lunedì 11 aprile 2011

l’Unità 11.4.11
Doccia fredda La lettera della Malmstrom smentisce Maroni. Stop tedesco a Berlusconi
Maggioranza nel caos Calderoli: via dal Libano i nostri soldati, servono alle frontiere...
Schiaffo Ue all’Italia «Il vostro decreto non apre le frontiere»
Governo allo sbando. La commissaria Malmstrom scrive a Maroni e ne smentisce il decreto. Anche la Germania volta le spalle a Berlusconi. Mentre la Lega vuole portare i soldati via dal Libano...
di Umberto De Giovannangeli


L’italietta del Cavaliere collezione l’ennesima, mortificante bocciatura in Europa. E su un tema di scottante attualità: l’immigrazione. Il decreto firmato giovedì da Silvio Berlusconi non fa scattare «automaticamente» la libera circolazione nell'area Schengen. Lo ha scritto la Commissaria europea Cecilia Malmstrom, in una lettera inviata al Ministro dell'Interno, Roberto Maroni. Nella lettera, si sottolinea anche che, “al momento”, “non sussistono le condizioni” per attivare la direttiva 55 del 2001 sulla “protezione temporanea”. E’ uno schiaffo bruciante, che si aggiunge a quelli che sono venuti da Parigi e Berlino.
SCHIAFFI A RIPETIZIONE
La lettera è stata scritta dalla Malmstrom, titolare del portafoglio interni della Commissione europea, in risposta ad una richiesta di chiarimenti da parte del Ministro dell' Interno italiano. La Commissaria svedese afferma che Bruxelles «ha già attivato meccanismi per contribuire ad affrontare» quella che definisce una situazione «effettivamente molto difficile sul piano umano, sul piano economico e su quello del sistema di controllo alle frontiere dell'Unione». Ma per quanto riguarda «la tua richiesta di valutare la possibilità di attivare la direttiva 55 sulla protezione temporanea», la Commissaria che lunedì scorso davanti al Parlamento europeo si era mostrata possibilista pur sottolineando che «non c'era una maggioranza qualificata» disposta ad approvarla in Consiglio afferma che «al momento non ritengo che esistano le condizioni». «La mia prima valutazione scrive la Malmstrom mi porta infatti a nutrire dubbi sulla sussistenza delle condizioni di applicazione di tale direttiva nel caso di specie. In effetti, come spesso è stato indicato da parte italiana, i migranti irregolarmente entrati sul territorio italiano sono nella stragrande maggioranza migranti economici, non richiedenti asilo, quindi suscettibili in tempi brevi di essere rinviati in Tunisia. La direttiva sulla protezione temporanea intende invece tutelare gli sfollati provenienti da Paesi terzi che non possono ritornare nel Paese d'origine».
Una bocciatura a tutto campo. Argomentata al dettaglio. Non c'è «nulla di nuovo» nella lettera della commissaria Malmstrom al ministro Maroni, provano a parare il colpo fonti del Viminale. Missione impossibile, degna di miglior causa.
E a ribadire la debacle s’aggiunge un’intervista del ministro degli Interni tedesco alla Die Welt: «Il comportamento italiano viola lo spirito di Schengen». Ma l’Italietta che colleziona schiaffoni in Europa è degnamente rappresentata da ministri come il leghista Roberto Calderoli – titolare del dicastero della Semplificazione, sodale di partito e in esecutivo del ministro dell’Interno, Roberto Maroni che ieri ha annunciato che per affrontare il problema immigrazione «occorrono mezzi e risorse e proprio per reperirli proporrò al prossimo Consiglio dei Ministri, il ritiro delle nostre truppe dal Libano». Maggioranza nel caos. Il ministro la Russa replica, quasi incredulo. Parla di posizioni estreme espresse dal collega leghista, cerca di smussare il danno, dice che semmai verrà ridotto il numero di militari presenti. Un caos totale, insomma. «L'Italia si è dimostrata poco credibile agli occhi dei maggiori partners europei, ma come può essere credibile un Governo che fino a ieri, per volere della Lega, manifestava scetticismo verso l’Europa», rileva polemicamente il presidente della Camera Gianfranco Fini, concludendo ieri a Bari la prima conferenza nazionale di Generazione Futuro, l’organizzazione giovanile di Fli. E questo prima della lettera della commissaria Ue che gela l’Italietta del Cavaliere. Coprendola di ridicolo. Dopo Parigi, dopo Berlino.

l’Unità 11.4.11
Le critiche del Pd
«Governo senza credibilità s’inventa il nemico europeo»
D’Alema e Letta guardando preoccupati al conflitto fra l’Italia e l’Unione: «L’esecutivo ha fatto di tutto per non prendersi le sue responsabilità, e adesso chiede la solidarietà...certo, serve più Europa, ma ci sono governi conservatori, egoisti, proprio come quello di Berlusconi»
di Simone Collini


sLo schiaffo della Malmstrom, ma non solo. Berlusconi che dice all’Ue «o si trova l’accordo su Schengen o tanto vale dividerci», giusto mentre il Carroccio rilancia con Borghezio la linea «föra di ball» e con Calderoli propone il ritiro dei nostri soldati dal Libano per mandarli a proteggere i confini italiani. Per il Pd è desolante l’atteggiamento dell’asse Pdl-Lega di fronte all’emergenza immigrazione, e il governo piuttosto che accusare l’Europa dovrebbe interrogarsi sulle ragioni che
hanno determinato le difficoltà che sta attraversando l’Italia. «Se se ne andasse Berlusconi non sarebbe rimpianto da nessuno», dice con sarcasmo D’Alema riferendosi alle minacce del premier nei confronti dell’Ue. Il presidente del Copasir osserva che il problema è «il livello di discredito di cui gode il nostro Paese a causa sua»: «Una delle principali ragioni per cui il governo italiano dovrebbe lamentarsi dell’Ue è che i governi europei somigliano troppo al nostro. Nell’Eruopa dei leghismi c’è sempre una Lega più a nord di noi, persino Maroni risulta terrone per i tedeschi». E dunque, «se ha ragione Napolitano nel chiedere più Europa, il governo italiano non ha le carte in regola per unirsi a questo coro».
Reclamare ora la «solidarietà» dell’Europa come fanno premier e ministro dell’Interno, è per D’Alema un’atteggiamento che mal si concilia con la posizione tenuta troppo a lungo dal governo di fronte all’emergenza immigrati, quando era prevedibile che sarebbe arrivata e ancora dopo che è scoppiata: «L’Italia ha fatto di tutto per non assumersi le sue responsabilità. È vero che l’Europa, che è governata da partiti conservatori, egoisti, del tipo di quelli come la Lega e Berlusconi, dovrebbe avere un atteggiamento diverso. Ma la confusione, l'incapacità e le polemiche inutili che hanno caratterizzato l’azione del governo di fronte a questa prevedibile emergenza dei rifugiati che giungono dal Nord Africa e stata veramente impressionante».
L’ultima della Lega Ora alle polemiche si va ad aggiungere quella innescata dalla proposta di Calderoli di ritirare i militari italiani dal Libano per far loro difendere i nostri confini (su cui il titolare della Difesa La Russa frena). D’Alema, che era ministro degli Esteri quando nel 2006 l’Italia autorizzò quella missione, neanche replica. Ci pensa però Enrico Letta a far notare che «con il populismo e l’approssimazione non si fa politica estera»: «La querelle pasticciata La Russa-Calderoli sul Libano è una tappa in più del degrado del ruolo e dell’immagine del nostro paese, che perde affidabilità di giorno in giorno». Il punto, per Letta, non è solo il fallimento del governo, che ieri ha ricevuto un altro colpo con la lettera della Commissaria Ue Malmstrom (la cui portata viene minimizzata dal Viminale). Il problema, a questo punto, è che la destra continua con le sparate più estemporanee, senza rendersi conto delle conseguenze su più fronti. «Mi chiedo dice Letta come si sentano oggi i militari italiani impegnati in Libano, che rischiano la loro vita per l’Italia e per la pace e che vengono trattati in questo modo dal governo del loro paese».

l’Unità 11.4.11
Le carrette Continuano gli arrivi dal mare, ma non si vedono gli aerei promessi per i rimpatri
Oltre1.200 gli stranieri presenti a Lampedusa, il giorno dopo la visita-show di Berlusconi
Nell’isola «svuotata» del Cav sbarcano altri 700 migranti
Solo nel pomeriggio di ieri, sbarcati altri 400 stranieri. E 160 tunisini arrivano in aereo da Pantelleria, dove erano approdati negli scorsi giorni. E l’isola trema per il tracollo del turismo: «Arrivano solo disdette».
di Alessandra Rubenni


Per 143 persone la sagoma di Lampedusa si è avvicinata piano nell’oscurità. Erano a bordo di due barconi: in quello più grande erano stipati in 108. Solo poche ore di tregua dopo quell’ennesimo sbarco notturno e ieri pomeriggio altri 50, provenienti dalla Tunisia, sono arrivati scortati da una motovedetta delle fiamme gialle. Poco prima, altre due carrette stracariche di migranti venivano intercettate a una ventina di miglia dalla costa: a occhio e croce, altri 350 stranieri, ovviamente diretti verso l’isola siciliana. Non si fermano gli sbarchi, neanche il giorno dopo la passerella di Silvio Berlusconi, che sabato da Lampedusa ha detto di aver risolto l’emergenza, che «tutto è sotto controllo». E se di barconi se ne sono continuati a vedere tanti, non si è ancora vista l’ombra degli aerei con i quali il premier ha annunciato che da oggi si provvederà ai rimpatri di quanti sono rimasti nel centro di accoglienza. Del resto, i calcoli fatti dal presidente del Consiglio semplicemente non reggono, dal momento che non ha tenuto conto dei continui arrivi.
In compenso, ieri gli immigrati sono arrivati non solo dal mare, ma pure dal cielo: 80 tunisini che erano approdati a Pantelleria la scorsa settimana sono stati trasferiti a Lampedusa con un volo speciale; altri 80 destinati allo stesso tragitto invece sono rimasti a terra a Trapani, dopo minacce e proteste che hanno fatto rinviare il volo. Tutti loro, in teoria, dovrebbero finire a Lampedusa per essere poi messi sui voli diretti in Tunisia, a partire da oggi, a gruppi di 30. Ma il solo risultato, al momento, è che sull’isola ci sono di nuovo oltre 1.200 migranti, compresi i 243 profughi provenienti dalla Libia e ospitati nella base Loran. Una situazione che preoccupa non poco i lampedusani, quando è ormai alle porte l’estate, con l’aria di una stagione che già si annuncia devastata. Lampedusa chiede che sia mantenuto «ciò che è stato promesso dal presidente del Consiglio», dice l’assessore al Turismo Pietro Busetta, «vale a dire che i recuperi vengano trasferiti direttamente sulle navi appoggio in rada già a Lampedusa e che venga spiegato, anche con spot pubblicitari ad hoc che il fenomeno immigrazione, ormai riportato alla normalità, non è visibile sull'isola e non confligge con una vacanza tranquilla a Lampedusa». Insomma, alle promesse del Cavaliere qui pare ci credano poco. «Speriamo che l’ottimismo del ministro Brambilla sia confermato dai fatti. Noi siamo molto meno fiduciosi che la stagione si possa salvare anche se vorremmo avere torto», si lamenta Busetta, che parla di un sistema turistico in forte allarme per le disdette che arrivano, per chi già immagina vuote le camere di alberghi, pensioni e appartamenti, con i tour operator che stanno pensando di cancellare i voli charter previsti per l’estate, un affare che in genere fa affidamento su 800 mila presenze turistiche. «Qualcuno ricorda Busetta afferma che la stagione turistica di Lampedusa è già iniziata con gli alberghi pieni di militari, ma moltissime strutture sono ancora chiuse e quindi poche aperte sono piene, ma in ogni caso non è questo il tipo di turismo che l'isola vuole.
Intanto ieri la nave “San Giorgio” ha sbarcato a Pozzallo gli ultimi 198 migranti raccolti a Lampedusa, dopo averne lasciati altri 87 a Porto Empedocle, mentre a bordo della «Flaminia» almeno 400 tunisini venivano portati verso Civitavecchia, dove si aggiungeranno ai connazionali già ospitati nella caserma «De Carolis». E mentre a Cagliari proseguivano le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei 700 tunisini arrivati mercoledì scorso da Lampedusa, per Manduria è arrivata la notizia che a partire da mercoledì prossimo sarà rilasciato un primo centinaio di permessi di soggiorno ai profughi ospiti della tendopoli.

La Stampa 11.4.11
Bonino: Berlusconi non può trattare l’Europa come un taxi
Il premier non sa misurare le parole, né governare i problemi e se stesso
intervista di Fabio Poletti

qui

Repubblica 11.4.11
La rivoluzione senza Islam

In piazza per la democrazia così le rivoluzioni arabe hanno seppellito l´islamismo
Dall´Egitto allo Yemen, la protesta laica dei manifestanti
I dimostranti non sono scesi in strada in nome dell´Islam, ma i loro slogan facevano riferimento ai valori universali di dignità, giustizia e libertà

di Tahar Ben Jelloun

Nessuno aveva previsto la rivolta dei popoli arabi. Non i servizi di intelligence, particolarmente efficaci e radicati, non gli analisti politici, sia gli accademici che i giornalisti, non la semplice polizia e soprattutto i leader dei movimenti di ubbidienza islamica, dai più radicali ai moderati. La scintilla è partita il 17 dicembre da una cittadina della Tunisia, dopo un´umiliazione di troppo che ha spinto Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di frutta e verdura, a immolarsi dandosi fuoco di fronte al municipio dove nessuno voleva riceverlo o ascoltare le sue lamentele.
Darsi fuoco è qualcosa del tutto estranea alla cultura e alle tradizioni arabe, e soprattutto alla tradizione islamica che, come le altre religioni monoteiste, vieta il suicidio perché lo vede come un affronto alla volontà divina. Chi muore suicida non ha diritto a un funerale.
Altri cittadini hanno seguito l´esempio di Mohamed Bouazizi, nel Maghreb e nel Mashrek. Sono tutti musulmani, eppure, al momento di sacrificarsi, non hanno tenuto conto della parola di Allah. La prima sconfitta dell´islamismo ha origine da questa disubbidienza ad Allah; il fatto che centinaia di migliaia di persone siano uscite nelle strade a protestare contro un regime corrotto e dittatoriale, senza che venisse mai evocato in alcun modo l´islam o Allah è la dimostrazione che le tesi islamiste ormai sono superate e non riescono più a fare presa. È comprensibile che in Tunisia, che era stata laicizzata dall´ex presidente Bourghiba (1903-2000; deposto con la forza da Ben Ali il 7 novembre 1987) e che comunque è piuttosto refrattaria in generale al fanatismo religioso, i manifestanti non abbiano pensato a protestare in nome dei valori islamici. Per la prima volta la piazza araba non se l´è presa né con l´Occidente né con Israele. Il fatto che l´islam come costituzione e riferimento principale per un nuovo potere sia stato totalmente ignorato dai milioni di persone scesi in piazza è una chiara dimostrazione di quanto questa rivolta si discosti dalle abitudini consolidate.
La peculiarità delle rivolte arabe sta nella loro natura spontanea e nell´obbiettivo che si pongono, l´ingresso nella modernità, vale a dire l´affermazione dell´individuo e il suo riconoscimento come cittadino e non come suddito sottomesso. Questa modernità nessuno dei partiti politici esistenti l´aveva reclamata in modo tanto diretto.
Ma è in Egitto che l´assenza degli islamisti durante le manifestazioni che sono riuscite a cacciare Mubarak, lo scorso 11 febbraio, colpisce maggiormente. Questo Paese è la culla dell´islamismo dal 1928, quando nacque l´associazione dei Fratelli musulmani. Questo movimento è sempre stato combattuto dal potere, perché Nasser fece impiccare il 29 agosto 1966 un grande intellettuale, Sayyid Qutb, il maître à penser dei Fratelli musulmani, e perché Anwar Sadat fu assassinato il 6 ottobre 1981 da un commando islamista infiltratosi tra le forze armate. Lo scorso mese di febbraio, l´Egitto è stato «liberato» senza la partecipazione degli islamisti. Gli slogan che scandivano i dimostranti di piazza Tahrir facevano riferimento ai valori universali di democrazia, dignità, giustizia, lotta contro la corruzione e il ladrocinio. La gente non reclamava soltanto il pane, ma anche valori fondamentali che faranno sì che i regimi corrotti non possano più regnare in piena impunità. È questa novità che ha aiutato la rivolta a penetrare in altri Paesi altrettanto chiusi e autoritari, come la Siria o lo Yemen. Gli islamisti reclamano costantemente «un´igiene morale» dello Stato, ma sacrificano sempre l´individuo a beneficio del clan, il clan dei credenti. Non si sono resi conto dell´evoluzione del popolo, non hanno percepito la potenza di questo vento di libertà che cresceva in silenzio, perfino all´insaputa della maggior parte dei protagonisti della rivolta.
Questa è la novità. Non è stata la prima volta che gli egiziani sono scesi in piazza in massa. Non è stata la prima volta che la polizia li ha repressi con ferocia; non è stata la prima volta che dei giovani sono stati arrestati, torturati e perfino assassinati negli scantinati dei commissariati di polizia. Ma è stata la prima volta che la collera è esplosa radicale, profonda, irreversibile. Ed è stata anche la prima volta che questa rivolta ha assunto caratteristiche laiche, senza che i manifestanti lo avessero stabilito.
Qualche militante dei Fratelli musulmani ha cercato di salire in corsa sul treno della rivoluzione, ma gli hanno fatto capire che non era aria, e i Fratelli musulmani hanno mantenuto un profilo basso. Questa assenza, nella dinamica della rivoluzione egiziana, ha avuto conseguenze importanti nel panorama politico del Paese. Dopo la partenza di Mubarak e il trasferimento della direzione dello Stato nelle mani dei militari, gli islamisti si sono ritrovati nella mischia, fra tanti partiti politici, costretti a mettere in sordina un fanatismo divenuto anacronistico.
Come e perché gli islamisti hanno perso il treno? Innanzitutto perché i Fratelli musulmani sono da tempo in crisi al loro interno. Le nuove generazioni non si intendono con le vecchie. La retorica e i metodi di una volta non funzionano più. Questa crisi è deflagrata al momento della rivolta popolare. I Fratelli musulmani si sono ritrovati superati, marginalizzati, più nessuno credeva alle loro litanie. Questo non vuol dire che il movimento scomparirà. Avrà un suo posto nel contesto democratico. Prima della partenza di Mubarak si calcolava che in caso di libere elezioni gli islamisti non avrebbero superato il 20 per cento dei voti. Oggi queste stime sono riviste al ribasso.
Oggi constatiamo la scomparsa della retorica islamista tra i giovani libici che resistono alla furia del dittatore Gheddafi. Anche in questo caso la resistenza di Bengasi è guidata dalle nuove generazioni, gente che nella maggior parte dei casi ha meno di trent´anni, che in alcuni casi è rientrata dall´Europa e dall´America, dove lavora e studia. Sono arrivati con nuovi metodi di lotta, in particolare Facebook, Twitter e le notizie diffuse attraverso i cellulari. La retorica gheddafiana non li tocca. Hanno bruciato il «libro verde», accozzaglia di pensieri egocentrici senza fondamento e senza interesse.
All´inizio, quando gli insorti hanno preso la città di Bengasi, Gheddafi ha cercato di agitare lo spettro della paura e del terrorismo, dichiarando alle televisioni estere che si trattava di islamisti, di gente di Al Qaeda. Lo ha ripetuto talmente tante volte che si è capito chiaramente che il suo intento era principalmente quello di mandare un messaggio agli occidentali: attenzione, se accorrerete in soccorso degli insorti di Bengasi darete una mano ad Al Qaeda. La manovra non è riuscita. I ribelli non esibivano il Corano, invocavano l´aiuto delle Nazioni Unite, dell´America, dell´Europa. Il mondo non poteva abbandonare una popolazione male armata di fronte all´artiglieria del dittatore che aveva promesso che sarebbe andato a cercarli «casa per casa, fin dentro gli armadi».
Quando il Consiglio di sicurezza, con la benedizione della Lega araba e dell´Unione africana, ha votato la risoluzione 1973, che autorizza gli alleati a intervenire in soccorso del popolo in pericolo, Gheddafi ha utilizzato lo stesso stratagemma, parlando di crociate! Ma né la Francia, né la Gran Bretagna né nessun altro è andato in Libia per ammazzare musulmani. Il solo che ammazza e continua a massacrare musulmani è Gheddafi. La sua retorica islamista è completamente sfasata. Ricorda quello che aveva fatto Saddam al momento dell´invasione del Kuwait, nel 1991, quando aveva aggiunto un riferimento islamico sulla bandiera e si era fatto riprendere in preghiera, lui che era un famigerato miscredente.
Ma facciamo un passo indietro. L´Occidente per molto tempo ha creduto che fosse preferibile avere a che fare con un dittatore che avere a che fare con gli islamisti. Ha creduto che gente come il tunisino Ben Ali o l´egiziano Mubarak fossero dei «bastioni» contro il pericolo islamista. Gli europei chiudevano gli occhi e aiutavano questi regimi, facevano affari con loro. Improvvisamente l´islamismo acquisiva un´importanza che non corrispondeva alla realtà e ai fatti. Certo, i Fratelli musulmani contestavano il potere egiziano e si presentavano come l´alternativa di fronte al regime del partito unico. La società è attraversata da varie tendenze politiche, e una di queste è islamista, ma non ha l´ampiezza e la forza che certi osservatori occidentali le attribuivano. Certo, Al Qaeda ha cercato di insediarsi nel Maghreb, ha fatto sequestri di persona, ha ricattato gli Stati. Ma nessuno pensa più che Al Qaeda sia il vero volto dell´islam.
In Tunisia la lotta antislamista era diventata l´alibi perfetto per consentire il radicamento di una dittatura, mettere il bavaglio all´opposizione e fare affari indisturbati. Il leader del movimento islamista Ennahda, Rashed Ghannouchi, rifugiato a Londra, ha detto, appena tornato dall´esilio, che non vuole instaurare una repubblica islamica in Tunisia e che non intende presentarsi alle elezioni presidenziali.
La novità che cambierà radicalmente i rapporti tra l´Occidente e il mondo arabo è che l´alibi del terrorismo islamico non funziona più. L´islamismo continuerà a esistere, perché risponde a un´esigenza culturale e identitaria. Ma è l´assenza di democrazia che ha favorito la sua espansione. Una democrazia ben assimilata terrà conto delle correnti religiose, come terrà conto delle varie correnti laiche. L´islamismo è stato sconfitto dal popolo. È il popolo che l´ha ignorato e che non ha voluto fare la sua rivoluzione in nome dell´islam, e questo è merito delle nuove generazioni della diaspora araba e musulmana nel mondo. Il vento della rivolta ha spazzato via nella sua evoluzione le vecchie litanie che cercavano di far tornare il mondo islamico ai tempi del profeta Maometto (VII secolo). Ma i giovani hanno una nuova griglia di lettura del libro sacro: una lettura intelligente, razionalista e non letterale. È questo l´elemento nuovo e rivoluzionario.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 11.4.11
Il fondamentalista non riluttante
De Mattei: Il paradiso terrestre è esistito davvero

Intervista di Antonio Gnoli

Intervista al discusso vicepresidente del Cnr che suscita nuove polemiche con le sue tesi antiscientifiche
"Da cattolico devo credere nella storicità di quel passo della Genesi in cui si afferma che Adamo ed Eva sono la coppia originaria"
"Le mie idee affondano le loro radici nella coscienza stessa della nostra cultura: mi osteggiano gli scientisti"
"La fede religiosa è lontana dall´essere un fatto privato e va testimoniata pubblicamente"

Confesso una certa curiosità mentale mentre mi avvio all´appuntamento col professor Roberto De Mattei, l´uomo che con le sue idee – professate in varie sedi e occasioni – ha vinto l´Oscar del ridicolo. Che linea tenere, che domande rivolgergli, in una parola che cosa ci si aspetta da un signore che, con tutti i distinguo, ha sostenuto tesi balzane e in ogni caso antiscientifiche, come il creazionismo, l´immutabilità delle specie, la datazione della Terra a soli 15-20 milioni di anni fa? Se insieme al taccuino avessi con me un bel "tapirone d´oro", la questione potrebbe risolversi in pochi attimi. Ma in fondo, De Mattei non è un caso umano, è un affare più complicato: un uomo solo (o quasi) che sostiene certe idee. Non basta questo per farne un eroe della resistenza ottusa? Il problema è che De Mattei non è un signore qualunque: egli è vicepresidente del Cnr, un incarico che lo pone ai vertici della struttura che in teoria dovrebbe guidare la ricerca scientifica in Italia. Ma al tempo stesso egli ha una rubrica su Radio Maria, dirige il periodico Le radici cristiane, insegna alla Nuova Università Europea che appartiene ai Legionari di Dio. Il suo ultimo libro (pubblicato da Lindau) è una rilettura molto polemica del Concilio Vaticano II. Sguazziamo in un bel pasticcio ideologico.
Da dove nascono le sue provocazioni?
«Dalla mia coerenza. E dai miei studi. Sono stato allievo di Augusto Del Noce e Armando Saitta. Ho insegnato come associato all´Università di Cassino. Oggi ho un incarico alla Nuova Università Europea dove insegno storia moderna e storia del cristianesimo. Purtroppo sono spesso dipinto in maniera caricaturale».
Lei è vicepresidente del Cnr, un grande ente scientifico, diciamo il corrispettivo del Max Planck. Come è avvenuta la sua nomina?
«Fu la Moratti, nel 2004 Ministro dell´Istruzione, a nominarmi».
Perché scelse lei?
«Il Cnr ha anche un settore minoritario dedicato alle scienze umane. Al cui interno cadono le mie competenze».
Si è mai chiesto se ci fossero studiosi più preparati di lei, più legittimati sotto il profilo dei titoli e delle idee?
«Ho scritto centinaia di articoli, decine di libri, partecipato a convegni internazionali».
Non ci sono echi significativi dei suoi lavori nella comunità scientifica.
«Non è questo il punto. La contestazione alla mia nomina, una vera e propria levata di scudi, si basava sul fatto che la mia cultura cattolica era negatrice di alcuni valori fondanti della democrazia occidentale. Non ho mai nascosto che la fede religiosa non sia solo una questione privata, ma vada testimoniata pubblicamente».
Ho di fronte un missionario e un martire.
«Penso che il cristianesimo non possa ridursi a una religione intimistica e individuale, ma debba proiettarsi nella vita pubblica».
E questo l´autorizza a dichiarare che lo tsunami in Giappone è stato un castigo divino?
«Parlavo a titolo personale da una radio cattolica e non in qualità di vicepresidente del Cnr. Ho svolto una riflessione sul grande mistero del male e ho detto che tutto ciò che accade ha un significato. Non si muove foglia che Dio non voglia, verità antica e perenne. Coloro che credono in Dio sanno che esiste una remunerazione, che per i cattolici sia chiama inferno. E come si legge nella dottrina di Sant´Agostino e Bossuet anche i popoli possono peccare e per questo essere puniti».
Terremoto in Giappone e all´Aquila, devastazioni, guerre, catastrofi, crisi. Per lei Dio è molto occupato in questo momento?
«Non direttamente. Se Egli permette questo male non intendo dire che sia l´autore del male, perché altrimenti cadremmo in una visione manichea. Non esiste un Dio del male. Egli è il sommo bene capace di trarre il bene dal male. Anche dalla catastrofe giapponese».
Il Giappone è a prevalenza scintoista.
«Non ho la pretesa di conoscere la ragione per cui Dio ha permesso che ciò accadesse. Ma so che una ragione c´è».
Un´affermazione così perentoria e ilare la mette in totale contrasto con la comunità scientifica.
«Mi mette in contrasto con lo scientismo. A cominciare da Galileo, lo stesso Newton, ma poi Spallanzani, Mercalli, Pasteur, Mendel, fino a Max Planck, sono stati grandi scienziati che hanno creduto all´esistenza di Dio e non hanno trovato un contrasto tra la loro fede e la scienza».
Ma nessuno di loro si è piegato ai metodi biblici per spiegare il mondo. Per lei la Bibbia è il testo di riferimento?
«Per un cattolico non può che essere così. Lei sa che fin dal Concilio di Trento…».
Non vada troppo indietro. Contro l´evoluzionismo lei è un assertore del disegno divino. E le prove le ricava tutte dalla Bibbia. Un po´ poco, no?
«Per un cattolico la Sacra Scrittura va letta non come libero esame razionalista, ma alla luce della tradizione e del magistero della Chiesa».
Con quali conseguenze?
«Che un cattolico deve credere, per esempio, nella storicità di quel passo della Genesi in cui si afferma che Adamo ed Eva sono la coppia originaria da cui è nato il genere umano».
Uno scienziato inorridirebbe.
«Respingo il poligenismo evoluzionista. Se un cattolico lo accettasse verrebbe a cadere l´idea di un peccato originale trasmesso da una coppia di progenitori a tutta l´umanità. La mia battaglia culturale non è solo contro il laicismo, ma si svolge soprattutto all´interno del mondo cattolico sottomesso al clima intellettuale dominante».
Insomma lei sostiene che Adamo ed Eva non sono figure simboliche ma reali?
«Il paradiso terrestre è una realtà storica non una metafora».
Non le viene il dubbio che la storia della Terra, la sua origine, si possa raccontare in maniera diversa?
«Io ripropongo una cosmologia cristiana che fa capo alla stessa visione di Benedetto XVI».
Lei sa che la grande rivoluzione scientifica del Seicento cambia nel profondo anche la cosmologia cristiana, come può non tenerne conto?
«Mi pare più grave voler interdire la possibilità a un cattolico di esporre pubblicamente le proprie visioni cosmologiche e metafisiche».
Fino al punto di affermare che la caduta dell´Impero Romano avvenne principalmente per colpa dei gay?
«In realtà in quell´occasione io feci mio il discorso del Papa che paragonava la crisi del mondo attuale alla decadenza dell´Impero Romano. La cui caduta, secondo me, più che alle invasioni barbariche va fatta risalire al relativismo morale e culturale che lo minavano dall´interno».
E i gay?
«Un ragionamento che ho ripreso da Salviano di Marsiglia. Coevo di Sant´Agostino».
Come è stata la sua infanzia?
«Tranquilla. Sono nato e vissuto a Roma. Provengo da una famiglia cattolica. Mio padre e mio nonno erano professori universitari. Sono sposato e ho cinque figli ormai grandi».
Come reagiscono alle sue intemerate?
«Sono tutti dei buoni cattolici. Ho il loro sostegno. Certo, ricevo da fuori molti insulti, ma anche gente che mi sostiene e mi incita ad andare avanti».
Ha mai immaginato di farsi prete?
«Non ho mai avuto questa vocazione, né crisi mistiche. Sono un´eco del XXI secolo di una tradizione che viene da lontano e che è radicata nel senso comune. Quelle che espongo non sono idee originali o particolari, perché se tali fossero vivrebbero lo spazio di una bufera mediatica. Al di là della mia persona queste idee affondano nelle radici della coscienza stessa dell´Occidente».
Lei è un cattolico integralista?
«Mi piacerebbe definirmi un cattolico tout court. Ma oggi è insufficiente. Sono un cattolico senza compromessi».

Repubblica 11.4.11
C’erano una volta i barbari
Se lo scontro di civiltà non è un’invenzione classica
di Siegmund Ginzberg


Crudeli e insofferenti verso "gli altri" ma senza mai odiarli
Un saggio spiega come Greci e Romani non fossero xenofobi
Anche nelle guerre contro i persiani non ci fu mai quel clima da "occidente" contro "oriente". E Cesare non disprezza i Galli

Uno straniero lacero, sporco, affamato, proveniente da chissà dove, approda su un´isola del Mediterraneo. Anziché scacciarlo, Penelope ordina di lavargli i piedi. L´indimenticabile scena dell´Odissea ci dà un´idea di cosa pensassero gli antichi dei doveri di ospitalità. Ma ancora più sorprendente è scoprire il rispetto che i Greci nutrivano persino per i loro "nemici giurati", i Persiani, e i Romani per i Cartaginesi, i "selvaggi" del Nord e dell´Est, gli Africani e persino i tanto bistrattati Ebrei. È fin sorprendente quanto negli antichi autori, anche nei più sciovinisti, nei più prevenuti, ci sia sì spesso disinformazione, talvolta pregiudizio, talvolta denigrazione, talvolta senso di superiorità, talvolta fastidio, talvolta anche più o meno bonaria irrisione dell´estraneo, dell´"altro", dello "straniero", ma mai odio. Gli antichi avevano le loro fisime, i loro luoghi comuni, erano feroci coi nemici, crudeli coi vinti, infastiditi dagli ospiti indesiderati e dagli usi e costumi estranei, diversi dai propri. Ma non xenofobi, nemmeno per opportunità politica.
L´ultimo libro del grande classicista americano Erich S. Gruen offre una lettura assolutamente affascinante sull´argomento. Si intitola Rethinking the Other in Antiquity, è stato appena pubblicato dalla Princeton University Press. Prende in esame gli stessi testi che avevano portato altri studiosi ad elencare i semi del pregiudizio etnico, o persino l´"invenzione del razzismo" nell´antichità, ma li colloca nel loro contesto, giungendo alla conclusione che le cose stanno non proprio come siamo stati abituati a considerarle in base ai pregiudizi della nostra epoca, o comunque si prestano a letture più sfaccettate e complesse.
Greci contro Persiani. L´inizio del "conflitto di civiltà" tra l´Occidente e la "barbarie" dell´Oriente. Ovvio, no? No, non così ovvio. Eschilo aveva messo in scena i suoi Persiani appena sette anni dopo che i Greci avevano respinto una massiccia invasione e avevano ragione di temerne altre. Aveva lui stesso combattuto nelle file ateniesi. Non è affatto un pacifista. Eppure i suoi Persiani non sono demoni, sono semplicemente esponenti di una comune umanità, sono vittime travolte da una tragedia politica e umana, non bersagli di propaganda politica. Così Erodoto, il grande cronista delle guerre persiane, che, lungi dal contrapporre schematicamente la "libertà" dei Greci al "dispotismo" orientale, attribuisce ai Greci difetti "orientali", quanto ai Persiani virtù che definiremmo "occidentali". I "ricchi" che pretendono di esportare ai "poveri" il loro più elevato tenore di opulenza e una civiltà "superiore" sono i Persiani, peraltro definiti da Erodoto, senza ulteriori commenti come «più aperti ai costumi stranieri di qualsiasi altro popolo». Gli piace in particolare che abbiano in avversione la menzogna. Non per niente diversi secoli dopo Plutarco l´avrebbe chiamato philobarbaros.
Non si può immaginare peggior nemico per Roma del nordafricano Annibale. Contro Cartagine fu escogitata tutta una violenta "propaganda di guerra". Su quel nemico sono giunti a noi solo i resoconti di parte dei vincitori (e malgrado questo il personaggio giganteggia). Ma nemmeno nella foga delle guerre puniche l´avversario venne presentato come incarnazione della "barbarie nera", mostruosa alterità etnica. Il concetto di Punica fides, di cartaginese infido e per natura traditore si affermò in realtà solo molto dopo la distruzione di Cartagine, e anche lì spesso in modo scherzoso, facendo satira sugli stereotipi, o magari rovesciando le parti, come nel Poenulus di Plauto o anche nell´Eneide di Virgilio. È Enea a fare un brutto tiro a Didone, non viceversa. Straordinario come, anziché affermare la propria identità in termini di "purezza" nei confronti dell´altro, gli antichi si inventassero genealogie fittizie di ogni genere per rivendicare invece origini comuni, se non addirittura una comune umanità con gli altri popoli.
Cesare non disprezza i Galli. Anzi si sforza di studiarli con più profitto di quanto recentemente si sia cercato di studiare l´Iraq o l´Afghanistan, ne sa probabilmente più di quello che oggi sappiamo della Libia, dell´Egitto o dell´Iran. Tacito parla dei Germani, i "barbari" per antonomasia dei suoi tempi, in termini che avrebbero addirittura montato la testa agli apologeti del moderno Terzo Reich. Ma Gruen invita a non perdere di vista la sua vena ironica e a non sottovalutare l´abile manipolazione con cui lo storico romano attribuisce ai Germani virtù e difetti che lui vorrebbe indicare ad esempio o denunciare nella Roma imperiale del suo tempo. Insomma, usa la sua Germania per dire cose che non potrebbe apertamente dire della sua Roma. Pecca di eccesso di assimilazione, piuttosto che di contrapposizione.
Tacito, si sa, fu gran diffamatore degli Ebrei. Era abbastanza cinico da cavalcare il fastidio dei Romani per quella che consideravano una vera e propria, continua invasione di profughi, che per giunta restavano attaccati alle proprie strane usanze, facendo cricca a sé, e addirittura, nelle parole che Giuseppe Flavio attribuisce a Tito, osavano anche ribellarsi contro i loro benefattori, «mordendo la mano che li nutriva». Ma persino le sue invettive potrebbero essere lette in altro modo: come un gioco malevolo che prende di mira gli idioti e i mascalzoni al potere in casa propria, prima ancora che gli stranieri.
E dire che i loro stranieri dovevano essere particolarmente ingombranti. Ne avevano importati a frotte come schiavi, e questi gli facevano paura solo quando si ribellavano. Ma poi, col succedersi di "manumissioni" – era un incentivo formidabile, che fece la fortuna economica di Roma – divennero cittadini a tutti gli effetti, indipendentemente dall´origine etnica, persino dal colore della pelle. I "non romani" divennero ad un certo punto forse addirittura maggioranza. Questo suscitava anche forti risentimenti, specie quando i liberti assumevano posizioni di potere. Sarà magari perché si rendevano benissimo conto che degli stranieri avevano bisogno, ma colpisce l´assenza di incitamenti alla xenofobia viscerale. Paradossalmente i guai cominciarono quando, molto più tardi, cercarono di fermare maldestramente alle frontiere popoli scacciati da altri popoli più aggressivi. Ma questa è un´altra storia.

Repubblica 11.4.11
Le polemiche sulla Arendt a 50 anni dal caso Eichmann
L’11 aprile 1961 cominciava lo storico processo che portò alla "banalità del male"
di Michela Marzano


cinquant´anni di distanza dal processo di Adolf Eichmann, la nozione di "banalità del male" teorizzata da Hannah Arendt ha ancora un senso? L´11 aprile 1961 comincia a Gerusalemme uno dei processi più spettacolari del Ventesimo secolo, quello dell´uomo che, durante il regime nazista, aveva coordinato l´organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i campi di concentramento e di sterminio. L´annuncio della cattura e del processo di uno dei principali attori della soluzione finale riapre un capitolo rimasto ancora in sospeso dopo Norimberga e attira l´attenzione e la curiosità di tutti coloro che, più o meno deliberatamente, cercano di dimenticare gli orrori della Seconda Guerra mondiale. Che cosa aveva potuto spingere un alto funzionario a mettersi al servizio di un progetto folle e scellerato? Si trattava di un "mostro" o di un "uomo qualunque"? Due anni dopo Hannah Arendt pubblica il proprio resoconto del processo e formula, per la prima volta, un´ipotesi scabrosa: Eichmann non è un "mostro"; chiunque di noi, in determinate condizioni, può commettere atti mostruosi. Ma si può osare parlare della Shoah evocando, anche solo come ipotesi teorica, l´idea che il male possa essere banale?
A Parigi, la Fondation pour la Mémoire de la Shoah celebra in questi giorni il cinquantesimo anniversario del processo e organizza una serie di dibattiti e una mostra imponente: dall´8 aprile al 28 settembre il pubblico può avere accesso a molti documenti inediti, estratti di film, registrazioni e fotografie del processo. A Washington, il Center for Advanced Holocaust Studies ospiterà a maggio un convegno internazionale con la partecipazione della storica Deborah Lipstadt che critica aspramente, nel suo recentissimo The Eichman Trial, la posizione della Arendt. Dopo David Cesarani e Saul Friedländer, che contestano l´idea che la sola "macchina burocratica" abbia potuto portare avanti lo sterminio, la Lipstadt mette in discussione il concetto di "banalità del male". Banalizzare il male contribuirebbe solo ad "assolvere" la cultura europea dalla colpa di antisemitismo. Ma di quale banalità stiamo parlando? Hannah Arendt non voleva assolvere nessuno. Non intendeva fornire alcuna spiegazione storica della catastrofe nazista. Cercava una chiave di lettura antropologica e filosofica dell´azione umana. Della cattiveria. Dell´incapacità di rendersi conto del male compiuto…
Durante il processo, Eichmann non smise mai di proclamare la propria innocenza, spiegando come nella sua vita non avesse fatto altro che ubbidire agli ordini, rispettato le leggi e fatto il proprio dovere. «Le sue azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco, né mostruoso», scrisse allora Arendt per spiegare l´inspiegabile. Esiste una "banalità del male" che non si può non prendere in considerazione se si vuole evitare di ricadere nella spirale infernale dei genocidi. Non certo perché il male, in sé, sia banale. Né perché coloro che lo compiono possano essere ritenuti banali. Ma perché tutti possiamo fare il male, talvolta senza rendercene conto, anche se non siamo né sadici né mostruosi. Non si tratta di negare che la perversione esista e che alcune persone provino una jouissance particolare nel far soffrire gli altri. Si tratta piuttosto di spiegare che il bene e il male non sono separati da una barriera invalicabile. Anche se la barriera esiste sempre, superarla è molto più facile di quanto non si possa immaginare.
Nessuno di noi è al riparo dalla barbarie. Nessuno può sapere come si sarebbe comportato o come si comporterebbe in circostanze particolari. Anzi, tutti possiamo "banalmente" fare il male, perché barbarie e civiltà convivono in ogni essere umano. La cieca obbedienza al dovere può indurre chiunque ad agire senza riflettere. E quando si smette di pensare, non si è più capaci di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Il concetto di banalità del male non è dunque né un semplice slogan, come commentò Gershom Scholem al momento dell´uscita del libro di H. Arendt, né un modo per minimizzare quello che la stessa filosofa tedesca considerava la "più grande tragedia del secolo".
Al contrario. È forse l´unica possibilità per spiegare la radicalità del male umano: radicale proprio perché banale; radicale perché tutti possono farlo, talvolta banalmente, anche se alcune persone scelgono di non farlo. Non è difficile capire perché si faccia il male. La vera difficoltà è altrove: come si fa a fare il bene, quando è così facile scivolare nella barbarie, quando basta lasciarsi andare al flusso delle pulsioni per dimenticare la nostra comune umanità?


Il Secolo d'Italia 10.4.11
L'imputato Nietzsche
Un nuovo saggio fa il punto sul "processo politico" al filosofo tedesco:
profeta del nazismo o "spirito liberoi" illuminista? Forse nessuno dei due...
di Mario Bernardi Guardi
qui

Corriere della Sera 11.4.11
I cosiddetti «diari del duce»
Se la (mancata) filologia diventa ideologia
di Pierluigi Battista


Francesco Borgonovo è un giovane e bravo giornalista che cura le pagine culturali di Libero. Per difendere la tesi dell’autenticità dei cosiddetti «diari del duce» che il suo giornale «allega gratuitamente da alcune settimane» non trova di meglio, però, che buttarla in politica. E perciò decide di rintuzzare le tesi dello storico Mimmo Franzinelli, che sulla vicenda delle presunte agende mussoliniane ha dedicato Autopsia di un falso appena uscito da Bollati Boringhieri, sfoderando il consueto armamentario vittimistico purtroppo sempre più in auge nel centrodestra: quel libro infatti, secondo Libero, privo di persuasivi argomenti configurerebbe un barbaro e inconsulto «attacco ai nemici ideologici» . Un attacco ideologico sostenere che i «diari» pseudo mussoliniani portati alla ribalta oramai un anno fa da Marcello Dell’Utri siano molto più pseudo che mussoliniani? Per la verità anche Franzinelli la butta in politica quando sospetta che chi spaccia per genuine scartoffie che non furono scritte dal duce sia in realtà mosso da diabolici intenti «revisionistici» , eccetera eccetera. Ma almeno politicizza le interpretazioni, non i testi. La cornice culturale, non i documenti in quanto tali. Chi invece pubblica dei testi attribuendone la paternità a Benito Mussolini deve dimostrarne l’autenticità secondo criteri storici, filologici, grafologici, insomma scientifici, non secondo criteri di appartenenza politica. Non ha senso sostenere che il dubbio sull’autenticità degli pseudo-mussoliniani è di sinistra, mentre il prestare fede alla loro attendibilità sia di destra. I testi o sono veri o sono falsi. Con lodevole prudenza l’editore Bompiani aveva del resto avvertito il lettore, mettendoli in commercio, che si trattava di diari «veri o presunti» . Aveva accettato l’idea che si trattasse di scritti di paternità controversa. Libero no: i testi che allega li definisce, con perentorietà che non lascia margini a dubbi e contestazioni, «i diari del duce» . Ma nessuno storico autorevole e «indipendente» ne ha avallato l’autenticità. Al momento del molto eclatante «ritrovamento» di qualche anno, lo stesso senatore Dell’Utri aveva annunciato perizie scientificamente inattaccabili. Purtroppo non le abbiamo ancora viste. Ora lo stesso Dell’Utri promette che presto una perizia sgombererà il terreno da ogni perplessità. Vedremo. Con l’avvertenza che, a differenza di ciò che accade nelle vicende giudiziarie, l’onere della prova spetta a chi sostiene l’autenticità di documenti attribuiti a qualche protagonista della storia. E che dunque senza convincenti prove che ne attestino l’attendibilità, è legittimo avanzare il sospetto che si tratti di testi contraffatti. Gli attacchi «ideologici» non c’entrano niente. A meno che non si voglia arrivare che a decidere dell’autenticità di un testo sia autorizzato solo chi vince le elezioni. Un patacca. Ma una patacca a maggioranza.

l’Unità 11.4.11
Ora la Lega araba chiede all’Onu una no-fly zone anche per Gaza
Una «no-fly zone» su Gaza, per proteggere i palestinesi dai raid israeliani. È la Lega araba a formulare la proposta, prendendo ad esempio da quanto il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha deciso per la Libia.
di U.D.G.


La Lega Araba chiederà all’Onu una zona di esclusione aerea per Gaza, sul modello di quella da poco votata per la Libia. La “no-fly zone” servirà per impedire all'aviazione israeliana di bombardare l'area, spiega Amr Moussa, segretario generale della Lega Araba. «Abbiamo incaricato il gruppo arabo all'Onu di chiedere una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per chiedere che una zona di esclusione aerea sia imposta all' aviazione israeliana su Gaza», dichiara Moussa a margine di una riunione della Lega, al Cairo.
Il sostegno della Lega Araba per l'imposizione della stessa misura sulla Libia è stato fondamentale, ma è difficile, rilevano fonti diplomatiche occidentali al Palazzo di Vetro, che l'Onu prenda una decisione così drastica contro Israele alla luce del lancio di razzi di Hamas. In tutto, 18 palestinesi sono stati uccisi e quasi 70 feriti, secondo fonti mediche, dall'inizio di una nuova fase di violenze a partire da giovedì, quando un missile anti-carro lanciato da Hamas ha colpito un autobus, ferendo gravemente un adolescente in Israele. Si tratta del numero di vittime maggiore dalla fine dell'offensiva israeliana «Piombo fuso» contro la Striscia di Gaza, tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, quando morirono 1400 palestinesi e 13 israeliani.
APERTURE E MINACCE
Secondo radio Gerusalemme, Hamas ha fatto sapere a Israele di essere disposto a cessare gli attacchi in profondità contro le città del Neghev, rivendicando però il diritto di continuare azioni di guerriglia lungo la linea di demarcazione tra Gaza e Israele. A Gaza un portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha affermato che le milizie palestinesi non sono interessate a un'escalation.«Se Israele cesserà le aggressioni ha affermato in maniera naturale la calma tornerà ».
Secondo fonti palestinesi, Hamas stima che Israele voglia il ritorno al più presto della quiete per non trovarsi impelagato in una vasta operazione militare proprio durante l'imminente Pasqua ebraica. Mohammed Awad, ministro degli Esteri di Hamas a Gaza, ha detto alla stazione televisiva del gruppo “Al-Quds”, che è in cor-so «uno sforzo continuo» per fermare i combattimenti. «Posso dire che siamo in contatto con Egitto, Turchia e Nazioni Unite».
Da Gaza a Gerusalemme. Il ministro della difesa Ehud Barak ha assicurato che Israele non è interessato a estendere il conflitto e che se Hamas cesserà le ostilità, lo Stato ebraico farà altrettanto. «Ma se gli attacchi palestinesi contro civili o militari israeliani dovessero proseguire ha avvertito il premier Netanyahu Israele colpirà Hamas in maniera ancora più dura». E in serata, al termine di una riunione straordinaria del Gabinetto di sicurezza dello Stato ebraico, è stato ordinato all'esercito di «continuare a operare contro i terroristi per fermare i lanci (di razzi) su Israele».



Corriere della Sera 11.4.11
Scrittore insegue la vita con l’aiuto della psicoanalisi
Amore e bilanci nel romanzo di Alain Elkann
di Giorgio Montefoschi


«V ede — dice Vittorio Olmi, psicoanalista, al romanziere che da qualche tempo lo frequenta, seduto sulla poltrona di cuoio davanti a lui— sono convinto che per scrivere un libro importante, per essere un vero scrittore, si debba avere il coraggio di andare fino in fondo a se stessi» . Siamo all’inizio del nuovo romanzo di Alain Elkann, Hotel Locarno (Bompiani), un romanzo che come il precedente, L’equivoco, ha per protagonisti uomini in avanti con gli anni, dunque propensi — in una etàmatura e fragile— a considerare il tragitto della propria esistenza. Ma cosa può fare uno scrittore che va da uno psicoanalista a chiedere aiuto e consigli (poiché è bloccato, non riesce a buttar giù una riga), ed è terrorizzato dai sentimenti altrui, dal pericolo che la passione amorosa si trasformi in abitudine, se non provare, timidamente e con cautela, parola per parola, personaggio per personaggio, a inventare qualcosa, sperando che da questo qualcosa, da un abbozzo qualunque di trama, nasca quello spiraglio che potrebbe condurlo in fondo a se stesso? Nulla, perché gli scrittori non sono capaci d’altro. E così, il romanzo comincia. Con Michael, un critico d’arte settantenne, molto potente, australiano trapiantato a New York, dedito all’alcol; con le due donne della sua vita: la sudamericana Gabriela, invadente, conosciuta in una notte di sbornie a Ibiza, e la bionda Daisy (adesso sua moglie), incontrata in una mostra, più giovane di lui di circa trent’anni (bei capezzoli rosati, pelle morbida, spalle rotonde); infine, con Gloria, una sessantenne inglese protestante, vedova, che abita in campagna vicino a Manchester e ha messo un annuncio, allo scopo di trovare un altro cuore solitario, nientemeno che sul «Financial Times» . Cosa può nascere da questo abbozzo di trama (che lo psicoanalista incoraggia), in cui noi lettori fin da subito, pur nella girandola degli spostamenti e degli alberghi, di New York e di Ibiza, dei loft newyorkesi e delle bevute, dei trasporti amorosi e del sesso, scorgiamo un desiderio di pace e di tranquillità che nessun azzardo, nessuna spericolatezza mai ci garantisce? Può nascere un romanzo ironico e inquieto, e molto mosso, perché sia Michael, che Daisy, che Gabriela, (per non parlare della ineffabile Gloria, soprano mancato, dama di compagnia a New York addirittura di una Rockfeller, sposata con un dentista italiano di nome Vincenzo, e poi vedova, come s’è detto), pur di seguire le proprie ambizioni e i propri istinti, pur di annegare in qualche modo i vari naufragi dei rispettivi talenti, non si fermano davanti a nulla. Però, può anche nascere un romanzo (al quale persino lo psicoanalista vorrebbe partecipare, e partecipa a un certo punto, col racconto delle sue incertezze coniugali, e di una infanzia sofferente), nel quale la combinazione degli eventi e delle varie infelicità, coronata da un coup de théâtre finale decisamente brillante (sì, brillante: fra Roma e Napoli, con Gloria e Michael, e in treno), porterà per davvero lo scrittore in crisi a fare un pacato esame di coscienza, a scrutarsi in uno specchio limpido. Lì, riconoscerà che dal fondo di una insopprimibile malinconia ebraica, si distacca un desiderio altrettanto insopprimibile di carezzare la vita.
 
Corriere della Sera 11.4.11
Giustizia, le riforme goccia a goccia che producono iniquità e incertezze
di Luigi Ferrarella


Qualunque sia la loro parte in giudizio quando hanno la ventura di sperimentare tempi imprevedibili e procedure farraginose dei tribunali, cittadini e imprese conoscono bene quanto costi loro, e alla collettività, il non poter contare con certezza e uniformità sugli strumenti ordinari di risoluzione delle controversie. Sconfinata, dunque, sarebbe la prateria del consenso per legislatori che ponessero mano a una seria «manutenzione» di risorse, regole e contrappesi del sistema giudiziario. Peccato che la dichiarata intenzione meno di un mese fa della maggioranza di legiferare «per i cittadini» una «epocale» riforma della giustizia sembri sinora assumere curiose traduzioni. Infilano un emendamento che allarga in maniera generica la responsabilità civile dei magistrati, proprio nelle settimane in cui tre giudici d’appello del lodo Mondadori sono in camera di consiglio a decidere se l’azienda del «cittadino» Berlusconi deve o no pagare 750 milioni di euro per risarcire De Benedetti dei danni di una sentenza che la Cassazione ha stabilito comprata 20 anni fa da un avvocato dell’odierno premier nel suo interesse. Investono la Consulta del tentativo di dirottare il processo Ruby del «cittadino» Berlusconi sul Tribunale dei Ministri, alla cui eventuale richiesta di giudizio si sa già che 314 parlamentari negherebbero l’autorizzazione a procedere con la stessa nonchalance con la quale hanno trangugiato la storiella di Ruby nipote di Mubarak. Votano domani alla Camera un’altra chirurgica limatura di 8 mesi alla prescrizione degli incensurati, in modo che, combinata al taglio già di 5 anni propiziato dalla legge Cirielli nel 2005, incenerisca subito a maggio il processo Mills del «cittadino» Berlusconi e lo liberi dalle ambasce di dover convivere fino all’anno prossimo con l’incubo di una condanna in primo grado per corruzione giudiziaria. E poi piazzano al Senato una norma che impedisca ai Tribunali di sfoltire le liste di testi da elenco telefonico, in modo che il «cittadino» Berlusconi, nel processo sui diritti tv Mediaset dove oggi ascolterà discutere proprio della superfluità o meno della moltitudine di testimoni citati dalle difese, possa contare sul fatto che le eccezioni dei suoi avvocati legislatori trovino comunque accoglienza in Parlamento nella legge caldeggiata dai suoi legislatori avvocati. «Dal produttore al consumatore» può essere insegna confortante per i prodotti in salumeria, dove le leccornie di uno fanno l’utilità gastronomica di tutti, ma per le leggi sulla giustizia è deprimente in Parlamento, dove l’impunità per uno è ottenuta sacrificando i diritti di molti, le aspettative delle parti lese, gli interessi degli imputati. Chi in passato aveva patteggiato sulla base delle regole vigenti, in futuro con la prescrizione breve vedrà salvarsi i coimputati che a non patteggiare erano sembrati matti, e che ora invece le ultime estrazioni della «ruota della fortuna» legislativa agganceranno al «trenino» degli interessi processuali del premier. E chi ieri vittima di un reato nutriva qualche affidamento su un ristoro in giudizio, domani andrà a ingrossare la fila delle parti lese con un pugno di mosche in mano nei 170 mila fascicoli che ogni anno vanno in prescrizione già con le regole attuali. Prima e più ancora dell’impatto quantitativo sui processi, a dover dunque essere temute sono la strage qualitativa dei principi, l’iniqua disparità di trattamento goccia dopo goccia di norme estemporanee, la (in) certezza del diritto prodotta dal caotico stratificarsi di norme irrazionali e contraddittorie: appunto come la prescrizione breve agli incensurati, che va nella direzione opposta del «pacchetto sicurezza» di appena il 2008, e che nel solco della Cirielli fa discendere da qualità soggettive, come l’essere incensurati o recidivi, l’interesse oggettivo dello Stato a perseguire due autori ad esempio della medesima truffa per addirittura 3 anni di tempo in meno o in più. Visto che lo contrabbandano «processo europeo» , di europeo in tema di giustizia potrebbero prima fare qualcos’altro. Magari allinearsi alla direttiva per i pagamenti delle imprese da parte della Pubblica amministrazione in 30 giorni, anziché nei 128 di media che strozzano la dovuta liquidazione alle aziende di 37 miliardi di euro (il 2,4%del Pil): ma stranamente per l’approvazione definitiva dello Statuto delle imprese licenziato sinora in un ramo del Parlamento, un po’ come per la desaparecida nuova legge sulla corruzione annunciata più di un anno fa, non sembrano essere convocate sedute-fiume di ministri e peones, precettati invece per votare la prescrizione breve del processo Mills. Neppure farebbe male un approccio «europeo» ai numeri veri della giustizia, ad esempio per abbandonare il ritornello stantio dei 5 milioni di cause civili pendenti, quando ben 1 milione (cifra che da sola libererebbe nei tribunali più sprint di qualsiasi piano di «rottamazione» di cause fatte smaltire a cottimo da giudici non di professione) dipende già solo dal contenzioso previdenziale dell’Inps, scaricato sugli uffici giudiziari da ambiguità normative e furbizie elettorali. All’ «europea» andrebbero benedetti sia un meno barocco sistema di notifiche, capace di finirla con la farsa di sentenze che «saltano» per una notifica fatta anni prima bene a un avvocato ma male al domicilio del codifensore, e di azzerare i vizi formali che ogni giorno fanno rinviare 12 processi su 100; sia lo stop ai processi agli imputati irreperibili, per sgravare i tribunali dall’ingolfamento di questi processi ai «fantasmi» che l’Europa ritiene appunto tutti nulli, e che allo Stato costano però decine di milioni di euro di inutile «gratuito patrocinio» . E più di tutto è forse il carcere che il legislatore dovrebbe rendere «europeo» , tanto più che nel 2009 dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo arrivò la prima condanna dell’Italia per aver detenuto una persona in meno di 3 metri quadrati a testa: eppure oggi i detenuti in più rispetto alla capienza delle celle sono 22.280 persone, cioè 2.500 più di quanti fossero quando 15 mesi fa quando il governo dichiarò lo stato di emergenza e pluriannunciò un piano-carceri. Segno che solo sugli spot non cala mai la prescrizione.

Corriere della Sera 11.4.11
Un piano per salvare Pompei
Troppi errori nel passato, ora puntiamo sulla manutenzione
di Andrea Carandini


Pompei non si è trasformata in stratificazione come Roma. È stata coperta da lapilli nel 79 d. C., che l’hanno imballata intatta per il futuro. Purtroppo scavatori troppo avidi hanno tolto i lapilli e così il corpo della città ha cominciato a corrompersi dal Settecento e figuriamoci oggi come è ridotto. Grande parte della città, non protetta da coperture, ha perso gli ornamenti e si sfarina, e le parti inadeguatamente coperte vengono danneggiate da infiltrazioni. Un tempo giravano per la città una novantina di operai che suturavano fessure e pulivano gronde, ma il manipolo è da tempo svanito e gli archeologi si sono ridotti a uno. Chi è senza colpa? Tutti coloro che hanno operato a Pompei hanno lavorato bene e hanno compiuto errori: denari non spesi, incongrui capannoni, spese immotivate. Ora è venuto il momento di ricominciare con il giusto piede. La meraviglia di Pompei non sta nella planimetria. Conosciamo intere città antiche nelle due dimensioni, come Timgad in Algeria. Sta piuttosto negli elevati, nella conservazione dei dettagli e nei rari piani superiori. Ma questi possono essere documentati soltanto in rilievi a tre dimensioni, che ancora mancano e però essenziali alla tutela, alla conoscenza e alla comunicazione. Pompei è in gran parte inedita! Non si tratta solo di mosaici, pitture e stucchi, ma di quell’insieme di strutture e apparati decorativi fissi che ne formano l’inscindibile essenza. Per proteggere e apprezzare Pompei occorre dominarla con precisione, problema un tempo quasi impossibile, ma oggi risolvibile grazie ai rilievi a nuvole di punti. Pompei si salva, più che con riparazioni a danno avvenuto, con opere modeste e diffuse di manutenzione periodica. La manutenzione è diventata un metodo programmato che è stato elaborato dall’architetto Roberto Cecchi, oggi segretario generale del ministero. Prima lo ha sperimentato negli edifici medievali e moderni e poi, da commissario straordinario, lo ha esteso alle rovine di Roma. Il Consiglio superiore dei Beni culturali ha proposto infine di allargarlo a tutte le rovine antiche del Paese, quindi anche a Pompei. Un recente decreto consente finalmente di assumere trenta archeologi e quaranta operai, e poi vi è da contare sul finanziamento ottenuto per lo stesso decreto e vi è forse da sperare anche in un finanziamento europeo. Alla buona tutela deve accompagnarsi la gestione della sicurezza, dei servizi e dell’accoglienza. I visitatori — abitanti attuali di Pompei — apportano ventimilioni di euro l’anno, essenziali alla conservazione del sito. Evidenti sono dunque le necessità manageriali, ma un modello funzionante e condiviso non è stato ancora trovato, per cui la discussione rimane aperta. Più facile è impostare la conoscenza sistematica del tessuto urbano e la sua comunicazione al pubblico: i rilievi tridimensionali consentono di entrare in ogni edificio privato e pubblico tramite schermo, il che serve a definire precisamente e periodicamente i diversi gradi di vulnerabilità di costruzioni e decorazioni e a conoscere il monumento stesso; per non dire poi della loro assoluta indispensabilità in caso di sisma. I rilievi consentono anche di ricostruire graficamente i piani superiori, in modo da restituire gli edifici nella loro integrità, compresi mobilia e corredi. Infine l’analisi stratigrafica degli elevati consente di narrare la storia degli isolati negli ultimi secoli della città, per non rimanere ancorati al solo momento dell’eruzione. A questo proposito il Consiglio superiore ha auspicato una cooperazione fra il ministero dei Beni culturali e le università italiane che abbiano competenze di archeologia sul campo, le quali potrebbero adottare uno o più isolati, a partire da quelli solo in parte scavati e a ridosso degli interri, dove la minaccia di crolli è maggiore. A tali adozioni scientifiche si potrebbero accompagnare adozioni per la conservazione finanziata da privati. La soprintendenza dovrebbe garantire un metodo unitario, onde rendere i risultati comparabili e cumulabili. Si tratta di affrontare una novantina di isolati in tempi ragionevoli. Pompei rimarrà sempre un oggetto irraggiungibile: mai potrà aprire al pubblico tutte le case, ma qui potrebbe soccorrere un museo virtuale di Pompei su Internet, che permetterebbe anche a chi vive a Tucson, in Arizona, di curiosare in ogni stanza dell’abitato, prima di visitarlo. Serve in conclusione a Pompei un grande progetto culturale, tecnologicamente sofisticato, che si orienti verso uno scopo di conservazione e di apertura conoscitiva al mondo.

l’Unità 11.4.11
L’occhio bionico

Dal Giappone la retina costruita in provetta
di Cristiana Pulcinelli


Una retina costruita in provetta. Il primo passo per ottenere un occhio bionico. Un risultato importante e inaspettato quello raggiunto da un gruppo di ricercatori giapponesi che, infatti, hanno ottenuto che alla loro ricerca fosse dedicata la copertina dell’ultimo numero di Nature.
La retina è di topo ed è stata costruita grazie alle cellule staminali. Si tratta del tessuto biologico più complesso costruito finora in laboratorio e potrebbe aprire la strada alla cura di alcune malattie che colpiscono l’occhio umano, comprese alcune forme di cecità. Naturalmente la tecnica deve essere adattata alle cellule umane e si deve dimostrare che il trapianto dell’occhio artificiale sia sicuro, cose che richiederanno probabilmente anni. Tuttavia, un’applicazione che già si può avere della nuova tecnica è aiutare gli scienziati a studiare le malattie degli occhi e a cercare delle nuove terapie, inoltre la stessa tecnica potrebbe essere utilizzata per guidare l’assemblaggio di altri organi e tessuti. La struttura è stata creata da Yo-
shiki Sasai del Riken Center for Developmental Biology a Kobe, in Giappone. Il gruppo di ricerca ha fatto crescere le cellule staminali embrionali di topo in un nutriente contenente le proteine che spingono le staminali a trasformarsi in cellule della retina. All’inizio le cellule formavano ammassi di cellule della retìna, ma già nella settimana successiva, l’ammasso informe cominciava a trasformarsi in una struttura che si osserva nello sviluppo normale dell’occhio, il calice ottico.
I ricercatori non sanno se il calice ottico ottenuto possa vedere la luce o trasmettere gli impulsi al cervello, e questo è quello che vogliono scoprire in futuro. Ma intanto la scoperta più stupefacente è la capacità delle staminali embrionali di lavorare autonomamente, le cellule del topo infatti sono riuscite a coordinarsi e a ricomporsi in strutture diverse per dare vita a un organo complesso.

domenica 10 aprile 2011

l’Unità 10.4.11
L’uomo che balla sul Titanic
di Maria Novella Oppo


Ogni giorno tutti i tg, compreso il Tg3, sono costretti a ospitare un siparietto di Berlusconi che fa le mossette, dice volgarità e attacca magistratura e Costituzione. Casualmente (o forse no) l’altro giorno lo psichiatra Giovanni Battista Cassano, ospite di Augias su Raitre, descriveva l’esaltazione e il delirio di onnipotenza di certe personalità patologiche. Era un ritratto perfetto di Berlusconi e del suo male, denunciato al Paese dalla ex moglie, alla quale dobbiamo l’allerta sul quadro clinico del sultano. Ma ormai è un
Titanic vivente: mentre cola a picco nei sondaggi, balla e canta, incapace di contenersi. E, come disse sempre la signora Veronica, nessuno di quelli che gli stanno vicino fa niente per salvarlo da se stesso: sono tutti troppo impegnati ad approfittare delle ultime opportunità. Chissà quanto ci avrà messo il Titanic a colare a picco. Diciamo molte ore, o forse addirittura un giorno intero, mentre l’affondamento di Berlusconi dura da anni e ha creato un gorgo tale che rischia di trascinare a fondo anche quelli che lo contrastano.

l’Unità 10.4.11
Migliaia in piazza nelle città. Un’Italia dentro l’Italia che protesta senza simboli e bandiere
«Il nostro tempo è adesso» La rivolta di ricercatori, giornalisti, insegnanti, cassintegrati
Tanti precari un solo sogno «Una vita normale»
Dicono: «È solo l’inizio di un percorso». Sono i precari d’Italia, i saperi e la cultura, i giovani e i 40enni dimenticati dalle politiche del governo. Ieri hanno manifestato nella capitale tra gli applausi dei romani.
di Maria Zegarelli


Quanti sono? Quindicimila, ventimila, diecimila? Sono comunque troppi perché ognuno di loro ne rappresenta altri dieci, cento, mille e tutti insieme sono il popolo dei precari, gente a cui è stato tolto il futuro, trasparenti fino a ieri, assenti dai Tg1 di Minzolini, dai Tg4 di Emilio Fede, dalle cronache dei giornali di regime. Non importa quanti sono, importa che finalmente siano qui per farsi sentire e raccontarci chi sono. Rappresentano quella parte sofferente che ha deciso che no, adesso basta, «il nostro tempo è adesso e siamo qui per prendercelo». Per questo mandano in scena la loro «Street parade», «prima tappa di un lungo percorso».
L’ITALIA DOLENTE
Precari della scuola, della ricerca, dell’informazione, dell’Alitalia, della Rai, dello spettacolo, delle piccole e medie imprese. Di un Paese che sembra averli abbandonati con un governo che li ha cancellati dalla propria agenda intasata dai Ruby-gate, dai processi Mills, dalle leggi da far votare al Parlamento per salvare il re che è nudo ma non c’è nessuno dei sudditi di palazzo che provi a dirglielo. Sono qui grazie alla Rete dei movimenti, delle associazioni, una rete che hanno costruito per non cadere nel vuoto del silenzio. C’è il tricolore lungo 60 metri sventolato dal Popolo viola e ci sono le bandiere del partito comunista, dei verdi, di Sel, dell’Idv. Partono da piazza della Repubblica, con i tir che sparano decibel e si balla e si protesta, si ride e ognuno racconta le proprie storie. La gente saluta dalle finestre, approva e incoraggia. Non te reggae più di Rino Gaetano, Bella Ciao, i Ramones. Volti giovani, donne con la pancia, passeggini, capelli rasta, barbe sale e pepe, facce da liceali, genitori di precari. «Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta», recita lo striscione che apre il corteo. «Ho 27 anni, laurea in Filosofia e 15 lavori diversi alle spalle» racconta Maria Pia Pizzolante. «Chiediamo di raccontarci e non di essere raccontati», urla dal Tir uno degli organizzatori. «Più tutele per chi tutela», scrivono gli archeologi. Alessandra Filograno dice che sono 15 anni che lavora per i partiti e per i politici, «sempre in nero. Come quando sono stata dai radicali, precaria per anni e quando sono andata via ho scoperto che non mi avevano versato neanche un contributo». I politici ci sono, ecco Fabio Mussi, dietro lo striscione di Sel: «Questa è la questione del secolo, deve essere il primo punto del programma del futuro governo di centrosinistra». Rosy Bindi presidente Pd arriva da sola, cammina insieme a Susanna Camusso, segreteria Cgil. Cantano Bocca di rosa di De André, ballano sulle note di Bella Ciao. «È bello che si siano organizzati per essere in piazza dice Bindi perché finora non avevano avuto rappresentanza. Questa è la parte migliore della società, rappresentano il sapere, la cultura, il futuro ed hanno bisogno di risposte mentre questo governo è assente, preso da altri pensieri». Loro, i manifestanti hanno le idee chiare: vogliono un welfare universalistico, ammortizzatori sociali, nuove regole contro la precarietà, salari sicuri. Una vita “normale”, di quelle dove puoi permetterti una casa, anche in affitto, e se vuoi un figlio, senza dover firmare le tue dimissioni in banco quando ancora è nella pancia. Francesco Vitucci dell’Associazione dottorandi italiani dal palco: «Non abbiamo nessuna intenzione di abbandonare questo paese, vogliamo difenderlo da chi lo umilia ogni giorno». Sotto attacco il governo e le sue non politiche, «ci avete rotto i co... con il bunga bunga» scandiscono lungo il corteo. Vincenzo Vita, Pd, solidarizza con i precari del giornalismo, Nichi Vendola spiega che è venuto qui «per respirare aria pulita in un Paese in cui dalle classi dirigenti si promana cattivo odore». Dice che questa che sfila è «una generazione considerata vuoto a perdere». Sono 4 milioni i precari d’Italia, per questo «servono più investimenti nella scuola e un piano straordinario del lavoro». «Il governo deve accettare il confronto con l’opposizione, mettendo da parte le vicende personali del premier» commenta Stefano Fassina, responsabile economia dei democratici.
CALZINI E MUTANDE
In piazza dell’Esquilino ci sono tende da campeggio, calzini e mutande appesi, per protestare contro la mancanza di case e politiche di welfare per i giovani. La segretaria Cgil mette in fila le priorità: «Il problema più urgente è la riorganizzazione degli ammortizzatori sociali ma c’è bisogno di intervenire contro il precariato del lavoro, contro gli stage che di fatto sono lavoro gratuito mentre il lavoro subordinato è lavoro subordinato, non altro». Definisce questa «una giornata straordinariamente importante perché a chi si chiedeva dove erano finiti i giovani italiani e arrivata la risposta. Sono qui». E sono piuttosto arrabbiati.

La Stampa 10.4.11
Le due Italie del lavoro che non si parlano

di Mario Deaglio

Una manifestazione nazionale dei lavoratori precari, come quella di ieri, articolata in varie fasi e in varie città, sarebbe stata impensabile anche solo un anno fa e rappresenta un importante sviluppo economico-sociale.
Iprecari, infatti, tradizionalmente sono cani sciolti, con diversissime storie personali, ai quali la continua mobilità rende comunque difficile, in via normale, un’azione comune. Assunti a termine, pagati, di solito non molto, e poi arrivederci e grazie. Una simile situazione può anche essere accettabile se esiste una sorta di patto implicito in base al quale questi spezzoni di lavoro, a termine o a tempo parziale, si possono trasformare in un lavoro vero entro un ragionevole intervallo di tempo. In questo caso l’attività precaria può costituire una sorta di apprendistato, anomalo ma in grado di insegnare una professione; non è invece possibile restare apprendisti - o precari - per tutta la vita.
Con la crisi economica la durata del precariato si è allungata, la sua natura è cambiata. I precari, in grande maggioranza giovani, diventano lavoratori-cuscinetto che assorbono direttamente i colpi della crisi e quindi, implicitamente, forniscono un riparo ai lavori più sicuri degli altri. Il caso più evidente è quello dell’Alitalia quando per i dipendenti a tempo indeterminato si negoziò una lunghissima, e quindi privilegiata, cassa integrazione, mentre i precari rimasero sostanzialmente a bocca asciutta. Per questo il rapporto con il sindacato è molto difficile anche se la Cgil, che ha appoggiato le manifestazioni di ieri, fa di tutto per ricucire uno strappo generazionale. Non basta però, rendere più difficile il licenziamento, come appunto la Cgil propone, occorre rendere più facili le assunzioni a tempo indeterminato. E questo si può fare soltanto cercando di imboccare a tutti i costi un sentiero di crescita, un argomento di cui il Paese, apparentemente troppo occupato con il teatrino della politica, con gli insulti tra parlamentari e le barzellette sconce del presidente del Consiglio, si dimentica allegramente.
Che i precari sopportino direttamente gran parte del peso della crisi è confermato dall’analisi della Confartigianato, resa nota ieri, in base alla quale quasi un milione di lavoratori sotto i trentacinque anni (una fascia di età in cui i precari sono molto fortemente rappresentati) ha perso il lavoro nel 2009-10, mentre è aumentato il numero degli occupati più anziani. La condizione di disagio derivante dall’incertezza del precariato si è allargata a categorie che una volta ne erano immuni: giovani medici, aspiranti ricercatori o liberi professionisti, insegnanti vedono le loro prospettive di vita messe in forse dai tagli alla spesa pubblica e non ricevono alcuna solidarietà dal resto del Paese.
E’ chiaro che la riduzione di un terzo della capacità di risparmio delle famiglie italiane nel periodo 2002-2010, che risulta dai dati diffusi dall’Istat qualche giorno fa, deve essere avvenuta tra queste fasce dai redditi più deboli. Sempre qui, e non certo tra i lavoratori a tempo indeterminato del pubblico impiego, si deve collocare gran parte della riduzione del potere d’acquisto delle famiglie italiane, risultato, nell’ultimo trimestre del 2010, inferiore del 5,5 per cento al livello pre-crisi. La risalita del potere d’acquisto rispetto ai minimi toccati un anno fa (-6,4 per cento) è lentissima: di questo passo ci vorranno 4-5 anni, sempre che tutto vada bene, perché il potere ritorni, in termini reali, alla situazione precedente la crisi. Il vero interrogativo è se l’Italia possa permettersi altri quattro-cinque anni di stagnazione dei consumi e dei risparmi familiari, altri quattrocinque anni con i giovani con la cinghia tirata che lavorano con il contagocce senza alcuna vera possibilità di metter su famiglia o di impostare un qualsiasi piano di vita.
Si stanno così creando le condizioni per una frattura orizzontale sempre maggiore tra un Paese «normale», composto prevalentemente di persone sopra i quarant’anni, e un Paese «precario», composto prevalentemente di persone sotto i quarant’anni, alle prese tutti i giorni con difficoltà economiche gravi; tra chi sta a casa quando ha il raffreddore perché il posto è comunque garantito e chi va a lavorare con la febbre perché altrimenti il posto è perso. La comunicabilità tra i due Paesi è scarsa, le due parti non si conoscono.
Si tratta di una frattura molto pericolosa che presenta una somiglianza di fondo pur in contesti ovviamente molto diversi con la frattura sociale alla base delle «rivoluzioni» in atto sulla Riva Sud del Mediterraneo, dove fasce sociali di basso reddito, prive di veri meccanismi di rappresentanza, sono state spinte, da un forte aumento dei prezzi dei generi alimentari, alla rivolta contro élites molto anziane, da lungo tempo prive di ricambio politico. Siamo proprio sicuri di essere immuni da questo contagio? Quanti rappresentanti hanno in Parlamento i lavoratori precari? E quanti appartenenti alla classe politica, ossia parlamentari nazionali e regionali, nonché consiglieri provinciali, comunali o di quartiere hanno meno di quarant’anni? Quanti sono i quarantenni in posizioni di primo piano nelle strutture delle imprese?
In Italia, nessuna banca offrirebbe a un giovane di talento facilitazioni creditizie del tipo di quelle di cui negli Stati Uniti hanno potuto godere Bill Gates e Steve Jobs, che sono così riusciti a creare imprese di successo e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Politici come Obama (50 anni), Sarkozy (56 anni), Merkel (57 anni), Cameron (55 anni), Zapatero (51 anni) in Italia non avrebbero spazio. L’Italia non ha favorito il ricambio generale e ha, per così dire, saltato una generazione, spingendo i giovani a un precariato perenne. Ma un Paese che non sa risolvere i problemi dei suoi precari diventa esso stesso precario, cresce stentatamente e viene marginalizzato a livello internazionale. Come dimostrano gli avvenimenti recenti.

il Riformista 10.4.11
Riuscirà il Pd a non farsi scippare questa battaglia?

Vendola scende in piazza e si intesta i cortei, Montezemolo lancia la sua proposta. I democratici si spaccano, tra chi vuole maggiore flessibilità e chi no
http://www.scribd.com/doc/52682522

l’Unità 10.4.11
«Clandestini invasori»
Quando le stesse parole diventano razzismo
Il linguaggio usato dai media per raccontare l’esodo dei migranti trasuda di stereotipi. La prospettiva della narrazione è sempre dalla parte del paese d’arrivo. Mai di partenza
di Iglaba Sciego


Emergenza, orda, valanga, invasione, assalto, paura. Queste alcune delle parole usate nei media questi giorni per descrivere la situazione nell'isola siciliana di Lampedusa. Tutta la vicenda è stata raccontata sempre da una sola prospettiva quella del paese di arrivo. Ho notato infatti che nella narrazione è sempre assente la voce dei migranti o dei media non ufficiali. Il discorso mediatico è sempre diretto da un “Noi” che racconta un “Loro”. Il “Loro” è considerato dal “Noi” un problema da eliminare ad ogni costo. Conosciamo questo “Loro” attraverso immagini sempre uguali a se stesse: li vediamo sui barconi, in fila sotto lo sguardo vigile di un poliziotto con la mascherina (mascherina che ci rimanda a possibili malattie) o mentre manifestano per un tozzo di pane e un po' di acqua. Siamo abituati ormai ai primi piani stretti che deformano questi volti stanchi e frustrati. I migranti sono equiparati nei servizi Tv ad animali: puzzano, ringhiano, si agitano. I giovani tunisini    si trasformano davanti a nostri occhi in non persone. Non hanno un nome, una età o un sentimento. Questa disumanizzazione che parte dalle immagini culmina nell'uso della parola “clandestino”. Questa parola disumanizza, non ci fa tener conto delle mille storie individuali, della situazione di partenza da cui il migrante arriva. Cancella tutto e ci fa venire il dubbio che questo qualcuno che arriva forse è un delinquente. Il clandestino è un non essere, non ha emozioni, non ha voce, non pensa e in definitiva anche se respira non vive. È diverso dal “Noi” e deve essere relegato dove non può fare danni. La figura del clandestino ricorda molto da vicino la categoria degli atavici di Lombro-
siana memoria, ossia quelle persone che il determinismo scientifico (e razzista) del XIX secolo considerava assassini nati. I media inoltre hanno creato ad arte la distinzione tra migranti buoni e migranti cattivi, da una parte queste non persone, i clandestini e dall'altra i poveri cristi dei rifugiati che scappano dalle guerre. Purtroppo molta sinistra è caduta nella trappola di questa cattiva pratica ideata dal centrodestra e quasi tutti, in buona fede, hanno cominciato a dividere i buoni dai cattivi, i clandestini dai rifugiati. Certi i somali, gli eritrei, gli etiopi sono profughi, provengono da un Corno D'Africa infiammato dai conflitti e hanno davvero bisogno di aiuto.
Ma anche i tunisini hanno davvero bisogno d'aiuto. Dobbiamo ricordare che il    Nord Africa sta vivendo un momento molto delicato della sua storia e che le dittature che hanno esasperato queste popolazioni sono state appoggiate (e rimpinguate) dall'Occidente intero. Non è un caso che Bettino Craxi sia sepolto proprio in Tunisia. Ben Alì ha purtroppo potuto soffocare la sua gente per anni anche con il nostro aiuto. Servirebbe un piano Marshall per creare lavoro in Tunisia dare una spinta al turismo e trovare una soluzione comune. Questo fermerebbe la fuga dei giovani. Ma nessuno per ora ci sta pensando. Ma queste colpe “europee” (e italiane in particolare) non sono illuminate a sufficienza dai media né tantomeno dalla politica. Non creano opinione. Non portano a provvedimenti. Inoltre, a mio parere, i media non hanno messo in luce nemmeno il parallelismo che c'è tra i giovani tunisini e i giovani italiani. Mi è capitato di pensarci rileggendo giorni fa Vivo Altrove di Claudia Cucchiarato, giovane giornalista italiana residente in Spagna Claudia ha raccolto le storie di alcuni tra le decine di migliaia di giovani che negli ultimi anni hanno deciso di abbandonare l'Italia. Giovani stanchi del precariato, stanchi di non trovare lavoro, stanchi di non vedersi valorizzati. Noretta, Angela, Marco, Roberto, Claudia Cucchiarato stessa hanno trovato altrove la loro vita e ora sono felici di aver riacchiappato il proprio futuro all'estero.
Ora questo succede se si ha un passaporto europeo o del cosiddetto primo mondo. Se disgraziatamente non si hanno questi requisiti le cose vanno diversamente. Mi sono chiesta in questi giorni quale sia la differenza tra un Marco, cittadino italiano, e un Ahmed, cittadino tunisino, per esempio. Entrambi hanno 20 anni, entrambi hanno sudato sui libri, entrambi amano il rap e Eminem. Perché per alcuni, la gente di Marco, il diritto al viaggio è un diritto acquisito che non si discute e per altri questo diritto non è contemplato? Perché Marco può prendere un aereo, viaggiare pulito e tranquillo, mentre Ahmed deve prendere un barcone fatiscente e rischiare la vita? Hanno la stessa età, gli stessi sogni, la stessa voglia di futuro. Purtroppo hanno geografie diverse.
Dobbiamo a sinistra riflettere anche su questo... perché qui si decide che paese vogliamo costruire nel futuro, se uno basato sui diritti umani o uno basato sui privilegi per pochi noti.

il Fatto 10.4.11
Il naufragio dell'umanità
di Silvia Truzzi


 Venerdì al largo di Pantelleria la Guardia costiera ha arrestato tre scafisti tunisini che per seminare gli inseguitori avevano costretto cinquanta “passeggeri” a buttarsi in mare. Non si trattava di “mors tua vita mea”: era immaginabile che li avrebbero inseguiti e comunque presi. Eppure quelle donne e quegli uomini avranno pregato, avranno guardato gli aguzzini negli occhi prima di buttarsi. Nei giorni dell’emergenza a Lampedusa, obiettivi e telecamere hanno portato nelle nostre case quegli occhi, persi nella desolazione dei rifiuti e degli accampamenti di fortuna, in attesa di una sorte che promette solo altro dolore. Sul sito del “Corriere” uno dei superstiti del naufragio si è fatto intervistare per raccontare l’angoscia della sua traversata, in cui 250 compagni sono morti a causa della tempesta. Non ha mai alzato lo sguardo verso la camera, né la voce da un tono che era, semplicemente, angoscia. Quando la giornalista gli ha chiesto come si chiamasse, ha risposto: “Victor Hugo”. Noi – i veri Miserabili – trattiamo i disperati che scappano verso l’Europa come cose che si possono gettare in mare, trasportare come pacchi, ridurre a barzelletta, slogan o macchietta para-elettorale. Tipo il Nobel per la Pace, ma ci sarà presto qualche trovata per distrarre l’attenzione dallo sguardo addolorato di Victor Hugo. Intanto la villa è stata acquistata, il premier ha detto: “Sarò lampedusano”. Li ospiterà lui tutti i nipotini di Mubarak in fuga da guerra e povertà. Anche Enea, mitico padre della civiltà romana, scappava da una città assediata: Troia. E anche lui era diretto in Italia, quando una terribile tempesta lo fece naufragare dalle parti di Cartagine. “Arma virumque cano” (canto l'armi e l'eroe): ci ricordiamo più o meno questo dell'inizio dell'Eneide. Ma Virgilio nei versi successivi racconta chi è Enea: “Profugo per fato”, “perseguitato per terra e per mare dall'ira degli dei”. Anche allora, un “mare seminato dai cadaveri” e “sulla sabbia corpi che grondano mare”. Dalle coste d'Africa a quelle d'Italia, in questa secolare alta marea, qualcuno si è perso. Molti uomini, risucchiati dall’acqua e oggi anche il sentimento dell'uomo: la pietas – che accompagna Enea oltre le pagine dei libri di scuola – non la riconosciamo più. Una ventina di secoli dopo stessa spiaggia, stesso mare, stessi morti. Abbiamo guadagnato campi da golf e casinò, ville e freddure di pessimo gusto. Né Lampedusa né l’Italia possono accogliere la disperazione del mondo intero, ma nemmeno fare spallucce, liquidando la questione con il disprezzo del razzismo: la vendetta degli dei bisognerebbe continuare a temerla, come ai tempi di Enea. In “Natale di seconda mano”, De Gregori raccoglie il canto degli ultimi: “Sior capitano aiutaci a attraversare questo mare contro mano/ Sior capitano, da destra o da sinistra non veniamo e questa notte non abbiamo/governo e Parlamento non abbiamo...”. Invece noi il governo e il Parlamento li abbiamo, sono ugualmente contro mano, ma non c’è verso di riprendere una diritta via. Un ministro può intimare al tormento degli immigrati “fora da i ball” e il massimo che succede è qualche articolo sul giornale. È la favola del folklore leghista, che invece è pericoloso rancore di cui tutti, da Bolzano a Lampedusa, dovremmo vergognarci profondamente. Alla fine, ecco il bilancio: gli unici naufraghi degni di interesse sembrano essere quelli dell'Isola dei famosi.

La Stampa 10.4.11
I martiri del mare spariti nella ricerca del sogno europeo
Nell’entroterra della Tunisia, città intere rimaste senza più giovani padri che piangono i figli partiti e mai arrivati: “Forse non può chiamare”
di Domenico Quirico


ATataouine non c’è il mare. Solo sabbia e roccia; anche le case hanno un colore bigio dentro a quei muri la luce gioca con chiaroscuri risentiti, il vento dal deserto si ingolfa nelle strade, gonfia le tende e le cose. Le vesti delle donne che qui sono ancora quelle berbere, tradizionali, antiche sembrano grossi fiori seminati dal vento tra le connessure dei sassi. Molti anni fa vi hanno girato alcuni esterni di «Guerre stellari», le sequenze di un pianeta desolato nelle più lontane galassie, una sorta di deserto siderale.
Non c’è il mare, ma tutti ne parlano, conoscono i venti e le maree, le sue furie improvvise e i lunghi giorni di bonaccia: il Mediterraneo, il loro sogno, la loro maledizione. La giovane rivoluzione tunisina con orgoglio affigge nelle strade i volti dei suoi martiri, i giovani che dandosi fuoco e immolandosi davanti alle raffiche degli sgherri di Ben Ali il tiranno, hanno costruito la rivoluzione. Ed è bene, bisogna avere degli eroi.
Un giorno forse affiggerà sui muri anche i volti dei ragazzi che sono partiti in mare, hanno tentato il passaggio in Europa e non sono tornati. Anche loro sono eroi. Costruirà uno di quei sacrari ingenui e strazianti che si vedono nei nostri paesi di costa, con gli umili ex voto di quelli che si sono salvati e le rappresentazioni schizzate alla meglio di come il mare sappia essere crudele e senza scampo. Ci vorrà spazio, per questo. Perché sono molti, troppi: questa gioventù immolata al sogno di una vita migliore, questi emigranti che hanno pagato, invano, una fortuna il loro eroico diritto di partire.
Ci vorrà tempo per ritrovare tutti i nomi, che sono centinaia, forse migliaia. Nessuno finora si è occupato di loro. Come fossero i dispersi di una guerra perduta. Sotto la dittatura partire era un reato, era meglio tacere. E dopo: dopo, nessuno ha interesse a parlarne, a cercare, noi per non turbare la nostra buona coscienza di avari, e loro, i tunisini, perché hanno il pudore orgoglioso di fallire, rispetto agli altri che ce l’hanno fatta. Non c’è nulla di più duro dell’orgoglio dei poveri.
Perché cercarne le fila proprio a Tataouine? Perché, come molte città e villaggi dell’interno della Tunisia sommersi dalla povertà, sono stati svuotati dalla fuga verso l’Europa, sono città senza giovani. E qui le storie di quelli che sono scomparsi nel mare sono tante, troppe. Quante? Impossibile fare statistiche, Bisognerebbe percorrere tutto il Paese, con metodo, inseguire le rotte di barconi partiti, di messaggi che non sono arrivati, di storie improvvisamente interrotte. E poi sono drammi che risalgono per lo più a tre, quattro anni fa; quando ancora si partiva dalla Libia perché qui funzionava la caccia di Ben Ali ai clandestini che erano diventati la sua cambiale, il suo buon affare con l’Europa. L’epoca dei gommoni, degli scafisti libici senza pietà e dei loro soci di Bengarden, città tunisina di traffici lerci e di frontiere porose.
Poi ci sono le storie recenti, quelle già dell’epoca di Lampedusa, dei passaggi pagati mille euro, dei passeur tunisini. Attenti: nulla è cambiato, con quelle barche arrivare nell’isola è un caso fortunato, la regola semmai è il dramma, il naufragio, come quello che questa settimana ha inghiottito la nave degli africani e i suoi 150 disperati. Quante barche, da gennaio, sono scomparse nel Canale di Sicilia nella notte, senza testimoni, senza possibilità di chiedere aiuto?
Il meccanismo è sempre lo stesso: una puleggia che si inceppa, un filo che si schianta, il motore che si ferma e con esso la pompa che aspira l’acqua nella stiva. Un incidente minimo, di cui non sapremo mai nulla. Abbiamo di quegli istanti solo il racconto dei pochi sopravvissuti: i gelidi soffi e i respiri del mare, come di una massa che ti striscia a lato, qualcosa pronto a balzare. E dopo qualche ora la superficie torna vuota come innanzi che il mondo fosse.
Questa Tunisia dei migranti è divorata dalla mancanza di un domani, non la senti subito, è una specie di polvere, vai e vieni senza vederla, la respiri, la mangi, la bevi, ti divora sotto i nostri occhi e non puoi farci nulla. Se restate qualche giorno qui, forse sarete vinti dal contagio, si può vivere molto a lungo con questo in corpo.
Quella di Mohamed è una di queste storie antiche: 2007, agosto. Partiti da Zouara, in Libia, appena oltre la frontiera. In venti su un gommone, tutti amici, tutti nati qui. Il padre e il fratello di Mohamed raccontano con una voce, un accento che il passare degli anni ha reso astratto, sembra uno di quei vetri smerigliati che lasciano passare soltanto una luce diffusa in cui l’occhio non distingue nulla. Non oso dire che sotto tale superficie del tempo il dolore si sia decomposto; si è pietrificato, piuttosto.
«Ci ha chiamati con il telefonino quando era già in mare, era partito di nascosto perché sapeva che ci saremmo opposti, che l’avremmo fermato. Poi ancora una chiamata, esattamente dopo un giorno: “Siamo quasi arrivati, è fatta anche se il motore funziona male…”. Dopo queste parole il contatto è caduto. Poi più nulla. E anche dagli altri che erano con lui solo silenzio. Abbiamo aspettato, aspettiamo ancora». V’era quasi appena un impalpabile rimorso, d’aver inferto al figlio il colpo mortale, accettando il distacco e la lontananza, di non aver intuito nulla. Mi ha messo in mano la sua foto, quasi a forza, non la volevo: «Tienila, quando torni in Italia tu puoi forse fare qualcosa…».
Il padre di Yassin invece non si è rassegnato. Anche suo figlio è partito nel 2007 e voleva andare in Belgio dalla sorella, che vive là ed è sposata. Inghiottito dal silenzio: ma non completamente. Il dolore, dopo tanti anni, è ancora vivo, si dibatte, è come un’acqua torbida in cui è immersa la vita di quest’uomo che per incontrarmi ha indossato il vestito buono. Tira fuori una busta, custodita in fondo a un cassetto con le cose preziose di famiglia: dentro, impallidita dalle innumerevoli volte in cui è stata aperta, dispiegata interrogata per ore, la fotocopia di una foto a colori: su un molo, o forse è il ponte di una nave, controllati da uomini in uniforme, un gruppo di ragazzi. Sono seduti a terra, come si usa con i prigionieri. «Ecco, vedi: il terzo qua dietro… è lui. È Yassin… e questo è il suo amico di infanzia... e l’altro in seconda fila, un altro ragazzo di qua..». E gli mette a fianco una fototessera, grande.
Yassin ha la faccia spavalda di chi ne ha combinate di tutti i colori, un figliol prodigo ma di quelli che, alla fine, tornano sempre a casa, pentiti, innocenti. Stento a trovare somiglianze, il volto sulla foto di gruppo è troppo minuscolo, quasi senza contorni. Mi vergogno di non avere l’amore disperato che aguzza la vista. «Questa foto l’ha mandata mia figlia, è uscita su “Le Figaro” e la didascalia diceva che era un gruppo di clandestini salvati dalla polizia italiana. Le date corrispondono… lui è lì, forse è ancora in prigione da qualche parte, per questo non ha più chiamato…». Dopo quattro anni… Ho la rabbia per questa causa perduta, per questa assurda quadrata certezza che subito gli si rinsalda dentro! Ma taccio, cerco di accogliere umilmente questo dolore, mi sforzo di farlo diventare mio, di amarlo.
Girando per le case degli scomparsi non ho mai parlato con le madri, le sorelle. Certo le ho viste in una stanza, in attesa; sono anche comparse con il cibo e il tè della fastosa ospitalità contadina, che si svena per darti il benvenuto. Ma non ho mai incontrato il loro lato di dolore. Che è tutto maschile: di padri di fratelli di cugini di amici. La scomparsa di Nizar è più recente, una delle ultime partenze prima che gli accordi con Gheddafi fermassero anche la via libica. Il padre racconta, in una casa in Rue de Tadjkistan in cui i suoni, qualsiasi suono sembra già troppo forte; con voce interrotta, rapida, come ci si libera di una confessione umiliante, una voce da confessionale: «Lo so che è passato troppo tempo, che avrebbe già dovuto chiamare e poi in ogni caso gli altri per lui... ma come posso rassegnarmi e tacere?». Già; noi siamo uomini di un mondo che riflette calcola le probabilità. Ma per chi ha accettato una volta per tutte, come questa gente, la presenza del divino in ogni istante della nostra povera vita, che peso possono avere le probabilità? Calcolare a che serve? Contro Dio non si gioca.
Ancora un Mohamed, un altro. Il padre si è rivolto a un avvocato perché facesse ricerche e l’ha ben pagato: «Dopo un giorno mi ha chiamato, mi ha detto: sono stato a Tunisi, ho fatto il giro di tutti gli uffici, per cercare tracce. Adesso sono in Italia, ma non c’è niente neppure qui. Spiacente… In Italia… dopo un giorno…».
La sua voce ha sospensioni, nel racconto, di durata infinita, attimi intollerabili. Che si succedono come all’estremo del dolore fisico, pause strane di ottusità e di atonia. Quando quasi non si crede di aver tanto sofferto un minuto prima. E mi dicevo che non avrebbe resistito. Per ascoltare storie come questa ci vuole una pietà forte e dolce, come quella dei santi, l’infantile paura che si prova per le sofferenze altrui.

Repubblica 10.4.11
Condannati all'isolamento

di Adriano Prosperi

Lampedusa? L´isola è svuotata, ora è tutto a posto, dice Berlusconi. Sì, svuotata l´isola come ripulita Napoli, come ricostruita l´Aquila. Le notizie degli sbarchi smentiscono in diretta l´ottimismo dell´imbonitore. Ma c´è dell´altro.
Ci sono i rapporti con gli altri Paesi europei, Francia e Germania in particolare. Qui manca ogni accordo sulla gestione dei flussi umani dall´Africa. Niente paura, dice il premier: «Se non fosse possibile arrivare ad una visione comune, meglio dividersi». Questa è dunque la ricetta dello statista: la divisione dell´Italia dall´Europa. Divisione: la parola è sorta spontanea sulle labbra del premier non certo per caso. Quella parola aleggia da tempo nella realtà della vita del Paese. Nello spazio dei pochi giorni trascorsi dalla festa dei 150 anni dell´Italia unita il Paese che si era faticosamente ritrovato all´ombra del tricolore si presenta oggi lacerato come non mai, diviso non solo fra Nord e Sud ma fra una regione e l´altra, fra una borgata e l´altra. Così, a festa finita, la questione dell´unità ci appare oggi come un problema serio e grave.
La festa dell´Unità d´Italia poteva essere un´occasione importante per ripensare alla storia e alle prospettive del Paese. Ma alla festa si è associata una cattiva compagna di strada: la retorica dell´unità. Chiamiamo retorica dell´unità ogni lettura del passato e del presente che ignora le fratture, esalta il processo di unificazione come un moto armonioso e concorde e tenta di cancellare differenze e divisioni col silenzio, con la proposta di una storia ufficiale corretta "ad usum delphini" e con l´eliminazione delle tracce istituzionali e simboliche delle fratture profonde del Paese.
"Io amo l´Italia" è una di quelle espressioni della neolingua berlusconiana che hanno fatto breccia nel nostro parlare, così come la teatralità dei gesti patriottici di ministri che scimmiottano l´inevitabile modello americano quando si mettono la mano sul cuore davanti alla bandiera. Ma sono anni ormai che la retorica dell´unità si accompagna in Italia a una revisione o piuttosto alla decisa espurgazione della storia documentata del Paese diviso e feroce che abbiamo alle spalle. In questo contesto bisogna certamente accogliere e dare credito alla giusta preoccupazione di chi invita a guardare a ciò che unisce e a mettere la sordina a ciò che divide. È un invito sacrosanto se si tratta di unirci per affrontare i problemi e le fragilità che minano la società italiana e la allontanano dall´ideale che ebbero in mente i patrioti del Risorgimento e i combattenti della libertà repubblicana contro il nazifascismo. Ma non può diventare una autocensura unilaterale mentre il nemico della vera unità guadagna posizioni su posizioni. Davanti alla lacerazione del tessuto del Paese abbassare i toni rischia di valere come una rinunzia a difendere i diritti fondamentali dell´uomo e del cittadino.
E questi diritti si difendono partendo dalla condizione di chi diritti non ne ha: il dannato della terra, la figura dai tanti nomi – il rifugiato, l´immigrato, il clandestino. Chiediamoci quale immagine e quale esperienza dell´Italia abbiano oggi i profughi che, sopravvissuti a tragedie senza nome, riescono con enormi rischi e difficoltà a toccare le coste meridionali e insulari del Paese. Queste donne, questi uomini, non hanno storia per noi, sono i dannati della terra, sono il popolo senza nome dei sommersi. Ma, se non diventano letteralmente tali annegando nel Mediterraneo, se sopravvivono e se riescono a fare come quegli emigranti italiani che trovarono in altri Paesi società più libere e giuste, un giorno saranno loro stessi o i loro figli che scriveranno la storia vera del nostro tempo, quella che vivono e di cui oggi sono le vittime. E non sarà la storia di un´Italia unita. Sballottati da una regione all´altra, sempre però al di sotto di quella linea gotica che nel nome porta la memoria di antiche e recentissime fratture del Paese (la lingua è spesso un inesorabile quanto inascoltato documento storico), accolti dalla canea di folle incoraggiate dalla politica di una forza politica razzista e xenofoba che mira al disfacimento del Paese, sono i testimoni autentici dello stato di salute dell´Italia di oggi.
Se fossimo capaci di guardare le cose dal loro punto di vista capiremmo forse quanto l´unità oggi sia qualcosa di sideralmente lontano dalla realtà quotidiana oltre che dalla prospettiva futura del Paese. E non è certo un caso se quei profughi non vogliono restare in Italia e si dirigono verso altri Paesi, verso quell´Europa da cui oggi ci si vorrebbe addirittura dividere. Quella parola "divisione" affiorata oggi nelle esternazioni del premier è da prendere sul serio: è grazie al suo governo, grazie a un ministro degli Esteri che si occupa di Antigua e a quello degli Interni che pensa alla Padania, oggi l´Italia non solo non ha più una politica mediterranea, ma non ha da tempo nessun credito e nessun peso nella politica europea. Ci sarà modo di risalire da questo abisso? Forse: ma certo non con questi uomini: non con una maggioranza sedicente di governo che passa le sue giornate in Parlamento affannandosi a regalare a ogni costo una nipotina all´esiliato signore dell´Egitto.

La Stampa 10.4.11
L’Italia spalle al muro tutta l’Unione è contro
La commissaria Ue scrive a Maroni: non si può neanche discutere In Lussemburgo la partita è ardua ancora prima di cominciare
di Marco Zatterin


Non c’è solo Nicolas Sarkozy a dire che «la clausola temporanea» non è praticabile. La norma che l’Italia ha annunciato di voler invocare domani al Consiglio dei ministri degli Interni Ue, cioè la regola varata nel 2001 per il Kosovo (e mai usata) che in teoria potrebbe aprire la porta della redistribuzione dei migranti su base continentale, rischia di avere appena due sostenitori su ventisette, Roberto Maroni e il collega maltese. L’uomo del Viminale rischia di trovarsi con le spalle al muro e forse lo sarebbe anche se ci fosse consenso sulla sua richiesta. «La clausola non è vincolante e comunque vale per chi ha diritto alla protezione internazionale - spiega una fonte della Commissione -, Roma, invece, ripete da giorni che si tratta di migranti economici da rimandare a casa...».
Il tremendo destino dell’onda umana che arriva ogni giorno e ogni notte a Lampedusa sta tirando fuori il peggio di tutta l’Europa, o quasi. L’Italia fatica a trovare alleati, circostanza che i funzionari comunitari a conoscenza del dossier imputano in buona parte alla confusione strategica che sin dall’inizio ha caratterizzato la nostra gestione della crisi. Viene considerato un errore aver gonfiato l’allarme all’inizio dell’esodo dal Nord Africa, come quello di aver chiesto aiuti sproporzionati e di aver scaricato sistematicamente le responsabilità su Bruxelles, da dove - invece - sono arrivate offerte di aiuto e finanziamenti. Molte delle quali, si è scoperto, sono state ignorate.
Questo è servito da pretesto perché molti Stati chiudessero a doppia mandata il forziere della solidarietà. La Francia di Sarkozy, agitata dal consenso crescente dell’estrema destra lepeniana, ha deciso e attuato una politica della tolleranza zero, anche perché ha avuto la non astrusa sensazione che l’Italia facesse da ponte perché i tunisini si spingessero oltralpe. Il mondo nordico ha colpevolmente sottovalutato l’evento, Germania compresa, e con due ragioni in più: la Merkel in crisi non vuole immigrati e, al solito, teme che l’interesse per il Sud distragga dall’Est. Di qui anche la freddezza delle nuove democrazie dell’ex oltrecortina.
Maroni ha ripreso a gridare contro l’Europa non solidale a fronte di «un popolo italiano che mostra sempre collaborazione». Non lo aiuterà domani, in Lussemburgo, quando solleciterà risorse aggiuntive, una ridefinizione della distrubuzione dei rifugiati e, ecco il piatto forte, l’attivazione della procedura della direttiva 55 del 2001. «E’ un finto dibattito - spiegano fonti europee -. Non c’è consenso ed è una norma priva di alcun automatismo». La Commissaria Ue per l’Immigrazione, Cecilia Malmstroem, ha già scritto la lettera da spedire a Maroni per dire che non vede le condizioni di procedere. Fine del match.
Il leghista del Viminale subirà un nutrito fuoco di fila sulle carte di soggiorno a tempo. «Uno Stato ha il diritto di emettere dei permessi, ma bisognerà determinare la conformità della pratica con le regole di Schengen», riassume la Malmstroem. Un problema? «Per circolare liberamente occorre un permesso, ma anche un titolo di viaggio valido, provare che dispone di mezzi sufficienti e di un’abitazione, non comparire nella banca dati Schengen, ecc». Tutti requisiti che, per forza di cose, i disgraziati fuggiti dalla Tunisia non hanno.
La Francia sarà la prima a sparare ad alzo zero. Non l’unica. «C’è anche un’altra questione - spiegano alla Commissione -. La titolarità di un permesso temporaneo disinnesca la possibilità che la polizia italiana possa fermare sul territorio nazionale i clandestini divenuti temporaneamente legali». Questo vuol dire che possono arrivare in Francia senza ostacoli ed essere cacciati indietro senza complimenti. Certo che qui Parigi viola i patti di Schengen, perché non può blindare le frontiere a puro piacimento. Gli accertamenti «non possono essere sistematici», ricorda la Malmstroem, però sono ammessi se «mirati». Bisogna essere cauti. I margini ci sono e la gendarmeria può fare ciò che vuole. In fondo, per ora, nessuno sta controllando i controllori.

il Fatto 10.4.11
E la scuola va in tribunale
di Marina Boscaino


Ricordate le 3i (Internet, Inglese, Impresa), mix di neoliberismo e annunci d’effetto, inizio del declino della scuola? Sostituitele con tante T. T sta per Tribunali, fonte di dispiaceri per il nostro ministro. Gli “incidenti di percorso” dell’”Epocale Riforma” iniziano dagli ATA. Il Tar Lazio, su richiesta di Snals-Confsal, ha messo in discussione l’articolo 64 del D.L. 112/2008, (l. 133/2008 - 135mila posti di lavoro in meno a scuola), che riduce del 17% amministrativi tecnici e ausiliari: la norma risulta “ispirata a mere esigenze di cassa”. Altro che “razionalizzazione e semplificazione”. Un giudice di Genova ha attribuito un ampio risarcimento a 15 precari senza posto di lavoro, dopo che la Consulta aveva dichiarato a febbraio incostituzionale l’inserimento “in coda” nelle graduatorie. E così il Codacons ha promosso la più ampia class action pubblica italiana; docenti della scuola e universitari a contratto rivendicano i propri diritti e hanno diffidato i ministri di Istruzione e Pubblica Amministrazione: sono 40mila precari che chiedono stabilizzazione e 30mila euro ciascuno di risarcimento. Ancora Codacons, ancora class action, stavolta sulle aule-pollaio, zeppe di studenti, in condizioni che violano i limiti di legge: in gennaio il Tar Lazio ha accolto l’istanza contro il MIUR. Il tribunale ordinario di Milano ha poi accertato “la natura discriminatoria della decisione delle amministrazioni scolastiche di ridurre le ore di sostegno scolastico per l’anno in corso rispetto a quelle fornite nell’anno scolastico precedente”, ordinando “la cessazione della condotta discriminatoria” e condannando “i convenuti, ciascuno per le rispettive competenze, a ripristinare, entro 30 giorni dalla comunicazione della presente ordinanza, per i figli dei ricorrenti il medesimo numero di ore di sostegno fornito loro nell’anno scolastico 2009/2010?. Ancora la Consulta - sentenza 92/2011 - ha stabilito che la disciplina per istituire scuole dell’infanzia spetta alle Regioni e non allo Stato; mentre sono competenza statale i criteri per istituzione e funzionamento di quelle del 1° ciclo. La Corte ha in parte accolto i ricorsi con cui Toscana e Piemonte sollevavano conflitto di attribuzione, lamentando la lesione di funzioni regionali (art.117 della Carta) e il contrasto delle norme impugnate con il principio di leale collaborazione (art.118), per la mancata previsione della necessaria intesa con le Regioni, e con quello di sussidiarietà. Insomma: il diritto si configura come baluardo di civiltà in un Paese in cui non è ancora possibile costruire, con concordi azioni unitarie, opposizione costante ed intransigente ai tagli che il governo camuffa con una sigla buona per ogni stagione: “riforma”. Che i tribunali arrivino là dove la mancata coesione tra forze democratiche non contrasta in maniera adeguata una politica dissennata che ha individuato nella scuola una fonte di profitto, anziché di investimento, è triste ed evidente. Altrettanto evidente è che la scuola delle molte T ci rimanda alla formula della Moratti, riveduta e corretta: I come inadempienza, improvvisazione, inanità. Dilettanti allo sbaraglio, che imperversano aggiungendo una quarta e più grave I: illegittimità.

La Stampa 10.4.11
Germania, fuga dalle chiese
«Colpa dello scandalo dei preti pedofili che ha travolto numerose diocesi»
di Alessandro Alviani


In Germania bastano una carta d’identità e dieci minuti di attesa dietro la scrivania di un funzionario della pretura o dell’ufficio dello stato civile per abbandonare la Chiesa cattolica. L’anno scorso, sull’onda dello scandalo dei preti pedofili che ha travolto numerose diocesi, i tedeschi che si sono presi quei dieci minuti di tempo sono stati molti più del solito: secondo un’indagine pubblicata sul supplemento «Christ & Welt» del settimanale «Die Zeit» ammontano a circa 180.000, oltre 50.000 in più del 2009. Il dato ufficiale verrà diffuso dalla Conferenza episcopale all’inizio dell’estate, ma potrebbe essere ancora più alto: il calcolo della Zeit si basa solo sui casi comunicati da 24 delle 27 diocesi tedesche.
Per la prima volta nella storia della Repubblica federale la Chiesa cattolica potrebbe dunque aver perso più fedeli di quella protestante: la Chiesa evangelica tedesca stima infatti che nel 2010 gli abbandoni nelle proprie file siano stati poco meno di 150.000.
Particolarmente colpite dal fenomeno sono le diocesi della Baviera di Papa Benedetto XVI, che a settembre sarà in Germania per la sua prima visita di Stato. Nella diocesi di Augusta, sconvolta dalle accuse di maltrattamenti su minorenni contro l’ex vescovo Walter Mixa, gli abbandoni solo saliti di oltre il 70%. Più moderato l’incremento nell’arcidiocesi di Monaco Frisinga, dove i fedeli che hanno fatto domanda per «uscire» dalla Chiesa sono stati 23.254, circa il 30% in più del 2009. Nella più grande arcidiocesi tedesca, quella occidentale di Colonia, i casi sono stati 15.163 (+41%).
Tale aumento «testimonia la perdita di fiducia che la Chiesa ha subito soprattutto per via dello scandalo degli abusi» - ha scritto il vicario generale di Colonia Dominik Schwaderlapp -. Ciò è per noi doloroso, in quanto evidentemente molte persone hanno scelto l’abbandono della Chiesa come loro personale forma di protesta e repulsione». «Non vogliamo ignorare la crisi dell’anno scorso, ma guardiamo avanti per riconquistare la credibilità perduta», ha aggiunto il portavoce della Conferenza episcopale, Matthias Kopp.
Per il movimento di riforma della Chiesa «Wir sind Kirche» si tratta invece di un «bilancio spaventoso»: dal 1990 quasi 2,8 milioni di fedeli hanno lasciato la Chiesa cattolica in Germania.

Repubblica 10.4.11
Il fattore Anna Bolena

di Agostino Paravicini Bagliani

S cisma è una parola di origine greca che significa squarcio, fenditura, quindi anche dissidio e, nel linguaggio ecclesiastico, separazione all´interno della Chiesa cristiana, la cui storia è attanagliata da scismi fin dai primi secoli. Quelli antichi, di Novaziano, di Melezio e di Lucifero di Cagliari, per esempio, sono oggi dimenticati. Altri invece - quello tra Bisanzio e Roma, consumatosi nel 1054 - sono momenti di rottura che fanno parte della nostra memoria storica. Anche la Riforma protestante, con le sue varie chiese, luterana, calvinista e zwingliana, provocò una separazione definitiva da Roma che è stata appena attenuata dall´ecumenismo di questi ultimi decenni.
Meno di vent´anni dopo le famose tesi luterane di Wittenberg (1517) che segnarono l´inizio della Riforma, il re inglese Enrico VIII promulgò nel 1534 l´"Atto di supremazia" che gli permise di sostituirsi al Papa nel governo della chiesa del suo regno, allontanando così definitivamente l´Inghilterra dalla cattolicità romana. È una storia, quella dell´anglicanesimo, che ha conosciuto momenti di altissima drammaticità. Nel 1587 la cattolica Maria Stuarda, regina di Scozia, fu fatta imprigionare, condannare per tradimento e giustiziare dalla cugina Elisabetta I, regina d´Inghilterra, figlia di Enrico VIII. Ma è una storia attraversata anche da momenti di forte compromesso. Già il Libro della preghiera comune (Book of Common Prayer), pubblicato nel 1549, lasciò ampio spazio alle cerimonie e preghiere della liturgia cattolica. Nel Settecento, la gerarchia anglicana, diretta da William Laud, arcivescovo di Canterbury, e sostenuta da Carlo I, guardava con favore al cattolicesimo, provocando una forte opposizione dei puritani.
Contrariamente alla bassa chiesa (Low Church), più ostile a Roma, la High Church (chiesa alta) espresse nella dottrina, nella liturgia e nell´organizzazione ecclesiastica linee di continuità con la Chiesa cattolica, ed è su questa linea storica di lunga durata che si sviluppò nei primi decenni dell´Ottocento (1833) il cosiddetto movimento di Oxford, di cui fece parte John Henry Newman, che Leone XIII creerà cardinale nel 1879 (e Giovanni Paolo II beatificherà nel 2010). Aveva contribuito alla nascita del movimento oxoniano il desiderio di rileggere i padri della Chiesa ma anche una certa nostalgia della ritualità cattolica. Il vicario anglicano W. J. E. Benner aveva fatto scalpore intorno al 1850 con le sue proposte di reintrodurre nella vita liturgica anglicana le candele, l´incenso, oltre che oggetti e vesti liturgiche.
Il movimento di Oxford segnala l´esistenza di una linea di fondo, in seno all´anglicanesimo, che non riusciranno a fermare i regolamenti disciplinari di tardo Ottocento e che, anzi, è contrassegnata da conversioni illustri, prima fra tutte quella di John Henry Newman (1845), la cui personalità influenzò altri convertiti famosi, come gli scrittori Julien Green (1916), G. K. Chesterton (1922) e Evelyn Waugh (1930). Su quell´onda lunga nascerà nel secondo Novecento un genuino orientamento ecumenico sostenuto dall´arcivescovo di Canterbury A. M. Ramsey.
L´anglicanesimo, scisma nato per ragioni essenzialmente politiche - il matrimonio di Enrico VIII con Anna Bolena, osteggiato dalla Chiesa di Roma - ha da sempre oscillato tra un forte sentimento nazionale e anti-romano, vicino ad altri movimenti riformatori (calvinismo), e un´attrazione, anche nostalgica, verso il cattolicesimo che si manifesta fin dall´inizio e che non sembra affatto essersi affievolita. È uno scisma in qualche modo a metà - non a caso si attribuisce a Newman la coniazione del termine di via media - un caso unico in seno alle Chiese nate dalla Riforma del primo Cinquecento.

Corriere della Sera 10.4.11
Il diritto dei bambini a non soffrire

La legge c'è ma è inapplicata
di Mario Pappagallo

Poco più di un anno fa, il 19 marzo 2010, veniva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge numero 38: «Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore» . Per la prima volta si è sancito un diritto di civiltà: quello dei bambini di non soffrire, di non provare dolore. Di avere tutto ciò che serve per una buona qualità di vita anche se inguaribili. Compreso l’affetto e il calore dei familiari. Insomma, una legge rivoluzionaria per un’Italia culturalmente in ritardo sul diritto a non soffrire. Il dolore va diagnosticato e curato sia esso cronico (mal di schiena, mal di testa), post-operatorio o da tumore. Sia esso invadente memento di un male incurabile o terminale. E per la prima volta si è stabilito che i bambini hanno lo stesso diritto degli adulti a ricevere tali attenzioni e cure. Un diritto che andava realizzato su base regionale, o sovraregionale, attraverso reti specifiche. In Italia sono circa 11 mila i minori, dai pochi mesi di vita fino ai 17 anni di età, incurabili o terminali (un terzo per un tumore, due terzi per altra causa) che necessitano di cure palliative pediatriche. Tuttora, però, gli interventi risultano limitati a esperienze individuali e isolate. E la maggior parte dei piccoli inguaribili o terminali continua a vivere per lunghi periodi e morire in ospedale: oltre il 60%dei casi (in alcune realtà fino al 90%) e di questi, circa il 40%in situazioni critiche. Impressionanti i dati nazionali: 1.600.000 giorni di degenza ospedaliera all’anno e 580 mila giorni nei reparti di terapia intensiva, anche quando sarebbe possibile la gestione domiciliare o in strutture residenziali dedicate (hospice pediatrici). Con costi per il servizio sanitario pari a circa 650 milioni di euro all’anno che scenderebbero a 80-90 milioni con la nuova legge applicata. La scelta delle cure a casa, peraltro, attualmente ricade comunque sulle famiglie, con oneri spesso insostenibili. La legge c’è, va applicata. Lo sa la Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio Onlus che, il 21 aprile, darà avvio da Palmanova (Udine) a una campagna nazionale di sensibilizzazione, formazione e promozione sulle cure palliative e la terapia del dolore. Parola d’ordine: ogni paziente inguaribile è curabile.

Corriere della Sera 10.4.11
Il business del Male

Perché ci attrae tanto l’esibizione del macabro
di Pierluigi Panza


I lmale? Non proviamoci nemmeno a definirlo. Neppure Kant è riuscito a capirne l’origine: «Per noi— scrisse il filosofo di Königsberg— non c’è alcuna causa comprensibile dalla quale il male possa essere venuto» . Ma se non ne conosciamo l’origine, possiamo almeno definirne l’azione. Il critico letterario francese Georges Bataille ne diede una formula convincente: «Il male è la violazione deliberata di alcune proibizioni fondamentali» . Anzitutto la violazione di quelli che Freud definì i tabù, come cannibalismo, proibizione dell’assassinio, rispetto per i cadaveri, divieti sessuali, rifiuto del suicidio e automutilazioni... Al di là della persistenza di alcuni macabri rituali in comunità primitive, i principali territori di pascolo della rappresentazione del male nell’età moderna sono stati le arti e la letteratura. Secondo Bataille, la letteratura è addirittura «inseparabile dal male» e scrittori come Baudelaire e Kafka sono stati consapevoli testimoni. Anche oggi, arti e discorso — declinato nelle forme della letteratura, del giornalismo, del messaggio pubblicitario e televisivo — sono i mezzi espressivi del male. Anzi, configurano, in una parte significativa del loro operare, un business del male; un male mostrato, esibito, che rende in termini di visitatori, lettori, audience. Ovvero denaro. Tanto che il voyeurismo del male ha in parte soppiantato quello del porno. Non esistono dati specifici su quanto fatturi la rappresentazione del male, ma gli operatori dei settori elencati sanno che funziona. Lo propongono perché funziona; funziona perché lo propongono. Oggi, nelle mostre d’arte, la tendenza al macabro — come riemergere del tema delle «vanitas» — è costante e redditizio. Iniziò alla XLVII Biennale di Venezia (1997) Marina Abramovic stando seduta su una montagnetta di ossa maleodoranti. Per quanto questo suo Barocco Balcanico— denuncia delle stragi nella ex Jugoslavia— fosse sconvolgente e macabro, lo era assai meno di quanto messo in scena dagli Azionisti (tagli sul corpo, automutilazioni...) e di quanto esposto in una delle mostre più visitate del nuovo millennio: quella del tedesco Gunther Von Hagens, il dottor morte. Questo anatomopatologo espose nel 2002 in un’ex birreria dell’East End di Londra 26 cadaveri scorticati e 189 «pezzi sciolti» (mani, genitali, cervelli, fegati, embrione), tutti sottratti alla naturale decomposizione mediante un metodo d’imbalsamazione. L’esposizione, che ha toccato varie capitali del mondo, ha raggiunto i 13 milioni di visitatori. E a New York, nell’autunno del 2005, l’ingresso costava ben 25 dollari! Nel 2005, alla Palazzina di Caccia di Stupinigi ha avuto successo un’esposizione (curata da Vittorio Sgarbi, doppio catalogo dell’editore Skira, 67.409 visitatori) dal titolo Il Male. Esercizi di pittura crudele, con oltre 350 opere di maestri come Balthus, Schiele e varie foto d’autore di teste mozzate nelle varie guerre africane. Ma questi sono solo alcuni degli esempi. Ritratti di personaggi sgozzati c’erano, ovviamente, nella mostra Caravaggio-Bacon dell’ottobre 2009 alla Galleria Borghese; il nuovo MAXXI di Roma ha aperto i battenti esponendo davanti all’ingresso lo «scheletrone» di Gino De Dominicis; la Fondazione Trussardi ha appeso a Milano i «bambini impiccati» di Cattelan; Palazzo Grassi ha esposto sul Canal Grande il megateschio di Subodh Gupta (Very Hungry God) e la Triennale, con Disquieting Images, ha lanciato la prima rassegna fotografica vietata ai minori di 14 anni, appendendo alle pareti un florilegio di crudi reportage (diecimila visitatori). Code ci sono anche per l’esposizione del teschio ricoperto da diamanti, intitolato For the Love of God, esposto da Damien Hirst a Palazzo Vecchio di Firenze, che attira circa settemila visitatori a settimana (e i suoi spin skull, teschi colorati sono prodotti serialmente e venduti a 5 mila euro). Inoltre, come racconta in un libro appena uscito Micòl Di Veroli (Oltre ogni limite. Cronache dal bizzar- ro nel mondo dell’arte contemporanea, DEd’A) c’è chi, come Tania Brughera, si è presentata alle performance di Autosabotage (2009) puntandosi una vera pistola alla tempia. Del resto, in Shoot (1971), l’artista Chris Burden si è fatto sparare al braccio da un amico. Tutto ciò ha un seguito perché la mediazione estetica rende sopportabile, e in qualche modo emozionante, la visione del male che, altrimenti, ci appare insopportabile, come provato da molti di fronte alle immagini realistiche delle esecuzioni di Daniel Pearl o Nick Berg da parte dei fondamentalisti islamici. Ma l’arte è solo una delle modalità espressive nelle quali il male si esprime e realizza il proprio business. I telefilm dedicati al crime sono in tutti i palinsesti televisivi. E Sky ha un canale apposito, Fox Crime. Una volta, ai tempi di Perry Mason, il cadavere rimaneva sullo sfondo: oggi, invece, è esibito. E con i telefilm CSI lo spettatore è catapultato sulla scena del crimine e dentro il laboratorio anatomico, accanto ai cadaveri (anche all’ora di cena). I cadaveri abbondano anche sulle copertine dei settimanali e nelle pagine dei quotidiani. Vedere un cadavere attraverso un medium sta diventando una forma di dipendenza. Tanto che alla tv del dolore, nata il 13 giugno del 1981 quando milioni di telespettatori assistettero impotenti alla morte di Alfredino Rampi, si sta sostituendo la tv dell’orrore: casi insoluti, amori criminali, omicidi familiari spuntano in ogni canale. La sera dell’arresto di Sabrina Misseri (caso di Avetrana), la trasmissione Matrix ha raggiunto uno share del 42%, record per le sue edizioni. Altre trasmissioni danno quotidianamente o settimanalmente conto di molti casi di cronaca nera (anche insieme) per assicurarsi audience. E sebbene i truci filmati trasmessi in queste trasmissioni possano apparire per educandi rispetto a quelli caricati su YouTube (tra i quali autopsie con apertura di crani), più di un gruppo di pressione sta sollevando critiche. Ultimo quello formato da un insieme di parlamentari, che hanno chiesto alla dirigenza Rai di valutare se i programmi pomeridiani della tv pubblica non siano troppo sbilanciati sulla cronaca nera. Nella letteratura, come ha scritto Bataille, il male è congenito. E anche se non si riesce più a raggiungere il livello di raffinati capolavori di malvagità come quello scritto da Emily Brontë, e nemmeno l’espressionistica violenza di Anthony Burgess (e Stanley Kubrick), l’attenzione di tanti scrittori contemporanei va sempre al confronto con il male. Così sono nate tendenze, come la «Letteratura cannibale» e un proliferare di testimonianze d’individui precipitati nella droga, nella prostituzione e vari mali di vivere, di cui va ghiotta l’editoria. Si pensi a un recente libro, vivace ma agghiacciante, come L’imbalsamatrice di Mary B. Tolusso (Gaffi editore), storia di una ragazza che passa il tempo a imbellettare cadaveri e a confidarsi con loro. L’attrazione fatale per la rappresentazione del male e del macabro investe tutti i campi del discorso. Ci sono blog che spiegano «Perché alle ragazze piace essere trattate male» , saggi che argomentano Perché agli uomini piace soffrire, video musicali con cadaveri fumanti, come quelli della pop-star Lady Gaga e strofe di canzoni ispirate al dolore come quelle di Love the way you lie di Eminem (cantata da Rihanna). Ovunque la rappresentazione del male è diventata motore del commercio. Ma perché funziona così bene? «Il male funziona perché è incastonato nella struttura della nostra evoluzione. Siamo passati, negli ultimi quattro milioni di anni, da primati antropomorfi a passeggiare sulla Luna; ma tutto ciò non è avvenuto senza versare una goccia di sangue, anzi» , afferma lo psichiatra e neurobiologo Luca Pani. «I medesimi sistemi chimici e le abitudini ambientali che sottendono e rinforzano ossessioni, vizi e perdizioni in un abuso crescente di impulsi incontrollabili sono le ragioni che ci fanno identificare qualche volta con la vittima e più spesso con il carnefice, pur con tutte le inibizioni morali del caso. Nessuno lo ammetterebbe mai, eppure quello che ci rende unicamente uomini è la repentina e diabolicamente straordinaria abilità di essere l’unico animale che sa usare le mani per dipingere la Capella Sistina e per sganciare la bomba su Hiroshima» . Se oggi il tributo dell’evoluzione al male è particolarmente consistente è anche perché viviamo in una società avida e ambiziosa. Secondo alcuni psicologi e neurologi, l’osservazione della rappresentazione del male può aiutare a sopportare l’infelicità che una società invidiosa scatena. Il team di ricercatori giapponesi di Hidehiko Takahashi dell’Istituto Nazionale di Scienze Radiologiche di Inage-ku, ha condotto una ricerca (pubblicata su Science) secondo la quale l’invidia è come un dolore fisico e la sfortuna degli altri un piacere per chi la osserva. La società invidiosa, insomma, è un po’ sadica: soffre del successo altrui ma prova un piacere (inconscio, s’intende!) nell’osservare il male altrui. Lo psicologo Philip G. Zimbardo, docente a Stanford e alla Columbia di New York, maggior studioso vivente di questo tema, aggiunge alcune osservazioni esplicitate nei suoi libri: «L’eroismo non è mai stato indagato sistematicamente nelle scienze comportamentali. Eroi ed eroismo sembrano esplorati solo in letteratura, mito e cinema, mentre molteplici fonti documentano i mali dell’esistenza: omicidi e suicidi, tassi di criminalità, popolazione carceraria, livelli di povertà, schizofrenia... Simili dati quantitativi per gli aspetti positivi delle attività umane non sono facili da trovare: non teniamo registri d’atti di carità, bontà, compassione...». Un aspetto, quest’ultimo, sul quale i media dovrebbero interrogarsi. Il resto lo fa quello che si chiamava l’animo umano, ovvero le sostanze chimiche presenti nei neuroni. «Anche noi vogliamo credere che c’è qualcosa in alcune persone che li spinge verso il male, mentre c’è qualcosa di diverso in altri che li spinge verso il bene. Ma non ci sono prove e non ne sono convinto. Fino ad allora dobbiamo cercare di capire che cosa spinge alcuni di noi a diventare colpevoli del male ed altri a guardare altrove in presenza di prevaricatori del male» . Perché il paradosso contemporaneo è proprio questo: il successo popolare della rappresentazione del male è inversamente proporzionale alla disponibilità a confrontarsi con il male reale. Più si osservano le rappresentazioni mediate del male più si fugge quello reale. Sino all’omissione di soccorso. Con l’aggravante che il male rappresentato chiede di spingersi sempre più in là per non diventare normalizzato. Piero Bocchiaro, psicologo sociale e autore di Psicologia del male (Laterza) spiega proprio quest’ultimo aspetto: «Il male, in qualunque sua forma, conquista facilmente l’attenzione perché rappresenta uno strappo nella routine. Ma venendo meno questo carattere di eccezionalità, anche aggressioni, stupri e omicidi perdono la loro salienza e, conseguentemente, buona parte di potere attrattivo. Succede ad esempio, ed è esperienza comune, guardando il male "normalizzato"dei telegiornali o leggendolo nelle pagine di cronaca» . Ma anche per Bocchiaro «il male assolve un compito importante per l’osservatore: quello di poter prendere le distanze da chi l’azione malvagia l’ha appena compiuta. Chi osserva continuerà a sentirsi allora, in maniera illusoria e insieme rassicurante, "diverso", "migliore"rispetto a quell’altra persona» . E quindi rappresentare il male «può essere d’aiuto — conclude — nel liberarsi delle quote in eccesso di tensione nervosa, anche se una simile funzione catartica non mette al riparo dalla possibilità di agire in maniera malvagia: scrivere o dipingere hanno un effetto positivo transitorio e molto presto torneremo ad essere vulnerabili» . Il successo del male, insomma, è dovuto al fatto che stiamo male. E stanno male anche gli «altri», i migrati ad esempio, perché «è infelicissimo -scriveva Pindaro -chi riconosce il bene ma è costretto a tenerne il piede lontano» . Ma il male, come mostrò Emily Bronte, può essere anche l’espressione più forte con la quale si esprime un’irriducibile passione d’amore.

Terra 10.4.11
Fine vita, le posizioni in campo
di Federico Tulli

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Verso oscuri chiarori
a cura di Francesca Franco

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