mercoledì 6 aprile 2011

l’Unità 6.4.11
Gremita la piazza dei Democratici. Tra tante bandiere che sventolano, anche quelle viola
Il segretario: «Banchi del governo strapieni per votare sui processi di Berlusconi»
Bersani: è il punto più basso «Umiliati davanti al mondo»
«Governo del fare dei miei stivali», tuona Bersani attaccando Alfano, Frattini e anche il Tg1. «Politica e movimenti devono darsi la mano», dice il leader del Pd, per cacciare questo governo.
di Simone Collini


Parla una ventina di minuti dal palchetto montato in tutta fretta davanti al Pantheon e fa imbestialire Alfano, Frattini, Minzolini e capezzoni vari. «Quello che la maggioranza ha deciso oggi è che Ruby è la nipote di Mubarak», dice Bersani raccontando ai manifestanti raccolti a poche centinaia di metri da Montecitorio in cosa è stata impegnata la Camera nelle ore precedenti. «Berlusconi così ci mette in una condizione di umiliazione e vergogna davanti al mondo». Vergogna inizia a intonare la piazza. «Sì, è una vergogna», risponde il leader del Pd. Ma il problema non è solo nel Parlamento utilizzato per salvare il premier dai processi, e di fatto «trasformato in un collegio allargato a sostegno degli avvocati di Berlusconi». Il problema non è solo che «ogni giorno ha il suo shopping» (i lib-dem sarebbero passati con la maggioranza) o che, come dice Anna Finocchiaro, «Berlusconi vuole raggiungere quota 330 deputati a tutti i costi, e quando dico “a tutti i costi” lo dico in senso letterale». Il problema è che un governo che non sa affrontare nessun problema reale del paese è costretto a rimanere in Aula per gli interessi privati del capo. «C’erano i banchi della maggioranza e del governo strapieni come nelle grandi occasioni, come per l’elezione del Presidente della Repubblica o per il discorso di un Papa», dice Bersani. «Perché questo pieno? Si discuteva del secondo anniversario del terremoto dell’Aquila? Su come la città aspetta ancora la ricostruzione? Si è parlato dell’emergenza di Lampedusa? Si è parlato di lavoro, disoccupati, inflazione, redistribuzione dei redditi, industria? No. Si è parlato dei processi del premier».
GOVERNO ARROGANTE E SERVILE
Che la presenza dei ministri in aula sia necessaria al centrodestra per ottenere la maggioranza (Franceschini ha gioco facile dopo il voto di ieri nel dire che «330 deputati Berlusconi se li sogna») lo dimostra il voto che si svolge proprio in quei minuti, quando i deputati Democratici rimangono in Aula «per evitare colpi di mano sull’ordine dei lavori» (come spiega Bersani ai manifestanti) e il governo viene battuto su un emendamento del Pd su una legge per i piccoli comuni. Provvedimento poi approvato con voto bipartisan. Ma è un caso più unico che raro. Bersani ribadisce il giudizio negativo sulla cosiddetta riforma della giustizia e sul ministro Alfano, estendendo però la critica all’intero esecutivo: «La politica del governo è fatta di arroganza e servilismo. Perché si lamenta il ministro della Giustizia se lo dico? Stanno confezionando un vestito su misura per Berlusconi».
La piazza davanti al Pantheon è gremita. Sventolano numerose le bandiere del Pd, ma dopo un po’ arrivano anche quelle viola che dal primo pomeriggio sono comparse davanti Montecitorio. I “viola” arrivano cantando l’Inno nazionale e tenendo bene in alto un Tricolore lungo sessanta metri. «L’Italia è nostra e non di cosa nostra», tra gli slogan, e «dimissioni, dimissioni» all’indirizzo del premier. Bersani dice che «politica e movimenti devono darsi la mano» e che «l’opposizione deve essere unita» per mandar via questo governo. Dopo il Guardasigilli, il leader del Pd attacca a testa bassa anche il Tg1 («ce lo invidiano in Bielorussia»), la Lega («altro che federalismo, se vuol sostenere il miliardario lo dica chiaramente perché stavolta la prendiamo di punta davvero») e il ministro degli Esteri Frattini, «che con tutto quel che succede in Libia è stato tutto il giorno in aula ad alzare la mano per difendere il premier».
Le repliche stizzite alle parole di Bersani non tardano ad arrivare dai diretti interessati e dai loro compagni. Ma per il leader del Pd basta la realtà dei fatti a far capire da che parte sia la ragione. «Governo del fare dei miei stivali quasi urla dentro al microfono parlando dell’emergenza immigrati si possono tenere 3mila persone con 5 bagni chimici? Ve li mandiamo noi dalle nostre feste Democratiche un centinaio di bagni chimici. Su questa vicenda il governo ha toccato davanti al mondo il punto più basso».

l’Unità 6.4.11
E dopo il voto esplode la rabbia «Vergogna!»
Sit-in davanti Montecitorio dei movimenti e le opposizioni. «Vergogna» urlano i manifestanti quando l’aula approva il conflitto di interessi. Di Pietro:«Per mandare a casa Berlusconi bisogna andare a votare ai referendum».
di Maria Zegarelli


C’era l’enorme tricolore lungo sessanta metri già sventolato il 12 marzo, la bandiera del Partito comunista e quella di Fli, tante dell’Idv e di Sel insieme alle sciarpe viola. Non c’era quella del Pd che ieri ha scelto un’altra piazza per un altro sit-in nel giorno del Democrazia Day e della notte bianca della Democrazia. Circa trecento persone davanti a Montecitorio per un presidio fuori dal palazzo mentre dentro scorreva veloce il dibattito prima e il voto poi sul conflitto di attribuzione sul caso Ruby. «Vergogna», hanno urlato più e più volte i manifestanti. È Gianfranco Mascia del Popolo Viola che coordina i «lavori» mentre al microfono si alternano persone comuni e politici che fanno spola tra l’Aula e la piazza. Urla e fischi mentre vengono lette una per una le leggi ad personam, trentasette, di Silvio Berlusconi «e la sua cricca»: si deve andare indietro al 1994 con il decreto Biondi, alla Cirami del 2002, l’ex Cirielli del 2005 e via elecando. «Non scappare, fatti processare», «Voglio votare Sandro Pertini» si legge sui cartelli. Furibonda Daniela Rosellini, quattro ore di treno per arrivare qui. «Non me ne frega niente se Berlusconi andava con le prostitute urla dal microfono -, a me interessa avere un governo, un futuro, un lavoro. Le leggi di Berlusconi fanno comodo a tutti, sono tutti uguali dentro quel palazzo. Il problema non è il premier sono gli italiani, siamo tutti noi, un popolo diventato indifferente, egoista». Le telecamere accorrono per intervistarla. Tra la gente Leoluca Orlando, Idv, Franco Giordano, ex segretario Rc, Paolo Ferrero, rispunta anche Marco Ferrando quello che fece tremare il governo Prodi. C’è la terza A dell’istituto per ragionieri “Calvi” di Belluno, in gita a Roma incuriosita dal sit-in. Simone: «Sarebbe giusto processarlo, la legge è uguale per tutti. O no?». Tamara difende il premier e se la prende con Ruby, «lei si prostituiva», Beatrice: «E lui? È il presidente del Consiglio e va con una minorenne?».
Dal microfono intonano “Bella ciao”, poi arrivano per un flash mob gli attori del Teatro dei Colpevoli di Napoli, con nasi e orecchie da maiale che sbeffeggiano la Costituzione mentre un araldo mascherato legge i primi dieci articoli. Antonio Di Pietro applauditissimo: «Se gli italiani il giorno del referendum non andranno a votare si faranno abbindolare ancora una volta da Berlusconi. Abbiamo a portata di mano la soluzione: far cadere il governo con il referendum». L’ex pm avverte: Silvio non si dimetterà mai; il parlamento non lo sfiducerà perché lì dentro «ci sono persone comprate e vendute»; c’è il rischio che la piazza passi «dalle monetine a chissà cos’altro e sarebbe gravissimo», dunque non resta che l’arma delle urne referendarie.
Prende la parola anche Fabio Granata, Fli: «Ciò che sta avvenendo in Parlamento è grave perché riguarda l’Italia al di là degli schieramenti politici. Questa piazza è una speranza per l’Italia perché rappresenta un presidio democratico». Poi, alle 18 tutti in piazza del Pantheon.

Repubblica 6.4.11
Il leader alla manifestazione del Pd al Pantheon: su Ruby l´Italia umiliata davanti al mondo
Bersani: "Unità tra politica e movimenti"
di Giovanna Casadio


ROMA - «Politica e Movimenti devono darsi la mano...». Pier Luigi Bersani sul palco di piazza del Pantheon - la "piazza del Pd" - invita all´unità. I Democratici hanno chiamato a raccolta i militanti per marcare la loro strategia: «Sono per la civiltà dell´opposizione - premette il segretario - ma noi siamo in Parlamento e in piazza». Nel giorno in cui, nell´aula di Montecitorio, la maggioranza ha appena votato che Ruby è la nipote di Mubarak; che ben ha fatto Berlusconi a telefonare in Questura a Milano; e quindi va giudicato dal Tribunale dei ministri e non da quello ordinario, ebbene - grida Bersani - «Berlusconi ci mette in condizione di umiliazione e di vergogna davanti al mondo. Solo i disonesti non arrossiscono. Sì, è una vergogna».
«Vergogna-vergogna», gli fa eco la piazza. «Non è questa l´Italia - rincara il segretario - Oggi l´Italia è prigioniera ma si libererà da queste catene e riprenderemo la strada di un paese civile». Piazza del Pantheon è piena; applaude; scandisce «dimissioni, dimissioni»; canta l´inno nazionale. C´è anche il Popolo Viola che ha portato i 60 metri di striscione Tricolore (quello del C-day in piazza del Popolo). Tra i Democratici e il Popolo Viola c´è stata un po´ di maretta, perché nessuno del Pd si è presentato al sit-in pomeridiano dei Movimenti davanti a Montecitorio: il Pd ha una preoccupazione, di non venire meno al richiamo del presidente Napolitano ad avere senso di responsabilità. Ma a piazza Santi Apostoli di sera, riecco l´unità. Al Pantheon, Bersani denuncia la «dose quotidiana di vergogna, e di shopping» di parlamentari. Dice (come anche Anna Finocchiaro) che non ci sarà alcun Aventino, che «noi staremo in Parlamento perché quello è il luogo dei parlamentari» e lì spetta battere il governo. Poi va all´attacco di Bossi, e dalla piazza partono i fischi anti-lumbàrd . «Il Pd prenderà di punta la Lega - assicura il leader democratico - Gridano "Roma ladrona" e votano leggi per quattro ladroni di Roma. Se vogliono sostenere l´insostenibile non ci facciano la lezione sulla morale e il federalismo, e se vogliono sostenere il miliardario noi li prendiamo di punta». Al Nord i Democratici affiggeranno i manifesti con Alberto da Giussano con lo spadone un po´ moscio, «flessibile», lo definisce Bersani. Risate e applausi. Infine il lungo elenco sul governo del fare che non sa fare un bel nulla («Governo del fare dei miei stivali»), neppure fornire più di 5 wc chimici agli immigrati di Lampedusa: «Allora gliene mandiamo altri 100 delle nostre feste Pd...».

il Fatto 6.4.11
Democracy Day
“Unità Unità!”: il popolo viola manifesta col Pd
di Caterina Perniconi


Al grido “u-ni-tà-u-ni-tà” il Popolo Viola è confluito nella manifestazione del Partito democratico e ha rimarginato la ferita tra le due piazze che hanno aperto il “Democracy Day”.
La giornata di “assedio al palazzo” in nome della democrazia è cominciata infatti nel primo pomeriggio davanti a Montecitorio con l’assemblea di alcune centinaia di cittadini riuniti da Articolo 21 e Libertà e Giustizia sotto le bandiere Viola, ma anche dell’Italia dei valori, Sinistra e Libertà e Partito Comunista dei Lavoratori. I manifestanti hanno srotolato uno striscione lungo quasi 60 metri cantando l’inno di Mameli “per tenere alta la guardia a difesa della Costituzione” come recita un volantino distribuito in piazza.
Negli interventi che si sono susseguiti al megafono – “possono parlare tutti i cittadini, perché tutti i cittadini sono uguali” ha detto l’organizzatore Gianfranco Ma-scia – è stata letta la “lista della vergogna”, cioè i 37 provvedimenti “ad personam” approvati dal 1994 ad oggi: dal decreto Biondi del 1994 alla Cirami del 2002 e l’ex Cirielli del 2005 passando per il decreto salva Rete 4 del 1999 targato D’Alema.
Alle 16 è toccato ad Antonio Di Pietro, salito sulle transenne di fronte al Parlamento, il compito di annunciare la vittoria della maggioranza nel voto sul conflitto di attribuzione: “Se vi aspettate che lui (Silvio Berlusconi, ndr) si dimetta, è come dire che il sole domani non sorgerà – ha urlato il leader dell’Idv a una piazza che lo acclamava come un eroe al grido “Tonino mandalo in galera” – se vi aspettate che il Parlamento lo sfiduci è più facile che la Luna vada nel pozzo, perché lì dentro ci sono persone comprate, vendute o ricattate. C’è allora il rischio che si passi dalla manifestazione alla rivolta di piazza, ma noi questo rischio dobbiamo scongiurarlo”.
PER DI PIETRO, quindi, c’è un’unica soluzione: “Dovete andare a votare il 12 e 13 giugno al referendum sul legittimo impedimento, perché sarà un vero e proprio voto politico”. E i manifestanti non vedono l’ora di mettere quella crocetta: “Quando la tigre è in casa tua – recita uno striscione – non discutere su come cacciarla”. Oltre alla bandiera di 60 metri, davanti a Montecitorio c’è un’altro tricolore: quello dei vessilli dei militanti di Fli, per la prima volta con i loro simboli al fianco dell’opposizione. Siete in piazza con la sinistra? “No – smentiscono i “futuristi” – siamo qui per la legalità e contro la mignottocrazia”.
Il Pd invece ha preferito una piazza defilata – quella del Pantheon – per assecondare la richiesta di Giorgio Napolitano di non manifestare davanti ai palazzi delle istituzioni e soprattutto per evitare un’altra “rivolta” di cittadini con monetine alla mano, come quella di mercoledì scorso, che rischiava di essere messa in conto a Pier Luigi Bersani. Ma il Popolo Viola (e le sue infinite declinazioni) ha deciso di raggiungerli.
“Quella maggioranza ha di fatto deciso che Ruby è la nipote di Mubarak – ha detto il segretario del Pd – così ci mette davanti al mondo in una condizione di umiliazione, di diminuzione e di vergogna perché solo i disonesti non arrossiscono di fronte a delle cose simili”. Alle parole di Bersani, la piazza ha applaudito ed ha cominciato a urlare “vergogna, vergogna”. Il segretario del Pd ha spiegato che “il Parlamento ormai è una specie di collegio allargato degli avvocati di Berlusconi, che ogni giorno fa il suo shopping” in evidente riferimento al sostegno alla maggioranza dato ieri dai liberal democratici. E poi un avviso per Umberto Bossi: “Se la Lega vuole sostenere il miliardario lo dica perché stavolta la prendiamo di punta. Perché non può dire ‘Roma ladrona’ e poi votare le leggi ad personam e sostenere che Ruby è la nipote di Mubarak. Se fa così non venga a darci lezioni di moralità o sul federalismo”. Alla manifestazione del Pd non è mancata la contestazione da parte di alcuni militanti dello stesso partito provenienti da Mentana, in provincia di Roma, dietro lo striscione “Partito antidemocratico” e con in mano la pagina del Fatto di ieri dal titolo “Il Pd parla Tedesco”. La protesta era dovuta al commissaria-mento del partito nella cittadina laziale e alle posizioni sul caso del senatore, ed ex assessore, della giunta Vendola.
Dopo la giornata, c’è stata anche una “nottata per la democrazia”. L’appuntamento a piazza Santi Apostoli si è aperto sulle note del Dies Irae: “Abbiamo voluto organizzare una notte bianca, simbolica – hanno detto gli organizzatori – per illuminare uno dei periodi più bui della democrazia”.

l’Unità 6.4.11
Proposta di legge di cinque senatori del partiti di maggioranza per abolire la norma costituzionale
L’imbarazzo di Schifani, «esterrefatto». Il ministro Rotondi minimizza: ma non era uno scherzo
Cinque senatori Pdl e uno di Fli (che poi corre a ritirare la firma) presentano un ddl per abolire il reato di ricostituzione del partito fascista. Insorge l’opposizione. Schifani: «Sorpreso e esterrefatto».
di Maria Zegarelli


Ci hanno provato ma gli è andata male. Per ora. Cinque senatori Pdl e uno di Fli che poi è corso a ritirare la firma dopo un duro faccia a faccia con Italo Bocchino, hanno presentato un disegno di legge costituzionale per abolire la XII norma transitoria e finale della Costituzione che vieta la «riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». L’estensore è stato Cristiano De Eccher, cofirmatari Fabrizio Di Stefano, Francesco Bevilacqua, Giorgio Bomacin, Achille Totaro e il Fli Egidio Digiglio. La notizia era già emersa nei giorni scorsi, il ddl è stato presentato il 29 marzo, ma la polemica è scoppiata soltanto ieri, dopo la denuncia del segretario romano Pd Marco Miccoli. «Sorpreso ed esterrefatto» lo stesso presidente di Palazzo Madama, Renato Schifani che pur «nel rispetto delle loro prerogative costituzionali» auspica che gli autori della proposta possano «rivedere la loro iniziativa». L’opposizione insorge. «Trovo molto grave e offensivo per la storia del Paese e della Repubblica e per la nostra democrazia che il Pdl voglia abolire il reato di apologia del fascismo», commenta la capogruppo Pd Anna Finocchiaro. Lapidario Achille Passoni: «Possono cambiare casacca ma
quando fascisti sono, fascisti rimangono». «Proposta di legge vergognosa» per il portavoce nazionale Udc Antonio De Poli che chiede al vicepresidente vicario del Pdl Gaetano Guagliarello «di prendere immediatamente le distanze dal ddl». Fischi quando la notizia raggiunge il sit-in del Pd in piazza del Pantheon. «Fascisti, avete gettato la maschera! Il Pdl sarà costretto a ritirare questa indegna proposta di legge, ma avrà mandato un segnale inquietante e eversivo agli squadristi che lo sostengono. Ormai è allarme rosso per la democrazia», tuona Leoluca Orlando dell’Idv.
Non commenta «per principio» De Eccher, origini nella nobiltà trentina di una famiglia legata al Sacro  Romano Impero, responsabile da ragazzo a Trento del gruppo Avanguardia nazionale, nonché finito nell’inchiesta sulla strage di piazza Fontana. Se intende ritirare il provvedimento come ha invitato Schifani? «Siccome non l’ho ricevuto in forma diretta...» risponde allontanandosi.
«Non c’è nessuna volontà né del governo né del Pdl di promuovere l’abolizione del reato di apologia del fascismo assicura il ministro per l’attuazione del programma di governo Gianfranco Rotondi -. Il Pd eviti polemiche strumentali che diano anche solo la sensazione che le forze politiche si dividano anche sull’antifascismo». Era uno scherzo da buontemponi?

il Fatto 6.4.11
La vergogna che non si può vedere
di Furio Colombo


Lampedusa è un'isola splendida e deserta, il giorno dopo. Le grandi navi che per due mesi non sono mai arrivate, alla fine, come in una fiaba, sono arrivate. Hanno portato via gli immigrati a migliaia per volta. È stato il giorno della rivolta dei bambini, lasciati soli e prigionieri in cima a una collina, mentre vedevano le navi allontanarsi, senza una voce o una spiegazione. E finalmente oggi, è il giorno dopo, le grida degli abitanti disperati per l'invasione senza soccorsi, dei sopravvissuti dal mare che non potevano né restare né andar via, che l'abbandono preordinato stava trasformando in nemici e pericolo.
Ma adesso, per qualche ora, per qualche giorno, l'isola è un grande museo a cielo aperto, una mostra dal vero, strana e impressionante, che potrebbe avere un titolo semplice: “Stupidi e cattivi”. Non le vittime, che sono state insieme, per quattro insopportabili settimane, gli scampati, che si sono sentiti prima miracolati e poi in un incubo, e gli abitanti dell'isola, che non avrebbero mai immaginato un simile turpe gioco con i corpi e l'ingombro fisico degli scampati, usati contro di loro.
No, sto parlando del governo italiano, misera e pietosa coalizione di gente inutile però dannosa, che non ha visto, non ha capito e ha disonorato il Paese, facendolo apparire incapace e in preda al panico di fronte a una emergenza grande per la piccolissima isola, però minuscolo rispetto a un Paese fra i dieci più importanti del mondo. Vi dico quel che si vede: su uno spiazzo molto grande di terra e di pietre inclinato verso il mare, c’è ancora una tendopoli da fine del mondo, migliaia e migliaia di rifugi contro il freddo e la pioggia fatti senza l'aiuto di nessuno, con un assemblaggio di rifiuti, di stracci, di bastoni, con le inferriate che mancano ai cancelli vicini di alcuni depositi, con tovaglie o coperte rubate e indurite dall'acqua e bruciate dal sole, piene di resti di un disgraziato passaggio umano che deve essere stato colmo di corpi e di disperazione. C’è l'odore della miseria, il vuoto della paura, con vista su una impenetrabile e incomprensibile assenza di qualunque forma di guida, di decisione, di governo, che certi giorni avrà avuto la forza della allucinazione.
SE FOSSE possibile lasciare intatta quella collina (invece di ricostruirla, come accadrà, in una prossima Biennale d'arte, in qualche parte del mondo) resterebbe la documentazione di una accusa legittima e pesante: abbandono deliberato di esseri umani (gli abitanti di Lampedusa e i migranti scampati al mare) per uso privato (contributo versato da migliaia di persone agli interessi politici di un gruppo estraneo con lo scopo preciso di portare allo scontro per troppa disperazione).Il gruppo estraneo è la Lega Nord, che ha infettato con la sua follia da respingimento in mare una parte di italiani confusi dalle contraddizioni, stremati dal non governo, costretti al numero comico del padrone troppo sfasato con la storia e troppo ricco che, come soluzione, viene a portare a Lampedusa un casinò e a comprare una villa (che, finito lo spettacolo, non compra).
Che documento televisivo sarebbe stato sovrapporre al discorso stralunato di Berlusconi le immagini della tendopoli disperata, vissuta come fine della vita nell'immondizia, e indicata come accampamento di forze nemiche pronte a quell'attacco finale tante volte predicato con furore da menti oscurate (Bossi, Borghezio) però rese potenti, con uno spazio esclusivo di dominio garantito dal servo-padrone che paga qualunque prezzo (nel suo giro la reputazione non conta), pur di tenersi la Lega accanto.
QUANDO lunedì 4 aprile sono arrivato a Lampedusa, avevo preannunciato e spiegato a Prefettura e Carabinieri: due deputati (Andrea Sarubbi e io), che pure sono autorizzati dalla Costituzione a qualunque visita improvvisa a luoghi di detenzione e a strutture di dubbia natura giuridica (prigionia o protezione) come i cosiddetti “centri di accoglienza” e quelli, comunque peggiori, detti “di identificazione e di espulsione” (entrambi senza leggi o regolamenti o rapporto con il rispetto dei diritti umani) tutto era predisposto per la nostra visita, compresa la cordialità competente di chi ci ha accolto. Ma nel Paese del presunto federalismo, disgraziatamente avallato finora anche dal Pd, niente, nell'isola di Lampedusa, dipende da Lampedusa, o dalla Provincia di Agrigento, o dalla Regione. In auto, mentre stavamo andando a incontrare gli immigrati arrivati nella notte (da 300 a 900, le notizie, in questa Repubblica democratica, viaggiano solo per sentito dire) la telefonata che ci ha fermati è giunta “dal Gabinetto del ministro dell’Interno”, come ci hanno detto con immenso imbarazzo il funzionario della prefettura e i Carabinieri che, conoscendo la legge e i diritti di un deputato, ci stavano facilitando tutto.
L'ESPRESSIONE usata, e riferita, era “divieto assoluto sull'isola anche se trattasi di parlamentari”. In quel momento soltanto due parlamentari (Pd) erano presenti a Lampedusa, con una visita deliberatamente preannunciata. Maroni, il quadrumviro leghista che nel tempo libero dagli impegni di partito padano (oscura definizione del suo partito che, invece che alla Narnia si ispira alla Padania) fa il ministro dell'Interno della Repubblica italiana, non è tipo da imbarazzarsi. Non si è imbarazzato per il fatto di sapere prima e per tempo della nostra visita, con tutto il tempo di parlarne direttamente con gli interessati. Non si è imbarazzato del fatto che quella stessa mattina il deputato Pdl Fontana era andato su e giù per Lampedusa come e dove voleva, con visite ai luoghi “assolutamente proibiti” per altri membri del Parlamento. E non si imbarazza a non farsi vedere nel giornoe nell'ora che risultano nel calendario pubblico e ufficiale della Camera (martedì 5 aprile, ore 10). Infatti gli basta scomparire per non dover rispondere della nostra “assoluta” esclusione. E lo fa con la disinvoltura maleducata verso il Parlamento che è ormai un marchio di fabbrica dei ministri Bossi-Berlusconi in questa legislatura.
Eppure c’è un senso, sia pure primitivo e alquanto disumano in questa strategia, che rimbalza fra il clown finto giocoso e finto benevolo, e il boss leghista, stretto osservante di leggi inventate che hanno creato un enorme problema umano. Credo si possa riassumere e spiegare così:
1) È necessario creare la finta divisione fra “clandestini” e “profughi”. Una legge senza fondamenti giuridici già preparata in proposito e incostituzionale ha inventato il reato di clandestinità. Il reato consente di definire “criminali” i presunti colpevoli. Chi si offre per ospitare “criminali”? E con le parole si diffonde meglio la paura.
2) Ma occorrono i fatti. Questi tunisini sono troppo europei, parlano francese, si spiegano in italiano e fra loro puoi trovare dei laureati. Imbarazzante per Bossi e per il figlio di Bossi, dato il loro curriculum scolastico. Bisogna che diventino bestie da temere. Basteranno venti giorni di navi che ci sono ma non arrivano, di luoghi dove mandarli che non si trovano, di piani che non esistono, di incapacità di trattare (o anche solo di farsi rispettare) con il presidente francese o anche solo con il governo provvisorio tunisino? Intanto proviamo, a spese della paura di Lampedusa e del terrore dei migranti.
3) Bisogna riconoscere a Maroni il merito, non proprio umanitario, di avere resistito nel prolungare il più possibile sia il colpo inferto a Lampedusa, immagine e turismo, sia alla sofferenza dei nuovi arrivati, prividitutto,daibagniallebottigliette d'acqua. Alla fine ha ceduto, ma dopo avere fatto tutto il danno possibile a Lampedusa, agli scampati dalla guerra e dal mare e a quel che resta, dopo Berlusconi, dell'immagine dell'Italia.
Ora che girano sempre più storie sui migranti morti in mare, e giungono numeri sempre più alti, forse non è prudente che vi siano incontri fra deputati infidi e "clandestini" come Sarubbi e me, e gli scampati al mare appena arrivati. Potrebbero sapere o avere visto storiechenonsonoutilialpacchetto elettorale della Lega per la liberazione della Padania, come lo è stato il disastro umano di Lampedusa. Ma l'evidenza tragica di ciò che è successo per cinismo, stupidità e cattiveria, abbiamo fatto in tempo a constatarlo sul posto.

La Stampa 6.4.11
Né vittimismi né allarmismi per affrontare l’emergenza
di Emma Bonino


Caro direttore, affermo in tutta tranquillità che, per ignoranza o per calcolo, il governo ha creato il «dramma» Lampedusa invece di governare il problema in piena legalità (e umanità). Oscillando tra allarmismo e vittimismo, minacce di crisi di governo e dichiarazioni tanto sguaiate quanto irresponsabili di autorevoli ministri, il governo ha ignorato e violato due strumenti che aveva a disposizione per fronteggiare in maniera incisiva la crisi degli sfollati nel Mediterraneo.
Il primo è la direttiva 55/2001 emanata dall’Europa dopo la crisi umanitaria del Kosovo nel 1999. E’ intitolata: «Norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi». Un titolo più calzante alla situazione di oggi è davvero difficile trovarlo. Ma lo è anche nei contenuti perché, con questa direttiva, sono regolate le norme minime per la concessione della protezione temporanea, che vale per un anno e può essere prorogata di un altro, massimo due. La condizione cessa quando è accertata la possibilità di un rimpatrio sicuro. La direttiva - di grande civiltà e buon senso, come si vede - è stata recepita nell’ordinamento nazionale nell’aprile 2003 e, tardivamente e obtorto collo, il governo si sta finalmente muovendo per la sua attivazione.
Il secondo risale addirittura al 1998. In base all’art. 20 del Testo unico delle leggi sull’immigrazione, analoghe misure di carattere eccezionale possono essere attivate a livello nazionale con decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, anche senza una preliminare concertazione europea, per «rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all'Unione europea».
Di che parliamo, dunque? Parliamo di un governo che ha volutamente ignorato gli strumenti normativi esistenti scegliendo, invece, di fare di Lampedusa un’orrenda vetrina mediatica da strumentalizzare per fini politico-elettorali. Così si è cinicamente scelto di bloccare a Lampedusa migliaia di persone lasciate per giorni senza la minima assistenza, a cominciare da adeguate strutture igieniche e sanitarie, con la palese volontà di esasperare la situazione, costringendoli a una pesantissima coabitazione forzata con gli abitanti dell’isola. A questo si è poi aggiunto l’inspiegabile ritardo di un controverso piano-regioni, con la previsione di tendopoli, senza i dovuti controlli come il caso Manduria ha ampiamente dimostrato. Il tutto, poi, accompagnato da un’assurda e immotivata polemica con i Paesi europei e con l’Ue. Da non tralasciare neppure il capitolo, anche questo poco edificante, della direttiva sui rimpatri del 2008 che non è stata attuata nell’ordinamento italiano entro il termine del 24 dicembre scorso. La principale responsabilità è del ministro Maroni che ha affermato che l’Italia non poteva trasporre la direttiva a causa del reato d’ingresso o permanenza irregolare di stranieri previsto dalla legge n. 94/2009 che, appunto, viola le disposizioni della direttiva, come confermano le numerose pronunce giurisdizionali e le questioni pregiudiziali inviate alla Corte di Giustizia dell’Ue. Sia quindi chiaro a tutti il vero motivo della mancata trasposizione finora. Ma c’è la possibilità di porvi rimedio poiché la legge comunitaria 2010 è tuttora all’esame della Camera dove è stata modificata con l’introduzione della norma sulla responsabilità civile dei magistrati: non ci vorrebbe nulla ad inserire anche il recepimento della direttiva sui rimpatri quando tornerà al Senato.
Se questo è il quadro della situazione ad oggi, occorre capire cosa intende fare il governo a partire da domani. Ed è opportuno fin d’ora avvertire che allontanamenti coercitivi e collettivi sono illegittimi, come stabilito dal Protocollo IV della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, e che il blocco navale previsto dalla risoluzione 1973 dell’Onu ha lo scopo di far rispettare l’embargo su forniture al regime di Gheddafi e non di far da barriera a chi cerca di fuggire dalle zone di guerra.
Insomma con tanto ritardo e tanti drammi evitabili, il governo deve «scoprire» che non c’è altra strada se non quella della protezione temporanea. Che non c’è altra strada, cioè, se non quella della legalità e dell’applicazione delle norme.
*Vicepresidente del Senato ed ex commissario europeo

il Fatto 6.4.11
Caso Tedesco i Democratici dicono no ma non vogliono l’arresto


Il Pd ha deciso: voterà no alla relazione del senatore Balboni sull’autorizzazione all’arresto di Alberto Tedesco. Ma questo non significa che autorizzerà la custodia cautelare nei confronti dell’ex assessore alla Sanità pugliese. La relazione Balboni esclude il fumus persecutionis, ma ritiene che il senatore non vada arrestato perché i reati di cui è accusato non sono abbastanza gravi. Nel Pd inizialmente solo un senatore, Felice Casson, aveva espresso la sua contrarietà. Ora anche i suoi colleghi dovrebbero seguire la sua linea, ma per diverse motivazioni. C’è chi ritiene che le motivazioni di Balboni non siano abbastanza approfondite, chi ha dubbi sulla distanza tra l’inizio delle indagini su Tedesco e la richiesta di custodia cautelare. Ma nessuno, Casson escluso, dice no perché sul senatore non ci devono essere ombre. Così, se stasera la maggioranza riuscirà ad approvare da sola la relazione Balboni, il Pd avrà salvato la faccia, e la parola passerà all’aula. Se invece la relazione non dovesse ottenere voti a sufficienza, Balboni può tentare di modificare il suo testo oppure essere sostituito da un nuovo relatore: i tempi così si allungherebbero, magari fino alla sentenza del Riesame a cui Tedesco ha fatto appello.

Corriere della Sera 6.4.11
Si vota sull’arresto di Tedesco, tensione nel Pd Pdl per il no, democratici in difficoltà. Casson: bisogna concederlo
di Alessandro Trocino


ROMA— Stasera alle 20.30 i nove senatori del Pd nella Giunta per le autorizzazioni, salvo ripensamenti, voteranno no alla relazione di Alberto Balboni. Il parlamentare del Pdl chiede di negare l’autorizzazione all’arresto di Alberto Tedesco, senatore del Pd (autosospeso), già assessore alla Sanità della giunta Vendola, accusato di concussione e corruzione. Considerando che nella Giunta l’opposizione conta undici senatori (9 Pd, un Idv e un Udc), il no all’arresto dovrebbe passare per 13 a 11. L’ago della bilancia (salvo assenze, diplomatiche o meno) sono i due leghisti, Sandro Mazzatorta e Giovanni Torri. Quest’ultimo dice: «Ascolterò Balboni e poi deciderò. Certo, questo Tedesco sta facendo troppo il furbo. Continua a chiedere di immolarsi alla magistratura: se uno fa il fenomeno poi rischia di farsi male» . Tedesco ha più volte annunciato di volersi difendere «nel processo» . Ma, nonostante la denuncia del «sistema marcio» in Puglia, il Pdl ha deciso di difenderlo dalle richieste d’arresto. Balboni ha spiegato che non c’è fumus persecutionis nell’inchiesta, ma che non sussistono le condizioni per concedere l’arresto. Perché il reato non è abbastanza grave e non ci sono le condizioni per le esigenze cautelari. E perché costituirebbe un vulnus al plenum del Senato. Balboni ha ricordato che le autorizzazioni all’arresto sono state date solo quattro volte, tutte per fatti di sangue: Francesco Moranino, Sandro Saccucci, Toni Negri, Massimo Abbatangelo. Il Pd è in difficoltà. Nella giunta per le autorizzazioni prevalgono le sensibilità «garantiste» e quindi contrarie all’arresto. Ma nell’Aula non è così e i vertici del partito stanno conducendo una dura battaglia a difesa della magistratura. Per questo Pier Luigi Bersani ha detto che lascerà «libertà di coscienza» ai senatori, ma ha aggiunto che «il Pd non ha posizioni da tutelare» . Nessuna difesa d’ufficio per Tedesco, insomma. Ieri mattina, presente Anna Finocchiaro, i nove componenti hanno raggiunto un primo accordo. Fermo restando la libertà di coscienza, il voto sulla relazione dovrebbe essere no. Ma dire no a quel no all’arresto, non vuol dire sì all’arresto. In questo sottile crinale si muove il compromesso. Maria Leddi è cauta: «È una situazione delicatissima» . Marilena Adamo: «Non parlo, non so di nessun accordo» . Felice Casson è a favore dell’arresto: «Non ci sono i presupposti giuridici e costituzionali per negarlo. La violazione del plenum è un’invenzione giuridica. E poi dire no all’arresto, con la battaglia che combattiamo, sarebbe incomprensibile per l’opinione pubblica» . Luigi Lusi, moderato ex rutelliano, considerato «garantista» , la mette così: «Io voterò no alla relazione» . Quindi è a favore dell’arresto? «Si vota solo sulla relazione, che è orale e non emendabile. Quando si andrà in Aula, con una relazione scritta, potremo decidere liberamente in modo articolato» . Insomma, il no al no non è un sì. E per esprimersi c’è tempo, il voto arriverà in Aula tra qualche settimana. Dopo che il Tribunale del Riesame, il 14 aprile, deciderà se confermare o meno la richiesta d’arresto. A quel punto l’Aula (e il Pd) probabilmente non potrà che seguire le decisioni dei magistrati. Anche se Luigi Li Gotti, dell’Idv, non ci sta: «Che senso ha aspettare il Riesame? Allora perché non aspettare l’esito del successivo ricorso in Cassazione? O la sentenza definitiva?» .

Corriere della Sera 6.4.11
Il gusto di essere un po’ reazionari
Quando la sinistra fa la destra
di Filippo La Porta


Al convegno dell’Istituto di cultura di Zurigo sulla lingua italiana la scrittrice Lidia Ravera ha difeso, con passione, le ragioni della scrittura, la manutenzione amorevole della lingua, la dedizione alla parola come «disciplina interiore» (Mario Luzi), contro le invasive gergalità del presente. Renato Barilli, presente al convegno, ha voluto per questo tacciarla di «reazionaria» . Dopo un attimo di spaesamento, per l’uso di una categoria così ideologicamente connotata in cose letterarie, mi sono persuaso che la definizione fosse tecnicamente esatta. In che senso? Sempre più sul piano culturale (e non soltanto) destra e sinistra sembrano scambiarsi le parti. La sinistra, di fronte a una modernità che giudica profondamente distorta, assume volentieri posizioni conservatrici e finanche «reazionarie» . E così Lidia Ravera ha elogiato, coerentemente, la lingua scritta — più meditata e durevole, dai tempi lenti, capace di dare ordine al caos e di incidere sul rapporto tra noi e la realtà— rispetto alla effimera lingua parlata dei talk show (dove in un certo senso chiunque è «sconfitto» ), e anche a quella lingua parlata mascherata da lingua scritta di blog e newsgroup — estemporanea, veloce, sintatticamente approssimativa. Anche Pasolini era accusato spesso di essere reazionario, poiché intendeva «reagire» a uno «sviluppo» che secondo lui non coincideva più con un auspicabile «progresso» . E, ad esempio, aveva nostalgia non certo del fascismo ma di ciò che il fascismo non era riuscito a contaminare (l’immaginario più riposto delle persone, la cultura spontanea fatta di gesti e comportamenti che durava da secoli). La tecnologia e il Nuovo non vanno accettati acriticamente. Benché Marx celebrasse le magnifiche sorti del capitalismo, che ci avrebbe liberato da ogni legame, oggi la sinistra può anche riacquistare il gusto di essere un po’ reazionaria: e dunque cercare non nel futuro ma proprio nel passato un’idea di «verità» , di «umano» , di «bellezza» che la attuale modernizzazione tende a negare.

Repubblica 6.4.11
Come in Tunisia
"Uno schiaffo per la Rivoluzione così i siriani diventano cittadini"
Parla la dissidente al-Atassi, la donna-simbolo che ha sfidato gli agenti
di Alix Van Buren


Facebook ha rotto l´isolamento, i giovani sono protagonisti di una nuova politica
Un moto d´istinto può avere forza propulsiva: è accaduto anche in Tunisia con Bouaziz
È appena uscita dal carcere dopo quindici giorni di sciopero della fame

DAMASCO - Lo schiaffo che ha risvegliato la Siria è stato assestato dalla piccola mano che adesso porge il benvenuto sulla soglia di casa a Dummar, un nuovo quartiere fuori della capitale. Dietro, appare il sorriso luminoso di Suhair al-Atassi, la dissidente forse più in vista nel Paese. «Davvero, è un sogno esser qui. Ancora dieci ore fa, m´aspettavo le peggiori torture», si congratula la minuta donna in jeans, 39 anni, due occhi che scintillano d´entusiasmo.
Non che quel ceffone a un robusto agente della sicurezza di cui si favoleggia nella primavera delle libertà, fosse da osare a cuor leggero. Animatrice del salotto politico più rispettato in città, erede di un´illustre dinastia, gli Atassi - presidenti, ministri, ambasciatori, magistrati, tutti caparbi nella richiesta di democrazia, figli dell´"Età liberale araba" a cavallo del secolo - Suhair è appena tornata dal carcere dopo 15 giorni di sciopero della fame. È uscita con la liberazione dei prigionieri politici avviata dal nuovo governo.
Signora Atassi, perché è stata arrestata?
«Glielo racconto. Il primo "giorno della rabbia", il 15 marzo, quand´ho visto i giovani scendere in piazza, maschi e femmine di ogni etnia e religione, ho annunciato che i siriani ora sono veri cittadini, non più pecore. Che la patria non ha un sayyed, un Signore. Parole pericolose agli occhi del regime. In più, c´era quel precedente: la storia dello schiaffo».
Com´è andata quella storia?
«In febbraio eravamo stati presi a cinghiate per un raduno di solidarietà con i tunisini e gli egiziani. Ho sporto reclamo alla centrale del mukhabarat di Bab Touma. Sa cos´ho ottenuto in risposta? Solo insulti e minacce. Un mukhabarat mi ringhiava: "Vedrai, qualcuno ti ammazzerà. Ripuliremo le piazze dagli scarafaggi, dalle prostitute come te. Poi, m´ha colpita. Ecco, in quel momento m´è partita la sberla».
Un atto impulsivo o una mossa plateale?
«Un moto d´istinto, però dettato dalla dignità del cittadino. Dopotutto, nel risveglio arabo, una sberla non è più il gesto infame di uno sbirro, senza conseguenze. Ha una forza propulsiva, da quando il 17 dicembre in Tunisia il giovane Bouaziz dopo una simile mortificazione s´è immolato col fuoco, innescando la rivolta di milioni dalle coste dell´Atlantico alle dune dell´Hijaz».
La sua ribellione, però, ha avuto conseguenze?
«Non mi sono fatta intimidire. Ho ripreso a manifestare. Sono stata arrestata il 16 marzo a un sit-in per i prigionieri politici. I mukhabarat volevano farmela pagare. Non scordo l´odio nei loro sguardi quando m´hanno presa, in due per le braccia, altri quattro a picchiarmi alle spalle. Sei mukhabarat contro me sola. Per ironia, alla centrale mi hanno medicata».
Le è stata concessa la presenza di un avvocato?
«Sì, e il giudice simpatizzava con noi. Il vero nodo, però, è un altro: lo strapotere dei mukhabarat, che esautora la magistratura. Ho iniziato con le altre donne lo sciopero della fame. Quando hanno liberato tutte, tranne me, non sapevo cos´aspettarmi. I mukhabarat m´avevano giurato il sequestro, lo stupro, la morte se non avessi smesso l´attività del mio Forum, anche su Facebook. Avrebbero preso mio figlio in Libano. Sola in cella, pensavo fosse arrivata la mia ora. Ma poi, alle 8.45 di domenica sera, la galera s´è aperta al-Hamdulillah, Dio sia lodato. L´incubo è svaporato».
Ripeterebbe il suo gesto?
«Ormai la piazza è spalancata. Facebook ha rotto l´isolamento della Siria con l´esterno, e del popolo al suo interno. Collega siriani e egiziani, dissidenti storici e giovani, protagonisti di un nuovo modo di fare politica».
E l´opposizione che parte ha in questo scenario?
«E´ in ritardo, come in Egitto, tinta da ideologie di partito - comunisti, nasseristi, nazionalisti - e da un´età media di 60 anni. L´irruzione della gioventù ha scardinato la scena. Nel 2005, ho aperto il mio Forum a un comitato solo di giovani, portatori di strumenti inediti, dinamici, ben più pericolosi. E vuole sapere una cosa? Per ironia, tutto questo è successo sotto la guardia del presidente Bashar al Assad».
Sarebbe a dire?
«Che le novità sono germinate sul terreno delle libertà concesse da Assad dopo l´arrivo al potere. Forse nemmeno lui s´aspettava il risultato. Se indovino la sua intenzione, lui voleva acquistare legittimità agli occhi dei siriani. Quando il regime s´è accorto del rischio, è iniziata la repressione. Ma sotto il suo regno è nata la società civile, si sono sviluppati Internet, i movimenti degli studenti nel 2003, fenomeni importanti di volontariato: quelli che ora sono in piazza».
Secondo lei, qual è il corso della protesta siriana?
«Fino adesso l´opposizione riteneva che i giovani siriani non fossero impegnati quanto gli egiziani e i tunisini. Che la Siria non fosse matura. Che servisse tempo per gettare le fondamenta salde di una rivolta. A essere sincera, non so neppure io chi mobiliti davvero la ribellione. So, però, che quando scorre il sangue, non si torna più indietro. La Siria è cambiata. L´ho detto al giudice, e lui m´ha sorriso: vogliamo essere veri cittadini».

Corriere della Sera 6.4.11
Dopo la parziale ritrattazione del rapporto Goldstone
Palestinesi, le verità non dette e i falsi maldestri per coprirle
Le «verità di guerra»
di Francesco Battistini


«Would have been different» : sarebbe stato diverso, se... Autodafè o pentimento, l’ultima frase di Richard Goldstone è diventata un tormentone in Israele. Al mercato di Tel Aviv, l’hanno stampata sulle t-shirt. Perché l’ultima verità è portabile in ogni occasione: tutto sarebbe stato diverso, ha riconosciuto l’autore del «Rapporto Goldstone» sui crimini di guerra a Gaza, se solo avesse avuto tutti gli elementi per giudicare. Una frenata, nel totale silenzio dei pacifisti. Una retromarcia, nell’imbarazzo dei palestinesi. L’ennesimo «smascheramento delle false verità» , ha scritto l’editorialista Ben Caspit su Ma’ariv: quelle del Comitato Onu per i diritti umani che nel 2009, sotto la guida di Gheddafi, votò il rapporto che inchiodava Israele; quelle dei giudici inglesi, che da due anni minacciano le manette a qualunque politico israeliano atterri da quelle parti; quelle della propaganda palestinese che, da sempre, non fa molto per imbrigliare le bufale. La fabbrica delle balle, già. O delle verità non dette. Una delle attività politicamente più redditizie, in Medioriente. Ne sa qualcosa lo stesso Richard Goldstone, giudice sudafricano ed egli stesso ebreo, che per mesi è incocciato nei silenzi dell’esercito israeliano e s’è trovato in mano elenchi della morgue, forniti da Hamas, dove le stesse vittime erano registrate più volte. «Le bugie girano— dice Yakov Amidror, consigliere del premier Netanyahu —, ma c’è un pregiudizio che spinge quelle antisraeliane a trasformarsi subito in verità assodate» . «Spesso occorre tempo per capire le verità — ribatte Hanan Ashrawi, deputata palestinese— e non è detto che quelle israeliane siano indiscutibili» . Certe volte, c’è poco da discutere: caso storico fu il «massacro di Jenin» del 2002, in cui morirono 33 israeliani e 56 palestinesi, quasi tutti maschi adulti. Ci volle un po’, ma poi si capì che «le oltre 500 vittime civili» denunciate dall’Autorità palestinese erano, in realtà, dieci volte meno e in gran parte combattenti. Tempi di dura propaganda, i primi anni zero, quando Arafat donava a uso tv il sangue per i feriti dell’ 11 Settembre e, intanto, distraeva dalle piazze di Ramallah esultanti per il crollo delle Twin Towers. O quando l’uccisione d’un bambino davanti alle telecamere, Mohammed Al Durrah, si trasformava in una controversa icona. Imorti non sono tutti uguali: dipende da come li si rappresenta. O da quanto se ne parla. Goldstone l’ha riconosciuto: Israele è una democrazia capace d’indagare su se stessa. Magari minimizza (chi ricorda più Yaakov Teitel, il colono che collaborava coi servizi e intanto ammazzava indisturbato gli arabi?) o ritarda (dopo un mese, ha ammesso d’avere rapito in Ucraina un sospettato di terrorismo). Di rado, però, fabbrica falsi maldestri come i resistenti: accadde con la povera famiglia Ghalia, 2006, «colpita dalle navi israeliane» mentre stava sulla spiaggia di Gaza, in realtà centrata per sbaglio da un mortaio «amico» ; o tre mesi fa a Jawaher Abu Ramah, donna «soffocata dai gas israeliani» durante una protesta contro il Muro, in realtà mai vista a quella manifestazione e probabilmente morta in ospedale per un tumore. Sul caso Goldstone, Abu Mazen aveva subodorato qualcosa e s’era dato da fare per ritardare quel voto a Ginevra: gli avevano dato del traditore falsario, proprio quelli che s’erano inventati le bombe israeliane al fosforo (smentite dalla Croce rossa) o le «trenta moschee» distrutte a Gaza. Un ministro di Netanyahu l’altroieri ha invitato Goldstone a un calumet della pace. Il giudice ha accettato: sarebbe stato diverso, se...

Repubblica 6.4.11
La filosofia è morta, solo i fisici spiegano il cosmo
I signori della creazione
di Stephen Hawking, Leonard Mlodinow


Un brano dell´ultimo saggio di Stephen Hawking: "Perché il grande disegno non dipende da Dio" Per secoli le domande importanti venivano affrontate dai pensatori Ma oggi la fiaccola della conoscenza è altrove Spetta alla scienza offrire soluzioni anche se queste vanno contro il senso comune. Come mostra Feynman
Ciascuno di noi non esiste che per un breve intervallo di tempo, e in tale intervallo esplora soltanto una piccola parte dell´intero universo. Ma la specie umana è una specie curiosa. Ci facciamo domande, cerchiamo delle risposte. Vivendo in questo mondo sconfinato che può essere ora amichevole ora crudele, e volgendo lo sguardo ai cieli immensi che ci sovrastano, gli uomini si sono sempre posti una moltitudine di interrogativi. Come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo? Come si comporta l´universo? Qual è la natura della realtà? Che origine ha tutto ciò? L´universo ha avuto bisogno di un creatore? La maggior parte di noi non dedica troppo tempo a preoccuparsi di simili questioni, ma quasi tutti di tanto in tanto ci pensiamo.
Per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza, e in particolare della fisica. Così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola nella nostra ricerca della conoscenza.
Questo libro si propone di dare le risposte che sono suggerite dalle scoperte e dai progressi teorici recenti. Tali risposte ci conducono a una nuova concezione dell’universo e del nostro posto in esso, assai diversa da quella tradizionale, e diversa anche da quella che avremmo potuto delineare soltanto un decennio o due fa. Eppure la nuova concezione aveva cominciato a prendere forma embrionale quasi un secolo addietro.
Secondo la concezione tradizionale dell´universo, i corpi si muovono su traiettorie ben determinate e hanno storie definite, cosicché è possibile specificare la loro esatta posizione in ogni istante del tempo. Sebbene tale descrizione sia abbastanza soddisfacente ai fini della vita quotidiana, negli anni ´20 si scoprì che questa immagine "classica" non era in grado di rendere conto del comportamento apparentemente bizzarro osservato sulle scale delle entità atomiche e subatomiche. Era invece necessario adottare un diverso quadro concettuale, chiamato fisica quantistica. Le teorie quantistiche si sono dimostrate straordinariamente precise nel predire gli eventi su tali scale, e al contempo capaci di riprodurre le predizioni delle vecchie teorie classiche quando venivano applicate al mondo macroscopico della vita quotidiana. Eppure la fisica classica e quella quantistica sono basate su concezioni assai diverse della realtà.
Le teorie quantistiche possono essere formulate in molti modi differenti, ma la descrizione probabilmente più intuitiva fu proposta da Richard Feynman (detto Dick), una personalità brillante che lavorava al California Institute of Technology e suonava i bongos in un locale di spogliarelli dei dintorni. Secondo Feynman, un sistema non ha una sola storia, ma ogni storia possibile. Più avanti, nella nostra ricerca delle risposte, spiegheremo nei particolari l´impostazione di Feynman, e ce ne serviremo per analizzare l´idea che l´universo stesso non abbia un´unica storia, e neppure un´esistenza indipendente. Questa sembra un´idea radicale, anche a parecchi fisici. In effetti, come molti concetti della scienza attuale, pare essere in conflitto con il senso comune. Ma il senso comune è basato sull´esperienza di tutti i giorni, non sull´universo quale ci si rivela mediante meraviglie della tecnologia come quelle che ci consentono di spingere lo sguardo fin nel cuore dell´atomo o a ritroso nell´universo primordiale.
Fino all´avvento della fisica moderna era opinione comune che il mondo potesse essere interamente conosciuto tramite l´osservazione diretta, che le cose sono ciò che sembrano, così come vengono percepite mediante i nostri sensi. Viceversa, lo spettacolare successo della fisica moderna, basata su concetti che, come quello di Feynman, sono in contrasto con l´esperienza quotidiana, ha dimostrato che le cose non stanno così. La concezione ingenua della realtà, pertanto, non è compatibile con la fisica moderna. Per affrontare tali paradossi adotteremo un´impostazione che chiameremo realismo dipendente dai modelli. Questa impostazione si basa sull´idea che il nostro cervello interpreti l´informazione proveniente dagli organi sensoriali costruendo un modello del mondo. Quando un simile modello riesce a spiegare gli eventi, tendiamo ad attribuire a esso e agli elementi e ai concetti che lo costituiscono la qualità della realtà o della verità assoluta. Ma possono esserci modi diversi per creare un modello della medesima situazione fisica, e ciascuno di essi potrà utilizzare elementi e concetti fondamentali differenti. (...)
Nel corso della storia della scienza si è scoperta una serie di teorie o modelli sempre migliori, dalla concezione di Platone alla teoria classica di Newton, fino alle moderne teorie quantistiche. È naturale chiedersi: questa sequenza alla fine avrà un punto di arrivo, porterà a una teoria definitiva dell´universo che includa tutte le forze e predica ogni osservazione che è possibile fare, oppure continueremo per sempre a scoprire teorie di efficacia crescente, senza però mai approdare a una che non possa essere ulteriormente migliorata? (...) oggi disponiamo di una candidata al ruolo di teoria ultima del tutto, ammesso che ne esista effettivamente una, e questa candidata è chiamata teoria M.
(...) La teoria M non è una teoria nel senso consueto. È un´intera famiglia di teorie diverse, ciascuna delle quali è una buona descrizione delle osservazioni soltanto entro una certa gamma di situazioni fisiche. È un po´ come accade nel caso delle carte geografiche. Come si sa, non è possibile rappresentare l´intera superficie terrestre in un´unica carta. L´usuale proiezione di Mercatore, utilizzata per i planisferi, fa sembrare sempre più grandi le aree man mano che si va verso nord o verso sud e non copre le regioni dei poli. Per rappresentare fedelmente tutta la Terra si deve ricorrere a una serie di carte geografiche, ciascuna delle quali copre una regione limitata. Le varie carte si sovrappongono parzialmente tra loro, e dove ciò accade mostrano lo stesso paesaggio. La teoria M è in qualche modo analoga.
Le varie teorie che formano questa famiglia possono sembrare molto diverse, ma possono essere considerate tutte come aspetti della medesima teoria fondamentale. Sono versioni della teoria applicabili solo in ambiti limitati: per esempio, quando certe grandezze, come l´energia, sono piccole. Come accade per le carte che si sovrappongono, così dove gli ambiti di validità delle varie versioni si sovrappongono, queste predicono i medesimi fenomeni. Ma proprio come non c´è nessuna carta piana che sia una buona rappresentazione dell´intera superficie terrestre, così non c´è nessuna teoria che da sola sia una buona rappresentazione delle osservazioni in tutte le situazioni.
Vedremo come la teoria M possa offrire soluzioni alla questione della creazione. Secondo questa teoria, il nostro non è l´unico universo. Anzi, la teoria predice che un gran numero di universi sia stato creato dal nulla. La loro creazione non richiede l´intervento di un essere soprannaturale o di un dio, in quanto questi molteplici universi derivano in modo naturale dalla legge fisica: sono una predizione della scienza. Ciascun universo ha molte storie possibili e molti stati possibili in tempi successivi, cioè in tempi come il presente, assai lontani dalla loro creazione.
Gran parte di tali stati saranno radicalmente differenti dall´universo che osserviamo e soltanto pochissimi di essi consentirebbero l´esistenza di creature come noi. Pertanto la nostra presenza seleziona da questo immenso assortimento soltanto quegli universi che sono compatibili con la nostra esistenza. Sebbene siamo minuscoli e insignificanti sulla scala del cosmo, ciò fa di noi in un certo senso i signori della creazione. Per comprendere l´universo al livello più profondo, dobbiamo sapere non soltanto come esso si comporta, ma anche perché. Perché c´è qualcosa invece di nulla? Perché esistiamo? Perché questo particolare insieme di leggi e non qualche altro? Questo è l´interrogativo fondamentale sulla vita, l´universo e il tutto.
© 2010 by Stephen Hawking and Leonard Mlodinow Original art copyright © 2010 by Peter Bollinger © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S. p. A., Milano
Per gentile concessione Luigi Bernabò Associates srl

Repubblica 6.4.11
I comandamenti della bibbia laica


LONDRA - "Ama gli altri; fai il bene; non fare il male; aiuta i bisognosi; pensa con la tua testa; sii responsabile; rispetta la natura; dai il massimo; sii bene informato; sii coraggioso". Sono la nuova versione dei dieci comandamenti, secondo The good book: a secular bible (Il buon libro: una bibbia secolarista), ultima opera del filosofo inglese A. C. Grayling, un compendio di aforismi, parabole e precetti presi da Eschilo, Euripide, Seneca, Platone, Voltaire e altri pensatori, riscritti dall´autore sotto forma di "bibbia laica". Per dimostrare, afferma Grayling, che la Bibbia non ha l´esclusiva della moralità e che l´umanesimo non ha nulla da invidiare alla religione. Comincia con una riscrittura della Genesi: "In principio c´era un albero in giardino, in primavera metteva foglie, in autunno dava frutti. E il suo frutto era la conoscenza, insegnando al giardiniere a comprendere il mondo". (E. F.)

Repubblica 6.4.11
Un saggio ripercorre iconografia e testi dedicati alla Madonna
Tutti I volti di Maria da Dante a Botticelli
L’opera ci mostra perché in alcune rappresentazioni appaiono certi simboli
di Paolo Rumiz


C´è chi vede nei luoghi a Lei dedicati una grande "emme" sulla mappa d´Europa. C´è chi, come i gestori di Medjugorje, ne usa il nome per spostare pellegrini o le attribuisce rivelazioni esoteriche tipo Fatima. Altri - specie nel Sud Italia - la vedono dea della fertilità, proseguimento del culto della Grande Signora. Altri ancora la caricano di significati dello Spirito Santo o, peggio, la leggono come misericordiosa antitesi a un Dio inflessibile. Non s´è mai parlato tanto, e tanto a sproposito, di Maria di Nazaret, la fanciulla ebrea moglie del carpentiere Giuseppe. Un tema difficile, che obbliga a districarsi in una foresta vergine di pratiche devozionali e dicerie che poco hanno a che fare con le Scritture.
Benvenuti siano dunque, in questi tempi di donna-consumo, i libri che consentono di avvicinare il mistero della sacralità materna di Lei, e leggerne i segni. E´ il caso di Maria di Nazaret di Luigi Pretto e Marina Stefani Mantovanelli (casa editrice Mazziana, euro 35, pagg. 320), un libro bifronte che legge la madre di Gesù da una parte nelle Scritture e nella letteratura, e dall´altra nell´iconografia dal Medioevo a oggi. Pretto, che si occupa della prima parte, è un sacerdote quasi novantenne di sterminata cultura, cresciuto a Padova nella tradizione pauperistica e terzomondista di Don Mazza, che fu il primo italiano a mandar missionari verso l´Alto Nilo, ai primi dell´Ottocento, ben prima della penetrazione comboniana.
Ed è un viaggio il suo, non una banale antologia; un viaggio che parte dai Vangeli, passa attraverso Meister Hechkart, Nicola Cusano e l´Alighieri, e prosegue fino a Reiner Maria Rilke e contemporanei come Heinrich Böll o i miscredenti Sartre e Brecht. Un viaggio difficile, perché Maria, con la sua corporeità che discende dal femminile biblico del Cantico dei Cantici, resta una figura che nei Vangeli parla pochissimo (appena cinque volte, se si conta il silenzio parlante sotto la Croce), e apre spazi minimi nel privato di Gesù. Talmente minimi che, scrive Pretto, "l´abbondante letteratura apocrifa - Vangeli, Atti, Apocalissi - nacque, nei primissimi secoli dell´era cristiana, proprio da questo desiderio di ripercorrere la vita di Gesù e di Maria".
Ne esce l´immagine nitida di una creatura terrena, nella quale però il Sacro si riflette in tutto il suo splendore. Da qui il ribaltamento - fondamentale - della traduzione al passo del "Magnificat" in cui Maria incontra Elisabetta: non è Dio che fa grande la Donna perché ha visto l´umiltà di Lei, ma è la Donna che riconosce la grandezza e la bontà di Lui. Questa esperienza di Dio unica e irripetibile fa della Madonna il fondamento della devozione verso i miracoli del Creatore. La Credente assoluta dunque, l´Intermediatrice cui ricorrere per avere una grazia, o la salvezza per esempio in caso di morte violenta.
Ma ecco l´analisi dei quaranta passi mariani nella Commedia, affrontati per la prima volta in modo panoramico (con c´è niente del genere, se si escludono le sei pagine sul tema nell´Enciclopedia dantesca di Mario Apollonio), e che svelano la presenza strutturante di Maria di Nazaret nell´architettura dell´opera. E´ Lei che chiama gli angeli in Purgatorio nella valletta dei principi, Lei che accompagna l´Alighieri fin sulla soglia dell´indicibile, qualcosa di fronte alla quale non vi può essere dialogo ma puro ascolto. L´ultimo gradino, l´unità che raccoglie tutto quanto "nell´universo si squaderna". L´approdo mistico, che spesso si raggiunge solo dopo aver provato lo sconvolgente senso di abbandono che nasce dalla percezione della sua possibile assenza.
Il viaggio nell´iconografia mariana della Mantovanelli, che ha dedicato anni all´analisi dei simboli e specialmente della mano dell´uomo e di Dio nell´arte rinascimentale, illumina di luce nuova quadri anche notissimi, in cui decifra segnali che spesso sfuggono a letture solo estetiche e dimostrano negli artisti una conoscenza solidissima dei Vangeli. Ci viene per esempio spiegato perché nella Deposizione di Giambellino il discepolo Giovanni distoglie lo sguardo da Cristo, o perché nella Madonna del Magnificat dipinta dal Botticelli il bambino guida la mano di sua madre nella scrittura, o ancora perché, nella sua Annunciazione, Antonello da Messina rappresenta Maria di Nazaret senza l´angelo.
Dettagli minimali di alto contenuto metaforico. Presenze come l´unicorno, simbolo della purezza, o la chiocciola, immagine di umiltà, semplicità e autosufficienza; creatura che secondo le credenze antiche nasceva dalla rugiada come Gesù nasceva dallo spirito santo nel ventre di Maria. Raffigurazioni dove assolutamente nulla è posto a caso; vedi per esempio l´Annunciazione di Tiziano nella chiesa del Santo Salvatore a Venezia. Nel dipinto Maria è priva di cintura, che è simbolo di castità, e ha la veste sciolta. Perché? Basta alzare gli occhi e la cintura perduta è sventolata dagli angeli come annuncio, commovente, di gravidanza.
E´ il sommo manifestarsi di Lui, e difatti sullo sfondo c´è un roveto ardente che abbaglia e porta Maria a ripararsi dalla luce con lo stesso gesto di Mosè sul Sinai. Un collegamento forte tra Vecchio e Nuovo Testamento, fatto non da un teologo, ma da un pittore. La folgorazione, più che la catechistica della grazia.

Corriere della Sera 6.4.11
Le idee che hanno emancipato l’uomo
Le lettere di Gramsci dal carcere
di Ranieri Polese


A lla loro uscita, nel 1947 da Einaudi, le Lettere dal carcere furono subito un successo. Era il primo volume delle opere di Antonio Gramsci (i Quaderni, pubblicati sempre da Einaudi, uscirono tra il 1948 e il 1951), che dovevano restituire alla cultura le riflessioni di uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento, e dare così libera circolazione a un pensiero rimasto sequestrato dai lunghi anni della prigionia. Con le Lettere si intendeva fornire il ritratto di un politico, un pensatore, un uomo praticamente sconosciuto ai più. C’era, sì, l’impegno del Pci a ricordare il suo segretario, ma della sua vicenda umana e, ancora di più, del suo lavoro teorico non si conosceva quasi niente. Già nella primavera del ’ 47, si erano vendute circa 12 mila copie delle Lettere dal carcere. E Leonida Repaci, fondatore del Premio Viareggio, volle fortemente che il premio di quell’anno fosse assegnato a quel libro, in deroga al regolamento che prevedeva solo opere di autori viventi. Su giornali e riviste, intanto, erano uscite recensioni a firma dei più importanti protagonisti della cultura, da Croce a Debenedetti a Gatto, Emanuelli, Calvino. Non risulta che qualcuno abbia mosso l’obiezione di un riconoscimento dedicato a romanzi e racconti e invece assegnato a una raccolta di lettere. E non solo per la bellissima prosa, lo stile piano senza retorica, i pregi letterari. Ma forse perché fu subito colto il carattere di un testo che si libera dal carattere occasionale dello scambio di corrispondenza per diventare il racconto di una storia umana e intellettuale sullo sfondo di un periodo «in cui — scrive Alfonso Gatto— si andava facendo il deserto» . Memorie, autobiografia, romanzo. È il punto che a Italo Calvino preme affermare quando scrive: «Questa raccolta di lettere familiari resterà nella cultura italiana con il valore di un libro organicamente scritto e sarà letto dalle nuove generazioni come un libro di memorie. E del libro di memorie e del grande romanzo ha l’ampiezza, l’intrecciarsi di mondi e di filoni» . Del resto, lo stesso Gramsci, scrivendo nel dicembre 1930 alla cognata Tania Schucht, si poneva la domanda sul senso delle sue lettere. Lamentandosi del fatto che la moglie Julia, a Mosca con i due figli Delio e Giuliano, rispondesse raramente e a intervalli troppo lunghi, scriveva: «Non mi piace tirar sassi nel buio; voglio sentire un interlocutore o un avversario in concreto; anche nei rapporti familiari voglio fare dei dialoghi. Altrimenti mi sembra di scrivere un romanzo in forma epistolare, che so io, di fare della cattiva letteratura» . Certo, tanti motivi spiegano la difficoltà del dialogo: i ritardi burocratici, la censura, i silenzi sul ricovero di Julia in una casa di cura per malattie nervose, le domande che Gramsci si pone sulla condotta del partito nei suoi confronti (più volte torna sulla «strana lettera» di Ruggero Grieco ricevuta nel carcere di Milano nel 1928), la cautela con cui il prigioniero fa conoscere le sue condizioni di salute e la prudenza che raccomanda, tramite Tania e l’amico Piero Sraffa, ai compagni all’estero nelle iniziative per la sua liberazione. Però, nel febbraio del 1933, sempre a Tania, Gramsci scrive: «Ciò che è scritto, acquista un valore "morale"e pratico che trascende di molto il solo fatto di essere scritto, che pure è una cosa puramente materiale» . Quindi, niente cattiva letteratura, semmai pagine che hanno un valore morale e pratico, che raccontano la storia di un uomo incarcerato per le sue idee politiche. E, insieme, raccontano la storia, nel suo farsi, di un pensiero che affronta i nodi cruciali della politica e della storia italiana. La raccolta si apre il 20 novembre 1926, subito dopo l’arresto, dal carcere di Regina Coeli a Roma, e si chiude nel dicembre 1936, dalla clinica Quisisana di Roma, dove Gramsci era arrivato nell’agosto 1935, dopo due anni passati nella clinica Cusumano di Formia. La prima e l’ultima lettera sono indirizzate alla moglie Julia, seguono poi otto lettere senza data ai due figli. Attraverso la corrispondenza si seguono gli spostamenti del detenuto, da Roma al confino di Ustica, poi Milano, da qui Roma per il processo davanti al Tribunale speciale (nel 1928 Gramsci viene condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione), quindi Turi di Bari. Descrive, Gramsci, con ricchezza di dettagli i diversi luoghi di pena e, insieme, le sue condizioni fisiche e psichiche. Il 20 novembre 1926 Gramsci scrive alla madre, esortandola a essere «forte e paziente nella sofferenza» . E aggiunge: «Di’ a tutti che non devono vergognarsi di me» . Il tema del carcere come vergogna tornerà più volte nelle lettere alla madre, che ricordava bene un altro carcere, quello del marito Francesco, condannato per peculato e concussione nel 1898: Francesco perse il lavoro e la famiglia numerosa visse in grandi ristrettezze. Così, più volte, continuerà a dire alla madre e alla sorella Teresina che la sua prigionia «è un episodio della lotta politica che si combatteva e si continuerà a combattere non solo in Italia, ma in tutto il mondo, per chissà quanto tempo ancora» (20 febbraio 1928). E poco dopo, alla madre (12 marzo 1928), dicendole che è «la posizione morale» che dà «la forza e la dignità» , aggiunge: «Il carcere è una bruttissima cosa; ma per me sarebbe anche peggiore il disonore per debolezza morale e per vigliaccheria» . Si apre qui l’altro grande motivo-guida: il rifiuto a inoltrare domande di grazia. Così, nel gennaio del 1930, cita Silvio Spaventa, recluso nelle carceri borboniche dopo il fallimento del 1848 napoletano: «Egli fu dei pochi — una sessantina — che dei più che seicento condannati nel ’ 48 non volle mai fare domande di grazia al re di Napoli» . Più tardi (maggio 1932) ricorda l’episodio di Federico Confalonieri, prigioniero allo Spielberg con Pellico, che «ridotto al massimo grado di avvilimento e di abbiezione» inoltra suppliche all’imperatore per essere liberato. Sono, ovviamente, messaggi trasversali per i compagni di fuori, ma è anche il consapevole riconoscimento di una comunità di destino con tutti gli intellettuali imprigionati per le loro idee. A cui la scelta di non piegarsi, di non abiurare le proprie convinzioni, dette la forza di resistere. Dal 1931 in poi Gramsci conosce gravi crisi fisiche e un progressivo degrado delle sue forze. L’isolamento e la difficoltà di comunicazione con l’esterno turbano i lunghi giorni della prigionia e lo vediamo sempre più assillato da domande a cui non trova risposte: sui rapporti con Julia e la famiglia Schucht a Mosca, sui rapporti con il partito e con l’Internazionale comunista. Eppure non vuole venir meno all’impegno di studio che si è proposto fino dal 1927, quando scrive alla cognata «che bisognerebbe far qualcosa für ewig» e fa un primo elenco dei temi dei Quaderni. E soprattutto non vuole cedere. In una delle ultime lettere alla moglie (25 gennaio 1936) scrive: «Io mi trovo in questa situazione (di coercizione, ndr) da molti anni, forse dallo stesso 1926, subito dopo il mio arresto, da quando la mia esistenza è stata, bruscamente e con non poca brutalità, costretta in una direzione data da forze esterne e i limiti della mia libertà sono stati ristretti alla vita interiore e la volontà è diventata solo volontà di resistere» .

Corriere della Sera 6.4.11
Italiani e tedeschi preparano l’atlante delle stragi naziste
di Antonio Carioti


N el nostro Paese non se ne parla da tempo, ma la commissione storica italo-tedesca sulla Seconda guerra mondiale, istituita nel marzo 2009, ha lavorato sodo. E presenterà i risultati raggiunti oggi a Milano, in un incontro pubblico presso l’Ispi, in via Clerici 5, a partire dalle 16. La commissione è stata istituita dai governi di Roma e Berlino per dare un «contributo alla costruzione di una comune cultura della memoria» , in seguito al contenzioso sollevato da parenti di vittime di stragi naziste e da militari italiani internati nel Terzo Reich (gli Imi). La vicenda ha fatto discutere, per l’accavallarsi tra esigenze politiche e lavoro degli studiosi. Mostra perplessità sul concetto di «memoria comune» lo stesso Paolo Pezzino, storico dell’ateneo di Pisa e membro della commissione: «Secondo me bisogna parlare piuttosto del riconoscimento dei rispettivi punti di vista nel quadro di una storia complessa, fatta di relazioni non solo conflittuali tra Italia e Germania nel periodo 1940-45. Nel documento finale, da presentare nel marzo 2012, vogliamo mettere in luce le differenti ragioni degli italiani e dei tedeschi, ma anche le interazioni tra gli uni e gli altri» . A tal scopo la commissione ha avviato un vasto lavoro di ricerca: «Abbiamo esplorato per la prima volta il fondo delle richieste che gli internati militari italiani facevano al Tesoro per fini pensionistici: oltre 200 mila fascicoli. Poi abbiamo vagliato la memorialistica degli Imi e i verbali degli interrogatori cui erano sottoposti al ritorno dalla Germania. Inoltre stiamo completando un atlante delle violenze contro i civili compiute dai nazisti in Italia. E abbiamo consultato dei fondi, finora inesplorati, contenenti le lettere dei militari tedeschi di stanza nella penisola» . Ne scaturiranno varie pubblicazioni: con tutte le riserve che si possono nutrire sul mandato della commissione, di certo la sua opera sarà utile agli studiosi.

Repubblica 6.4.11
Un convegno per costruire una memoria comune su nazismo e fascismo
Se Italia e Germania ristudiano la storia
di Vanna Vannuccini


Lo studioso di Monaco: "Stiamo raccogliendo le testimonianze dal basso. Da noi come da voi c´è stata, a lungo, una percezione blanda dei crimini commessi"

L’immagine di una Wehrmacht dalle mani pulite, non coinvolta nei massacri della popolazione civile, ha resistito in Germania fino alla metà degli anni ´90, quando 5 milioni di tedeschi visitarono la mostra itinerante Crimini della Wehrmacht 1941-44 e la verità nota agli storici cominciò a farsi strada tra l´opinione pubblica. Quella mostra riguardava il fronte orientale, dalla Serbia a Stalingrado. Sul fronte italiano, invece, la memoria di una Wehrmacht che si è "comportata bene" non è mai stata seriamente compromessa. I ricordi collettivi di occupanti e occupati restano divergenti, nonostante i fatti. Come trovare denominatori comuni di memoria? Una coscienza storica europea che si proietti nei libri di scuola è lontana. La memoria resta nazionale. Ne parliamo con Thomas Schlemmer, uno dei componenti della Commissione storica italo-tedesca che su incarico dei due governi presenta in questi giorni le conclusioni di tre anni di indagini sull´occupazione tedesca in Italia: «Che la guerra della Wehrmacht sia stata una guerra criminale la storiografia lo aveva elaborato da tempo – dice – ma c´è voluto fino agli anni ´90 perché questo si affermasse nella coscienza collettiva. Ed è successo anche perché la generazione dei veterani sta scomparendo. Anche in Italia c´è difficoltà a riconoscere il ruolo dell´esercito nella guerra fascista e i crimini nei territori occupati».
Il metodo di lavoro della commissione si basa sui racconti dei singoli, attraverso lettere, documenti: «La Erfahrungsgeschichte, o storia delle esperienze vissute, è il tentativo di coniugare la storia dal basso con quella dall´alto», spiega Schlemmer. «Sulla grande scala di migliaia di vite vissute, raccontate e interpretate si rispecchiano i preconcetti indotti dalla propaganda, i condizionamenti provocati dagli stereotipi. Sugli italiani ad esempio pesava lo stigma del "doppio tradimento". In tante lettere dal campo si vede che l´idea del tradimento provocava desideri di vendetta. Sul fronte orientale invece fu decisivo il convincimento che obiettivo dei russi fosse lo sterminio del popolo tedesco e lo stupro delle loro donne. Insomma questo metodo permette di cogliere i collegamenti tra la Grande Politica, la propaganda, e l´azione delle unità militari; e di capire come venissero plasmati i modelli mentali che strutturavano la percezione e condizionavano l´agire. Accanto all´ordine dall´alto c´è quasi sempre un piccolo margine di manovra individuale, quello che ti fa scegliere tra uccidere sul posto il disertore o fingere di non vederlo».
Attraverso le nuove fonti, si è cercato di guardare dietro l´immagine generalizzante de "i tedeschi" o della Wehrmacht, e de "gli italiani" o dei "partigiani". Continua il professore: «Abbiamo elementi che modificano alcune percezioni rispetto alla guerra contro i partigiani; così le ricerche di Amedeo Osti ci riservano molte sorprese sui rapporti tra forze armate tedesche e fasciste, ad esempio le Brigate nere: la politica del non fare prigionieri era fortemente voluta dai fascisti, e sono stati spesso gli ufficiali tedeschi a dire basta. Insomma la complessità dei rapporti tra cittadini e truppe occupanti viene fuori con maggiore chiarezza».
Le testimonianze sono state tratte da lettere dal campo, che erano censurate e quindi sono state interpretate, e poi da diari e fotografie: «Abbiamo messo un appello su uno di quei giornali gratuiti, letti soprattutto dagli anziani, che si trovano sui treni metropolitani o sugli autobus, che ha avuto grande risonanza. Abbiamo esaminato diari di soldati che avevano allora 17 anni e che parlano di una "mamma italiana" che gli dà da mangiare dicendogli: "ho un figlio soldato e spero che trovi anche lui là dov´è una mamma che lo aiuti"».

Corriere della Sera 6.4.11
«Scoperto nel Peloponneso il più antico scritto d’Europa»


La tavoletta d’argilla scoperta sulle colline nei pressi di Iklena (nel Peloponneso) dagli studiosi della Scuola di Archeologia di Atene sarebbe «il più antico documento scritto di Grecia e quindi d’Europa» . Per l’archeologo Michael Cosmopoulos, a capo dell’équipe che dal 2006 sta eseguendo la campagna di scavi, si tratterebbe di un documento finanziario, con tanto di cifre e di nomi, redatto in quel «Lineare B» utilizzato dai micenei durante l’Età del Bronzo e databile intorno al 1600 avanti Cristo. In precedenza il gruppo diretto da Cosmopoulos aveva già portato alla luce i resti (mura e affreschi) di due grandi edifici costruiti con tutta probabilità tra il 1550 e il 1440 avanti Cristo.

La Stampa 6.4.11
Parigi, via il segreto dai documenti della Comune


I verbali di quattro sedute a porte chiuse dell’Assemblée nationale, la Camera dei deputati francese, nel 1870-1, fra la disfatta di Napoleone III e l’inizio della Comune di Parigi, ritrovati per caso in fondo a un armadio. E, ieri, il voto dei deputati, quelli attuali, per renderli pubblici, perché solo l’Assemblée può desegretare ciò che l’Assemblée ha segretato. Non succedeva dal ‘68, quando il Senato autorizzò la pubblicazione di alcune sue sedute segrete (e tumultuose) della Prima guerra mondiale.
La storia è incredibile ma vera. Tutto inizia dalla curiosità di un impiegato dell’archivio che nel 2009, sfogliando un inventario ingiallito, si chiede di cosa parlino e dove siano quattro verbali di altrettanti «comités segrets». Si fanno ricerche e da una vecchia cassaforte nelle cantine del Palais Bourbon spuntano i resoconti dei dibattiti, avvenuti senza il pubblico a causa della loro delicatezza.
Tre (del 13, 25 e 26 agosto 1870) si erano svolti in quello che era ancora il Corps Législatif del Secondo Impero: la guerra contro la Prussia, imprudentemente dichiarata da «Napoleone il piccolo» su istigazione della sua terribile moglie, l’Imperatrice Eugenia, sta andando malissimo e i deputati della gauche, in attesa di rovesciarlo, si scatenano contro l’Impero. I futuri tenori della Terza Repubblica ci sono già tutti, eloquentissimi e fluviali: Léon Gambetta, Jules Ferry, Adolphe Crémieux.
Il quarto dibattito è meglio ancora. E’ il 22 marzo del ‘71. Nel frattempo l’Impero è caduto, la guerra è stata persa, l’Alsazia e la Lorena pure, le elezioni vinte dalla destra. Ma Parigi non ci sta: sull’Hotel de Ville sventola la bandiera rossa, e alla Comune mancano quattro giorni. Un deputato della sinistra minaccia il governo conservatore di Thiers: «Sarete responsabili di quel che succederà!». Ha 29 anni, si chiama Georges Clemenceau e vivrà abbastanza per vincere da primo ministro la guerra del ’14-’18, riconquistare le due province perdute e diventare il «padre della vittoria». [ALB. MAT.]

Repubblica 6.4.11
I diari del duce
"Errori, plagi, anacronismi ecco perché sono falsi"
di Simonetta Fiori


"Saccheggiarono giornali, discorsi e soprattutto il memoriale di Galeazzo Ciano"
"Dal 1955 Rosetta e Mimì Panvini si applicarono all´imitazione di stile e grafia"
Lo storico Franzinelli spiega le tesi del suo nuovo libro: "I testi di Dell´Utri sono apocrifi, realizzati da due signore di Vercelli"

«Sono certo che questo mio lavoro costringerà Elisabetta Sgarbi e il senatore Dell´Utri a rinunziare al loro progetto». Mimmo Franzinelli è appena riemerso da una lunga indagine sulle tracce dei diari attribuiti a Mussolini e non sembra avere esitazioni. «L´agenda del 1939 pubblicata da Bompiani è apocrifa: un´accozzaglia di anacronismi, di errori fattuali, di estesi plagi, di affermazioni contraddette da fonti d´epoca». In altre parole, «una bufala colossale». La sfida è lanciata.
Con certosina pazienza lo studioso è andato a frugare negli archivi pubblici e privati, ha collazionato l´agenda del ´39 con il diario di Ciano, vari giornali dell´epoca e gli scritti di Mussolini pubblicati da Hoepli. Ed è riuscito a convincere anche lo storico americano Brian R. Sullivan, un tempo sostenitore dell´autenticità delle agende (per questo molto citato nell´edizione Bompiani) e oggi risoluto sostenitore della "bufala". I risultati di questa accurata inchiesta, non immune a tratti da un piglio "dietrologico" discutibile, sono raccolti in un meticoloso dossier di quasi trecento pagine (Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia, Bollati Boringhieri, euro 16). Quello tratteggiato da Franzinelli – già artefice di originali ricerche archivistiche sul ventennio nero, sull´epurazione e sul piano Solo – è un caso editoriale che racconta molto dell´Italia di oggi, un paese incline a cancellare ogni confine tra verosimile e reale.
Franzinelli, alla fine del volume lei sfida Dell´Utri a un pubblico confronto. Qual è la prova più persuasiva?
«Le tracce del falso sono infinite, ma potrebbero bastare le annotazioni autografe di Claretta Petacci sui movimenti del duce nel 1939 (tuttora inedite): quasi sempre inconciliabili con il contenuto dell´edizione Bompiani. Nel mio libro rivelo l´identità dei falsari e le loro strategie commerciali».
Chi confezionò l´apocrifo?
«Le artefici furono due bizzarre signore di Vercelli, Rosetta e Mimì Panvini, che tra il 1955 e la metà del successivo decennio si applicarono con dedizione alle agende e altro material simil-ducesco. Rosetta, la madre, era appassionata di Mussolini; Mimì, la figlia, laureata in chimica all´Università di Torino, imparò ben presto a imitare la scrittura del dittatore. Anche il capofamiglia Giulio contribuì all´impresa, portando a casa biografie mussoliniane e annate di quotidiani del regime, dal Popolo d´Italia alla Stampa».
Lei dimostra la corrispondenza perfetta tra queste fonti e il diario.
«Sì, le due donne saccheggiarono i giornali, ma anche Scritti e discorsi di Benito Mussolini e soprattutto il Diario di Galeazzo Ciano. Non manca il contributo personale di madre e figlia: considerazioni meteorologiche e banalità che mai il capo del fascismo avrebbe affidato al giudizio dei posteri».
Come si riesce a dimostrare che il diario del 1939 sia stato fabbricato proprio dall´officina di Vercelli? Le due falsarie furono processate, ma le agende scomparvero.
«Nel 1956 Arnoldo Mondadori acquistò per 22 milioni di lire un blocco di carteggi "mussoliniani" composti dalle due amanuensi. Accortosi del bidone, riottenne gran parte del denaro e conservò copia di quei materiali negli archivi della casa editrice: ebbene, il raffronto con l´agenda 1939 evidenzia straordinarie somiglianze grafologiche, con una notevolissima ricorrenza di errori grammaticali e ortografici».
È in grado di ricostruire il tragitto dell´agenda da casa Panvini alla biblioteca di Dell´Utri?
«Dell´Utri ha presentato come un novità – e una scoperta personale – il rinvenimento di questo materiale. In realtà il diario pseudomussoliniano ha circolato per oltre un trentennio in Europa e negli Usa in cerca di acquirenti: trasferito in Svizzera con alcune altre agende, fu offerto invano a gruppi editoriali e a privati. Negli anni Ottanta venne gestito da sir Anthony Havelock-Allan, senza ottenere certificati di autenticazione: nel 1989 i laboratori statunitensi Brunelle attestarono che l´inchiostro era stato prodotto nel dopoguerra, mentre nel 1993 Sotheby´s accertò l´artefazione della grafia mussoliniana. Tornata ingloriosamente in Svizzera, l´agenda 1939 è stata di nuovo messa in vendita, finché Dell´Utri l´ha "scoperta"».
L´edizione di Bompiani si fa forte del giudizio di Sullivan, un tempo sostenitore dell´autenticità del documento.
«Venticinque anni fa Sullivan prospettò la tesi dell´autenticità postuma: il duce avrebbe scritto il diario del 1939 alcuni anni più tardi, nel periodo della Repubblica Sociale, per finalità autodifensive, nella previsione di venire presto processato per crimini di guerra. Lo storico era rimasto colpito dalle cronache di volo di Mussolini e dal riferimento all´udienza concessa a un emissario del presidente Roosevelt. Qualche mese fa ho contattato Sullivan e gli ho anticipato i risultati della mia ricerca, che tra l´altro dimostrano come le signore Panvini avessero ricavato le cronache aviatorie da un libro in loro possesso e tratto la cronaca dell´udienza da un quotidiano d´epoca».
E Sullivan come ha reagito?
«Ha rivisto completamente le sue convinzioni, come dimostra la lettera che mi ha scritto: "Oggi ho raggiunto una convinzione ferma: il diario stampato da Bompiani e gli altri di cui è annunciata la pubblicazione non sono genuini. Comunque sia, sono dei falsi"».
Però lo studioso aggiunge che non è persuaso del tutto che l´apocrifo derivi da casa Panvini .
«Il memoriale autobiografico scritto nel maggio 1959 da Mimì (riprodotto integralmente nel volume) lo convincerà della matrice vercellese degli apocrifi».
Ma Mimì in seguito avrebbe ritrattato tutto.
«Le signore Panvini alternarono ammissioni e ritrattazioni che tuttavia non possiamo giudicare con il medesimo metro. Le imputate furono condannate per truffa e falso in entrambi i processi celebrati presso il Tribunale di Vercelli, in primo grado nel 1960 e in appello nel 1962. Sei anni dopo, nel febbraio 1968, avrebbero raccontato di essere le artefici degli apocrifi anche davanti a una troupe di Tv7, guidata da Emilio Fede. La sorte ha voluto che fosse proprio Fede a riprendere le falsarie in azione, in un filmato che avrebbe fatto sobbalzare Dell´Utri».
Lei attribuisce al falso anche una strumentalità politico-culturale.
«Da quelle pagine balza l´immagine di un Mussolini inedito: statista autocritico, nemico dei tedeschi, desideroso di tenere l´Italia fuori dalla guerra, addirittura scettico rispetto alle leggi razziali. Un clamoroso esempio di falsificazione della storia, che corrisponde a una fase della vita pubblica italiana segnata da confusione tra finzione e realtà».

Repubblica 6.4.11
Imparare lo straniero
di Giancarlo Bosetti


Parola d’ordine sprovincializzarsi nel nome di un pluralismo geografico e umano. È la sfida e l´impegno che fondazione Intercultura porta avanti da oltre mezzo secolo. Da domani, a Milano, un convegno per "ricomporre Babele"
Nessuna civiltà è isolata dal resto del pianeta.Tutte sono in evoluzione continua e soggette a cambiamenti dettati da relazioni di convivenza, conflitto, scambi culturali

I nostri nonni dicevano che bisogna sprovincializzarsi. Non era una cattiva idea, specie se serviva a giustificare qualche supplemento di mancia per finanziare viaggi all´estero, non solo per studiare. Ci sarebbe voluto un intellettuale bengalese, Dipes Chakrabarty, per darci la misura di come le idee diventano datate. Lui si rivolge ora a noi europei dicendo che dobbiamo provincializzarci. Togliendo quella sola "s", ci insegna in modo fulmineo e un po´ spaesante che entrare nella dimensione cosmopolitica significa prima di tutto, anche stando a casa, abituarsi all´idea di essere "una" provincia, una delle molte e non il centro del cosmo, ovvero quel luogo dell´universo dove tutti gli esseri umani pensano di trovarsi, per esserci nati.
Il primo merito di un´associazione come Intercultura è di inalberare il vessillo del cosmopolitismo, in un modo che sprovincializza e provincializza insieme. Sotto queste insegne si può imparare bene a "guardarsi da fuori", e a vedere noi stessi come una delle tante possibilità della geografia umana che ci sono sotto il cielo. Si può appunto imparare, ma bisogna volerlo fare perché non è un processo automatico. E non si impara senza fatica anche se la gratificazione arriva molto presto.
Organizzare sistematicamente la formazione di giovani fuori dal proprio paese a contatto quotidiano con altre nazioni e culture è un metodo per mettere in pratica il suggerimento del pensatore bengalese (che non a caso si è formato tra Calcutta, l´Australia e Chicago, dove ora vive) e certo ne abbiamo bisogno noi europei, alle prese con le sfide di un mondo nuovo fatto di emigrazioni, tumultuoso pluralismo culturale e religioso, meticciato, invecchiamento (sia benedetto) dei nativi. Ne hanno un po´ meno bisogno i nordamericani (Usa e Canada), abituati a pensarsi come nazioni e stati di minoranze. La nostra è una necessità assoluta e urgente, cresciuti come siamo, nella quiete di vastissime e, fino a poco fa indiscusse, maggioranze linguistiche, culturali, confessionali.
Siamo in un campo, quello dell´addestramento al nuovo, dove non basta pronunciare la parola cosmopolitismo, o multiculturalismo, per capirsi. Infiniti equivoci e grandi differenze di vedute vanno messe a fuoco per evitare che il dialogo diventi impossibile. C´è un cosmopolitismo universalistico e astratto (siamo tutti apolidi?) indifferente a ogni genere di radice culturale e territoriale: è il cosmopolitismo delle ricchezze senza bandiere che volano nei cieli dell´evasione fiscale. È una forma di irresponsabilità senza ancoraggi, che aggira le democrazie nazionali e non fa bene alla civiltà. E c´è un multiculturalismo senza dialogo tra le culture, per cui comunità diverse vivono vite parallele le une accanto alle altre.È un altro modo di scoraggiare la integrazione e la responsabilità degli individui e di ingannare le società democratiche. Nessuna cultura è isolata dal resto del mondo umano come un cristallo o una essenza pura, tutte sono continuamente in evoluzione e soggette a cambiamenti, che derivano dalle relazioni di convivenza, conflitto, scambio con le altre culture. Ci serve quello che Fred Dallmayr chiama "cosmopolitismo dialogante" e che il concetto di intercultura coglie molto bene perché descrive una dimensione della cultura liberale come apprendistato permanente del pluralismo. Non si tratta nel nostro tempo del solo pluralismo politico, ma anche di quel pluralismo "forte" o "profondo" che include le differenze culturali e che comincia sempre dalla conoscenza degli altri.
L´esperienza di imparare gli altri inizia quando si abbandona l´idea monolitica che abbiamo dei diversi, degli stranieri, quali che siano (balcanici o magrebini, asiatici, musulmani e non) e nel vederne la varietà, la mutevolezza, il caos. Ogni diversità culturale in ogni momento è in rapporti di reciproca interpenetrazione, dialogo, contrasto con altre civiltà e questo intreccio induce permanenti modificazioni in ciascuna di loro. In tempi passati i processi interculturali avevano tempi più rilassati; erano consentite lunghe pause di relativa quiete monoculturale, specialmente nella vecchia Europa; l´adattamento (quando non falliva tragicamente) poteva avvenire più lentamente.

Repubblica 6.4.11
Parla il presidente della fondazione, l´ambasciatore Roberto Toscano
"Vedere e tollerare il diverso è una forma di anti-idiozia"
di Francesca Alliata Bronner


"La globalizzazione in ogni camporende oggi necessaria l´abolizionedi linee divisorie fra noi e l´altro,pur mantenendo le proprie lingue, storie e religioni. È solo un dato etico"

Missione ambasciatore. Per Roberto Toscano il cosmopolitismo è un´esperienza vissuta "sul campo". Già ambasciatore italiano in India nel 2008 e prima ancora in Iran (dal 2003 al 2008), è attualmente in missione diplomatica per le Nazioni unite a Washington.
Può raccontarci, in base alla sua esperienza durante gli anni iraniani e indiani, se c´è spazio per il cosmopolitismo in quei paesi e in che termini si differenzia dal modo con cui lo concepiamo noi?
«Prima di tutto bisogna distinguere fra il concetto di cosmopolitismo inteso come esplicito riferimento ideologico e l´apertura al diverso. Il modo migliore di definire il cosmopolitismo è quello di individuare il suo contrario: la chiusura nel proprio particolare, l´incapacità di vedere, apprezzare o tollerare il diverso. Etimologicamente "idiota" significa chiuso nel proprio particolare, quindi il cosmopolitismo può essere definito come "anti-idiozia". Per l´Iran ci sono due elementi che rendono il paese e la sua cultura, potenzialmente capaci di trascendere la chiusura alla diversità. Da un lato dobbiamo considerare che l´Islam è una religione fortemente trans-culturale e trans-razziale, una religione che è stata capace di abbracciare diverse classi sociali, lingue, razze, culture, dal Marocco alle Filippine. Capacità, spesso da noi trascurata. Eppure, questo rende il paese, come tutti gli ex-imperi (ad esempio la vicina Turchia), composito, plurale: non è propriamente cosmopolitismo, ma è senza dubbio un primo allontanamento dall´idiozia particolaristica. Per quanto riguarda l´India, mi viene da citare quanto mi disse una volta un´amica indiana: "Il mio paese è un macro microcosmo", contiene cioè da un punto di vista qualitativo, tutta la problematica del mondo intero, nelle sue bellezze e nei suoi orrori e in dimensioni macroscopiche. Direi che sia iraniani che indiani risultano "cosmopoliti naturali" senza esserlo ancora di fatto».
Vede un´Europa multiculturale considerando che tra vent´anni ci sarà una percentuale sempre maggiore di etnie diverse da quelle occidentali?
«Vedo un cammino verso il cosmopolitismo nell´alternativa interculturale. Intercultura non significa assimilazione, che si basa sul rispetto, l´apprezzamento, la valorizzazione delle differenze, ma non è nemmeno multiculturalismo: significa in primo luogo il riconoscimento che le identità sono prodotte da uno scambio continuo con il diverso. Il cosmopolitismo che pensiamo non è solo un´opzione valida, ma necessaria e deve crescere, quindi, attraverso dialogo, apprezzamento delle diversità, mutuo arricchimento».
Veniamo in Italia: qual è il percorso da seguire per un´educazione al cosmopolitismo tra i giovanissimi?
«Devono convivere iniziative "dall´alto" e spinte "dal basso". La dimensione pubblica, da una parte, ma anche la società civile. È qui che si collocano iniziative e programmi come quelli dell´associazione Intercultura: lo scambio internazionale di studenti con l´inserimento non solo nelle scuole, ma nelle famiglie di un numero crescente di paesi. La "familiarizzazione della diversità", se avviene negli anni formativi, rimane come un patrimonio di straordinario valore in quanto trasforma l´astratto in concreto: quei volti, quelle amicizie, quelle famiglie che sono state per un periodo anche nostre. Dopo esperienze del genere non si diventa certo apolidi (il cosmopolita è concettualmente il contrario dell´apolide), non si perde la propria identità nazionale così come non si perde il legame con la propria famiglia. Si perde solo la fatale idiozia che è la radice di tutte le sordità, le ottusità di tutti i razzismi e di tutte le violenze».

il Riformista 6.4.11
Care compagne, esistono donne buone e cattive
di Silvia Ballestra

qui
http://www.scribd.com/doc/52390955

il Fatto 6.4.11
Jafar Panhai
“Il mio Iran condannato al fuorigioco”
“Offside” arriva finalmente nelle sale. Così il grande regista iraniano parlava del suo film nel 2006, prima di finire agli arresti domiciliari
di Anna Maria Pasetti


“Offside”. Mai titolo di film fu più malaugurante per la vita del suo regista. Talentuoso, pluridecorato e dunque imprigionato. L’iraniano Jafar Panahi è ancora fuorigioco. A deciderne l’anno scorso l’arresto (oggi ai domiciliari) per sei anni di reclusione e ben 20 di “impedimento da ogni attività creativa” è stato il regime fondamentalista di Ahmadinejad. Stampa e opinione pubblica mondiali si occupano del “caso Panahi” da tempo, e l’ultima Berlinale si è esposta a favore del 51enne cineasta di Teheran al punto da meritarsi una sorta di fatwa dai satrapi del dittatore, indignati per l’appoggio dato al “nemico pubblico n. 1”.
D’altra parte la capitale tedesca non ha dimenticato che l’ultima opera di Panahi andò in concorso proprio al suo festival: correva l’anno 2006 e il film era appunto “Offside”. Che finalmente esce in Italia, a cinque anni dalla presentazione festivaliera. “Offside” scritto, diretto, montato e prodotto da Panahi non solo è un film bello, ma è l’ennesimo esempio della capacità di quest’autore di incidere sulla coscienza socio-politica dello spettatore attraverso l’esclusivo utilizzo del linguaggio cinematografico. L’allora giuria internazionale al Festival di Berlino capitanata da Charlotte Rampling non se lo lasciò sfuggire attribuendogli il proprio Gran premio. Il film, come prevedibile rimasto invisibile in Iran, parte da un piccolo fatto privato ispirato dalla realtà quotidiana per aprirsi al dibattito politico e sociale. E in questo caso sulla condizione femminile in Iran. L’intervista che segue venne realizzata appunto a Berlino nel 2006, poco dopo la proiezione del film: una conversazione che si fa “documento” perché oggi, ovviamente, non sarebbe più possibile.
Come nasce “Offside”?
L’occasione è arrivata dagli imminenti Mondiali di calcio del 2006 in Germania e dalla constatazione del crescente interesse a questo sport da parte delle donne, inclusa mia figlia. A loro, però, una legge nazionale impedisce l’entrata negli stadi. Restare a casa e guardare la partita in tv? Giammai: rimosso il velo, le impavide si travestono da maschi e invadono gli spalti. Con il consapevole rischio di essere scoperte e finire al fresco. O bloccate fuori dagli impianti, segregate in recinti costruiti all’uopo. Quale migliore pretesto per raccontare una nuova storia sulla condizione femminile in Iran? E così è nato “Offside”, tratteggio amaro in chiave però di commedia di un manipolo di ragazze tifose costrette “fuorigioco” dai poliziotti durante l’incontro Iran-Bahrein, valevole per le qualificazioni ai Campionati.
Ha girato direttamente durante la partita?
Sì, e ci siamo organizzati per effettuare le riprese nella situazione reale. Il problema è che quando si sono accorti di me, cioè di un regista piuttosto noto, le autorità preposte allo stadio si sono avvicinate chiedendo di interrompere il film, dando loro pure i giornalieri. Mi sono opposto, spiegando che non era nelle loro competenze. E prima che riportassero la mia reazione ai superiori ero riuscito a terminare le riprese, fregandoli.
Lei è un veterano di racconti al femminile. Pensa che potrebbe aprirsi a figure appartenenti a mondi stranieri?
Il mondo femminile racchiude tutto, anche quello maschile. Da noi le donne soffrono in maniera indescrivibile per potersi affermare: basta guardare gli occhi e i gesti delle tifose di calcio nel mio film. Non solo è assurdo ma è pressoché ridicolo che non possano entrare negli stadi. È sufficiente leggere la ragione senza senso che sorregge il divieto: evitare che signore e signorine vengano in contatto con le scurrilità da stadio. Ma in che mondo viviamo?
Intende dire che gli uomini iraniani sono consapevoli dell’assurdità di certi impedimenti sulle donne?
Certo, specie tra le nuove generazioni. Non a caso i giovani poliziotti sanno molto bene che si tratta di una legge surreale, e se potessero lascerebbero quelle ragazze libere sugli spalti. Ma anche loro rischierebbero. Questa è una piccola ipocrisia dietro la quale si celano i grandi problemi della nostra società. Quanto a me “cine-cantore” all’estero non credo proprio: spesso mi invitano a fare film fuori dall’Iran, ma fornisco sempre la medesima risposta. “Se non conosco la cultura, la lingua, la società di un Paese non posso raccontarlo”.
Che tipo di cinema funziona meglio oggi in Iran?
Come sempre la commedia commerciale, il genere locale per eccellenza. Poi ci sono i film d’autore, e credo di appartenere a questo filone, benché anche le mie storie siano intonate sul registro della commedia. Noi “autori” facciamo fatica ad uscire in sala, anche perché raccontiamo situazioni socialmente scomode.
Se avesse più libertà espressiva racconterebbe storie diverse o storie uguali in modi diversi?
Meglio lavorare su quello che abbiamo – e come lo abbiamo – che non su ipotesi remote. Io faccio il mio cinema, caratterizzato da persone, contesti e conflitti. Tra la realtà e il sogno insito nel linguaggio cinematografico.

Corriere della Sera 6.4.11
Panahi, basta la partita di calcio per denunciare il regime iraniano
La ragazza che si traveste da uomo per entrare allo stadio
di Paolo Mereghetti


L’ 8 maggio 2005 è stata una data storica per il calcio iraniano: la vittoria sul Bahrein avrebbe permesso alla nazionale di casa di accedere alla fase finale del Campionato del mondo di calcio in Germania. E proprio durante quell’evento, quasi in presa diretta, Jafar Panahi ha ambientato quello che sarebbe diventato — a oggi — il suo ultimo lungometraggio, Offside. La storia del film è quella di alcuni tifosi «particolari» , attirati dalla gara ma impossibilitati ad assistervi perché la tradizione del Paese impedisce alle donne di assistere alle partite. Non una legge — come lo stesso Panahi ha spiegato a Stéphane Goudet per Positif— ma piuttosto un’ «abitudine» stabilita dalle forze di polizia e accettata tacitamente da tutti: lo spunto ideale per raccontare da un’angolazione insolita ma realistica la condizione della donna nell’Iran post khomeinista e più in generale le tante irrisolte contraddizioni del Paese. All’inizio del film seguiamo i tentativi di una giovane «tifosa» per mimetizzarsi tra la folla che accorre allo stadio: un berretto per raccoglie i lunghi capelli, i colori dell’Iran sul viso, l’abbigliamento maschile (che però non trae in inganno gli altri tifosi) e da subito, dall’acquisto con «sovraprezzo» di un manifesto per aiutare l’opera di mimetizzazione, la scoperta che tutti vogliono approfittarsi della situazione di inferiorità e di sudditanza della donna. Panahi mette immediatamente le carte in tavola. L’eventuale suspense— riuscirà la ragazza a entrare nello stadio?— viene immediatamente frustrata e il film si trasforma in una concretissima riflessione sulla condizione femminile oggi in Iran. Perché la ragazza, fermata dai soldati di servizio, si ritrova con un altro piccolo gruppo di tifose, rinchiuse in una specie di recinto appena fuori dalle gradinate. Ognuna ha cercato un proprio modo per entrare (anche travestendosi da soldato per avere i posti riservati, smascherata da chi si era visto assegnare quel posto) e ognuna reagisce a modo proprio a questo divieto: chi si pente, chi litiga, chi discute, chi tenta la fuga. Mentre la partita si svolge in diretta e le urla dei tifosi innescano la curiosità delle «detenute» e dei guardiani, il film passa dal dramma alla commedia alla riflessione filosofica. Non si può non ridere quando un pressante bisogno fisico convince un soldato ad accompagnare una delle ragazze a un bagno: luogo pubblico per antonomasia e quindi «infestato» da quei maschi che rischiano di offendere con i loro discorsi sguaiati e la loro presenza la «purezza» femminile. Ma poi il discorso si fa terribilmente serio quando una delle ragazze fermate cerca di mettere in crisi le certezze di uno dei suoi «carcerieri» dando prova di abilità dialettica e logica ferrea e senza bisogno né di femminismo né di emancipazione mette a nudo le contraddizioni di un «ordine» basato sull’oscurantismo e sul peggior maschilismo. La grande prova di regia di Panahi e di recitazione di tutto il cast risalta nella capacità di sfruttare al meglio i tempi della partita, un evento che non si poteva certo «ricostruire» se mai le riprese fossero andate male o qualche cosa avesse dovuto essere rifatta. No, tutto si incastra perfettamente: l’imbarazzo dei soldati costretti a un compito che probabilmente non condividono, la delusione delle tifose mascherate, la loro voglia di ribellarsi a delle imposizioni oscurantiste e retrograde. Ma soprattutto colpisce il timing perfetto con cui Panahi ha saputo articolare e sviluppare una storia fatta di confronti serrati e scene collettive, di momenti ironici e altri drammatici, mentre sullo sfondo si svolgeva un’altra, inarrestabile storia, quella della partita che, per la cronaca, fu vinta dall’Iran 1 a 0, grazie al colpo di testa del difensore Mohammad Nosrati. Offrendo in diretta allo spettatore il «segreto» del suo cinema, capace di intrecciare grandi e piccole storie, momenti ufficiali (come una partita di calcio) e segreti privati, passioni collettive e singoli destini. © RIPRODUZIONE RISERVATA P. S. Girato nel 2005, Offside fu presentato nel febbraio del 2006 al Festival di Berlino dove vinse il Gran premio della giuria (cioè l’Orso d’argento). Arriva in Italia con cinque anni di ritardo per merito di una piccola distributrice, la Bolero Film, sull’onda dell’emozione suscitata dalla condanna che il regime di Ahmadinejad ha comminato al regista. L’augurio è che aiuti a sensibilizzare ancora di più l’opinione pubblica sul suo destino.