacchi alla scuola pubblica fino alla rabbia dei giovani precari. Un calendario denso di iniziative. L´appuntamento principale è fissato per martedì 5 aprile, quando la Camerà voterà per il conflitto di poteri tra Camera e pm sul processo Ruby. Articolo 21, Libertà e Giustizia e il Popolo Viola hanno indetto a Roma la "Giornata per la democrazia". Un incontro che ha già tante adesioni. Esponenti dei partiti, della società civile, del mondo della cultura e dello spettacolo. Insieme per superare i veleni del berlusconismo.
Occhi puntati, quindi, sulla "Giornata della democrazia". Nata, nelle parole del comitato promotore, "per continuare la mobilitazione contro il disegno di legge sulla prescrizione breve" che la Camerà voterà in settimana. L´obiettivo, è "evidenziare il tentativo della maggioranza di far passare l´ennesima legge ad personam. Un provvedimento che farà del premier un cittadino al di sopra della legge". Due i momenti: nel pomeriggio di martedì appuntamento in piazza Montecitorio. Poi dalle 20 alle 24 in piazza Santi Apostoli per la "Notte bianca della legalità". E si continua anche nei giorni successivi, con un presidio permanente all´esterno della Camera dei Deputati.
In piena mobilitazione anche il Partito Democratico. Si parte martedì 5 aprile alle 18, quando il segretario Pier Luigi Bersani e i deputati del Pd saranno al Pantheon, a Roma, per denunciare i nuovi provvedimenti ad personam e per difendere la dignità del Parlamento. Poi venerdì 8 aprile, dove in cinque città italiane si terrà la "Notte Bianca per la scuola e la democrazia". Incontri a Torino, Milano, Bologna e Napoli. E poi nella capitale, dove i democratici daranno vita a una fiaccolata che arriverà al ministero dell´Istruzione.
Sul versante delle associazioni, grande l´impegno di Libertà e Giustizia. Che con "Le piazze e le strade della Costituzione" affronterà, in tante città, i temi della Costituzione e della riforma della Giustizia. Sempre il 5 aprile appuntamenti a Padova e Perugia. Poi il 14 a Torino, e il giorno successivo a Milano, dove si affronterà il tema del collasso della riforma Brunetta. E fa il giro del web l´appello lanciato dal presidente onorario di LeG, Gustavo Zagrebelsky, "L´ora della mobilitazione". In cui si legge: «Questo è il momento della mobilitazione e della responsabilità. Chiediamo alle forze politiche di opposizione intransigenza nella loro funzione di opposizione al degrado».
E non è tutto. Mercoledì 6 aprile, in occasione del secondo anniversario del terremoto che ha sconvolto l´Abruzzo, nuovo sit-in, alle 14 in piazza Montecitorio. Si tratta de "La rivolta del silenzio per L´Aquila", che "dopo due anni, è ancora una città morta". Poi lo sciopero dei giudici di pace, dal 4 all´8 aprile. Infine, sabato 9. Quando in decine di città italiane i giovani precari scenderanno in piazza per "Il nostro tempo è adesso".

Repubblica 3.4.11
Casini: basta tatticismi Bersani: elezioni unica via
Il leader Udc: il presidente della Ferrari si muova e scenda in campo, lo aspettiamo

ROMA - Casini lancia un "affondo" a Montezemolo: «La società civile non può fare tatticismi come i vecchi politici - denuncia il leader Udc - si muova e scenda in campo senza remore. Montezemolo è parte di questa società civile ma la smetta di fare tatticismi - sì, no - entri in campo. Tutti noi lo aspettiamo per cambiare le cose perché le cose vanno cambiate altrimenti il paese va a rotoli». Ma è sull´altro fronte - quello di andare al voto - che Casini insiste. Così come Bersani. Il governo non c´è - ribadisce il segretario del Pd - e «Berlusconi potrà comprare uno, due parlamentari ma tutti vedono che non c´è il governo, da mesi non fanno nulla. Berlusconi confonde la governabilità con la sua sopravvivenza. Qualsiasi cosa è meglio di questa situazione, compreso il voto anticipato». Nelle file democratiche le posizioni sono diverse. Walter Veltroni ad esempio, pensa a un governo di transizione piuttosto che alla chiamata alle urne in una situazione così delicata sia dal punto di vista internazionale che economico. «Non siamo preclusi a nulla - commenta Bersani - Faccio però notare che dopo la nostra proposta di transizione sono arrivati i Responsabili che hanno dato una mano. Per non stare dove siamo l´ipotesi è solo quella di elezioni che sono meglio di questa situazione». E Casini: «Il paese va a rotoli, il governo non decide nulla, è meglio ridare la parola agli italiani».

il Riformista 3.4.11
Berlusconi vede i sondaggi sul Pdl e teme lka disfatta alle amministrative
In picchiata
Il grande test. Il premier si gioca molto alle elezioni di maggio. «Le vinceremo», ha detto ieri. Ma i dati sulle grandi città dicono altro. A Torino Fassino si avvia a vincere al primo turno. Bologna è persa. A Napoli la candidatura di Lettieri è
ostaggio delle faide locali. E l’incubo viene da Milano: alcune rilevazioni danno Pisapia davanti alla Moratti
di Alessandro De Angelis
qui
http://www.scribd.com/doc/52167496

il Riformista 3.4.11
Aspettando Cordero
Bersani è prudente. Veltroni è entusiasta
Per il segretario l’impegno in politica di Montezemolo è «positivo», ma «no a un altro uomo della Provvidenza». L’incontro con Franceschini
di Ettore Maria Colombo
http://www.scribd.com/doc/52167496

il Fatto 3.4.11
Italia finta e tragica
di Furio Colombo

Cocainomane, la parola - quasi un sussurro - è volata come un aero-planino di carta in mezzo alle grida e al tumulto dell'Aula, più una dichiarazione che una accusa. Era il giorno in cui, in questa Repubblica italiana, un ministro della Repubblica aveva dedicato al presidente della Camera l'espressione colorita “vaffanculo” che traduce bene, dato il luogo, I presenti e la circostanza, una situazione alterata. Frasi così possono apparire, come hanno detto con con prudente mitezza alcuni colleghi del ministro, “sopra le righe”. Ma non arrivano sole. Non in questa Italia. Non in questo Parlamento. Il giorno primo un altro Ministro, titolare del delicato incarico delle “Riforme” che comprende la grave e complicata crisi del momento, la migrazione, aveva fatto la sua dichiarazione da statista sui problemi della accoglienza. Aveva detto, in un suo espressivo dialetto, “fuori dalle balle”.
MA ANDIAMO di seguito. Un giorno parla il ministro delle Riforme, per dare indicazioni al Paese sulla immigrazione, un giorno interviene il ministro della Difesa, per rivolgersi in modo inconsueto al presidente della Camera. Un altro giorno tocca al ministro della Giustizia. Il ministro della Giustizia il 31 marzo è irritabile. Estrae dal banco la tesserina elettronica che consente di votare e la scaglia, con una certa precisione, contro i banchi dell'opposizione.
La giornata di cui stiamo parlando non è delle più serene, se pensate che, durante la discussione che ha preceduto l'ira di Alfano, la deputata Pd Argentin ha chiesto al suo assistente di applaudire un intervento che aveva condiviso. Sùbito due deputati della Repubblica, Osvaldo Napoli, uomo d'azione di Berlusconi, e Massimo Polledri, in servizio presso la Lega Nord, le hanno gridato, in due dialetti diversi: “Gli devi dire, a quello, che non deve applaudire. Non deve applaudire, hai capito?”. Il fatto è che Ileana Argentin, deputata disabile, non può muovere le mani. Il giovane assistente che le è stato assegnato provvede, su sue istruzioni, al voto, al telefono, e a manifestazioni di sentimenti come l'applauso. Subito la deputata Argentin, colta di sorpresa dalla veemenza di Napoli e Polledri (come se i due non fossero alla Camera, seduti a pochi passi, e consapevoli di quella necessaria assistenza) ha chiesto al presidente Fini di spiegare. Subito è partito un urlo, dal gruppone in tumulto della Lega Nord. Devono aver pensato che se puoi mandare “fuori dalle balle” dei naufraghi disperati e appena salvati dal mare, perché dovresti avere riguardo per una collega disabile? E hanno urlato (nomi non identificati dagli stenografi): “Non fate parlare quella handicappata del cazzo!”.
Intanto però - stesse ore, stessi giorni - sugli schermi tv si vede un uomo, che deve essere autorevole perché parla a una folla, e che annuncia tre cose che sembrano divertire un mondo e piacere a tutti: costruirà un campo da golf, toglierà tutte le tasse, pulirà in 72 ore l'isola. E ci tiene a far sapere che si è comprato, proprio li, una villa da due milioni di euro in modo da diventare cittadino di quel luogo. Non è vero, naturalmente. Infatti l'uomo allegro che sta dando tutti quegli annunci è Silvio Berlusconi , Primo ministro di questa Repubblica, nel suo “discorso di Lampedusa” (30 marzo) .
ANCHE PER i giornalisti più disciplinati delle varie tv riuscirà difficile truccare, ignorare o nascondere ciò che accade nell'isola un giorno, due giorni, tre giorni dopo il celebre discorso: immigrati che vengono lasciati ad attendere all'aperto, per ore, per giorni, molti senza cibo, tutti con poca acqua, tutti senza un luogo per dormire, tutti senza sapere il loro destino. Navi che non arrivano o, se arrivano, restano al largo in attesa o, se imbarcano, non sanno dove andare o, se vanno in qualche posto, è sempre lo stesso posto, Manduria, in Puglia, da cui entrano, escono, fuggono. E se li trovano, nessuno sa che cosa fare, perché Bossi e Maroni (Maroni sarebbe il ministro dell'Interno, ma è Bossi che comanda) hanno stabilito che alcuni sono “clandestini” (che per loro vuol dire criminali ) e alcuni sono “profughi”, che invece vanno accolti. Ma nessuno sa come distinguerli, e nessuno sa dove metterli, o li vuole accogliere. Berlusconi ha dato il suo contributo: ha detto: “sappiamo per certo che molti di essi sono fuggiti dalle carceri del loro Paese", come forma di raccomandazione allo spirito di accoglienza degli italiani. Infatti prontamente il buon cristiano Formigoni, famoso per avere lasciato falsificare le firme che hanno consentito l'elezione di una certa Nicole Minetti alla assemblea della regione Lombardia (per dettagli sentire, a Milano, il radicale Marco Cappato che ha scoperto lo strano imbroglio) il buon cristiano Formigoni, dicevamo, ha dichiarato, profittando del suggerimento Bossi-Maroni, “accoglieremo i rifugiati ma non i clandestini”. Qui però propongo di usare, fra tante parole volgari che abbiamo dovuto elencare, una parola innocente che è la chiave di tutta la vicenda. La parola è Villa. Villa come le 26 o 29 ville che Berlusconi possiede nel mondo. Villa come quella che, con disinvoltura da gioco a Monopoli, Berlusconi ha appena comprato su Internet prima del celebre discorso (e di cui si è subito liberato dopo il discorso).
Ma adesso mi riferisco alla signora Villa, anni 50, figurante in luogo di persona vera nel programma finto-giornalistico Forum condotto da Rita Dalla Chiesa per Canale 5. Il copione assegnato alla signora Villa, a cui è stato dato anche un falso marito e una falsa professione, come si fa nei film, prevedeva un appassionato discorso di ringraziamento al primo ministro che, dopo il terremoto dell'Aquila, era venuto in soccorso e provveduto a tutto, dalle case alle piscine, dal trattenimento alla felicità.
QUANDO la rivolta dei terremotati veri ha costretto attrice e conduttrice a rivelare il loro trucco di lavoro (non è vero niente ma deve sembrare vero ) è apparso subito chiaro che, se non esiste la signora Villa del programma finto giornalistico, non esiste neppure il primo ministro, così straordinario in bontà ed efficienza, a cui la signora Villa ha dedicato il suo ringraziamento pieno di dettagli e di precisazioni sull'aiuto ricevuto. E non esistono, dunque, i personaggi che popolano il presunto governo, di questo presunto presidente, che infatti continuamente decide, e solennemente annuncia, cose che non accadono mai. Sono tutti figuranti. Pensate alla “frustata economica” annunciata dopo un Consiglio dei ministri straordinario, in un Paese i cui dati peggiorano di giorno in giorno. Pensate alla finzione di guidare, o anche solo partecipare, alla coalizione militare che sta sta tentando di sostenere i ribelli libici.
AEREI ITALIANI che ci sono e non ci sono, sparano e non sparano, combattono e non combattono. Infatti è bene non dimenticare che l'Italia ha un trattato di fraterna cooperazione militare con la Libia che non è mai stato cancellato dal figurante che interpreta il ruolo di ministro degli Esteri. Nessuno di loro esiste o lascia una traccia che non sia il danno della finzione di governare. Recitano un copione come la signora Villa del programma Forum, che del resto è prodotto della stessa Casa, Mediaset. A diferenza, però, dei tipici programmi Mediaset, volgari, casalinghi, che fanno ridere, questo è un film tragico.

Repubblica 3.4.11
Un governo fantasma e un Paese allo sfascio
di Eugenio Scalfari

IL PRESIDENTE della Repubblica questa volta è andato più in là che in altre precedenti esternazioni. Ha raccomandato sempre moderazione di accenti, lealtà tra le istituzioni, condivisione di valori e di decisioni quando riguardino le regole di base della convivenza, ma giovedì scorso ha preso un´iniziativa insolita, un´iniziativa da grandi occasioni: ha convocato i rappresentanti dei gruppi parlamentari informandone per lettera il presidente del Consiglio. A tutti gli interlocutori che hanno varcato la soglia del Quirinale ha ripetuto il suo giudizio sulla situazione riassumibile in cinque parole da lui stesso pronunciate: «Così non si può andare avanti».
Le gazzarre avvenute negli ultimi giorni a Montecitorio sono state l´occasione determinante dell´intervento del Capo dello Stato, ma la motivazione di fondo è un´altra perché le gazzarre parlamentari non sono una novità e non avvengono soltanto in Italia.
La motivazione di fondo sta nella constatazione della paralisi parlamentare che dura ormai da molti mesi e rischia di durare ancora a lungo. Le opposizioni la denunciano da almeno un anno, ma ora l´ammette lo stesso presidente del Consiglio. Contrastano le motivazioni, ma entrambe le parti arrivano alla medesima conclusione.
Dunque il potere legislativo non legifera né esercita i poteri di controllo sull´operato dell´esecutivo che pure la Costituzione gli riconosce; il potere esecutivo dal canto suo usa in quantità anormale strumenti impropri: ordinanze, decreti, voti di fiducia, per abbreviare forzosamente il dibattito parlamentare.
In queste condizioni il Capo dello Stato, con la sua iniziativa di giovedì, ha suonato l´allarme; in termini calcistici si direbbe che ha diffidato i giocatori con il cartellino giallo facendo capire che se non cambieranno registro dal cartellino giallo si passerà al rosso, cioè all´espulsione dal campo di gioco. Nel caso nostro il cartellino rosso equivale al decreto di scioglimento delle Camere che la Costituzione prevede tra le attribuzioni del Presidente della Repubblica con la sola modalità di consultare i presidenti delle Camere per un parere non vincolante.
* * *
Temo che l´allarme e la diffida non produrranno alcun risultato perché ne mancano i presupposti e non da oggi.
I presupposti mancano dal maggio del 1994, da quando cioè il proprietario di un impero mediatico, immobiliare, commerciale, finanziario, bancario, calcistico, diventò capo d´un partito, presidente del Consiglio o alternativamente capo dell´opposizione e insomma protagonista della politica italiana. Questa presenza insolita, corredata da una serie di effetti a pioggia che sono stati cento volte elencati e analizzati, hanno determinato la spaccatura in due della pubblica opinione dando luogo a due diversi schieramenti e a due diversi blocchi sociali.
La dislocazione bipolare non configura di per sé nulla di terribile, anzi costituisce la normalità dei reggimenti democratici quando avvenga in un quadro di valori condivisi, ma non è questo il bipolarismo italiano nato in era berlusconiana. Non c´è nulla di condiviso né di condivisibile tra due concezioni opposte della democrazia, della politica, dell´economia, della cultura, dell´informazione. Perfino della libertà e perfino dell´eguaglianza.
Non sono due schieramenti alternativi ma antagonisti. Non vanno d´accordo su niente. Allo stato di diritto che fu recuperato nel 1945 dopo il totalitarismo fascista, il berlusconismo oppone vocazione autoritaria fondata sulla dittatura della maggioranza e rinforzata dal monopolio dell´informazione. L´elenco delle anomalie è lungo e ogni giorno si arricchisce di nuovi capitoli. Non è quindi il caso di ripercorrerlo. Lascio invece la parola ad una fonte non sospetta, Andrea Marcenaro, autore d´una rubrica che compare ogni giorno sulla prima pagina del "Foglio". Rubrica partigiana ma scapestrata e talvolta veridica. Nel caso nostro così racconta l´ultima comparsata di Berlusconi a Lampedusa.
«L´Amor Nostro rientrato a Roma dallo sprofondo dove aveva appena comprato una villa, ristrutturato un´isola, piantato ortensie, proposto pioppi sugli scogli, vivacizzato le facciate delle case, fondato un casinò, affittato sette navi per la "Crociera dello Sfigato", pescato due triglie minorenni nonché perforato 18 buche dell´istituendo campo da golf; ma che cazzo – esplose – il mio processo breve? Beh! Capita, Cavaliere, quando si sceglie un ministro che confonde la Difesa con l´offesa».
Così Marcenaro descrive la trasferta lampedusana cogliendo una parte del tutto. Il tutto è molto di più.
* * *
Dovrei ora parlare del processo breve, della responsabilità civile dei magistrati, della riforma della giustizia e del conflitto d´attribuzione che la maggioranza parlamentare intende sollevare con una votazione prevista per martedì 5 aprile, un giorno prima dell´apertura del processo che vede Berlusconi imputato per concussione e prostituzione minorile. Ma mi limiterò a quest´ultimo tema; sugli altri non c´è che ricordarne il contenuto con poche parole. Il processo breve è soltanto una prescrizione brevissima tagliata su misura per azzerare i processi che vedono Berlusconi imputato. La responsabilità civile dei magistrati è un nonsenso, viola il principio del libero convincimento del magistrato nella formulazione delle ordinanze e delle sentenze, pretendendo che quel principio sia sostituito con la prova raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio: sostituzione del tutto inutile visto che anche l´assenza di ogni ragionevole dubbio viene accertata attraverso il libero convincimento del magistrato. Del resto il nostro codice penale prevede già l´incolpabilità dei magistrati, procuratori e giudici, in sede penale con eventuali ripercussioni civilistiche di indennizzo, quando ricorrano gli estremi del dolo o della colpa grave. Aggiungere a queste norme già esistenti da tempo la possibilità di un´incolpazione civile per "violazione di diritti" significa semplicemente consentire a tutti coloro che perdono cause giudiziarie di aprire un percorso parallelo di controversie che produrrebbe il solo effetto di sfasciare la struttura giudiziaria già per varie ragioni insoddisfacente.
Resta il tema del conflitto di attribuzione che andrà in votazione martedì ed ha l´obiettivo di bloccare il processo "Ruby-gate".
Il conflitto d´attribuzione si verifica quando uno dei poteri dello Stato invada la sfera riservata ad un altro potere. In quel caso la competenza di giudicare chi sia l´invasore ed impedire che l´invasione avvenga spetta alla Corte costituzionale. Ma nel caso specifico chi ha invaso chi?
Il tribunale di Milano darà inizio mercoledì 6 aprile ad un processo penale. I legali dell´imputato contestano la competenza del tribunale di Milano e chiedono che il processo sia trasferito al tribunale dei ministri. Si tratta con tutta evidenza di un conflitto di competenza, non di invasione di un potere su un altro potere. Giudicare sulla competenza territoriale o funzionale spetta unicamente alla Cassazione. Quanto alla Giunta parlamentare delle autorizzazioni a procedere, essa ha il compito di accettare o respingere le richieste eventuali del tribunale o della procura. Nel caso specifico ha respinto la richiesta di perquisizione di un ufficio della presidenza del Consiglio situato in un palazzo di Milano Due. Infatti quell´ufficio non fu perquisito. E questo è tutto.
Vedremo come risponderà la Corte costituzionale alla richiesta del Parlamento di giudicare il conflitto di attribuzione. L´evidenza suggerisce una pronuncia di irricevibilità del ricorso perché – lo ripeto – si tratta di un conflitto di competenza all´interno della giurisdizione che spetta unicamente alla Corte di Cassazione.
* * *
Le vicende della Libia, dell´immigrazione, della lunga e sempre più agitata paralisi del Parlamento, dell´intervento ammonitorio del Capo dello Stato, hanno messo in ombra un altro tema che deve invece essere affrontato per quello che è: una sterzata estremamente grave della politica economica verso un intervento sistemico dello Stato nell´economia e nel mercato, in palese contrasto con la legislazione dell´Unione europea. Parlo del decreto promulgato giovedì scorso dal consiglio dei Ministri e voluto da Giulio Tremonti per impedire che un´impresa alimentare francese assuma il controllo della Parmalat.
Se fosse questo il solo obiettivo di Tremonti, potrebbe anche essere accettato sebbene si concili assai poco con l´auspicio più volte ripetuto di un aumento di investimenti esteri nel nostro paese. Siamo il fanale di coda nella classifica degli investimenti esteri rispetto agli altri paesi europei. Ce ne lamentiamo, se ne lamenta il governo, la Confindustria e gli operatori finanziari e imprenditoriali, ma quando finalmente qualcuno arriva dall´estero per investire i suoi capitali in iniziative italiane viene preso a calci e rimandato indietro dimenticando che oltre di essere cittadini italiani siamo anche cittadini europei. Il mercato comune non è nato per abolire frontiere e consentire il libero movimento delle merci, delle persone e dei capitali?
Ma Tremonti ricorda – ed ha ragione di farlo – che la Francia protegge la nazionalità delle imprese ritenute strategiche e quindi – sostiene il ministro – se lo fa la Francia perché non può farlo l´Italia? Difficile dargli torto. Bisognerebbe sollevare il tema nelle sedi europee e speriamo che venga fatto, per ripristinare il funzionamento del libero movimento degli investimenti contro ogni protezionismo. Comunque, su questo tema, Tremonti per ora ha ragione. Senonché...
Senonché la questione Parmalat è soltanto un pretesto o perlomeno un caso singolo dentro un quadro assai più ricco di possibilità. Infatti il testo del decreto non dice affatto che l´obiettivo è la difesa dell´italianità delle aziende nazionali. Dice un´altra cosa: autorizza la Cassa depositi e prestiti (di proprietà del Tesoro al 70 per cento) ad intervenire in caso di necessità per finanziare aziende ritenute strategiche per fatturato o per importanza del settore in cui operano o per eventuali ricadute sul sistema economico nazionale. Il caso Parmalat rientra in questo elenco ma non lo esaurisce perché il decreto va molto più in là. Praticamente resuscita l´Iri di antica memoria rendendo possibile che lo Stato prenda il controllo delle imprese che abbiano requisiti ritenuti strategici dal governo (da Tremonti) nella sua amplissima discrezionalità.
Tutto ciò avviene per decreto. Dovrà essere convertito in legge ma intanto produrrà effetti immediati sul mercato. Ma se il decreto non fosse convertito in legge? è realistico pensare che il governo, per evitare che quest´ipotesi si avveri, chieda per l´ennesima volta l´ennesima fiducia. Ma se in sede europea quella legge fosse bocciata in quanto aiuto indebito dello Stato ad un´impresa, vietato dalla legislazione comunitaria?
Ho detto prima che la Parmalat è un pretesto. Infatti il vero obiettivo di Tremonti è di far entrare lo Stato non soltanto nelle aziende che hanno necessità di finanziamento ma direttamente nel sistema bancario. In particolare nelle cosiddette banche territoriali: le banche popolari, le banche cooperative, le Casse di risparmio. Quelle più a corto di capitali, quelle alle quali la Lega guarda con occhi avidi, quelle che procurano voti, organizzano interessi e clientele. Una rete immensa di sportelli, di prestiti, di mutui. Di fatto la politicizzazione del credito.
È una delle più gravi malattie la politicizzazione del credito. Il decreto di giovedì scorso ne segna l´inizio. Che cosa ne pensano i partiti d´opposizione? Che cosa ne pensa il governatore della Banca d´Italia? Che cosa ne pensa il Quirinale?
La politicizzazione del credito è un altro modo per deformare la democrazia, forse il più insidioso insieme al monopolio dell´informazione. Chi può manipolare le notizie e il danaro è il padrone, il raìs, il Capo assoluto, circondato da una clientela enorme e solida. Inamovibile. O ci si arruola o se ne è esclusi. La clientela vota. Chi spera di entrarci se ancora non ne fa parte, vota nello stesso modo.
La chiamano democrazia ma in realtà è soltanto un grandissimo schifo.

il Fatto 3.4.11
Sull’antifascismo non si tratta
di Maurizio Viroli

L’idea di tre senatori del Pdl e di un “finiano” di presentare un disegno di legge costituzionale per abrogare la disposizione XII che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” sarebbe niente di più di un'ulteriore prova dell'ignoranza dei parlamentari della maggioranza di governo, se non fosse immorale e pericolosa.
Gli sconsiderati senatori sostengono infatti che la disposizione in questione è transitoria e dunque, dopo 65 anni, può essere allegramente abbandonata. Anche chi conosce soltanto i primi rudimenti di diritto costituzionale sa che quella disposizione non è transitoria perché non contiene indicazioni di limiti temporali ed è invece finale, e sta lì in quanto esprime un giudizio storico e morale inappellabile e irreversibile di condanna del regime fascista.
La ragion d'essere della nostra Costituzione è l'antifascismo. Tolta quella disposizione, tutta la carta fondamentale perde la sua fisionomia etica e politica. Ma questo è appunto ciò che il signore e i suoi servi vogliono: liberarsi dalla Costituzione, devastandola pezzo per pezzo. O noi ci liberiamo di loro, o loro si libereranno dalla Costituzione, ultimo baluardo della nostra libertà e dignità civile. Non c'è via di mezzo. Questo è il carattere dello scontro politico oggi in Italia. La ragione per cui l'idea di abrogare la disposizione XII è immorale la capisce anche un bambino: sarebbe un'offesa alla memoria di coloro che hanno lottato contro il fascismo e un'assoluzione dei crimini e delle responsabilità di quel regime. E' un'idea pericolosa perché il fascismo, come modo di sentire e di pensare, è nella nostra storia e fa parte del nostro spirito nazionale. E' dunque semplicemente folle indebolire le difese politiche e legali. Saggezza e rettitudine suggeriscono un comportmento esattamente opposto.
Chiunque abbia la possibilità di fare sentire la propria voce in Parlamneto, nelle piazze, nelle televisioni, sui giornali, ha il dovere di parlare per fare nascere un movimento di sdegno nobile e fermo contro questo nuovo attacco alla nostra libertà. Il prossimo 25 aprile sia l'occasione per dire al signore e ai suoi servi che per impedire un simile scempio siamo disposti a lottare con tutte le nostre forze.

Repubblica 3.4.11
Lo "tsunami umano" dentro la maggioranza
di Adriano Prosperi

Quello che noi italiani siamo costretti a vedere in questi giorni è uno spettacolo indegno, una farsa grottesca che va al di là di ogni immaginazione e farebbe ridere se gli attori non fossero drammaticamente persone in carne e ossa.
E se non fossero in gioco da un lato la credibilità e l´esistenza stessa del nostro Paese e dall´altro i diritti elementari alla vita, alla libertà, alla dignità umana di migliaia di profughi che hanno avuto il torto di credere che sotto la parola Italia ci fosse un Paese reale. Ricapitoliamo per cercare di capire i passaggi di questa storia: c´era un governo – anzi no, non c´era un governo, se la parola significa ancora qualcosa nella lingua corrente: c´era, diciamo, un ministro che circa un mese fa aveva messo in allarme l´opinione pubblica parlando di un´emergenza umanitaria in arrivo dall´altra sponda del Mediterraneo e di un´Italia lasciata sola dall´Europa davanti a una prova drammatica. Dopo quell´esternazione preoccupata era lecito immaginare che un ministro così consapevole dei suoi doveri e così gravemente preoccupato da una minaccia che dalle sue parole sembrava veramente apocalittica, si dedicasse subito a predisporre ripari adeguati: mezzi navali allertati a evitare la solita tragica tonnara di vittime, strutture di prima accoglienza da predisporre, sistemi di smistamento, luoghi di alloggio e di assistenza per vecchi e malati, donne e bambini. Era anche logico pensare che, quando la realtà ha ridimensionato l´annunciato flagello biblico le misure predisposte si sarebbero rivelate sovradimensionate rispetto ai bisogni reali. Certo, il presidente del Consiglio ha parlato di tsunami: ma ci voleva una straordinaria mancanza di senso del pudore e del ridicolo per usare una parola come questa dopo tutto quello che era appena accaduto in Giappone. Ma lo tsunami reale è avvenuto all´interno della compagine di governo, e soprattutto all´interno della Lega, la vera anima di un governo che quanto a funzione del governare è da tempo morto e defunto e resta in piedi solo perché gli avvocati del premier lo telecomandano come un pupazzo meccanico. Questo governo oggi è come la zattera della Medusa: sulla zattera c´è un ministro dell´interno che dopo aver lanciato l´allarme nulla ha fatto per predisporre le istituzioni dello Stato e allestire ordinatamente le risorse di ospitalità del paese. Mentre le tessere del domino dei tirannelli mediterranei cadevano l´una dopo l´altra e la minaccia della migrazione di popoli interi appariva imminente, niente è stato fatto. Il sistema Italia, quel sistema che aveva trionfalmente costruito in quattro e quattr´otto uno scenario (di cartapesta, va detto) all´Aquila per il G8, è crollato di botto: ma non per l´urto irrefrenabile di orde barbariche paragonabili a quelle che misero in ginocchio l´Impero romano, bensì per l´arrivo di poche migliaia di persone sbarcate a Lampedusa con quattro stracci e tanta voglia di abbracciare i fratelli italiani – quei fratelli che a Lampedusa hanno fornito loro acqua e abiti e calore umano. Ma subito ha trionfato sulle buone intenzioni tutta l´impreparazione, la superficialità, l´improvvisazione del sistema. Non dimenticheremo mai lo spettacolo di quella umanità abbandonata sugli scogli, coperta da teloni di plastica, costretta a defecare tra i cespugli, ridotta all´estremo dell´esasperazione dalla mancanza di acqua, di cibo, di riparo. E quel che continuiamo a vedere sta mettendo in ridicolo il paese intero: soste interminabili di navi fuori dal porto, in attesa di localizzazioni di campi che poi si manifestano come luoghi fintamente trincerati, da cui si lascia fuggire chi vuole sperando che quella umanità unita si sciolga come neve al sole e sparisca senza residui. Ma perché avviene questo? Colpa dell´Europa? Colpa della antipatica sorella latina che ci vuol fare un dispetto? No. La realtà è molto più semplice. Qui al centro di tanti drammi reali c´è un drammatico imbarazzo politico: quello di chi è diviso tra la responsabilità formale di ministro degli Affari interni del paese Italia e gli obblighi reali dell´uomo politico di un partito che raccoglie tanti più voti quanto più riesce a far crescere la febbre dell´intolleranza e del razzismo nel paese opponendo cittadini a clandestini, padani a meridionali. Gridare al lupo serviva egregiamente ai bisogni della Lega. Risolvere umanamente e civilmente il problema di qualche migliaio di persone in fuga dall´Africa, spartire i doveri dell´ospitalità equamente fra le regioni magari chiedendo di più alle più ricche lo metterebbe in urto col suo elettorato. E così le bandiere che hanno sventolato per il centocinquantesimo anniversario del paese Italia oggi vengono ammainate nella confusione generale. Il Paese muore: di ridicolo.

Repubblica 3.4.11
Il crocifisso, i valori e le polemiche
Risponde Corrado Augias

Caro Augias, credo anch'io, come lei, che la gioia della Chiesa sulla collocazione del crocifisso sia fuori luogo. La sentenza di Strasburgo depotenzia quel simbolo che diventa di fatto 'passivo'. La maggior parte degli allievi entrando in classe con indifferenza non si accorge nemmeno della presenza dell'immagine di Cristo. Dissento però dal suo scetticismo sul valore laico del crocifisso. Mi sento una discepola di Gesù, leggo e rifletto sui suoi insegnamenti, mi confronto con l'esempio della sua vita accogliendo l'esortazione di San Paolo agli Ebrei di "tenere fisso lo sguardo su Gesù" che "si sottopose alla croce" e "ha sopportato contro di sé una così grande ostilità da parte dei peccatori". Grazie a questi riferimenti tento di non perdermi d'animo. Ecco il significato del crocifisso per me, insegnante (precaria) di filosofia e storia nella scuola pubblica e giornalista free lance, ma soprattutto cittadina italiana rispettosa, e spesso orgogliosa, della Costituzione, alla ricerca della verità e aperta ad un possibile incontro con Dio: il crocifisso è per me simbolo di amore universale e disinteressato fino al volontario e sereno sacrificio di sé, monito costante a seguire le orme di Gesù, uomo ispirato dal divino, a comportarsi come lui con se stessi e con gli altri. Perciò ne difendo il valore laico. 
Alessandra di Guida

Le discussioni possono anche non essere risse, mantenere toni alti, utili alla riflessione. All'opinione di Alessandra di Guida, che totalmente rispetto, affianco quella di Fabio Di Stefano (isaia.fd@ libero .it). Scrive: « In discussione non è la libertà di insegnamento ma la libertà di apprendimento. L'insegnante (che non vede il crocifisso, è alle sue spalle ) ha già la sua visione del mondo. L'alunno, che deve formarsela, che sta lì per apprendere e capire, il crocifisso lo vede anche se non lo guarda». «Se è lì, avrà la sua importanza»: è un messaggio ineludibile e non so perché la Corte non abbia voluto vederlo. Da cristiano però mi avvilisce che il governo abbia sostenuto "quel simbolo non impone di essere seguito e nemmeno rispettato". Se le cose stanno così vorrei toglierlo: mi addolora che il simbolo del mio Dio sia ignorato; è S. Giovanni a dire che l'indifferenza è peggiore dell'avversione (Ap 3,15 ). Insistere per mantenerlo è una stupida prova di forza. I cristiani si riconoscono dall'amore per il prossimo, parole di Cristo, e l'hanno testimoniato pur usando come segni il pane, il pesce, l'agnello, la vite, l'acqua. Gli urlatori, difendendo sguaiatamente la croce, la voglia di farsi cristiano possono farla passare, non venire. Pessima strategia, per un cristiano». Nobili sentimenti entrambi quelli dei nostri lettori ma temo che l'idea della prova di forza sia comunque prevalente.
 
il Fatto 3.4.11
I pacifisti in piazza contro la guerra che piace a troppi
Gino Strada: chi la chiama missione umanitaria è un delinquente
di Paola Zanca

Petrolio, bombe, missione umanitaria. Le parole sono le stesse dell'Iraq, identiche a quelle dell'Afghanistan. Eppure questa volta, con la Libia, è difficile trovare qualcuno a cui venga in mente di contrapporle alla parola pace. La guerra che non è mai stata così vicina, non è mai sembrata così lontana. Lo si è visto bene ieri, nelle piazze che hanno ospitato la manifestazione pacifista voluta da Emergency. Mezze vuote, anche se Gino Strada, comprensibilmente, preferisce guardarle mezze piene. “Nonostante la disinformazione, la censura e il pensiero unico della classe politica siamo riusciti a mettere in piedi una bella giornata. Siamo usciti dal coro della propaganda bipartisan”.
GIÀ , perché la differenza con Baghdad, con Kabul, è che su bombardare Tripoli sono tutti d'accordo. Gheddafi è l'uomo nero, qualsiasi cosa purchè se ne vada. Nicola, 50 anni e un lavoro nella comunicazione, non ci gira intorno: “Il movimento pacifista è sempre stato debole. Prima era sostenuto da una parte politica che lo appoggiava non per convinzione ma per convenienza. Quella sull'Iraq era una manifestazione politica, questa è una manifestazione informata. Chi è in piazza oggi guarda il Parlamento italiano e non trova nessuno che lo rappresenti”. Non dev'essere anti-politica, se ragiona in maniera simile uno che la politica la fa di mestiere. Enrico Gasbarra, deputato Pd, si confonde tra la folla di piazza Navona. Di lui si può dire tutto tranne che sia uno dei ribelli del partito: ex Margherita, ex presidente della provincia di Roma, sempre allineato tranne che sulla Libia, dove si è astenuto: “Non mi piace questa ondata di moda sulla pace. Nel 2003 eravamo tre milioni. Sono tanti quelli che oggi non ci sono più. Se il Pd si candida ad essere una forza del prossimo secolo deve affrontare la politica internazionale in modo un po' diverso. Non ci si può salvare la coscienza con una risoluzione Onu”. Sotto l'egida delle Nazioni Unite, sembra meno ipocrita chiamarla “missione umanitaria”. Per Gino Strada tutti quelli che lo fanno sono “delinquenti politici”. Una ragazza tunisina, Lei-la , chiarisce che “criminale” è soprattutto “chi offre campi da golf quando c'è chi non mangia da due giorni”.
MA IN PIAZZA , in mezzo alle bandiere di Sinistra e Libertà, di Rifondazione, della Fiom, più che di Berlusconi, senti parlare ancora della sinistra “spezzettata”. “Si è persa l'organizzazione, i partiti facevano da amplificatore al passaparola. Ora su questi temi la discussione si è spenta”, dice Tilde, insegnante 53enne. Non c'è più nemmeno lo spauracchio del cattivo, George W. Bush. E poi Gheddafi è un dittatore: “Lo odiamo in tanti, ci mancherebbe. Ma la carta della discussione va giocata sempre, anche con un tiranno . Ma scusa, non ci abbiamo parlato finora? Non eravamo in affari con lui? E poi piuttosto che un'azione di terra, meglio che rimanga Gheddafi. Puoi farlo fuori in un altro modo, intanto non comprandogli il petrolio”. Dietro di lei, una sfilza di palloncini regge a mezz'aria la scritta: “Il fine non giustifica i mezzi”. Dal palco Gino Strada sta dicendo che “solo i vigliacchi” parlano di “utopia”. Che in Italia ci sono tante persone “che non hanno smesso di pensare”. Dario Vergassola aspetta che finisca di parlare. Poi dice al pubblico di guardare l'obelisco al centro della piazza. In cima c'è una colomba e un ramoscello d'ulivo: “Prima non c'era”.

l’Unità 3.4.11
L’altra Parigi: sotto l’asfalto la rivolta
Ramón Chao giornalista e padre di Manu con Ignacio Ramonet ha scritto una guida alla sovversione che ha abitato in città dal Medio Evo a oggi. Cos’è un «ribelle» e dove si nasconde ora la ribellione? L’abbiamo intervistato
di Maria Serena Palieri

Cos’è un ribelle per Ramón Chao? In altri termini cosa accomuna, per lui, Giacomo Casanova e il subcomandante Marcos, Pi-
casso e Zhou Enlai? «Il ribelle è colui che si scaglia contro le idee ricevute. Sia di destra, sia di sinistra. Ribelle per me è anche Ignazio di Loyola che sfida il pontefice e crea il Papa nero, e lo è Louis-Ferdinand Céline che sovverte lo status quo letterario. Ribelle è Casanova che infrange i tabù sessuali». La ribellione sembra un valore in sé, per Ramón Chao. Settantaseienne istrionico, scrittore lucido che però, nel parlare, ama esibirsi in stile vecchio compagno irredento (capace di spingersi fino sull’orlo della difesa di Saddam Hussein e Gheddafi, in quanto simboli anticapitalisti), il giornalista che ha avuto in sorte di diventare, da un certo momento in poi, genitore di un’icona musicale globale e trasformarsi nel «padre di Manu Chao», ha scritto a quattro mani con Ignacio Ramonet, terzomondista direttore del Monde diplomatique biografo di Castro e ispiratore di Attac, la Guida alla Parigi ribelle. Ecco 358 pagine che ci restituiscono un’immagine nuova, appassionata, ma anche decisamente divertente, della Città delle Luci: in senso spaziale con la Guida camminiamo di via in piazza, di targa in epigrafe nei venti arrondissement, da place Vendô me nel primo, al cimitero Père Lachaise nel ventesimo; in senso temporale ci muoviamo dal 1358, quando il prevosto dei mercanti Étienne Marcel capeggia la rivolta contro il Re, a oggi, quando Danielle Mitterrand ispira l’iniziativa contro la privatizzazione mondiale dell’acqua.
Per Ramón Chao, che oggi alle 17 nell’Officina 3 del «Garage», a Roma a Libri Come, presenta il libro, venerdì sera una consona festa di benvenuto: baguettes, brie e rosso Côtes du Rhone, musica in abbondanza da Piaf a Brel, ma anche Marseillaise, Internazionale e perfino il canto delle mondine con un’ispirata artista di strada, Betty Candelieri. E alla fine tutti spensieratamente a cantare, dimentichi del presente e, se non fisicamente, idealmente a pugno chiuso, nella libreria Fanucci. Che, in piazza Madama, è esattamente dirimpetto a una delle due Camere dove da mesi si consuma a freddo la morte della nostra democrazia.
Ma torniamo alla Guida. Che ci ricorda che Parigi è la città che ha inventato le barricate (dalle «barriques», le botti piene di pietre usate in piene guerre di religione, nel 1588, dai cattolicissimi contro i protestanti) e, poi, praticamente ogni prototipo di rivoluzione, dal 1789 al 1848 al 1870 al 1968. I classici del «no» sono tutti transitati lì e dalla Guida recensiti: Marx, Bakunin, Ho Chi Minh, Trotskij, Rosa Luxemburg. Per non parlar dei «loro», quelli della Bastiglia e i comunardi, Sartre e Beauvoir. Ma poi ci sono i dissacratori e i rivoluzionari in altri campi: Genet, Topor, Joyce... I geni che, benché morti, continuano a illuminarci nel presente: Guy Debord. E i vivi: Noam Chomsky, Marcos, la femminista Gisèle Halimi, García Márquez. Chao ci avverte che dentro, però, si annida anche qualche scherzo per il lettore: inutile andare a cercare la casa di Jusep Torres Campalans, pittore spagnolo inesistente ma preso in prestito dalla vera/finta biografia dedicatagli da Max Aub.
Seguire questa guida non significa compiere soprattutto un viaggio nostalgico nella memoria? «Certo, camminando per St. Germain des Près ritroviamo identici i buoni ristoranti di un tempo, da Procope troveremo la stessa gustosa bistecca. Quellochenonc’èpiùsonoiCamusei Barthes. Non bastano le pose da pensatore del guerrafondaio Bernard Henry Lévy a ricreare quel mondo» ribatte Chao. I «banlieusards», i rivoltosi del 2005 qui sono citati. Ma il pellegrinaggio ai loro luoghi non è compreso. Perché, appunto, quei luoghi sono banlieue, periferia. Dall’Ottocento con il barone Haussmann e i suoi viali (da noi seguito un secolo dopo da Mussolini & Piacentini) la ribellione è stata espulsa dal cuore cittadino. «E infatti è lì in periferia che è scoppiata l’ultima rivolta. I nostri casermoni sono pieni di algerini e tunisini. E ora il nostro governo teme che i fuochi che si sono accesi nelle loro terre d’origine, in Nordafrica, portino di nuovo il contagio» dice Chao. Salvo aggiungere che, a suo parere, i moti nei paesi arabi non andranno lontano: «Sono rivolte, non rivoluzioni».
Tra un omaggio di Chao a noi italiani in quanto compatrioti di Felice Orsini, l’anarchico del fallito tentativo di uccidere Napoleone III con una delle bombe «alla Orsini» sembra ideate da Mazzini («Diciamo che però morirono 15 persone incolpevoli» commenta) e un suo lapidario giudizio su quale sia oggi la città ribelle per antonomasia nel pianeta: «È l’Avana», scopriamo che questa di Parigi è, per la nostra Voland, ma anche per la corrispettiva editrice spagnola, solo la prima di una serie di guide alle «città ribelli». In cottura Londra e Barcellona.
E Roma? Con un millennio di dominio pontificio, bel problema. Ma no, c’è l’Appia antica con la crocefissione dei seguaci di Spartaco, c’è Giordano Bruno (e a rigore i protocristiani di epoca romana), ci sono la Repubblica del ‘49 e i moti garibaldini del 1867, i Gap e la Resistenza. C’è il popolo viola dei sit in di questi mesi proprio qui di fronte al Senato. A cercarlo, il fuoco rivoluzionario si trova. Anche negli stratificati millenni di una città torpidamente Eterna. Attenti, la ribellione cova sempre.

Corriere della Sera 3.4.11
Da Addis Abeba a Tripoli il colonialismo italiano
risponde Sergio Romano

Ho letto con emozione l’articolo di Fubini sui maratoneti di Addis Abeba. Mio padre, napoletano, classe 1908, mi narrava di una città foresta, sospesa a più di 2000 metri sul tetto del mondo, dove in un giorno solo si attraversano le quattro stagioni, a due passi dalle nuvole, solcata da fiumi caldi e freddi, uccelli colorati di giorno e lugubri risate di iene lontane la notte. Questo era il suo racconto di Addis Abeba, la capitale dell'Etiopia, vista dai suoi occhi dal 1935 al 1941. Sull’onda dei ricordi di mio padre sono sbarcato ad Addis Abeba e ho lavorato, faccio spettacoli per bambini presso l’Istituto italiano di cultura e la Scuola italiana. E'vero, nonostante gli errori e gli orrori ad Addis Abeba ci amano ancora. Usano le nostre parole: piazza e cerchioni, portafoglio e tunnel, ma anche bicicletta e lampadina... Nel 1960, alle Olimpiadi di Roma, avevo 4 anni ma ricordo nitidamente la commozione di mio padre nel vedere il minuscolo maratoneta Abebe Bikila trionfare scalzo nella gara più importante: la maratona. Da lì nasce la grande tradizione dei maratoneti etiopi. Paolo Comentale, Bari Caro Comentale, U n altro lettore, Giulio Guidotti, ci ha scritto una bella lettera (troppo lunga per essere qui pubblicata) sulle sue esperienze libiche, dapprima con la sua famiglia tra il 1946 e il 1952, poi come rappresentante della Fiat fra il 1972 e il 1980. Guidotti parla del buon ricordo lasciato dagli italiani, dei suoi compagni libici di scuola, dei molti educati in Italia che «si inserirono nell’amministrazione di re Idris a grande livello» . Le due lettere confermano che vi sono state nel corso del Novecento, non soltanto in Italia, due storie del colonialismo radicalmente diverse. Per gli scrittori della prima storia, il colonialismo italiano era stato umano, bonario, tollerante, educatore, costruttore di preziose infrastrutture, veicolo di civiltà. Per gli scrittori della seconda era stato feroce, razzista, vendicativo, insensibile alle esigenze della popolazione locale. La prima storia circolò sino alla fine degli anni Sessanta e dette a molti italiani la piacevole sensazione di potere pensare che il loro colonialismo fosse stato profondamente diverso da quello delle altre maggiori potenze imperiali. La seconda divenne verità all’iniziò degli anni Settanta ed è per molti versi il risultato del grande cambiamento culturale e generazionale del ’ 68. Come tutte le storie ideologiche anche queste sono state, nel momento della loro maggiore diffusione, inattaccabili. Chiunque osasse metterle in discussione avanzando dubbi o citando episodi che non andavano d’accordo con la tesi corrente, rischiava di essere considerato, rispettivamente, traditore della patria o fascista. Qualcosa del genere è accaduto a proposito del trattamento subito dagli ebrei in Italia. Fino agli anni Sessanta gli italiani venivano lodati e ringraziati per la loro umanità soprattutto durante la guerra. Dopo la fine degli anni Sessanta andò di moda sostenere che erano quasi tutti antisemiti. La sua lettera e quella di Guidotti, caro Comentale, hanno il merito di ricordarci che le storie ideologiche rispecchiano gli umori e i malumori del tempo, ma trasmettono una versione parziale e deformata del passato. Vi sono pagine della loro storia coloniale di cui gli italiani non devono vergognarsi. ©

Corriere della Sera 3.4.11
Gli Uffizi numero 2 Quei capolavori chiusi nelle stanze segrete
Da Botticelli a Tiziano, i tesori al buio
di Marco Gasperetti 
FIRENZE — Il paradiso dei quadri si materializza, improbabile, dopo 39 scalini di pietra serena al primo piano dell’ala di ponente degli Uffizi, sopra le Reali Poste, immediatamente dietro la Loggia dei Lanzi di Piazza della Signoria. «Qui, se ne avessero la possibilità, tutti i dipinti della Galleria vorrebbero essere custoditi» , dice il direttore degli Uffizi, Antonio Natali. Il motivo è semplice. In questi magazzini, rigorosamente chiusi al pubblico, 2.500 opere d’arte, spesso di straordinaria fattura, sono conservate al buio, senza sbalzi di umidità e di temperatura, coccolate da mani esperte. Siamo nelle stanze segrete del museo, la Riserva come l’ha ribattezzata il professor Natali, gli «Uffizi 2» , così affascinanti nella loro diversità strutturale. Cammini in corridoi e stanze divinamente sopraffatto da quadri sistemati su griglie di acciaio. Non collocati in sequenza, ma disposti a quadreria, come volevano i gusti medicei, uno sopra, l’altro sotto, in un puzzle indefinito. Così ti pare di muoverti in un atipico link dell’estetica che si sviluppa sino a tre metri di altezza. Opere bellissime che dal Trecento, passando dal Rinascimento arrivano sino alla contemporaneità. Camminando tra le griglie affollatissime non è difficile scorgere un’Adorazione dei Magi del Botticelli, incontrare la Fanciulla con scettro, corona e cuscino di Giovanni Martinelli, immergersi nel Concerto Campestre del Guercino, oppure rimanere stregato dalla Venere e Cupido con un cane e una pernice di Tiziano. «La Riserva non è immobile — spiega il direttore Natali —. Alcuni dipinti custoditi per decenni in questi magazzini andranno nella Tribuna, la parte più nobile degli Uffizi. Un esempio per tutti? La Venere della Pernice di Tiziano. Il gusto cambia e non è escluso che in futuro molte opere dei depositi possano trovare posto nella Galleria e dunque mostrarsi ogni giorno al pubblico. Come è possibile che altri dipinti vadano a riposarsi nella Riserva» . Un centinaio di quadri sono già pronti a «riveder la luce» e a giugno troveranno i riflettori delle otto stanze in via di allestimento dei Nuovi Uffizi, il grande progetto che darà un nuovo volto alla Galleria e ha fatto discutere con interminabili polemiche. Quale siano le opere prescelte resta ancora un mistero che sovrintendenza e direzione si riservano di svelare a breve. A Firenze è diventato anche un gioco intrigante. Chi andrà a mostrarsi nell’empireo vasariano? La Madonna della Loggia del Botticelli oppure la straordinaria Predella con tre storie di San Benedetto, tempera su tavola di Neroccio di Bartolomeo Landi? Oppure la gara vanitosa avrà come protagonisti Filippo Napoletano, Cristoforo Munari, Giuseppe Recco, Il Bamboccio artista della scuola del Caravaggio? Vedremo. Intanto, grazie all’intuizione del direttore Natali, alcuni «dipinti segreti» diventano protagonisti di mostre internazionali. Come quella ancora visibile in Cina. «Un successo straordinario con 1,2 milioni di visitatori— spiega il direttore degli Uffizi — e ancora manca Pechino che sta aprendo adesso» . Altre mostre monografiche, attingendo qui e là dal grande link estetico della Riserva, sono state realizzate in alcuni luoghi di origine dei pittori, dove spesso quelle opere sono state concepite, si sono materializzate attingendo ai paesaggi e alle atmosfere di una Toscana che di volta in volta ritroviamo anche nei grandi capolavori di Leonardo e Michelangelo. È stata creata anche una collana-evento intitolata «La città degli Uffizi» , un viaggio tra capolavori. Il futuro della Riserva non sarà commerciale. Non c’è bisogno di fare nuovi musei, troppi (anche importanti) somigliano a deserti, mentre gli Uffizi continuano a macinare record. In quei locali dell’ala di ponente dove nel Trecento c’era la zecca e, prima della mano del Vasari, uffici amministrativi, migliaia di opere continueranno a riposarsi in attesa di mostrarsi alle umane voglie di cultura. mgasperetti@corriere. it

Corriere della Sera 3.4.11
Arte, i  capolavori nascosti
Come mettere in mostra i depositi
di Stefano Bucci

Forse l’ideale (riveduto, corretto, ampliato) potrebbe essere quello messo già in pratica dalla Fondazione Vedova a Venezia: un binario con tanto di navette robotizzate, bracci estensibili e argani che prelevano le opere direttamente dall’archivio per esporle al pubblico, per un periodo limitato. Ma quello che vale per la piccola Fondazione veneziana non può certo valere per un megamuseo come gli Uffizi o come Brera. La questione dei «depositi» rappresenta, da sempre, uno dei banchi di prova più ardui per direttori e soprintendenti: al quale si cerca, da sempre, di trovare soluzioni praticabili. Dalla rotazione delle opere (molto praticata alla Tate Britain), alle esposizioni sui «mai visti» (gli Uffizi ne hanno appena dedicata una agli autoritratti al femminile ma succede anche al Louvre), dalle «mostre prestito» (in Cina o negli States) alla virtualizzazione delle intere collezioni (come ha dimostrato l’ultima edizione di Lu. Be. C. la fiera delle nuove tecnologie applicate all’arte) fino all’apertura di nuove sedi (dal Guggenheim all’Hermitage). Visti i recenti tagli alla cultura, forse la soluzione meno costosa potrebbe essere davvero quella dell’apertura e «messa in mostra» dei depositi. In teoria sembrerebbe improponibile impedire la visione della Venere del Botticelli o della Gioconda. Ma forse non sarebbe neanche tanto male, anche perché questa alternanza potrebbe essere utile, oltre che a fare conoscere i capolavori dimenticati (un po’ come già fanno per giardini e palazzi le giornate del Fai), a dare anche un po’ di respiro a quei «miti» stressati dalla presenza dei troppi ammiratori (l’umidità da sovraffollamento è uno dei grandi fattori a rischio per i dipinti). Perché in fondo c’è bisogno di novità anche per musei, accademie e gallerie. E il cambiamento non può essere rappresentato solo da caffetterie e bookshop, deve passare anche per le collezioni permanenti, non più intese come entità intoccabili e inamovibili. «Riappropriatevi del vostro museo» ha tuonato la critica Mina Gregori, qualche giorno fa, ai fiorentini. Perché non cominciare allora dai depositi? Iniziando a farli conoscere prima di tutto proprio agli indigeni, esponendoli sistematicamente, ad orari precisi, quasi scolastici. Lasciando la Venere e la Gioconda ai turisti che forse (è questo il dubbio) non si muoverebbero solo per vedere i depositi.

Corriere della Sera 3.4.11
La chimica della buona musica Un brivido attraversa il cervello
Einaudi: lo provai con gli ambulanti. Lo scienziato Zatorre: dopamina
di Cristina Marrone
Einaudi: lo provai con gli ambulanti. Lo scienziato Zatorre: dopamina
Il pensiero dipinge le nostre emozioni, la gioia, la speranza, la paura, l’amore. E gli scienziati oggi arrivano a colorare in molte tonalità i neuroni, creando «mappe» a colori del cervello che illuminano le risonanze magnetiche e le Pet nei laboratori in cui si cerca di fotografare il pensiero. Ma come nasce la creatività nel cervello? Perché una vibrazione dell’aria si trasforma in pensiero? Quali sono i meccanismi che ci fanno piangere o sorridere quando ascoltiamo musica? Forse una risposta a tutte queste domande non c’è. La stanno però cercando neuroscienziati di tutto il mondo che domani e dopodomani si incontreranno a Milano per la seconda edizione del Brainforum. Ospite atteso e «non scienziato» , il maestro Ludovico Einaudi, compositore e pianista che «duetterà» con il professor Robert Zatorre, canadese, uno dei massimi esperti di cervello e musica. È Letizia Leocani, ricercatrice al San Raffaele, a chiarire un aspetto fondamentale: «Nel cervello del musicista sono più sviluppate sia le regioni deputate all’elaborazione delle informazioni ed emozioni veicolate dalla musica, sia quelle che controllano le abilità motorie necessarie all’esecuzione» . La musica incuriosisce i neuroscienziati perché rappresenta un mistero ancora poco svelato. Le note musicali piacciono al cervello. «Determinate musiche producono in alcune aree cerebrali reazioni simili a quelle provocate da altre esperienze piacevoli come la droga, il cibo o l’attività sessuale; è curioso che un evento astratto e in apparenza privo di valori biologici produca una simile reazione» , sottolinea Zatorre. Una spiegazione scientifica non esiste. Forse la musica ha un’importanza maggiore di quella di un semplice fenomeno culturale? In effetti dove le note vivono senza intermediazioni intellettuali la capacità musicale sembra essere migliore. Ludovico Einaudi, che ama affiancarsi anche a interpreti di musica etnica, racconta la sua esperienza in Africa: «In Mali, così come in tutto il resto dell’Africa ma anche in altre culture del mondo, l’espressione musicale è come se non venisse filtrata da processi razionali ma sembra esistere un canale più diretto attraverso cui la musica fluisce in modo più naturale e senza freni culturali. Forse qui da noi ci si ferma troppo a pensare» . Il processo creativo è qualcosa di magico, che ogni volta trae ispirazione da nuove esperienze, sempre una collegata all’altra. È sempre Einaudi a parlare delle sue composizioni. «"Divenire"è stato in parte ispirato dai dipinti di Giovanni Segantini, in particolare dalle tecniche utilizzate per i suoi paesaggi, "Le Onde"invece è il risultato di un processo di trasformazione dell’omonimo libro di Virginia Woolf: volevo interpretare musicalmente i cambi di luce e il ritmo delle onde che sono descritti all’inizio di ogni capitolo. L’ispirazione arriva quando uno meno se lo aspetta e in modo irrazionale. Se proprio devo analizzare il processo potrebbe essere quando stimoli esterni colpiscono qualcosa dentro di noi che fa risuonare la nostra memoria creando un movimento interiore che attiva un processo creativo. Ricordo una volta quando ho sentito alcuni romeni suonare un brano per la strada: era una melodia irresistibile, sono rimasto paralizzato, non ho mai saputo di che cosa si trattasse, ma è stata un’emozione fantastica» . Einaudi ha sentito i «chills» , ossia i brividi provocati dall’ascolto di un brano musicale particolarmente emozionante. Zatorre li ha studiati e ha scoperto che ci sono due fasi in cui vengono rilasciate le molecole di dopamina: una prima del massimo picco di piacere generato dal brano, un’altra durante l’esecuzione. «La musica produce dopamina e dà piacere come quando si assumono sostanze stupefacenti. Gli effetti positivi sono gli stessi della droga, con la differenza che ascoltare un brano piacevole è un’esperienza positiva e non dannosa» . Cristina Marrone

Repubblica 3.4.11
L´uomo delle stelle
“Quel giorno tutta l´Urss volò"
di Nicola Lombardozzi

Cinquant´anni fa l´Urss lanciava in orbita il primo cosmonauta: Jurij Gagarin Così la Guerra fredda conquistava anche lo Spazio  NICOLA LOMBAROZZI

Alle 9.07 del 12 aprile 1961 un pilota ventisettenne, figlio di un falegname, di una contadina e del Partito, si trasformò nel primo essere umano lanciato nello Spazio. Cinquant´anni dopo, nel suo paese natale, i vecchi amici di Jurij Gagarin festeggiano la memoria dell´eroe sovietico che con una sola impresa sconfisse gli Stati Uniti. E ricordano con tenerezza le uniche parole che riuscì a pronunciare prima della missione: "Andiamo"
Manda giù quest´acqua fredda, Jurij. È leggera, ti fa volare. Cinquant´anni dopo, circondato da una scolaresca in gita, il vecchio pozzo di casa Gagarin conserva l´aria fiabesca e scalcinata della pianura russa. A questo mestolo di legno pensava il più famoso cosmonauta della storia la mattina del 12 aprile 1961 sulla rampa di lancio di Bajkonour, repubblica sovietica del Kazakhstan. Ne avrebbe parlato dopo con gli amici: della leggenda del pozzo e degli scherzi del papà falegname quando si mise in testa la folle idea di fare il pilota. Rito scaramantico e contagioso, se è vero che ancora oggi i cosmonauti russi, non più eroi ma impiegati dello Spazio, vengono a farsi una mestolata d´acqua prima di ogni missione.
Ma a bordo della sfera d´acciaio "Vostok 1" non c´era solo un semplice giovanotto di campagna. Jurij Alekseevic Gagarin, ventisette anni, era un tipo metodico che aveva imparato tante cose. Gli obiettivi tecnici della missione, con i complessi calcoli astronomici e ingegneristici, ma soprattutto quelli politici: dimostrare la superiorità planetaria del sistema sovietico. Fedele al Partito, sobrio, senza fame di ricchezze e protagonismo, era il candidato perfetto, selezionato tra i migliori aviatori dell´Urss. Così perfetto da battere nello spareggio finale il suo caro amico. A German Stepanovic Titov, insofferente alle gerarchie militari e un po´ troppo affascinato da vodka e ragazze, sarebbe toccata pochi mesi dopo la "Vostok 2". Una missione più lunga (oltre 25 ore) e difficile ma inevitabilmente ai margini dei libri di Storia.
Al figlio del falegname di Klushino toccava la Gloria. E lo sapeva bene. Quando sentì la spinta dei razzi e la Terra che si allontanava, alle 9 e 07, ora di Mosca, non gli venne altro da dire che «Andiamo!». Banale, forse, ma adesso quell´incitazione, tradotta in cinque lingue, è dipinta sul muro del piccolo museo della cittadina a quindici chilometri dal villaggio di Klushino, dove la famiglia Gagarin si era trasferita all´inizio degli anni Cinquanta. Poche migliaia di anime per un centro agricolo in disarmo che si chiamava Gzhatsk e adesso Gagarin gorod. Proprio qui, affidato a ex ragazze che quel giorno festeggiarono in strada il trionfo mondiale del loro compagno di giochi, sorge il più tenero museo dello Spazio del mondo. Casetta in legno e mattoni, macchie d´umido sui muri, cartoline, vestiti, fotografie. E una ricostruzione artigianale, mappamondo, filo di nylon, un po´ di stagnola, di quel volo indimenticabile. Il primo essere umano in orbita ellittica intorno alla Terra con un perigeo di 169 chilometri e un apogeo di 135, dicono gli esperti. Ma la signora Elèna, che fa da custode al sacrario in babbucce e foulard, ha ricordi meno tecnici: «Com´era bello! Avevo diciannove anni, scesi in piazza come tutti quando la radio diede l´annuncio. Parlava dell´orgoglio sovietico. E io mi sentivo più orgogliosa di tutti. Avevamo giocato, insieme, pescato i gamberi nel fiume. Eravamo andati tutti nello Spazio quella mattina».
Il viaggio durò appena un´ora e 48 minuti ma dietro gli oblò della Vostok 1, sembrò molto più lungo. Gagarin rimase sempre concentrato sul pannello di controllo sul quale avrebbe dovuto intervenire in caso di guasto. Nel fondo della navicella, come nel bagagliaio di un´auto a un picnic, c´era una scorta di tubetti contenenti misteriose paste simili a dentifricio. Erano i primi tentativi di cibo spaziale da usare nel caso di mancato funzionamento dei retrorazzi. I tecnici avevano calcolato che, in quella circostanza, la Vostok sarebbe rientrata in maniera "naturale" solo dopo dieci giorni. Ma non sapevano bene né come né dove. I tubetti, mai aperti, sono in mostra al museo di Gagarin. Furono tra gli oggetti che l´eroe fu più felice di donare ai posteri. Nel viaggio ebbe modo di dire cose che avremmo sentito da decine di astronauti ma che allora nessuno immaginava: «Sapevate che la Terra è blu? È una cosa straordinaria». Tono tranquillo da pilota che sa controllare le emozioni ma che cambiò nella fase di rientro. Pochi minuti difficili in cui ci furono problemi di sganciamento della parte strumentale che doveva alleggerire la navicella nel suo tuffo verso la Terra. Dondolii e oscillazioni terrificanti. Gagarin deve aver pensato ai suoi predecessori. Alla cagnetta Laika, destinata a morire, nello Sputnik 2 del 1957. Alle più fortunate bastardine Belka e Strelka rientrate sane e salve l´anno prima. E soprattutto a Ivan Ivanovic Secondo, il manichino a sembianze umane lanciato poco più di un mese prima, ultima simulazione in vista della storica missione. Ma la paura finì presto. A 7000 metri dal suolo, Gagarin fece l´unico gesto autonomo di tutta la missione. Azionò il seggiolino eiettabile e fu accompagnato da un paracadute rosso fino alle campagne a 30 chilometri dalla città di Engels.
A Gagarin gorod celebrano ancora il dopo. La casa che il governo regalò ai genitori. Appartamentino modesto ma con telefono e tv mai visti prima nella campagna sovietica. La Volga nera, auto da pezzi grossi del Partito, con cui Gagarin veniva spesso a trovare gli amici. Elèna si commuove: «Mai un attimo di arroganza, veniva a pescare anche quando fu nominato eroe dell´Unione sovietica». Il museo esalta i viaggi in cui l´eroe esportò la gloria patria. Il bacio della Lollobrigida a un festival del cinema. La foto del primo incontro con Krusciov, Gagarin in alta uniforme sul tappeto rosso. E le custodi ti indicano intenerite il particolare della scarpa destra slacciata: «Poverino era stanco, non era uno da cerimonie». E si glissa sulla parte più dolorosa. La strana storia della Soyuz 1, soprannominata «la bara volante» per i troppi errori di progettazione.
Un Gagarin stanco di cerimonie voleva andarci a tutti i costi. Fu nominato solo supplente di Vladimir Komarov che si schiantò in atterraggio pochi mesi dopo. Scioccato più dal rifiuto che dallo scampato pericolo tornò a volare sui Mig morendo in un incidente ancora molto discusso appena un anno dopo, il 27 marzo del ´68. Ma a Gagarin gorod il tempo si è fermato a quel 12 aprile. Quest´anno festa con giochi in piazza, alberi della cuccagna, e corse sui trampoli. E poi tutti a Klushino per un sorso di acqua miracolosa.

Repubblica 3.4.11
E Jfk disse ai suoi "Voglio la Luna"
di Vittorio Zucconi

Era il tempo del panico, nella grande villa bianca al centro di Washington. Niente, ma proprio niente, sembrava andare nel verso giusto in quella primavera del 1961 per John Fitzgerald Kennedy, colui che aveva vinto le elezioni da pochi mesi proprio martellando sul tasto del "missile gap", della superiorità missilistica dell´Unione Sovietica. Appena quattro anni prima, il bip-bip del primo satellite artificiale, lo "Sputnik", aveva trafitto con il suo monotono pigolio la superbia yankee. I vettori militari americani sembravano non riuscire a far di meglio che lanciare in risposta pompelmi meccanici di pochi centimetri di diametro mentre lo Sputnik aveva avuto già una massa di 83 chili.
e nella notte del 12 aprile 1961, erano le tre del mattino ora di Washington, Jfk fu svegliato dal funzionario di turno al Consiglio per la Sicurezza Nazionale con la notizia che un russo, chiamato Jurij Gagarin, aveva fatto un giretto attorno al nostro pianeta, primo essere umano a raggiungere la Frontiera oltre la gravità terreste, con la falce e il martello dell´Unione Sovietica dentro una palla di cannone chiamata, polemicamente, "Oriente 1".
Fu come se il tempo della politica, della Guerra Fredda e delle decisioni avesse conosciuto la stessa accelerazione violenta da 0 a 27 mila chilometri dei potentissimi razzi "Semyorka" R7, sparati dalla base di Bajkonour nel Kazakhstan per lanciare Gagarin come un moderno Barone di Muenchausen. Se ancora Eisenhower aveva potuto licenziare lo "Sputnik" come «una pallina sparata in cielo», la presenza di un essere umano volante a 300 chilometri d´altezza, e di un "homo sovieticus", aveva cambiato tutte le regole del gioco. «Space needs a face» dicevano alla neonata Nasa, lo Spazio ha bisogno di una faccia, per colpire l´immaginazione del pubblico, un volto di uomo, non i musi delle cagnette o degli scimpanzé che già erano stati crudelmente sacrificati sull´altare dello Spazio. Kennedy era nel panico. Né il suo umore migliorò di molto quando, appena cinque giorni dopo lo shock Gagarin, il 17 aprile una banda di mercenari male armati e peggio sostenuti naufragarono sulla Playa Giron cubana, la baia dei Porci. Niente, proprio niente, andava per il verso giusto. «Trovatemi qualcuno che sappia come rispondere a questa impresa sovietica, chiunque, non mi importa se sia l´usciere, purché abbia l´idea giusta», si agitava Kennedy. Invano i generali e gli scienziati cercarono di spiegargli che Gagarin non significava nulla, che era uno «stunt», un effetto speciale propagandistico senza alcun senso militare o scientifico, perché la potenza mostruosa dei vettori russi era dettata dalla necessità di portare in orbita ordigni nucleari primitivi e pesantissimi, mentre il Pentagono aveva scelto la direzione opposta, bombe sempre più miniaturizzate, per essere lanciate da missili sempre più piccoli. «Il resto del mondo ci guarda, il Terzo Mondo, che non sa nulla di spinta, portata, vettori, orbite, dirà che gli Stati Uniti stanno perdendo la propria superiorità sull´Urss» si disperava Jfk. L´idea venne a lui stesso, a Kennedy, e fu infatti un´idea politica, una grandiosa sfida propagandistica, non tecnologica. Sei settimane soltanto dopo il volo del figlio di un falegname e di una contadina russi, cresciuto in una comune agricola e dunque perfetto esemplare dell´"uomo nuovo" realsocialista, Jfk si presentò il 25 maggio davanti alle Camere riunite. Annunciò che l´America avrebbe fatto molto di più, che avrebbe smascherato il bluff di Krusciov e sarebbe andata, con la propria faccia, non con robottini, oltre Gagarin. Sulla Luna. Soltanto in privato, per non perdere il posto che da pochi mesi gli era stato assegnato proprio da Kennedy, il direttore della Nasa James Webb, osò dire quello che molti nella comunità dei "rocket scientists" della scienza missilistica, pensavano: «È un´idiozia, un´impresa che sfascerà i nostri bilanci e toglierà miliardi a ricerche ben più importanti, è un esercizio di puro machismo da ragazzini che giocano a vedere chi fa pipì contro il muro più da lontano e più in alto». Qualcuno rifiutava di crederci. Negli stadi di calcio italiani, gli altoparlanti blateravano le note di una canzone sarcastica, Tango Bugiardo, Tango Gagarin. Come sarebbe accaduto per l´allunaggio, anche per la "Vostok 1" abbondavano gli scettici e gli increduli, per motivazioni ideologiche. Otto anni dopo, nel 1969, tanto l´intuizione di Kennedy quanto i timori di Webb si sarebbero avverati, con il piedone di Neil Armstrong nelle polvere del Mare della Tranquillità. Senza Gagarin non ci sarebbe molto probabilmente stato un uomo sulla Luna. Fu uno sforzo industriale, scientifico e finanziario colossale. Costò oltre 100 miliardi in dollari di oggi, ma l´America aveva dimostrato a tutti chi fosse il bambino che la faceva più lontano. E la Nasa, dopo avere sbattuto con il muro dell´«e adesso che facciamo?», avrebbe cominciato il languore della crescente indifferenza dei contribuenti. La stessa trappola, lo stesso «stunt» nei quali ora indiani e cinesi stanno cadendo, per partecipare anche loro al gioco del bullo spaziale. Un rito di passaggio dall´infanzia alla maturità.
Quando la risposta definitiva alla sfida di Gagarin si consumò nel 1969, i duellanti originali nel "mezzogiorno spaziale" non erano più ai comandi. Kennedy sepolto ad Arlington. Krusciov defenestrato per avere tentato un altro bluff missilistico, a Cuba. Ben altre notti di panico avrebbero scosso gli inquilini della Casa Bianca. Al mondo restarono circuiti integrati e processori microscopici, chiusure al velcro e omogeneizzati per neonati, purificatori per l´acqua e l´aria, lenti antigraffio e moonboot isolanti. E il ricordo di un decennio nel quale i Grandi della Terra si comportavano come maschietti contro il muro dell´ultima frontiera.

Repubblica 3.4.11
Corrispondenze da una Mosca col naso all´insù
di Arrigo Levi

Durante la notte fra l´11 e il 12 aprile 1961 su Mosca era caduta la neve, e la città si era svegliata tutta bianca. Ma il sole era presto comparso in un cielo sgombro di nubi e l´umida neve dell´aprile russo si era tutta sciolta. Mosca era splendida. La notizia del lancio di una nave spaziale chiamata "Vostok" (Oriente), con a bordo un "cosmonauta" chiamato Jurij Alekseevic Gagarin, si ebbe alle 10 dalla radio, dalla voce solenne di Jurij Levitan, la voce che aveva dato al mondo la notizia della resa del nemico a Stalingrado.
Subito dopo mi arrivò all´Hotel Budapest, dove alloggiavamo, la telefonata di Gaetano Afeltra, direttore di fatto del Corriere d´Informazione: «Arrighe, a mezzogiorno voglio una grande cronaca di cose viste». Così, interruppi a un certo punto l´ascolto e uscii per strada: ma Mosca era ancora tranquilla, con piccole folle silenziose raccolte attorno agli altoparlanti disposti in tutta la città.. Solo dopo l´annuncio del felice ritorno alla terra del primo cosmonauta, un´ora e 28 minuti dopo il lancio, una folla immensa si riversò nelle strade e nelle grandi piazze - Piazza del Teatro, della Rivoluzione, del Maneggio - che conducono alla Piazza Rossa. Una folla che fino a notte ballava e cantava, gente che si abbracciava e baciava, donne che piangevano di gioia. Tre giorni dopo, con l´incontro a Mosca fra Gagarin e Krusciov, la Piazza Rossa conobbe la manifestazione più grandiosa dal giorno della vittoria. In verità eravamo tutti un po´ commossi. Nel suo discorso Krusciov paragonò Gagarin a Colombo, disse che l´Urss era «generosamente disposta a condividere i risultati della sua superiorità scientifica e tecnologica con tutti coloro che vogliano vivere in pace con noi», ma aggiunse: «Questi risultati ci danno una colossale superiorità dal punto di vista della difesa del nostro paese: coloro che affilano i coltelli contro di noi sappiano che Jurij è stato nello spazio, ha visto tutto e sa tutto».
Ma nel suo discorso Krusciov non mancò di parlare anche dei problemi "terrestri" dell´Urss: in aprile le scorte di viveri erano quasi finite, non erano ancora arrivati i nuovi prodotti primaverili, al "Zentralnij Rynok", il Mercato Centrale, mia moglie faceva lunghe code per le patate. L´Urss era potente e povera. (Per avere poi ricordato questa realtà, le Izvestia mi dedicarono un corsivo che mi definiva «un maiale che fruga nella spazzatura mentre tutti alzano lo sguardo al cielo»). Quando, ad agosto, sull´onda dei trionfi spaziali, Krusciov presentò il Programma Ventennale che dava per prossimo il sorpasso di un Occidente in rovina da parte di un´Unione Sovietica divenuta il Paese più ricco del mondo, annunciò soltanto sogni che non si realizzarono mai. Mentre il volo di Gagarin convinse Kennedy a lanciare il piano che portò in una decina d´anni al primo allunaggio. Ma quel giorno d´aprile tutto sembrava possibile alla «Russia dei lapti» (le povere calzature del contadino russo: così la definì con orgoglio Krusciov), divenuta una superpotenza spaziale (e militare). Oggi la guerra fredda è finita insieme con il comunismo, e grazie alla collaborazione fra Russia, Stati Uniti ed Europa lo spazio è di casa. Quel breve volo di Gagarin può sembrarci poca cosa. Allora fu una "svolta storica", per il mondo intero. Quando a mezzogiorno telefonai all´Informazione col mio pezzo pronto, Gaetano mi chiese: «Arrighe, hai scritte?». Ma certo, risposi. «Allora butta via tutto, parla, parla, dì tutto quello che ti passa per la testa». Ovviamente obbedii.
L´autore è stato corrispondente da Mosca del Corriere della Sera dal 1960 al 1962

Terra 3.4.11
Fukushima, trovata la falla nel reattore 2
di Federico Tulli
qui
http://www.scribd.com/doc/52167459