giovedì 7 aprile 2011

Il Sole 24 Ore Domenica 19.4.09
L’inedito di Franco Volpi censurato dal figliastro
E alla fine dico: «Good-bye Heidegger»
di Franco Volpi



Riportiamo qui di seguito parte di una lettera di Franco Volpi, morto prematuramente martedì scorso, ad Armando Massarenti - nel quadro di uno scambio in occasione della pubblicazione del volume di scritti heideggeriani che Massarenti aveva curato per il Sole 24 Ore - in cui lamentava la censura degli eredi sulla introduzione ai Beiträge di Heidegger (Contributi alla filosofia, traduzione di Franco Volpi e Alessandro Iadicicco, Adelphi 2007):
«Caro Massarenti, (...) Al mio ritorno [da Santiago del Cile] ho parecchie cose da raccontarti: la mia introduzione ai Beiträge (che stanno uscendo da Adelphi) è stata considerata troppo critica dal figliastro di Heidegger e censurata. È ancora in corso una trattativa per tentare di salvare capra e cavoli (dunque ti pregherei di mantenere ancora assoluto riserbo sulla questione), ma davvero mi viene voglia di seguire l'esempio di Maurizio Ferraris e scrivere un libello: Good-bye Heidegger. A Santiago del Cile, dove vado per una conferenza di chiusura al congresso di fenomenologia ed ermeneutica, volevo parlare di Heidegger e Wittgenstein, ma ho deciso cambiare tema e ho dato come nuovo titolo proprio questo: "Good-bye Heidegger. La mia introduzione censurata ai Beiträge"».
Era l’11 ottobre 2007. Qualche tempo più tardi, il 18 novembre, dopo ulteriori scambi, Franco Volpi spedì a Massarenti il brano più significativo che era stato censurato, rimasto finora inedito. Lo proponiamo qui per la prima volta. È un paragrafo dell’introduzione ai Contributi alla filosofia intitolato «Naufrago nel mare dell'Essere».


I «Contributi alla filosofìa»? «Il diario di un naufragio. Avventurandosi troppo in là nei mari dell'Essere, il suo pensiero va a fondo»
L’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Heidegger, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi alla filosofia. È forse un caso che Heidegger ponga in esergo ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961) una epigrafe tratta dall'Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Contributi? Questi terminano con una "fuga" che tratta dell'ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione: «Quasi due millenni e non un solo nuovo dio!».
Forse Heidegger non è più riuscito a risollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche. Nella triste luce dell'esaurimento, l'Essere - quest'ospite solitamente fugace dei nostri pensieri - rimane per il grande Heidegger l'ultima chimera che valga la pena di sognare. Tutti i suoi sforzi mirano a quest'unica meta, l'Essere, ma i sentieri si sono interrotti. La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo "procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofìsta, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose - l'Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo - soffiando sul mito greco-germanico dell'originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l'aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell'etimologia si rivela un abuso (...). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l'uomo funge da pastore dell'Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell'ultimo Heidegger, bensì l'ammirazione supina e spesso priva di spirito critica che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Certo, i comuni mortali spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero allora davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell'Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime.

il manifesto 1.4.11
Mario Trevi interprete di Jung. Nel simbolo l’unica logica della psiche
di Paulo Barone


Con la scomparsa di Mario Trevi il tempo inghiotte uno degli ultimi rappresentanti della cultura psicoanalitica ancora in grado di lasciarne trasparire il pensiero dei personaggi fondatori, di illustrarne con dovizia i temi senza alcun tecnicismo, di seguirne le peripezie dottrinarie con crescente autorevolezza, sino a tratteggiarne - soprattutto negli anni della maturità - una versione originale (una sorta di scabro ologramma) dalle molte punte problematiche. Trevi raggiunse questo risultato lavorando ai fianchi l'immenso giacimento degli scritti di Jung - della cui corrente qui in Italia divenne presto un caposcuola riconosciuto. Con pazienza e costanza lo tradusse, lo introdusse, lo scompose, lo ritagliò, ne mise in risalto le stratificazioni e le contraddizioni, ne espunse le parti giudicate ormai sterili e incartapecorite, al fine di estrarne un concentrato che potesse essere ancora elettrico e vitale ( operazione che gli attirò molte critiche). E tuttavia questo metodico lavoro di riduzione non deve trarre in inganno: non sfociò mai nell'angusto recinto di un sapere specialistico dove riservarsi il ruolo di esperto - cosa possibile - perché fu molto più di ciò che sembra. In quel setaccio a imbuto, infatti, Trevi fece confluire, oltre all'opera di Jung, gran parte della sua ricca e variegata esperienza. Così facendo è evidente che, da un lato, il distillato ottenuto sia stato di una densità speciale - poche «gocce» del quale sprigionano una molteplicità di passaggi e connessioni. Ma è altrettanto chiaro, d'altro canto, che Trevi applicò questa arte del sottrarre e del ridurre innanzitutto a se stesso, trovandovi la propria, più congeniale dimensione. Chi lo ha conosciuto di persona ricorderà la sua fondamentale ritrosìa caratteriale, per nulla mitigata, ma addirittura esaltata dalla sua, altrettanto proverbiale, cerimoniosità. La sua immagine di Bernhard. Nato ad Ancona nel 1924 da una famiglia per metà ebrea che, dopo la morte del padre ingegnere, divenne povera anche in seguito alle leggi razziali, Trevi si laureò a Bologna in filosofia con una tesi su Berdjaev. Si era iscritto al partito comunista, ma ne fuoriuscì nel 1948, insofferente alla coercizione ideologica che vi regnava. Colto quant'altri mai, era un lettore vorace, curioso, tanto da studiare, almeno per due anni, anche la matematica. Nel frattempo si trasferì a Roma, dove, tra lavori vari e l'insegnamento nei licei, entrò in analisi con Ernst Bernhard, il pediatra ebreo berlinese amico-allievo di Jung (ma in precedenza anche dei freudiani Fenichel e Rado) in fuga dalla persecuzione nazista, che proprio a Roma diede origine al primo nucleo di analisti junghiani. Bernhard era una personalità complessa, indipendente, eterodossa, piuttosto misteriosa e non priva di elementi contraddittori (era, tra l'altro, un esperto di chiromanzia e di astrologia, dell'I Ching ). Si dice che nessuno l'abbia conosciuto per intero, poiché ogni allievo, a seconda della sua inclinazione, ne ricavava una particolare, determinata immagine. Quella che se ne fece Trevi era emblematica per il modo con cui arrivò a metterla a punto, in un gioco di avvicinamento e di scarto, di «adesione e distanza» (come recita il titolo di un suo libro). Dal blocco ricco e composito della figura di Bernhard, Trevi sfilò e valorizzò il lato irrazionalistico (la cultura religiosa, biblica e chassidica, la mistica cristiana, Scheler e Buber, Lutero e Luria, per esempio), ma solo per farlo 'chimicamente' reagire contro l'asfittico storicismo accademico dell'Italia di allora. Di quello stesso blocco, però, seppe valorizzare allo stesso tempo anche un lato freudiano, 'materialista', immanente che pure era presente in lui. Un lato che risentiva della lezione di Spinoza e di Goethe, di Nietzsche e di Jaspers, ma anche di un certo Marx, per mostrare innanzitutto i limiti dell'antropologia, ancora celatamente e ingenuamente naturalistica, di Jung, certi suoi orizzonti metafisici 'ristretti' a dispetto delle dichiarazioni di intenti. Il procedimento seguito da Trevi sfruttava insomma il contesto implicito, ma non come semplice sfondo. Utilizzava elementi precedentemente 'disaggregati' e (apparentemente) contrastanti di Bernhard per 'disaggregare' - ora con l'uno, ora con l'altro - altrettanti blocchi, quello della cultura dominante e quello di Jung, che altrimenti avrebbero conservato una funzione puramente decorativa o celebrativa. L'immagine di Bernhard che alla fine emerge dalla ricomposizione dei pezzi selezionati è vibrante, liberatoria, senza essere né del tutto fedele, né esaustiva. Al tempo stesso è un'immagine conturbante, perché non permette accasamenti, identificazioni, rispecchiamenti. I punti che la tengono assieme non sono definitivi, ma transitori. Sono «nodi che non legano» - per usare un'espressione di Simone Weil. È questo, del resto, lo stile di Trevi: fatto di una attenzione certosina, di un periodare terso e sorvegliato, di una scrittura sempre volutamente piana e intellegibile con cui dà conto del reperimento dei singoli pezzi, che nascondono a stento lo smottamento sistematico cui il blocco di partenza è sottoposto, la precarietà dell'equilibrio raggiunto. Anche da questo si intuisce lo junghiano davvero sui generis che Trevi è stato. Certamente ha seguito Jung nel suo dissidio con Freud riguardo alla pretesa di quest'ultimo di ricondurre l'insieme multiforme dei fenomeni psichici a un unico significato nascosto sotto l'ombrello di una teoria esclusiva. Ma non perché di significati ce ne siano invece molti e 'originari' - come riteneva lo Jung degli archetipi e dell'inconscio collettivo (in questo più freudiano di Freud). Muovendo, piuttosto, contro Jung un altro Jung, minoritario e meno appariscente, (in un modo analogo al Lacan contro Lacan di Miller) e portandone alle estreme conseguenze l'idea secondo cui ogni verità psicologica non può prescindere dal - ed è sempre relativa e limitata al - soggetto che la esprime, Trevi svuota l'inconscio di qualunque residuo sostanzialistico. La vita psichica è senza «contenuti» di sorta e, come tale, letteralmente «inspiegabile». Ciò che la organizza - allusivamente, elusivamente, al massimo ipoteticamente - è la logica componente del simbolo, che riunisce gli opposti polari (a cominciare da coscienza e inconscio), avvolgendo, complicando, alimentando i percorsi necessariamente uni-direzionali del pensiero razionale e i comportamenti unilaterali dell'Io. Ciò che la regola è pertanto un solo e unico «universale»: l'incertezza costitutiva del dialogo, la tensione costante di una «dialettica» aperta e inesauribile, un lavoro di integrazione e differenziazione (detto processo di
individuazione) in linea di principio infinito. I rischi di un dispotico monologo. Naturalmente ci sarebbe da chiedersi fino a che punto una simile impostazione possa sostenersi della semplice quota viva di Jung, senza mai porsi il problema di come stoccare i residui che provengono dalla sua gigantesca frazione morta (e in quanto tale, da «morta», dotata persino di un fascino supplementare, inaspettato). Oppure se la singolarità di un individuo psichico sia davvero garantita da nozioni come «infinità» o «inesauribilità» e non piuttosto dalla loro versione fallita di «finitezza» e «esaurimento». Se «dialogo» non sia un termine logorato e fuorviante. A Trevi obiezioni del genere parevano rinviabili, non urgenti. Lui paventava soprattutto il rischio secolare del mono-logo dogmatico e dispotico. Il suo autentico luogo d'elezione fu così quello del «tra» (del metaxù, termine non a caso scelto per la rivista che fondò nel 1986). Da quella minima, esitante, ma anche micidiale postazione si augurò che alla scuola e all'epoca del sospetto potessero finalmente far seguito quelle più miti e davvero innovative della diffidenza, se è vero che, come Trevi - seguendo Tommaseo - amava ripetere, si sospetta di una donna che ci tradisce, mentre si diffida di una che potrebbe tradirci. Per quanto infinitesima, sarà difficile per chiunque, d'ora in poi, pensare di ignorare quella piccola postazione incandescente, che soltanto il suo inquilino naturale - tra i più squisiti - ha potuto abitare senza bruciarsi.
Un filosofo eterodosso impegnato a indagare il policentrismo dell'Io
Stefano Catucci
Con la consueta levità Mario Trevi amava definire le sue ricerche come esercizi pratici, puramente empirici, privi di ambizione filosofica e da valutare solo in rapporto alla loro eventuale efficacia operativa. Difficilmente, però, una filosofia che volesse studiare oggi i percorsi dell'individuazione, della costituzione del sé e della relazione intersoggettiva potrebbe evitare il confronto con il lavoro compiuto da Trevi. È probabile che la sua ritrosìa nascondesse, da questo punto di vista, un'esigenza di libertà e di affrancamento dai lacci tipici della cultura d'accademia: non lo si poteva inquadrare in una corrente o in un indirizzo di pensiero, così come non lo si poteva rinchiudere nell'appartenenza a una scuola, neppure a quella junghiana. Mario Trevi è stato un filosofo eterodosso, autonomo, capace di attingere a una varietà di fonti che corrispondevano, per lui, allo spontaneo policentrismo dell'Io. Trovavano spazio nel suo bagaglio autori di ogni orientamento che allontanassero dall'immagine razionalista di una coscienza vigile, trasparente, sicura di sé e del proprio essere al punto da potersi proporre come fondazione dell'unità del sapere. Guardava a un panorama composito nel quale l'«idea russa» di Nikolaj Berdjaev compariva accanto al Lévinas di Totalità e infinito, lo Spinoza dell'Etica veniva posto in dialogo con il concetto di Rizoma nelle opere di Deleuze e Guattari, il soggetto debole delle filosofie del postmoderno veniva esposto al ritorno di Seneca e dello stoicismo nei lavori dell'ultimo Foucault. La composizione di tutti questi stimoli non si è mai tradotta, però, in una professione di eclettismo. Trevi, al contrario, ha impiegato ogni frammento concettuale come uno strumento utile a vedere meglio nell'orizzonte dell'individualità, ovvero in ciò che per lui rappresentava il motivo di interesse principale tanto negli studi teorici quanto nel quotidiano ascolto dei suoi pazienti. Il «riconoscimento del valore irriducibile dell'esistenza», ha scritto, è l'elemento «più tipicamente occidentale dell'anima umana» ed è ciò che scava la maggiore differenza con la cultura orientale, la cui volontà di trascendere l'individuo nello «spirito universale» ci sgomenta e ci attrae proprio per la sua carica di estraneità fondamentale. L'attenzione che ha dedicato all'Ombra, concetto chiave ma sommamente ambivalente del pensiero junghiano, rivela d'altra parte come Trevi abbia scelto di percorrere proprio una via rimasta ai margini dell'anima occidentale per estendere il contributo della psicologia analitica ben al di là dei suoi confini disciplinari e dargli la forma di un'intuizione filosofica. Questa, per Trevi, non rinuncia a universalizzarsi e non rinuncia al compito della comprensione, ma non si lascia neppure stilizzare nella cornice chiusa di una teoria. Il problema dell'«origine dell'Ombra» coincideva, per lui, con quello della «configurazione generale della psiche», per cui avanzare ipotesi sul senso di quel lato scuro significa passare per un sentiero di rovi ma in direzione, pur sempre, di ciò che da secoli rappresenta l'ossessione principale, e forse nevrotica, del pensiero occidentale. Lungo una linea che permetteva di tesaurizzare tanto il pensiero Lévinas quanto La grammatologia di Derrida, Trevi ha tematizzato l'apertura al contingente, all'accidentalità dell'esistenza e alla sua incontrollabile eventualità. Il concetto di Ombra arricchiva questa apertura di quelle componenti «inferiori» della personalità, relegate nell'inconscio o formativamente trasformate dall'attività simbolica, dalle quali derivava un'immagine della psiche complessa, stratificata. Bachelard ne aveva tentato una volta la descrizione ricorrendo a una pagina nella quale Jung paragona la struttura dell'anima a quella di un edificio storico. «Il piano superiore è stato costruito nel XIX secolo - scriveva Jung - il pianterreno è del XVI e un esame più minuzioso della costruzione mostra che essa è stata innalzata su una torre del II secolo», mentre «nella cantina scopriamo fondazioni romane» e sotto ancora «una grotta colmata, sul cui suolo si scoprono utensili di selce e, nello strato inferiore, resti di fauna glaciale». Trevi ha cercato di depurare immagini come queste dai loro residui di storicismo, nei quali poteva ancora scorgersi all'opera una logica della causa e dell'effetto, ma non ha mai perso di vista la «configurazione generale» della psiche facendola emergere dalla composizione dei dettagli in un disegno che, come i mosaici più preziosi, può essere visto nel suo insieme solo collocandosi a una giusta distanza. È in fondo l'unica consolazione che abbiamo, oggi, nel momento in cui è stato tracciato il punto da cui Mario Trevi comincia ad allontanarsi da noi.
Manifesto del 1/4/2011


 Un testo dell'autore di "Come un uomo sulla terra"
il Fatto  7.4.11
Li avete uccisi voi Ecco il “fora dai ball”
Sparati come proiettili dall’ex amico Gheddafi
di Andrea Segre


Provo ad ascoltare il silenzio. Cerco un perché, un dove, un come. Sento il vibrare doloroso del non poter dire. Non oso più credere al senso delle parole. Il rumore del mare è più forte. È immenso, infinito, non lascia più alcuna via di scampo all’evidenza del tragico. Che senso ha oggi, di fronte a questa nuova annunciata tragedia, ricordare di averlo previsto? Tutto. In tanti avevamo detto tutto. Raccontato, mostrato , ricordato. Centinaia di volte. Ma perché? Perché, dico io, abbiamo voluto credere che il potere disumano dei “fora dai ball” davvero potesse ascoltare? Perché abbiamo avuto fiducia nella loro assenza di umanità? Non dovevamo: abbiamo solo alimentato illusioni. E oggi il silenzio profondo del mare è più forte. Immenso.
Ma in questo silenzio rimane ancora un’ultima parola da alzare alta, vibrante e quasi immobile, come la morte: li avete uccisi voi. Non c’è alcun dubbio. I profughi eritrei, etiopi, sudanesi, ivoriani partiti da Zuwhara e morti affondati nel più grande cimitero della post-modernità, il Mediterraneo, sono esattamente quelli che il governo italiano ha respinto dal maggio 2009, impedendo loro di avere protezione umanitaria e consegnandoli alle carceri e alle violenze del regime libico.
ERA DAL 2006 che l’Italia aveva notizie chiare e provate di violenze disumane perpetrate dalla polizia libica ai danni dei migranti: deportati in container, detenuti, violentati, privati di qualsiasi diritto e identità. Ma a nulla sono servite quelle notizie per fermare gli accordi con Gheddafi. Lo scopo era uno solo: “Fora dai ball”. In centinaia continuavano a cercare la fuga via mare, incontrando spesso la libertà, ma molte volte anche la morte. Rischiavano la morte pur di fuggire: e l’Italia invece di salvarli, li ha definitivamente consegnati al destino libico. In quello stesso mare-cimitero sono iniziati i respingimenti: “State fuggendo dall’inferno rischiando la vita? Noi vi rispediamo all’inferno: fora dai ball”. Dal maggio 2009 al febbraio 2011 il loro calvario in Libia è diventato assoluto e senza via di scampo. Come corpi di animali in un Paese governato da un regime. Poi nel febbraio 2011 quel regime è stato finalmente attaccato dal suo popolo ed è diventato improvvisamente nemico dell’Italia; in questa nuova situazione quei corpi animali si sono trovati in completa balia di una situazione di confusione bellica, minacciati come “mercenari” e privi di alcuna via di fuga. Gli altri stranieri (i lavoratori egiziani, tunisini, cinesi e altri) sono fuggiti dalle frontiere via terra: molti di loro non potevano o perché non ne avevano i mezzi o perché rischiavano la vita ad uscire allo scoperto. Poche settimane fa al telefono dalla Libia una donna eritrea ce l’aveva raccontato chiaramente : “Qui rischiamo la vita; dobbiamo stare in casa e non abbiamo nemmeno il latte per i nostri bambini. Aiutateci”. L’Italia doveva farlo: la sua responsabilità storica e politica era evidente. Ha cominciato a farlo portando con due voli c130 poco più di 100 eritrei. Ma l’ha fatto in silenzio, per non contrastare le voci potenti dei “fora dai ball”. E presto ha smesso di farlo. Li ha lasciati lì. E ha iniziato a bombardare.
SOTTO i bombardamenti il regime di Gheddafi ha iniziato a sfaldarsi e ha deciso di contrattaccare. Usando anche i corpi dei profughi come proiettili umani. Ha deciso di lasciarli passare. Via mare. Piccole, vecchie barche hanno iniziato a partire dalle spiagge libiche. E in mezzo al Mediterraneo hanno incontrato il loro destino: il mare, l’immenso silenzioso mare. Li ha uccisi il mare? No. Li hanno uccisi i signori “fora dai ball” e il loro ex amico dittatore. Li hanno uccisi loro. Ma con loro, purtroppo, anche la più tragica condizione umana a cui è ridotta la nostra civiltà: esser convinti che la protezione del nostro privilegio sia più importante della vita umana. A qualsiasi costo, “fora dai ball” e dentro al mare. Sia chiaro una volta per tutte: se la nostra civiltà non sarà capace di liberarsi da questa condizione e di riscattare la sua dignità, non potrà che continuare a produrre poteri xenofobi e tragedie umane. E ora per favore, silenzio. Proviamo ad ascoltarlo. Cerchiamo almeno in questo silenzio la forza di ricominciare a essere civili.

La Stampa 7.4.11
Immigrazione tragedia senza fine
Quella fossa comune sotto il Canale di Sicilia
L’ultimo tratto della traversata è il cimitero per migliaia di migranti
16.000 Dal 1988, secondo l’osservatorio «Fortress Europe», quasi 16mila tra uomini, donne e bambini sono morti cercando nel Mediterraneo di raggiungere l’Europa
di Francesco La Licata


Chi arriva dal mare aggrappato ad una delle carrette incredibilmente galleggianti, intravede la sagoma di Lampedusa e si illude di averla sfangata. Anche ingannato dalla «fortuna» di essere riuscito a vincere la fame, la sete, le ustioni inflitte dal sole del Sahara e la lunga permanenza nelle «stazioni di sosta» del Nord Africa, in attesa dell’improbabile «comandante» che ha promesso il biglietto di sola andata verso l’Europa. Una promessa che spesso costa al passeggero quanto tutto ciò che possiede.
E invece è proprio quel tratto di mare, l’ultimo prima della terraferma, che ingoia il sogno dei migranti disperati. Un gorgo scuro che da più di quindici anni si nutre, come il mostro delle favole crudeli, di corpi già debilitati da una vita infame. Il Canale di Sicilia: cimitero comune di anonime vittime sacrificate sull’altare delle «diversità incolmabili» generate dalle sperequazioni economiche, politiche e sociali. Ogni volta assistiamo alla rappresentazione della morte collettiva e alla conseguente indignazione.
A Lampedusa nessuno crede più che il naufragio del giorno prima possa essere considerato «l’ultima tragedia». Ormai tutti sanno che ce ne saranno ancora altri, che i commercianti di uomini non esiteranno a caricare barche destinate al macero, all’ultimo viaggio, con una «merce» umana esposta a un incertissimo destino. E’ accaduto pure di mettere in mare barconi senza marinai, una bussola a qualcuno dei passeggeri e il consiglio fugace: «Questa è la rotta, seguitela».
C’è stato un momento - un decennio fa - che l’Isola riusciva ancora a inorridire. Il racconto dei pescatori, che tornavano con le reti piene di pesci pescati insieme coi resti di una umanità condannata alla morte anonima, si snodava quasi sottovoce. Per non creare psicosi collettive, come una certa riluttanza a consumare pesce locale. Eppure c’è chi ricorda ancora la descrizione di corpi mutilati e gettati nuovamente in mare per sfuggire all’ottusa burocrazia poliziesca, capace di infliggere un supplemento di «costo» ai pescatori/ soccorritori che - fedeli alla legge della solidarietà del mare - raccoglievano morti e vivi.
Secondo un calcolo di «Fortress Europe», sarebbero 4249, uomini, donne, bambini, giovani e anziani, i corpi inghiottiti dal Canale di Sicilia, lungo la rotta fra Tunisia, Libia, Egitto e Malta, che quasi mai interviene per soccorrere. Solo una sparuto numero di questi ha trovato ospitalità nel «cimitero degli sconosciuti»: una manciata di terra, una cassa di legno grezzo, un numero impresso su un foglio bianco e - quando va bene - un fiore di plastica che presto sarà divorato dalla salsedine.
E il resto? Quelli partiti dalla Somalia nel 2003 e mai arrivati? E la barca partita da Chott Meriem, in Tunisia? Eppure col telefonino in tanti avevano chiamato i parenti più fortunati per dire che «ce l’avevano fatta», cioè si erano imbarcati. E tutti quelli avventuratisi tra febbraio e marzo? Ne mancano più di 600 all’appello e per lenire l’enorme ferita vengono destinati nellimbo dei dispersi. Cioè non sono né vivi né morti. Aiuta la statistica rifugiarsi nell’ambiguità del termine. E’ dalla fine degli Anni Novanta che si accumulano dispersi su dispersi e ogni volta si ricorre al rito del lavaggio della coscienza con l’ammissione collettiva che «La tragedia poteva essere evitata».
Lampedusa si sta abituando a tutto, divisa tra la paura dell’esodo biblico che potrebbe invaderla completamente e il senso di pietà verso uomini, donne e bambini che si sottopongono ad una prova estrema nella speranza di farcela. C’è esperienza più crudele di dover gettare in mare i corpi di compagni di viaggio uccisi dalla fame e dalla sete? Tutti ricordano ancora lo scempio del 2003, a Lampedusa. Un barcone recuperato miracolosamente consegna quindici migranti ridotti allo stremo da una traversata durata 18 giorni. Ma nel fondo dello scafo i reperti di una strage lenta: una borsa, una falsa griffe, foto di bambini sorridenti, documenti senza più i titolari, una boccetta di profumo. Più di sessanta mancano all’appello, altri 13 sono a bordo, morti. «Li abbiamo tenuti sopra di noi, per proteggerci dal freddo», ammettono i superstiti. Ma, fra tanto orrore, uno squarcio di luce quando qualcosa si muove in mezzo al mucchio di cadaveri. Come Lazzaro, emerge Fatima che sembra un fantasma. Ce la farà miracolosamente e oggi vive a Palermo. Oggi c’è pocospazio per il lieto fine: le ha provate tutte, questa umanità dolente. Persino le donne e i bambini si sono aggrappati alle reti delle tonnare per essere soccorsi. Sono arrivati genitori senza figli e bambini senza genitori, affidati al mare e alla umana pietà. Ma è veramente salvo chi sfugge alla fossa comune del Canale?

La Stampa 7.4.11
La legge della disperazione
di Ferdinando Camon


Ora sappiamo la «verità» sull’immigrazione. Credevamo di saperla anche prima, ma era una bugia.
Finora la verità erano le migliaia di immigrati che s’accumulavano a Lampedusa, tanti da superare gli abitanti dell’isola, il loro bisogno di tutto («sono miserabili»), le loro pretese («sono intrattabili»), le loro rampicate su per le reti di recinzione, fino a scavalcarle e scappare per i campi, vanamente inseguiti dalla polizia a piedi o a cavallo, come nei film tra California e Messico.
Quella non era la verità, era un’apparenza. Perché faceva credere a noi e a tutta l’Europa che arrivasse un’umanità pericolosa e non integrabile, una minaccia per il decoro del nostro benessere. Scattava l’istinto di tenerli alla larga. Era l’istinto di conservazione, tanto più forte quanto più alto è il benessere da conservare. Questa strage di circa duecento uomini, donne e bambini, annegati in un crudele gioco di su e giù sulle onde di tre metri, ci butta in faccia una verità brutale che i nostri cervelli e i nostri nervi, intorpiditi dalla civiltà borghese nella quale siamo nati e nella quale moriremo, non ci permette più di cogliere. Ci metteremo giorni a capirla un po’, a ogni tg capiremo qualcosa di più. Non capiremo mai tutto, perché i tg evitano di spaventarci, di farci del male. E la strage fa male. Solo sapere che è avvenuta e che può ripetersi turba la nostra vita, non ci permette più di vivere come prima. Ora sappiamo che non scappano da una vita misera. Scappano dalla morte, e attraversano la morte pur di scappare.
Se la vis a tergo fosse un miglioramento della vita, non potrebbe spingerli per giorni e notti, farli navigare senza direzione, mal guidati da qualche rudimentale strumento che fa della loro navigazione un lungo tuffo nel buio fra acqua e cielo. Spesso il motore si rompe, manca l’acqua, e loro si mettono a pregare, singolarmente o in coro. È la «morte lenta», che può durare anche giorni e giorni. Fino a diventare indefinibile: in qualche salvataggio si scopriva che a bordo c’era qualcuno già morto da tempo, che i vivi non avevano le forze per sollevarlo oltre la sponda. Altre volte dai racconti si poteva dedurre che qualcuno era stato buttato fuori della barca senza la certezza che fosse morto.
La strage di ieri entra invece nella «morte rapida», resa più crudele dal fatto che è avvenuta in prossimità della salvezza. Han visto arrivare nel buio, ombra nell’ombra, la nave che li soccorreva, si sono spaventati, nel panico si sono spostati in massa dentro l’imbarcazione capovolgendola. Era la salvezza, è diventata la morte. Ci sono transiti dalla vita alla morte che sono governati senza pietà. La «morte rapida» è sempre uno scontro con la natura, gli uomini usano le loro forze e la natura le sue: gli uomini perdono tutti, ma per primi perdono i più deboli, i bambini e le donne. Così qui è successo che alcuni salvati han visto morire la moglie e i figli. Dobbiamo fare ancora un altro passo, se vogliamo capire fino in fondo cos’è la migrazione: le disgrazie come questa (annegare in massa) tutti i migranti sperano che non avvengano, ma un pezzettino del loro cervello, un pezzettino inascoltato e nascosto, sa sempre che non sono impossibili. Si parte con quella spia accesa nel cervello. Con quei barconi stravecchi, tra quelle masse umane vaneggianti e inesperte, noi pensavamo che le loro partenze notturne, via una barca sotto l’altra, fossero una sfida a noi, alla polizia, alla finanza, una questione di ordine pubblico.
Per loro sono una sfida al destino, una lotta tra la vita e la morte. Se uno ce la fa, salva se stesso e coloro che da lui verranno. Abbiamo visto in passato barconi sfracellarsi sugli scogli, otto-dieci fortunati scendevano, e raccontavano dei compagni morti nella traversata: ma quelli che scendevano alzavano due dita in segno di vittoria. L’Italia e l’Europa ci mettono tutta la forza delle leggi e dei trattati per impedirgli di venire qui. Ma loro ci mettono la forza della disperazione per venire. Lo scontro è fra queste due forze. Ora lo sappiamo.

l’Unità 7.4.11
ANPI NAZIONALE
Sull’apologia del fascismo


A proposito del Disegno di Legge costituzionale, depositato alla Segreteria di Palazzo Madama da cinque senatori della destra, volto ad abolire la XII Disposizione transitoria della Costituzione Repubblicana che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del partito fascista”, l’ANPI (Associazione nazionale Partigiani d’Italia) denuncia questo proposito odioso e provocatorio.
Si tratta dell’ennesima aggressione alla Costituzione, la più dissennata tentata dalla destra e dal suo governo. Sul fascismo e sui suoi misfatti di dittatura, miseria, guerra, occupazione straniera del Paese, torture, crimini e stragi, pende implacabile e incancellabile da ogni revisionismo il giudizio della storia. Sull’Antifascismo, sulla Resistenza e sulla Liberazione fondano la Costituzione, la Repubblica e la Democrazia riconquistata! Contro l’esecrabile tentativo di riaprire la porta alla costituzione del partito fascista e di abolire il reato di apologia del fascismo, l’ANPI chiede la mobilitazione unitaria in tutto il Paese dei partigiani, degli antifascisti e delle loro associazioni insieme alle forze della politica, della cultura, dei sindacati e dell’associazionismo democratico.

il Fatto 7.4.11
Nostalgia nera in Parlamento
Fascisti sì, e non per caso
Chi rimpiange davvero il partito del Duce
di Chiara Paolin


L’hanno fatta grossa, e adesso tentano di riderci su. "Ma scusate un attimo: è stato Fini a proporre tante volte di abolire il reato di apologia del fascismo. Lo so bene, perché c'ero anch'io con lui. E almeno fino al 1994 se ne parlava tranquillamente: il fascismo è storia passata, possiamo metterla da parte". Parola di Achille Totaro, senatore Pdl di area An, cofirmatario del disegno di legge per la “Abrogazione della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione" presentato lo scorso 29 marzo e subito diventato un caso politico. Ma perché metter mano alla norma sul fascismo proprio ora? "Mah, era una proposta tra le tante, una di quelle che capita di firmare quando un collega prepara un documento e ti chiede di condividerlo spiega ancora Totaro pigiando forte sulle aspirate da toscanaccio -. Nessuno immaginava si scatenasse tutto 'sto putiferio, dico la verità".
EPPURE un po' d'attenzione ci voleva nel maneggiare la materia ideata da Cristiano de Eccher, primo firmatario della norma revisionista e personaggio su cui si sono allungate pesanti le ombre del passato più tragico della destra italiana. Nota la sua vicinanza al terrorista nero Franco Freda, inquietante l'ipotesi formulata dal giudice Guido Salvini su un suo ruolo d'appoggio nella strage di Piazza Fontana, certa la condanna a due anni di carcere per attività eversive. Storie vecchie, e ora il senatore De Eccher non ha voglia di parlare con nessuno.
DOPO UNA NOTA con-giunta con i colleghi di firma, in cui spiega che nessuno di loro “ha mai pensato di avviare una battaglia di tipo ideologico fuori dal tempo e dalla storia”, ha deciso di tacere. Come mai? “Io ci ho parlato, ma non mi faccia dire nulla” ridacchia Francesco Bevilacqua, altro senatore che non vuole più sentir parlare di apologia del fascismo nella Costituzione italiana. “Siamo di fronte a una sceneggiata bella e buona insiste Bevilacqua -, ma forse un errore l’abbiamo fatto: siamo tutti ex An ad aver firmato, e allora può sembrare che il tema interessi solo a noi. Garantisco che non è così, potevamo sicuramente raccogliere adesioni tra altri colleghi di provenienza diversa dalla nostra. E precisiamo: a firmare siamo stati ex An, ma sia di area Alemanno che Gasparri. Quindi non era un fatto politico, ecco”. Ma lo è diventato. Perché i firmatari si sono divisi in due gruppetti distinti: da una parte i cinque del Pdl e dall’altra un Fli, ovvero il lucano Egidio Digilio che subito dopo le prime accese reazioni ha deciso di ritirare la sua firma. “Lo hanno costretto, o comunque gli hanno fatto capire che era meglio cambiare idea infilza Totaro -. Questo sì che è un atteggiamento fascista, e per questo io preferisco stare nel Pdl”. Partito che però non ha gradito particolarmente l’iniziativa: il presidente del Senato Schifani si è dichiarato esterrefatto dopo aver letto il testo della proposta, e anche a livello locale i guai non mancano. Giorgio Bornacin, coordinatore del Pdl a Genova, è stato duramente attaccato. “Deve dimettersi immediatamente” ha detto la consigliera regionale Raffaella Della Bianca. “No, il tema è attuale e importante” ha replicato Gianni Plinio, altro collega Pdl. La verità è che il senatore Bornacin è un uomo dai grandi slanci emotivi. Due anni fa, quando il ministro della Difesa La Russa era in visita tra i vicoli della sua città e un giovane contestatore gli si era avvicinato un po’ troppo, il Bornacin è scattato di destro: “Mi scuso per il pugno, forse ho esagerato disse allora -, ma ho avuto paura per il ministro e per i poliziotti. Ero stato avvertito che c’era un pazzo in giro con un coltello, il pugno l’ho dato perché ho visto quell’uomo rovistare tra le gambe dei poliziotti. E comunque, non mi dimetto”.
COERENZA vuole che nemmeno stavolta voglia farsi da parte, anche perché il periodo è fecondo: Bornacin ha appena lanciato l’Apired, l’Associazione Parlamentare di Amicizia Italia – Repubblica Dominicana cui hanno già aderito “una trentina di parlamentari di varie formazioni politiche”, come ha informato un puntuale comunicato stampa. E certo occuparsi dei rapporti italo-domenicani sarà un buon modo per lenire le urticanti polemiche di questi giorni. Perché, a dir la verità, ora i prodi sostenitori del disegno in questione sarebbero pronti a ritirarlo pur di calmare gli animi. Ma proprio adesso che il responsabile Scilipoti fa tornare d’attualità il manifesto dei valori fascisti? “Bisogna coinvolgere Di Pietro a questo punto chiude il cerchio Bevilacqua -. Perché qui ormai è tutto da ridere. Ma se qualcuno pensa di isolare noi ex An dentro Il Pdl ha sbagliato i conti”. In Abruzzo, dove è stato eletto il quinto firmatario Fabrizio Di Stefano, non c’è molta voglia di scherzare. Maurizio Acerbo, consigliere regionale Prc, torna alla storia ed è preoccupato: “Il fatto che il senatore Di Stefano si dichiari “né antifascista, né fascista” non è una dichiarazione di agnosticismo ma di istintiva distanza dai valori democratici della Resistenza e dell’antifascismo. La XII disposizione non è una norma anacronistica e il fascismo non è un “fenomeno storico circoscritto” visto che vi sono in tutta Europa gruppi e movimenti neonazisti dentro un contesto di crisi economica che alimenta violenze xenofobe e razzismo”.

La Stampa 7.4.11
Scilicopia e Scilincolla
di Massimo Gramellini


Il programma dei Responsabili è copiato di sana pianta dal manifesto degli intellettuali fascisti del 1925. Incredibile. Non tanto per il riferimento ai fascisti, ma agli intellettuali. Uno non fatica a immaginarsi la scena: Scilipoti alla scrivania con la matita in bocca e gli occhi al soffitto. Responsabilità nazionale è… è… è… Ah, saperlo. All’improvviso, la luce: perché non inserire una parola-chiave su Internet, come uno studente in cerca di ispirazione? «Manifesto», per esempio. Orrore! Sullo schermo è comparso il barbone di Marx. Un momento… più in basso affiora il filosofo Gentile col manifesto degli intellettuali fascisti da lui ispirato. Leggiamo un po’… «Il fascismo è il movimento recente e antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della nazione». Scilipoti ha un sussulto: parla di me! Chi è più recente e antico della nostra simpatica combriccola di voltagabbana? Chi più intimamente connesso alla storia della nazione? Il leader recente e antico pigia il tasto «copia e incolla» e il più è fatto. Giusto un paio di ritocchi. «Responsabilità Nazionale» al posto di «Fascismo», che come soggetto è un po’ datato. Anche «intimamente» va sostituito perché fa venire in mente il bunga bunga. Meglio «internamente»: orribile e casto.
Tra una scopiazzata e un’incollata si approda al gran finale. Gentile aveva scritto: «La patria è concezione austera della vita». Scilipoti lo personalizza con la sua griffe inimitabile: «Responsabilità è concezione austera della vita». Ci piace sperare che a quel punto gli sia almeno venuto da ridere.

il Fatto 7.4.11
1° Maggio. La Cgil festeggia senza Cisl e Uil
di Salvatore Cannavò


La Cgil di Bologna "strappa" con Cisl e Uil e decide di tenere la manifestazione del 1° maggio da sola. Allo stesso tempo il suo segretario nazionale, Susanna Camusso, propone a quegli stessi sindacati di riprendere un rapporto unitario e viene gelata dal segretario Cisl, Raffaele Bonanni che risponde con un "no comment". Le relazioni sindacali non sono mai state così in crisi: divise su Pomigliano e Mirafiori, Cgil, Cisl e Uil alternano tentativi di riappacificazione a veri e propri scontri. A Bologna la decisione è giunta a sorpresa. “Non ci sono le condizioni per una gestione tradizionale del primo maggio” ha spiegato il segretario della Camera del Lavoro, Danilo Gruppi. A pesare sui rapporti unitari, la firma dell'accordo con la Fiera di Bologna da parte di Filcams-Cgil e Usb senza Cisl e Uil che a loro volta hanno siglato il contratto nazionale del Commercio escludendo la Cgil. Dal canto suo, Bonanni, pur bollando come "estremistica" la decisione bolognese l'ha voluta circoscrivere a livello locale confermando che la manifestazione nazionale – prevista a Marsala in onore del 150° dell'unità d'Italia – sarà unitaria e non sarà inficiata da fatti come quello consumato sotto le Due Torri. Ma, se l'esponente della sinistra Cgil, Giorgio Cremaschi, chiede “un 1° maggio separato ovunque”, Enrico Panini, segretario organizzativo della Cgil, specifica che la volontà unitaria di Corso Italia non impedirà di "celebrare la festa del lavoro in modo autonomo dove non dovessero verificarsi le condizioni". Toni particolarmente duri che però non evitano uno strano paradosso : proprio dove le distanze sono maggiori, alla Fiat e quindi a Torino, il 1° maggio sarà unitario. In Piemonte, poi, le distanze sono accentuate dalla vicenda ex Bertone: la Fiat, nuova proprietaria, propone agli oltre 600 dipendenti di firmare un contratto stile “Fabbrica Italia”. Ieri, in rappresentanza di 400 lavoratori, una delegazione ha consegnato alla Fiat una lettera che chiede a Marchionne di andare in fabbrica e discutere con gli operai ma l'azienda ha ribadito che andrà avanti sulla propria linea. La Fiom si fa forte del suo 63% mentre Uilm e Fismic raccolgono le firme su una proposta in sintonia con il Lingotto. La Cisl sta nel mezzo. Di unità sindacale non si vede traccia.

l’Unità 7.4.11Alla fine si è votato in Giunta con una sorpresa: non c’è di mezzo Berlusconi, e i lumbard disertano
L’opposizione compatta non “salva” il senatore indagato. Che dice: «Non scappo dai processi»
Pdl e Lega si spaccano
Sì all’arresto per Tedesco
Due no che diventano un sì. La giunta del Senato boccia la relazione Pdl che diceva no all’arresto di Alberto Tedesco. Il Pd marcia compatto. Decisiva l’assenza dei due leghisti. Ora il passaggio chiave in Aula
di Andrea Carugati


Due no che somigliano a un sì. Il Senato boccia la relazione Pdl che diceva no all’arresto dell’ex assessore alla Sanità della giunta pugliese. La giunta per le Immunità, presieduta da Marco Follini (Pd), ha votato a sorpresa ieri in tarda serata. Decisiva la non partecipazione al voto dei due commissari della Lega Nord, che hanno preso le distanze dagli 8 colleghi del Pdl (più un finiano), che hanno votato a favore della relazione del berlusconiano Alberto Balboni. Pd, Idv e Udv hanno votato compattamente per il no alla relazione (10 voti in tutto), astenuto il presidente Follini. Che succede ora? Decisivo sarà il passaggio in Aula, che dovrebbe tenersi, salvo slittamenti, prima di Pasqua. Su Tedesco pende una richiesta di arresto da parte del gip di Bari per corruzione, concussione e abuso d’ufficio, nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità pugliese. La relazione Balboni prevedeva il no al carcere non per il fumus persecutionis, che non viene ravvisato, ma per la minore gravità del reato e soprattutto per impedire la mutilazione dell’assemblea di palazzo Madama.
Il Pd ha votato compatto, riuscendo così a neutralizzare il conflitto tra le due linee che si erano manifestate nei giorni scorsi: quella di chi, come l’ex magistrato Felice Casson, ha annunciato il suo sì all’arresto. E chi, al contrario, ritiene le motivazioni giuridiche esposte da Balboni troppo fragili ma propende comunque per una posizione garantista. «Nonostante le tante profezie, il Pd ha retto benissimo e non si è diviso mentre la maggioranza si è spaccata», commenta a caldo Casson.
Il segretario del Pd Bersani aveva lasciato ai senatori libertà di coscienza, così come la capogruppo Anna Finocchiaro, che ieri ha dichiarato: «I componenti della Giunta appartenenti al Pd non intendono in nessun modo sostituirsi ai giudici e hanno un grande rispetto per il lavoro della magistratura».
Tedesco ieri è stato nuovamente audito dalla giunta, a cui ha presentato nuove carte: «Documenti che servono a dimostrare che questa inchiesta è stata condotta in maniera oggettivamente persecutoria nei miei confronti», ha spiegato il senatore. Che ha aggiunto: «Io non scappo dal processo, anzi lo invoco. Per questo chiederò all'Aula di votare a favore del mio arresto». Una nuova audizione chiesta dal Pd, che aveva tutto l’interesse a rinviare la decisione della giunta, in attesa del pronunciamento del Tribunale del Riesame previsto per il 14 aprile.
L’ex assessore, a margine dell’audizione in giunta, ha parlato delle due inchieste che l’hanno coinvolto: «Una si è conclusa con l'archiviazione, l'altra con la richiesta di custodia cautelare ai miei danni. Stessi pm e stessi fatti, ma che hanno portato a valutazioni ed esiti diametralmente opposti». Le inchieste a cui si riferisce Tedesco sono quella in cui era coindagato insieme a Nichi Vendola, l'altra invece quella sfociata con la richiesta di arresto firmata dal Gip di Bari. «Io dico che hanno fatto bene ad archiviare la posizione di Vendola ha spiegato ma penso che i magistrati avrebbero dovuto essere conseguenti anche con me». «Il Pd ha detto prima del voto in Giuntafa bene a non voler votare la relazione di Balboni, perché se si esclude il fumus persecutionis e si entra nel merito della questione, non tocca al Senato giudicare, ma alla magistratura».

l’Unità 7.4.11
Tendenze Uno studio della rivista Usa «Pediatrics» sui rischi per gli adolescenti da Facebook & co
Gli esperti Dietro l’angolo depressione, dipendenza, «sexting»: eppure non bisogna demonizzare
Tuo figlio è un cyberbullo? Ultimissime dai social network
Facebook, YouTube, MySpace... i pediatri americani lanciano l’allarme: i social network possono essere utili alla crescita dei ragazzi, ma rappresentano anche dei rischi su cui oggi non c’è alcun controllo.
di Cristiana Pulcinelli


A 10-11 anni già passano il loro tempo libero davanti a uno schermo a cercare gli amici su Facebook. E chi più ne ha, più è fico. Poco importa che il social network richieda di avere almeno 13 anni per iscriversi, tan-
to basta falsificare la data di nascita. Navigare sui social media è probabilmente l’attività più comune tra i bambini e gli adolescenti di oggi. Un fenomeno che è cresciuto a dismisura. In Italia, una ricerca condotta da Eurispes e Telefono Azzurro alla fine del 2009 stima che il 71,1% degli adolescenti abbia un profilo su Facebook. Secondo un recente sondaggio negli Stati Uniti, il 22% dei teenager entra nel suo social media preferito almeno 10 volte al giorno e oltre il 50% almeno una volta al giorno. E il New York Times riportava qualche giorno fa i risultati di un’indagine condotta da ComScore, una ditta americana che si
occupa di traffico Internet, secondo cui 3,6 milioni di visitatori di Facebook negli Usa hanno meno di 12 anni.
Qualcuno comincia a preoccuparsi. Pediatrics, la rivista dell’associazione dei pediatri americani, pubblica sul numero del 3 aprile un articolo sull’impatto dei social media sui bambini e gli adolescenti. Per «social media» si intende ogni sito web che permetta interazioni sociali: da Facebook e MySpace ai siti per giocare on line, dai mondi virtuali come i Sims e Second Life a siti di video come Youtube, fino ai blog.
I pediatri americani non demonizzano: usare i social media può avere effetti positivi sui ragazzi. Si può rimanere in contatto con gli amici e trovarne di nuovi, scambiare idee, musica, informazioni utili. Si può partecipare a progetti comuni sia scolastici che di altra natura. Ma, avvertono, ci sono anche diversi rischi. Il cyberbullismo, per cominciare, ovvero l’uso deliberato dei media digitali per comunicare notizie false, imbarazzanti o ostili su qualcun’altro. Il cyberbullismo è più diffuso delle molestie, è un fenomeno che avviene tra persone della stessa età, ma può portare a conseguenze psicologiche gravi come depressione, ansia, isolamento e, a volte, suicidio. Un altro fenomeno rischioso è il sexting, ovvero mandare o ricevere messaggi sessualmente espliciti, immagini o fotografie tramite computer o cellulare. Secondo uno studio citato dall’articolo, il 20% dei teenager americani ha mandato in giro foto o video in cui viene ripreso nudo o seminudo, con il rischio di entrare in un giro di pornografia. C’è poi un nuovo fenomeno da tenere sotto controllo per bambini e adolescenti che passano molto tempo sui social network: la depressione da Facebook. Gli psicologi ritengono che l’intensità del mondo online possa creare una vera e propria dipendenza. «Anche questa, come qualsiasi forma di dipendenza – spiega Stefano Vicari, primario di neuropsichiatria infantile al Bambin Gesù di Roma – può scatenare una depressione». La conseguenza può essere, paradossalmente, l’isolamento sociale, oppure, se il ragazzo cerca un aiuto in Internet, il rischio di imbattersi in siti che promuovono l’uso di sostanze stupefacenti o di com-
portamenti autodistruttivi. Un altro pericolo da non sottovalutare è la pubblicità che ormai viene inviata in modo mirato, a seconda dei comportamenti di chi naviga in rete. In questo modo il messaggio ha una forza di penetrazione molto più alta e può influenzare non solo la tendenza all’acquisto, ma anche la visione del mondo degli adolescenti e, soprattutto, dei bambini.
DATE FALSE
Negli Stati Uniti c’è una legge, il Children’s Online Privacy Protection Act del 1998, che obbliga i siti web che prendono informazioni dai bambini al di sotto dei 13 anni a ottenere il consenso dei genitori. Ottenere questo consenso, tuttavia, è cosa complessa e costosa, così compagnie come Facebook e Google, che possiede YouTube, hanno deciso di non accettare tra gli iscritti chi ha meno di 13 anni. Ma c’è l’escamotage di falsificare la data di nascita, a volte con l’aiuto di mamma e papà. Che i ragazzi mentano sulla propria età non è strano, ma il fatto che i genitori diano il loro consenso può generare una certa confusione su quali siano le regole da seguire, dicono i pediatri, oltre ad esporli ai rischi dovuti al fatto che sono bambini e quindi hanno scarsa capacità di autoregolazione e sono molto suscettibili alla pressione dei loro coetanei. «I bambini devono imparare un uso equilibrato di questi strumenti – dice Vicari per questo bisogna che quando girano sui social media abbiano un genitore vicino. A volte pensiamo che i nostri figli debbano essere lasciati liberi perché troveranno la strada da soli, ma i bambini non sanno cosa sia giusto e cosa no, glielo dobbiamo insegnare noi».
L’associazione dei pediatri americani si raccomanda che i genitori tengano sotto osservazione l’uso che i propri figli fanno dei mezzi informatici, magari imparando a navigare se non lo sanno già fare. E i pediatri potrebbero avere un ruolo importante: «L’Italia – ricorda Vicari è uno dei pochi paesi ad avere i pediatri di famiglia: se fossero sensibili a questa nuova forma di dipendenza, riuscirebbero a individuare prima un eventuale problema e quindi intervenire per tempo».

il Riformista 7.4.11
In Cina ora i dissidenti spariscono nel nulla
di Nello Del Gatto

qui

il Fatto 7.4.11
Il burocrate dell’orrore che portava gli ebrei nei lager
Dopo 50 anni, Berlino ricorda il processo al nazista Eichmann
di Laura Lucchini


I numeri dei deportati erano indicati su un grafico dietro alla sua scrivania. “Ne è certo?” chiede il pubblico ministero israeliano Gideon Hausner. “Sì”, risponde Adolf Eichmann. “Quindi intende dire che la sua sezione sapeva con assoluta esattezza quante persone stavate deportando e quale era la loro destinazione?”. “Sì, lo sapeva. Era mio compito informare al riguardo i miei superiori”.
La condanna a Gerusalemme
QUESTO STRALCIO dell’interrogatorio di Adolf Eichmann è un momento fondamentale del processo contro uno dei principali responsabili dell’Olocausto celebrato a Gerusalemme nell’aprile del 1961, cioè 50 anni fa. La registrazione completa dell’interrogatorio fa parte della mostra Il processo: Adolf Eichmann davanti al tribunale inaugurata l’altro ieri a Berlino per ricordare questo giudizio-chiave nella ricostruzione dell’orrore nazista e della persecuzione d icui furono oggetto gli ebrei da parte del Terzo Reich. Eichmann, che dopo essere stato condannato alla pena capitale dal tribunaledi Gerusalemme fu impiccato nel 1962,fu un ingranaggio decisivo della macchina che rese possibile l’eliminazione sistematica di sei milioni di ebrei.
Nato a Solingen nel 1906 era stato, in particolare, il responsabile del traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei nei campi di sterminio. Prese parte a tutte le fasi della cosiddetta soluzione finale con la quale Hitler e i suoi accoliti pianificarono l’annientamento definitivo e totale degli ebrei in Germania e poi nei paesi occupati. Dalla Conferenza di Wannsee del gennaio 1942 fino alla organizzazione dei treni diretti ad Auschwitz, tutta la parte burocratica dello sterminio passò per le mani di questo uomo che finì per diventare l’esempio perfetto ed emblematico del funzionario nazista che si limitava ad eseguire gli ordini. Il suo ruolo e la sua psicologia furono analizzati in un celebre libro della filosofa Hannah Arendt, La banalità del male. Qui la Arendt sostiene la tesi secondo cui il male può anche non avere radici, non avere memoria e proprio per questo – cioè per l’assenza di un dialogo “morale” – uomini apparentemente banali possono trasformarsi in autentici agenti del male.
Gabriel Bach, il pubblico ministero israeliano che nel 1961, insieme a Gideon Hausner, sostenne l’accusa contro il criminale nazista, l’altro ieri era presente all’inaugurazione della mostra presso il centro di documentazione berlinese Topografia del Terrore. Gabriel Bach, oggi ottantaquattrenne, seduto in prima fila durante la conferenza stampa, aveva con sè una cartella. Alla fine della conferenza stampa ne ha svelato il contenuto: foto, stampe originali dell’aula del tribunale, immagini che lo ritraggono in prima fila con Adolf Eichmann a pochi metri di distanza, seduto dietro un vetro con due poliziotti a fianco. “Cosa ricordo di più di quel processo? Forse il mio primo incontro con Eichmann. Avevo appena terminato di leggere un libro nel quale si descriveva con quanta crudeltà assassinava i bambini nei campi di concentramento. Gliene parlai. Mi rispose che se ci si è posti l’obiettivo di eliminare una razza, allora bisogna eliminare tutte le generazioni, bambini compresi. Da un punto di vista logico il suo ragionamento non faceva una piega”. Il processo fu possibile grazie a un’azione oggetto di molte polemiche e controversie. Il burocrate nazista nel 1950 era riuscito a fuggire in Argentina: lavorava in una fabbrica della Mercedes Benz nelle provincia di Buenos Aires quando fu sequestrato dal Mossad, trasferito clandestinamente in Israele e processato.
Fu il primo processo contro un criminale nazista celebrato in Israele e si concluse con la condanna a morte di Adolf Eichmann. Al processo potè assistere tutto il mondo in quanto fu filmato e trasmesso per televisione (la relativa documentazione fa parte della mostra di Berlino). Molti, tra i quali la stessa Hannah Arendt, cittadina americana ma di origine tedesca e di religione ebraica, condannarono il tribunale per la sua mancanza di imparzialità.
Assassinare bambini senza provare nulla
“È UN’ACCUSA ridicola”, ha detto l’altro ieri Gabriel Bach. “La sentenza poggiava su prove incontestabili e in nessun momento del procedimento si ebbe la sensazione che la sentenza fosse già stata scritta e che già si sapeva come sarebbe andata a finire”. Quanto ad Hannah Arendt, Gabriel Bach ha ricordato che “prima del processo mi avevano avvertito che dagli Stati Uniti sarebbe arrivata una filosofa per scrivere un libro contro il processo. Come a dire che si sapeva già da prima quale era la sua posizione”.
La mostra di Berlino,che rimarrà aperta fino a settembre, raccoglie tutta una serie di testimonianze dei protagonisti del processo e i filmati degli interrogatori più significativi oltre al materiale messo a disposizione dai mass media di tutto il mondo che all’epoca seguirono il dibattimento. La mostra organizzerà fino a settembre diversi incontri con esperti e testimoni diretti dell’Olocausto.
Copyright El Paìs; traduzione Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 7.4.11
A spasso tra i sogni degli altri
di Paolo Mauri


Ormai lo sappiamo e qualcuno lo aveva anche affermato in modo esplicito, la vita è sogno, o almeno il sogno è qualcosa di essenziale alla nostra vita, perché ci permette di andare dove forse non saremmo arrivati mai. Dico questo perché è proprio il sogno (un altrove spesso molto struggente o perturbante) la chiave che unisce parecchi dei Racconti con figure di Antonio Tabucchi (Sellerio, pagg. 355, euro 15, a cura di Thea Rimini), ossia quei racconti in cui, attraverso il tempo e le occasioni, Tabucchi ha catturato le figure (le suggestioni) che un certo numero di artisti gli offrivano.
«L´ultima volta che ho visto Antonio Dacosta è stato in sogno, alle Azzorre. Lui stava facendo il suo sogno e io vi entrai da visitatore». La storia è complicata: entrare nel sogno significa anche entrare in un quadro e dividere con il pittore, inquieto, le vicende dei personaggi raffigurati. La lettura che Tabucchi fa di un´opera d´arte ci porta dunque in un´altra dimensione. I ritratti di Pericoli lo inducono ad allestire il set di un film dove gli attori interpretano i personaggi celebri colti nel momento in cui stanno per essere ritratti, da Joyce a Croce a Pessoa. Una mostra di Valerio e Camilla Adami suggerisce questo incipit: «Fra le apparizioni del sogno che Valerio Adami trasforma nella geometria del reale, e la geometria del reale che Camilla Adami trasforma in figure che sembrano provenire dal mondo del sogno, a chi dobbiamo credere?».
Ho trovato molto gustoso e insolitamente allegro il racconto nato per una mostra etnologica di copricapi tradizionali dell´Asia, La Signora-col-Cappello, dove Tabucchi, con quella sua magistrale disinvoltura nell´inventare dialoghi, sceneggia un incontro quasi impossibile tra due donne, mediato da un autista, che ha per oggetto due cappelli, o meglio tre. Mi rendo conto che detto così non vuol dire niente: d´altra parte nei racconti, come nei quadri, bisogna andarci dentro di persona. Tabucchi confessa che se non avesse fatto così con Las Meninas nel lontano 1970, non sarebbe nato Il gioco del rovescio, dove davvero «l´immaginazione va oltre l´immagine».
Ancora per Pericoli e le sue cartoline è il racconto Tanti saluti, la storia di un uomo, Taddeo, che si prepara a partire per il Perù. È un viaggio che avrebbe voluto fare con la moglie Isabel, ma lei non c´è più. Prima di andare alla stazione ha preso con sé un po´ di cartoline, anche italiane. Le spedirà dal Sudamerica con i saluti suoi e di Isabel. Un´incongruenza? Non è l´unica. Fa caldo. Alla stazione, deserta, incontra un bambino che vende gelati e gli rivela di chiamarsi Taddeo anche lui... Il finale potrebbe essere quello di un sogno. Ma dov´è, ci si chiede, la linea di confine?
Nel Diario cretese con sinopie (ancora per Adami) l´autore racconta di una taverna povera con camere povere, dove si fanno «dei sogni frusti, come una giacca che hai indossato per tutta la vita». Spesso l´altrove è qui, solo che non ce ne accorgiamo.

Repubblica 7.4.11
Vent´anni di lavoro e centinaia di studiosi per un´opera monumentale
Scoprite il catalogo dei commenti a Dante
Si tratta di un censimento di circa 500 manoscritti che riguardano parti del poema
di Massimo Cacciari


Un´impresa scientifico-culturale di straordinaria portata è giunta in questi giorni ad una svolta decisiva del suo cammino. Grazie ad un lavoro ormai ventennale e all´impegno di un centinaio di studiosi provenienti dai più importanti centri di ricerca italiani e stranieri, coordinati dall´infaticabile Enrico Malato, il Censimento dei Commenti danteschi. I Commenti di tradizione manoscritta (fino al 1480), edito dalla Salerno, a cura del Centro per gli Studi Danteschi intitolato ad uno dei caposcuola della filologia romanza, Pio Rajna, vede finalmente la luce. Si tratta della catalogazione di circa 500 manoscritti, tra i quali molti anonimi, la maggior parte riguardanti solo alcuni canti o passaggi del poema; per tutti sono indicati i luoghi che ne custodiscono i testimoni. Di estremo interesse sono i medaglioni biografici dei diversi autori, specie dei più rappresentativi, infinite volte citati anche nei commenti moderni e contemporanei e rimasti spesso fin qui nient´altro che un nome. Eppure è proprio grazie ad essi, ai più antichi, che ci è possibile dipanare l´immensa "selva" dantesca, fatta di figure, vicende storiche, personaggi, luoghi: dal grande commento del della Lana, primo integrale in volgare, all´Ottimo (così chiamato per la purezza del suo volgare toscano), al Buti, al Rambaldi. Ma occorre ricordare anche le prove dei figli stessi di Dante, Pietro e Jacopo, e quella del Boccaccio, che lesse i primi 17 canti dell´Inferno a Santo Stefano in Badia, alla fine della sua vita, quasi estremo omaggio a colui che era stato il suo Autore. Qualsiasi Paese civile sosterrebbe un´opera collettiva di questo livello, riguardante in grande misura, il fondatore del proprio stesso idioma, con entusiasmo e con tutti i mezzi necessari affinché possa completarsi con ragionevole rapidità. Da noi, invece, si corre il fondato pericolo che debba "chiudere", forse in onore delle celebrazioni del 150°. E non sarebbe certo la prima Edizione Nazionale a fare questa fine.
Ma risparmiamoci ora le patrie miserie, per sottolineare l´importanza storico-culturale di questa ricerca. I commenti alla Commedia delineano, nel loro spesso confuso intrecciarsi, la storia ininterrotta dell´affermarsi di Dante, fino al ‘500, come "stella fissa" della cultura umanistica. Il poeta è insieme sempre l´esule politico, l´agonista indomito, che tale rimane fino all´Empireo, e insieme il teologo, il vate-profeta, l´uomo di scienza. Proprio in questi commenti, si può già vedere in atto ciò che sarà compreso dai grandi studiosi contemporanei di Dante, per così dire post-crociani: l´indissolubilità di tutte queste dimensioni del genio dantesco. Nella modestia con cui essi "servono" il poema, senza pretendere di giudicarlo secondo una prospettiva, "tacendo" quasi dei propri convincimenti, questi commenti illustrano e spiegano indirettamente la inesauribile polifonia della Commedia. La passione per l´Autore e il suo canto si lega così alla più positiva istanza di volerlo comprendere in ogni suo dettaglio. E´ come fosse qui già avvertita la coscienza che la forma dell´intero si rivela in ogni particolare, allorché questo venga realmente analizzato e compreso. E´ lo stesso accordo di amore e scienza che informa di sé, io ritengo, il lavoro filologico e scientifico dei curatori di questo Catalogo.

Repubblica 7.4.11
Quando la scrittura diventa una terapia
di Marc Augé


Il racconto di sé ha però un senso solo tramite l´accoglienza degli altri
L´avere una concezione romanzesca dell’esistenza può essere utile
L´antropologo spiega come la narrazione possa avere un ruolo liberatorio. Non solo in letteratura ma anche nelle scienze sociali

Pubblichiamo un brano tratto dall’intervento che terrà domani al festival “L’arte della felicità" in programma a Napoli

Il ruolo liberatorio della letteratura è stato sottolineato da Walter Benjamin che ha visto nelle fiabe una delle "prime precauzioni prese dall´uomo per dissipare l´incubo mitico" (Il Narratore. Riflessioni sull´opera di Nicola Leskov) facendo notare che i personaggi della fiaba, lo sciocco, il fratello minore, il viaggiatore, mettono in scacco le violenze della natura e ne fanno una loro complice.
È il movimento inverso a quello della risalita verso «l´incubo mitico», verso «l´orrore», ultima parola pronunciata da Kurtz prima di morire, di cui parla Joseph Conrad in Cuore di tenebra, inseparabile libro di Malinowski (celebre antropologo polacco, ndt) sul campo. Potremmo, quindi, affermare che è proprio "il loro destino narrativo" ad aver sovvertito le religioni dall´interno e che il compimento di questo destino libera l´uomo dal mito.
Questa frase è particolarmente provocante per l´etnologo e, in generale, per tutti coloro che si interrogano sulle ragioni che li spingono a scrivere. Perché colloca l´asse del cambiamento dalla parte del futuro. La letteratura sarebbe meno determinata dalle sue origini religiose o mitiche e più da qualcosa che sorge, un rischio, una lotta e un´invenzione: una fuga dal terreno del mito, se si vuole e, eventualmente, un dietrofront per tornarvi a combatterlo. Il contrario di una conseguenza, dunque, e la poesia di un inizio assoluto (...).
Ogni scrittura affronta il vuoto del futuro affrancandosi dal passato. Il tema dell´uscita dal mito concerne tanto la dimensione individuale quanto la dimensione collettiva. Bisogna indubbiamente considerare, da un punto di vista ontogenetico, che l´individuo, per crescere, deve liberarsi attraverso la parola del proprio fondo mitico, e non soltanto dei miti che condivide con altri. Non potremmo allora vedere nel tema dell´uscita dal mito una giustificazione della psicanalisi?
Non proprio, o non soltanto. Qui dobbiamo piuttosto insistere sulla dimensione propriamente narrativa dell´esistenza individuale. La prima ambizione di Freud era, senza dubbio, quella di insegnare agli individui a liberarsi dai loro demoni interiori, ma prendere la via narrativa (e non semplicemente la parola e la rimemorazione) per arrivarci, è scegliere per sfidarli un terreno diverso dal loro, un terreno dove si trasformano in personaggi; è avere, in qualche modo, una concezione romanzesca della propria esistenza. Non si può chiedere a tutti di inventare dei racconti, si dirà. Ma a torto: passiamo il nostro tempo a raccontarci delle storie di cui siamo gli eroi o, più esattamente, passiamo tutto il nostro tempo a inventare il racconto della nostra vita per sottoporne, "in tempo reale", i diversi episodi all´apprezzamento e ai commenti di alcuni amici, o fedeli compagni o collaboratori occasionali. Paul Ricœur si è interessato alle "strutture prenarrative dell´esperienza temporale" e, in Tempo e racconto, ha fatto notare che la letteratura sarebbe incomprensibile se non configurasse ciò che, nell´azione umana "già figura". Narrare la propria vita, inoltre, non è sfuggire alla solitudine, ma all´isolamento; è una terapia spontanea, sensibile al passaggio del tempo che sdoppia e proietta verso il futuro nel raccontarlo. Non ci si salva da niente e da nessuno senza la presenza degli altri, sotto qualsiasi forma: presenza effettiva di interlocutori, presenza scontata di futuri lettori, ma che dà già tutto il suo senso all´attesa di colui che scrive. L´isolamento e il silenzio, quando sopraggiungono, sono ad un tempo, in quanto a loro, il segno e la causa della sconfitta e di un´invasione tanto lenta quanto inesorabile da parte delle forze oscure del passato.
Lo scrittore fa dunque un´esperienza particolare della solitudine, e l´etnologo ancora di più, perché esce da se stesso senza tuttavia raggiungere completamente gli altri. Solo, si sforza di uscire dalla sua cultura, dalla sua lingua, e dalle sue abitudini per mettersi a una certa distanza dagli altri. Rispetto agli altri, la sua situazione è ambigua: la difficoltà dell´etnologo comincia con il primo incontro, con il primo testimone. Conosciamo mai qualcuno? O, se non lo conosciamo, riusciamo mai a capirlo? Ciò che crediamo di poter scrivere di una collettività non perde la propria pertinenza dal momento in cui ci avviciniamo a uno degli individui che ne fanno parte? E la constatazione di questo limite non relativizza in anticipo tutto ciò che potrà scrivere l´etnologo? È così che va inteso il titolo di Leiris, L´Afrique fantôme, se è vero, come egli scrive, che ogni diario è "l´ombra di uno scritto fantasma". L´etnologo sarebbe addirittura sempre tormentato, scrive in Brisées, dal "fantasma dell´altro libro, quello che non ha scritto". Il doppio dell´etnologo è doppiamente fantomatico, perché viene dal passato e nasce da un´esperienza che non si potrà rifare. Il doppio dell´etnologo non è soltanto questo essere astratto che si distacca da sé per osservare o teorizzare meglio, è la figura concreta del tempo, dell´assenza e dell´alterità (...).
La scrittura non ha passato. Essa non esiste che per trasmettere ciò che crea. La scrittura è rituale: qualunque sia la sua materia prima, non ha senso se non tramite l´accoglienza degli altri. Con essa, comincia una storia.
Ma la scrittura antropologica non è una scrittura qualsiasi: essa tratta di altri ai quali l´etnologo non ha avuto accesso se non nei termini di un viaggio doppio a sua volta, un viaggio interiore e al tempo stesso uno spostamento nello spazio. Essa nasce da un´esperienza empirica nella quale l´antropologo è implicato e della quale deve rendere conto nella sua totalità per essere onesta, vale a dire il più vicina possibile al reale. Essa fa capire un paradosso, il paradosso dello specialista in scienze sociali, scienze della relazione e del simbolico: il percorso dell´etnologo, così come può renderne conto attraverso la scrittura, è anche, e forse prima di tutto, una variazione su delle forme diverse di solitudine: quella della partenza, quella dell´arrivo e, ancor più definitiva o più irreversibile, quella del ritorno.
(Traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 7.4.11
La scoperta in un laboratorio americano "Una materia sconosciuta, è un mistero"
L´ultimo giallo nella fisica "È la nuova particella di Dio?"
Dagli anni ´70 gli scienziati cercano il bosone di Higgs ma non ha queste caratteristiche
di Elena Dusi


«Cosa abbiamo di fronte a noi è un mistero. Si tratta di qualcosa al di là della fisica nota. Potrebbe essere un nuovo ingrediente della materia, o una nuova forza». Giovanni Punzi è a capo di un gruppo di fisici in buona parte italiani al laboratorio Fermilab di Chicago. «Abbiamo misurato un fenomeno nuovo nel nostro acceleratore di protoni e antiprotoni. I dati sono in attesa di conferma, ma dalle collisioni è nato un evento che non riusciamo a spiegarci se non con la presenza di una particella totalmente nuova».
Tra i frammenti delle collisioni che avvengono a energie estreme e velocità prossime alla luce, i fisici si aspettano di "catturare" lo sfuggente bosone di Higgs: la cosiddetta particella di Dio, prevista alla fine degli anni ´70 dai fisici teorici (in particolare dall´inglese Peter Higgs) e inseguita in vari esperimenti nel mondo. La sua presenza è fondamentale per spiegare come mai la materia attorno a noi abbia una massa. Ma nonostante le aspettative, la novità del Fermilab non ha le caratteristiche dell´Higgs. «È qualcosa di diverso, su cui ormai lavoriamo da un anno e che i fisici teorici stanno tentando di interpretare» prosegue Punzi. «La caccia all´Higgs è destinata a proseguire».
Facendo scontrare protoni e antiprotoni (protoni con carica negativa), nell´anello di oltre 6 chilometri del Fermilab compaiono "fuochi d´artificio" di frammenti, sotto forma di varie famiglie di particelle subatomiche (fra cui i bosoni) e "fontane" di energia. «A colpirci sono state le collisioni che generano un bosone W e due getti di energia pari a 140 volte la massa del protone. Questi eventi sono avvenuti molto più spesso delle attese. E sospettiamo che all´origine ci sia la presenza della nuova particella» prosegue Punzi. Il fenomeno misterioso è avvenuto 250 volte in più rispetto alle aspettative, su un totale di 10mila collisioni.
Ma non è la sola sorpresa recente di Tevatron, l´acceleratore del Fermilab. Come una palla che non rimbalza simmetricamente contro un muro, così i quark top (un´altra componente subatomica della materia) prodotti nelle collisioni tendono a schizzare molto più spesso della norma in una delle direzioni possibili. E non è detto che le due osservazioni non siano legate. «Anche questo fenomeno - spiega Fabrizio Margaroli del Fermilab - potrebbe indicare un nuovo meccanismo di formazione dei quark top, e quindi un nuovo genere di particelle, troppo pesanti per essere rilevate ma in grado di influenzare la direzione di quelle osservate».
Il laboratorio intitolato a Fermi non riuscirà a restare aperto oltre settembre per il mancato rinnovo dei fondi. Lascerà in pista solo il più potente acceleratore Lhc al Cern. E da Ginevra raccolgono la sfida, come dice il fisico Michelangelo Mangano: «La loro misura è interessante. L´analisi sperimentale è solida, ma i dati raccolti sono ancora insufficienti a escludere che si tratti di una fluttuazione statistica. Lhc sarà in grado di dare un´eventuale conferma entro la fine dell´anno». E se non di bosone di Higgs si tratterà, nessuno potrà stupirsi: dai grandi esperimenti di fisica degli ultimi 50 anni sono sempre uscite scoperte importanti e inattese.

La Stampa 7.4.11
Dalle staminali la fabbrica degli occhi
Esperimento in Giappone sui topi: “L’obiettivo è creare in laboratorio nuove retine”
di Valentina Arcovio


LE CELLULE Sanno organizzarsi da sole senza impalcature biologiche
IL «MIRACOLO» E’ come se avessero al loro interno un libretto di istruzioni

Per la prima volta è stato realizzato in laboratorio un occhio a partire dalle cellule staminali embrionali prelevate da un topolino. L’annuncio arriva dal Giappone e, considerate le potenziali implicazioni dello studio, si è guadagnato la copertina della prestigiosa rivista Nature. Lo studio infatti apre interessanti prospettive nella cura di gravi patologie degenerative dell’occhio: se l’esperimento dovesse essere ripetuto con successo anche partendo da staminali umane – cosa tutt’altro che scontata - si potrebbero creare in laboratorio retine «di scorta» da sostituire alle vecchie. Ma più che il proto-occhio di topo o l’ipotesi di creare «fabbriche» di retine, la cosa che più ha colpito gli scienziati è stata la straordinaria capacità delle staminali embrionali di lavorare autonomamente. Le cellule prelevate dal topo infatti sono riuscite a coordinarsi e a ricomporsi in strutture diverse per dare vita a un organo complesso. L’unica cosa che ha fatto la squadra di biologi dello sviluppo, bioingegneri e biochimici dell’Istituto Riken, a Kobe, guidati da Yoshiki Sasai, è quella di prelevare le staminali dal topo e immergerle in una soluzione di coltura, ricca di sostanze nutritive, che le ha spinte a organizzarsi in maniera spontanea. Come tanti piccoli pezzi di un puzzle sono riuscite a formare una struttura tridimensionale chiamata «calice ottico» dalla quale si sviluppa la retina. Si tratta di un elemento complesso, costituito da due fogli di tessuto ripiegati in modo simile a una tasca, che si sviluppa negli strati interno ed esterno della retina durante lo sviluppo embrionale. L’eccezionalità dello studio è l’aver scoperto che le cellule staminali primordiali lavorano da sole senza quindi la necessità di utilizzare «impalcature» biocompatibili, strutture indispensabili agli scienziati che stanno cercando di realizzare organi ex novo in laboratorio. Almeno fino ad oggi nessuno era infatti riuscito a creare da un pugno di staminali, anche se embrionali, un organo complesso senza l’aiuto di una matrice di coltura.
Ora i ricercatori giapponesi sono riusciti a dimostrare che per l’occhio non serve alcun supporto perché le cellule staminali embrionali sono in grado di organizzarsi da sole come se avessero al proprio interno un «libretto di istruzioni» da seguire alla lettera.
«Questa riorganizzazione autonoma ci ha stupito – hanno spiegato i ricercatori - perché la struttura parte come un aggregato omogeneo di cellule a cui non abbiamo dato alcun segnale specifico. Lo studio dimostra come la formazione dell’occhio sia dipendente solo da un programma intrinseco delle cellule che dirige posizione e differenziazione di ogni elemento».
Una scoperta destinata ad aprire un nuovo capitolo della medicina rigenerativa, anche se la scienza ci insegna che le staminali animali si comportano in maniera diversa rispetto a quelle umane. Il prossimo passo infatti è capire il come. «È tuttora poco chiaro - scrivono - come singole parti si coordinino fra loro fino a costruire un organo». Ci vorranno ancora moltissimi anni prima di arrivare a realizzare un occhio in provetta pronto per gli esseri umani. Ciò non toglie che è stato fatto un importante passo in avanti. «È eccitante pensare che siamo sulla buona strada per poter generare non solo i tipi di cellule differenziate – ha concluso Sasai - ma anche i tessuti, a partire da cellule staminali e cellule iPs, cioè cellule staminali pluripotenti indotte».

La Stampa 7.4.11
Speranze e cautele per l’occhio in provetta
di Piero Bianucci


Costruire occhi. Questa volta anche «Nature» si è lasciata tentare dal titolo sensazionale. «Costruire occhi» si legge a caratteri cubitali sulla copertina del numero oggi in edicola della più prestigiosa rivista scientifica. Accanto c’è la foto di un sacchetto verde ripiegato su se stesso. Quel sacchetto è una retina, la parte dell’occhio sensibile alla luce. Non ancora la retina di un occhio umano, ma quella di un topo. Dal punto di vista scientifico però il risultato è clamoroso. Il gruppo di biologi dell’Istituto giapponese Riken guidato da Yoshiki Sasai partendo da cellule staminali di un embrione di topo è riuscito a farle specializzare in cellule della retina, e, cosa ancora più straordinaria (tanto che lo stesso Sasai ne è sorpreso), queste cellule si sono autoorganizzate e hanno formato il sacchetto retinico come sotto la guida di una misteriosa ma perfetta regia biologica.
Le cellule staminali embrionali sono totipotenti: cioè capaci di trasformarsi in qualsiasi tipo di tessuto: pelle, ossa, cellule nervose o muscolari, del fegato, del pancreas e di qualsiasi altro organo. Il problema è avviare in esse il processo di specializzazione in un tessuto o nell’altro, cosa che i biologi fanno stimolandole con speciali fattori biologici che inducono nei loro geni le trasformazioni desiderate. E’ ciò che il gruppo giapponese è riuscito a fare. Non solo: sono anche riusciti a ottenere, nel caso specifico, un tessuto che ha assunto la struttura dell’organo che nell’individuo sviluppato quelle cellule vanno a formare: in questo caso la retina. È la promessa della «medicina rigenerativa», il sogno alla Blade Runner degli «organi in provetta» che si realizza.
La retina è in pratica una parte del cervello che si è adattata per trasformare le onde luminose in segnali elettrici. Le sue cellule nell’occhio umano sono di due tipi: i bastoncelli, molto sensibili e numerosi (100 milioni) ma capaci solo di vedere in bianco e nero, e i coni, poco sensibili e in numero ridotto (7 milioni) ma in grado di darci la visione a colori. I segnali elettrici generati da queste cellule come reazione alla luce vengono poi convogliati nel milione di fibre del nervo ottico fino alla zona occipitale del cervello, dove l’immagine viene ricostruita. La retina è dunque la parte più delicata e importante dell’occhio: corrisponde alla pellicola fotografica o, nelle camere attuali, al sensore elettronico.
Bisogna però aggiungere due precisazioni. La prima è che ciò che funziona su topi di laboratorio è lontano dal funzionare nell’uomo: il progresso annunciato da «Nature» è scientificamente di prim’ordine, ma non deve illudere i non vedenti: la soluzione del loro problema non è affatto a portata di mano. Dalle staminali dell’embrione di topo non si ricava una retina umana. Ci vorranno anni, forse alcuni decenni, perché un processo del genere si possa realizzare nell’uomo.
La seconda precisazione riguarda in particolare il nostro paese. In Italia, diversamente da quanto accade in quasi tutti i paesi avanzati del mondo, dal Giappone agli Stati Uniti al Regno Unito fino alla Corea, se anche si riuscisse tecnicamente a fare ciò che per ora è di là da venire, dal punto di vista legale sarebbe impossibile perché la legge italiana impedisce la ricerca sulle cellule staminali umane, e ciò in quanto il ricorso a queste cellule comporterebbe la distruzione dell’embrione, cioè di una creatura umana potenziale. Cosa che il cardinale Elio Sgreccia, bioeticista del Vaticano, ha subito ricordato commentando la notizia di «Nature» in contrapposizione con l’entusiasmo del premio Nobel per la medicina Renato Dulbecco e dell’on. Ignazio Marino. In Italia si incoraggia invece la ricerca sulle cellule staminali adulte, che in questo caso dovrebbero essere estratte dalla retina dello stesso paziente. Per la cornea lo si fa già con successo, ma nel caso della retina si aggiungerebbe difficoltà a difficoltà. Il messaggio che viene dal Giappone è comunque chiaro e importante: le cellule staminali embrionali aprono opportunità eccezionali e non comparabili con le opportunità delle staminali adulte.


chi si ricorda di Luigi Lombardi Vallauri?
Corriere della Sera 7.4.11
Troppi iscritti, il prof fa lezione solo ai vegetariani
di  Marco Gasperetti


FIRENZE — Al seminario di Filosofia del diritto, quattro giorni intensivi nella casa per ferie Villa Gregoriana di San Marco di Cadore (150 euro a testa) luogo sotto le Dolomiti, quest’anno si sono iscritti 245 studenti. Numero insostenibile da gestire anche per un professore di valore quale è Luigi Lombardi Vallauri, 75 anni, ordinario alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze, vegetariano. Così il prof ha deciso di mettere qualche «valutazione motivazionale» per sfoltire un po’ l’esercito dei seminaristi. E ha scelto il metodo più atipico per limitare gli accessi: trasformarsi in vegetariani anche se solo nei quattro giorni di lezioni. L’idea è stata discussa democraticamente con gli studenti. «Che l’hanno accettata e condivisa— spiega Lombardi Vallauri —. Non è una limitazione alla loro libertà ma solo un modo di valutare un accesso a un seminario non obbligatorio partendo dalle motivazioni. Un piccolo sacrificio che dimostra la voglia e la volontà di partecipare al seminario. Se saranno tutti a favore, sfoltiremo il gruppo partendo dalla data di iscrizione» . La notizia, anticipata ieri dal Corriere Fiorentino, ha creato un dibattito anche all’interno dell’ateneo fiorentino. «Il seminario è proposto come attività facoltativa — ha precisato ieri in una nota il preside della facoltà Paolo Cappellini— e non è quindi collegato a un obbligo specifico per chi segue il corso di Filosofia del diritto» . E gli studenti come la pensano? Riccardo Betti, laureando: «È una decisione intelligente, democratica ed ha una valenza pedagogica. Bravo professore» . Altri ragazzi preferiscono non parlare, la sensazione e che la maggioranza sia con il docente. Luigi Lombardi Vallauri nel 1997 è stato al centro di un caso accademico che ha avuto un’eco alla Corte di Strasburgo. «Fui espulso dall’università Cattolica perché avevo sostenuto l’anticostituzionalità della pena infernale e del peccato originale e messo in dubbio il dogma inferno. La Corte di Strasburgo mi ha dato ragione per lesioni dei diritti fondamentali» .

Liberazione Lettere 7.4.11
Una festa laica per favore!
di Paolo Izzo

Gentile direttore, quest'anno un calendario beffardo impone la pasqua cattolica il 24 aprile e così il cosiddetto lunedì dell'angelo andrà a coincidere con la festa nazionale della Liberazione dal nazifascismo. Quest'anno un papa malizioso ha deciso di beatificare un altro papa proprio nella Giornata dei lavoratori, il 1° maggio. Ogni anno gli innamorati si baciano all'ombra di un martire torturato e decapitato di nome Valentino, sull'agognato ferragosto grava l'assunzione (cioè la morte) della madonna e il peccaminoso carnevale subisce l'incombenza del mercoledì delle ceneri. Viene da chiedersi come mai sua santità l'Ingerenza cattolica non abbia ancora pensato a un natale mobile, che vada a coincidere di volta in volta con qualche altra festività nazionale e laica. Così da essere sempre presente nel Parlamento, nelle leggi, nei luoghi pubblici, nella cultura e soprattutto nelle menti di tutti gli italiani.

mercoledì 6 aprile 2011

l’Unità 6.4.11
Gremita la piazza dei Democratici. Tra tante bandiere che sventolano, anche quelle viola
Il segretario: «Banchi del governo strapieni per votare sui processi di Berlusconi»
Bersani: è il punto più basso «Umiliati davanti al mondo»
«Governo del fare dei miei stivali», tuona Bersani attaccando Alfano, Frattini e anche il Tg1. «Politica e movimenti devono darsi la mano», dice il leader del Pd, per cacciare questo governo.
di Simone Collini


Parla una ventina di minuti dal palchetto montato in tutta fretta davanti al Pantheon e fa imbestialire Alfano, Frattini, Minzolini e capezzoni vari. «Quello che la maggioranza ha deciso oggi è che Ruby è la nipote di Mubarak», dice Bersani raccontando ai manifestanti raccolti a poche centinaia di metri da Montecitorio in cosa è stata impegnata la Camera nelle ore precedenti. «Berlusconi così ci mette in una condizione di umiliazione e vergogna davanti al mondo». Vergogna inizia a intonare la piazza. «Sì, è una vergogna», risponde il leader del Pd. Ma il problema non è solo nel Parlamento utilizzato per salvare il premier dai processi, e di fatto «trasformato in un collegio allargato a sostegno degli avvocati di Berlusconi». Il problema non è solo che «ogni giorno ha il suo shopping» (i lib-dem sarebbero passati con la maggioranza) o che, come dice Anna Finocchiaro, «Berlusconi vuole raggiungere quota 330 deputati a tutti i costi, e quando dico “a tutti i costi” lo dico in senso letterale». Il problema è che un governo che non sa affrontare nessun problema reale del paese è costretto a rimanere in Aula per gli interessi privati del capo. «C’erano i banchi della maggioranza e del governo strapieni come nelle grandi occasioni, come per l’elezione del Presidente della Repubblica o per il discorso di un Papa», dice Bersani. «Perché questo pieno? Si discuteva del secondo anniversario del terremoto dell’Aquila? Su come la città aspetta ancora la ricostruzione? Si è parlato dell’emergenza di Lampedusa? Si è parlato di lavoro, disoccupati, inflazione, redistribuzione dei redditi, industria? No. Si è parlato dei processi del premier».
GOVERNO ARROGANTE E SERVILE
Che la presenza dei ministri in aula sia necessaria al centrodestra per ottenere la maggioranza (Franceschini ha gioco facile dopo il voto di ieri nel dire che «330 deputati Berlusconi se li sogna») lo dimostra il voto che si svolge proprio in quei minuti, quando i deputati Democratici rimangono in Aula «per evitare colpi di mano sull’ordine dei lavori» (come spiega Bersani ai manifestanti) e il governo viene battuto su un emendamento del Pd su una legge per i piccoli comuni. Provvedimento poi approvato con voto bipartisan. Ma è un caso più unico che raro. Bersani ribadisce il giudizio negativo sulla cosiddetta riforma della giustizia e sul ministro Alfano, estendendo però la critica all’intero esecutivo: «La politica del governo è fatta di arroganza e servilismo. Perché si lamenta il ministro della Giustizia se lo dico? Stanno confezionando un vestito su misura per Berlusconi».
La piazza davanti al Pantheon è gremita. Sventolano numerose le bandiere del Pd, ma dopo un po’ arrivano anche quelle viola che dal primo pomeriggio sono comparse davanti Montecitorio. I “viola” arrivano cantando l’Inno nazionale e tenendo bene in alto un Tricolore lungo sessanta metri. «L’Italia è nostra e non di cosa nostra», tra gli slogan, e «dimissioni, dimissioni» all’indirizzo del premier. Bersani dice che «politica e movimenti devono darsi la mano» e che «l’opposizione deve essere unita» per mandar via questo governo. Dopo il Guardasigilli, il leader del Pd attacca a testa bassa anche il Tg1 («ce lo invidiano in Bielorussia»), la Lega («altro che federalismo, se vuol sostenere il miliardario lo dica chiaramente perché stavolta la prendiamo di punta davvero») e il ministro degli Esteri Frattini, «che con tutto quel che succede in Libia è stato tutto il giorno in aula ad alzare la mano per difendere il premier».
Le repliche stizzite alle parole di Bersani non tardano ad arrivare dai diretti interessati e dai loro compagni. Ma per il leader del Pd basta la realtà dei fatti a far capire da che parte sia la ragione. «Governo del fare dei miei stivali quasi urla dentro al microfono parlando dell’emergenza immigrati si possono tenere 3mila persone con 5 bagni chimici? Ve li mandiamo noi dalle nostre feste Democratiche un centinaio di bagni chimici. Su questa vicenda il governo ha toccato davanti al mondo il punto più basso».

l’Unità 6.4.11
E dopo il voto esplode la rabbia «Vergogna!»
Sit-in davanti Montecitorio dei movimenti e le opposizioni. «Vergogna» urlano i manifestanti quando l’aula approva il conflitto di interessi. Di Pietro:«Per mandare a casa Berlusconi bisogna andare a votare ai referendum».
di Maria Zegarelli


C’era l’enorme tricolore lungo sessanta metri già sventolato il 12 marzo, la bandiera del Partito comunista e quella di Fli, tante dell’Idv e di Sel insieme alle sciarpe viola. Non c’era quella del Pd che ieri ha scelto un’altra piazza per un altro sit-in nel giorno del Democrazia Day e della notte bianca della Democrazia. Circa trecento persone davanti a Montecitorio per un presidio fuori dal palazzo mentre dentro scorreva veloce il dibattito prima e il voto poi sul conflitto di attribuzione sul caso Ruby. «Vergogna», hanno urlato più e più volte i manifestanti. È Gianfranco Mascia del Popolo Viola che coordina i «lavori» mentre al microfono si alternano persone comuni e politici che fanno spola tra l’Aula e la piazza. Urla e fischi mentre vengono lette una per una le leggi ad personam, trentasette, di Silvio Berlusconi «e la sua cricca»: si deve andare indietro al 1994 con il decreto Biondi, alla Cirami del 2002, l’ex Cirielli del 2005 e via elecando. «Non scappare, fatti processare», «Voglio votare Sandro Pertini» si legge sui cartelli. Furibonda Daniela Rosellini, quattro ore di treno per arrivare qui. «Non me ne frega niente se Berlusconi andava con le prostitute urla dal microfono -, a me interessa avere un governo, un futuro, un lavoro. Le leggi di Berlusconi fanno comodo a tutti, sono tutti uguali dentro quel palazzo. Il problema non è il premier sono gli italiani, siamo tutti noi, un popolo diventato indifferente, egoista». Le telecamere accorrono per intervistarla. Tra la gente Leoluca Orlando, Idv, Franco Giordano, ex segretario Rc, Paolo Ferrero, rispunta anche Marco Ferrando quello che fece tremare il governo Prodi. C’è la terza A dell’istituto per ragionieri “Calvi” di Belluno, in gita a Roma incuriosita dal sit-in. Simone: «Sarebbe giusto processarlo, la legge è uguale per tutti. O no?». Tamara difende il premier e se la prende con Ruby, «lei si prostituiva», Beatrice: «E lui? È il presidente del Consiglio e va con una minorenne?».
Dal microfono intonano “Bella ciao”, poi arrivano per un flash mob gli attori del Teatro dei Colpevoli di Napoli, con nasi e orecchie da maiale che sbeffeggiano la Costituzione mentre un araldo mascherato legge i primi dieci articoli. Antonio Di Pietro applauditissimo: «Se gli italiani il giorno del referendum non andranno a votare si faranno abbindolare ancora una volta da Berlusconi. Abbiamo a portata di mano la soluzione: far cadere il governo con il referendum». L’ex pm avverte: Silvio non si dimetterà mai; il parlamento non lo sfiducerà perché lì dentro «ci sono persone comprate e vendute»; c’è il rischio che la piazza passi «dalle monetine a chissà cos’altro e sarebbe gravissimo», dunque non resta che l’arma delle urne referendarie.
Prende la parola anche Fabio Granata, Fli: «Ciò che sta avvenendo in Parlamento è grave perché riguarda l’Italia al di là degli schieramenti politici. Questa piazza è una speranza per l’Italia perché rappresenta un presidio democratico». Poi, alle 18 tutti in piazza del Pantheon.

Repubblica 6.4.11
Il leader alla manifestazione del Pd al Pantheon: su Ruby l´Italia umiliata davanti al mondo
Bersani: "Unità tra politica e movimenti"
di Giovanna Casadio


ROMA - «Politica e Movimenti devono darsi la mano...». Pier Luigi Bersani sul palco di piazza del Pantheon - la "piazza del Pd" - invita all´unità. I Democratici hanno chiamato a raccolta i militanti per marcare la loro strategia: «Sono per la civiltà dell´opposizione - premette il segretario - ma noi siamo in Parlamento e in piazza». Nel giorno in cui, nell´aula di Montecitorio, la maggioranza ha appena votato che Ruby è la nipote di Mubarak; che ben ha fatto Berlusconi a telefonare in Questura a Milano; e quindi va giudicato dal Tribunale dei ministri e non da quello ordinario, ebbene - grida Bersani - «Berlusconi ci mette in condizione di umiliazione e di vergogna davanti al mondo. Solo i disonesti non arrossiscono. Sì, è una vergogna».
«Vergogna-vergogna», gli fa eco la piazza. «Non è questa l´Italia - rincara il segretario - Oggi l´Italia è prigioniera ma si libererà da queste catene e riprenderemo la strada di un paese civile». Piazza del Pantheon è piena; applaude; scandisce «dimissioni, dimissioni»; canta l´inno nazionale. C´è anche il Popolo Viola che ha portato i 60 metri di striscione Tricolore (quello del C-day in piazza del Popolo). Tra i Democratici e il Popolo Viola c´è stata un po´ di maretta, perché nessuno del Pd si è presentato al sit-in pomeridiano dei Movimenti davanti a Montecitorio: il Pd ha una preoccupazione, di non venire meno al richiamo del presidente Napolitano ad avere senso di responsabilità. Ma a piazza Santi Apostoli di sera, riecco l´unità. Al Pantheon, Bersani denuncia la «dose quotidiana di vergogna, e di shopping» di parlamentari. Dice (come anche Anna Finocchiaro) che non ci sarà alcun Aventino, che «noi staremo in Parlamento perché quello è il luogo dei parlamentari» e lì spetta battere il governo. Poi va all´attacco di Bossi, e dalla piazza partono i fischi anti-lumbàrd . «Il Pd prenderà di punta la Lega - assicura il leader democratico - Gridano "Roma ladrona" e votano leggi per quattro ladroni di Roma. Se vogliono sostenere l´insostenibile non ci facciano la lezione sulla morale e il federalismo, e se vogliono sostenere il miliardario noi li prendiamo di punta». Al Nord i Democratici affiggeranno i manifesti con Alberto da Giussano con lo spadone un po´ moscio, «flessibile», lo definisce Bersani. Risate e applausi. Infine il lungo elenco sul governo del fare che non sa fare un bel nulla («Governo del fare dei miei stivali»), neppure fornire più di 5 wc chimici agli immigrati di Lampedusa: «Allora gliene mandiamo altri 100 delle nostre feste Pd...».

il Fatto 6.4.11
Democracy Day
“Unità Unità!”: il popolo viola manifesta col Pd
di Caterina Perniconi


Al grido “u-ni-tà-u-ni-tà” il Popolo Viola è confluito nella manifestazione del Partito democratico e ha rimarginato la ferita tra le due piazze che hanno aperto il “Democracy Day”.
La giornata di “assedio al palazzo” in nome della democrazia è cominciata infatti nel primo pomeriggio davanti a Montecitorio con l’assemblea di alcune centinaia di cittadini riuniti da Articolo 21 e Libertà e Giustizia sotto le bandiere Viola, ma anche dell’Italia dei valori, Sinistra e Libertà e Partito Comunista dei Lavoratori. I manifestanti hanno srotolato uno striscione lungo quasi 60 metri cantando l’inno di Mameli “per tenere alta la guardia a difesa della Costituzione” come recita un volantino distribuito in piazza.
Negli interventi che si sono susseguiti al megafono – “possono parlare tutti i cittadini, perché tutti i cittadini sono uguali” ha detto l’organizzatore Gianfranco Ma-scia – è stata letta la “lista della vergogna”, cioè i 37 provvedimenti “ad personam” approvati dal 1994 ad oggi: dal decreto Biondi del 1994 alla Cirami del 2002 e l’ex Cirielli del 2005 passando per il decreto salva Rete 4 del 1999 targato D’Alema.
Alle 16 è toccato ad Antonio Di Pietro, salito sulle transenne di fronte al Parlamento, il compito di annunciare la vittoria della maggioranza nel voto sul conflitto di attribuzione: “Se vi aspettate che lui (Silvio Berlusconi, ndr) si dimetta, è come dire che il sole domani non sorgerà – ha urlato il leader dell’Idv a una piazza che lo acclamava come un eroe al grido “Tonino mandalo in galera” – se vi aspettate che il Parlamento lo sfiduci è più facile che la Luna vada nel pozzo, perché lì dentro ci sono persone comprate, vendute o ricattate. C’è allora il rischio che si passi dalla manifestazione alla rivolta di piazza, ma noi questo rischio dobbiamo scongiurarlo”.
PER DI PIETRO, quindi, c’è un’unica soluzione: “Dovete andare a votare il 12 e 13 giugno al referendum sul legittimo impedimento, perché sarà un vero e proprio voto politico”. E i manifestanti non vedono l’ora di mettere quella crocetta: “Quando la tigre è in casa tua – recita uno striscione – non discutere su come cacciarla”. Oltre alla bandiera di 60 metri, davanti a Montecitorio c’è un’altro tricolore: quello dei vessilli dei militanti di Fli, per la prima volta con i loro simboli al fianco dell’opposizione. Siete in piazza con la sinistra? “No – smentiscono i “futuristi” – siamo qui per la legalità e contro la mignottocrazia”.
Il Pd invece ha preferito una piazza defilata – quella del Pantheon – per assecondare la richiesta di Giorgio Napolitano di non manifestare davanti ai palazzi delle istituzioni e soprattutto per evitare un’altra “rivolta” di cittadini con monetine alla mano, come quella di mercoledì scorso, che rischiava di essere messa in conto a Pier Luigi Bersani. Ma il Popolo Viola (e le sue infinite declinazioni) ha deciso di raggiungerli.
“Quella maggioranza ha di fatto deciso che Ruby è la nipote di Mubarak – ha detto il segretario del Pd – così ci mette davanti al mondo in una condizione di umiliazione, di diminuzione e di vergogna perché solo i disonesti non arrossiscono di fronte a delle cose simili”. Alle parole di Bersani, la piazza ha applaudito ed ha cominciato a urlare “vergogna, vergogna”. Il segretario del Pd ha spiegato che “il Parlamento ormai è una specie di collegio allargato degli avvocati di Berlusconi, che ogni giorno fa il suo shopping” in evidente riferimento al sostegno alla maggioranza dato ieri dai liberal democratici. E poi un avviso per Umberto Bossi: “Se la Lega vuole sostenere il miliardario lo dica perché stavolta la prendiamo di punta. Perché non può dire ‘Roma ladrona’ e poi votare le leggi ad personam e sostenere che Ruby è la nipote di Mubarak. Se fa così non venga a darci lezioni di moralità o sul federalismo”. Alla manifestazione del Pd non è mancata la contestazione da parte di alcuni militanti dello stesso partito provenienti da Mentana, in provincia di Roma, dietro lo striscione “Partito antidemocratico” e con in mano la pagina del Fatto di ieri dal titolo “Il Pd parla Tedesco”. La protesta era dovuta al commissaria-mento del partito nella cittadina laziale e alle posizioni sul caso del senatore, ed ex assessore, della giunta Vendola.
Dopo la giornata, c’è stata anche una “nottata per la democrazia”. L’appuntamento a piazza Santi Apostoli si è aperto sulle note del Dies Irae: “Abbiamo voluto organizzare una notte bianca, simbolica – hanno detto gli organizzatori – per illuminare uno dei periodi più bui della democrazia”.

l’Unità 6.4.11
Proposta di legge di cinque senatori del partiti di maggioranza per abolire la norma costituzionale
L’imbarazzo di Schifani, «esterrefatto». Il ministro Rotondi minimizza: ma non era uno scherzo
Cinque senatori Pdl e uno di Fli (che poi corre a ritirare la firma) presentano un ddl per abolire il reato di ricostituzione del partito fascista. Insorge l’opposizione. Schifani: «Sorpreso e esterrefatto».
di Maria Zegarelli


Ci hanno provato ma gli è andata male. Per ora. Cinque senatori Pdl e uno di Fli che poi è corso a ritirare la firma dopo un duro faccia a faccia con Italo Bocchino, hanno presentato un disegno di legge costituzionale per abolire la XII norma transitoria e finale della Costituzione che vieta la «riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». L’estensore è stato Cristiano De Eccher, cofirmatari Fabrizio Di Stefano, Francesco Bevilacqua, Giorgio Bomacin, Achille Totaro e il Fli Egidio Digiglio. La notizia era già emersa nei giorni scorsi, il ddl è stato presentato il 29 marzo, ma la polemica è scoppiata soltanto ieri, dopo la denuncia del segretario romano Pd Marco Miccoli. «Sorpreso ed esterrefatto» lo stesso presidente di Palazzo Madama, Renato Schifani che pur «nel rispetto delle loro prerogative costituzionali» auspica che gli autori della proposta possano «rivedere la loro iniziativa». L’opposizione insorge. «Trovo molto grave e offensivo per la storia del Paese e della Repubblica e per la nostra democrazia che il Pdl voglia abolire il reato di apologia del fascismo», commenta la capogruppo Pd Anna Finocchiaro. Lapidario Achille Passoni: «Possono cambiare casacca ma
quando fascisti sono, fascisti rimangono». «Proposta di legge vergognosa» per il portavoce nazionale Udc Antonio De Poli che chiede al vicepresidente vicario del Pdl Gaetano Guagliarello «di prendere immediatamente le distanze dal ddl». Fischi quando la notizia raggiunge il sit-in del Pd in piazza del Pantheon. «Fascisti, avete gettato la maschera! Il Pdl sarà costretto a ritirare questa indegna proposta di legge, ma avrà mandato un segnale inquietante e eversivo agli squadristi che lo sostengono. Ormai è allarme rosso per la democrazia», tuona Leoluca Orlando dell’Idv.
Non commenta «per principio» De Eccher, origini nella nobiltà trentina di una famiglia legata al Sacro  Romano Impero, responsabile da ragazzo a Trento del gruppo Avanguardia nazionale, nonché finito nell’inchiesta sulla strage di piazza Fontana. Se intende ritirare il provvedimento come ha invitato Schifani? «Siccome non l’ho ricevuto in forma diretta...» risponde allontanandosi.
«Non c’è nessuna volontà né del governo né del Pdl di promuovere l’abolizione del reato di apologia del fascismo assicura il ministro per l’attuazione del programma di governo Gianfranco Rotondi -. Il Pd eviti polemiche strumentali che diano anche solo la sensazione che le forze politiche si dividano anche sull’antifascismo». Era uno scherzo da buontemponi?

il Fatto 6.4.11
La vergogna che non si può vedere
di Furio Colombo


Lampedusa è un'isola splendida e deserta, il giorno dopo. Le grandi navi che per due mesi non sono mai arrivate, alla fine, come in una fiaba, sono arrivate. Hanno portato via gli immigrati a migliaia per volta. È stato il giorno della rivolta dei bambini, lasciati soli e prigionieri in cima a una collina, mentre vedevano le navi allontanarsi, senza una voce o una spiegazione. E finalmente oggi, è il giorno dopo, le grida degli abitanti disperati per l'invasione senza soccorsi, dei sopravvissuti dal mare che non potevano né restare né andar via, che l'abbandono preordinato stava trasformando in nemici e pericolo.
Ma adesso, per qualche ora, per qualche giorno, l'isola è un grande museo a cielo aperto, una mostra dal vero, strana e impressionante, che potrebbe avere un titolo semplice: “Stupidi e cattivi”. Non le vittime, che sono state insieme, per quattro insopportabili settimane, gli scampati, che si sono sentiti prima miracolati e poi in un incubo, e gli abitanti dell'isola, che non avrebbero mai immaginato un simile turpe gioco con i corpi e l'ingombro fisico degli scampati, usati contro di loro.
No, sto parlando del governo italiano, misera e pietosa coalizione di gente inutile però dannosa, che non ha visto, non ha capito e ha disonorato il Paese, facendolo apparire incapace e in preda al panico di fronte a una emergenza grande per la piccolissima isola, però minuscolo rispetto a un Paese fra i dieci più importanti del mondo. Vi dico quel che si vede: su uno spiazzo molto grande di terra e di pietre inclinato verso il mare, c’è ancora una tendopoli da fine del mondo, migliaia e migliaia di rifugi contro il freddo e la pioggia fatti senza l'aiuto di nessuno, con un assemblaggio di rifiuti, di stracci, di bastoni, con le inferriate che mancano ai cancelli vicini di alcuni depositi, con tovaglie o coperte rubate e indurite dall'acqua e bruciate dal sole, piene di resti di un disgraziato passaggio umano che deve essere stato colmo di corpi e di disperazione. C’è l'odore della miseria, il vuoto della paura, con vista su una impenetrabile e incomprensibile assenza di qualunque forma di guida, di decisione, di governo, che certi giorni avrà avuto la forza della allucinazione.
SE FOSSE possibile lasciare intatta quella collina (invece di ricostruirla, come accadrà, in una prossima Biennale d'arte, in qualche parte del mondo) resterebbe la documentazione di una accusa legittima e pesante: abbandono deliberato di esseri umani (gli abitanti di Lampedusa e i migranti scampati al mare) per uso privato (contributo versato da migliaia di persone agli interessi politici di un gruppo estraneo con lo scopo preciso di portare allo scontro per troppa disperazione).Il gruppo estraneo è la Lega Nord, che ha infettato con la sua follia da respingimento in mare una parte di italiani confusi dalle contraddizioni, stremati dal non governo, costretti al numero comico del padrone troppo sfasato con la storia e troppo ricco che, come soluzione, viene a portare a Lampedusa un casinò e a comprare una villa (che, finito lo spettacolo, non compra).
Che documento televisivo sarebbe stato sovrapporre al discorso stralunato di Berlusconi le immagini della tendopoli disperata, vissuta come fine della vita nell'immondizia, e indicata come accampamento di forze nemiche pronte a quell'attacco finale tante volte predicato con furore da menti oscurate (Bossi, Borghezio) però rese potenti, con uno spazio esclusivo di dominio garantito dal servo-padrone che paga qualunque prezzo (nel suo giro la reputazione non conta), pur di tenersi la Lega accanto.
QUANDO lunedì 4 aprile sono arrivato a Lampedusa, avevo preannunciato e spiegato a Prefettura e Carabinieri: due deputati (Andrea Sarubbi e io), che pure sono autorizzati dalla Costituzione a qualunque visita improvvisa a luoghi di detenzione e a strutture di dubbia natura giuridica (prigionia o protezione) come i cosiddetti “centri di accoglienza” e quelli, comunque peggiori, detti “di identificazione e di espulsione” (entrambi senza leggi o regolamenti o rapporto con il rispetto dei diritti umani) tutto era predisposto per la nostra visita, compresa la cordialità competente di chi ci ha accolto. Ma nel Paese del presunto federalismo, disgraziatamente avallato finora anche dal Pd, niente, nell'isola di Lampedusa, dipende da Lampedusa, o dalla Provincia di Agrigento, o dalla Regione. In auto, mentre stavamo andando a incontrare gli immigrati arrivati nella notte (da 300 a 900, le notizie, in questa Repubblica democratica, viaggiano solo per sentito dire) la telefonata che ci ha fermati è giunta “dal Gabinetto del ministro dell’Interno”, come ci hanno detto con immenso imbarazzo il funzionario della prefettura e i Carabinieri che, conoscendo la legge e i diritti di un deputato, ci stavano facilitando tutto.
L'ESPRESSIONE usata, e riferita, era “divieto assoluto sull'isola anche se trattasi di parlamentari”. In quel momento soltanto due parlamentari (Pd) erano presenti a Lampedusa, con una visita deliberatamente preannunciata. Maroni, il quadrumviro leghista che nel tempo libero dagli impegni di partito padano (oscura definizione del suo partito che, invece che alla Narnia si ispira alla Padania) fa il ministro dell'Interno della Repubblica italiana, non è tipo da imbarazzarsi. Non si è imbarazzato per il fatto di sapere prima e per tempo della nostra visita, con tutto il tempo di parlarne direttamente con gli interessati. Non si è imbarazzato del fatto che quella stessa mattina il deputato Pdl Fontana era andato su e giù per Lampedusa come e dove voleva, con visite ai luoghi “assolutamente proibiti” per altri membri del Parlamento. E non si imbarazza a non farsi vedere nel giornoe nell'ora che risultano nel calendario pubblico e ufficiale della Camera (martedì 5 aprile, ore 10). Infatti gli basta scomparire per non dover rispondere della nostra “assoluta” esclusione. E lo fa con la disinvoltura maleducata verso il Parlamento che è ormai un marchio di fabbrica dei ministri Bossi-Berlusconi in questa legislatura.
Eppure c’è un senso, sia pure primitivo e alquanto disumano in questa strategia, che rimbalza fra il clown finto giocoso e finto benevolo, e il boss leghista, stretto osservante di leggi inventate che hanno creato un enorme problema umano. Credo si possa riassumere e spiegare così:
1) È necessario creare la finta divisione fra “clandestini” e “profughi”. Una legge senza fondamenti giuridici già preparata in proposito e incostituzionale ha inventato il reato di clandestinità. Il reato consente di definire “criminali” i presunti colpevoli. Chi si offre per ospitare “criminali”? E con le parole si diffonde meglio la paura.
2) Ma occorrono i fatti. Questi tunisini sono troppo europei, parlano francese, si spiegano in italiano e fra loro puoi trovare dei laureati. Imbarazzante per Bossi e per il figlio di Bossi, dato il loro curriculum scolastico. Bisogna che diventino bestie da temere. Basteranno venti giorni di navi che ci sono ma non arrivano, di luoghi dove mandarli che non si trovano, di piani che non esistono, di incapacità di trattare (o anche solo di farsi rispettare) con il presidente francese o anche solo con il governo provvisorio tunisino? Intanto proviamo, a spese della paura di Lampedusa e del terrore dei migranti.
3) Bisogna riconoscere a Maroni il merito, non proprio umanitario, di avere resistito nel prolungare il più possibile sia il colpo inferto a Lampedusa, immagine e turismo, sia alla sofferenza dei nuovi arrivati, prividitutto,daibagniallebottigliette d'acqua. Alla fine ha ceduto, ma dopo avere fatto tutto il danno possibile a Lampedusa, agli scampati dalla guerra e dal mare e a quel che resta, dopo Berlusconi, dell'immagine dell'Italia.
Ora che girano sempre più storie sui migranti morti in mare, e giungono numeri sempre più alti, forse non è prudente che vi siano incontri fra deputati infidi e "clandestini" come Sarubbi e me, e gli scampati al mare appena arrivati. Potrebbero sapere o avere visto storiechenonsonoutilialpacchetto elettorale della Lega per la liberazione della Padania, come lo è stato il disastro umano di Lampedusa. Ma l'evidenza tragica di ciò che è successo per cinismo, stupidità e cattiveria, abbiamo fatto in tempo a constatarlo sul posto.

La Stampa 6.4.11
Né vittimismi né allarmismi per affrontare l’emergenza
di Emma Bonino


Caro direttore, affermo in tutta tranquillità che, per ignoranza o per calcolo, il governo ha creato il «dramma» Lampedusa invece di governare il problema in piena legalità (e umanità). Oscillando tra allarmismo e vittimismo, minacce di crisi di governo e dichiarazioni tanto sguaiate quanto irresponsabili di autorevoli ministri, il governo ha ignorato e violato due strumenti che aveva a disposizione per fronteggiare in maniera incisiva la crisi degli sfollati nel Mediterraneo.
Il primo è la direttiva 55/2001 emanata dall’Europa dopo la crisi umanitaria del Kosovo nel 1999. E’ intitolata: «Norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi». Un titolo più calzante alla situazione di oggi è davvero difficile trovarlo. Ma lo è anche nei contenuti perché, con questa direttiva, sono regolate le norme minime per la concessione della protezione temporanea, che vale per un anno e può essere prorogata di un altro, massimo due. La condizione cessa quando è accertata la possibilità di un rimpatrio sicuro. La direttiva - di grande civiltà e buon senso, come si vede - è stata recepita nell’ordinamento nazionale nell’aprile 2003 e, tardivamente e obtorto collo, il governo si sta finalmente muovendo per la sua attivazione.
Il secondo risale addirittura al 1998. In base all’art. 20 del Testo unico delle leggi sull’immigrazione, analoghe misure di carattere eccezionale possono essere attivate a livello nazionale con decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, anche senza una preliminare concertazione europea, per «rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all'Unione europea».
Di che parliamo, dunque? Parliamo di un governo che ha volutamente ignorato gli strumenti normativi esistenti scegliendo, invece, di fare di Lampedusa un’orrenda vetrina mediatica da strumentalizzare per fini politico-elettorali. Così si è cinicamente scelto di bloccare a Lampedusa migliaia di persone lasciate per giorni senza la minima assistenza, a cominciare da adeguate strutture igieniche e sanitarie, con la palese volontà di esasperare la situazione, costringendoli a una pesantissima coabitazione forzata con gli abitanti dell’isola. A questo si è poi aggiunto l’inspiegabile ritardo di un controverso piano-regioni, con la previsione di tendopoli, senza i dovuti controlli come il caso Manduria ha ampiamente dimostrato. Il tutto, poi, accompagnato da un’assurda e immotivata polemica con i Paesi europei e con l’Ue. Da non tralasciare neppure il capitolo, anche questo poco edificante, della direttiva sui rimpatri del 2008 che non è stata attuata nell’ordinamento italiano entro il termine del 24 dicembre scorso. La principale responsabilità è del ministro Maroni che ha affermato che l’Italia non poteva trasporre la direttiva a causa del reato d’ingresso o permanenza irregolare di stranieri previsto dalla legge n. 94/2009 che, appunto, viola le disposizioni della direttiva, come confermano le numerose pronunce giurisdizionali e le questioni pregiudiziali inviate alla Corte di Giustizia dell’Ue. Sia quindi chiaro a tutti il vero motivo della mancata trasposizione finora. Ma c’è la possibilità di porvi rimedio poiché la legge comunitaria 2010 è tuttora all’esame della Camera dove è stata modificata con l’introduzione della norma sulla responsabilità civile dei magistrati: non ci vorrebbe nulla ad inserire anche il recepimento della direttiva sui rimpatri quando tornerà al Senato.
Se questo è il quadro della situazione ad oggi, occorre capire cosa intende fare il governo a partire da domani. Ed è opportuno fin d’ora avvertire che allontanamenti coercitivi e collettivi sono illegittimi, come stabilito dal Protocollo IV della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, e che il blocco navale previsto dalla risoluzione 1973 dell’Onu ha lo scopo di far rispettare l’embargo su forniture al regime di Gheddafi e non di far da barriera a chi cerca di fuggire dalle zone di guerra.
Insomma con tanto ritardo e tanti drammi evitabili, il governo deve «scoprire» che non c’è altra strada se non quella della protezione temporanea. Che non c’è altra strada, cioè, se non quella della legalità e dell’applicazione delle norme.
*Vicepresidente del Senato ed ex commissario europeo

il Fatto 6.4.11
Caso Tedesco i Democratici dicono no ma non vogliono l’arresto


Il Pd ha deciso: voterà no alla relazione del senatore Balboni sull’autorizzazione all’arresto di Alberto Tedesco. Ma questo non significa che autorizzerà la custodia cautelare nei confronti dell’ex assessore alla Sanità pugliese. La relazione Balboni esclude il fumus persecutionis, ma ritiene che il senatore non vada arrestato perché i reati di cui è accusato non sono abbastanza gravi. Nel Pd inizialmente solo un senatore, Felice Casson, aveva espresso la sua contrarietà. Ora anche i suoi colleghi dovrebbero seguire la sua linea, ma per diverse motivazioni. C’è chi ritiene che le motivazioni di Balboni non siano abbastanza approfondite, chi ha dubbi sulla distanza tra l’inizio delle indagini su Tedesco e la richiesta di custodia cautelare. Ma nessuno, Casson escluso, dice no perché sul senatore non ci devono essere ombre. Così, se stasera la maggioranza riuscirà ad approvare da sola la relazione Balboni, il Pd avrà salvato la faccia, e la parola passerà all’aula. Se invece la relazione non dovesse ottenere voti a sufficienza, Balboni può tentare di modificare il suo testo oppure essere sostituito da un nuovo relatore: i tempi così si allungherebbero, magari fino alla sentenza del Riesame a cui Tedesco ha fatto appello.

Corriere della Sera 6.4.11
Si vota sull’arresto di Tedesco, tensione nel Pd Pdl per il no, democratici in difficoltà. Casson: bisogna concederlo
di Alessandro Trocino


ROMA— Stasera alle 20.30 i nove senatori del Pd nella Giunta per le autorizzazioni, salvo ripensamenti, voteranno no alla relazione di Alberto Balboni. Il parlamentare del Pdl chiede di negare l’autorizzazione all’arresto di Alberto Tedesco, senatore del Pd (autosospeso), già assessore alla Sanità della giunta Vendola, accusato di concussione e corruzione. Considerando che nella Giunta l’opposizione conta undici senatori (9 Pd, un Idv e un Udc), il no all’arresto dovrebbe passare per 13 a 11. L’ago della bilancia (salvo assenze, diplomatiche o meno) sono i due leghisti, Sandro Mazzatorta e Giovanni Torri. Quest’ultimo dice: «Ascolterò Balboni e poi deciderò. Certo, questo Tedesco sta facendo troppo il furbo. Continua a chiedere di immolarsi alla magistratura: se uno fa il fenomeno poi rischia di farsi male» . Tedesco ha più volte annunciato di volersi difendere «nel processo» . Ma, nonostante la denuncia del «sistema marcio» in Puglia, il Pdl ha deciso di difenderlo dalle richieste d’arresto. Balboni ha spiegato che non c’è fumus persecutionis nell’inchiesta, ma che non sussistono le condizioni per concedere l’arresto. Perché il reato non è abbastanza grave e non ci sono le condizioni per le esigenze cautelari. E perché costituirebbe un vulnus al plenum del Senato. Balboni ha ricordato che le autorizzazioni all’arresto sono state date solo quattro volte, tutte per fatti di sangue: Francesco Moranino, Sandro Saccucci, Toni Negri, Massimo Abbatangelo. Il Pd è in difficoltà. Nella giunta per le autorizzazioni prevalgono le sensibilità «garantiste» e quindi contrarie all’arresto. Ma nell’Aula non è così e i vertici del partito stanno conducendo una dura battaglia a difesa della magistratura. Per questo Pier Luigi Bersani ha detto che lascerà «libertà di coscienza» ai senatori, ma ha aggiunto che «il Pd non ha posizioni da tutelare» . Nessuna difesa d’ufficio per Tedesco, insomma. Ieri mattina, presente Anna Finocchiaro, i nove componenti hanno raggiunto un primo accordo. Fermo restando la libertà di coscienza, il voto sulla relazione dovrebbe essere no. Ma dire no a quel no all’arresto, non vuol dire sì all’arresto. In questo sottile crinale si muove il compromesso. Maria Leddi è cauta: «È una situazione delicatissima» . Marilena Adamo: «Non parlo, non so di nessun accordo» . Felice Casson è a favore dell’arresto: «Non ci sono i presupposti giuridici e costituzionali per negarlo. La violazione del plenum è un’invenzione giuridica. E poi dire no all’arresto, con la battaglia che combattiamo, sarebbe incomprensibile per l’opinione pubblica» . Luigi Lusi, moderato ex rutelliano, considerato «garantista» , la mette così: «Io voterò no alla relazione» . Quindi è a favore dell’arresto? «Si vota solo sulla relazione, che è orale e non emendabile. Quando si andrà in Aula, con una relazione scritta, potremo decidere liberamente in modo articolato» . Insomma, il no al no non è un sì. E per esprimersi c’è tempo, il voto arriverà in Aula tra qualche settimana. Dopo che il Tribunale del Riesame, il 14 aprile, deciderà se confermare o meno la richiesta d’arresto. A quel punto l’Aula (e il Pd) probabilmente non potrà che seguire le decisioni dei magistrati. Anche se Luigi Li Gotti, dell’Idv, non ci sta: «Che senso ha aspettare il Riesame? Allora perché non aspettare l’esito del successivo ricorso in Cassazione? O la sentenza definitiva?» .

Corriere della Sera 6.4.11
Il gusto di essere un po’ reazionari
Quando la sinistra fa la destra
di Filippo La Porta


Al convegno dell’Istituto di cultura di Zurigo sulla lingua italiana la scrittrice Lidia Ravera ha difeso, con passione, le ragioni della scrittura, la manutenzione amorevole della lingua, la dedizione alla parola come «disciplina interiore» (Mario Luzi), contro le invasive gergalità del presente. Renato Barilli, presente al convegno, ha voluto per questo tacciarla di «reazionaria» . Dopo un attimo di spaesamento, per l’uso di una categoria così ideologicamente connotata in cose letterarie, mi sono persuaso che la definizione fosse tecnicamente esatta. In che senso? Sempre più sul piano culturale (e non soltanto) destra e sinistra sembrano scambiarsi le parti. La sinistra, di fronte a una modernità che giudica profondamente distorta, assume volentieri posizioni conservatrici e finanche «reazionarie» . E così Lidia Ravera ha elogiato, coerentemente, la lingua scritta — più meditata e durevole, dai tempi lenti, capace di dare ordine al caos e di incidere sul rapporto tra noi e la realtà— rispetto alla effimera lingua parlata dei talk show (dove in un certo senso chiunque è «sconfitto» ), e anche a quella lingua parlata mascherata da lingua scritta di blog e newsgroup — estemporanea, veloce, sintatticamente approssimativa. Anche Pasolini era accusato spesso di essere reazionario, poiché intendeva «reagire» a uno «sviluppo» che secondo lui non coincideva più con un auspicabile «progresso» . E, ad esempio, aveva nostalgia non certo del fascismo ma di ciò che il fascismo non era riuscito a contaminare (l’immaginario più riposto delle persone, la cultura spontanea fatta di gesti e comportamenti che durava da secoli). La tecnologia e il Nuovo non vanno accettati acriticamente. Benché Marx celebrasse le magnifiche sorti del capitalismo, che ci avrebbe liberato da ogni legame, oggi la sinistra può anche riacquistare il gusto di essere un po’ reazionaria: e dunque cercare non nel futuro ma proprio nel passato un’idea di «verità» , di «umano» , di «bellezza» che la attuale modernizzazione tende a negare.

Repubblica 6.4.11
Come in Tunisia
"Uno schiaffo per la Rivoluzione così i siriani diventano cittadini"
Parla la dissidente al-Atassi, la donna-simbolo che ha sfidato gli agenti
di Alix Van Buren


Facebook ha rotto l´isolamento, i giovani sono protagonisti di una nuova politica
Un moto d´istinto può avere forza propulsiva: è accaduto anche in Tunisia con Bouaziz
È appena uscita dal carcere dopo quindici giorni di sciopero della fame

DAMASCO - Lo schiaffo che ha risvegliato la Siria è stato assestato dalla piccola mano che adesso porge il benvenuto sulla soglia di casa a Dummar, un nuovo quartiere fuori della capitale. Dietro, appare il sorriso luminoso di Suhair al-Atassi, la dissidente forse più in vista nel Paese. «Davvero, è un sogno esser qui. Ancora dieci ore fa, m´aspettavo le peggiori torture», si congratula la minuta donna in jeans, 39 anni, due occhi che scintillano d´entusiasmo.
Non che quel ceffone a un robusto agente della sicurezza di cui si favoleggia nella primavera delle libertà, fosse da osare a cuor leggero. Animatrice del salotto politico più rispettato in città, erede di un´illustre dinastia, gli Atassi - presidenti, ministri, ambasciatori, magistrati, tutti caparbi nella richiesta di democrazia, figli dell´"Età liberale araba" a cavallo del secolo - Suhair è appena tornata dal carcere dopo 15 giorni di sciopero della fame. È uscita con la liberazione dei prigionieri politici avviata dal nuovo governo.
Signora Atassi, perché è stata arrestata?
«Glielo racconto. Il primo "giorno della rabbia", il 15 marzo, quand´ho visto i giovani scendere in piazza, maschi e femmine di ogni etnia e religione, ho annunciato che i siriani ora sono veri cittadini, non più pecore. Che la patria non ha un sayyed, un Signore. Parole pericolose agli occhi del regime. In più, c´era quel precedente: la storia dello schiaffo».
Com´è andata quella storia?
«In febbraio eravamo stati presi a cinghiate per un raduno di solidarietà con i tunisini e gli egiziani. Ho sporto reclamo alla centrale del mukhabarat di Bab Touma. Sa cos´ho ottenuto in risposta? Solo insulti e minacce. Un mukhabarat mi ringhiava: "Vedrai, qualcuno ti ammazzerà. Ripuliremo le piazze dagli scarafaggi, dalle prostitute come te. Poi, m´ha colpita. Ecco, in quel momento m´è partita la sberla».
Un atto impulsivo o una mossa plateale?
«Un moto d´istinto, però dettato dalla dignità del cittadino. Dopotutto, nel risveglio arabo, una sberla non è più il gesto infame di uno sbirro, senza conseguenze. Ha una forza propulsiva, da quando il 17 dicembre in Tunisia il giovane Bouaziz dopo una simile mortificazione s´è immolato col fuoco, innescando la rivolta di milioni dalle coste dell´Atlantico alle dune dell´Hijaz».
La sua ribellione, però, ha avuto conseguenze?
«Non mi sono fatta intimidire. Ho ripreso a manifestare. Sono stata arrestata il 16 marzo a un sit-in per i prigionieri politici. I mukhabarat volevano farmela pagare. Non scordo l´odio nei loro sguardi quando m´hanno presa, in due per le braccia, altri quattro a picchiarmi alle spalle. Sei mukhabarat contro me sola. Per ironia, alla centrale mi hanno medicata».
Le è stata concessa la presenza di un avvocato?
«Sì, e il giudice simpatizzava con noi. Il vero nodo, però, è un altro: lo strapotere dei mukhabarat, che esautora la magistratura. Ho iniziato con le altre donne lo sciopero della fame. Quando hanno liberato tutte, tranne me, non sapevo cos´aspettarmi. I mukhabarat m´avevano giurato il sequestro, lo stupro, la morte se non avessi smesso l´attività del mio Forum, anche su Facebook. Avrebbero preso mio figlio in Libano. Sola in cella, pensavo fosse arrivata la mia ora. Ma poi, alle 8.45 di domenica sera, la galera s´è aperta al-Hamdulillah, Dio sia lodato. L´incubo è svaporato».
Ripeterebbe il suo gesto?
«Ormai la piazza è spalancata. Facebook ha rotto l´isolamento della Siria con l´esterno, e del popolo al suo interno. Collega siriani e egiziani, dissidenti storici e giovani, protagonisti di un nuovo modo di fare politica».
E l´opposizione che parte ha in questo scenario?
«E´ in ritardo, come in Egitto, tinta da ideologie di partito - comunisti, nasseristi, nazionalisti - e da un´età media di 60 anni. L´irruzione della gioventù ha scardinato la scena. Nel 2005, ho aperto il mio Forum a un comitato solo di giovani, portatori di strumenti inediti, dinamici, ben più pericolosi. E vuole sapere una cosa? Per ironia, tutto questo è successo sotto la guardia del presidente Bashar al Assad».
Sarebbe a dire?
«Che le novità sono germinate sul terreno delle libertà concesse da Assad dopo l´arrivo al potere. Forse nemmeno lui s´aspettava il risultato. Se indovino la sua intenzione, lui voleva acquistare legittimità agli occhi dei siriani. Quando il regime s´è accorto del rischio, è iniziata la repressione. Ma sotto il suo regno è nata la società civile, si sono sviluppati Internet, i movimenti degli studenti nel 2003, fenomeni importanti di volontariato: quelli che ora sono in piazza».
Secondo lei, qual è il corso della protesta siriana?
«Fino adesso l´opposizione riteneva che i giovani siriani non fossero impegnati quanto gli egiziani e i tunisini. Che la Siria non fosse matura. Che servisse tempo per gettare le fondamenta salde di una rivolta. A essere sincera, non so neppure io chi mobiliti davvero la ribellione. So, però, che quando scorre il sangue, non si torna più indietro. La Siria è cambiata. L´ho detto al giudice, e lui m´ha sorriso: vogliamo essere veri cittadini».

Corriere della Sera 6.4.11
Dopo la parziale ritrattazione del rapporto Goldstone
Palestinesi, le verità non dette e i falsi maldestri per coprirle
Le «verità di guerra»
di Francesco Battistini


«Would have been different» : sarebbe stato diverso, se... Autodafè o pentimento, l’ultima frase di Richard Goldstone è diventata un tormentone in Israele. Al mercato di Tel Aviv, l’hanno stampata sulle t-shirt. Perché l’ultima verità è portabile in ogni occasione: tutto sarebbe stato diverso, ha riconosciuto l’autore del «Rapporto Goldstone» sui crimini di guerra a Gaza, se solo avesse avuto tutti gli elementi per giudicare. Una frenata, nel totale silenzio dei pacifisti. Una retromarcia, nell’imbarazzo dei palestinesi. L’ennesimo «smascheramento delle false verità» , ha scritto l’editorialista Ben Caspit su Ma’ariv: quelle del Comitato Onu per i diritti umani che nel 2009, sotto la guida di Gheddafi, votò il rapporto che inchiodava Israele; quelle dei giudici inglesi, che da due anni minacciano le manette a qualunque politico israeliano atterri da quelle parti; quelle della propaganda palestinese che, da sempre, non fa molto per imbrigliare le bufale. La fabbrica delle balle, già. O delle verità non dette. Una delle attività politicamente più redditizie, in Medioriente. Ne sa qualcosa lo stesso Richard Goldstone, giudice sudafricano ed egli stesso ebreo, che per mesi è incocciato nei silenzi dell’esercito israeliano e s’è trovato in mano elenchi della morgue, forniti da Hamas, dove le stesse vittime erano registrate più volte. «Le bugie girano— dice Yakov Amidror, consigliere del premier Netanyahu —, ma c’è un pregiudizio che spinge quelle antisraeliane a trasformarsi subito in verità assodate» . «Spesso occorre tempo per capire le verità — ribatte Hanan Ashrawi, deputata palestinese— e non è detto che quelle israeliane siano indiscutibili» . Certe volte, c’è poco da discutere: caso storico fu il «massacro di Jenin» del 2002, in cui morirono 33 israeliani e 56 palestinesi, quasi tutti maschi adulti. Ci volle un po’, ma poi si capì che «le oltre 500 vittime civili» denunciate dall’Autorità palestinese erano, in realtà, dieci volte meno e in gran parte combattenti. Tempi di dura propaganda, i primi anni zero, quando Arafat donava a uso tv il sangue per i feriti dell’ 11 Settembre e, intanto, distraeva dalle piazze di Ramallah esultanti per il crollo delle Twin Towers. O quando l’uccisione d’un bambino davanti alle telecamere, Mohammed Al Durrah, si trasformava in una controversa icona. Imorti non sono tutti uguali: dipende da come li si rappresenta. O da quanto se ne parla. Goldstone l’ha riconosciuto: Israele è una democrazia capace d’indagare su se stessa. Magari minimizza (chi ricorda più Yaakov Teitel, il colono che collaborava coi servizi e intanto ammazzava indisturbato gli arabi?) o ritarda (dopo un mese, ha ammesso d’avere rapito in Ucraina un sospettato di terrorismo). Di rado, però, fabbrica falsi maldestri come i resistenti: accadde con la povera famiglia Ghalia, 2006, «colpita dalle navi israeliane» mentre stava sulla spiaggia di Gaza, in realtà centrata per sbaglio da un mortaio «amico» ; o tre mesi fa a Jawaher Abu Ramah, donna «soffocata dai gas israeliani» durante una protesta contro il Muro, in realtà mai vista a quella manifestazione e probabilmente morta in ospedale per un tumore. Sul caso Goldstone, Abu Mazen aveva subodorato qualcosa e s’era dato da fare per ritardare quel voto a Ginevra: gli avevano dato del traditore falsario, proprio quelli che s’erano inventati le bombe israeliane al fosforo (smentite dalla Croce rossa) o le «trenta moschee» distrutte a Gaza. Un ministro di Netanyahu l’altroieri ha invitato Goldstone a un calumet della pace. Il giudice ha accettato: sarebbe stato diverso, se...

Repubblica 6.4.11
La filosofia è morta, solo i fisici spiegano il cosmo
I signori della creazione
di Stephen Hawking, Leonard Mlodinow


Un brano dell´ultimo saggio di Stephen Hawking: "Perché il grande disegno non dipende da Dio" Per secoli le domande importanti venivano affrontate dai pensatori Ma oggi la fiaccola della conoscenza è altrove Spetta alla scienza offrire soluzioni anche se queste vanno contro il senso comune. Come mostra Feynman
Ciascuno di noi non esiste che per un breve intervallo di tempo, e in tale intervallo esplora soltanto una piccola parte dell´intero universo. Ma la specie umana è una specie curiosa. Ci facciamo domande, cerchiamo delle risposte. Vivendo in questo mondo sconfinato che può essere ora amichevole ora crudele, e volgendo lo sguardo ai cieli immensi che ci sovrastano, gli uomini si sono sempre posti una moltitudine di interrogativi. Come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo? Come si comporta l´universo? Qual è la natura della realtà? Che origine ha tutto ciò? L´universo ha avuto bisogno di un creatore? La maggior parte di noi non dedica troppo tempo a preoccuparsi di simili questioni, ma quasi tutti di tanto in tanto ci pensiamo.
Per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza, e in particolare della fisica. Così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola nella nostra ricerca della conoscenza.
Questo libro si propone di dare le risposte che sono suggerite dalle scoperte e dai progressi teorici recenti. Tali risposte ci conducono a una nuova concezione dell’universo e del nostro posto in esso, assai diversa da quella tradizionale, e diversa anche da quella che avremmo potuto delineare soltanto un decennio o due fa. Eppure la nuova concezione aveva cominciato a prendere forma embrionale quasi un secolo addietro.
Secondo la concezione tradizionale dell´universo, i corpi si muovono su traiettorie ben determinate e hanno storie definite, cosicché è possibile specificare la loro esatta posizione in ogni istante del tempo. Sebbene tale descrizione sia abbastanza soddisfacente ai fini della vita quotidiana, negli anni ´20 si scoprì che questa immagine "classica" non era in grado di rendere conto del comportamento apparentemente bizzarro osservato sulle scale delle entità atomiche e subatomiche. Era invece necessario adottare un diverso quadro concettuale, chiamato fisica quantistica. Le teorie quantistiche si sono dimostrate straordinariamente precise nel predire gli eventi su tali scale, e al contempo capaci di riprodurre le predizioni delle vecchie teorie classiche quando venivano applicate al mondo macroscopico della vita quotidiana. Eppure la fisica classica e quella quantistica sono basate su concezioni assai diverse della realtà.
Le teorie quantistiche possono essere formulate in molti modi differenti, ma la descrizione probabilmente più intuitiva fu proposta da Richard Feynman (detto Dick), una personalità brillante che lavorava al California Institute of Technology e suonava i bongos in un locale di spogliarelli dei dintorni. Secondo Feynman, un sistema non ha una sola storia, ma ogni storia possibile. Più avanti, nella nostra ricerca delle risposte, spiegheremo nei particolari l´impostazione di Feynman, e ce ne serviremo per analizzare l´idea che l´universo stesso non abbia un´unica storia, e neppure un´esistenza indipendente. Questa sembra un´idea radicale, anche a parecchi fisici. In effetti, come molti concetti della scienza attuale, pare essere in conflitto con il senso comune. Ma il senso comune è basato sull´esperienza di tutti i giorni, non sull´universo quale ci si rivela mediante meraviglie della tecnologia come quelle che ci consentono di spingere lo sguardo fin nel cuore dell´atomo o a ritroso nell´universo primordiale.
Fino all´avvento della fisica moderna era opinione comune che il mondo potesse essere interamente conosciuto tramite l´osservazione diretta, che le cose sono ciò che sembrano, così come vengono percepite mediante i nostri sensi. Viceversa, lo spettacolare successo della fisica moderna, basata su concetti che, come quello di Feynman, sono in contrasto con l´esperienza quotidiana, ha dimostrato che le cose non stanno così. La concezione ingenua della realtà, pertanto, non è compatibile con la fisica moderna. Per affrontare tali paradossi adotteremo un´impostazione che chiameremo realismo dipendente dai modelli. Questa impostazione si basa sull´idea che il nostro cervello interpreti l´informazione proveniente dagli organi sensoriali costruendo un modello del mondo. Quando un simile modello riesce a spiegare gli eventi, tendiamo ad attribuire a esso e agli elementi e ai concetti che lo costituiscono la qualità della realtà o della verità assoluta. Ma possono esserci modi diversi per creare un modello della medesima situazione fisica, e ciascuno di essi potrà utilizzare elementi e concetti fondamentali differenti. (...)
Nel corso della storia della scienza si è scoperta una serie di teorie o modelli sempre migliori, dalla concezione di Platone alla teoria classica di Newton, fino alle moderne teorie quantistiche. È naturale chiedersi: questa sequenza alla fine avrà un punto di arrivo, porterà a una teoria definitiva dell´universo che includa tutte le forze e predica ogni osservazione che è possibile fare, oppure continueremo per sempre a scoprire teorie di efficacia crescente, senza però mai approdare a una che non possa essere ulteriormente migliorata? (...) oggi disponiamo di una candidata al ruolo di teoria ultima del tutto, ammesso che ne esista effettivamente una, e questa candidata è chiamata teoria M.
(...) La teoria M non è una teoria nel senso consueto. È un´intera famiglia di teorie diverse, ciascuna delle quali è una buona descrizione delle osservazioni soltanto entro una certa gamma di situazioni fisiche. È un po´ come accade nel caso delle carte geografiche. Come si sa, non è possibile rappresentare l´intera superficie terrestre in un´unica carta. L´usuale proiezione di Mercatore, utilizzata per i planisferi, fa sembrare sempre più grandi le aree man mano che si va verso nord o verso sud e non copre le regioni dei poli. Per rappresentare fedelmente tutta la Terra si deve ricorrere a una serie di carte geografiche, ciascuna delle quali copre una regione limitata. Le varie carte si sovrappongono parzialmente tra loro, e dove ciò accade mostrano lo stesso paesaggio. La teoria M è in qualche modo analoga.
Le varie teorie che formano questa famiglia possono sembrare molto diverse, ma possono essere considerate tutte come aspetti della medesima teoria fondamentale. Sono versioni della teoria applicabili solo in ambiti limitati: per esempio, quando certe grandezze, come l´energia, sono piccole. Come accade per le carte che si sovrappongono, così dove gli ambiti di validità delle varie versioni si sovrappongono, queste predicono i medesimi fenomeni. Ma proprio come non c´è nessuna carta piana che sia una buona rappresentazione dell´intera superficie terrestre, così non c´è nessuna teoria che da sola sia una buona rappresentazione delle osservazioni in tutte le situazioni.
Vedremo come la teoria M possa offrire soluzioni alla questione della creazione. Secondo questa teoria, il nostro non è l´unico universo. Anzi, la teoria predice che un gran numero di universi sia stato creato dal nulla. La loro creazione non richiede l´intervento di un essere soprannaturale o di un dio, in quanto questi molteplici universi derivano in modo naturale dalla legge fisica: sono una predizione della scienza. Ciascun universo ha molte storie possibili e molti stati possibili in tempi successivi, cioè in tempi come il presente, assai lontani dalla loro creazione.
Gran parte di tali stati saranno radicalmente differenti dall´universo che osserviamo e soltanto pochissimi di essi consentirebbero l´esistenza di creature come noi. Pertanto la nostra presenza seleziona da questo immenso assortimento soltanto quegli universi che sono compatibili con la nostra esistenza. Sebbene siamo minuscoli e insignificanti sulla scala del cosmo, ciò fa di noi in un certo senso i signori della creazione. Per comprendere l´universo al livello più profondo, dobbiamo sapere non soltanto come esso si comporta, ma anche perché. Perché c´è qualcosa invece di nulla? Perché esistiamo? Perché questo particolare insieme di leggi e non qualche altro? Questo è l´interrogativo fondamentale sulla vita, l´universo e il tutto.
© 2010 by Stephen Hawking and Leonard Mlodinow Original art copyright © 2010 by Peter Bollinger © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S. p. A., Milano
Per gentile concessione Luigi Bernabò Associates srl

Repubblica 6.4.11
I comandamenti della bibbia laica


LONDRA - "Ama gli altri; fai il bene; non fare il male; aiuta i bisognosi; pensa con la tua testa; sii responsabile; rispetta la natura; dai il massimo; sii bene informato; sii coraggioso". Sono la nuova versione dei dieci comandamenti, secondo The good book: a secular bible (Il buon libro: una bibbia secolarista), ultima opera del filosofo inglese A. C. Grayling, un compendio di aforismi, parabole e precetti presi da Eschilo, Euripide, Seneca, Platone, Voltaire e altri pensatori, riscritti dall´autore sotto forma di "bibbia laica". Per dimostrare, afferma Grayling, che la Bibbia non ha l´esclusiva della moralità e che l´umanesimo non ha nulla da invidiare alla religione. Comincia con una riscrittura della Genesi: "In principio c´era un albero in giardino, in primavera metteva foglie, in autunno dava frutti. E il suo frutto era la conoscenza, insegnando al giardiniere a comprendere il mondo". (E. F.)

Repubblica 6.4.11
Un saggio ripercorre iconografia e testi dedicati alla Madonna
Tutti I volti di Maria da Dante a Botticelli
L’opera ci mostra perché in alcune rappresentazioni appaiono certi simboli
di Paolo Rumiz


C´è chi vede nei luoghi a Lei dedicati una grande "emme" sulla mappa d´Europa. C´è chi, come i gestori di Medjugorje, ne usa il nome per spostare pellegrini o le attribuisce rivelazioni esoteriche tipo Fatima. Altri - specie nel Sud Italia - la vedono dea della fertilità, proseguimento del culto della Grande Signora. Altri ancora la caricano di significati dello Spirito Santo o, peggio, la leggono come misericordiosa antitesi a un Dio inflessibile. Non s´è mai parlato tanto, e tanto a sproposito, di Maria di Nazaret, la fanciulla ebrea moglie del carpentiere Giuseppe. Un tema difficile, che obbliga a districarsi in una foresta vergine di pratiche devozionali e dicerie che poco hanno a che fare con le Scritture.
Benvenuti siano dunque, in questi tempi di donna-consumo, i libri che consentono di avvicinare il mistero della sacralità materna di Lei, e leggerne i segni. E´ il caso di Maria di Nazaret di Luigi Pretto e Marina Stefani Mantovanelli (casa editrice Mazziana, euro 35, pagg. 320), un libro bifronte che legge la madre di Gesù da una parte nelle Scritture e nella letteratura, e dall´altra nell´iconografia dal Medioevo a oggi. Pretto, che si occupa della prima parte, è un sacerdote quasi novantenne di sterminata cultura, cresciuto a Padova nella tradizione pauperistica e terzomondista di Don Mazza, che fu il primo italiano a mandar missionari verso l´Alto Nilo, ai primi dell´Ottocento, ben prima della penetrazione comboniana.
Ed è un viaggio il suo, non una banale antologia; un viaggio che parte dai Vangeli, passa attraverso Meister Hechkart, Nicola Cusano e l´Alighieri, e prosegue fino a Reiner Maria Rilke e contemporanei come Heinrich Böll o i miscredenti Sartre e Brecht. Un viaggio difficile, perché Maria, con la sua corporeità che discende dal femminile biblico del Cantico dei Cantici, resta una figura che nei Vangeli parla pochissimo (appena cinque volte, se si conta il silenzio parlante sotto la Croce), e apre spazi minimi nel privato di Gesù. Talmente minimi che, scrive Pretto, "l´abbondante letteratura apocrifa - Vangeli, Atti, Apocalissi - nacque, nei primissimi secoli dell´era cristiana, proprio da questo desiderio di ripercorrere la vita di Gesù e di Maria".
Ne esce l´immagine nitida di una creatura terrena, nella quale però il Sacro si riflette in tutto il suo splendore. Da qui il ribaltamento - fondamentale - della traduzione al passo del "Magnificat" in cui Maria incontra Elisabetta: non è Dio che fa grande la Donna perché ha visto l´umiltà di Lei, ma è la Donna che riconosce la grandezza e la bontà di Lui. Questa esperienza di Dio unica e irripetibile fa della Madonna il fondamento della devozione verso i miracoli del Creatore. La Credente assoluta dunque, l´Intermediatrice cui ricorrere per avere una grazia, o la salvezza per esempio in caso di morte violenta.
Ma ecco l´analisi dei quaranta passi mariani nella Commedia, affrontati per la prima volta in modo panoramico (con c´è niente del genere, se si escludono le sei pagine sul tema nell´Enciclopedia dantesca di Mario Apollonio), e che svelano la presenza strutturante di Maria di Nazaret nell´architettura dell´opera. E´ Lei che chiama gli angeli in Purgatorio nella valletta dei principi, Lei che accompagna l´Alighieri fin sulla soglia dell´indicibile, qualcosa di fronte alla quale non vi può essere dialogo ma puro ascolto. L´ultimo gradino, l´unità che raccoglie tutto quanto "nell´universo si squaderna". L´approdo mistico, che spesso si raggiunge solo dopo aver provato lo sconvolgente senso di abbandono che nasce dalla percezione della sua possibile assenza.
Il viaggio nell´iconografia mariana della Mantovanelli, che ha dedicato anni all´analisi dei simboli e specialmente della mano dell´uomo e di Dio nell´arte rinascimentale, illumina di luce nuova quadri anche notissimi, in cui decifra segnali che spesso sfuggono a letture solo estetiche e dimostrano negli artisti una conoscenza solidissima dei Vangeli. Ci viene per esempio spiegato perché nella Deposizione di Giambellino il discepolo Giovanni distoglie lo sguardo da Cristo, o perché nella Madonna del Magnificat dipinta dal Botticelli il bambino guida la mano di sua madre nella scrittura, o ancora perché, nella sua Annunciazione, Antonello da Messina rappresenta Maria di Nazaret senza l´angelo.
Dettagli minimali di alto contenuto metaforico. Presenze come l´unicorno, simbolo della purezza, o la chiocciola, immagine di umiltà, semplicità e autosufficienza; creatura che secondo le credenze antiche nasceva dalla rugiada come Gesù nasceva dallo spirito santo nel ventre di Maria. Raffigurazioni dove assolutamente nulla è posto a caso; vedi per esempio l´Annunciazione di Tiziano nella chiesa del Santo Salvatore a Venezia. Nel dipinto Maria è priva di cintura, che è simbolo di castità, e ha la veste sciolta. Perché? Basta alzare gli occhi e la cintura perduta è sventolata dagli angeli come annuncio, commovente, di gravidanza.
E´ il sommo manifestarsi di Lui, e difatti sullo sfondo c´è un roveto ardente che abbaglia e porta Maria a ripararsi dalla luce con lo stesso gesto di Mosè sul Sinai. Un collegamento forte tra Vecchio e Nuovo Testamento, fatto non da un teologo, ma da un pittore. La folgorazione, più che la catechistica della grazia.

Corriere della Sera 6.4.11
Le idee che hanno emancipato l’uomo
Le lettere di Gramsci dal carcere
di Ranieri Polese


A lla loro uscita, nel 1947 da Einaudi, le Lettere dal carcere furono subito un successo. Era il primo volume delle opere di Antonio Gramsci (i Quaderni, pubblicati sempre da Einaudi, uscirono tra il 1948 e il 1951), che dovevano restituire alla cultura le riflessioni di uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento, e dare così libera circolazione a un pensiero rimasto sequestrato dai lunghi anni della prigionia. Con le Lettere si intendeva fornire il ritratto di un politico, un pensatore, un uomo praticamente sconosciuto ai più. C’era, sì, l’impegno del Pci a ricordare il suo segretario, ma della sua vicenda umana e, ancora di più, del suo lavoro teorico non si conosceva quasi niente. Già nella primavera del ’ 47, si erano vendute circa 12 mila copie delle Lettere dal carcere. E Leonida Repaci, fondatore del Premio Viareggio, volle fortemente che il premio di quell’anno fosse assegnato a quel libro, in deroga al regolamento che prevedeva solo opere di autori viventi. Su giornali e riviste, intanto, erano uscite recensioni a firma dei più importanti protagonisti della cultura, da Croce a Debenedetti a Gatto, Emanuelli, Calvino. Non risulta che qualcuno abbia mosso l’obiezione di un riconoscimento dedicato a romanzi e racconti e invece assegnato a una raccolta di lettere. E non solo per la bellissima prosa, lo stile piano senza retorica, i pregi letterari. Ma forse perché fu subito colto il carattere di un testo che si libera dal carattere occasionale dello scambio di corrispondenza per diventare il racconto di una storia umana e intellettuale sullo sfondo di un periodo «in cui — scrive Alfonso Gatto— si andava facendo il deserto» . Memorie, autobiografia, romanzo. È il punto che a Italo Calvino preme affermare quando scrive: «Questa raccolta di lettere familiari resterà nella cultura italiana con il valore di un libro organicamente scritto e sarà letto dalle nuove generazioni come un libro di memorie. E del libro di memorie e del grande romanzo ha l’ampiezza, l’intrecciarsi di mondi e di filoni» . Del resto, lo stesso Gramsci, scrivendo nel dicembre 1930 alla cognata Tania Schucht, si poneva la domanda sul senso delle sue lettere. Lamentandosi del fatto che la moglie Julia, a Mosca con i due figli Delio e Giuliano, rispondesse raramente e a intervalli troppo lunghi, scriveva: «Non mi piace tirar sassi nel buio; voglio sentire un interlocutore o un avversario in concreto; anche nei rapporti familiari voglio fare dei dialoghi. Altrimenti mi sembra di scrivere un romanzo in forma epistolare, che so io, di fare della cattiva letteratura» . Certo, tanti motivi spiegano la difficoltà del dialogo: i ritardi burocratici, la censura, i silenzi sul ricovero di Julia in una casa di cura per malattie nervose, le domande che Gramsci si pone sulla condotta del partito nei suoi confronti (più volte torna sulla «strana lettera» di Ruggero Grieco ricevuta nel carcere di Milano nel 1928), la cautela con cui il prigioniero fa conoscere le sue condizioni di salute e la prudenza che raccomanda, tramite Tania e l’amico Piero Sraffa, ai compagni all’estero nelle iniziative per la sua liberazione. Però, nel febbraio del 1933, sempre a Tania, Gramsci scrive: «Ciò che è scritto, acquista un valore "morale"e pratico che trascende di molto il solo fatto di essere scritto, che pure è una cosa puramente materiale» . Quindi, niente cattiva letteratura, semmai pagine che hanno un valore morale e pratico, che raccontano la storia di un uomo incarcerato per le sue idee politiche. E, insieme, raccontano la storia, nel suo farsi, di un pensiero che affronta i nodi cruciali della politica e della storia italiana. La raccolta si apre il 20 novembre 1926, subito dopo l’arresto, dal carcere di Regina Coeli a Roma, e si chiude nel dicembre 1936, dalla clinica Quisisana di Roma, dove Gramsci era arrivato nell’agosto 1935, dopo due anni passati nella clinica Cusumano di Formia. La prima e l’ultima lettera sono indirizzate alla moglie Julia, seguono poi otto lettere senza data ai due figli. Attraverso la corrispondenza si seguono gli spostamenti del detenuto, da Roma al confino di Ustica, poi Milano, da qui Roma per il processo davanti al Tribunale speciale (nel 1928 Gramsci viene condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione), quindi Turi di Bari. Descrive, Gramsci, con ricchezza di dettagli i diversi luoghi di pena e, insieme, le sue condizioni fisiche e psichiche. Il 20 novembre 1926 Gramsci scrive alla madre, esortandola a essere «forte e paziente nella sofferenza» . E aggiunge: «Di’ a tutti che non devono vergognarsi di me» . Il tema del carcere come vergogna tornerà più volte nelle lettere alla madre, che ricordava bene un altro carcere, quello del marito Francesco, condannato per peculato e concussione nel 1898: Francesco perse il lavoro e la famiglia numerosa visse in grandi ristrettezze. Così, più volte, continuerà a dire alla madre e alla sorella Teresina che la sua prigionia «è un episodio della lotta politica che si combatteva e si continuerà a combattere non solo in Italia, ma in tutto il mondo, per chissà quanto tempo ancora» (20 febbraio 1928). E poco dopo, alla madre (12 marzo 1928), dicendole che è «la posizione morale» che dà «la forza e la dignità» , aggiunge: «Il carcere è una bruttissima cosa; ma per me sarebbe anche peggiore il disonore per debolezza morale e per vigliaccheria» . Si apre qui l’altro grande motivo-guida: il rifiuto a inoltrare domande di grazia. Così, nel gennaio del 1930, cita Silvio Spaventa, recluso nelle carceri borboniche dopo il fallimento del 1848 napoletano: «Egli fu dei pochi — una sessantina — che dei più che seicento condannati nel ’ 48 non volle mai fare domande di grazia al re di Napoli» . Più tardi (maggio 1932) ricorda l’episodio di Federico Confalonieri, prigioniero allo Spielberg con Pellico, che «ridotto al massimo grado di avvilimento e di abbiezione» inoltra suppliche all’imperatore per essere liberato. Sono, ovviamente, messaggi trasversali per i compagni di fuori, ma è anche il consapevole riconoscimento di una comunità di destino con tutti gli intellettuali imprigionati per le loro idee. A cui la scelta di non piegarsi, di non abiurare le proprie convinzioni, dette la forza di resistere. Dal 1931 in poi Gramsci conosce gravi crisi fisiche e un progressivo degrado delle sue forze. L’isolamento e la difficoltà di comunicazione con l’esterno turbano i lunghi giorni della prigionia e lo vediamo sempre più assillato da domande a cui non trova risposte: sui rapporti con Julia e la famiglia Schucht a Mosca, sui rapporti con il partito e con l’Internazionale comunista. Eppure non vuole venir meno all’impegno di studio che si è proposto fino dal 1927, quando scrive alla cognata «che bisognerebbe far qualcosa für ewig» e fa un primo elenco dei temi dei Quaderni. E soprattutto non vuole cedere. In una delle ultime lettere alla moglie (25 gennaio 1936) scrive: «Io mi trovo in questa situazione (di coercizione, ndr) da molti anni, forse dallo stesso 1926, subito dopo il mio arresto, da quando la mia esistenza è stata, bruscamente e con non poca brutalità, costretta in una direzione data da forze esterne e i limiti della mia libertà sono stati ristretti alla vita interiore e la volontà è diventata solo volontà di resistere» .

Corriere della Sera 6.4.11
Italiani e tedeschi preparano l’atlante delle stragi naziste
di Antonio Carioti


N el nostro Paese non se ne parla da tempo, ma la commissione storica italo-tedesca sulla Seconda guerra mondiale, istituita nel marzo 2009, ha lavorato sodo. E presenterà i risultati raggiunti oggi a Milano, in un incontro pubblico presso l’Ispi, in via Clerici 5, a partire dalle 16. La commissione è stata istituita dai governi di Roma e Berlino per dare un «contributo alla costruzione di una comune cultura della memoria» , in seguito al contenzioso sollevato da parenti di vittime di stragi naziste e da militari italiani internati nel Terzo Reich (gli Imi). La vicenda ha fatto discutere, per l’accavallarsi tra esigenze politiche e lavoro degli studiosi. Mostra perplessità sul concetto di «memoria comune» lo stesso Paolo Pezzino, storico dell’ateneo di Pisa e membro della commissione: «Secondo me bisogna parlare piuttosto del riconoscimento dei rispettivi punti di vista nel quadro di una storia complessa, fatta di relazioni non solo conflittuali tra Italia e Germania nel periodo 1940-45. Nel documento finale, da presentare nel marzo 2012, vogliamo mettere in luce le differenti ragioni degli italiani e dei tedeschi, ma anche le interazioni tra gli uni e gli altri» . A tal scopo la commissione ha avviato un vasto lavoro di ricerca: «Abbiamo esplorato per la prima volta il fondo delle richieste che gli internati militari italiani facevano al Tesoro per fini pensionistici: oltre 200 mila fascicoli. Poi abbiamo vagliato la memorialistica degli Imi e i verbali degli interrogatori cui erano sottoposti al ritorno dalla Germania. Inoltre stiamo completando un atlante delle violenze contro i civili compiute dai nazisti in Italia. E abbiamo consultato dei fondi, finora inesplorati, contenenti le lettere dei militari tedeschi di stanza nella penisola» . Ne scaturiranno varie pubblicazioni: con tutte le riserve che si possono nutrire sul mandato della commissione, di certo la sua opera sarà utile agli studiosi.

Repubblica 6.4.11
Un convegno per costruire una memoria comune su nazismo e fascismo
Se Italia e Germania ristudiano la storia
di Vanna Vannuccini


Lo studioso di Monaco: "Stiamo raccogliendo le testimonianze dal basso. Da noi come da voi c´è stata, a lungo, una percezione blanda dei crimini commessi"

L’immagine di una Wehrmacht dalle mani pulite, non coinvolta nei massacri della popolazione civile, ha resistito in Germania fino alla metà degli anni ´90, quando 5 milioni di tedeschi visitarono la mostra itinerante Crimini della Wehrmacht 1941-44 e la verità nota agli storici cominciò a farsi strada tra l´opinione pubblica. Quella mostra riguardava il fronte orientale, dalla Serbia a Stalingrado. Sul fronte italiano, invece, la memoria di una Wehrmacht che si è "comportata bene" non è mai stata seriamente compromessa. I ricordi collettivi di occupanti e occupati restano divergenti, nonostante i fatti. Come trovare denominatori comuni di memoria? Una coscienza storica europea che si proietti nei libri di scuola è lontana. La memoria resta nazionale. Ne parliamo con Thomas Schlemmer, uno dei componenti della Commissione storica italo-tedesca che su incarico dei due governi presenta in questi giorni le conclusioni di tre anni di indagini sull´occupazione tedesca in Italia: «Che la guerra della Wehrmacht sia stata una guerra criminale la storiografia lo aveva elaborato da tempo – dice – ma c´è voluto fino agli anni ´90 perché questo si affermasse nella coscienza collettiva. Ed è successo anche perché la generazione dei veterani sta scomparendo. Anche in Italia c´è difficoltà a riconoscere il ruolo dell´esercito nella guerra fascista e i crimini nei territori occupati».
Il metodo di lavoro della commissione si basa sui racconti dei singoli, attraverso lettere, documenti: «La Erfahrungsgeschichte, o storia delle esperienze vissute, è il tentativo di coniugare la storia dal basso con quella dall´alto», spiega Schlemmer. «Sulla grande scala di migliaia di vite vissute, raccontate e interpretate si rispecchiano i preconcetti indotti dalla propaganda, i condizionamenti provocati dagli stereotipi. Sugli italiani ad esempio pesava lo stigma del "doppio tradimento". In tante lettere dal campo si vede che l´idea del tradimento provocava desideri di vendetta. Sul fronte orientale invece fu decisivo il convincimento che obiettivo dei russi fosse lo sterminio del popolo tedesco e lo stupro delle loro donne. Insomma questo metodo permette di cogliere i collegamenti tra la Grande Politica, la propaganda, e l´azione delle unità militari; e di capire come venissero plasmati i modelli mentali che strutturavano la percezione e condizionavano l´agire. Accanto all´ordine dall´alto c´è quasi sempre un piccolo margine di manovra individuale, quello che ti fa scegliere tra uccidere sul posto il disertore o fingere di non vederlo».
Attraverso le nuove fonti, si è cercato di guardare dietro l´immagine generalizzante de "i tedeschi" o della Wehrmacht, e de "gli italiani" o dei "partigiani". Continua il professore: «Abbiamo elementi che modificano alcune percezioni rispetto alla guerra contro i partigiani; così le ricerche di Amedeo Osti ci riservano molte sorprese sui rapporti tra forze armate tedesche e fasciste, ad esempio le Brigate nere: la politica del non fare prigionieri era fortemente voluta dai fascisti, e sono stati spesso gli ufficiali tedeschi a dire basta. Insomma la complessità dei rapporti tra cittadini e truppe occupanti viene fuori con maggiore chiarezza».
Le testimonianze sono state tratte da lettere dal campo, che erano censurate e quindi sono state interpretate, e poi da diari e fotografie: «Abbiamo messo un appello su uno di quei giornali gratuiti, letti soprattutto dagli anziani, che si trovano sui treni metropolitani o sugli autobus, che ha avuto grande risonanza. Abbiamo esaminato diari di soldati che avevano allora 17 anni e che parlano di una "mamma italiana" che gli dà da mangiare dicendogli: "ho un figlio soldato e spero che trovi anche lui là dov´è una mamma che lo aiuti"».

Corriere della Sera 6.4.11
«Scoperto nel Peloponneso il più antico scritto d’Europa»


La tavoletta d’argilla scoperta sulle colline nei pressi di Iklena (nel Peloponneso) dagli studiosi della Scuola di Archeologia di Atene sarebbe «il più antico documento scritto di Grecia e quindi d’Europa» . Per l’archeologo Michael Cosmopoulos, a capo dell’équipe che dal 2006 sta eseguendo la campagna di scavi, si tratterebbe di un documento finanziario, con tanto di cifre e di nomi, redatto in quel «Lineare B» utilizzato dai micenei durante l’Età del Bronzo e databile intorno al 1600 avanti Cristo. In precedenza il gruppo diretto da Cosmopoulos aveva già portato alla luce i resti (mura e affreschi) di due grandi edifici costruiti con tutta probabilità tra il 1550 e il 1440 avanti Cristo.

La Stampa 6.4.11
Parigi, via il segreto dai documenti della Comune


I verbali di quattro sedute a porte chiuse dell’Assemblée nationale, la Camera dei deputati francese, nel 1870-1, fra la disfatta di Napoleone III e l’inizio della Comune di Parigi, ritrovati per caso in fondo a un armadio. E, ieri, il voto dei deputati, quelli attuali, per renderli pubblici, perché solo l’Assemblée può desegretare ciò che l’Assemblée ha segretato. Non succedeva dal ‘68, quando il Senato autorizzò la pubblicazione di alcune sue sedute segrete (e tumultuose) della Prima guerra mondiale.
La storia è incredibile ma vera. Tutto inizia dalla curiosità di un impiegato dell’archivio che nel 2009, sfogliando un inventario ingiallito, si chiede di cosa parlino e dove siano quattro verbali di altrettanti «comités segrets». Si fanno ricerche e da una vecchia cassaforte nelle cantine del Palais Bourbon spuntano i resoconti dei dibattiti, avvenuti senza il pubblico a causa della loro delicatezza.
Tre (del 13, 25 e 26 agosto 1870) si erano svolti in quello che era ancora il Corps Législatif del Secondo Impero: la guerra contro la Prussia, imprudentemente dichiarata da «Napoleone il piccolo» su istigazione della sua terribile moglie, l’Imperatrice Eugenia, sta andando malissimo e i deputati della gauche, in attesa di rovesciarlo, si scatenano contro l’Impero. I futuri tenori della Terza Repubblica ci sono già tutti, eloquentissimi e fluviali: Léon Gambetta, Jules Ferry, Adolphe Crémieux.
Il quarto dibattito è meglio ancora. E’ il 22 marzo del ‘71. Nel frattempo l’Impero è caduto, la guerra è stata persa, l’Alsazia e la Lorena pure, le elezioni vinte dalla destra. Ma Parigi non ci sta: sull’Hotel de Ville sventola la bandiera rossa, e alla Comune mancano quattro giorni. Un deputato della sinistra minaccia il governo conservatore di Thiers: «Sarete responsabili di quel che succederà!». Ha 29 anni, si chiama Georges Clemenceau e vivrà abbastanza per vincere da primo ministro la guerra del ’14-’18, riconquistare le due province perdute e diventare il «padre della vittoria». [ALB. MAT.]

Repubblica 6.4.11
I diari del duce
"Errori, plagi, anacronismi ecco perché sono falsi"
di Simonetta Fiori


"Saccheggiarono giornali, discorsi e soprattutto il memoriale di Galeazzo Ciano"
"Dal 1955 Rosetta e Mimì Panvini si applicarono all´imitazione di stile e grafia"
Lo storico Franzinelli spiega le tesi del suo nuovo libro: "I testi di Dell´Utri sono apocrifi, realizzati da due signore di Vercelli"

«Sono certo che questo mio lavoro costringerà Elisabetta Sgarbi e il senatore Dell´Utri a rinunziare al loro progetto». Mimmo Franzinelli è appena riemerso da una lunga indagine sulle tracce dei diari attribuiti a Mussolini e non sembra avere esitazioni. «L´agenda del 1939 pubblicata da Bompiani è apocrifa: un´accozzaglia di anacronismi, di errori fattuali, di estesi plagi, di affermazioni contraddette da fonti d´epoca». In altre parole, «una bufala colossale». La sfida è lanciata.
Con certosina pazienza lo studioso è andato a frugare negli archivi pubblici e privati, ha collazionato l´agenda del ´39 con il diario di Ciano, vari giornali dell´epoca e gli scritti di Mussolini pubblicati da Hoepli. Ed è riuscito a convincere anche lo storico americano Brian R. Sullivan, un tempo sostenitore dell´autenticità delle agende (per questo molto citato nell´edizione Bompiani) e oggi risoluto sostenitore della "bufala". I risultati di questa accurata inchiesta, non immune a tratti da un piglio "dietrologico" discutibile, sono raccolti in un meticoloso dossier di quasi trecento pagine (Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia, Bollati Boringhieri, euro 16). Quello tratteggiato da Franzinelli – già artefice di originali ricerche archivistiche sul ventennio nero, sull´epurazione e sul piano Solo – è un caso editoriale che racconta molto dell´Italia di oggi, un paese incline a cancellare ogni confine tra verosimile e reale.
Franzinelli, alla fine del volume lei sfida Dell´Utri a un pubblico confronto. Qual è la prova più persuasiva?
«Le tracce del falso sono infinite, ma potrebbero bastare le annotazioni autografe di Claretta Petacci sui movimenti del duce nel 1939 (tuttora inedite): quasi sempre inconciliabili con il contenuto dell´edizione Bompiani. Nel mio libro rivelo l´identità dei falsari e le loro strategie commerciali».
Chi confezionò l´apocrifo?
«Le artefici furono due bizzarre signore di Vercelli, Rosetta e Mimì Panvini, che tra il 1955 e la metà del successivo decennio si applicarono con dedizione alle agende e altro material simil-ducesco. Rosetta, la madre, era appassionata di Mussolini; Mimì, la figlia, laureata in chimica all´Università di Torino, imparò ben presto a imitare la scrittura del dittatore. Anche il capofamiglia Giulio contribuì all´impresa, portando a casa biografie mussoliniane e annate di quotidiani del regime, dal Popolo d´Italia alla Stampa».
Lei dimostra la corrispondenza perfetta tra queste fonti e il diario.
«Sì, le due donne saccheggiarono i giornali, ma anche Scritti e discorsi di Benito Mussolini e soprattutto il Diario di Galeazzo Ciano. Non manca il contributo personale di madre e figlia: considerazioni meteorologiche e banalità che mai il capo del fascismo avrebbe affidato al giudizio dei posteri».
Come si riesce a dimostrare che il diario del 1939 sia stato fabbricato proprio dall´officina di Vercelli? Le due falsarie furono processate, ma le agende scomparvero.
«Nel 1956 Arnoldo Mondadori acquistò per 22 milioni di lire un blocco di carteggi "mussoliniani" composti dalle due amanuensi. Accortosi del bidone, riottenne gran parte del denaro e conservò copia di quei materiali negli archivi della casa editrice: ebbene, il raffronto con l´agenda 1939 evidenzia straordinarie somiglianze grafologiche, con una notevolissima ricorrenza di errori grammaticali e ortografici».
È in grado di ricostruire il tragitto dell´agenda da casa Panvini alla biblioteca di Dell´Utri?
«Dell´Utri ha presentato come un novità – e una scoperta personale – il rinvenimento di questo materiale. In realtà il diario pseudomussoliniano ha circolato per oltre un trentennio in Europa e negli Usa in cerca di acquirenti: trasferito in Svizzera con alcune altre agende, fu offerto invano a gruppi editoriali e a privati. Negli anni Ottanta venne gestito da sir Anthony Havelock-Allan, senza ottenere certificati di autenticazione: nel 1989 i laboratori statunitensi Brunelle attestarono che l´inchiostro era stato prodotto nel dopoguerra, mentre nel 1993 Sotheby´s accertò l´artefazione della grafia mussoliniana. Tornata ingloriosamente in Svizzera, l´agenda 1939 è stata di nuovo messa in vendita, finché Dell´Utri l´ha "scoperta"».
L´edizione di Bompiani si fa forte del giudizio di Sullivan, un tempo sostenitore dell´autenticità del documento.
«Venticinque anni fa Sullivan prospettò la tesi dell´autenticità postuma: il duce avrebbe scritto il diario del 1939 alcuni anni più tardi, nel periodo della Repubblica Sociale, per finalità autodifensive, nella previsione di venire presto processato per crimini di guerra. Lo storico era rimasto colpito dalle cronache di volo di Mussolini e dal riferimento all´udienza concessa a un emissario del presidente Roosevelt. Qualche mese fa ho contattato Sullivan e gli ho anticipato i risultati della mia ricerca, che tra l´altro dimostrano come le signore Panvini avessero ricavato le cronache aviatorie da un libro in loro possesso e tratto la cronaca dell´udienza da un quotidiano d´epoca».
E Sullivan come ha reagito?
«Ha rivisto completamente le sue convinzioni, come dimostra la lettera che mi ha scritto: "Oggi ho raggiunto una convinzione ferma: il diario stampato da Bompiani e gli altri di cui è annunciata la pubblicazione non sono genuini. Comunque sia, sono dei falsi"».
Però lo studioso aggiunge che non è persuaso del tutto che l´apocrifo derivi da casa Panvini .
«Il memoriale autobiografico scritto nel maggio 1959 da Mimì (riprodotto integralmente nel volume) lo convincerà della matrice vercellese degli apocrifi».
Ma Mimì in seguito avrebbe ritrattato tutto.
«Le signore Panvini alternarono ammissioni e ritrattazioni che tuttavia non possiamo giudicare con il medesimo metro. Le imputate furono condannate per truffa e falso in entrambi i processi celebrati presso il Tribunale di Vercelli, in primo grado nel 1960 e in appello nel 1962. Sei anni dopo, nel febbraio 1968, avrebbero raccontato di essere le artefici degli apocrifi anche davanti a una troupe di Tv7, guidata da Emilio Fede. La sorte ha voluto che fosse proprio Fede a riprendere le falsarie in azione, in un filmato che avrebbe fatto sobbalzare Dell´Utri».
Lei attribuisce al falso anche una strumentalità politico-culturale.
«Da quelle pagine balza l´immagine di un Mussolini inedito: statista autocritico, nemico dei tedeschi, desideroso di tenere l´Italia fuori dalla guerra, addirittura scettico rispetto alle leggi razziali. Un clamoroso esempio di falsificazione della storia, che corrisponde a una fase della vita pubblica italiana segnata da confusione tra finzione e realtà».

Repubblica 6.4.11
Imparare lo straniero
di Giancarlo Bosetti


Parola d’ordine sprovincializzarsi nel nome di un pluralismo geografico e umano. È la sfida e l´impegno che fondazione Intercultura porta avanti da oltre mezzo secolo. Da domani, a Milano, un convegno per "ricomporre Babele"
Nessuna civiltà è isolata dal resto del pianeta.Tutte sono in evoluzione continua e soggette a cambiamenti dettati da relazioni di convivenza, conflitto, scambi culturali

I nostri nonni dicevano che bisogna sprovincializzarsi. Non era una cattiva idea, specie se serviva a giustificare qualche supplemento di mancia per finanziare viaggi all´estero, non solo per studiare. Ci sarebbe voluto un intellettuale bengalese, Dipes Chakrabarty, per darci la misura di come le idee diventano datate. Lui si rivolge ora a noi europei dicendo che dobbiamo provincializzarci. Togliendo quella sola "s", ci insegna in modo fulmineo e un po´ spaesante che entrare nella dimensione cosmopolitica significa prima di tutto, anche stando a casa, abituarsi all´idea di essere "una" provincia, una delle molte e non il centro del cosmo, ovvero quel luogo dell´universo dove tutti gli esseri umani pensano di trovarsi, per esserci nati.
Il primo merito di un´associazione come Intercultura è di inalberare il vessillo del cosmopolitismo, in un modo che sprovincializza e provincializza insieme. Sotto queste insegne si può imparare bene a "guardarsi da fuori", e a vedere noi stessi come una delle tante possibilità della geografia umana che ci sono sotto il cielo. Si può appunto imparare, ma bisogna volerlo fare perché non è un processo automatico. E non si impara senza fatica anche se la gratificazione arriva molto presto.
Organizzare sistematicamente la formazione di giovani fuori dal proprio paese a contatto quotidiano con altre nazioni e culture è un metodo per mettere in pratica il suggerimento del pensatore bengalese (che non a caso si è formato tra Calcutta, l´Australia e Chicago, dove ora vive) e certo ne abbiamo bisogno noi europei, alle prese con le sfide di un mondo nuovo fatto di emigrazioni, tumultuoso pluralismo culturale e religioso, meticciato, invecchiamento (sia benedetto) dei nativi. Ne hanno un po´ meno bisogno i nordamericani (Usa e Canada), abituati a pensarsi come nazioni e stati di minoranze. La nostra è una necessità assoluta e urgente, cresciuti come siamo, nella quiete di vastissime e, fino a poco fa indiscusse, maggioranze linguistiche, culturali, confessionali.
Siamo in un campo, quello dell´addestramento al nuovo, dove non basta pronunciare la parola cosmopolitismo, o multiculturalismo, per capirsi. Infiniti equivoci e grandi differenze di vedute vanno messe a fuoco per evitare che il dialogo diventi impossibile. C´è un cosmopolitismo universalistico e astratto (siamo tutti apolidi?) indifferente a ogni genere di radice culturale e territoriale: è il cosmopolitismo delle ricchezze senza bandiere che volano nei cieli dell´evasione fiscale. È una forma di irresponsabilità senza ancoraggi, che aggira le democrazie nazionali e non fa bene alla civiltà. E c´è un multiculturalismo senza dialogo tra le culture, per cui comunità diverse vivono vite parallele le une accanto alle altre.È un altro modo di scoraggiare la integrazione e la responsabilità degli individui e di ingannare le società democratiche. Nessuna cultura è isolata dal resto del mondo umano come un cristallo o una essenza pura, tutte sono continuamente in evoluzione e soggette a cambiamenti, che derivano dalle relazioni di convivenza, conflitto, scambio con le altre culture. Ci serve quello che Fred Dallmayr chiama "cosmopolitismo dialogante" e che il concetto di intercultura coglie molto bene perché descrive una dimensione della cultura liberale come apprendistato permanente del pluralismo. Non si tratta nel nostro tempo del solo pluralismo politico, ma anche di quel pluralismo "forte" o "profondo" che include le differenze culturali e che comincia sempre dalla conoscenza degli altri.
L´esperienza di imparare gli altri inizia quando si abbandona l´idea monolitica che abbiamo dei diversi, degli stranieri, quali che siano (balcanici o magrebini, asiatici, musulmani e non) e nel vederne la varietà, la mutevolezza, il caos. Ogni diversità culturale in ogni momento è in rapporti di reciproca interpenetrazione, dialogo, contrasto con altre civiltà e questo intreccio induce permanenti modificazioni in ciascuna di loro. In tempi passati i processi interculturali avevano tempi più rilassati; erano consentite lunghe pause di relativa quiete monoculturale, specialmente nella vecchia Europa; l´adattamento (quando non falliva tragicamente) poteva avvenire più lentamente.

Repubblica 6.4.11
Parla il presidente della fondazione, l´ambasciatore Roberto Toscano
"Vedere e tollerare il diverso è una forma di anti-idiozia"
di Francesca Alliata Bronner


"La globalizzazione in ogni camporende oggi necessaria l´abolizionedi linee divisorie fra noi e l´altro,pur mantenendo le proprie lingue, storie e religioni. È solo un dato etico"

Missione ambasciatore. Per Roberto Toscano il cosmopolitismo è un´esperienza vissuta "sul campo". Già ambasciatore italiano in India nel 2008 e prima ancora in Iran (dal 2003 al 2008), è attualmente in missione diplomatica per le Nazioni unite a Washington.
Può raccontarci, in base alla sua esperienza durante gli anni iraniani e indiani, se c´è spazio per il cosmopolitismo in quei paesi e in che termini si differenzia dal modo con cui lo concepiamo noi?
«Prima di tutto bisogna distinguere fra il concetto di cosmopolitismo inteso come esplicito riferimento ideologico e l´apertura al diverso. Il modo migliore di definire il cosmopolitismo è quello di individuare il suo contrario: la chiusura nel proprio particolare, l´incapacità di vedere, apprezzare o tollerare il diverso. Etimologicamente "idiota" significa chiuso nel proprio particolare, quindi il cosmopolitismo può essere definito come "anti-idiozia". Per l´Iran ci sono due elementi che rendono il paese e la sua cultura, potenzialmente capaci di trascendere la chiusura alla diversità. Da un lato dobbiamo considerare che l´Islam è una religione fortemente trans-culturale e trans-razziale, una religione che è stata capace di abbracciare diverse classi sociali, lingue, razze, culture, dal Marocco alle Filippine. Capacità, spesso da noi trascurata. Eppure, questo rende il paese, come tutti gli ex-imperi (ad esempio la vicina Turchia), composito, plurale: non è propriamente cosmopolitismo, ma è senza dubbio un primo allontanamento dall´idiozia particolaristica. Per quanto riguarda l´India, mi viene da citare quanto mi disse una volta un´amica indiana: "Il mio paese è un macro microcosmo", contiene cioè da un punto di vista qualitativo, tutta la problematica del mondo intero, nelle sue bellezze e nei suoi orrori e in dimensioni macroscopiche. Direi che sia iraniani che indiani risultano "cosmopoliti naturali" senza esserlo ancora di fatto».
Vede un´Europa multiculturale considerando che tra vent´anni ci sarà una percentuale sempre maggiore di etnie diverse da quelle occidentali?
«Vedo un cammino verso il cosmopolitismo nell´alternativa interculturale. Intercultura non significa assimilazione, che si basa sul rispetto, l´apprezzamento, la valorizzazione delle differenze, ma non è nemmeno multiculturalismo: significa in primo luogo il riconoscimento che le identità sono prodotte da uno scambio continuo con il diverso. Il cosmopolitismo che pensiamo non è solo un´opzione valida, ma necessaria e deve crescere, quindi, attraverso dialogo, apprezzamento delle diversità, mutuo arricchimento».
Veniamo in Italia: qual è il percorso da seguire per un´educazione al cosmopolitismo tra i giovanissimi?
«Devono convivere iniziative "dall´alto" e spinte "dal basso". La dimensione pubblica, da una parte, ma anche la società civile. È qui che si collocano iniziative e programmi come quelli dell´associazione Intercultura: lo scambio internazionale di studenti con l´inserimento non solo nelle scuole, ma nelle famiglie di un numero crescente di paesi. La "familiarizzazione della diversità", se avviene negli anni formativi, rimane come un patrimonio di straordinario valore in quanto trasforma l´astratto in concreto: quei volti, quelle amicizie, quelle famiglie che sono state per un periodo anche nostre. Dopo esperienze del genere non si diventa certo apolidi (il cosmopolita è concettualmente il contrario dell´apolide), non si perde la propria identità nazionale così come non si perde il legame con la propria famiglia. Si perde solo la fatale idiozia che è la radice di tutte le sordità, le ottusità di tutti i razzismi e di tutte le violenze».

il Riformista 6.4.11
Care compagne, esistono donne buone e cattive
di Silvia Ballestra

qui
http://www.scribd.com/doc/52390955

il Fatto 6.4.11
Jafar Panhai
“Il mio Iran condannato al fuorigioco”
“Offside” arriva finalmente nelle sale. Così il grande regista iraniano parlava del suo film nel 2006, prima di finire agli arresti domiciliari
di Anna Maria Pasetti


“Offside”. Mai titolo di film fu più malaugurante per la vita del suo regista. Talentuoso, pluridecorato e dunque imprigionato. L’iraniano Jafar Panahi è ancora fuorigioco. A deciderne l’anno scorso l’arresto (oggi ai domiciliari) per sei anni di reclusione e ben 20 di “impedimento da ogni attività creativa” è stato il regime fondamentalista di Ahmadinejad. Stampa e opinione pubblica mondiali si occupano del “caso Panahi” da tempo, e l’ultima Berlinale si è esposta a favore del 51enne cineasta di Teheran al punto da meritarsi una sorta di fatwa dai satrapi del dittatore, indignati per l’appoggio dato al “nemico pubblico n. 1”.
D’altra parte la capitale tedesca non ha dimenticato che l’ultima opera di Panahi andò in concorso proprio al suo festival: correva l’anno 2006 e il film era appunto “Offside”. Che finalmente esce in Italia, a cinque anni dalla presentazione festivaliera. “Offside” scritto, diretto, montato e prodotto da Panahi non solo è un film bello, ma è l’ennesimo esempio della capacità di quest’autore di incidere sulla coscienza socio-politica dello spettatore attraverso l’esclusivo utilizzo del linguaggio cinematografico. L’allora giuria internazionale al Festival di Berlino capitanata da Charlotte Rampling non se lo lasciò sfuggire attribuendogli il proprio Gran premio. Il film, come prevedibile rimasto invisibile in Iran, parte da un piccolo fatto privato ispirato dalla realtà quotidiana per aprirsi al dibattito politico e sociale. E in questo caso sulla condizione femminile in Iran. L’intervista che segue venne realizzata appunto a Berlino nel 2006, poco dopo la proiezione del film: una conversazione che si fa “documento” perché oggi, ovviamente, non sarebbe più possibile.
Come nasce “Offside”?
L’occasione è arrivata dagli imminenti Mondiali di calcio del 2006 in Germania e dalla constatazione del crescente interesse a questo sport da parte delle donne, inclusa mia figlia. A loro, però, una legge nazionale impedisce l’entrata negli stadi. Restare a casa e guardare la partita in tv? Giammai: rimosso il velo, le impavide si travestono da maschi e invadono gli spalti. Con il consapevole rischio di essere scoperte e finire al fresco. O bloccate fuori dagli impianti, segregate in recinti costruiti all’uopo. Quale migliore pretesto per raccontare una nuova storia sulla condizione femminile in Iran? E così è nato “Offside”, tratteggio amaro in chiave però di commedia di un manipolo di ragazze tifose costrette “fuorigioco” dai poliziotti durante l’incontro Iran-Bahrein, valevole per le qualificazioni ai Campionati.
Ha girato direttamente durante la partita?
Sì, e ci siamo organizzati per effettuare le riprese nella situazione reale. Il problema è che quando si sono accorti di me, cioè di un regista piuttosto noto, le autorità preposte allo stadio si sono avvicinate chiedendo di interrompere il film, dando loro pure i giornalieri. Mi sono opposto, spiegando che non era nelle loro competenze. E prima che riportassero la mia reazione ai superiori ero riuscito a terminare le riprese, fregandoli.
Lei è un veterano di racconti al femminile. Pensa che potrebbe aprirsi a figure appartenenti a mondi stranieri?
Il mondo femminile racchiude tutto, anche quello maschile. Da noi le donne soffrono in maniera indescrivibile per potersi affermare: basta guardare gli occhi e i gesti delle tifose di calcio nel mio film. Non solo è assurdo ma è pressoché ridicolo che non possano entrare negli stadi. È sufficiente leggere la ragione senza senso che sorregge il divieto: evitare che signore e signorine vengano in contatto con le scurrilità da stadio. Ma in che mondo viviamo?
Intende dire che gli uomini iraniani sono consapevoli dell’assurdità di certi impedimenti sulle donne?
Certo, specie tra le nuove generazioni. Non a caso i giovani poliziotti sanno molto bene che si tratta di una legge surreale, e se potessero lascerebbero quelle ragazze libere sugli spalti. Ma anche loro rischierebbero. Questa è una piccola ipocrisia dietro la quale si celano i grandi problemi della nostra società. Quanto a me “cine-cantore” all’estero non credo proprio: spesso mi invitano a fare film fuori dall’Iran, ma fornisco sempre la medesima risposta. “Se non conosco la cultura, la lingua, la società di un Paese non posso raccontarlo”.
Che tipo di cinema funziona meglio oggi in Iran?
Come sempre la commedia commerciale, il genere locale per eccellenza. Poi ci sono i film d’autore, e credo di appartenere a questo filone, benché anche le mie storie siano intonate sul registro della commedia. Noi “autori” facciamo fatica ad uscire in sala, anche perché raccontiamo situazioni socialmente scomode.
Se avesse più libertà espressiva racconterebbe storie diverse o storie uguali in modi diversi?
Meglio lavorare su quello che abbiamo – e come lo abbiamo – che non su ipotesi remote. Io faccio il mio cinema, caratterizzato da persone, contesti e conflitti. Tra la realtà e il sogno insito nel linguaggio cinematografico.

Corriere della Sera 6.4.11
Panahi, basta la partita di calcio per denunciare il regime iraniano
La ragazza che si traveste da uomo per entrare allo stadio
di Paolo Mereghetti


L’ 8 maggio 2005 è stata una data storica per il calcio iraniano: la vittoria sul Bahrein avrebbe permesso alla nazionale di casa di accedere alla fase finale del Campionato del mondo di calcio in Germania. E proprio durante quell’evento, quasi in presa diretta, Jafar Panahi ha ambientato quello che sarebbe diventato — a oggi — il suo ultimo lungometraggio, Offside. La storia del film è quella di alcuni tifosi «particolari» , attirati dalla gara ma impossibilitati ad assistervi perché la tradizione del Paese impedisce alle donne di assistere alle partite. Non una legge — come lo stesso Panahi ha spiegato a Stéphane Goudet per Positif— ma piuttosto un’ «abitudine» stabilita dalle forze di polizia e accettata tacitamente da tutti: lo spunto ideale per raccontare da un’angolazione insolita ma realistica la condizione della donna nell’Iran post khomeinista e più in generale le tante irrisolte contraddizioni del Paese. All’inizio del film seguiamo i tentativi di una giovane «tifosa» per mimetizzarsi tra la folla che accorre allo stadio: un berretto per raccoglie i lunghi capelli, i colori dell’Iran sul viso, l’abbigliamento maschile (che però non trae in inganno gli altri tifosi) e da subito, dall’acquisto con «sovraprezzo» di un manifesto per aiutare l’opera di mimetizzazione, la scoperta che tutti vogliono approfittarsi della situazione di inferiorità e di sudditanza della donna. Panahi mette immediatamente le carte in tavola. L’eventuale suspense— riuscirà la ragazza a entrare nello stadio?— viene immediatamente frustrata e il film si trasforma in una concretissima riflessione sulla condizione femminile oggi in Iran. Perché la ragazza, fermata dai soldati di servizio, si ritrova con un altro piccolo gruppo di tifose, rinchiuse in una specie di recinto appena fuori dalle gradinate. Ognuna ha cercato un proprio modo per entrare (anche travestendosi da soldato per avere i posti riservati, smascherata da chi si era visto assegnare quel posto) e ognuna reagisce a modo proprio a questo divieto: chi si pente, chi litiga, chi discute, chi tenta la fuga. Mentre la partita si svolge in diretta e le urla dei tifosi innescano la curiosità delle «detenute» e dei guardiani, il film passa dal dramma alla commedia alla riflessione filosofica. Non si può non ridere quando un pressante bisogno fisico convince un soldato ad accompagnare una delle ragazze a un bagno: luogo pubblico per antonomasia e quindi «infestato» da quei maschi che rischiano di offendere con i loro discorsi sguaiati e la loro presenza la «purezza» femminile. Ma poi il discorso si fa terribilmente serio quando una delle ragazze fermate cerca di mettere in crisi le certezze di uno dei suoi «carcerieri» dando prova di abilità dialettica e logica ferrea e senza bisogno né di femminismo né di emancipazione mette a nudo le contraddizioni di un «ordine» basato sull’oscurantismo e sul peggior maschilismo. La grande prova di regia di Panahi e di recitazione di tutto il cast risalta nella capacità di sfruttare al meglio i tempi della partita, un evento che non si poteva certo «ricostruire» se mai le riprese fossero andate male o qualche cosa avesse dovuto essere rifatta. No, tutto si incastra perfettamente: l’imbarazzo dei soldati costretti a un compito che probabilmente non condividono, la delusione delle tifose mascherate, la loro voglia di ribellarsi a delle imposizioni oscurantiste e retrograde. Ma soprattutto colpisce il timing perfetto con cui Panahi ha saputo articolare e sviluppare una storia fatta di confronti serrati e scene collettive, di momenti ironici e altri drammatici, mentre sullo sfondo si svolgeva un’altra, inarrestabile storia, quella della partita che, per la cronaca, fu vinta dall’Iran 1 a 0, grazie al colpo di testa del difensore Mohammad Nosrati. Offrendo in diretta allo spettatore il «segreto» del suo cinema, capace di intrecciare grandi e piccole storie, momenti ufficiali (come una partita di calcio) e segreti privati, passioni collettive e singoli destini. © RIPRODUZIONE RISERVATA P. S. Girato nel 2005, Offside fu presentato nel febbraio del 2006 al Festival di Berlino dove vinse il Gran premio della giuria (cioè l’Orso d’argento). Arriva in Italia con cinque anni di ritardo per merito di una piccola distributrice, la Bolero Film, sull’onda dell’emozione suscitata dalla condanna che il regime di Ahmadinejad ha comminato al regista. L’augurio è che aiuti a sensibilizzare ancora di più l’opinione pubblica sul suo destino.