martedì 5 aprile 2011

Il Sole 24 Ore Domenica 19.4.09
L’inedito di Franco Volpi censurato dal figliastro
E alla fine dico: «Good-bye Heidegger»
di Franco Volpi



Riportiamo qui di seguito parte di una lettera di Franco Volpi, morto prematuramente martedì scorso, ad Armando Massarenti - nel quadro di uno scambio in occasione della pubblicazione del volume di scritti heideggeriani che Massarenti aveva curato per il Sole 24 Ore - in cui lamentava la censura degli eredi sulla introduzione ai Beiträge di Heidegger (Contributi alla filosofia, traduzione di Franco Volpi e Alessandro Iadicicco, Adelphi 2007):
«Caro Massarenti, (...) Al mio ritorno [da Santiago del Cile] ho parecchie cose da raccontarti: la mia introduzione ai Beiträge (che stanno uscendo da Adelphi) è stata considerata troppo critica dal figliastro di Heidegger e censurata. È ancora in corso una trattativa per tentare di salvare capra e cavoli (dunque ti pregherei di mantenere ancora assoluto riserbo sulla questione), ma davvero mi viene voglia di seguire l'esempio di Maurizio Ferraris e scrivere un libello: Good-bye Heidegger. A Santiago del Cile, dove vado per una conferenza di chiusura al congresso di fenomenologia ed ermeneutica, volevo parlare di Heidegger e Wittgenstein, ma ho deciso cambiare tema e ho dato come nuovo titolo proprio questo: "Good-bye Heidegger. La mia introduzione censurata ai Beiträge"».
Era l’11 ottobre 2007. Qualche tempo più tardi, il 18 novembre, dopo ulteriori scambi, Franco Volpi spedì a Massarenti il brano più significativo che era stato censurato, rimasto finora inedito. Lo proponiamo qui per la prima volta. È un paragrafo dell’introduzione ai Contributi alla filosofia intitolato «Naufrago nel mare dell'Essere».


I «Contributi alla filosofìa»? «Il diario di un naufragio. Avventurandosi troppo in là nei mari dell'Essere, il suo pensiero va a fondo»
L’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Heidegger, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi alla filosofia. È forse un caso che Heidegger ponga in esergo ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961) una epigrafe tratta dall'Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Contributi? Questi terminano con una "fuga" che tratta dell'ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione: «Quasi due millenni e non un solo nuovo dio!».
Forse Heidegger non è più riuscito a risollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche. Nella triste luce dell'esaurimento, l'Essere - quest'ospite solitamente fugace dei nostri pensieri - rimane per il grande Heidegger l'ultima chimera che valga la pena di sognare. Tutti i suoi sforzi mirano a quest'unica meta, l'Essere, ma i sentieri si sono interrotti. La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo "procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofìsta, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose - l'Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo - soffiando sul mito greco-germanico dell'originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l'aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell'etimologia si rivela un abuso (...). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l'uomo funge da pastore dell'Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell'ultimo Heidegger, bensì l'ammirazione supina e spesso priva di spirito critica che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Certo, i comuni mortali spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero allora davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell'Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime.

l’Unità 5.4.11
In rivolta. Oggi giornata di mobilitazione civile e politica contro il colpo di mano sulla giustizia
Costituzione, resistenza e unità: le parole d’ordine per dire «no» alle leggi ad personam
Zagrebelsky: «Questo è il momento della mobilitazione e della responsabilità»
Democrazia day una luce nella notte della Repubblica
Mentre il Parlamento torna ad occuparsi delle leggi ad personam la società civile scende in piazza. Dalle 14 sit in davanti a Montecitorio, il Pd alle 18 al Pantheon e dalle 20 in piazza SS. Apostoli.
di Maria Zegarelli


Tre parole d’ordine: Costituzione, resistenza, unità. Tre parole d’ordine e una bandiera, il tricolore, la stessa del 12 marzo, lunga 60 metri, per dire «no» alle leggi ad personam, al Parlamento piegato alle esigenze di un presidente del Consiglio che ormai da anni è concentrato soltanto a trovare il modo di non farsi processare, di non far partire o uccidere nella culla i procedimenti contro di lui. Democrazia day e poi notte bianca per la democrazia: è questa la risposta che arriva dalla società civile ai deputati della maggioranza che proprio oggi a Montecitorio ricominceranno da lì, ossessione eterna, i loro lavori: dalla prescrizione breve per cercare di fermare il processo Mills dove Berlusconi è imputato come corruttore, per passare poi al conflitto di attribuzione sul caso Ruby, alla vigilia dell’inizio del processo a Milano per le notti hard del premier con una minorenne. Nel frattempo i fedelissimi del presidente del Consiglio stanno pensando ad un’altra leggina da far ingoiare ai parlamentari: l’ improcedibilità nei confronti del premier, così da eliminare all’origine qualunque problema. Possono farcela, perché hanno i voti sono maggioranza e allora è la piazza il luogo nevralgico e simbolico della protesta. Popolo Viola, Articolo 21, Giustizia e Libertà, esponenti di Pd, Idv e Fli, saranno in piazza, per dire «no» mentre Pdl e Lega, con la complicità dei Responsabili faranno del tutto per dire «sì» in Parlamento. Un sitin davanti a Montecitorio a partire dalle 14 e poi dalle 20 alle 24 in piazza Santi Apostoli mentre alle 18 il Pd si incontra al Pantheon. «Questo è il momento della mobilitazione e della responsabilità. Chiediamo alle forze politiche di opposizione intransigenza nella loro funzione di opposizione», rilancia Gustavo Zagrebelsky dal sito di Libertà e Giustizia, dove i commenti sono tantissimi.
IL SEGNALE AL PALAZZO
Gianfranco Mascia, del Popolo Viola commenta: «Siamo convinti che queste mobilitazioni di cittadini siano indispensabili per dare un segnale chiaro: in Italia la maggioranza degli elettori vuole che il Parlamento si occupi dei problemi reali e non degli interessi del capo». «Solo una tappa di un percorso comune verso la legalità repubblicana. Un percorso che vogliamo condividere con uno schieramento il più ampio possibile» dicono Sandra Bonsanti, di Giustizia e Libertà e Beppe Giulietti di Articolo 21. Tantissime le adesioni tra cui Roberto Zaccaria, Vincenzo Vita, Antonio Di Pietro, Fabio Granata e Filippo Rossi, (Fli), Giovani per la Costituzione, il Comitato “il nostro tempo è adesso” Sofia Sabatino per la Rete degli studenti medi; Giorgio Paterna per l’Unione Universitari, Radio Articolo 1, Ottavia Piccolo.
Stasera a partire dalle 20 in piazza Santi Apostoli ci saranno artisti, attori, musicisti e politici, un vero e proprio happening, 5 minuti a intervento, che vedrà alternarsi al microfono Dario Vergassola, Giobbe Covatta, Valerio Mastrandrea, Dario Fo, Franca Rame e Moni Ovadia, Rosy Bindi, Antonio Di Pietro, Angelo Bonelli, Paolo Cento e Oliviero Diliberto. La «Dies Irae. resistenza musicale permanente» canterà l’Inno nazionale e il Va’ Pensiero.
A Firenze alcuni attivisti suoneranno “la sveglia della democrazia” mentre a Perugia si parlerà dei costi della corruzione e a Padova si allestiranno banchetti per spiegare la riforma della Giustizia secondo il ministro Angelino Alfano. Collegamento Aquila-Roma, annuncia Stefano Corradino di Articolo 21 che oggi sarà in Abruzzo, per costruire «un “ponte” in diretta telefonica con la manifestazione di Roma auspicando che a l’Aquila il 6 aprile ci siano anche numerosi media per risarcire quei territori che furono usati per la propaganda e in molti casi cancellati quando hanno cominciato a rivendicare i loro diritti».
«Sarà una grande festa assicura Gianfranco Mascia del Popolo Viola davanti ad un luogo simbolico, la Prefettura di Roma. Noi crediamo nella legalità e tra i difensori di quest'ultima ci sono i prefetti. La difesa della Costituzione deve essere una cosa gioiosa, non come le tristi iniziative organizzate dal centrodestra dove pagano le persone per farle partecipare». Ma ancora una volta motore prezioso per la circolazione delle informazioni e delle idee è il web, dove non si contano gli appelli, la raccolta di firme, i commenti le sollecitazioni a partecipare alla protesta e a non rassegnarsi.

l’Unità 5.4.11
Intervista a Rosy Bindi
«Governo pericoloso È nostro dovere scendere in piazza»
La presidente Pd: «Se necessario, abbandonare l’aula è un’idea da tenere in considerazione. Ormai siamo arrivati alla dittatura della maggioranza»
di Simone Collini


La situazione è    di una    gravità senza precedenti nella storia repubblicana di questo paese. Già soltanto la consapevolezza di questo giustifica una mobilitazione permanente». Rosy Bindi denuncia la «dittatura della maggioranza» in atto e definisce «doveroso» per il Pd e per tutti gli altri partiti e sindacati e associazioni che oggi animeranno il “Democrazia day” «offrire le occasioni per far esprimere ai cittadini il disagio, il dissenso, e anche le proposte di fronte a un governo inconclu-
dente e pericoloso».
Presidente Bindi, il Pd è sceso in piazza l’8 marzo, ha organizzato un sit-in per la scuola, un altro contro le leggi ad personam e ora un altro ancora per dignità del Parlamento: sicuri che sia la strategia giusta?
«Giusta? Doverosa. Il limite è stato ampiamente superato. Sono a repentaglio la democrazia e i diritti costituzionali».
Non è la prima volta che lanciate un simile allarme... «Ormai non solo si vogliono piegare le leggi alle esigenze di una persona, ma la maggioranza ora voterà in Parlamento che Ruby è la nipote di Mubarak. Cioè attraverso un voto si arriva a stravolgere la realtà, pur di sottrarre Berlusconi a un processo. Se non è dittatura della maggioranza questa...»
Per questo ha proposto di abbandonare l’Aula, suscitando reazioni infastidite anche all’interno del suo partito? «Chiariamo subito: io non ho mai proposto l’Aventino. E non è neanche rispettoso nei confronti di chi in quel periodo fece una scelta così drammatica usare con tanta leggerezza un simile termine. Io dico che noi dobbiamo stare in Parlamento, e starci in maniera sempre più forte, organizzata, determinata. Ma siccome non bastano le trasmissioni televisive e neanche l’organizzazione del partito per costruire un collegamento con tutto ciò che si è messo in moto nel paese, noi dobbiamo stare anche fuori dal Parlamento. E dobbiamo anche, se necessario per denunciare la dittatura della maggioranza, prendere in considerazione l’ipotesi di abbandonare l’Aula. Del resto, lo abbiamo fatto più volte alla Camera e al Senato anche quando erano segretario Veltroni e poi Franceschini. Sinceramente, non capisco il perché di alcune reazioni». Non teme che questa vostra “mobilitazione permanente” influisca negativamente nel rapporto con l’Udc? «Ognuno ha il suo modo di fare opposizione e dobbiamo rispettarci nella nostra diversità. Nelle sedi parlamentari il lavoro è sempre più unitario e sta dando risultati. Dopodiché, lo stesso Parlamento può essere il luogo adatto per scrivere insieme un codice di comportamento comune. Ricordandoci anche che c’è una forza non presente in Parlamento, Sinistra e libertà, con la quale non possiamo però pensare di non avere rapporti».
Per arrivare a quella coalizione ampia, costituente, tra progressisti e moderati, a cui punta Bersani? «È la scelta giusta per ricostruire dopo questo governo inconcludente e pericoloso. Pensiamo all’immigrazione: hanno creato ad arte tensione e poi la situazione è degenerata. Alfano ha parlato di una riforma epocale della giustizia e poi hanno violentato il Parlamento con le leggi ad personam, tra l’altro in maniera impotente, senza approvarle». L’Udc su quella riforma si è detto disponibile al confronto.
«Se è per questo anche qualcuno all’interno del nostro partito. I fatti purtroppo hanno dato ragione a chi diceva che non ci sono le condizioni per sedersi al tavolo e discutere nel merito».
Pensa che questa vostra mobilitazione permanente sia compatibile col richiamo di Napolitano a mettere fine a questo clima di tensioni?
«Le tensioni le provocano i ministri che offendono il Parlamento. Non le creiamo noi, né le manifestazioni e i cittadini che vogliono difendere la Costituzione».

Repubblica 5.4.11
"In piazza contro le leggi ad personam"
Oggi il sit-in davanti a Montecitorio e la "Notte bianca della Democrazia"
Il segretario del Pd Bersani riunisce i suoi parlamentari in piazza del Pantheon
In piazza Santi Apostoli l´happening dalle venti a mezzanotte
di Carmine Saviano


ROMA - Vogliono opporsi al degrado delle istituzioni, difenderle dall´abuso a fini di interesse personale. E per questo vogliono dire no al processo breve, l´ennesimo scudo giudiziario che la maggioranza di centrodestra sta fabbricando per il suo capo, Silvio Berlusconi. Oggi, a Roma, via alla "Giornata della Democrazia", la mobilitazione lanciata da Libertà e Giustizia, Articolo 21 e Popolo Viola. Due i momenti principali: dalle 14 in piazza Montecitorio con un presidio che poi si ripeterà anche domani e giovedì, poi dalle 20 alle 24 in piazza Santi Apostoli per un happening, battezzato "Notte Bianca della Democrazia", che metterà insieme politica, cultura e musica. Tanti interventi, un solo filo conduttore: costruire «un percorso comune verso la legalità repubblicana».
Occhi puntati su piazza Santi Apostoli. Dove, oltre a quelli degli organizzatori, ci saranno numerosi interventi. Cinque minuti a testa, per lasciare spazio a tutti. Si va dal presidente del Partito democratico, Rosy Bindi, al leader dell´Italia dei Valori, Antonio Di Pietro. A seguire Fabio Granata di Futuro e Libertà, Oliviero Diliberto della Federazione della sinistra, Paolo Cento e Angelo Bonelli dei Verdi. Inoltre, i rappresentati delle associazioni e dei movimenti che hanno aderito all´appello lanciato dal comitato promotore: dall´Arci all´Anpi alle organizzazioni degli studenti. Anche qui, un unico leitmotiv: resistere agli attacchi alle istituzioni sferrato dalla maggioranza parlamentare e lavorare per costruire un fronte democratico unico e compatto.
In piazza si dà appuntamento l´Italia stanca del berlusconismo. La parole-guida sono "resistenza" e "Costituzione". Gustavo Zagrebelsky, presidente onorario di Libertà e Giustizia, ha lanciato un appello pubblicato ieri su Repubblica: «Questo è il momento della mobilitazione e della responsabilità. Chiediamo alle forze politiche di opposizione intransigenza nella loro funzione di opposizione al degrado». E ancora: «Non è vero che se non si abbocca agli ami che vengono proposti si fa la parte di chi sa dire sempre e solo no. In certi casi il no è un sì a un Paese più umano, dignitoso e civile dove l´uguaglianza e la legge regnino allo stesso modo per tutti».
La giornata sarà animata anche da un´iniziativa del Pd. Pier Luigi Bersani riunisce i suoi parlamentari in piazza del Pantheon, alle 18. Un´iniziativa che ha lo scopo di incontrare i cittadini e portare dal Parlamento alla piazza ragioni e proposte del Pd. I democratici sono attivi anche sul versante digitale. Sul web hanno dato vita a una campagna in chiave anti Lega. Si tratta di diffondere, sui social network, il manifesto: «Processo breve, la Lega lascia liberi i criminali solo per salvare Berlusconi». Nel manifesto lo spadone di Alberto Da Giussano, nume tutelare del Carroccio, appare afflosciato. Il messaggio vuol essere: anche i valori duri e puri della Lega si sono piegati agli interessi del Cavaliere.

Repubblica 5.4.11
Enrico Letta: la scorsa settimana il peggio è accaduto in aula, non in piazza
"Un impegno straordinario ma non facciamo autogol"
Solo l´autorevolezza del presidente della Repubblica Napolitano sta tenendo insieme le istituzioni E il Pd conduce la sua battaglia senza Aventino
di G.C.


ROMA - «La situazione è così grave che c´è bisogno di un impegno straordinario, nel paese, in Parlamento, nelle piazze. Ma attenti a non fare autogol, a non commettere errori come il lancio di monetine, mercoledì contro La Russa davanti a Montecitorio». Enrico Letta, vice segretario del Pd, raramente è sceso in piazza.
Ma questa volta sarà alla manifestazione del Pd al Pantheon, onorevole Letta?
«Farò di tutto per essere ovunque, sia nella piazza organizzata da noi che in quella dei movimenti. Non vedo contraddizione tra la piazza e fare il nostro lavoro in Parlamento. Nelle manifestazioni indette dalla società civile ovviamente i politici staranno in secondo piano perché protagonista è la società civile».
Mercoledì scorso c´è stato il lancio di monetine contro il ministro La Russa; il rischio di incidenti è sempre dietro l´angolo?
«Sarebbe un boomerang, se ci fosse un qualsivoglia incidente. Tutti coloro che organizzano e che parteciperanno alle mobilitazioni vogliono il buon esito di queste iniziative. Non bisogna fare autogol, quindi ci vuole il doppio di attenzione».
In questo clima di mobilitazioni di piazza, l´invito del presidente Napolitano a maggiore responsabilità e meno rissosità resta inascoltato?
«Il monito di Napolitano è stato fondamentale in quel momento. Mercoledì e giovedì scorsi però, le cose peggiori sono capitate in aula non in piazza. Dopo di che, il decoro non prevede che l´ingresso della Camera sia assediato ma che si manifesti a un centinaio di metri di distanza. Nel pomeriggio di mercoledì gli errori sono stati di gestione dell´ordine pubblico; la provocazione di La Russa e della Santanchè; il lancio di monetine. Mai come ora penso che all´Inno di Mameli andrebbe aggiunta, parafrasandola, una frase dell´Inno inglese: "Dio salvi il presidente della Repubblica". Solo la presenza e l´autorevolezza di Napolitano sta tenendo insieme le istituzioni. E nelle istituzioni il Pd conduce la sua battaglia senza Aventino, senza abbandoni, ma dimostrando che questo governo non ha più benzina».
Un governo senza benzina, lei dice, ma che va avanti, magari per forza d´inerzia?
«Ormai sta perdendo consenso. Da tanti anni vado a Cernobbio, il mondo delle imprese e delle finanza ha sempre guardato più al centrodestra che al centrosinistra, ma ora in un referendum online il 60% ha bocciato la politica del governo. Un fatto che dimostra quanto le cose stiano cambiando».
(g.c.)

Repubblica 5.4.11
Antonio Di Pietro: la rivolta sociale è alle porte, serve una terapia d´urto
"L´indignazione della gente può far cadere il governo"
di Giovanna Casadio


Inutile pensare a un voto di sfiducia da parte delle Camere, in Parlamento ci sarà sempre qualcuno da comprare o ricattare

ROMA - «Solo la piazza può fare cadere Berlusconi, e per piazza intendo la massa dei cittadini indignati che non si rassegnano più a stare alla finestra». Antonio Di Pietro, leader di Idv ed ex pm di Mani pulite, parla di resa dei conti.
È dall´inizio della legislatura che lei partecipa o organizza piazze di protesta, onorevole Di Pietro?
«La piazza soltanto, ripeto, può fermare questa deriva antidemocratica rappresentata dal modello piduista di Berlusconi. Noi l´abbiamo capito dal 2008 quando partecipammo alle proteste di piazza Navona e piazza Farnese. Siamo stati snobbati dagli stessi che ora la pensano come noi. Io sono stato denunciato per le affermazioni che feci allora sul rischio eversivo di questo governo e questa maggioranza»
Chi è stato invece poco coraggioso?
«Mi riferisco a chi ci ha criticati, al Pd, all´Udc e ai Soloni di alcuni giornali blasonati. Sono orgoglioso che una formazione come la nostra abbia messo in piedi una politica di contrapposizione netta e di partecipazione popolare. Ora sento una nuova responsabilità, di trovare cioè il metodo per uscire da questa impasse. Ci vuole una terapia d´urto. Il rischio è una presa della Bastiglia: non lo vogliamo e non lo dobbiamo permettere, ma la rivolta sociale è alle porte. L´altra possibilità è chiedere che Berlusconi si dimetta: come dire che il sole domani non sorge. Sono testimone oculare del fatto che Berlusconi si è messo a fare politica per motivi giudiziari, solo restando dov´è continua a mantenere l´impunità che in uno Stato di diritto non gli sarebbe consentita. Infine, c´è l´ipotesi della sfiducia in Parlamento: come mettere la luna nel pozzo, perché con questa legge elettorale ci sarà sempre qualcuno da comprare o ricattare. Né possiamo aspettare il 2013 trasformando il cancro in metastasi».
E quindi, la piazza. Ma il presidente Napolitano chiede meno rissosità tra le forze politiche. Appello inascoltato?
«Una cosa è la rissosità, altra il gesto di libertà e resistenza dei cittadini italiani ormai esasperati».
Lei però ha invitato chi manifesta a lanciare monetine contro il centrodestra, se si presentano a loro volta in piazza.
«Invito a evitare di guardare l´effetto senza vedere la causa. Le monetine a Craxi erano la rappresentazione simbolica di un popolo sull´orlo della rivolta per una classe dirigente che aveva distrutto le casse dello Stato. Ora al disastro etico del ladrocinio della Prima Repubblica si aggiunge la sfacciataggine. Spero nell´appuntamento referendario: se Berlusconi perde sul legittimo impedimento, Napolitano dovrà prendere atto che la maggioranza non c´è più».

l’Unità 5.4.11
Ribellarsi all’instabilità
«Adesso basta» I precari sabato si prendono le piazze italiane
I giovani precari prendono la parola. Lo faranno sabato 9 aprile manifestando in tutto il Paese. «Il nostro tempo è adesso», lo slogan. Iniziative senza bandiere politiche in quasi trenta città.
di Luciana Cimino


Una generazione espulsa dalla vita produttiva e sociale del paese che vuole riprendersi la scena pubblica. Sono respinti dal mercato del lavoro, che quando li accetta lo fa solo a condizioni paraschiavistiche, sono impossibilitati a formarsi una famiglia, ad avere una casa, a coltivare passioni e sogni. Non hanno uno stipendio e non avranno una pensione. Sono i precari italiani. Un’intera generazione, ma c’è chi dice siano due (se si includono tutti quelli che il posto lo hanno perso causa crisi), finora silente ma che adesso si compatta dietro l’appello lanciato in rete dal comitato «Il nostro tempo è adesso» e scende in piazza. Anzi, nelle piazze. Il 9 aprile a Roma, (dove è prevista la manifestazione principale con un corteo che partirà alle 14 da piazza della Repubblica destinazione Colosseo) così come a Milano, Torino, Firenze, Napoli, Palermo, Catanzaro. E in altre 28 città italiane. Ma anche Bruxelles e Washington. Una mobilitazione che è nata dal basso e che vuole rimanere senza “padrini”. Tutti i partiti di sinistra hanno aderito (da Sel, fin dalla prima ora, al Pd e all’Idv) ma per adesso la richiesta dei promotori è di scendere in piazza senza bandiere. Immediato l’appoggio della Cgil con il segretario Susanna Camusso che ha anche diffuso in internet un video appello. Così come al video si sono prestati alcuni volti noti della cultura e dello spettacolo come Ascanio Celestini, Moni Ovadia, Caterina Guzzanti, Dario Vergassola, David Riondino. Ma saranno le storie di ordinaria disperazione dei precari e delle loro famiglie a prendere la scena. Quelli che non se ne vanno, perché ogni anno sono 45mila i laureati che lasciano l'Italia per cercare lavoro altrove. Ci sarà in piazza, sperano gli organizzatori, tanta parte di quel milione e 500 mila circa di giovani sotto i 34 anni che svolge un lavoro precario e che sono operatori di call center, interinali dello spettacolo, archeologi, ricercatori, insegnanti. E ci saranno anche i giornalisti precari, gli studenti e i giovani imprenditori.
PADRI E FIGLI
E i genitori, come questo che dice in conferenza stampa: «Ho un figlio di 22 anni che stiamo facendo studiare con immensi sacrifici, io e sua madre sognavamo che i nostri sforzi e la sua grande volontà potessero dargli un futuro che fosse migliore del nostro, io sarò in piazza e griderò con forza la mia rabbia». Ma il 9 non sarà solo una giornata in cui «si metteranno in piazza questi temi – fa notare Claudia Pratelli, del comitato “Il nostro tempo è adesso” – vogliamo costringere il Governo a mettere in cima all’agenda la precarietà e non la riforma della giustizia a uso e consumo di qualcuno. La crisi economica ha massacrato i giovani, non è un problema solo nostro: è un problema del Paese se manda al macero una generazione. Si riempiono la bocca in campagna elettorale, poi però sulla precarietà l’azione politica è assente. È insopportabile quello che fa il Governo, adesso basta».

il Fatto 5.4.11
Sabato 9 aprile
“Il nostro tempo è adesso”, i precari in piazza
di Ste. Fel.


Si chiama “Giornata nazionale di mobilitazione”, perché non è uno sciopero (i precari non possono scioperare) e neppure una protesta o una manifestazione. Il 9 aprile, in tutta Italia e non solo, ci saranno iniziative e cortei, a cominciare da quello che attraverserà Roma. “Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta”. Questo è lo slogan del comitato promotore, che ieri ha presentato l’iniziativa in una conferenza stampa. Tra i 14 che si sono inventati l’evento ci sono archeologi freelance, imprenditori emigrati all’estero, giornalisti più o meno precari, operatori dello spettacolo. C’è anche una sindacalista “tradizionale”, Ilaria Nani, della Cgil giovani, ma non è una manifestazione sindacale. Soprattutto perché i precari non si fidano dei sindacati (Cisl e Uil, all’inizio, hanno anche approvato il collegato lavoro che ostacola i ricorsi contro i rapporti di lavoro illeciti per i precari). “Vogliamo risollevare le coscienze dei precari, dare un messaggio di riscatto”, dicono dal comitato.
Sul sito ilnostrotempoea desso.it   ci sono le ragioni della manifestazione. Una delle rubriche è dedicata ai numeri della crisi di una generazione silenziosa. Oltre all’ormai cronico 30 per cento di disoccupati tra i ragazzi che hanno tra i 15 e i 24 anni (l’Istat non registra miglioramenti nelle sue stime mensili), ci sono altri dati, come quello pubblicato ieri sugli infortuni sul lavoro. Subiscono un incidente 5,06 lavoratori ogni 100 tra chi ha meno di 35 anni. Per i più vecchi la percentuale scende al 3,7. Altro numero: 45 mila laureati ogni anno fuggono dall’Italia, diventano “Expat”, espatriati.
Il momento non aiuta: tra processi berlusconiani, la guerra in Libia, la catastrofe nucleare in Giappone e un numero di manifestazioni di piazza ormai così frequenti da renderle un appuntamento settimanale. Ma il gruppo de “Il nostro tempo è adesso” confida nel-l’approccio a rete. Sia nel senso del web, affidandosi a donazioni volontarie sul sito della manifestazione, con finanziamento dal basso in stile Obama per garantire l’indipendenza. Ma il modello rete è applicato anche nel mondo reale, preferendo una molteplicità di eventi a un unico grande raduno. Da Trieste a Taranto, da Verona a Siracusa, dalla mattina al pomeriggio.
Sul sito continuano ad arrivare adesioni dalle associazioni di precari che stanno cercando di riempire il vuoto di rappresentanza dovuto allo scarso impegno dei sindacati e dei partiti. Tra le ultime adesioni, quella del gruppo “Fitness precario” di Terni che partecipa alla mobilitazione “per rivendicare il diritto alla malattia, il diritto al riposo retribuito per maternità, i contributi che danno diritto alla pensione, una copertura assicurativa Inail contro gli infortuni sul lavoro, la paga stabilita dal contratto collettivo nazionale di settore”.

Repubblica 5.4.11
Il potere sottosopra
di Gustavo Zagrebelsky


Nei 150 anni dell´unità d´Italia, Torino si conferma centro del pensiero politico: dal 13 al 17 aprile, affronterà con "Tutti. Molti. Pochi", il problema delle oligarchie. Ovvero, quando il normale sistema democratico si capovolge a favore di un´élite

Biennale Democrazia è un luogo di discussione civile per la formazione di un´opinione pubblica consapevole. È un laboratorio pubblico permanente, articolato in una serie di momenti preparatori e di tappe intermedie (laboratori per le scuole, iniziative destinate ai giovani, seminari di discussione) che culminano, ogni due anni, in cinque giorni di appuntamenti pubblici: lezioni, dibattiti, letture, forum internazionali e momenti diversi di coinvolgimento attivo della cittadinanza.
In questa seconda edizione di Biennale Democrazia, intitolata Tutti. Molti. Pochi, l´attenzione si ferma in modo particolare sulle derive oligarchiche che minacciano le democrazie contemporanee, nella sfera economica, in quella culturale e in quella politica. La presenza di élite o classi dirigenti capaci di assumere su di sé responsabilità pubbliche e onori corrispondenti è, entro certi limiti, un fenomeno fisiologico delle democrazie. Patologica è invece la concentrazione oligarchica del potere in circoli sempre più ristretti, sempre più potenti, sempre più impermeabili alle domande e al controllo dei cittadini.
Una discussione pubblica su questi temi ha un significato particolare in una fase storica nella quale l´interruzione dei canali di dialogo tra i cittadini e i decisori pubblici determina nel nord Africa la reazione delle popolazioni e si accompagna, anche nel ricco Occidente, a povertà e diseguaglianze crescenti, a insicurezza sociale, a una generalizzata incapacità di dare forma al futuro. In cinque giorni di lezioni e dibattiti con la partecipazione attiva dei cittadini, Biennale Democrazia sottopone ad analisi i grandi fenomeni contemporanei che danno corpo al "potere dei pochi" a danno dei molti: l´economia finanziarizzata, che sembra aver scaricato sulla società il peso della propria incapacità di regolarsi autonomamente, la contrazione delle garanzie nel mondo del lavoro, il rapporto strumentale dell´uomo con l´ambiente, l´autoreferenzialità crescente nel ceto politico.
Nelle lezioni e nei numerosi momenti di discussione con i cittadini non si guarda però a questi fenomeni come a problemi insolubili, ma come a sfide aperte per le democrazie contemporanee che, qui e ora, chiedono nuove risposte, e a volte le trovano. Nell´impegno sociale per uno sviluppo sostenibile, per un diverso rapporto tra i sessi e tra le generazioni o, ancora, nei movimenti di reazione all´ingiustizia sociale diffusi sulla Rete e, più in generale, in quell´assunzione di responsabilità da parte dei giovani e dei cittadini che Biennale Democrazia si è data il compito di promuovere.

Il Fatto 5.3.11
Il Pd parla Tedesco
Domani al Senato la giunta decide sulla richiesta d’arresto dell’ex assessore Democratico
di Paola Zanca


“Vuole sapere 36 ore prima quello che voterò mercoledì?”. Il senatore Luigi Lusi non trattiene lo stupore. Mai come sull’autorizzazione all’arresto di Alberto Tedesco – l’ex assessore alla Sanità pugliese, indagato e subentrato in Senato a Paolo De Castro, finito a Strasburgo – si è vista tanta “discrezione”. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani non ha dato indicazioni di voto. Eppure, nemmeno lo scudo della libertà di coscienza, scuce qualcosa dalle bocche dei 9 parlamentari democratici della Giunta per le immunità del Senato che domani sera alle 20.30 decideranno se Tedesco deve andare in carcere (come dicono i giudici) oppure no.
“MI SEMBRA corretto parlare prima nelle sedi parlamentari – spiega Marco Follini, che in giunta fa il presidente - Tra i miei colleghi ne trova altri sicuramente più loquaci di me”. Mica tanto. “Non dovreste nemmeno sapere quando ci riuniamo”, esagera la senatrice Marilena Adamo. “Ho l’obbligo della riservatezza”, insiste la Pd Francesca Marinaro. Sì, ma i vostri elettori si aspettano una risposta... “Voteremo (pausa) secondo coscienza”. Federalista la collega Maria Leddi: “Non dico niente, su questo sono davvero un po’ sabauda”. “Non mi faccia parlare”, implora il senatore Gianni Legnini. Ma tra un no comment e l'altro si lascia scappare che questo, effettivamente, “non è il momento migliore per decidere in serenità”. Stasera i parlamentari Pd partecipano convinti alla Notte bianca della democrazia contro la prescrizione breve, domani votano indecisi sull’arresto di Tedesco. L’accusa dei due pesi e delle due misure incombe minacciosa sul Partito democratico. Almeno questa, aiuta Lusi a superare lo shock della domanda iniziale: “Dobbiamo spiegare agli elettori che il processo cammina lo stesso, noi su questo non mettiamo parola. Quello che ci viene chiesto è se sussistono i requisiti per l’arresto. E noi dobbiamo rispondere con la legge, non con la pancia. Sarebbe un errore se tutti quelli di cui si chiede l'arresto li buttassimo ar gabbio”. Il romanesco è stretto, ma lo capiscono tutti. “Non siamo mica handicappati”, chiarisce il senatore Vidmer Mercatali. “Noi rispettiamo il lavoro dei magistrati, loro rispettino il nostro: sull’arresto possiamo decidere”. Inutile provare a discutere sull'opportunità di difendere, proprio ora, chi ha dei conti in sospeso con la giustizia: “Se ragiona così abbiam già finito di parlare – dice Mercatali – A me non me ne frega niente dei processi di Berlusconi, noi dobbiamo guardare le carte di Tedesco”. I 23 commissari della Giunta (oltre ai 9 Pd, 9 Pdl, 2 leghisti, D'Alia dell'Udc , Li Gotti dell'Idv e Piscitelli di Coesione nazionale) le hanno esaminate nel corso di sei sedute. Alla fine, il relatore Alberto Balboni (Pdl) ha deciso che il fumus persecutionis non c’è: i giudici non si sono accaniti sull’ex assessore alla Sanità. È questo che la giunta dovrebbe valutare, ma i pidiellini (salvo trappoloni) ritengono che Tedesco vada difeso, perchè a suo carico non ci sono né “reati di straordinaria gravità”, né “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”. Li “ripugna”, precisano, “solo il pensiero di poter autorizzare la limitazione delle libertà personali per calcolo politico”.
OGGI , in una riunione, anche i 9 Pd decideranno il da farsi. Ma non troveranno l'unanimità: “Per noi è una riflessione complicata – ammette il senatore Francesco Sanna - Non ce la caviamo mettendo la polvere sotto il tappeto . C'è il problema dell'articolo 68 della Costituzione: cosa tutela, solo l'esercizio della funzione parlamentare o anche la dignità del Parlamento, il fatto che gli eletti devono essere al di sopra di ogni sospetto?”. Sanna un'idea sulla risposta ce l'ha: “Certo, se dovessimo ragionare politicamente diremmo: cosa ci chiede la base?”. Venerdì sera a Borgomanero, in provincia di Novara, un cittadino si è alzato in piedi e lo ha chiesto a Felice Casson, anche lui senatore del Pd. “L'ho scritto una settimana fa su Face-book: non esistono né i presupposti giuridici né le motivazioni politiche per negare l'autorizzazione all'arresto. La trasparenza e moralità della politica ci impongono di non ostacolare il lavoro della magistratura. D'altronde – conclude Casson – se non fosse diventato senatore, non saremmo qui a parlare di Tedesco: la magistratura avrebbe fatto il suo corso, secondo il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”.

«La posizione di Vendola, a suo tempo indagato, è stata nettamente archiviata. Ed è proprio Tedesco, in un interrogatorio di pochi giorni fa, che prova a tirarlo in ballo dicendo ai pm che Vendola “sapeva tutto”»
Il Fatto 5.3.11
L’inchiesta di Bari
“Collaudato sistema criminale” questo scrive il gip
di Antonio Massari


Secondo l’accusa, il senatore del Pd Alberto Tedesco, “pilotava le nomine dei dirigenti generali delle Asl pugliesi verso persone di propria fiducia”. Attraverso i dirigenti, poi, puntava a “controllare la nomina dei direttori amministrativi e sanitari in modo da dirottare le gare di appalto e le forniture verso imprenditori”. E gli imprenditori, secondo la procura, erano legati a Tedesco da “vincoli familiari o da interessi economici ed elettorali”. Il gip Giuseppe De Benedictis, firmando la richiesta d’arresto per Tedesco, poi trasmessa alla Giunta parlamentare per le autorizzazioni a procedere, descrive un “collaudato sistema criminale, stabilmente radicato nei vertici politico-amministrativi della sanità regionale”. L’ex assessore regionale alla sanità è indagato per vari episodi di concussione. Le indagini condotte dai pm Desirèe Digeronimo, Francesco Bretone e Marcello Quercia sono iniziate quando era ancora al vertice della sanità regionale. La richiesta di arresto, invece, è arrivata quanto Tedesco già sedeva in Parlamento. A indagini in corso, infatti, è stato nominato senatore: primo dei non eletti alle ultime elezioni politiche, ha preso il posto dell’ex senatore Paolo De Castro quando quest’ultimo, alle elezioni europee, s’è candidato al Parlamento europeo in quota Pd. Le 316 pagine firmate dal gip De Benedictis sono un duro atto di condanna alla politica pugliese: “Le indagini hanno dimostrato che l’invasività della politica non era una cosa sporadica ma, purtroppo, tutte le decisioni e gli indirizzi di politica sanitaria erano orientati quasi esclusivamente in una prospettiva clientelare di ritorno del consenso elettorale e di acquisizione d’indebite utilità nelle gare pubbliche”. È in questo contesto che Tedesco risulta indagato – spesso in concorso – per associazione per delinquere , concussione, abuso d’ufficio, turbativa d’asta, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, corruzione, falsità materiale in atti d’ufficio. Gli atti dell’inchiesta – inclusa la richiesta d’arresto firmata dal gip – si soffermano a lungo sulla presenza, nel mercato sanitario pugliese, delle aziende della famiglia Tedesco. Il gip scrive che già un’inchiesta del 1998 “consentirebbe di delineare un quadro preciso delle modalità operative di Alberto Tedesco, e di suo figlio Giuseppe (non è indagato, ndr), finalizzate all’acquisizione di fette di mercato sempre più vaste per la vendita di prodotti sanitari (in particolar modo protesi) e dei meccanismi di partecipazione alle gare pubbliche bandite dalle asl pugliesi sulla base di compiacenza e/o cointeressenza intessuti con personale medico e amministrativo operanti in tali strutture pubbliche”. S’è così riversato, in un ambito giudiziario, il problema politico del conflitto d’interessi che riguardava la figura di Tedesco, da un lato “imprenditore”, dall’altro assessore alla Sanità. Un rischio che il presidente della Regione, Nichi Vendola, ben conosceva sotto il profilo politico, già al momento della sua nomina. Nel 2008 però accade qualcosa: “Nel corso della 56esima seduta del consiglio regionale pugliese – scrive il gip – a seguito d’interrogazione urgente, veniva sollevato il problema del conflitto d’interessi dell’assessore Tedesco, con particolare riferimento alla titolarità della società Euro hospital, costituita in data 6 settembre 2005 da suo figlio Carlo, dopo la cessione delle quote, operate dai familiari del Tedesco, delle due precedenti società di famiglia, la Aesse hospital e la Medical surgery. La Euro hospital – come ammetteva sol stesso Tedesco durante il dibattito consiliare – acquisiva in esclusiva la rappresentanza della multinazionale Biomet, azienda fornititrice di protesi utilizzate sia nel settore della sanità pubblica, sia nel settore della sanità privata dal figlio Giuseppe Tedesco. Del resto, la circostanza di forti interessi nel settore sanitario, da parte di Alberto Tedesco, così come il costante incremento del fatturato della Euro hospital, per la fornitura di protesi, risulta consacrata in un’informativa d’indagine della Guardia di Finanza”.

il Fatto 5.4.11
Lampedusa e dintorni
L’isola si svuota, ma gli sbarchi non si fermano Accesso al Cie vietato ai deputati Pd
di Michele De Gennaro e Vincenzo Iurillo


Lampedusa si svuota: 450 migranti hanno lasciato l’isola nel tardo pomeriggio di ieri sulla nave “Catania” della Grimaldi. Nel centro di accoglienza rimangono così poco meno di 800 persone, compresi circa 150 minori. Alcuni di questi potrebbero lasciare l’isola già oggi sulla “Flaminia” della compagnia Tirrenia. Ma il mare calmo di queste ore ha favorito l’arrivo di altri barconi: solo in serata ne sono stati soccorsi quattro. Ieri, intanto, al senatore del Pd Furio Colombo arrivato a Lampedusa per visitare il centro di accoglienza insieme al collega Andrea Sarubbi, è stato vietato l’accesso nella struttura. “Si è trattato di un provvedimento ad personam – ha detto Colombo – avevamo informato preventivamente il comandante dei Carabinieri che ci ha accolti in aeroporto e accompagnati verso il Centro”. Ma una telefonata di un rappresentante della prefettura di Agrigento ha posto il veto assoluto alla visita dei due parlamentari: “È un fatto di una gravità assoluta – ancora Colombo – Tra le prerogative dei parlamentari è prevista la visita nei centri detentivi senza necessità alcuna di preavviso. Non vorremmo che si trattasse di un tentativo maldestro di nascondere all'Italia quanto sta realmente accadendo”.
“IL DIVIETO opposto ai nostri deputati è grave e inaccettabile – ha detto Dario Franceschini – Ci chiediamo come mai proprio ieri un deputato del Pdl abbia invece potuto regolarmente svolgere un sopralluogo”. Ma al Fatto Quotidiano Vincenzo Fontana, deputato Pdl, smentisce: “Non sono entrato nel centro. Sono arrivato fino all’ingresso, dove si procede all’identificazione degli immigrati. Poi mi sono incontrato con il questore. Stiamo studiando interventi infrastrutturali, fiscali e per l’ambiente per consentire a Lampedusa un veloce ritorno alla normalità e salvare l’imminente stagione turistica”.
Ieri la nave “Excelsior”, partita lunedì da Lampedusa con a bordo 1.714 migranti, ha fatto tappa nei porti di Palermo, Catania e Napoli. Dalla città etnea 15 autobus hanno trasferito 600 persone nella tendopoli di Pian del Lago a Caltanissetta (dove sono già ospitati circa 400 profughi). Altri 200 sono stati indirizzati verso la tendopoli Kinisia a Trapani (dove sono stati accompagnati anche 50 tunisini approdati sulle coste di Pantelleria). A Napoli, oltre alla “Excelsior”, è attraccata anche la “San Marco” con a bordo 470 tunisini destinati alla tendopoli di Santa Maria Capua Vetere, nel casertano.
A vederla sembra un carcere, e i migranti, provati da un lungo viaggio di 40 ore nutriti a pane e pomodoro, si sono spaventati. Muri alti cinque metri, cocci sulla parte alta, architettura militare: del resto, è una ex caserma riallestita per l’occasione. Tra i 470, anche un ragazzo che giura di essere sposato con un’italiana. L’uomo ha insistito a lungo e secondo i mediatori culturali che ieri hanno atteso i profughi della “San Marco”, la signora in questione era sulla banchina del molo Beverello ad aspettarlo, proprio sotto lo striscione “Benvenuti” montato dal Forum delle associazioni antirazziste. Vero o falso il matrimonio, il ragazzo non ha potuto separarsi dal gruppo. All’ex caserma i tunisini hanno trovato 120 tende blu, montate dai vigili del fuoco del comando provinciale di Caserta, ciascuna per 8 persone con brandine e lenzuola, e tre tende grandi per il servizio mensa: “Tutti sono apparsi stanchi – sottolinea Jamal Qaddorah, italo-palestinese responsabile immigrati della Cgil di Napoli – e bisognosi di una doccia”. Secondo Qaddorah tra i profughi ci sarebbero una decina di minorenni, che non dovrebbero essere ospitati qui. La Prefettura, invece, conferma la presenza di un solo minorenne.
ANCORA critica, invece, la situazione nella tendopoli di Manduria, in provincia di Taranto. Circa 200 ospiti, nella notte tra domenica e lunedì, hanno dormito all’aperto; 70, da ieri pomeriggio, hanno iniziato uno sciopero della fame. Altre mille persone, salpate ieri da Lampedusa, sembravano destinate a Manduria, ma la nave “Clodia”, in un primo momento attesa a Taranto, in serata ha proseguito verso nord.
Per ora la quasi totalità dei migranti di Lampedusa viene ospitata in strutture del Sud Italia. Congelata l’“Arena Rock” di Torino, messa a disposizione in un primo momento dal sindaco Chiamparino, fa eccezione la sola Toscana, pronta a ricevere entro poche ore circa 400 profughi in numerosi comuni, tra cui Firenze, Livorno, Sesto Fiorentino, Empoli e Massa Marittima. Ma anche qui non mancano tensioni: ieri decine di persone hanno manifestato di fronte all’ex ospedale di Calambrone, in provincia di Pisa, una delle strutture individuate per l’accoglienza. Motivo, la prossima stagione estiva, che si ritiene danneggiata dai “clandestini invasori”.

il Fatto 5.4.11
La direttiva europea sui rimpatri che l’Italia non vuole recepire
di Silvia D’Onghia


Dal 24 dicembre scorso, per l’ennesima volta, l’Italia è fuori legge rispetto all’Europa. È scaduto infatti il termine per recepire la direttiva comunitaria sui rimpatri (varata da Bruxelles nel 2008), quella che mette in crisi la Bossi-Fini, e per questo Maroni non la vuole, ma che potrebbe contribuire a risolvere l’emergenza immigrazione. Nel pomeriggio di oggi l’aula di Montecitorio sarà chiamata a pronunciarsi sugli emendamenti presentati dai Radicali per il recepimento del testo: un’analoga operazione al Senato prima di Natale è fallita a causa della Lega, che all’ultimo momento, con il parere favorevole del governo, ha eliminato dalla legge comunitaria (che annualmente deve recepire le indicazioni europee) proprio l’emendamento sulla direttiva rimpatri.
PERCHÉ tanta ostilità? “Il punto fondamentale è che l’Europa considera la reclusione degli immigrati irregolari come l’estrema ratio, e non la prima, cosa che fa invece la Bossi-Fini – spiega il segretario radicale, Mario Staderini –. All’irregolare viene offerta invece la possibilità del rimpatrio volontario entro 30 giorni, poi scattano misure coercitive meno lesive della dignità personale: l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna di documenti o l’obbligo di dimorare in un determinato luogo. Se fosse recepita, la direttiva smaltirebbe il sovraccarico delle Procure, che si trovano a dover gestire decine di migliaia di procedimenti per immigrazione clandestina (quasi 20 mila quelli avviati dalla Procura di Agrigento proprio in seguito agli sbarchi dell’ultimo periodo, ndr). Un reato che l’Unione europea non ammette”. Già, perchè la Corte europea di Giustizia si pronuncerà a breve anche su questo, dopo il ricorso presentato da un immigrato. Il mancato recepimento della direttiva negli ultimi mesi ha creato un grande caos: molte Procure l’hanno ritenuta immediatamente applicabile e hanno così scarcerato decine di irregolari. Lo stesso hanno fatto gli investigatori, tanto che a dicembre il capo della Polizia, Antonio Manganelli, è stato addirittura costretto ad emanare una circolare per spiegare alle Questure come comportarsi. Maroni a gennaio ha annunciato di voler “disinnescare” la direttiva con un decreto legge, cosa che poi naturalmente non ha fatto.
“È UNA situazione paradossale – prosegue Staderini –: i magistrati sono stracarichi di lavoro, almeno duemila persone affollano le carceri italiane per il solo fatto di essere clandestine e andranno incontro a un processo. E ci sono in giro circa 500 mila irregolari che, se fossero presi, dovrebbero essere rinchiusi nei Centri di Identificazione ed espulsione. Il governo non ha né le risorse né il personale di polizia per attuare la legge e per questo, al di là di qualche retata spot davanti alle mense della Caritas, li lascia liberi. Recepire la direttiva 115 del 2008 servirebbe invece a garantire un percorso legale anche per gli stessi rimpatri, aprendo nello stesso tempo alla possibilità che gli stranieri vengano ospitati in strutture private, senza l’impiego delle forze dell’ordine”.
Per questo i Radicali lanciano un appello, “alle opposizioni, prima di tutto – conclude il segretario –, ma anche ai membri cattolici della maggioranza: così potete salvare il governo dalla situazione allucinante in cui si è messo”.

l’Unità 5.4.11
I bambini migranti
di Giancarlo De Cataldo


La Convenzione sui diritti del fanciullo di New York (1989), ratificata in Italia con una legge del 1991, stabilisce che in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche e delle autorità amministrative, l'interesse superiore del fanciullo deve essere tenuto in considerazione preminente.
E stabilisce che i diritti dei minori vadano garantiti senza distinzione di sorta “a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza”.
Un preciso impegno internazionale vincola l'Italia, e gli altri Paesi firmatari, al rispetto di questa convenzione. Fra le conseguenze pratiche del dovere normativo rientrerebbe, dunque, l'obbligo di prestare assistenza degna di questo nome ai minori migranti che sbarcano, in queste ore, sulle coste europee. E l'Italia dovrebbe essere in prima fila: siamo, dopo tutto, il Paese che vanta strenui difensori della famiglia da pericoli come le unioni gay e il relativismo culturale.
Invece, per un singolare sussulto culturale, sembra che il tema stia a cuore solo a qualche lacrimosa anima bella della sinistra radical-chic (ovviamente, dal caldo rifugio di eleganti loft nei centri storici). Mentre i nostri governanti, in sintonia con il popolo che chiede sicurezza, si danno da fare per difenderci dall'orda di potenziali stupratori in fasce e terroristi in erba.

il Fatto 5.4.11
Ben Jelloun: “Giuste le bombe su Gheddafi”
Lo scrittore marocchino però precisa: “Ricordate che il raìs è un prodotto dell’Occidente”
di Alessandra Cardinale


Una primavera in pieno inverno che non assomiglia a nulla nella storia recente del mondo. Un po’ forse alla Rivoluzione dei garofani in Portogallo del 1974. Ma è diversa. Tahar Ben Jelloun, scrittore, giornalista, nato a Fèz in Marocco, l’autore francofono più tradotto al mondo, inizia così a raccontare il suo ultimo libro La rivoluzione dei gelsomini. Il risveglio della dignità araba (Bompiani). “È un risveglio della dignità che non ha precedenti perché – spiega l’autore – nessuno l’aveva prevista. Né gli islamisti né la gente al governo”. Avverte lo scrittore marocchino che il capitolo sulle dittature arabe si chiuderà definitivamente quando Mubarak, Ben Ali, Gheddafi e tutti gli altri saranno giudicati da un tribunale internazionale: “Dopo la fine politica deve esserci quella giuridica”.
Rivolta o Rivoluzione?
Non si tratta solo di una questione di parole, c’è una differenza. Una rivoluzione è qualcosa che viene pensata e organizzata negli anni, ha una struttura politica che la sorregge, un’ideologia che la anima. Non c’è nulla d’improvvisato nella rivoluzione. La rivolta – ed è il caso in questione – è una reazione spontanea, istintiva che con il passare del tempo può trasformarsi in rivoluzione. Sono state rivolte contro l’insostenibile.
I giovani in piazza non bruciano bandiere israeliane o americane. Chi sono?
Non si sono fatti influenzare dagli islamisti, molti hanno vissuto negli Stati Uniti o in Europa, usano Internet per comunicare e lottare. Poco tempo fa leggevo su Libération che un gruppo di giovani libici che studiano a Londra sono partiti per Tripoli per unirsi alla rivoluzione. È molto interessante. Questo movimento, che non ha un leader, ha però una forza tale da abbattere i partiti politici tradizionali e islamisti che per la prima volta nella loro storia stanno subendo una dura sconfitta.
“Facciamo come loro, facciamo la rivoluzione”. La Rivoluzione dei gelsomini diventa fonte d’ispirazione anche nelle manifestazioni in Italia. Sorpreso?
È straordinario. Ancor più se si pensa che l’onda rivoluzionaria sta mettendo in allerta e spaventa Paesi lontani come la Cina, che ora ha vietato la ricerca di due parole su Internet: Tunisia ed Egitto, perché sinonimi di ribellione.
Che effetto le ha fatto vedere bandiere francesi e cori pro Sarkozy nelle strade libiche?
È un gesto simbolico: quando stai per annegare e il diavolo ti tende la mano che fai? La prendi. La Francia, per una volta però ha fatto una cosa buona. Il Colonnello non è un pazzo, sa quello che fa. È un uomo molto crudele e spero venga giudicato come Saddam. Essendo contro la pena di morte, non sto chiedendo la sua esecuzione, ma chiedo che venga giudicato da un tribunale internazionale così da creare un precedente: il prossimo dittatore che salirà al potere saprà a quale rischio va incontro.
Dunque è a favore dell’intervento in Libia?
Non intervenire significava lasciare un leone e un bebé chiusi in una gabbia. Cosa avrebbe fatto il leone? Lo avrebbe divorato. Se qualcuno sta uccidendo, centinaia, migliaia di cittadini con armi pesanti e l’uso di mercenari è necessario fermarlo.
Gheddafi, a differenza di Ben Ali e Mubarak, non molla. È diverso dagli altri dittatori?
Gheddafi è un caso speciale. Dal ’69, anno del colpo di Stato, considera la Libia la sua casa, la sua proprietà, la sua tenda. Tutto. Non ha capito che la gente reclama giustizia e dignità. Quando ho visitato la Libia ho potuto verificare che il Paese è totalmente bloccato, fermo dal 1969: Gheddafi non ha fatto nulla per la sua gente. È un criminale, terrorista, colpevole di centinaia di morti. La colpa è dell’Occidente che lo ha perdonato e che gli ha permesso di comprarsi l’innocenza con i soldi. Ha pagato miliardi, credo due miliardi di dollari per le vittime di Lockerbie, ha dato centinaia di dollari a ciascuna famiglia americana e la stessa cosa ha fatto con i francesi. Gli americani sono quelli che hanno fabbricato il Gheddafi di oggi.
Il giornalista Samir Kassir scriveva nel suo libro L’Infelicità araba: “ gli arabi possono riappropriarsi del proprio destino a patto di liberarsi della cultura del vittimismo”. Sta avvenendo questo?
Ricordiamo che Samir Kassir era un giornalista libanese ucciso dai siriani per le sue idee di libertà. Terribile. Kassir aveva ragione nel dire che per molto tempo i popoli arabi hanno continuato a dare la colpa al colonialismo e all’Occidente. Noi ora abbiamo i nostri dittatori. Bisogna tornare su noi stessi per guardare quello che sta succedendo nel mondo arabo: perché quelli che ci fanno più male ora sono arabi.

Repubblica 5.4.11
La Braidense senza lampadine e Manzoni si legge al buio
di Michele Smargiassi


Aumenta i servizi, wireless compreso, ma ha sempre meno denaro e perde personale
Per problemi al tetto alcune stanze sono state svuotate e si è ricorso a teli impermeabili

In mutande e reggiseno tra incunaboli e cinquecentine. Uno spogliarello, e nella Sala Teologica, per giunta. Ma persino Maria Teresa d´Austria, la fondatrice della Biblioteca Braidense, sarebbe stata d´accordo. «Con quello spot della Golden Lady abbiamo sistemato e ridipinto gli infissi e sostituito i vetri rotti». Aurelio Aghemo era da poco soprintendente: «Non fu un sacrificio. La sala restò chiusa un giorno solo, fecero tutto con grande velocità e rispetto per il luogo. E la modella, una ragazza francese, devo dire, era bellissima...».
La cultura si arrangia anche così, nell´Italia dei tagli che vanno, e vengono, e magari rivanno, del doman non v´è certezza, quest´anno dalla vergogna del disastro ci ha salvato una fermata al distributore di benzina, due centesimi d´accise in più sul litro per salvare il genio italico, ma cosa accadrà con la prossima finanziaria nessuno lo sa, si naviga a vista. E allora perché scandalizzarsi se ci si adatta ingegnosamente a sopravvivere nella precarietà, facendosene una ragione, quasi una filosofia. Sulla parete dietro la scrivania del suo ufficio, Aghemo ha appeso un ritratto di Napoleone, come memento: «per ricordarmi che da grandi altezze si può sempre precipitare in grandi insuccessi».
Finora non è accaduto, nonostante tutto. Da duecentoquarant´anni la Braidense è uno scrigno delle patrie lettere incastonato a Brera, quarta biblioteca italiana per importanza, un milione e mezzo di volumi, un fondo antico inestimabile, gli archivi di Foscolo, Manzoni, Pascoli, una mediateca multimediale aperta da poco nella vicina ex chiesa di Santa Teresa. La biblioteca aumenta i servizi, cresce di 18 mila volumi l´anno. Ma ha sempre meno denaro, e perde personale. Centoventi dipendenti fino a tre anni fa, entro l´anno coi pensionamenti senza turnover scenderanno a 69: è vicino il dimezzamento. «Ma non abbiamo tagliato neanche un minuto dell´orario di apertura», rivendica con orgoglio il sovrintendente. Certo, «è una partita a dama». Due o tre giorni a settimana, i catalogatori interrompono il lavoro sugli archivi per sedersi al banco del prestito e della consegna dei libri ai visitatori. Ci si adatta. Anche con gli acquisti si stringe la cinghia. Nel 2006 il fondo era di 320 mila euro l´anno. Oggi 70 mila, quasi un quinto. Bene, si taglia. Con «oculatissimo dolore». Si sacrificano gli abbonamenti a riviste meno lette, si rinuncia a completare quell´area di studio marginale. Il lettore medio non se ne accorge. Ma le lacune un giorno peseranno. La Braidense è un archivio del sapere, e un sapere coi buchi che sapere è?
Nell´augusta saletta che custodisce l´archivio manzoniano manca il celebre ritratto dell´Hayez: per le celebrazioni unitarie è andato in prestito al Quirinale. Vorrà pur dire che ci tiene, l´Italia, al romanziere della Patria. Daniela Goffredo, che ne è la conservatrice dal 1981, apre con cautela il faldone dei manoscritti, la grafia minuta di don Lisander recita: «Ei fu come al terribile / segnal della partita», è l´originale del Cinque Maggio, sì, quella che abbiamo imparata a memoria è una poesia diversa, vuol dire che l´arte è fatta di correzioni, che la manutenzione è una necessità delle parole come dell´edilizia.
Infatti le tegole si rompono. Il tetto della Braidense, da dove Schiapparelli scopriva i canali di Marte, ha qualche problemino. Niente di drammatico, ma è stato necessario sgomberare un paio di ambienti e metterci teloni impermeabili. Mica può piovere sul Manzoni. Allora s´è dato da fare il Fondo ambiente italiano, che assieme all´associazione Amici di Brera ha animato una colletta da 27 mila euro. Bene? Sì. Cioè no, perché la Braidense, essendo una proiezione del Ministero dei Beni culturali, non ha una contabilità autonoma, dunque non può accogliere e spendere donazioni private. Dovrebbe girarle al bilancio generale dello Stato, e poi chiedere per via burocratica un finanziamento straordinario per lavori. E avete già capito cosa significa. Così, ci si arrangia di nuovo. I privati pagano direttamente le fatture ai lattonieri, ai muratori, agli elettricisti. Anche con lo spot dello spogliarello andò così. Il dottor Aghemo si pente di avermi raccontato lo stratagemma non procedurale, «nulla di irregolare, ma se può sfumi sui dettagli...». La burocrazia non tollera certe creatività, ancorché sacrosante.
Nell´imponente sala Maria Teresa tutti i ragazzi seduti ai tavoli hanno un laptop acceso. Da un anno tutta la biblioteca offre il wireless gratuito. E solo per questo i frequentatori sono aumentato di colpo del 50%, da 300 a 450 in media al giorno. Però nella Braidense interconnessa si fatica a cambiare le lampadine. Bruciano, è inevitabile, e bisogna cambiarle. Non si dice "semplice come svitare una lampadina"? Bene, questo alla Braidense, che pure fu la seconda biblioteca del mondo illuminata elettricamente, non vale. Con soffitti da nove metri, ogni volta bisogna chiamare gli operai con il trabattello, l´impalcatura mobile, aprire un cantiere con piano sicurezza a norma antinfortunistica. Un investimento oneroso. Ma al buio non si legge. Solo che il fondo spese correnti, per la manutenzione ordinaria e le bollette, quest´anno è stato tagliato del 30%. Che si fa? «Non so, accenderemo le luci mezz´ora dopo. Oppure cambieremo una lampadina su due...».
Eppure ci fu un´età dell´oro anche per la Braidense. Quando il ministro Veltroni inventò il "lotto del martedì" riservato alla cultura, piovvero denari per le spese extra, per le iniziative. Poi anche quella manna s´inaridì, tagliata per esigenze di bilancio dalle successive finanziarie. Chissà se alla tassa culturale sulla benzina accadrà la stessa cosa. Alla Braidense sono già abituati da anni ai soldi che vanno e vengono, ai bilanci decisi a Roma senza poter spostare neppure un euro da un capitolo all´altro, versati sempre in ritardo, a spese già fatte. S´arrangeranno ancora. Finché si può. «Manca la carta per le fotocopie, ricordiamoci di trovare uno sponsor».

l’Unità 5.4.11
Polemiche sul fine vita
Caso Eluana. La strana realtà dell’Avvenire
di Maurizio Mori


Paola Binetti ha osservato che il contrasto sulla legge sul fine vita si è «spostato tutto in casa cattolica», così cattolici con gli stessi valori «raggiungono conclusioni diverse» sulla legge (Ansa, 9 marzo). Ma per il giornale dei vescovi Avvenire queste divisioni non esistono ed a leggerlo sembra che i cattolici siano monolitici. Ma non solo: insiste nel sostenere tesi palesemente non vere, solo per fare terrorismo psicologico. Così Pino Ciociola il 19 marzo ha scritto che Eluana a Udine fu «sedata – pesantemente –, nei giorni in cui la fecero morire», ma, ciò nonostante, questo non bastò ad evitarle le sofferenze atroci, tanto che l’autopsia avrebbe riscontrato «nel palmo delle sue mani le ferite provocate dalle sue stesse unghie, perché le aveva strette tanto forte da entrare nella pelle». Amato De Monte e Cinzia Gori, che hanno accompagnato Eluana alla fine, a nome dell’Associazione «Per Eluana» hanno subito smentito la notizia con un comunicato stampa che sottolineava come l’autopsia ha accertato che «la quantità di sedativo ... fosse oltremodo bassa»: nessuna sedazione pesante, ma anzi dosi «al di sotto» dei valori terapeutici. Pertanto, nessuna atroce sofferenza! Quanto alle ferite alle mani esse dipendevano da tetraplegia spastica diagnosticata da tempo, non dai dolori atroci dell’agonia.
Invece di accettare l’evidenza autoptica, Ciociola nella trasmissione «A sua immagine» di Rai1, domenica 27 mattina ha ripetuto la tesi iniziale, rincarando la dose di imprecisioni. Suscita tristezza vedere come il quotidiano cattolico rifiuti la discussione razionale e basata sui fatti accertati, insistendo nella riproposta di tesi preconcette basate su intense emozioni. Sorprende notare come più che dalla «ricerca della verità» (Benedetto XVI, 7 ottobre 2010) i giornalisti cattolici sembrano essere mossi dall’esigenza di serrare i ranghi prima della battaglia decisiva. Si sentono accerchiati dalle innovazioni della biomedicina, e per dare un senso alla resistenza giungono a negare la realtà: non riconoscono la presenza di una forte divisione tra i cattolici e censurano eventuali dissensi, insistono nel dire che Eluana sarebbe stata lasciata morire tra atroci sofferenze nonostante la sedazione.
In pochi anni i cattolici sono tornati all’epoca preconciliare in cui si ponevano in guerra col mondo moderno visto come malvagio. Per mostrare questo devono travisare e negare la realtà. In questo modo non andranno lontano, sia perché le bugie hanno le gambe corte, sia perché quand’anche riuscissero ad imporre una legge liberticida non avrebbero vinto la guerra né restaurato l’ordine morale, ma solo accettato un favore da una maggioranza moralmente impresentabile.

La Stampa 5.4.11
Intervista
“Pechino si sente insicura per questo ha arrestato un artista così famoso”
Lo scrittore Bao Pu: dopo Ai Weiwei siamo tutti in pericolo
di Ilaria Maria Sala


Bao Pu, pechinese, editore a Hong Kong di libri d’arte e politici, come le scottanti memorie dell’ex premier cinese Zhao Ziyang caduto in disgrazia dopo la rivolta di Tienanmen del 1989, conosce i meccanismi della politica cinese dall’interno: suo padre, infatti, è Bao Tong, il consigliere di Zhao Ziyang, agli arresti domiciliari in forma quasi permanente fin da quel fatidico 1989.
Come vede il giro di vite in atto in Cina?
«L’inizio di ciò è da ricercarsi nell’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Liu Xiaobo lo scorso anno. Altri eventi, come la cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini” sono più reali nel timore delle autorità che non nei fatti: è una reazione del tutto sproporzionata, che riflette un’insicurezza generalizzata».
Eppure, la leadership cinese sembra coronata di successi, economici e diplomatici: perché sarebbe insicura?
«È ovvio che il sistema politico non è stabile come vorrebbero che fosse. Nessuno in Cina pensa che il governo sia minacciato da veri tentativi di rivolta, eppure spendono una fortuna in sicurezza interna: più di quanto non sia speso per l’esercito. La prima causa di morte fra la polizia cinese è il superlavoro: due dati che mostrano fino a che punto il governo si senta insicuro del sostegno di cui gode internamente. Arrestare Ai Weiwei ne è una prova supplementare: Ai è un artista, non un attivista politico. Certo, si è occupato di temi considerati sensibili dalle autorità, ma non minaccia il potere politico. Arrestarlo significa aver perso ogni senso della misura, significa che la percezione che il potere cinese ha di sé è molto più fragile di quello che si vede dall’esterno. Credo che si stiano rendendo conto che lo sviluppo economico, da solo, non risolverà tutte le questioni aperte, al contrario: i problemi sociali nel corso del periodo di riforme non hanno fatto che aggravarsi».
Fino a che punto Ai Weiwei è rappresentativo della società cinese?
«Ai appartiene a quella che possiamo definire un nuovo tipo di attivisti sociali e politici, che ha messo davanti al governo, in modo inequivocabile, come lo scontento popolare non sia ridotto dalla maggiore prosperità odierna. Tramite questo tipo di attivisti il governo si è reso conto che la maggior parte delle persone non lo sostengono. È una dinamica critica: più il governo si sente insicuro, più reagisce in maniera sproporzionata, più il suo senso d’insicurezza diventa vistoso. Arrestare un artista come Ai non fa che allargare la fascia della popolazione consapevole dell’insicurezza del governo. E l’unica cosa che le autorità sanno fare in risposta è utilizzare la forza, ancora ed ancora».
Quale sarebbe la soluzione?
«Affrontare e risolvere i problemi a livello politico. La leadership attuale, chiaramente, non ne è capace. L’unica soluzione che hanno trovato è quella di guadagnare tempo con la crescita economica da un lato e la forza dall’altro. Quanto tempo hanno a disposizione prima che le tensioni raggiungano un punto esplosivo? Impossibile dirlo, perché finora se sembrava che potesse esserci uno strappo sociale significativo, sono riusciti a mettere delle toppe temporanee gettando soldi in pasto ai problemi. Ma questo non compra appoggio o solidarietà, e l’arresto di un artista internazionalmente noto crea enorme risentimento. È un errore di giudizio».
Questo può scatenare una reazione popolare?
«Al momento è difficile: quelli che potrebbero reagire sono stati messi agli arresti, desaparecidos, o messi a tacere. Ma tutti stanno osservando, e il segnale dato dall’arresto di Ai è molto forte, la gente si sta chiedendo: se può essere arrestato uno come lui, significa forse che siamo tutti potenzialmente in pericolo?».

Repubblica 5.4.11
Al governo, figli e nipoti dei fondatori del partito
I principini della Cina un clan venuto da Mao
di Federico Rampini


Sembrano passati secoli dalle congiure di palazzo, spesso accompagnate a spargimenti di sangue sulle piazze, che segnarono il passaggio di potere da Mao Zedong a Deng Xiaoping. Giunta alla quinta generazione, l´oligarchia che governa la Cina ha imparato a gestire in modo ordinato e pacifico le successioni. Il prossimo passaggio delle consegne è stato annunciato con largo anticipo: il vicepresidente Xi Jinping, 57 anni, è stato incoronato come il successore di Hu Jintao al vertice della superpotenza asiatica. Nel marzo 2013 Xi sostituirà Hu alla presidenza della Repubblica. Il meccanismo è bene oliato. Pechino ha adottato un metodo di governo collegiale, le mediazioni tra le correnti di partito e i vari clan al potere si fanno in modo incruento, dietro le quinte. Al popolo si presenta una facciata di unità.
È una lezione che il regime ha tratto dalla rivolta democratica di piazza Tienanmen (1989): quel movimento di protesta fu incoraggiato dalle visibili divergenze tra i leader di allora. Della biografia di Xi due cose sono chiare. La prima è che il leader in pectore appartiene alla categoria detta dei "principini": figli e nipoti dei fondatori del partito comunista, eredi biologici e consanguinei del gruppo originario raccolto attorno a Mao.
I "principini" sono un´élite controversa. Loro si considerano i custodi di una tradizione, di un´etica dei padri della patria, e del primato del partito comunista. Chi non fa parte di questo clan li considera dei rampolli cresciuti nel privilegio, arroganti come tutte le nomenklature ereditarie. L´altro aspetto importante nel suo curriculum è che i suoi principali incarichi sono stati al governo di due province ricche, il Fujian e lo Zhejiang, più un periodo come segretario del partito comunista di Shanghai. Si è fatto le ossa nella Cina più avanzata e moderna, non nelle regioni povere. Con due conseguenze. Primo: è più sensibile alle aspirazioni e ai bisogni del ceto urbano medioalto e delle lobby industriali. Secondo: governando regioni sviluppate ha potuto scremare ricchezze personali da elargire a parenti, amici e alleati.
Il dipartimento di scienze politiche dell´università di Singapore, autorevole osservatorio esterno sulla Cina, fa questa distinzione tra noi e loro: le liberaldemocrazie occidentali sono sistemi fondati sulle procedure (cioè le regole attraverso cui i cittadini selezionano i propri governanti), il sistema cinese è basato sulla performance. Non avendo un´investitura dal basso ma solo una selezione dei dirigenti per cooptazione, il regime di Pechino costruisce a modo suo una forma di consenso, e di legittimità dei suoi leader, in proporzione ai risultati - crescita, benessere economico - che garantisce alla popolazione. La stabilità è il suo obiettivo primario.
Dopo che quel sistema ha retto meglio degli Stati Uniti la terribile prova della crisi economica nel 2008-2009, Xi e i suoi sono convinti che quel modello non ha nulla da invidiare al nostro. E tuttavia, il nervosismo con cui questi leader hanno reagito alle rivolte del mondo arabo, con un inasprimento della censura su Internet e della repressione contro i propri dissidenti, indica che l´autocrazia cinese si considera meno forte e meno stabile dell´immagine che proietta all´esterno.

Repubblica 5.4.11
"Reazionario e me ne vanto" la gauche sedotta dalla Le Pen
Il fondatore di "Reporters sans Frontières" ora pubblica un libro che celebra Marine
La spiegazione: c’è troppo disprezzo a sinistra per il popolo che vota a destra
di Giampiero Martinotti


«Sono reazionario e me ne vanto». Lo slogan è solo sottinteso, ma non per questo meno esplicito. Cementa un gruppo di opinionisti che comincia a imporre le proprie idee su stampa, radio e tv. Idee che si vogliono controcorrente ma in realtà molto vicine a quelle del Fronte nazionale, portate avanti da personalità intelligenti, capaci di trovare le formule che colpiscono l´immaginazione e a loro modo coraggiose nel difendere il populismo dilagante in tutta Europa, Francia compresa. Alcuni di loro sono sempre stati a destra, altri sono transfughi della sinistra. Poco conosciuti al di là delle frontiere, sono stati recentemente raggiunti da un personaggio più conosciuto, perlomeno nelle redazioni: Robert Ménard. Fondatore di "Reporters sans Frontières", è stato per anni il più mediatico difensore della libertà di stampa e dei giornalisti incarcerati o rapiti in tutto il pianeta.
Adesso, si dichiara favorevole alla pena di morte, flirta con l´omofobia e pubblica un libro dal titolo inequivocabile: "Viva Le Pen". Per stigmatizzare, dice lui, il disprezzo degli intellettuali verso il popolo che vota per l´estrema destra.
Secondo Le Monde, i moschettieri della reazione sono cinque: oltre a Ménard gli editorialisti del Figaro Eric Zemmour e Yvan Rioufol, l´economista Eric Brunet, la giornalista Elisabeth Lévy, un tempo a sinistra. Sono solo la punta di diamante: si sa che Marine Le Pen ha reclutato alcuni alti funzionari che in passato avevano servito la destra e la sinistra nazionaliste, e nella redazione del settimanale più anti-sarkozista, Marianne, c´è stata maretta per alcuni articoli.
Il fenomeno, insomma, non va sottovalutato: se la società francese negli ultimi anni si è spostata a destra, come sostengono Nicolas Sarkozy e alcuni suoi consiglieri, i reazionari più mediatici sarebbero l´avanguardia di questo movimento.
I personaggi sono diversi tra loro, ma hanno almeno due punti in comune: non amano l´islam e gli immigrati, vogliono sdoganare il Fronte Nazionale di Marine Le Pen. Zemmour si è distinto sul primo argomento: «I francesi di origine straniera sono più controllati degli altri perché la maggior parte dei trafficanti sono arabi o neri». Dichiarazione che gli è costata una condanna a diciotto mesi per provocazione all´odio razziale, ma che lui difende: «E´ un fatto». Tutti gli altri non gli darebbero torto.
Ménard non è da meno: per lui i pedofili meritano la pena di morte, come padre «non ha voglia che i suoi figli siano omosessuali», come cittadino chiede libertà di espressione e una rappresentanza politica per l´Fn. E come i suoi compagni di lotta e di ideologia fa spesso riferimento a Voltaire, diventato da parecchi anni l´idolo di tutti i reazionari in nome della libertà di pensiero.
Ménard, Zemmour e gli altri vanno presi sul serio soprattutto perché fanno presa sul pubblico che li ascolta e, spesso, li ammira. In un paese in cui si contano cinque radio di qualità per l´informazione e i talk show e tre televisioni "all news", la presenza di opinionisti dalla lingua tagliente e dai discorsi eterodossi è sempre una benedizione. Lo dimostrano le curve dell´audience: i reazionari, quando partecipano ad un programma in cui si discutano temi di attualità o ad un dibattito di taglio politico, attirano radioascoltatori e telespettatori. Le differenze fra destra e sinistra democratica si sono affievolite, gli atteggiamenti politicamente corretti dominano nei mass-media e i reazionari ne approfittano, possono passare per degli anticonformisti che vanno controcorrente. Sono i grandi ideologi e gli alleati di un processo politico in pieno svolgimento: il traghettamento di Marine Le Pen nel mondo politico «rispettabile» e lo spostamento a destra l´asse politico-ideologico del paese. Paradossalmente, sono loro a vestire i panni degli intellettuali organici del nuovo secolo.

il Fatto 5.4.11
Eichmann. Riemerge lo scontro sull’esecuzione


Nel giorno in cui Israele ripropone, in dichiarazioni del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, il volto dell’intransigenza, sul riconoscimento di uno Stato palestinese, dagli Archivi di Stato emerge un’anima ebrea travagliata e combattuta: documenti ora pubblicati rivelano che l’impiccagione nel 1962 del gerarca nazista Adolf Eichman fu al centro di un dibattito nazionale, fuori e dentro il governo dell’allora premier Ben Gurion, sull’opportunità o meno di eseguire la condanna a morte pronunciata nel 1961. Eichmann, rintracciato nel 1960 dal Mossad in Argentina, dove si era rifugiato nel ’50 con falsi documenti rilasciatigli in Italia, fu catturato con azione da commando e fu portato in Israele per esservi processato, condannato, giustiziato. La pubblicazione su internet di molti documenti originali da parte degli Archivi di Stato israeliani avviene nell’imminenza del 50° anniversario dell’apertura del processo, l’11 aprile 1961. I testi gettano squarci di luce sulle circostanze della cattura, del giudizio, della condanna e dell’esecuzione di uno dei responsabili dell’organizzazione della cosiddetta “soluzione finale” della questione ebraica, verso la fine della Seconda Guerra Mondiale. Eichmann, che era un ufficiale delle Ss, organizzò i convogli ferroviari che trasportarono ebrei ed altri deportati verso i campi di sterminio. Il processo ad Eichmann “resta – afferma la direzione degli Archivi – una pietra miliare nella storia di Israele e nell’atteggiamento degli israeliani sull’Olocausto”. I testi riguardano anche le ripercussioni diplomatiche dell’irrituale arresto e l’atteggiamento del governo di Ben Gurion sulla copertura mediatica dell’evento, la condanna e l’esecuzione. Proprio all’approssimarsi dell’esecuzione si aprì un dibattito persino aspro sulla opportunità di mettere, o meno, a morte Eichmann. Dirigenti politici come Levy Eshkol e Yosef Burg, filosofi come Martin Buber e Natan Rothenstreich e la “poetessa nazionale” Lea Goldberg erano contrari: gli intellettuali, in extremis, chiesero un atto di clemenza al capo dello Stato Yitzhak Ben Zvi, ma prevalse la linea dell’intransigenza del premier Ben Gurion: Eichman fu impiccato il 31 maggio 1962 e le sue ceneri furono disperse in mare. (g. g.)

l’Unità 5.4.11
Ritorni. La prefazione di Michela Murgia alla nuova edizione delle «Lettere dal carcere» (Einaudi)
Un testo che lo riavvicina ai contemporanei: no, non dev’essere soltanto un monumento nazionale
Gramsci non è solo un’icona pop Restituiamolo ai ventenni di oggi
Un po’ come il Che...il volto di Gramsci è ormai un’icona. Eppure il suo pensiero rischia di essere come sterilizzato dalla sua stessa importanza. Ecco perché è cruciale, oggi, leggere (o rileggere) le «Lettere»...
di Michela Murgia


Il volto di Antonio Gramsci è un’icona pop con livelli di riconoscibilità pari o di poco inferiori a quelli di Che Guevara, di Marilyn Monroe e di Martin Luther King. Nessun altro filosofo al mondo, eccetto Marx, ha esercitato lo stesso fascino di lingua in lingua, seducendo quattro generazioni con il suo pensiero innovativo e con la forza di una dialettica cosí tagliente da aver colonizzato il linguaggio ben oltre l’area ideologica a cui voleva dare riferimenti. Espressioni come «intellettuale organico», «egemonia culturale» e «ottimismo della volontà» – anche se non sempre usate propriamente rispetto al senso originario – fanno parte da tempo del linguaggio comune, giornalistico e televisivo. Eppure proprio questa sua progressiva trasformazione in monumento intellettuale rischia di rende-
re Nino Gramsci inavvicinabile alla passione di una ventenne o di un ventenne di oggi.
Troppo ingombrante per approcciarlo senza timori reverenziali, il pensiero gramsciano finisce per essere sterilizzato dalla sua stessa importanza, il che danneggia Gramsci stesso, ridotto a santino laico tanto citato quanto poco letto, e contraddice l’umiltà rigorosa che lo portava a credersi «semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde e che non le baratta per niente al mondo». Ma soprattutto danneggia i ventenni, privati ingiustamente dell’incontro con la teoria di un maestro robusto e con la vita di un clamoroso testimone civile.
Queste lettere personali, quanto di piú lontano dall’accademia filosofica si possa immaginare, sono un ottimo modo per fare la pace con l’uomo Gramsci, conoscerne la vivacità di spirito, la piacevolissima prosa, la rettitudine morale e l’esperienza sofferta di perseguitato politico. Mentre i parenti lo piangevano carcerato e il regime fascista lo credeva politicamente neutralizzato, Gramsci rivendicava il senso della sua prigionia come atto di lotta, rivelandosi capace di generare formidabili chiavi di lettura del mondo proprio dal luogo in cui il mondo lo voleva muto e monco. Con orgoglio lo ripete alla cognata che nelle lettere lo compativa: «Io non sono un afflitto che debba essere consolato, e non lo diverrò mai». La vicenda biografica del carcere di Gramsci commuove, indigna e conquista al punto che, dopo questo approccio, avvicinarsi al suo pensiero piú strutturato sembrerà il naturale proseguo di un’amicizia spontanea con un uomo speciale.
LA FEDINA PENALE
Per avere una prospettiva completa sugli scritti personali di Gramsci in carcere bisognerebbe essere cosí fortunati da avere a disposizione due strumenti: il primo sono le lettere vere e proprie, l’altro è la sua fedina penale, perché il percorso intimo e quello burocratico carcerario si intrecciano in maniera cosí dissonante che solo accettando di stare dentro la loro contraddizione si può intuire davvero la complessità dell’uomo Gramsci e del tempo che ha vissuto.
Di solito i documenti giudiziari sono freddi e poco esplicativi, ma dalla lettura di quella preziosa fedina penale si capiscono invece molte cose, prima tra tutte che il regime fascista era un sistema ipocrita al punto da non poter fare a meno della messa in scena di una qualche forma di legalità: per combattere gli avversari politici non si limitava a imprigionarli, ma cercava di legittimare il proprio arbitrio costruendo intorno a loro un impianto formale fatto di reati inventati che attribuissero l’apparenza del danno sociale al moto di dissenso che si voleva soffocare.
Per mettere a tacere Nino Gramsci di reati ne furono inventati ben sei: cospirazione, incitamento ai militari per disobbedienza alle leggi, offese al capo del governo, incitamento alla guerra civile, incitamento alla insurrezione e al mutamento violento della costituzione e della forma di governo e infine incitamento all’odio di classe e alla disobbedienza delle leggi a mezzo stampa. Poiché però per reati fittizi non si possono chiamare in causa giudici veri, a decretare la condanna di Gramsci non era stata la magistratura ordinaria, ma una corte fascista, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato in Roma, di fatto una magistratura parallela che si occupava dei nemici politici del regime. Persino la sentenza risentiva dell’ipocrisia del contesto: vent’anni di reclusione, seimiladuecento lire di multa, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e due anni di vigilanza speciale erano solo apparentemente una detenzione; a tutti gli effetti costituivano una condanna a morte, la traduzione formale della richiesta del pubblico ministero Michele Isgrò, un uomo talmente complessato dall’autorevolezza intellettuale dell’imputato da concludere la sua requisitoria con la famosa frase: «Dobbiamo impedire a questo cervello di pensare per vent’anni».
Quel tribunale gli comminò dunque l’annullamento civile e quello politico, ma anche quello meramente fisico, perché nove anni dopo, quando il regime rilasciò Gramsci a causa delle sue disperate condizioni di salute, egli morí in meno di una settimana.
Nell’avvicinarsi a queste lettere non bisogna dimenticare che sono il testamento intimo di un uomo innocente finito in carcere a causa di quello che pensava, un uomo giovane che non si godrà il suo amore, che non vedrà crescere i suoi figli, la cui anziana madre morirà a sua insaputa e la cui salute declinerà gravemente di prigione in prigione, fino
alla morte avvenuta a meno di cinquant’anni. Se non si ricorda questo, sarà facile farsi sedurre dallo spirito eccezionalmente vivace di Gramsci – quello che lui stesso definiva come «un certo spiritello ironico e pieno di umore che mi accompagna sempre» – che permea il carteggio al punto che egli quasi riesce nel miracolo di far dimenticare da dove e in che condizioni scrive. Tenerlo a mente serve non solo a mantenere un corretto approccio ermeneutico ai testi, ma anche – ed è la cosa piú appassionante per un lettore che non abbia solo intenti accademici – a capire la misura morale di un uomo la cui libertà di spirito aumentava in proporzione inversa al peggioramento delle sue condizioni detentive. In questo carteggio multiforme appaiono scorci splendidi della i prefazione sua natura umana: ricordi vividi dell’infanzia in Sardegna, l’amore per gli animali che Gramsci coltivava anche in cella addestrando passeri e altre creature che riuscivano a passare le sbarre, il rapporto via via sempre piú teso con la moglie e quello parallelo, tenerissimo e confidenziale, con la cognata, a tutti gli effetti una consorte vicaria.
UMORISMO E TENEREZZA
Ci si sbalordisce per la sua straordinaria passione per lo studio, che lo portava a leggere un libro al giorno delle materie piú svariate e in piú lingue, arrivando a mandarne a memoria alcune parti nei frequenti periodi in cui gli veniva impedito di avere a disposizione carta e penna per gli appunti. Si scopre in lui anche l’inatteso talento inventivo, proprio di un narratore naturale, che lo spingeva a costruire piccoli racconti per il diletto della cognata, spesso conditi da un irresistibile senso dell’umorismo. Commuove la sua tenerezza di padre, quando completamente debilitato scrive ai figli piccoli gli ultimi brevi biglietti di saluto e istruzione, nei quali mai traspare la progressiva certezza di non rivederli piú. Conquistano persino certi cedimenti allo sconforto, alla rabbia, al senso di abbandono quando le lettere si diradano o si perdono, portandolo a lamentarsi vivacemente. Questo piccolo, stortignaccolo uomo in carcere giganteggia davanti al lettore in ogni riga e senso possibile, e a centovent’anni dalla nascita continua a prendersi gioco della sua stessa fama, esattamente come fece con quel compagno di carcere a Palermo che, incredulo di trovarsi davanti al vero Antonio Gramsci, lo apostrofò dicendo: «Non può essere. Antonio Gramsci dev’essere un gigante, e non un uomo cosí piccolo». Il galeotto non gli rivolse piú la parola, deluso della distanza tra la proiezione e l’originale. Non saprà mai cosa si è perso.

Repubblica 5.4.11
Mamme diventate tigri
Amy Chua: "Più disciplina per i figli. Ecco perché ho sconvolto l’America”
"Attendersi molto dai ragazzi significa avere fiducia nelle loro capacità: questo dice la nostra tradizione"


Intervista con la studiosa che ha raccontato in un libro la sua esperienza di "genitore asiatico" Pretendere il massimo impegno nello studio e proibire Facebook ha fatto gridare al mostro

"Non ho mitizzato l´educazione cinese Molti mi hanno scritto: vorremmo essere meno permissivi"

Nessuno, a cominciare dall´autrice, aveva previsto che un libro autobiografico sui rapporti tra una madre e due figlie adolescenti potesse suscitare un simile pandemonio. Uno scandalo, uno psicodramma collettivo come non si vedeva da decenni. Fino alle minacce di morte rivolte all´autrice. Non da qualche imam fondamentalista, ma da "rispettabili" genitori americani. Offesi, sconvolti nelle loro certezze. O forse peggio: improvvisamente denudati nelle loro debolezze. E messi di fronte ai fallimenti di un´intera generazione di educatori. La causa dello shock è una brillante studiosa di diritto internazionale e di storia, Amy Chua. 48 anni, docente a Yale, autrice di importanti saggi sul declino e l´ascesa degli imperi, finora Amy Chua era un´autorità rispettata ma conosciuta solo negli ambienti più colti. Mai avrebbe immaginato il balzo di popolarità – e l´esplosione di controversie – che è venuto da una innocua decisione: raccontare la propria vita di figlia di immigrati cinesi negli Stati Uniti, mettendo al centro dell´autobiografia le differenze culturali nei rapporti genitori-figli e nello stile di educazione, fra asiatici e americani. Ne è uscito Il ruggito della mamma tigre, pubblicato ora in Italia da Sperling&Kupfer. Lo ha lanciato in America un´anticipazione del Wall Street Journal dal titolo forte: "Perché le mamme cinesi sono superiori". Ahi. Più di un milione di lettori hanno divorato l´anticipazione, in migliaia hanno reagito con lettere o email. Spesso inferociti, di fronte a certe forme di autoritarismo: il divieto di andare alle feste degli amici, di trastullarsi su Facebook o di guardare la tv fino a tardi la sera, le massacranti ripetizioni al pianoforte o al violino, la pretesa che sulle pagelle ci siano solo i voti massimi, la durezza con cui viene respinto dalla mamma ogni risultato scolastico men che eccellente. "Un mostro", l´ha aggredita una telespettatrice al Today Show. Ma dietro i risentimenti traspare un´ondata d´insicurezza collettiva. Dopo decenni di permissivismo, una cultura di massa che ha trasformato l´America in una "dittatura del teenager", con genitori che danno sempre ragione ai figli (in nome dell´"autostima") contro i professori, i risultati sono sotto gli occhi di tutti: gli asiatici stravincono le gare per le borse di studio nelle migliori università Usa, i liceali americani non arrivano neanche al ventesimo posto nella classifica internazionale Ocse-Pisa sull´apprendimento, dove al primo posto svettano gli studenti di Shanghai. Ne parlo con Amy Chua a New York, nella pausa fra un talkshow televisivo e l´altro, mentre la tempesta su di lei non accenna a placarsi. Ci manca poco che le addebitino anche il massacro di Tienanmen o la repressione contro il Tibet e il Dalai Lama.
Lei come spiega questo uragano di accuse e di polemiche?
«In parte è il risultato di una lettura unidimensionale. No, nel libro non c´è la tesi che le mamme cinesi sono superiori. Nella seconda parte racconto il mio conflitto con la figlia più piccola, le lezioni che ho appreso da una 13enne ribelle, e come ho rivisto certi principi dell´educazione cinese. Ma le reazioni americane in parte sono legate alla rivalità con la Cina, all´impatto inquietante delle classifiche internazionali sulla mediocre performance scolastica dei ragazzi americani. Infine, probabilmente questo libro è uscito quando il "pendolo" stava tornando indietro, era già matura una revisione autocritica rispetto ai principi della pedagogia permissiva in voga da decenni. Ho ricevuto anche tante reazioni positive. C´è chi mi ha scritto per dirmi: vorrei essere un genitore più severo, ma c´è troppa pressione nell´ambiente sociale che m´impedisce di cambiare».
Il clima che lei fa regnare in casa sua, a molti americani sembra quello di una caserma.
«Invece un po´ di disciplina e di organizzazione fa bene ai ragazzi: due ore di studio la sera sono più che sufficienti, se si concentrano al 100% e non vengono distratti possono andare a letto alle dieci. Troppi adolescenti americani tra videogame e Facebook hanno giornate che non finiscono mai, dormono troppo poco, soffrono di depressione. E come rimedio quando si arriva a queste patologie, i medici li imbottiscono di psicofarmaci».
Una regola d´oro della pedagogia progressista è istillare ai ragazzi fiducia in se stessi. Lei invece arriva a rifiutare un cartoncino d´auguri disegnato da sua figlia troppo frettolosamente. I voti se non sono l´equivalente della lode "non sono abbastanza".
«Tutto questo è inaccettabile secondo le regole politically correct in America. Ma io qualche volta ho l´impressione che i genitori americani ottengono il risultato opposto: trasmettono l´idea che i loro figli sono deboli, perciò non si può pretendere troppo da loro, bisogna accontentarsi. Quello che mi piace della tradizione asiatica, è che nel pretendere molto dai propri figli si comunica una grande fiducia nelle loro capacità. Qualche volta i genitori americani sembrano impauriti dai propri figli. Che razza di segnale gli mandano in questo modo?».
Una delle ricchezze del suo libro è nei tanti shock culturali che rivela. Comprese le divergenze tra lei e suo marito, Jed Rubenfeld, anche lui giurista a Yale e scrittore, nonché ebreo-americano. Ma forse lo shock più divertente è quello che si è prodotto dopo: quando il suo Ruggito della madre tigre è stato tradotto… in Cina.
«Lì è successo tutto il contrario, rispetto alle reazioni americane. La parte del libro in cui descrivo il rispetto dei figli per i genitori, i rapporti di autorità, le regole severe, il divieto di andare alle feste degli amici: tutto questo in Cina lo si dà per scontato, è quasi banale, non fa notizia. I lettori cinesi sono stati colpiti invece dal finale: la ribellione di mia figlia minore, e come io mi sono dovuta adattare. Così il libro in Cina è stato venduto con una campagna di marketing completamente diversa, che dice: una professoressa di Yale vi spiega il metodo occidentale per educare i figli!».

Terra 5.4.11
Pedofilia nel clero
«La Chiesa continua a insabbiare i crimini»
Federico Tulli da Londra

1 e 6

Terra 5.4.11
Domenica di sangue
di Francesca Pirani

13

lunedì 4 aprile 2011



Il Sole 24 Ore Domenica 19.4.09
L’inedito di Franco Volpi censurato dal figliastro
E alla fine dico: «Good-bye Heidegger»
di Franco Volpi



Riportiamo qui di seguito parte di una lettera di Franco Volpi, morto prematuramente martedì scorso, ad Armando Massarenti - nel quadro di uno scambio in occasione della pubblicazione del volume di scritti heideggeriani che Massarenti aveva curato per il Sole 24 Ore - in cui lamentava la censura degli eredi sulla introduzione ai Beiträge di Heidegger (Contributi alla filosofia, traduzione di Franco Volpi e Alessandro Iadicicco, Adelphi 2007):
«Caro Massarenti, (...) Al mio ritorno [da Santiago del Cile] ho parecchie cose da raccontarti: la mia introduzione ai Beiträge (che stanno uscendo da Adelphi) è stata considerata troppo critica dal figliastro di Heidegger e censurata. È ancora in corso una trattativa per tentare di salvare capra e cavoli (dunque ti pregherei di mantenere ancora assoluto riserbo sulla questione), ma davvero mi viene voglia di seguire l'esempio di Maurizio Ferraris e scrivere un libello: Good-bye Heidegger. A Santiago del Cile, dove vado per una conferenza di chiusura al congresso di fenomenologia ed ermeneutica, volevo parlare di Heidegger e Wittgenstein, ma ho deciso cambiare tema e ho dato come nuovo titolo proprio questo: "Good-bye Heidegger. La mia introduzione censurata ai Beiträge"».
Era l’11 ottobre 2007. Qualche tempo più tardi, il 18 novembre, dopo ulteriori scambi, Franco Volpi spedì a Massarenti il brano più significativo che era stato censurato, rimasto finora inedito. Lo proponiamo qui per la prima volta. È un paragrafo dell’introduzione ai Contributi alla filosofia intitolato «Naufrago nel mare dell'Essere».


I «Contributi alla filosofìa»? «Il diario di un naufragio. Avventurandosi troppo in là nei mari dell'Essere, il suo pensiero va a fondo»
L’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Heidegger, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi alla filosofia. È forse un caso che Heidegger ponga in esergo ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961) una epigrafe tratta dall'Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Contributi? Questi terminano con una "fuga" che tratta dell'ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione: «Quasi due millenni e non un solo nuovo dio!».
Forse Heidegger non è più riuscito a risollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche. Nella triste luce dell'esaurimento, l'Essere - quest'ospite solitamente fugace dei nostri pensieri - rimane per il grande Heidegger l'ultima chimera che valga la pena di sognare. Tutti i suoi sforzi mirano a quest'unica meta, l'Essere, ma i sentieri si sono interrotti. La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo "procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofìsta, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose - l'Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo - soffiando sul mito greco-germanico dell'originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l'aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell'etimologia si rivela un abuso (...). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l'uomo funge da pastore dell'Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell'ultimo Heidegger, bensì l'ammirazione supina e spesso priva di spirito critica che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Certo, i comuni mortali spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero allora davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell'Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime.

La Stampa Tuttolibri 2.4.11
Fox, la teologia messa all’indice
di Gianni Vattimo

Il libro di Matthew Fox In principio era la gioia inaugura degnamente la nuova collana di teologia diretta da Vito Mancuso e Elido Fazi, che ne è l’editore (pp. 423, 19,50). Lo si può e deve raccomandare senz’altro come fonte di edificazione spirituale, come manuale di meditazione, come guida per una possibile esperienza mistica. Come molto spesso la teologia non è edificante, così l’edificazione sembra prestarsi poco a discussioni e argomentazioni teologiche. Che il libro sia qualcosa di più di un banale testo di edificazione, tuttavia, lo possiamo indurre dal fatto, per nulla trascurabile, che in conseguenza della sua pubblicazione (1983) l'autore fu espulso (1993), per iniziativa dell’allora cardinale Ratzinger, capo del Sant’Uffizio, dall’ordine domenicano, nel quale era stato discepolo di un grande teologo come Chenu. Se per alcuni già questa espulsione è una raccomandazione positiva, ce n’è un’altra che si scopre solo dopo la lettura delle dense trecento pagine del libro, e che suona così «Tutto questo libro, in realtà, non è altro che l’esposizione della spiritualità degli anawim , degli oppressi» (p. 331).
Non occorre dunque motivare ulteriormente la simpatia che sentiamo fin dall’inizio per il libro e il suo autore. Anche se alcuni elementi che lo caratterizzano suscitano qualche resistenza: la sistematicità della costruzione, che ripete e anche rinnova certi schemi tipici dei manuali di spiritualità della tradizione cattolica, con la articolazione di Via positiva, Via negativa, Via creativa, Via trasformativa; la fluviale abbondanza delle citazioni messe in esergo ai vari capitoli, dove è convocata tutta la storia della mistica, della poesia, del pensiero spirituale non solo dell’Occidente (e che ha anche il senso positivo di offrire una specie di summa antologica di questo pensiero). Soprattutto, ciò che attrae ma anche respinge nel libro, è il suo tono «positivo», che fa pensare talvolta a certe forme di nuova religiosità «americana» (New Age) verso cui nutriamo rispetto ma che non sentiamo nostre.
Il perché di un certo disagio verso quest’ultimo aspetto del libro è anche la sua sostanza teorica e teologica. La reazione di sospetto è motivata per l’appunto da ciò che ancora domina la nostra esperienza religiosa: siamo tutti figli di Agostino, direbbe Fox, cioè succubi di un’educazione che ci ha abituati a pensare la storia della salvezza come redenzione dalla caduta originaria nel peccato. Non per nulla il titolo inglese del libro è Original Blessing , Benedizione originale. Noi di originale abbiamo sempre conosciuto soprattutto il peccato: l’atto d’amore che ha dato luogo alla creazione, la benedizione originale, è stato subito macchiato dalla storia del serpente e della mela. La storia dei nostri rapporti con Dio è una storia di caduta, pena e redenzione, anche questa però operata solo in forza di un sacrificio, di una pena che lo stesso Figlio di Dio si sarebbe caricato sulle spalle sopportando il dolore della Crocifissione.
Ma, dice Fox, «nessuno credeva al peccato originale prima di Agostino», così per esempio Sant’Ireneo di Lione che scriveva duecento anni prima di lui (p.49). La «benedizione», l’atto di amore con cui Dio crea il mondo e ci dà la vita è un’idea biblica molto più originaria. Agostino ha costruito la dottrina del peccato originale solo negli ultimi anni della sua vita, fondandosi su un passo della lettera di Paolo ai Romani (5,12) che egli legge come se dicesse che con Adamo tutti gli uomini hanno peccato, e perciò portano in sé la stessa colpa. La filosofia occidentale (Kant: l’idea del «male radicale») ha ripreso questa dottrina ritenendo che l’inclinazione al male sia un dato naturale nell’uomo, con conseguenze importanti anche sul modo di intendere la società. E anche tutto il modo che abbiamo ereditato di considerare il corpo, i sensi, l’erotismo è profondamente legato a questo primato del peccato.
Fox si propone l’impresa niente affatto semplice di ripensare il cristianesimo fuori dalla corrusca luce che via ha imposto l'agostinismo. Non certo facendo come se di peccato non si debba più parlare - egli stesso, nelle quattro sezioni in cui illustra le sue quattro «vie», dedica pagine intense a come si configura il peccato dal punto di vista di ciascuna di esse: che si riduce sempre a una qualche forma di resistenza inerte (egoistica, conservatrice) contro la positività della relazione con il mondo, con la natura, con gli altri.
Ma le disavventure che ha incontrato con la gerarchia cattolica avvertono della difficoltà anche teorica della sua posizione, almeno sul piano dottrinale. La Chiesa ha sempre lasciato molta libertà ai tanti mistici che Fox richiama nel libro, da Ildegarda di Bingen a Meister Eckhart a Giuliana di Norwich a Simone Weil - certo non a Giordano Bruno, che è uno dei grandi ispiratori di questo testo. Ma sul piano della dottrina accettata e insegnata il discorso era ed è ancora molto più rigido. Ognuno di noi, e Fox stesso e i suoi discepoli, può (dovrebbe anzi) praticare in privato la propria religione con questo spirito di benedizione dimenticando la cupa idea della colpa collettiva. Ma da questa idea dipendono troppe «discipline», rapporti di potere, veri e propri privilegi della casta (!) sacerdotale perché una proposta di rinnovamento teologico e spirituale come questa non si scontri alla fine con la necessità di una autentica rivoluzione. Forse sarebbe ora, ma vi pare che sia il tempo propizio?
"Un «manuale di spiritualità» per ripensare la fede cristiana senza la paura del peccato"

La Stampa Tuttolibri 2.4.11
Benedetto XVI Gesù è per tutti
di Enzo Bianchi

«E voi, chi dite che io sia?». A questa domanda di Gesù, è Pietro, voce unificante del gruppo degli apostoli, a rispondere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,15-16). Se ci pensiamo bene, è proprio innanzitutto a questo interrogativo essenziale che il successore di Pietro è chiamato in ogni tempo e ancora oggi a rispondere, facendosi interprete della fede della chiesa tutta. Ed è quanto papa Benedetto XVI fa anche con la seconda parte della sua opera su Gesù di Nazaret. (Libreria Editrice Vaticana, pp. 380, 20), affrontando la vicenda di Gesù e della fede dei discepoli «dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione».
Come già per la prima parte di quest’opera di ampio respiro, l’approccio mira a far emergere quel consenso ecclesiale, quel sensus fidei nel leggere la figura di Gesù che ha attraversato la storia della chiesa e che, nel corso dei secoli e fino ai decenni più recenti, ha saputo far tesoro di studi, commenti, interpretazioni, metodologie anche assai diverse tra loro. Qualcuno si è chiesto se vale la pena che un Papa metta tante energie nello scrivere libri, magari sottraendo tempo al suo «governo», pensato secondo i criteri politici di tutti i governi del mondo. Ma Benedetto XVI fa ciò che gli compete ed è decisivo per il suo ministero petrino: confermare la fede in Gesù Cristo. Questo è l’insegnamento determinante per un papa: perciò un atto deliberatamente non magisteriale come il libro, è tuttavia una confessione di fede fatta dalla chiesa oggi, in sinfonia con la grande tradizione cattolica.
Anche il linguaggio volutamente piano e pedagogico, capace di distillare gli elementi più consolidati dell’esegesi storico-critica e di fonderli con la lettura sapienziale propria della grande tradizione patristica e spirituale, rende quest’opera di Benedetto XVI particolarmente appetibile anche per il largo pubblico: un ragionare discorsivo che viene incontro alla sete di conoscenza e al desiderio di comprensione che è presente anche in molte persone lontane o marginali rispetto alla compagine ecclesiale. Ora, si tratta di un approccio fondamentale proprio per i capitoli conclusivi dei Vangeli, che trattano la passione, morte e risurrezione di Gesù: brani che affrontano da un lato il cuore dell’incontro-scontro tra la figura e la predicazione di Gesù e le istituzioni religiose giudaiche e l’autorità politica romana e, dall’altro, il nodo stesso dell’interpretazione degli scritti del Nuovo Testamento.
Semplice rielaborazione storica di eventi accaduti o non piuttosto riflessione interpretativa che riesce a coniugare l’esperienza vissuta dai primi discepoli con la fede della chiesa nascente? In questo senso alcuni critici dell’opera del papa finiscono per incespicare nelle loro stesse argomentazioni: non si può infatti invocare la «storicità» di alcuni brani evangelici per contrapporla all’interpretazione teologica della prima comunità cristiana di cui risentirebbero altri passaggi neotestamentari.
Non solo lo studioso, ma anche il lettore ordinario sa che l’intero Nuovo Testamento è stato scritto dopo la risurrezione di Gesù o, se si vuole, dopo la predicazione di questo evento sconvolgente ad opera dei primi discepoli. È quindi questo dato «di fede» a costituire da subito il criterio interpretativo di tutta la vicenda storica di Gesù. Questo non significa - e il lavoro di Benedetto XVI lo evidenzia con singolare efficacia - "Un linguaggio piano e pedagogico, un ragionare discorsivo che si rivolge anche a chi è lontano dalla Chiesa"
Che la dimensione storica non abbia spazio nell’ambito della predicazione e dell’autocomprensione della chiesa, ma piuttosto che «l’incarnazione», il calarsi del Figlio di Dio nella condizione umana abbraccia non solo le debolezze della carne umana ma anche la fragilità di un annuncio non scrutabile esaurientemente alla luce dei soli dati storico-critici.
Per i cristiani non è decisiva innanzitutto la parola «Dio», bensì la conoscenza di Gesù Cristo, colui che ha «narrato Dio», come testimonia il prologo del quarto Vangelo. È attraverso la conoscenza di Gesù Cristo, della sua vita, delle sue parole, della sua passione, morte e risurrezione che si giunge ad aver fede e a conoscere il «Dio che nessuno ha mai visto». Sovente i cristiani, soprattutto nel recente passato erano istruiti intellettualmente su Dio, la sua esistenza, la sua provvidenza: erano credenti in un Dio attorniato da santi con cui avevano maggiore familiarità e di cui conoscevano le «storie», ma pochi tra di loro arrivavano ad avere fede in Gesù Cristo attraverso la conoscenza della sua vita e morte narrate dai Vangeli.
Benedetto XVI con questa sua rilettura di Gesù Cristo apre, forse come mai avvenuto prima, una conoscenza essenziale alla fede dei cristiani che non sono teisti, né in certo senso monoteisti, ma aderenti a un Dio unico che è una comunione di amore e che si è rivelato pienamente e definitivamente nella vita umana di Gesù Cristo suo Figlio.
La fede cristiana, allora, non è meno solida per il fatto di fondarsi non su una prova incontrovertibile - almeno secondo i criteri moderni - della risurrezione di Gesù, bensì sulla testimonianza di uomini e donne semplici ma divenuti «affidabili» per quanti ne hanno ascoltato la predicazione. Ammettere che la fede si basa non sull’aver visto o toccato con mano alcunché, bensì sulle umanissime parole e sui gesti concreti di persone «normali» dotate di risorse intellettuali e di patrimoni culturali più o meno ricchi, significa compiere il primo passo nella comprensione che la rivelazione, l’invito pressante all’amore rivolto da Dio al suo popolo e portato a compimento nella vita di Gesù e nella sua morte per gli altri «non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?... Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (Dt 30,12-14)».

Repubblica 2.4.11
Viviamo in una dittatura del calcolo pur vedendone i limiti Per questo abbiamo l'esigenza di rifondare l'umanesimo
Unire Illuminismo e Romanticismo è la sfida del secolo
di Edgar Morin

Viviamo in una dittatura del calcolo pur vedendone i limiti Per questo abbiamo l´esigenza di rifondare l´umanesimo
Unire Illuminismo e Romanticismo è la sfida del secolo

La cultura occidentale, da sempre prigioniera del mito della ragione, ha idealizzato una razionalità pura, radicalmente separata dalle emozioni e dalle passioni. Antonio Damasio ci ha però insegnato che la razionalità pura non esiste. Ogni attività razionale è sempre accompagnata da una dimensione emotiva. Anche il più razionale dei matematici è animato dalla passione della matematica. Non si può pensare – come faceva Hegel – che tutto sia riconducibile al dominio della ragione, al contrario dobbiamo essere coscienti che moltissimi aspetti del reale sfuggono alla comprensione razionale. Una razionalità aperta e non ottusa, dovrebbe cercare di comprendere e integrare quest´altra dimensione.
La nostra cultura, invece, ha sempre inseguito un illusorio dominio della ragione, favorendo – come ha ricordato Adorno – una razionalità puramente strumentale, spesso al servizio di progetti deliranti. Per questo, lo sviluppo della civiltà occidentale – tutto sotto il segno dell´efficacia economica e del dominio della natura – è spesso figlio dell´hybris nata da una ragione troppo sicura di sé. Lo sviluppo scientifico ed economico – che pensavamo essere perfettamente razionale – produce così risultati del tutto irrazionali, come ad esempio la distruzione della biosfera, che è la nostra condizione vitale. 
Questa visione riduttiva e semplicistica della razionalità è all´origine dell´odierna dittatura del calcolo, che il razionalismo occidentale considera una condizione necessaria e sufficiente per dominare la realtà, dimenticando che molti degli aspetti essenziali della nostra vita – l´amore, l´odio, il desiderio, la gelosia, la paura, ecc. – sfuggono del tutto ad ogni logica quantitativa. E perfino negli ambiti in cui il calcolo dovrebbe trionfare, ad esempio l´economia, la dimensione irrazionale è spesso decisiva, come ha dimostrato l´ultima crisi. 
A questa razionalità chiusa e ottusa, va contrapposta un´altra razionalità, aperta e autocritica, che è sempre stata una corrente minoritaria del pensiero occidentale. È la razionalità di Montaigne, ma anche di Montesquieu o Lévi-Strauss. Una razionalità critica che accetta l´idea che le sue teorie possano essere rimesse in discussione. Essa non solo riconosce i propri errori, come ha insegnato Popper, ma sa anche accettare ciò che sfugge al suo dominio e alla sua comprensione. «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce», ha scritto Pascal, ricordandoci l´importanza delle passioni, che devono essere integrate alle nostre modalità di conoscenza e di relazione con il mondo. Accanto alla lucidità razionale, occorre quindi valorizzare il potere conoscitivo delle passioni e delle emozioni (da sottoporre comunque a un controllo critico). Tra ragione e passione il dialogo deve essere continuo. Questa esigenza non è una novità. Basti pensare a Jean-Jacques Rousseau, che già ai tempi dell´Illuminismo sottolineava l´insufficienza del pensiero razionale e l´importanza dei sentimenti. Lo stesso vale per il romanticismo. 
Oggi sarebbe importante tenere insieme le verità dell´illuminismo e quelle del romanticismo. Purtroppo non lo si fa quasi mai, perché siamo tutti prigionieri di una logica binaria che domina anche il mondo dell´educazione, dove si privilegia la razionalità, in nome di un universo fatto solo di certezze e una visione riduttiva dell´uomo. In realtà, accanto ad alcuni arcipelaghi di certezze incontestabili, noi ci muoviamo in un universo fatto da oceani d´incertezza. Se veramente volessimo insegnare ai giovani la complessità della realtà umana, dovremmo spiegare loro che, accanto all´homo sapiens, figura sempre l´homo demens, giacché il delirio e la follia sono da sempre una delle polarità umane. Come pure, accanto all´homo oeconomicus, non manca mai l´homo ludens, quello che adora il sogno e il gioco. Insomma, l´homo faber non è solo un inventore di macchine, ma anche un produttore di miti e di credenze che non poggiano certo sulla razionalità. Riconoscere questa ricchezza e questa complessità è oggi una necessità, perché solo così sarà possibile affrontare le sfide della contemporaneità.
(testo raccolto da Fabio Gambaro)

Repubblica 2.4.11
Le cinque virtù dell’uomo nuovo
di David Brooks

L´Occidente è abituato a valutare gli uomini basandosi solo sulla razionalità, sull´efficienza e sulla competenza professionale. Ma la storia dimostra che le società complesse hanno bisogno di altri criteri: bisogna tener conto delle relazioni tra le persone, delle loro aspirazioni, dei loro sentimenti, tentando di unire illuminismo e romanticismo. Dalla sintonia al desiderio di trascendenza, ecco cinque punti per fondare un nuovo umanesimo

Dobbiamo puntare a una visione diversa più ricca e profonda Che tenga conto dell´importanza dei rapporti tra le persone
Per la nostra società l´essere umano è una creatura divisa in due: ragione e sentimento. Sappiamo parlare della prima ma siamo impreparati sul secondo
Dalla sintonia al desiderio di infinito ci salveranno le qualità emotive

Sono stato testimone di un buon numero di errori politici. Dopo il crollo dell´Unione Sovietica, gli Stati Uniti inviarono sul posto un gruppo di economisti, senza mettere in conto il basso livello di "fiducia sociale" di quel mondo. Al momento dell´invasione dell´Iraq, i vertici americani si trovarono impreparati di fronte alla complessità culturale di quel Paese, e ai traumi psicologici di assestamento dopo il regime di terrore di Saddam.
Avevamo un sistema finanziario basato sull´idea che i dirigenti delle banche fossero esseri razionali, non soggetti ad abbandonarsi in massa ad azioni insensate. In questi ultimi trent´anni abbiamo tentato in vari modi di riformare il nostro sistema scolastico, sperimentando di tutto, dai megaistituti alle miniscuole, dai charter ai voucher.
Ma per troppo tempo abbiamo eluso la questione centrale: quella del rapporto tra docenti e allievi.
Sono arrivato a credere che questi errori nascano tutti da un unico equivoco, dovuto a una concezione semplicistica della natura umana. La nostra società – e non mi riferisco solo al mondo politico, ma a numerose altre sfere – vede l´essere umano come una creatura divisa in due parti distinte: da un lato la ragione, di cui è giusto fidarsi; dall´altro le emozioni, che sono invece sospette. Si tende a credere che il progresso sociale sia portato avanti dalla sola ragione, nella misura in cui riesce a reprimere le passioni.
Questa concezione conduce a una distorsione della nostra cultura, che esalta il razionale e il cosciente, ma resta nel vago sui processi in atto negli strati più profondi. Siamo bravissimi a parlare di cose materiali, ma quando si tratta di emozioni la nostra abilità viene meno.
Cresciamo i nostri figli focalizzando tutta l´attenzione sugli aspetti misurabili attraverso i voti o i test attitudinali; ma spesso non abbiamo nulla da dire sugli aspetti più importanti, come il carattere o il modo di gestire i rapporti. Nella vita pubblica, le proposte politiche provengono spesso da esperti perfettamente a loro agio in correlazione con quanto può essere misurato, quantificato o aggiudicato, ma che ignorano tutto il resto.
Eppure, mentre siamo tuttora invischiati in questa concezione amputata della natura umana, vediamo emergere una visione nuova, più ricca e profonda, grazie all´opera di un gran numero di ricercatori delle più diverse discipline, dalla neuroscienza alla psicologia, dalla sociologia all´economia comportamentale e via dicendo.
Questo corpus di ricerche, disperso ma sempre crescente, ci richiama alla mente una serie di concetti chiave. Ricordiamo innanzitutto che la parte più importante della mente è quella inconscia, sede dei più straordinari prodigi del pensiero. In secondo luogo, l´emozione non è contrapposta alla ragione; sono anzi le nostre emozioni ad attribuire valore alle cose, e a costituire la base della ragione. Infine, noi non siamo individui che costruiscono relazioni reciproche, bensì animali sociali profondamente interpenetrati gli uni con gli altri, "emersi" proprio grazie alle nostre relazioni.
Alla luce di questo, la visione illuminista francese della natura umana, che pone in primo piano l´individualismo e la ragione, appare fuorviante, mentre sembra più vicina al vero quella dell´illuminismo britannico, che privilegia il senso sociale e non ci descrive come creature divise. Il nostro progresso non avviene solo grazie alla ragione e al suo dominio sulle passioni. Evolviamo anche educando le nostre emozioni.
Una sintesi di queste ricerche apre nuove prospettive in tutti i campi, dal mondo economico alla politica, passando per la famiglia. E porta a non privilegiare più lo sguardo analitico sul mondo, ma piuttosto il modo in cui le persone lo percepiscono per organizzarlo nella loro mente. Si guarda un po´ meno ai tratti individuali, e si presta maggiore attenzione alla qualità dei rapporti tra gli esseri umani.
Cambia anche il modo di vedere quello che chiamiamo «capitale umano». Nel corso degli ultimi decenni si è affermata la tendenza a definirlo nel senso più restrittivo del termine, ponendo l´accento sul quoziente di intelligenza e sulle competenze professionali – che certo sono importanti. Ma le nuove ricerche pongono in luce tutta una serie di talenti più profondi, che abbracciano sia l´aspetto razionale che quello emotivo, fondendo insieme queste due categorie:
1) Sintonia: la capacità di immedesimarsi nella mente altrui, prendendo conoscenza di ciò che ha da offrire.
2) Ponderatezza: la capacità di osservare serenamente i moti della propria mente e di correggerne gli errori e i pregiudizi.
3) Metis (da Metide, dea greca della saggezza, ndt) : la capacità di individuare gli schemi e i modelli di sistemi aggregati (pattern) comprendendo l´essenza delle situazioni complesse.
4) Simpatia: la capacità di inserirsi nell´ambiente umano che ci circonda e di evolvere all´interno dei movimenti di un gruppo.
5) Limerence (termine coniato dalla psicologa Dorothy Tennov per descrivere lo stadio finale, quasi ossessivo dell´amore romantico, uno sorta di ultra attaccamento, ndt): più che un talento, è una motivazione. Se la mente cosciente è avida di denaro e di successo, quella inconscia ha sete dei momenti di trascendenza in cui, mettendo a tacere la skull line - la «linea del cranio» - ci abbandoniamo perdutamente all´amore per l´altro, all´esaltazione per una missione da svolgere, all´amore di Dio. Un richiamo che sembra manifestarsi in alcuni con potenza molto maggiore rispetto ad altri.
Le tesi elaborate sul subconscio da Sigmund Freud hanno avuto effetti di vasta portata sulla società, oltre che sulla letteratura. Oggi, centinaia di migliaia di ricercatori stanno facendo emergere una visione sempre più accurata dell´essere umano. E pur essendo di natura scientifica, il loro lavoro orienta la nostra attenzione verso un nuovo umanesimo, poiché sta incominciando a porre in luce la compenetrazione tra emotività e razionalità.
Mi sembra di intuire che questo lavoro di ricerca avrà effetti di vasta portata sulla nostra cultura, cambiando il nostro modo di vedere noi stessi. E chissà che magari un giorno non riesca persino a trasformare la visione del mondo dei nostri politici.
(L´autore è un editorialista del New York Times, il suo ultimo libro, che ha ispirato questo articolo, si intitola "The Social Animal")
© 2011 The New York Times - Distributed by The New York Times Syndicate
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

l’Unità 4.4.11
Divulgazione
Il manuale Scritto dai ginecologi Flamigni e Pompili per poter scegliere
Tutto quello che c’è da sapere e un aggiornamento constante online
Dal profilattico alla pillola: guida alla contraccezione
Come, cosa, quando... Carlo Flamigni e Anna Pompili hanno scritto una guida alla contraccezione: quello che la scienza dice su questo argomento per una scelta libera e consapevole.
di Cristiana Pulcinelli


Il contraccettivo ideale dovrebbe essere un metodo semplice, facile da imparare e utilizzare, senza effetti collaterali, che non disturbi il rapporto sessuale, che protegga dalle malattie trasmesse sessualmente, poco costoso, che una volta sospeso consenta un rapido ritorno allo stato di fertilità. Purtroppo, però, un contraccettivo così non esiste. E, quindi, dobbiamo arrangiarci.
Partono da questa premessa Carlo Flamigni e Anna Pompili nel loro libro Contraccezione (L’asino d’oro, pp. 197, euro 12). Il libro fa parte di una collana di medicina diretta da Flamigni: Il mito della cura. Si tratta di libri di divulgazione che vogliono fare chiarezza su temi di attualità ma che spesso si trovano al centro di dibattiti in cui a farla da padrone è più l’ideologia che la scienza. La contraccezione è senz’altro uno di questi temi. Tanto che, a cinquant’anni dalla commercializzazione della prima pillola, l’informazione sui metodi contraccettivi continua ad essere scarsa e spesso dominata da interessi commerciali o posizioni etiche, come notano gli autori.
Ci dobbiamo arrangiare, dicevamo. Il che vuol dire creare dei percorsi contraccettivi che consentano alle donne di scegliere e utilizzare la tecnica migliore in momenti diversi della vita, valutando rischi e benefici dei vari metodi in base ad alcune variabili: l’età, lo stato di salute, la familiarità per alcune malattie. Ma per scegliere c’è bisogno, prima di tutto, di conoscere. E così due ginecologi, di età ed esperienze diverse, ma accomunati dalla convinzione che diffondere conoscenza vuol dire aprire spazi di libertà, hanno deciso di mettere nero su bianco tutto ciò che la scienza ci dice di nuovo su questo argomento.
Si comincia dalla valutazione dell’efficacia e della sicurezza dei contraccettivi . Un contraccettivo deve, prima di tutto, avere un basso tasso di fallimenti. Ma deve anche non farci male. Il primo capitolo ci spiega come si valutano efficacia e sicurezza dei diversi metodi contraccettivi. Si prosegue poi analizzando ogni metodo singolarmente. La pillola: come funziona, come si prende, quali effetti collaterali può presentare, quanto costa. La contraccezione con soli progestinici, dalle minipillole a basso dosaggio agli impianti sottocutanei. La spirale, il preservativo maschile, il preservativo femminile, il diaframma, le spugne, gli spermicidi, il coito interrotto, i metodi naturali, la contraccezione d’emergenza, la sterilizzazione. A ognuno di questi metodi è dedicato un capitolo, ricco di bibliografia scientifica, in cui si spiega esattamente di che si tratta e quali sono vantaggi e svantaggi del suo uso. Un capitolo a parte affronta alcuni casi particolari: la contraccezione nelle adolescenti, nelle donne obese, nelle donne che hanno appena avuto un figlio. Tutte queste condizioni limitano le opzioni nella scelta del contraccettivo, Flamigni e Pompili ci spiegano perché e cosa possiamo fare in questi casi.
Poiché la scienza va avanti, le informazioni contenute nel libro tendono a invecchiare, così gli autori hanno messo in piedi un sito nel quale si registrano tutti gli aggiornamenti: www.lasinodoroedizioni. it/ilmitodicura

Repubblica 4.4.11
Parla Bersani: Alfano servile, bisogna votare. Domani manifestazione di Libertà e Giustizia
"Alfano è arrogante e servile saremo contro la sua riforma in piazza e in Parlamento"
Bersani: governo tecnico tramontato, si deve votare
"Il Pd in piazza per la giustizia"


Il ministro della Giustizia ha uno stile sartoriale, adatta i suoi testi ai voleri del capo ma si arrampica sugli specchi
Berlusconi chieda a Tunisi di bloccare i flussi e diamo a chi è qui un permesso temporaneo per l´Europa
Montezemolo è il benvenuto, ma deve finire un´illusione: una sola persona non ha la bacchetta magica

ROMA - Il Pd chiude la porta alla riforma della giustizia del governo. Il segretario Bersani accusa il ministro della Giustizia, Alfano, di essere «servile, saremo contro le sue norme in piazza e nel Parlamento». Per Bersani è necessario andare alle urne. Domani a Roma tre manifestazioni contro il pacchetto giustizia.

ROMA - «Alfano è arrogante come Berlusconi e servile a Berlusconi». Dunque si scordi il confronto, il «fumoso» dialogo. «Quando annunciò la sua epocale riforma della giustizia - ricorda Pier Luigi Bersani - dissi che entro 15 giorni saremmo tornati alle leggi ad personam. Da martedì voteremo una prescrizione costruita su misura del premier e sul fatto che Ruby è la nipote di Mubarak. Più chiaro di così».
È allarmante anche l´appello alla piazza del ministro della Giustizia?
«Mi allarma innanzitutto l´immagine di Alfano come emerge dall´intervista a Repubblica. Un ministro impastato di arroganza e servilismo. Un ministro che tradisce il suo mestiere e ha uno stile sartoriale perché adatta sempre i suoi provvedimenti ai voleri del capo. Quanto alla chiamata del popolo è un´affermazione sconsiderata. Ma lo avverto: è difficile arrampicarsi sulle piazze quando ci si arrampica sugli specchi».
Il Pd, rifiutando ogni confronto, rischia di apparire conservatore e succube dei magistrati. Ha messo in conto gli effetti negativi di questa posizione?
«Non siamo il partito dei giudici. Anzi, siamo pronti a disturbare i magistrati in nome di un servizio più efficiente per i cittadini come persino Alfano può arguire leggendo le nostre proposte di legge. Ma la riforma costituzionale ha un punto essenziale che è inaccettabile: dà alla politica un potere improprio nell´esercizio della giustizia. Contro questo e contro le leggi ad personam combatteremo in Parlamento e nelle piazze».
Il Guardasigilli è convinto che il vostro no sia dettato dalla fretta. Per molti dirigenti del Pd, dice, il tempo è quasi scaduto.
«Faccia bene il suo mestiere e queste cose le lasci dire al suo capo».
Sicuro che il Pd riuscirà a reggere senza fratture il doppio binario in piazza e in Parlamento?
«Sarebbe una novità davvero singolare che un grande partito popolare dicesse no alla piazza o no alle aule parlamentari. Non conosco partiti popolari che si facciano di questi problemi».
Ma nel Pd qualcuno invoca l´Aventino e qualcun altro teme scivolamenti verso il dipietrismo.
«Allora chiariamo. Noi combattiamo in Parlamento. Lo rispettiamo e non l´abbandoniamo. Poi ci sono le tattiche parlamentari. Ma Aventino è una parola grossa. Significa andare via dal Parlamento, non uscire dall´aula in certe occasioni».
E la piazza? I vostri potenziali alleati capiranno?
«Noi vogliamo avere un colloquio diretto con i cittadini che a loro volta hanno voglia di essere protagonisti. Martedì saremo al Pantheon. Poi, le notti bianche sulla scuola diventeranno anche per la democrazia. I manifesti contro la Lega tappezzeranno il Nord. I cittadini sono parte di questa battaglia. In modo democratico e civile. Non siamo noi quelli delle monetine».
Lei chiede le elezioni anticipate. Sotto sotto non pensa ancora a un governo tecnico?
«Ho detto e ripeto: qualsiasi soluzione è migliore dello sfascio attuale. Ma dopo il 14 dicembre e la scesa in campo dei mitici responsabili - che hanno creato un cestino dove si mettono le uova che puoi comprare ovunque - il governo di transizione più che indebolito è tramontato. Per questo dico: si vada subito al voto. Non è una forzatura, basta guardare agli ultimi mesi. Il governo ha prodotto la scossa all´economia finita in un comunicato stampa, la riforma epocale della giustizia invece siamo sempre intorno a Ruby, la posizione ambigua sulla Libia, Parmalat, Edison e tutta la moda che volano verso l´estero».
Sull´arrivo dei profughi il governo sbandiera il successo dei trasferimenti da Lampedusa.
«Invece è un disastro. Noi abbiamo avanzato una proposta. A Tunisi Berlusconi chieda di bloccare i flussi. A chi è già qui si dia lo status temporaneo per circolare in Europa come è successo ai tempi del Kosovo. No alle tendopoli, sì all´accoglienza diffusa. Ma se lo spettacolo è che ogni mattina un ministro dice solidarietà e l´altro fora di ball, allora fanno da soli».
Condivide l´idea di Tremonti: frenare lo "shopping" in Italia con una nuova Iri?
«I buoi sono scappati e loro hanno dormito per due anni. La nostra posizione è chiara: non si possono allestire strumenti pubblici senza avere uno straccio di idea sulle politiche pubbliche. Quando ero all´Industria proposi degli indirizzi di politica industriale. Il governo faccia lo stesso e siamo pronti a discuterne. Ma faremo una battaglia dura contro ipotesi di Iri o Mediobanche organizzate nella versione del sistema di potere».
Proprio martedì e mercoledì al Senato si decide sull´arresto del senatore Pd Tedesco. Alcuni democratici vorrebbero votare contro. Rischiate un cortocircuito con le piazze anti-Berlusconi?
«Ho detto ai senatori: leggete bene le carte e fatevi un vostro legittimo convincimento perché in ballo c´è la libertà personale. E sappiate che il partito non ha niente da tutelare».
Lei come voterebbe?
«Bisognerebbe conoscere bene gli atti giudiziari. Ma posso dire che il Pd ha a cuore un profilo di assoluto rigore».
Ad appena 51 anni Zapatero annuncia che non si ricandiderà alle prossime elezioni. Un fenomenale spot per il rottamatore Renzi.
«Penso esattamente il contrario».
In che senso?
«È una straordinaria pubblicità alla nostra idea di leadership».
Come dice?
«Dopo due legislature è assolutamente necessario un ricambio del leader».
Il vostro album di famiglia è sempre lo stesso da decenni.
«Ma la differenza con l´esperienza spagnola e con altre, non è il ricambio, è la stabilità. Le maggioranze sono garantite per un´intera legislatura e questa garanzia viene dai partiti non dal ghe pensi mi».
Il nuovo può essere Montezemolo?
«Ho trovato positivo il suo appello alle classi dirigenti e agli imprenditori che conoscono benissimo il crollo di credibilità dell´Italia nel mondo. Lo dico da tempo: chi tace oggi come potrà parlare domani?».
Quindi tifa per un suo impegno in politica?
«Tutto quello che mette nuova energia nella cosa pubblica è benvenuto. Purchè sia chiaro un punto. Il tramonto di Berlusconi deve coincidere con la fine di un´illusione: una sola persona non ha la bacchetta magica. Il Pd vuole innovare, riformare le istituzioni e i partiti. Ma proprio per avere sia le istituzioni sia i partiti. È il tempo di leadership che siano dentro un collettivo. Solo in Italia si pensa che i problemi si risolvono con la scelta di una singola persona».

Repubblica 4.4.11
L’appello
L’ora della mobilitazione
Un Paese che sprofonda nel degrado questa è l´ora della mobilitazione
Razzismo passivo, leggi stravolte, attacco ai giudici Il mondo ci guarda con sgomento
di Gustavo Zagrebelsky


Navi affollate di esseri umani alla deriva, immense tendopoli circondate da filo spinato, come moderni campi di concentramento.
Ogni avanzo di dignità perduta, i popoli che ci guardano allibiti, mentre discettiamo se siano clandestini, profughi o migranti, se la colpa sia della Tunisia, della Francia, dell´Europa o delle Regioni. L´assenza di pietà per esseri umani privi di tutto, corpi nelle mani di chi non li riconosce come propri simili. L´assuefazione all´orrore dei tanti morti annegati e dei bambini abbandonati a se stessi. Si può essere razzisti passivi, per indifferenza e omissione di soccorso. La parte civile del nostro Paese si aspetta – prima di distinguere tra i profughi chi ha diritto al soggiorno e chi no – un grande moto di solidarietà che accomuni le istituzioni pubbliche e il volontariato privato, laico e cattolico, fino alle famiglie disposte ad accogliere per il tempo necessario chi ha bisogno di aiuto. Avremmo bisogno di un governo degno d´essere ascoltato e creduto, immune dalle speculazioni politiche e dal vizio d´accarezzare le pulsioni più egoiste del proprio elettorato e capace d´organizzare una mobilitazione umanitaria.
"Rappresentanti del popolo" che sostengono un governo che sembra avere, come ragione sociale, la salvaguardia a ogni costo degli interessi d´uno solo, dalla cui sorte dipende la loro fortuna, ma non certo la sorte del Paese. Un Parlamento dove è stata portata gente per la quale la gazzarra, l´insulto e lo spregio della dignità delle istituzioni sono moneta corrente. La democrazia muore anche di queste cose. Dall´estero ci guardano allibiti, ricordando scene analoghe di degrado istituzionale già viste che sono state il prodromo di drammatiche crisi costituzionali.
Una campagna governativa contro la magistratura, oggetto di continua e prolungata diffamazione, condotta con l´evidente e talora impudentemente dichiarato intento di impedire lo svolgimento di determinati processi e di garantire l´impunità di chi vi è imputato. Una maggioranza di parlamentari che non sembrano incontrare limiti di decenza nel sostenere questa campagna, disposti a strumentalizzare perfino la funzione legislativa, a rinunciare alla propria dignità fingendo di credere l´incredibile e disposta ad andare fino in fondo. In fondo, c´è la corruzione della legge e il dissolvimento del vincolo politico di cui la legge è garanzia. Dobbiamo avere chiaro che in gioco non c´è la sorte processuale di una persona che, di per sé, importerebbe poco. C´è l´affermazione che, se se ne hanno i mezzi economici, mediatici e politici, si può fare quello che si vuole, in barba alla legge che vale invece per tutti coloro che di quei mezzi non dispongono.
Siamo in un gorgo. La sceneggiatura mediatica d´una Italia dei nostri sogni non regge più. La politica della simulazione e della dissimulazione nulla può di fronte alla dura realtà dei fatti. Può illudersi di andare avanti per un po´, ma il rifiuto della verità prima o poi si conclude nel dramma. Il dramma sta iniziando a rappresentarsi sulla scena delle nostre istituzioni. Siamo sul crinale tra il clownistico e il tragico. La comunità internazionale guarda a noi. Ma, prima di tutto, siamo noi a dover guardare a noi stessi.
Il Presidente della Repubblica in questi giorni e in queste ore sta operando per richiamare il Paese intero, i suoi rappresentanti e i suoi governanti alle nostre e alle loro responsabilità. Già ha dichiarato senza mezzi termini che quello che è stato fatto apparire come lo scontro senza uscita tra i diritti (legittimi) della politica e il potere (abusivo) magistratura si può e si deve evitare in un solo modo: onorando la legalità, che è il cemento della vita civile. Per questo nel nostro Paese esiste un "giusto processo" che rispetta gli standard della civiltà del diritto e che garantisce il rispetto della verità dei fatti.
Questo è il momento della mobilitazione e della responsabilità. Chiediamo alle forze politiche di opposizione intransigenza nella loro funzione di opposizione al degrado. Non è vero che se non si abbocca agli ami che vengono proposti si fa la parte di chi sa dire sempre e solo no. In certi casi – questo è un caso – il no è un sì a un Paese più umano, dignitoso e civile dove la uguaglianza e la legge regnino allo stesso modo per tutti: un ottimo programma o, almeno, un ottimo inizio per un programma di governo. Dobbiamo evitare che le piazze si scaldino ancora. La democrazia non è il regime della piazza irrazionale. Lo è la demagogia. La democrazia richiede però cittadini partecipi, attenti, responsabili, capaci di mobilitarsi nel momento giusto – questo è il momento giusto – e nelle giuste forme per ridistribuire a istituzioni infiacchite su se stesse le energie di cui hanno bisogno.
Libertà e Giustizia è impegnata a sostenere con le iniziative che prenderà nei prossimi giorni le azioni di chi opera per questo scopo, a iniziare dal Presidente della Repubblica fino al comune cittadino che avverte l´urgenza del momento.
Questo è l´appello alla mobilitazione apparso sul sito di Libertà e Giustizia, firmato dal presidente onorario dell´associazione, Gustavo Zagrebelsky

Repubblica 4.4.11
In piazza per svegliare la democrazia"
Domani a Roma tre manifestazioni: "Così vogliamo convincere i deputati"
di Carmine Saviano


ROMA - In piazza. Per bloccare una delle «operazioni più indegne realizzate da questa maggioranza parlamentare». Tutto è pronto per la "Giornata della Democrazia", la mobilitazione lanciata da Articolo 21, Libertà e Giustizia e dal Popolo Viola. Appuntamento domani a Roma. Nel pomeriggio in piazza Montecitorio e dalle 20 alle 24 in piazza Santi Apostoli. E la protesta contro l´ennesima legge ad personam per Silvio Berlusconi cresce, raccoglie nuove adesioni di ora in ora. Parlamentari e associazioni. Fino a personaggi del mondo dello spettacolo e alle associazioni studentesche.
Il via alle 14, in piazza Montecitorio, proprio mentre alla Camera saranno in discussione le norme sulla prescrizione breve. Provvedimenti che vogliono solo "offrire l´ennesimo scudo legislativo al presidente del Consiglio", dice Sandra Bonsanti, presidente di Libertà e Giustizia. Che aggiunge: «La questione vera è un´altra, e riguarda quei tanti cittadini che ci vanno di mezzo. Questi sono provvedimenti che non li rispettano». E ancora: «Noi saremo in piazza per difendere uno dei principi cardine della nostra democrazia: l´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge».
Proprio in vista della giornata di martedì, stasera il comitato promotore si riunisce in un´assemblea aperta a Roma. E domani mattina a Firenze, alcuni attivisti suoneranno "la sveglia della democrazia". Si tratta di accompagnare i deputati nel loro viaggio verso Roma. E ricordare loro l´importanza della discussione che affronteranno alla Camera.
E intanto cresce la mobilitazione online. Un network di protesta, formato dai siti e dalle tante pagine che sui social network diffondono l´iniziativa. Dai volantini da scaricare fino alle mail da inviare a tutti i propri contatti. «Siamo convinti che queste mobilitazioni di cittadini siano indispensabili per dare un segnale chiaro: in Italia la maggioranza degli elettori vuole che il Parlamento si occupi dei problemi reali e non degli interessi del capo», dice Gianfranco Mascia del Popolo Viola. E, per questo, «il presidio permanente in piazza Montecitorio continuerà anche nei giorni di mercoledì e giovedì». Le adesioni crescono con il passare delle ore. Oltre a rappresentanti dei partiti anche personaggi come Dario Vergassola, Valerio Mastandrea, Dario Fo, Franca Rame e Moni Ovadia hanno condiviso l´appello contro il processo e la prescrizione breve.
E in programma per domani anche un´iniziativa del Partito Democratico. Pierluigi Bersani e i deputati del Pd incontreranno i cittadini a Roma, nei pressi del Pantheon.

La Stampa 4.4.11
Così il centro-destra sta preparando la guerra delle piazze
Già pronta San Giovanni se il clima si farà ancora più caldo
di Fabio Martini


La piazza simbolo San Giovanni a Roma, teatro di grandi manifestazioni e meta della dimostrazione filo-governativa

E ora potrebbe scoppiare pure la «guerra delle piazze». Da una parte i nemici di Berlusconi, dall’altra i suoi aficionados. E’ l’ultima frontiera, il possibile scenario prossimo venturo dell’interminabile scontro che da 17 anni contrappone il Cavaliere e i suoi avversari. A rendere plausibile la prospettiva di un aprile caldissimo, con piazze contrapposte tra loro, è il combinato disposto di manifestazioni già fissate e di altre minacciate: da una parte la sinistra che ha già programmato sit-in, notti bianche e comizi davanti e nei pressi di Montecitorio; dall’altra fanno rumore alcune battute pronunciate dal ministro della Giustizia Angelino Alfano in un’intervista a la Repubblica. Proprio lui, uomo dalle espressioni calibrate e soprattutto responsabile di un dicastero delicatissimo, ha detto: «Oltreché in Parlamento ci batteremo nelle piazze», un’affermazione stentorea e al tempo stesso ambivalente, che Alfano ha spiegato così: «Mi riferisco alle piazze per i comizi, alle amministrative, alle piazze televisive».
Eppure, quella parola - piazza - lasciata cadere ad arte, ha tutta l’aria di «interpretare» una tentazione di Berlusconi, che va ben oltre i classici comizi per le elezioni locali. Dice Osvaldo Napoli, vicepresidente dei deputati Pdl: «Quelli del Pd devono lasciare Di Pietro al suo destino estremista. Ma se pensano di voler fare cadere il governo, assediando il Parlamento, sappiano che Berlusconi è molto bravo nell’organizzare manifestazioni». Come dire: caro Pd, se volete lo scontro, avrete lo scontro, se insistete con le manifestazioni popolari, il Pdl è pronto a rendere la pariglia. Costi quel che costi.
Certo, per ora siamo ancora ai messaggi in codice e ai pourparler. Ma se alla fine Berlusconi decidesse di passare il Rubicone, a quel punto - dicono nel suo entourage - il tracciato è già segnato: mega-corteo da 500-600 mila persone (destinate a diventare 3 milioni, secondo un malcostume propagandistico comune a destra e sinistra) con comizio nell’area più vasta di Roma, piazza San Giovanni. Ma l’ipotesi di ricorrere a manifestazioni in «movimento» da parte del governo è un segno di sofferenza, la prova che la pressione della piazza di sinistra sul Parlamento viene vissuta come un peso dal presidente del Consiglio.
Nella settimana che inizia oggi, punteggiata da eventi assai rilevanti (inizio del processo Berlusconi-Ruby, voto Camera sul conflitto di attribuzioni e sul processo breve), le tante anime della sinistra di opposizione hanno già programmato una sfilza di iniziative contro l’ultima e la più controversa norma ad personam, quella sulla «prescrizione breve»: domani, dalle 14, davanti a Montecitorio inizierà un presidio sit-in, promosso da diverse sigle (Popolo viola, Articolo 21, Libertà e giustizia); alle 18 comizio del Pd (con Bersani e i parlamentari) in piazza del Pantheon, a quattrocento metri da Montecitorio; dalle 20, sempre domani, in piazza Santi Apostoli inizia una «Notte bianca per la democrazia», luogo nel quale confluiranno le diverse anime della sinistra. E dopodomani, sempre davanti a Montecitorio, un altro sit-it: stavolta a protestare contro il governo sono gli abruzzesi riuniti nello slogan «La rivolta del silenzio per L’Aquila».
Fin qui le manifestazioni romane. Ma sarà a Milano che piazza di sinistra e piazza di destra si fronteggeranno in un duello molto palpabile. Dopodomani, in occasione della prima udienza del processo Ruby.

La Stampa 4.4.11
Prescrizione breve
L’opposizione sugli scudi “E’ una legge ad personam”


E’ presentato come un algoritmo, ma in buona sostanza quelle che all’ordine del giorno di mercoledì alla Camera sono indicate come «misure contro la durata indeterminata dei processi», per l’opposizione non sono altro che norme ad personam per «salvare» il premier Silvio Berlusconi dai processi milanesi. In buona sostanza l’argomento è il cosiddetto «processo breve», nato con il nobile fine di dare attuazione al principio della ragionevole durata dei processi. Ma le buone intenzioni, sino ad oggi, non hanno fatto granché breccia in aula, visto lo scontro verificatosi già giovedì scoprso. Quando la maggioranza, chiedendo di invertire l’ordine del giorno sulle leggi comunitarie (che pure prevedeva l’emendamento leghista teso a introdurre la responsabilità civile dei magistrati) ha voluto dare priorità assoluta alla votazione sulle norme del processo breve. Norme, considerate ad personam dall’opposizione non foss’altro per l’articolo 4-bis (emendamento Paniz Pdl) che prevedono per gli incensurati tempi di prescrizione più brevi rispetto ai recidivi. Nella sostanza si stabilisce che quando si è in presenza di atti interruttivi del processo, come ad esempio un interrogatorio, il tetto massimo della pena aumenti non più di un quarto, ma di un sesto per le persone mai condannate prima il cui processo non sia arrivato alla sentenza di primo grado. Va da sé, che agli occhi dell’opposizione la «prescrizione breve» suona come legge ad hoc per sterilizzare ogni forma di sentenza sul processo Mills. L’autore della norma, Maurizio Paniz naturalmente smentisce «che si tratti di un intervento a favore del premier», perché a suo dire «non incide sui processi in corso, perché è escluso che si possa applicare ai giudizi di secondo e terzo grado, mentre quelli di primo grado, cui invece si applica, sarebbero comunque prescritti», ma di fatto dal Pd all’Idv all’Udc si innalzano le barricate: manifestazioni di piazza e sit-in.
Da dopodomani, dunque, partirà alla Camera la maratona per applicare la prescrizione brevecon il processo breve. E’ chiaro, comunque, che la discussione non potrà non risentire del pronunciamento di Montecitorio sul conflitto di attribuzione: e dunque, il sì di domani può condizionare anche quello dei giorni successivi. Il guardasigilli, dal canto suo, Alfano sostiene che l’emendamento per gli incensurati presentato dall’onorevole Paniz non ha nulla a che vedere con la riforma della giustizia», e comunque, spiega «è solo un pretesto grande come una casa per chi non vuol fare la riforma costituzionale», ma è chiaro che l’opposizione non ci sta. Sarà ancora una volta muro contro muro. Così come non passerà inosservata l’assenza di oggi del premier nel processo «Mediatrade» perché impegnato nel vertice di Tunisi. [PAO. FES.]

Corriere della Sera 4.4.11
«Montezemolo prepara una lista Aspetta di sapere quando si vota»
Cacciari: organizzazione su base regionale. Il neo ministro Romano contrario
di Al. T.


ROMA — «Montezemolo sta preparando una lista civica nazionale ed entrerà in politica appena sarà fissata la data delle elezioni» . A dirlo è Massimo Cacciari, che si dice convinto di una prossima discesa in campo del presidente di Italia Futura. Una "tentazione"confessata nei giorni scorsi, che fa discutere i partiti. L’ex sindaco di Venezia spiega le ragioni della cautela di Luca Cordero di Montezemolo, al quale è molto vicino: «Siamo ormai prossimi a una scelta definitiva. Montezemolo aspetta soltanto di sapere quale sarà la data delle elezioni. Prende ancora un po’ di tempo per due motivi. Innanzitutto deve sistemare i suoi affari imprenditoriali, come la Ferrari. E poi soprattutto attende di sapere quando si vota, perché non vuole stare sulla graticola. È ovvio che se si va a votare nel 2013, come auspica Berlusconi, questo vuole dire per Montezemolo stare due anni sulla graticola; diverso è se si votasse a breve. Allora Montezemolo schiererebbe la sua organizzazione» . Organizzazione pronta non per un partito, secondo Cacciari, ma per una lista civica nazionale: «Non pensa a un partito come quello che fece Berlusconi, perché sarebbe l’ennesimo partito personale. Sta lavorando a una organizzazione policentrica, con varie liste civiche regionali, accomunate da uno stesso simbolo, ma con grande autonomia locale, con liste della società civile» . La prospettiva non preoccupa Roberto Formigoni: «L’incognita Montezemolo c'è da molti anni, se scende in politica si misurerà da politico con la quantità del proprio consenso. Se si impegnerà, gli daremo il benvenuto, perché chi dalla società civile si impegna in politica è sempre il benvenuto. Non abbiamo timore di nessuno» . Anche se, aggiunge il governatore della Lombardia, «la situazione politica italiana è già ben presidiata sul versante dei moderati» . Francesco Casoli, vicecapogruppo del Pdl a palazzo Madama, è sarcastico nei confronti di Cacciari: «Probabilmente si candida già a portavoce di Montezemolo premier, ma credo sia difficile che Fini e soprattutto Casini, che ad oggi è l’unico ad avere una certezza di consenso nelle urne, siano d’accordo a fare da valletto a chi, nella sua vita, ha solo e sempre fatto l’imprenditore con i soldi degli altri. Se Montezemolo ha deciso di impegnarsi in politica faccia meno chiacchiere e entri nell’arena senza scordarsi però che non è esente dall'avere scheletri nell'armadio. Prima o poi dovrà rendere conto al popolo di qualche spreco di denaro pubblico fatto tramite i suoi tanti incarichi ottenuti grazie alle amicizie» . Per Casoli, Montezemolo non ha spazio dalle parti del Pdl: «Sui voti del centrodestra se ne faccia una ragione fin da subito: non li avrà mai. Governare non è giocare con le macchinette, significa prendere decisioni importanti e a volte anche impopolari. Berlusconi è l'unico che lo fa mettendoci il cuore e la faccia e gli italiani lo capiranno di nuovo al momento del voto» . Duro anche Saverio Romano, neo ministro dell’Agricoltura e leader del Pid: «Fli e Udc hanno plaudito alla discesa in campo di Montezemolo come se il problema fosse di inventarsi un leader invece che un progetto politico: io mi oppongo non perché ho in antipatia Montezemolo, ma perché c'è il vuoto pneumatico in chi plaude alla suo impegno» .

Repubblica 4.4.11
Il Cavaliere ipercinetico
di Ilvo Diamanti


È difficile star dietro agli eventi, ai messaggi, alle immagini che costellano la politica italiana. La quale, riflette, in parte, la turbolenza globale. In particolare, le rivoluzioni del Nord Africa, appena al di là delle nostre coste. Però da noi in Italia tutto assume un segno diverso. Per intensità, dinamica, sequenza. Basta concentrarsi sulle notizie degli ultimi giorni. «Leggendole tutte insieme… danno un senso di vertigine», ha commentato Corrado Augias, rispondendo a una lettrice nella sua rubrica. Già: un senso di vertigine.
Il capo del governo a Lampedusa promette che: in due giorni, non ci saranno più immigrati; candiderà Lampedusa al Nobel della Pace; si comprerà una villa proprio lì, davanti al mare. Lo stesso giorno, la Camera si trasforma in un Far West. Fra l´altro, il ministro La Russa. Il quale sfancula il presidente della Camera, Fini. Mentre una deputata disabile dell´opposizione viene insultata. In quanto disabile. Intanto, la rivolta popolare a Lampedusa non accenna a placarsi. Perché il flusso di disperati non cala. (Sarebbe bello che i "popoli oppressi" si ribellassero e liberassero da soli, senza poi pretendere aiuto da noi). Un´imbarcazione affonda davanti alle coste libiche, insieme a decine di persone (morte. Non daranno fastidio a nessuno). Il capo del governo parte per Tunisi, dove incontrerà le autorità tunisine. Obiettivo: controllare i flussi di migranti diretti verso le nostre coste; rimpatriare - parte - degli immigrati già arrivati. Anche se le autorità tunisine non sembrano d´accordo. Intanto in Parlamento continuano - in modo, diciamo pure, convulso - i lavori per riformare la Giustizia. Cioè: per disinnescare i processi più critici, per il primo ministro. Soprattutto quelli a sfondo pruriginoso. Per neutralizzare l´alone sgradevole che produrrebbero (produrranno?). Tutto procede in modo nevrotico, sussultorio, intermittente, senza una direzione precisa.
Impossibile mettere in fila i fatti degli ultimi mesi, se ho già impiegato tanto tempo a raccontare quelli degli ultimi giorni. È difficile anche capire le forze in campo, in Parlamento: chi sta con chi. I sedicenti Responsabili: difficilmente possono garantire un consenso stabile. Come pretendere fedeltà e coerenza da chi è abituato a cambiare bandiera e partito (in cambio di privilegi)? D´altronde, a differenza di Fi e An, il Pdl è un non-partito. Scomposto da divisioni personali, locali e di gruppo. La debolezza dell´opposizione permette a questa maggioranza di proseguire. Senza sfaldarsi. Ma andare al voto, secondo i sondaggi, sarebbe molto rischioso per il Pdl. Per il centrodestra. Per Berlusconi.
Insomma: la vertigine.
Anche se viene il sospetto che vi sia un senso in questa rappresentazione apparentemente priva di senso. Dove tutto prosegue e si sussegue in modo asincrono. Come un "Blob" infinito e permanente. Rammenta l´idea di ipermodernità, tracciata da Gilles Lipovetsky. Un tempo dove tutto è iperbolico. Perché il tempo si snoda in una catena di istanti. Come un film che incatena una sequenza di istantanee. Dove tutti gridano, tutto è enfatizzato, tutto avviene in modo "estremo". Perché viviamo tempi estremi, dove la comunicazione mediale trasmette tutto in tempo reale. Ed esige spettacolo, messaggi forti. E, alla fine, nulla resta se non viene proposto in modo estremo e iperbolico. Viviamo nell´era della politica ipercinetica. Il cui signore indiscusso è Silvio Berlusconi. Iperbolico e cinetico come nessun altro. Sempre in movimento, sempre in viaggio, sempre sui media. Ogni giorno un evento, un messaggio, un proclama, un fatto (annunciato). Un luogo reale trasfigurato in metafora del cambiamento "concreto". Lui: l´uomo del fare. A Napoli. Dove le immondizie scompaiono e ricompaiono, per scomparire di nuovo. Dai media. All´Aquila. Dove le macerie sono scomparse e la ricostruzione procede bene. Lo garantisce la figurante che a Forum ha recitato la parte di una terremotata beneficiata dal governo. Oggi a Lampedusa. La popolazione - disperata - assediata dai disperati. Che alcuni autorevoli leader di governo invitano a ributtare in mare. (Con una iperbole forse involontaria). E Berlusconi. Un giorno a Milano, al processo, ad arringare la folla dal predellino. Il seguente, a Lampedusa, a consolare e galvanizzare i residenti. Di passaggio: a Palazzo Grazioli. Ad allietare i sindaci con barzellette osé. E poi: a Bruxelles, visibilmente defilato, perché a lui le chiacchiere non piacciono. In attesa di un vertice prossimo venturo con Sarkozy. Lui "fa".
In quest´era del vuoto (riprendendo Lipovetsky), lui satura ogni spazio, ogni angolo, ogni istante. (Volontariamente, come emerge dall´inchiesta di Alberto Ferrigolo sulla "Diabolica arma dei sondaggi", pubblicata sull´ultimo numero di Reset). Per cui diventa impossibile prescindere da lui. Nel vuoto di progetti e di idee. Nel vuoto dell´orizzonte politico vuoto. Lui "è". L´opposizione appare afona. Poco visibile. Certo alcuni lo imitano. Ma non c´è partita. In fondo è lui, Berlusconi, l´unico in grado di fare opposizione. A se stesso. Perché i messaggi iperbolici, gridati un giorno dopo l´altro e un istante dopo l´altro, possono dare un senso di movimento, anche se tutto resta fermo. Possono rimpiazzare le idee con spot a raffica. Possono generare assuefazione etica. Così che nulla, ma davvero nulla, riesce più a stupire - non si dice indignare. Ma a volte - qualche volta - le iperboli, ripetute senza soluzione di continuità, finiscono per cozzare l´una contro l´altra. Lui, indulgente e accogliente con Gheddafi. Come altri prima di lui, in Italia (e non solo). Ma unico a baciargli la mano. In modo iperbolicamente teatrale. E il giorno dopo schierato - a malincuore - con la coalizione che bombarda il raìs e ne vuole la testa. Lui, iperbolicamente, pronto a liberare Napoli dai rifiuti, l´Aquila dalle macerie, Lampedusa dagli immigrati. Gli italiani dalle tasse. Ieri, oggi. Ma anche domani. Perché i rifiuti, le macerie, gli immigrati - e le tasse - restano sempre lì. Lui, il leader ipercinetico di questa Destra ipercinetica. Costretto a correre. A cambiare scena e repertorio. Ogni giorno. Finché il fisico glielo permetterà. Finché l´iperbole riuscirà a colmare il vuoto della politica. Finché non ci stancheremo di rincorrere le iperboli.
Finché la cin-etica riuscirà a soddisfare l´eclissi etica.

l’Unità 4.4.11
Silvio e l’accordo perduto A Tunisi per fermare i migranti
Il Cavaliere e quell’assegno da 100 milioni di euro
per oscurare l’onda umana
A Tunisi il premier gioca la carta degli aiuti per risolvere il dramma immigrati con uno spot. Soldi millantati o sprecati. O finiti, come in Libia, nelle tasche del regime
Intervista a Rosa Villecco Calipari
«Il premier ha pagato i lager libici, ora vuole finanziarli a Tunisi?»
La vicepresidente dei deputati Pd: «Il fallimento del governo è aver affrontato l’immigrazione come fosse un problema di criminalità e di sicurezza»
di U. D. G.


Al di là dei roboanti proclami e le risorse finanziarie delapidate, alla fine il vero fallimento del governo Berlusconi e l’affrontare il problema dell’immigrazione riducendolo nei fatti a un problema di criminalità e di sicurezza. Con i soldi italiani si sono favoriti i lager in Libia. Si vuole ora farlo anche con la Tunisia?». A parlare è Rosa Villecco Calipari, Vicepresidente dei deputati del Pd.
«Sciupone l’Africano», al secolo Silvio Berlusconi, si appresta a sbarcare a Tunisi per affrontare l’”emergenza immigrazione. Con quali risultati fin qui ottenuti?
«Praticamente nulli. Berlusconi si è dato molto da fare per concludere l’Accordo con Gheddafi, mostrandosi prono davanti al Colonnello libico, al fine di ottenere, per restare al tema dell’immigrazione, il blocco degli arrivi da altri Paesi perché, è bene ricordarlo sempre, quella umanità disperata proveniva e proviene da Paesi come l’Eritrea, la Somalia, il Corno d’Africa: stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone, donne, uomini, bambini, che fuggono da guerre e conflitti locali. E che spesso e in tanti finiscono in un lager o nelle mani di organizzazioni criminali, trafficanti di esseri umani o di organi. L’accordo tra Roma e Tripoli per bloccare l’immigrazione clandestina nasce intorno al biennio 2003-2004, quando l’Italia fornisce mezzi e soldi alla polizia libica. Un sostegno riproposto da Berlusconi nel Trattato bilaterale Italia-Libia sottoscritto nell’estate 2008. Per mesi abbiamo sentito i ministri Maroni, Frattini, La Russa, lo stesso Berlusconi, magnificare i risultati raggiunti con l’intesa con Gheddafi, giocando con i numeri e senza chiedersi mai che fine facevano le donne e gli uomini ricacciati a forza in Libia. Oggi gridano all’esodo biblico, dopo che il ministro dell’Interno aveva sostenuto nei mesi scorsi che l’emergenza-immigrazione era ridotta a zero, e che l’Accordo Italia-Libia era un modello che l’Europa avrebbe dovuto far suo in chiave comunitaria. E sempre oggi Berlusconi si rivolge ad un Governo transitorio tunisino a cui l’Italia fornirà risorse economiche e mezzi nella speranza, della Lega, di non avere tra “i ball” i tanti tunisini arrivati in questi giorni a Lampedusa. Cambiano gli interlocutori, ma resta la stessa logica».
Con quale rischio?
«Cercando di scaricare il problema degli immigrati su qualcun altro, potremmo trovarci a trattare con un Governo, quello tunisino, che non ha ancora nessuna stabilità e quindi potrebbe non riuscire a mantenere gli eventuali impegni assunti. Ieri con la Libia, oggi con la Tunisia: il Governo Berlusconi-Bossi continua a riprodurre una logica fallimentare, oltre che profondamente ingiusta: la logica dei campi di concentramento, mascherati magari da tendopoli. Una logica non solo immorale ma anche inefficace, visto che da quei campi di concentramento la gente fugge, come è avvenuto a Manduria, e questo alimenta ulteriormente l’insicurezza e la tensione. Quella di Berlusconi non è neanche una credibile risposta di sicurezza. A “Sciupone l’africano” chiedo: dopo i lager in Libia, l’Italia intende forse perorare, e magari finanziarie, lager in Tunisia?». L’impressione è che l’Italia di Berlusconi sia sempre alla ricerca di un “Gendarme” del Mediterraneo... «Purtroppo è così. Prima era il Colonnello libico, ora magari si cerca “l’uomo-forte” tunisino... Trovare sempre qualcuno che risolva per conto nostro il problema: è questa la logica che muove Berlusconi e i suoi ministri “in trincea”. Un Governo sorretto da una maggioranza che oscilla tra l’odio razziale dei leghisti e le gag pubblicitarie del Cavaliere: l’Italia di Berlusconi è una italietta piccola piccola. E il mondo ne è consapevole e come tale ci tratta».

La Stampa 4.4.11
Una difficile strada obbligata
di Giovanna Zincone


Sono in troppi ad avere un disperato bisogno di consenso. Tutti i principali soggetti coinvolti nell’emergenza immigrazione in Italia non possono farne a meno. E questo complica di molto le cose. Partiamo da Sarkozy, che si trova con le elezioni presidenziali alle porte e il fiato di Marine Le Pen sul collo. Perché non dovrebbe applicare il Trattato di Chambéry che prevede la restituzione al mittente degli irregolari che valichino i confini tra i due Paesi? L’accordo era del 1997.
Peraltro l’agognato ingresso dell’Italia nell’area Schengen, a partire dal 1998, ci impone di riprenderci i «nostri» irregolari da qualunque Paese dell’area in cui fossero arrivati. Per inciso, siamo anche tenuti a riprenderci eventuali richiedenti asilo che siano arrivati da noi e volessero essere accolti in un altro Paese europeo. Il Trattato di Dublino prevede, infatti, che a occuparsene sia il primo «Paese sicuro» dove sono approdati, e certo l’Italia è (fortunatamente) considerato tale. Si sostiene che la direttiva Ue del 2001 sui rifugiati imporrebbe una ridistribuzione del carico tra i Paesi dell’Unione in caso di flussi straordinari.
Ma si riferisce, appunto, ai rifugiati e non ai clandestini, e la valutazione della straordinarietà degli arrivi è comunque affidata alla discrezione degli altri Paesi. La distribuzione dei carichi all’interno dell’Unione europea ha una discutibile base giuridica, e soprattutto si profila molto difficile in pratica.
Non siamo infatti nei tempi migliori per giocare la carta della solidarietà europea. La Germania e altri partner pesanti sono da tempo molto critici sulla gestione degli irregolari da parte dei Paesi del Sud Europa: troppe regolarizzazioni di massa e magari poca capacità di controllo. Difficilmente Merkel può intenerirsi proprio ora, dopo la batosta elettorale nella sua ex roccaforte del Baden-Württemberg; anche lei ha oggi un disperato bisogno di consenso. Non stupisce invece la solidarietà all’Italia espressa dal presidente Barroso: viene non a caso da un esponente del Sud Europa, area che condivide i nostri problemi migratori, ma per la quale la necessità di supporti finanziari da parte dell’Unione di fronte alla crisi del debito pubblico rende difficile giocare un ruolo determinante su altri temi. La commissaria Malmström ha espresso la posizione dominante nell’Ue: l’Italia ha ricevuto molte risorse per il controllo delle frontiere, per l’integrazione degli immigrati, per i rimpatri assistiti; si può al massimo ragionare sulla possibilità di una diversa utilizzazione di quei fondi che privilegi i rimpatri. È possibile persino che l’Italia spunti un aumento delle risorse, molto meno probabile appare una redistribuzione su scala europea dei clandestini.
Anche il governo italiano ha un dannato bisogno di consenso, perché si avvicina un test elettorale che vede coinvolte città molto significative. E al consenso elettorale conquistato in passato dal centrodestra non è stata indifferente la promessa di controllare l’immigrazione, anzi, soprattutto il successo della Lega deve molto a quella promessa. Si capisce quindi che le incrinature che già si profilavano nel patto di ferro Bossi-Berlusconi si stiano evidenziando e rischino di trasformarsi in crepe, e il premier non può certo rischiare che queste aprano il varco a una frattura. La proposta, da poco ventilata, di applicare l’articolo 20 del Testo Unico sull’immigrazione concedendo ai tunisini sbarcati in Italia un permesso di soggiorno di protezione temporanea per motivi umanitari ha suscitato forti obiezioni leghiste. Non sono infondate. È dubbio che una misura, nata per affrontare esodi di massa dovuti a condizioni drammatiche del Paese di partenza, si possa applicare oggi alla Tunisia impegnata in una transizione democratica attualmente pacifica. Quella misura fu infatti adottata in Italia nel 1999 a fronte del dramma del Kosovo e, non a caso, in quell’occasione anche altri Paesi, europei e non, accettarono di accogliere quote di rifugiati. Ma il punto non è il fondamento giuridico della misura, visto che di norme in Italia se ne stiracchiano parecchie. Il fatto è che questa decisione equivarrebbe a gettare la spugna: visto che l’esecutivo non è in grado di trattenere nei centri i clandestini, visto che non riesce a imporne l’accoglienza neanche ad alcune delle regioni e delle città che governa, visto che, insomma, non è in grado di gestire la situazione, lascia liberi tutti.
Dunque, trattare con Tunisi appare oggi come l’unica residua strategia credibile, ma non vuol dire che sia facile da praticare. Infatti, anche il fragile governo tunisino ha un disperato bisogno di consenso: deve ancora affrontare il test delle prime elezioni libere. Disfarsi di giovani maschi disoccupati e potenzialmente riottosi gli fa molto comodo, e se tra quegli emigrati ci fossero pure alcuni criminali, la capacità di scaricare all’estero anche quel fardello rappresenterebbe solo un vantaggio in più. Se Tunisi non dirà di no, di certo alzerà molto il prezzo per concedere l’applicazione, anzi il rafforzamento del vecchio accordo di riammissione, che la obblighi a riprendersi gli emigrati clandestini. I contatti con Sarkozy, il suo appoggio, l’appoggio dell’intera Unione su questa strategia potrebbero servire molto. E su questa linea anche Barroso potrebbe credibilmente influire. Ma nell’insieme, ora, quella di Berlusconi che parte per Tunisi, stressato dalle sue vicende giudiziarie e da iter legislativi ad esse collegate, appare tutt’altro che un’impresa facile. Come cittadini italiani, però, siamo tenuti ad augurargli «in bocca al lupo». Contenere almeno parzialmente gli esodi non solo solleverebbe il nostro Paese da un serio problema, ma ridurrebbe le sofferenze, i rischi, le morti di coloro che attraversano il Mediterraneo sognando un’Europa che non è pronta a riceverli.

La Stampa 4.4.11
Il Trattato del ’98: cooperazione dei due Paesi, no a rimpatri di massa
Fu Prodi a dire: «Per offrire lavoro e servizi ai regolari dobbiamo contrastare i clandestini»
di A. R.


Il Trattato dell’agosto 1998 tra l’Italia e la Tunisia fu, parole dell’allora ministro degli Esteri Lamberto Dini, “molto sospirato”. Era in corso una sommossa a Lampedusa, dove sostavano ben 146 immigrati clandestini poi espulsi dal locale centro di accoglienza e dispersi in giro per la Sicilia, la Lega soffiava sul fuoco e soprattutto, come diceva il premier Romano Prodi, «l’Italia vuole rimanere aperta agli immigrati, ma per offrire lavoro e servizi ai regolari dobbiamo contrastare i clandestini». Per affrontare il problema, il ministro dell’Interno Giorgio Napolitano interruppe le vacanze a Stromboli. Vennero stipulati accordi con molti Paesi, quello con la Tunisia fu tra i più complessi. Un accordo, poi rinnovato nel 2009 dal governo Berlusconi, predisposto da una commissione mista italo-tunisina, con il quale entrambi i Paesi si fanno carico del contrasto all’immigrazione clandestina in Italia. Premesso che «il governo italiano è favorevole all’armoniosa integrazione nella società italiana dei cittadini tunisini» regolari, e che altrettanto si attende dalla controparte, entrambi i Paesi «si impegnano a riprendere sul proprio territorio, su domanda dell’altra Parte e senza formalità, ogni persona che non soddisfa i requisiti di ingresso o di soggiorno». Gli allontanamenti non richiedono lasciapassare, sono notificati ai consolati, che devono anche identificare chi non sia in possesso di passaporto. Un’intera pagina su tre è dedicata proprio ai requisiti per l’identificazione, il problema più spinoso. E si parla sempre di individui al singolare, non di gruppi: al capitolo quinto si dice espressamente che «nel rispetto della dignità delle persone da riammettere, e al fine di evitare ogni coinvolgimento dei mass media nelle operazioni di riammissione, la parte richiedente si impegna a non praticare rimpatri di massa o speciali di dette persone».
In cambio dei rimpatri, l’Italia ha fornito al paese governato da Ben Alì aiuti allo sviluppo, una cifra attorno ai 150 miliardi di vecchie lire in tre anni, sotto la forma di crediti all’industria. Il 14 maggio 2009 Franco Frattini ha integrato quell’accordo, impegnando Tunisi a una maggior cooperazione nell’identificazione degli illegali (altrimenti non li si può espellere), e accordando ulteriori linee di credito per 50 milioni di euro. In più, da allora l’Italia esamina le richieste di asilo, ma in Tunisia, e soccorre le imbarcazioni che si trovano nelle sue acque nazionali, non quelle in acque internazionali.

Repubblica 4.4.11
L’immigrazione e il governo che non c’è
di Tito Boeri


Un´isola che c´è, Lampedusa, ci ha convinto che non può esistere un governo che non c´è. Quella offerta nelle ultime settimane è una dimostrazione di totale, frustante, impotenza nel gestire un problema certamente complesso ma non più grave di quello in passato fronteggiato da altri paesi dell´Unione Europea.
Quei paesi della Ue che hanno una lunga tradizione nel gestire flussi massicci di rifugiati politici e immigrati clandestini.
Non si può dire che i massicci sbarchi dal Nord-Africa di queste settimane non fossero prevedibili. Era stato lo stesso ministro Maroni a preannunciare due mesi fa un «esodo biblico di 80.000 tunisini», ben maggiore di quello sin qui registrato. Da allora nulla è stato fatto per fronteggiare questa emergenza, per garantire un primo soccorso adeguato alle persone sbarcate a Lampedusa e per definire una qualche strategia, da concordare con tutti gli attori coinvolti. Il coordinamento proprio non c´è stato, neanche all´interno dell´esecutivo. Per non parlare di quello fra governo e Regioni.
Abbiamo assistito a quattro tipi di reazioni all´interno della maggioranza. La prima è l´urlo. Il "föra di ball" in incerto dialetto lombardo di Umberto Bossi potrà forse servire a placare le ira di qualche elettore della Lega, ma certo non è di alcun aiuto ai ministri dello stesso partito che devono gestire il problema. La seconda reazione è stata l´ipocrisia. Si sono inviati clandestini in centri come quello di Manduria sapendo benissimo che ci sarebbero state fughe in massa. Paradossalmente è stato più efficace lo sciopero dei treni delle barriere poste attorno al centro nel contenere gli esodi dal centro verso il nord. E Manduria non è un caso isolato. Secondo le informazioni raccolte dal sito gestito da Sergio Briguglio (www. stranieriinitalia. it), circa 9.500 persone sono state portate via da Lampedusa per essere ospitate in centri aperti. Di queste, 7.000 sarebbero già oggi irreperibili. La terza reazione sono le proposte sconclusionate, segno della totale improvvisazione. È evidente che i 1500 euro offerti in cambio del rimpatrio, nella proposta dei ministri Frattini e Maroni, sono del tutto inadeguati. Qui abbiamo persone che pagano molto di più per fuggire dalla realtà in cui vivono, che rischiano addirittura la loro vita per arrivare nell´Unione europea. La quarta reazione è la menzogna. Quando si sostiene che gli immigrati clandestini verranno tutti riportati in Tunisia si ignora il fatto che per il diritto internazionale non conta tanto la provenienza, quanto l´appartenenza. Quando anche fosse documentabile che gli sbarchi sono tutti originati dalle coste tunisine, non potremmo esigerne la riammissione in Tunisia a meno che sia documentabile che si tratta a tutti gli effetti di cittadini tunisini.
Sarebbe sbagliato vedere in questa improvvisazione solo il segno delle divisioni oggi presenti all´interno della maggioranza e di un presidente del Consiglio palesemente inadeguato. C´è un problema anche di carattere più generale, legato alla mancanza totale di pragmatismo con cui le forze dell´attuale maggioranza hanno gestito il problema dell´immigrazione in questi anni. Il reato di immigrazione clandestina di fronte a flussi come quelli registrati in queste settimane serve solo a congestionare ulteriormente i nostri tribunali. Le procedure della legge Bossi-Fini, già oggi sistematicamente disattese, fingendo che chi fa domanda per un permesso di soggiorno non sia già da noi, sembrano del tutto anacronistiche alla luce di fenomeni su questa scala. Ma soprattutto chi ha sistematicamente voluto tenere fuori l´Europa dalla gestione delle politiche dell´immigrazione non è oggi in grado di fornire risposte.
Non può che essere infatti l´Unione Europea ad affrontare il problema. Primo perché quello che abbiamo di fronte è un problema innanzitutto di rapporti con i nuovi governi che si profilano sulla sponda meridionale del Mediterraneo, rapporti che non possono che tenere conto di fattori ben più ampi della sola questione migratoria. Secondo perché questi governi non possono trattare allo stesso modo un paese come l´Italia (che ammette al massimo 4000 immigrati regolari dalla Tunisia ogni anno) e l´Unione europea nel suo complesso. Non sappiamo cosa riuscirà ad ottenere oggi Berlusconi a Tunisi, ma è chiaro che le sue richieste sarebbero ben più forti se venissero a nome di tutta l´Unione. Terzo perché la messa in atto di politiche differenziate tra i diversi paesi dell´Unione finisce per portare alla violazione del principio della libera circolazione delle persone e degli accordi di Schengen. I controlli messi in atto dalle autorità francesi alla frontiera di Ventimiglia hanno esattamente questa caratteristica. Perché sia l´Europa ad essere investita del fenomeno bisogna abbandonare la finzione, l´ipocrisia di saper gestire questi problemi da soli. Molti politici dell´attuale maggioranza sembrano impreparati a questo passo perché hanno sempre teorizzato il contrario, il mito del borgo che si difende dalle sfide della globalizzazione. Questo è l´ostacolo maggiore. Certo, c´è anche un altro ostacolo. È rappresentato dalle resistenze degli altri paesi dell´Unione che, come la Francia, non hanno dimostrato in queste settimane una grande volontà di cooperare. Nei loro confronti abbiamo però un´arma importante da utilizzare in una eventuale trattativa. Se fosse l´Italia, unilateralmente, a concedere un regime di protezione temporanea con rilascio di permessi di soggiorno per motivi umanitari a tutti coloro che sono sbarcati in questi ultimi due mesi, queste persone godrebbero della libertà di circolazione fino a tre mesi all´interno dell´Unione. Questo significa che la Francia sarebbe costretta a ricevere un flusso di "turisti" tunisini soggiornanti in Italia, senza avere alcuna possibilità di rinviarli in Italia prima che siano scaduti i tre mesi e con scarse probabilità di rintracciarli al termine di tale periodo.

Corriere della Sera  4.4.11
Lega di lotta non di governo
di Ernesto Galli della Loggia


La crisi della leadership berlusconiana a stento riesce a mascherare un’altra crisi che sta esplodendo in questi giorni: la crisi della Lega. È la crisi che è raffigurata come meglio non si potrebbe dalla foto di quella rete del campo profughi di Manduria, semiabbattuta e superata d’un balzo da centinaia di tunisini poi dispersisi nei dintorni . Con l’incisività perentoria delle immagini essa mostra l’impotenza di un ministro leghista dell’Interno, Maroni, che, molto bravo ad arrestare mafiosi e camorristi, non sa invece che pesci pigliare proprio sul tema forse più caro alla propaganda e all’ideologia del suo partito: quello dell’immigrazione. Bossi ha un bel dire agli immigrati «fuori dalle palle» . Il suo ministro non è capace neppure di trattenerli dietro una rete: non dico neppure, naturalmente, di respingerli in mare lasciandoli al loro destino, così come invece, ascoltando le grida di Bossi, qualche ingenuo e feroce leghista forse si è immaginato che potesse accadere. Ma evidentemente un conto sono i comizi a Pontida, un altro conto fare seguire alle parole i fatti. La verità è che quanto accade in questi giorni sta mostrando l’impossibilità/incapacità della Lega ad essere un vero partito di governo. Con l’ideologia leghista si può essere ottimi sindaci di Varese e perfino di Verona, ma non si riesce a governare l’Italia. Non si riesce, cioè, a pensare davvero i problemi del Paese in quanto tale (non solo nella sua interezza, ma anche nella complessità dei suoi rapporti internazionali), e tanto meno immaginarne delle soluzioni. Con l’ideologia leghista al massimo si può stare al governo, che però è cosa del tutto diversa dal governare. Si può al massimo, cioè, essere alleati gregari di una forza maggiore e occupare dei posti: ma al solo scopo, in sostanza, di chiedere mance e favori per i propri territori. Il limite della Lega è per l’appunto questo: a chiacchiere essere contro «Roma ladrona» , ma poi essere condannata a comportarsi nei fatti come un tipico partito di sottogoverno. Questa posizione sostanzialmente subalterna della Lega è l’inevitabile conseguenza di quel vero e proprio bluff ideologico che è l’evocazione della Padania (con implicito sottinteso separatista). Non si può governare nulla che riguardi l’Italia, infatti, tanto meno un problema come l’immigrazione, volendo essere solo «padani» . Quello della Padania, in realtà, è un bluff che solo la stupida timidezza delle forze politiche «italiane» non ha fin qui avuto il coraggio di «vedere» , e che Bossi adopera all’unico scopo di marcare il proprio impegno territoriale e il proprio feudo elettorale. Ma che per il resto è di un’inconsistenza assoluta presso lo stesso elettorato leghista.
Lo dimostrano con il loro comportamento gli stessi amministratori locali della Lega, i quali, molto saggiamente, quando è il momento della verità non se la sentono quasi mai di onorare davvero il bluff «padano» . Come si è visto ad esempio— uno solo tra i tanti— quando nei giorni scorsi il governatore Cota, dovendo scegliere tra il partecipare solennemente alle celebrazioni dell’Unità d’Italia e del ruolo in essa avuto dal suo Piemonte, e in alternativa avallare invece le idiozie anti italiane delle «camicie verdi» restandosene a casa, non ha esitato a scegliere. Ben consapevole che, qualora se ne fosse restato a casa, molto probabilmente si sarebbe giocata la rielezione.

La Stampa 4.4.11
Intervista
“Esilio o insurrezione Gheddafi se ne andrà”
Il leader degli insorti Jalil: “Dateci le armi e anche Tripoli si ribellerà”
di Guido Ruotolo


Ci riceve alla fine di una faticosa giornata. È stanco, e si scusa per questo, il presidente del Consiglio nazionale libico transitorio, Mustafa Abdul Jalil. Ma non per questo rinuncia a lanciare l’appello ai «Paesi di buona volontà», a rifornire di armi i ribelli. Sono da poco passate le sette di sera, Jalil esce da una stanza dove si è incontrato con diverse personalità del Consiglio. Fa pochi passi. Si ferma sull’uscio della porta, si toglie le scarpe e insieme al suo staff recita la preghiera del tramonto.
Presidente Jalil, la situazione sul campo, ormai a quasi cinquanta giorni dall’inizio della rivoluzione, è di stallo. Si combatte a Brega e a Misurata, ma la Tripolitania sostanzialmente è ancora sotto il controllo di Gheddafi.
«Noi non possiamo che continuare a combattere. Gheddafi ha rifiutato la proposta del delegato dell’Onu del cessate il fuoco, noi ci rimettiamo alle decisioni delle Nazioni unite e chiediamo l’applicazione integrale della risoluzione 1973. La popolazione civile deve essere messa nelle condizioni di poter decidere liberamente il suo futuro».
Presidente Jalil, negli ultimi giorni vi sono state vittime civili del cosiddetto fuoco amico.
«Purtroppo bisogna metterlo nel conto. E ci dispiace davvero. Ma voglio aggiungere che dopo una indagine interna, abbiamo verificato che i giovani rivoluzionari vittime del fuoco amico in realtà erano degli infiltrati di Gheddafi».
Domani (oggi, ndr) a Roma il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini, incontrerà il vostro rappresentante, l’ambasciatore Ali Abd al Aziz al Isawi. Che cosa chiedete all’Italia?
«Intanto vogliamo ringraziare l’Italia per il sostegno che ci dà, per quello che fa concretamente all’interno dell’Alleanza. Chiediamo all’Italia una mano a incoraggiare gli alleati a fornire maggiori aiuti alla popolazione civile».
La missione del delegato delle Nazioni unite sembra essere fallita. Gheddafi ha respinto le condizioni per il cessate il fuoco. La Nato e i paesi dei «volenterosi« rifiutano di fornire armi ai ribelli.
«Se Gheddafi non rispetta la risoluzione delle Nazioni Unite, i Paesi dell’Alleanza sono in grado di imporre il rispetto della risoluzione. La Nato ha il dovere di fermarlo perché non accetta le decisioni dell’Onu. Lui ammazza i civili e noi abbiamo il diritto di difenderci. Non possiamo fermarci».
L’esilio di Gheddafi. Si parla di una trattativa a Londra che ha per oggetto l’esilio del Colonnello in cambio del passaggio del potere al delfino, al figlio Mutassim. Che cosa c’è di vero in questa trattativa?
«Non ne sappiamo nulla. Noi sin dall’inizio non ci siamo opposti all’ipotesi dell’esilio di Gheddafi. Sono passati un bel po’ di giorni da quando se ne parla. Evidentemente non c’è nessun Paese disposto ad accoglierlo».
Che succede a Tripoli? Perché non si combatte per le strade?
«Perché la città è piena di cecchini appostati sui tetti dei palazzi e di mercenari per le strade. Alla popolazione viene impedito persino di andare in moschea. Ribadisco che Gheddafi deve liberare le città dai suoi miliziani mercenari e cecchini. Il popolo deve potersi esprimere liberamente. Altrimenti dovremmo prendere atto che il Paese è spaccato in due. Ma noi vogliamo la Libia unita, non divisa».
Le defezioni, la fuga di esponenti del regime è diventata un fattore importante della crisi del regime. Voi del Consiglio nazionale sostenete l’ipotesi di un golpe interno?
«Certo, potrebbe essere una soluzione. L’unica altra alternativa è la sollevazione armata di Tripoli. Ma c'è bisogno di armi».
Presidente Jalil, lei fino a poche settimane fa è stato un autorevole rappresentante del regime di Gheddafi, è stato ministro di Giustizia. Cosa prova nei confronti dei familiari e delle vittime del regime?
«Il mio dissenso con il regime nasce proprio da questa presa d'atto. Non è la prima volta che il regime di Muammar Gheddafi ha usato la violenza contro il nostro popolo, contro i civili».

La Stampa 4.4.11
Giro di vite sui dissidenti
Cina. In carcere l’architetto dell’Olimpiade
Repressione alle stelle: accusato di sovversione Ai Weiwei, autore del celebre stadio a nido d’uccello
di Ilaria Maria Sala


Ai Weiwei è uno dei più conosciuti artisti contemporanei cinesi. Porta la sua firma anche lo stadio olimpico di Pechino, il celeberrimo «Nido d’uccello». Ma la sua celebrità è sembrata interessare poco alla polizia cinese, che ieri mattina lo ha bloccato mentre partiva per Hong Kong: prima lo ha trattenuto all’aeroporto, impedendogli di imbarcarsi, e poi lo ha condotto in questura. Da allora non si hanno più sue notizie. Ma lo studio dell’artista, il Caochangdi , alla periferia di Pechino, rimane circondato dalla polizia.
Nell’ambito dell’operazione è stata fermata anche sua moglie, Lu Qing, assieme a diversi suoi assistenti.
Circa trenta computer che erano nello studio, con i loro dischi rigidi, sono stati sequestrati dalla polizia.

Non è la prima volta che questa star internazionale dell’arte contemporanea cinese, fortemente critica nei confronti del governo, si trova nei guai con le autorità: dopo il terremoto del Sichuan, nel 2008, Ai diede il via a un progetto artistico incentrato sugli zaini degli scolari morti nel sisma, raccoglieva nomi e immagini documentarie per cercare di capire come mai tante scuole fossero crollate, uccidendo centinaia di bambini, mentre gli edifici governativi della regione erano rimasti in piedi (le autorità locali furono accusate di corruzione e di aver intascato fondi pubblici costruendo le scuole con materiali scadenti).
Il suo attivismo a favore delle vittime del terremoto del Sichuan gli valse l’ira delle autorità locali, che lo rinchiusero in un albergo dove venne malmenato: le conseguenze delle percosse lo costrinsero a un’operazione di urgenza, in Germania, a causa di un ematoma cranico. L’operazione e la convalescenza furono trasformate da Ai, grande utilizzatore del Web e di Twitter, in una performance multimediale postata su Internet.
Lo scorso novembre, Ai venne bloccato all’aeroporto mentre stava recandosi in Corea del Sud, quando le autorità cinesi cercavano di impedire al maggior numero possibile di noti attivisti di lasciare il Paese per recarsi in Norvegia, alla cerimonia di assegnazione del Premio Nobel per la Pace al dissidente cinese - condannato a undici anni di prigione - Liu Xiaobo.
La detenzione di Ai giunge dopo circa sei settimane di un pesante giro di vite repressivo in tutto il Paese, che ha portato a numerosi arresti di attivisti, dissidenti, avvocati, e semplici utilizzatori di Internet e dei sistemi di microblogging come Twitter e Weibo (il Twitter cinese) che hanno messo online commenti giudicati inaccettabili dalle autorità. Alcuni di loro sono a tutti gli effetti «desaparecidos», e, secondo gruppi per la difesa dei diritti umani, a rischio di tortura.
Le cause di quest’inasprirsi del clima politico non sono state rese note, ma in parte hanno coinciso con degli appelli, lanciati tramite Internet, affinché la Cina seguisse l’esempio della Tunisia, dell’Egitto, e di altri Paesi dell’Africa del Nord in rivolta e chiedesse maggior democrazia. Le proteste di questa «rivoluzione dei gelsomini», mai avvenuta, sono però state soffocate sul nascere da una massiccia presenza poliziesca nei luoghi previsti per gli assembramenti. Secondo Nicholas Bequelin, ricercatore di Human Rights Watch sulla Cina, si tratterebbe anche di una «specie di riaggiustamento, da parte delle autorità cinesi, per riportare nei ranghi una popolazione ormai usa a un livello di libertà di espressione e comunicazione ben superiori a ciò che il sistema politico reputa accettabile».
In particolare su Internet, infatti, malgrado i numerosi filtri di censura imposti dalle autorità nazionali, molti utilizzatori esperti sanno come «scavalcare il muro» censorio per accedere liberamente a informazioni nazionali e internazionali. Tutte le persone detenute negli ultimi tempi, infatti, hanno in comune l’appartenenza a comunità online attive e molto dirette nell’esprimere opinioni politiche anti-governative.

La Stampa 4.4.11
Intervista
“Pechino ha il terrore del contagio arabo”
L’ex consigliere di Bush senior, Paal: reale il rischio di proteste
di Maurizio Molinari


L’arresto di Ai Weiwei svela il timore di Pechino di essere contagiata dalle rivolte in corso nel mondo arabo»: così Douglas Paal, ex titolare dell’Asia nel Consiglio di Sicurezza nazionale del presidente George H. W. Bush e attuale vicepresidente della Fondazione Carnegie, legge la stretta cinese contro il dissenso.
Perché hanno arrestato Ai Weiwei?
«Il regime è intimorito dalle rivolte nel mondo arabo. Da settimane stanno operando in maniera sistematica, arrestano dissidenti, artisti, studenti. Qualsiasi persona che ritengono possa originare una minaccia viene fermata o minacciata».
Quale pericolo porta Ai Weiwei al regime comunista?
«È un libero pensatore, una voce molto conosciuta in Cina e nel mondo. Deve la sua notorietà non solo allo stadio costruito a Pechino per le Olimpiadi ma a numerose opere assai conosciute. È possibile che abbiano visto in lui un vettore di dissenso fra l’opposizione interna in Cina e quanto sta accadendo all’estero».
A cosa si riferisce?
«Alle rivolte arabe».
Pechino ne teme il contagio?
«Sì, molto».
Ma il mondo arabo è molto distante e diverso dalla Cina. Da dove nasce tale timore?
«È un mistero ma questa è la realtà. Chi studia e osserva la Cina si sta interrogando su questa paura cinese di contagio. In effetti sulla carta si tratta di due mondi distanti, differenti, che si conoscono poco e si parlano ancora meno. Ma forse la chiave di questo mistero è in qualcosa che il regime cinese ha osservato ed a noi sfugge».
A cosa pensa?
«Sono due le aree di dissenso che preoccupano di più le autorità cinesi: i giovani e i disoccupati. È possibile che esistano dei fermenti di protesta al di sotto del radar degli osservatori occidentali. Magari sono state le immagini via Web giunte dal Nord Africa o dal Bahrein a spingere qualche gruppo a mobilitarsi. D’altra parte Ai Weiwei è molto attivo su Internet, se non erro su Twitter ha decine di migliaia di seguaci. Non possiamo escludere che Pechino stia tentando di disinnescare il meccanismo che ha portato in Tunisia ed Egitto a mobilitare le piazze ovvero la convergenza fra l’uso di Internet da parte dei giovani e lo scontento delle masse dei senza lavoro.Potrebbero essere arrivati alla conclusione che il pericolo di proteste è molto reale».
Cosa può fare l’Occidente di fronte alla repressione del dissenso in Cina?
«L’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, è troppo distratto da quanto sta avvenendo nel mondo arabo. Non ha tempo né desiderio di guardare alla Cina ma è un grave errore».

Corriere della Sera 4.4.11
Guerra a Gaza, si pente l’accusatore di Israele
«Le vittime civili non furono intenzionali»


Poche scuse: scusarsi, non basta. I giornali israeliani si dividono su Richard Goldstone, nel descriverlo «pericoloso voltagabbana» o «uomo straordinariamente coraggioso» , nel condannarlo «a guardarsi allo specchio fino alla morte» o nel citare a sua difesa il Libro dei Proverbi: «Chi confessa troverà misericordia» . Comunque la vedano, tutti in Israele hanno letto sul Washington Post l’opinione ai tempi supplementari del giudice che nel settembre 2009 diede il nome al famoso rapporto sulla guerra di Gaza— «avessi saputo allora quel che so oggi, il rapporto sarebbe stato un documento diverso» : di fatto, una revisione della sentenza Onu che metteva Israele sullo stesso piano di Hamas e lo condannava per l’uccisione deliberata di civili— e quasi tutti concordano: scusarsi è il minimo. «È stata perpetrata una calunnia sanguinosa contro il popolo ebraico» , dice il presidente Shimon Peres, che domani ne parlerà a Obama. «Troppo poco e troppo tardi» , riassume il ministro della Difesa, Ehud Barak, che per quelle accuse di crimini di guerra ha dovuto cancellare missioni all’estero: «Ora vogliamo che le Nazioni Unite annullino il rapporto» . «Va seppellito nella discarica della Storia» , annuncia Bibi Netanyahu, il premier, che assolderà legali «per ridurre il danno enorme provocato da quel carico di diffamazioni» . Non sapevo di non sapere, è la tesi del Goldstone pentito. Che ora riconosce a Israele (e non a Hamas) il merito d’avere indagato seriamente su 400 casi di sospetti crimini. E di non aver mai «intenzionalmente preso di mira i civili, come regola generale» : esattamente il contrario di quanto sentenziato allora. Nel suo articolo, Goldstone denuncia pure «lo storico pregiudizio antisraeliano» del Comitato Onu per i diritti umani che ordinò il rapporto, un organismo (contro il quale l’Italia fu tra i pochi a schierarsi) che annoverava Gheddafi come membro onorario. La conversione a U del giudice, un ebreo sudafricano che in questi mesi ha subìto contestazioni perfino al Bar Mitzvah del nipote, per Hamas è «una sorpresa» : «Ha ceduto alle pressioni della lobby sionista» , liquidano i jihadisti. Concorda l’Autorità palestinese: «Si è ricreduto. E adesso? 1.400 vittime di quella guerra, 400 delle quali bambini, non possono finire nel dimenticatoio» . F. Bat.

Corriere della Sera 4.4.11
Se i giovani arabi riconoscono Israele
di Roberto Tottoli


M anca un ultimo passo alla gioventù araba e musulmana delle rivolte per ambire a un futuro veramente nuovo: affermare e pretendere il riconoscimento di Israele e chiedere ai coetanei israeliani di mobilitarsi anche loro per la creazione di uno Stato palestinese, deponendo ogni ostilità. E chiedere alle forze politiche nuove e forse libere, Fratelli musulmani compresi, di fare lo stesso. I giovani arabi e musulmani hanno adesso l’occasione storica per chiudere un passato ingombrante. Hanno l’opportunità di tentare vie nuove e di non guardare più dal basso i coetanei israeliani, ma di incalzarli, di rilanciare per la prima volta un’azione politica che non sia stantia e di retroguardia. Dicano chiaro e tondo che non credono più neppure alla propaganda anti-israeliana e anche antisemita che i loro regimi iniettavano o permettevano a piene mani da decenni. Dicano che hanno capito che lo facevano per aprire una comoda e indolore valvola di sfogo con una mano, mentre con l’altra non facevano nulla di concreto per la causa palestinese. Allo stesso tempo, però, tolgano enfasi e pretese di esclusivismo al fattore religioso di ognuna delle parti, perché non ha ragione storica d’essere. Gerusalemme è importante, ma non è Mecca, né è mai stata nel corso della storia il centro della religiosità musulmana. Chiedano, i musulmani, che sia riconosciuto loro il diritto di celebrare nei propri luoghi il ricordo di quel che fu Gerusalemme per Maometto e la storia del primo Islam, senza che l’esasperazione simbolica alimenti una pretesa di primato religioso. E chiedano ai giovani israeliani di mobilitarsi e fare lo stesso, di ricondurre la sacralità connessa al Tempio nella sua reale dimensione storica, tralasciando campagne archeologiche che vanno a caccia di luoghi sacri per poter dimostrare una primogenitura sulle pietre. Queste operazioni, per gli uni e per gli altri, non sono più l’esercizio della propria libertà di fede, bensì i frutti avvelenati che la cattiva politica ha generato negli ultimi decenni. E a quei musulmani che ancora sostengono come la terra di Palestina sia nel cuore della Dar al-islam, «la Casa dell’Islam» , questi giovani figli del web dovrebbero spiegare come il futuro ha ormai travolto vecchi muri e confini. Che non ha più senso continuare a ribadire categorie medievali quando vi sono e prosperano comunità musulmane emigrate ovunque che hanno ben altre prospettive ed esperienze vissute. Lo facciano ora, chiamando anche i coetanei israeliani fuori dalla loro prigionia di uno Stato accerchiato e di un muro reale che chiude in un nuovo ghetto ogni speranza di convivenza. Il patrimonio politico delle rivolte arabe non potrebbe essere speso meglio. Se avranno la forza di farlo, e farlo insieme ai coetanei israeliani, o sapranno comunque trovare argomenti convincenti sulla stessa linea, riusciranno in un risultato ancora più grande. Riusciranno a sbugiardare una dirigenza palestinese che non ha più saputo rilanciare un’azione politica incalzante e vincente, e che ha ingrassato aristocrazie della diaspora e illuso milioni di profughi palestinesi abbandonati e senza diritti da decenni. Potranno per la prima volta minare la retorica di governi israeliani che dietro la mobilitazione continua in nome della sicurezza, forse comprensibili trent’anni fa, hanno ormai evidenti istinti di egemonia coloniale con un cinismo non inferiore alla crudeltà dei regimi circostanti. E insieme a tutto questo, potranno cancellare quella presenza occidentale invadente e continua nel mondo islamico, fatta di interventi umanitari e di Ong, per mezzo delle quali si celebra la retorica di un occidente «buono» accanto a uno «cattivo» , mentre allo stesso tempo si perpetua una presenza straniera massiccia quasi quanto ai tempi del colonialismo. Questi giovani, questi giovanimusulmani e quelli che li hanno sostenuti in Europa e nel mondo, sono pronti a guardare al futuro e non più al passato anche per Israele e Palestina? A farlo senza frustrazioni né vittimismi, con voglia di cambiare per sempre il mondo in cui hanno vissuto? Questo potrebbe essere il momento giusto. Ora è l’occasione, irripetibile e unica, per farlo. docente di Islamistica Università di Napoli L’Orientale

Repubblica 4.4.11
I dialoghi dei soldati della Wehrmacht rivelati in un libro da due storici tedeschi
I racconti shock dei nazisti "Che gioia uccidere italiani"
"Ci ordinavano di ammazzarne un po´, dove arrivavamo" Bambini e donne massacrati: "Ma che pena i cavalli"
di Andrea Tarquini


«In Italia, in ogni luogo dove arrivavamo, il tenente ci diceva sempre "cominciate ad ammazzarne un po´". Io parlavo italiano, avevo compiti speciali». Conversazione quotidiana tra un caporalmaggiore della Wehrmacht e un suo compagno di prigionia, registrata dai servizi segreti alleati durante la seconda guerra mondiale. Una delle tante. Citando e narrando questi documenti, un libro d´imminente uscita in Germania racconta con la precisa freddezza degli storici una realtà agghiacciante, che i tedeschi del dopoguerra, nelle due Germanie e dopo la riunificazione, avevano amato rimuovere: la Wehrmacht non fu l´esercito implacabile ma "pulito" e cavalleresco. Fu nell´animo collettivo pieno complice sia dell´Olocausto, sia dei crimini di guerra.
Ancora una volta la Germania democratica, antinucleare, pacifista fino al no alle bombe contro Gheddafi, rifà i conti con il passato.
"Soldaten, Protokolle von Kaempfen, Toeten und Sterben", cioè "Soldati, protocolli del combattere, dell´uccidere e del morire", s´intitola il libro degli storici Soenke Neitzel e Harald Welzer, in uscita per i tipi della S. Fischer Verlag di Francoforte (524 pagine, 22,95 euro). Un documento nuovo, testimonianza dell´onestà spietata con se stessi con cui i nuovi tedeschi guardano alla loro Storia. Per anni, Neitzel e Welzer hanno studiato oltre 150mila pagine di archivi dell´Intelligence Service britannico e dello Oss americano. Erano le registrazioni dattiloscritte dei colloqui tra prigionieri tedeschi, selezionati a caso dai servizi alleati. I britannici effettuarono l´operazione soprattutto a Trent Park, concentrandosi sugli ufficiali, gli americani a Fort Hunt privilegiando soldati semplici e graduati. Volevano capire la psicologia del nemico, scoprirono l´orrore. Ignari d´essere ascoltati, soldati e ufficiali della Wehrmacht parlavano liberamente, si vantavano a gara tra chi era stato più spavaldo e spietato.
«In un villaggio in Russia c´erano partigiani. E´ chiaro che dovevamo fare terra bruciata, uccidemmo donne, bambini, tutto e tutti», dice un soldato a un altro. Oppure, ricordando l´aggressione alla Polonia: «Bombardavamo e mitragliavamo a volo radente attorno a Poznan, volevamo fare tutto il possibile con le mitragliatrici di bordo. Soldati, civili? La gente non mi faceva pena, ma uccidemmo anche cavalli, per i cavalli fui dispiaciuto fino all´ultimo giorno».
Diciotto milioni di uomini, 4 uomini tedeschi adulti su 10, servirono nella Wehrmacht. Queste conversazioni di prigionia tra gente comune, non tra nazisti convinti prescelti nelle SS, narrano l´adesione spontanea alla guerra totale hitleriana. Torniamo ai massacri in Italia: «Il tenente ci diceva, ammazzatene venti, così avremo un po´ di pace, alla minima loro sciocchezza via altri cinquanta. Ra-ta-ta-ta con le mitragliatrici, lui urlava, "crepate, maiali", odiava gli italiani con rabbia». Anche altrove: «In Caucaso, se uccidevano uno di noi, il tenente non aveva bisogno di impartire ordini. Pistole pronte, donne, bambini, tutto quel che vedevamo, via!»:
Il raptus sterminatore non contagiava solo fanti, bensì anche marinai della Reichskriegsmarine e i piloti della Luftwaffe tanto mitizzati come cavalieri dell´aria. «Col nostro U-Boot affondammo un cargo trasporta-bambini», dice il marinaio Solm nel 1943 a un compagno di prigionia. (Ndr erano le navi con cui i bimbi inglesi venivano portati in salvo dai bombardamenti, in Usa e Canada).
«Tutti affogati? Sì, tutti. E la nave? Seimila tonnellate».
Durante la Battaglia aerea d´Inghilterra, affrontare in duello Spitfires e Hurricanes della Royal Air Force non faceva piacere, ma accanirsi sui civili sì. «Avevamo un cannone da 20 mm, volando bassi su Eastbourne abbiamo visto una festa in una villa, abbiamo sparato, ragazze in abito sexy e uomini eleganti schizzavano via nel sangue, amico mio che divertimento!», si confessano gli ex piloti Baeumer e Greim. Poi c´era il sesso di guerra: «In quella casa a Radom in Polonia», disse il soldato Wallus, «ci portavano con i camion, ogni donna doveva avere una quindicina di noi ogni ora, ogni due settimane dovevano sostituirle». Con le partigiane, ancora più duri, ricorda il militare Reimbold: «In Russia prendemmo una spia, le infilzammo i seni con spini, le infilammo la canna del fucile di dietro, poi ce la facemmo. Poi la buttammo giù dal camion, le tirammo granate attorno, figurati, urlava ogni volta che esplodevano vicino!».

Repubblica 4.4.11
Povera cultura. Più denaro, meno parole è ora di voltare pagina
di Salvatore Settis


Le Soprintendenze sono in sofferenza Hanno bisogno di fondi e assunzioni E segnali chiari
Tra i dipendenti c´è malumore per gli stipendi tagliati del 20%. Eppure si va in scena
I giudici hanno disposto i sequestri per pagare fornitori e liquidazioni mai versate

Buona notizia: Tremonti ha scritto a Repubblica (29 gennaio) smentendo di aver mai detto che «la cultura non si mangia». Pessima notizia: il governo Berlusconi (compreso Tremonti) si comporta come se quella stessa frase la cantasse in coro ogni mattina. Anche il reintegro dei (modesti) fondi per lo spettacolo, fatto a prezzo di un aumento della benzina, minimo ma identico per tutte le classi di reddito, lancia un messaggio chiaro: se volete più fondi per la cultura, pagherete più tasse, pagherete tutti. Nessuna menzogna di ministro o complicità di intellettuali inclini a genuflessioni, furberie e compromessi può nascondere che la scuola è in stato comatoso, che università e ricerca sono drammaticamente sottofinanziate, come anche musica, teatro, cinema, tutela del patrimonio e del paesaggio. In barba alla tradizione italiana e alle garanzie della Costituzione, chi ci governa vede le spese in cultura come un fastidioso optional, l´ultimo della lista.
Eppure Sandro Bondi, allora neo-ministro dei Beni Culturali, dichiarò il 3 giugno 2008 alla Camera che «l´Italia è agli ultimi posti in Europa per la spesa in cultura sul bilancio dello Stato: 0,28% contro l´8,3% di Svezia e 3% di Francia», e dichiarò «mi impegno ad invertire questa tendenza negativa». Risultato: 22 giorni dopo (il 25 giugno), con il decreto 112, il governo dimezzò la capacità di spesa dei Beni Culturali tagliando 1.200 milioni di euro. Da Bondi, neanche un lamento. Da allora, anzi, il suo (ex) ministero ha subito ulteriori tagli, e quello 0,28% è calato a qualcosa come lo 0,16%. In attesa, si suppone, di calare ulteriormente fino all´auspicato zero virgola zero. Davanti a questi dati, Soloni d´ogni osservanza spargono lacrime copiose.
Ma poi subito levano le braccia al cielo, e proclamano: "Ma non ci sono risorse! Ma c´è la crisi!". Tanta rassegnata saggezza presuppone una piccola amnesia: l´evasione fiscale. Come hanno scritto Angelo Provasoli e Guido Tabellini sul Sole-24 ore (14 aprile 2010), «a seconda delle stime, il valore aggiunto non dichiarato varia tra il 16 e il 18% del Pil, con una perdita complessiva di gettito di oltre 100 miliardi di euro, pari a oltre il 60% dell´intero gettito Irpef». Perciò «la prima questione da affrontare è l´evasione fiscale», che «potrebbe essere debellata con investimenti non elevati». Recuperare subito l´1 o 2% delle tasse evase, e investirlo in cultura: perché no? Ma nulla in questo senso vien fatto, anzi le risorse che ci sono vengono investite senza alcuna lungimiranza. Per esempio, dopo la frana di Giampilieri che nell´ottobre 2009 uccise almeno 37 persone, Bertolaso dichiarò cinicamente che è impossibile trovare due miliardi per mettere in sicurezza le franose sponde dello Stretto, per giunta soggette a sismi di massima violenza (l´ultimo, nel 1908, seguito da tsunami: 120.000 morti). Si trovano, invece, i sette o dieci miliardi per costruire su quelle frane il Ponte. Si sono trovati cinque miliardi da dare a Gheddafi baciandogli la mano.
Tragica è ormai la situazione delle Soprintendenze, votate (lo ha detto Giulia Maria Crespi) «a una dolce morte»: l´età media del personale ha superato i 55 anni, le nuove assunzioni non sono nemmeno il 10% dei pensionamenti, il controllo del territorio è impossibile per mancanza di fondi. Intanto, nuove attribuzioni e compiti sono previsti dal Codice dei Beni Culturali varato da Giuliano Urbani (governo Berlusconi), con modifiche di Buttiglione e Rutelli: quanto di più bi-partisan, insomma, e forse per questo tanto disatteso. Più responsabilità, meno risorse umane e finanziarie: questo il copione degli ultimi anni, infallibile se si vuol chiudere bottega. E´ un miracolo se, sfiduciati e depressi anche per un´ondata di commissariamenti spesso dannosi, i funzionari delle Soprintendenze resistono in trincea.
Il nuovo ministro Galan ha inaugurato la sua stagione con segnali misti. Da un lato, ha dichiarato (Il Sole, 25 marzo) che non sarà «il sottosegretario di Tremonti», che occorrono nuove risorse e che è urgente «chiudere per sempre il capitolo della sfiducia, della depressione e della rabbia sterile che oggi avvilisce ingiustamente» le Soprintendenze e chi ci lavora (Il Sole, 30 marzo). Dall´altro, si è concesso una battuta («I Bronzi di Riace sono stati trovati nei mari della Calabria, ma solo per questo devono rimanere in quella zona?»), che ha prontamente scatenato chiacchiere da bar e polemiche d´ogni segno. Battuta frivola, che par pensata per dirottare l´attenzione dei media su un tema marginale (il luogo di esposizione dei Bronzi), distraendola da problemi ben più gravi. L´amministrazione dei beni culturali non deve occuparsi solo di opere supreme come i Bronzi, ma della presenza capillare del nostro patrimonio in tutta Italia, della tutela di un paesaggio sempre più devastato, dal Veneto alla Calabria, da spietate colate di cemento. Facendo intravedere un evento spettacolare (e poco costoso) come lo spostamento dei Bronzi da Reggio, il neo-ministro ha fatto parlare di sé ma girando a vuoto, ha scelto la strada in discesa dell´effetto-annuncio. Ma il suo compito è molto più difficile, richiede l´immediata ricerca di risorse e un urgente piano di assunzioni basate sul merito. Esige un progetto per l´Italia e non per due statue, per quanto importanti. E´ così, onorevole Galan, che si potrà ridare fiducia ai funzionari della tutela, e non "movimentando" statue e quadri senza nemmeno consultarli.

La Stampa 4.4.11
L’epidemia dei giovani narcisisti
Una psicologa lancia l’allarme: colpito un ragazzo su tre. La colpa? Culto dell’immagine e Internet
di Rita Sala


La ricerca Negli Usa analizzati i profili psicologici di16mila studenti: dilagano arroganza, egocentrismo, materialismo Il motivo «In un mondo così competitivo che esalta gloria, fortuna e ricchezza la forte autostima aiuta a stare a galla»

Il narciso della specie umana sboccia tutto l’anno, ed è un peccato che non abbia una fioritura breve e intensa, come il suo omonimo vegetale. Invece è destagionalizzato, tipo i pomodorini in serra, e cresce ovunque, specialmente nel mondo giovanile, suscitando una pericolosa ammirazione. Proprio quello che vuole.
L’allarme narcisismo questa volta arriva da Jean Twenge, psicologa della San Diego State University, che ha condotto una ricerca su sedicimila studenti e li ha trovati malatissimi. I sintomi: arroganza, egocentrismo, scarsa empatia, materialismo spinto. Ed ecco i dati: negli ultimi trent’anni i narcisisti sono diventati un esercito, il 30 per cento, mentre nel 1982 erano soltanto il 15. Un altro studio su 35mila persone di varie età ha dimostrato che oggi i giovani sono molto più narcisisti degli anziani (il 10 per cento contro il 3) mentre prima era il contrario. Era l’esperienza ad alimentare questo disordine della personalità, mentre adesso narcisisti (quasi) si nasce. E lo si diventa facilmente, alla luce dei riflettori. Jean Twenge punta il dito contro genitori troppo permissivi, cultura delle celebrità e Internet. Un cocktail micidiale. Gli studenti intervistati hanno ammesso sereni che il narcisismo è una necessità: guai a esserne sprovvisti in una società così competitiva. Autostima, fiducia in se stessi, «io sono il migliore», «ho sempre ragione» e via di seguito, aiutano. Ma il narcisismo, spiega Twenge, non c’entra con la competizione: «Questi ragazzi che sognano fortuna e gloria, ricchezza, perfezione fisica ossessiva sono talmente convinti di essere dei fuoriclasse che nemmeno studiano». E fuori dalla classe ci finiscono sul serio.
È un discorso già sentito, anche se non ancora sostenuto da una tale massa di dati comparativi e adesso che ci sono, è ovvio: siamo circondati. Il protagonismo, il presenzialismo, lo sgomitamento per apparire, la capacità di manipolare gli altri sono considerati meriti un po’ in tutti i campi. Il modello è quello dei reality. Basta esprimere una personalità, avere un’abilità qualsiasi: raccontare barzellette, sedurre, far piangere. Involontariamente il tronista di «Uomini e Donne» è diventato il simbolo del narciso corteggiato (deliziosa la parodia di Claudio Bisio a «Zelig», dove Claudiano mastica gomma mentre Tatiana e Valeriana si accapigliano per lui), come Vittorio Sgarbi può essere considerato l’esempio perfetto dell’istrione, con un suo adorante pubblico.
Le società, è vero, hanno sempre avuto i loro narcisi, artisti, attori, ballerine e anche qualche nano, il problema è che adesso stanno diventando troppi, o troppo ingombranti, come segnala la presidente dell’Ordine degli psicologi del Lazio, Marialori Zaccaria. Ingombranti al punto da provocare un’ondata di manualistica specializzata. «Come difendersi da un narcisista» (il più venduto), «Guerra al narcisismo», «Ho sposato un narciso: manuale di sopravvivenza per donne innamorate» (graziosa cover con un cerotto sul cuore). Ma è una contraerea piuttosto debole.
Come ricorda Zaccaria, nel 2013, quando sarà pubblicato il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm V, a cura dell’American Psychiatric Association), «bibbia» della psichiatria internazionale, il narcisismo patologico non ci sarà. Cancellato. Perché non c’è una pillola che lo guarisca, non c’è business per le aziende farmaceutiche, e allora tanto vale non prenderlo in considerazione. Si profilano tempi duri, tra Grandi Fratelli e Lady Burlesque, tra personalità onnipotenti e successo dell’eccesso. E nessuno pensa di chiedere per i gli anti-narcisisti una «no fly zone» in attesa di tempi migliori.

La Stampa 4.4.11
Intervista
Lo studioso: “Alla fine si corre il rischio di rimanere da soli”
di R. SAL.


Edoardo Giusti, direttore dell’Aspic (Associazione per lo sviluppo psicologico dell’individuo e della comunità), che ha 37 sedi in Italia, si è occupato a lungo di narcisismo. Il libro che gli ha dedicato, ripubblicato da poco da Soverato, ci spiega con chi abbiamo a che fare.
Professore, come si riconosce un narcisista?
«Ce ne sono di due tipi: uno esibizionistico, consapevole o inconsapevole (perciò più facile da riconoscere perché coltiva la propria onnipotenza, e desidera l’invidia degli altri), e uno nascosto, ipervigile, difficile da individuare. Tutti e due cercano soltanto una cosa: l’ammirazione».
Ci sono specie diverse di narcisismo?
«C’è l’istrione che gesticola, litiga e si crea un pubblico. C’è l’isterico che piange, cerca di ottenere compassione, simpatia. Questi due modelli sono molto televisivi, ne abbiamo tanti sotto gli occhi: il seduttore con l’harem, i vincitori di un concorso, i partecipanti ai reality. Ma è il web che esalta l’onnipotenza con il mito dell’interconnessione e l’infinità dei contatti».
Come si diventa narcisisti?
«A livello emozionale si comincia con un abbandono reale o con la paura di subirne uno. I comportamenti, poi, possono essere diversi. Prendere droghe (cocaina, che è un euforizzante), l’inseguimento del potere, il denaro, il sesso, la bellezza».
Ci si può curare?
«Esclusivamente con la relazione terapeutica, non certo con i farmaci. Ma sono casi rari perché il narcisista non ha un’introspezione marcata, vive il qui e l’ora, usa gli altri e li fa soffrire, mentre lui non soffre. Può sentire la necessità di una cura soltanto di fronte a un abbandono che gli provoca depressione. Penso a Fabrizio Corona e Belen Rodriguez. Se lei lo lasciasse per sempre, sarebbe una ferita al suo narcisismo. Allora forse...».
Insomma, siamo al trionfo del narcisismo?
«Non è detto: un istrione è divertente in un salotto. Lo esibisci in pubblico, lo eviti nel privato. Il destino del narcisista è la solitudine».

La Stampa 4.4.11
Se il romanziere si sdraia sul lettino di Freud
Nel nuovo romanzo di Alain Elkann uno scrittore in crisi ritrova l’ispirazione nelle sedute dall’analista
di Alain Elkann


“Lei sa cos’è il blocco dello scrittore? Sono venuto qui perché non riesco più a scrivere. Vivo con una donna che controlla quello che faccio, vuole leggere tutto quello che scrivo. Non mi sento più libero. Professore, le chiedo di aiutarmi a capire cosa devo fare».
Vittorio Olmi, il mio analista, abita a Roma, nel quartiere Prati, in un piccolo appartamento al terzo piano di un palazzo moderno. È un uomo di una cinquantina d’anni dai modi gentili; ha i capelli tagliati cortissimi e gli occhi neri, vellutati, profondi, quasi sempre sorridenti. Per certi versi mi ricorda il Dalai Lama.
Dopo il nostro primo incontro, durante il quale gli raccontai in modo confuso la situazione in cui mi trovavo, presi l’abitudine di andare da lui due volte alla settimana per parlargli con fiducia di qualunque cosa, senza dovermi giustificare.
Entravo nel suo studio e mi sedevo su una poltrona di cuoio rosso; Vittorio restava seduto di fronte a me sulla sua poltrona di cuoio nero. Nella stanza c’erano solo uno scaffale stipato di libri e uno scrittoio su cui erano appoggiati un computer, un piccolo Ganesh in avorio e una cartolina con l’immagine di un ghat a Varanasi.
Con lui parlavo soprattutto delle mie paure: non essere libero, non riuscire più a scrivere, perdere il mio talento. Vittorio ascoltava assorto, interrompendomi di tanto in tanto con delle domande precise; con il suo modo di fare dolce e amichevole, mi riportava a concentrarmi sul filo del discorso. Mi esortava a non provare timore, ad avere fiducia in me stesso e ad andare avanti per la mia strada. Era normale, mi rassicurava, che una persona creativa come me perseguisse la sua ricerca interiore senza volerne rendere conto a nessuno. Il mio bisogno di segreti, di cambiamenti, di ripensamenti, faceva parte del mio essere.
Un giorno confessai a Vittorio: «Mi terrorizzano i sentimenti altrui, non li capisco. Non sopporto che la passione amorosa si trasformi in abitudine, in senso di riconoscenza, in rituali scontati. Vivere per compiacere l’altro non è il modo in cui concepisco l’amore. Trovo brutto, sbagliato, voler possedere chi si ama».
«Il desiderio di possedere l’altro è umano, ma in realtà lei è un ricercatore. È come un cacciatore che cammina nei boschi, con il suo cane, sulle tracce di una preda».
«Vittorio, lei è così diverso da me. Studia, scrive saggi. Io non ne sarei capace. Racconto le storie che mi vengono in mente e che prendono forma giorno dopo giorno, senza un progetto, proprio mentre le scrivo. Una contadina, tantissimi anni fa, mi disse: “Le more si raccolgono quando ti cadono in mano da sole”. Ecco, lo stesso accade con i personaggi dei miei romanzi. Devono venire da soli».
«E ora si sente bloccato perché non ha in mente nuovi personaggi?».
«A questo proposito sono molto combattuto. In un primo tempo avevo immaginato un romanzo che avesse come protagonista Gloria, una donna inglese di una sessantina d’anni, vedova, di buona famiglia, che vive in campagna nei dintorni di Manchester. Stanca di essere sola, mette un annuncio sul Financial Times per trovare un amico, un amante. A quell’annuncio rispondono in molti e tra questi, in un momento di disperazione, anche Michael Dufay, un critico d’arte settantenne geniale, eccessivo, irruento. I due si conoscono a Roma, in una chiesa, e consumano la loro passione in un piccolo albergo per turisti a Trastevere.
«Ma vede, Vittorio, per creare un personaggio bisogna calarsi fino in fondo nella sua personalità, e in questo periodo non sono affatto sicuro di riuscire a mettermi nei panni di una donna inglese protestante, di buona famiglia e sessualmente irrequieta. O di un intellettuale australiano in declino, trasferitosi da ragazzo in America, dove è infelicemente sposato con Daisy, più giovane di lui di quasi trent’anni. La classica americana bionda, con la carnagione chiara, formosa, sportiva. Il loro matrimonio, dopo un inizio vivace e pieno di speranze, si è trasformato presto in un legame asfissiante. Daisy si era aspettata che Michael l’aiutasse a diventare un’artista famosa, mentre lui non ha mai creduto nel suo lavoro. Tra l’altro, Michael nutre nei confronti di Daisy il complesso di un invecchiamento precoce, a causa di un ginocchio sofferente che lo costringe a camminare con il bastone, e dell’incapacità di controllare il suo alcolismo che lo rende via via più bolso e irascibile. Tra i due scoppiano continui litigi, come succede alle coppie in cui le cose cominciano ad andare male. Un tempo Michael era un uomo di grande talento, ma con il crescere del successo si è lasciato andare a ogni sorta di debolezza, di vizio, sopraffatto dal demone dell’alcol. Col passare degli anni ha lavorato sempre meno, perdendosi in mille rivoli. Si è impigrito, la sua giovane moglie non è stata in grado di rimetterlo in riga, ed entrambi non hanno più avuto voglia di proteggere il loro matrimonio. Così, si sono accorti di non essere sicuri del loro amore.

Corriere 4.4.11
Matteotti L’eroe intransigente
di Marzio Breda


Qualche mese dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, il 10 giugno 1924, nella breve e cupa crisi che precedette il varo delle «leggi fascistissime» con cui s’instaura la dittatura, l’editore Enrico Dall’Oglio raccolse in volume alcuni scritti del grande antagonista di Mussolini e li intitolò Reliquie. Una scelta al limite della temerarietà perché quelle riflessioni erano «un corpo di reato» , ma non solo. Erano testi «sacri» per tutti i democratici, secondo la definizione che ne diede Claudio Treves. Il quale, evocando il deputato socialista alla stregua di un profeta disarmato, parlò di idee interiorizzate come «una religione» e delle tappe della sua parabola umana e politica come delle «stazioni di un Calvario» , su cui si sarebbe dovuta esercitare «la devozione dei fedeli» compagni. Così è stato, visto che da allora è cresciuto un mito destinato a imporsi nella coscienza di chiunque avesse a cuore i principi di giustizia e libertà. MatteoMatteotti, secondogenito di Giacomo, ricordava che quando le truppe americane giunsero a Roma il 4 giugno ’ 44 e lo incrociarono alla testa di un gruppo di partigiani, dopo aver controllato i suoi documenti, gli chiesero: «Figlio, forse?» . E spiegava che, avutane conferma, si congedarono con un muto inchino. Come si farebbe davanti ai congiunti di un eroe da ammirare e rimpiangere. Un Gobetti, un Rosselli, ma anche un Ambrosoli, un Falcone o un Borsellino. O Matteotti, appunto. Un eroe vero, in un Paese dove se ne sono spacciati tanti di fasulli. Uno la cui morte atroce, che ha prodotto una scissione nella storia nazionale, ha schiacciato e messo in ombra i suoi 39 anni senza respiro. Lo dimostra il fatto che i molti saggi su di lui (un caso a parte resta la monumentale raccolta di opere curata da Stefano Caretti per Nistri-Lischi di Pisa) si focalizzano sempre su delitto, mandanti e processi, mentre è mancato un racconto ampio e documentato del Matteotti vivo. Prima del mito. Ora questa biografia ragionata c’è e offre nuove chiavi di lettura per capire, «sapendo come visse, perché morì» . E per comprendere perché sia stato così amato ovunque — lo provano le vie e piazze dedicategli in mezzo mondo — e resti unmodello quasi inarrivabile per noi. (Che in questo 150 ° anniversario dell’Unità d’Italia, rispolverando il nostro Pantheon di eroi, dovremmo tornare a onorarlo). Era infatti Un italiano diverso (Longanesi, pp. 330, e 20) come lo fotografa un libro di Gianpaolo Romanato, contemporaneista all’università di Padova. Diverso per carattere, intransigente senza paura, che ne faceva un isolato in un popolo pronto a esplodere in tardive «collere senza coraggio» . Diverso per estrazione intellettuale, con un imprinting europeo fuori da ogni provincialismo, basta pensare ai suoi viaggi di studio e lavoro (e si era all’alba del Novecento) tra Bruxelles, Amsterdam, Vienna, Berlino, Oxford, Londra, Parigi, Budapest. Diverso per integrità morale, tanto da replicare a chi gli contestava la contraddizione di predicare il socialismo essendo un agiato proprietario terriero: è vero, ma questo non mi esime dal sostenere misure che vanno contro i miei interessi privati. Diverso per la capacità di difendere le sue idee anche da una trincea fragile e assediata da tutti, come rivela l’ostilità postuma riservatagli dai comunisti (per Gramsci era un «pellegrino del nulla» ), che volevano imprimere un unico sigillo, il loro, sull’antifascismo, mentre invece, per dirla con Giovanni Sabbatucci, «l’antifascismo come valore e come scelta consapevole nasce proprio con il suo sacrificio» . Romanato inquadra la figura di Matteotti, a partire dal contesto nel quale si formò, e incrocia la dimensione pubblica e privata. Il suo Polesine, poverissimo e incendiario delle prime leghe contadine. La famiglia, concentrata ad arricchire. Il fratello Matteo che lo indirizzò al socialismo riformista. La laurea in legge a Bologna, poi corroborata da studi economici. Il fidanzamento e il matrimonio con Velia Ruffo, sorella del famoso cantante lirico Titta Ruffo. Le battaglie politiche, affrontate con lucida preveggenza e febbrile attivismo, liquidate dal regime con parole sempre di moda: «propaganda d’odio» . Tutto finisce con il tagliente e implacabile discorso che tenne alla Camera il 30 maggio 1924, denunciando i brogli elettorali e le violenze di un fascismo che già si preparava a spegnere le libertà. La trascrizione stenografica di quell’intervento (comprese le molte, intimidatorie interruzioni), dal quale maturò l’assassinio, resta uno dei documenti più sconvolgenti nella storia di un Paese che sette mesi più tardi si sarebbe consegnato alla dittatura. Dopo Mussolini, altri hanno provato a oscurare l’immagine di Matteotti. E, negli ultimi anni, qualcuno ha cercato persino di sporcarla. Non c’è riuscito nessuno, e questo libro ce ne affida intatta l’eredità.

Repubblica 4.4.11
Da Piemme l´ultimo libro di Bruno Ballardini sulle strategie mediatiche della Chiesa
Se una beatificazione aiuta a fare marketing
In "Gesù e i saldi di fine stagione" l´esperto di tecniche pubblicitarie racconta come il messaggio evangelico di Wojtyla segni una svolta anche per il "brand" religioso
di Giorgio Falco


Supermercati, multinazionali del mobile e punti vendita lungo il Raccordo Anulare hanno chiuso - anche per questioni di ordine pubblico - domenica 20 agosto 2000, mentre Giovanni Paolo II celebrava la messa a Tor Vergata, nell´ambito del Giubileo. Soltanto Giovanni Paolo II poteva interrompere il flusso domenicale di consumo, almeno per una festività. Era il culmine delle Giornate Mondiali della Gioventù, iniziativa voluta dal Papa nel 1984. Giornate. Non giorni. I giorni sono vaghi, si accumulano e svaniscono indistinti. Ma i giorni contengono le giornate. Senza le giornate e le mansioni che ci diamo o ci vengono assegnate - preghiere, report aziendali, turni di campionato, guardie militari - i giorni sembrerebbero vuoti.
La Chiesa di Roma sembrava molto forte nel 2000. Ma da allora, gli scandali sessuali, il continuo calo delle vocazioni in Occidente, la morte di Wojtyla e la distanza dai potenziali fedeli hanno accelerato il declino. Alle possibili strategie di marketing per uscire da questa crisi è dedicato il libro di Bruno Ballardini, Gesù e i saldi di fine stagione (Piemme, pagg. 304, euro 16). Ballardini, uno dei più noti esperti di comunicazione strategica, ha evidenziato come l´imminente beatificazione di Wojtyla sia il tentativo estremo per risollevare le sorti della Chiesa cattolica. Non si avrà probabilmente la partecipazione numerica del 2000, quando abbiamo assistito a un´euforia collettiva, tanto che i media avevano coniato il neologismo papaboy per definire l´ibrido tra pellegrino e fan. Nel 2000, Wojtyla non aveva venticinque anni, ma ottanta. Se fosse stato un giovane idolo, la Chiesa avrebbe avuto ancora mezzo secolo di espansione.
Ti amiamo, ti amiamo! urlavano in polacco a Tor Vergata, verso quel puntino bianco in lontananza, tra le esalazioni di caldo. Il suo corpo sofferente era già entrato nella fase finale della vita. Martirio, in origine, ci ricorda Ballardini, era una parola usata in ambito giuridico, quando una persona testimoniava in difesa di un accusato. Solo dopo le persecuzioni dei cristiani, martirio ha preso il significato di testimonianza della fede in Gesù. Il corpo sofferente di Wojtyla era una testimonianza e uno straordinario testimonial. Il recupero della salma famosa è il tentativo estremo, «il saldo di fine stagione», scrive Ballardini. Bisogna vedere se l´operazione riuscirà. Il pontificato di Giovanni Paolo II è stato unione tra il carisma, la presenza fisica di Wojtyla e il linguaggio diretto, che offuscava perfino il messaggio evangelico.
«Voi siete le sentinelle contro l´odio», ripeteva Wojtyla ai giovani del 2000, tra le ovazioni dei convenuti. C´era la sensazione di privilegiare «non la quotidianità della fede, ma la straordinarietà dell´evento» scrive giustamente Ballardini. Adesso, in un periodo difficile, alla Chiesa urge una rifondazione, simile a quella delle aziende in crisi. Innanzitutto la Chiesa dovrebbe avere ben chiara la differenza tra marca e marchio. La marca è il brand, «l´essenza del prodotto, il suo significato, la sua direzione, ciò che ne definisce l´identità nel tempo e nello spazio» ovvero «il luogo in cui convergono la storia passata e futura del prodotto, i valori dell´impresa, la sua identità e l´esperienza dei consumatori». Con queste premesse, «la Chiesa è il brand, il prodotto è la dottrina, il marchio è la croce».
Il brand ha però una componente interna notevole. Ballardini suggerisce di agire in quella direzione, "unificando le molte sigle in un´unica marca". Tuttavia, allo stato attuale delle cose, una Chiesa di Roma senza l´Opus Dei o Comunione e Liberazione pare improbabile, così come «riunire tutto il Cristianesimo in un´unica Chiesa». Eppure in questo modo - secondo l´autore - le parrocchie potrebbero riacquistare l´autorità, l´efficacia di "rete vendita" ora appannata, il ritorno in Occidente dei missionari, che abbandonerebbero "il colonialismo religioso" per evangelizzare ancora questi luoghi, anche se, in un periodo di crisi, così come fanno le aziende in recessione, sarebbe bene se la Chiesa imparasse "ad ascoltare, più che a parlare". Ogni prodotto ha il suo ciclo di vita. Il lancio, la crescita, la maturità, il declino. «Cari amici, vedo in voi le sentinelle del mattino, in quest´alba del terzo millennio» ha detto Karol Wojtyla nel 2000. Ma, per il teologo Hans Kung, «le religioni possono anche morire».