martedì 12 aprile 2011

La Stampa 12.4.11
Lampedusa
Nel Cie in fiamme scoppia la rivolta “Libertà, libertà”
Decine di uomini riescono a evadere dal centro
di Federico Geremicca

Era nell’aria? Era nell’aria. Si poteva evitare? Probabilmente si poteva evitare. O quanto meno prevedere. Sono questi - e altri - gli interrogativi che frullano nella mente mentre un leggero vento di maestrale, gonfia, ingigantisce e porta via le dense nuvole di fumo nero che si alzano dal Centro di accoglienza. Sono le quattro e un quarto del pomeriggio, e dopo ore di lenta incubazione la rivolta dei mille tunisini rinchiusi nella struttura divampa in tutta la sua ineluttabilità. E questa, allora, è la cronaca di una delle giornate più nere di Lampedusa, una giornata che si conclude con una decisione che coglie tutti di sorpresa: via i migranti da un Centro ormai ingestibile e tutti a bordo della nave Excelsior (da giorni alla fonda) per essere trasferiti sul continente e poi divisi e distribuiti un po’ qui e un po’ lì.
Nessuno può saperlo, naturalmente, ma la miccia di questa giornata infernale comincia a bruciare poco dopo mezzogiorno, quando trenta tunisini giunti a Lampedusa dopo il 5 aprile (e dunque rimpatriabili, secondo gli accordi stretti col governo di Tunisi) cominciano a essere imbarcati su un aereo che deve riportarli nel loro Paese. A scortarli sessanta uomini delle forze dell’ordine. Le operazioni sono lunghe e complesse, viene sequestrato loro qualunque oggetto avessero addosso (cellulari compresi) e poi - finalmente - quando è ormai ora di pranzo, l’aereo decolla e fa rotta verso Tunisi. Tra i rimasti nel centro già serpeggia il nervosismo: che diventa pura disperazione appena qualche telefono cellulare comincia a squillare... Sono i rimpatriati che, appena riportati in Tunisia, li avvertono del destino che ormai li attende.
È l’inizio della rivolta. Qualcuno sale sui tetti e grida «libertà, viva l’Italia»; qualcun altro lancia bottiglie di plastica contro i reparti di polizia e carabinieri che stazionano dentro e fuori il centro. Poi si passa allo sciopero della fame. I migranti rifiutano il cibo, tentano un corteo interno alla struttura, vengono divisi e dispersi. Sono ormai le quattro del pomeriggio quando, all’improvviso, nel Centro tutto si placa. Non un grido, non una protesta. Sembra tutto finito e invece è il preludio al peggio che sta per cominciare.
Prima un grido, poi qualcuno che scappa. E in un attimo è l’inferno. Nuvole di fumo nero spesse come batuffoli di ovatta sporca cominciano a sollevarsi dal padiglione centrale: lo stesso che fu dato alle fiamme nella drammatica rivolta del 2008. Gente che scappa ovunque, la campana dell’allarme anti-incendio che comincia a suonare assordante, i reparti della polizia che avanzano brandendo manganelli e scudi. E non basta: mentre i mezzi dei vigili del fuoco cercano di farsi largo tra la folla impaurita, decine e decine di tunisini cominciano a scappare dal Centro scavalcando l’esile rete che cinge la struttura nel retro. I pochi militari che sono di guardia all’esterno vengono colti di sorpresa: è una fuga di massa. Che non durerà a lungo, però.
I getti degli idranti non impiegano molto ad aver ragione delle fiamme che si sviluppano dai materassi di gommapiuma cui i tunisini hanno dato fuoco. È un fuggi fuggi generale, nessuno sa bene cosa fare per riportare la calma. Quando le fiamme vengono domate e il fumo si dirada, si tirano le somme. Non ci sono feriti, ma una parte del piano terra della struttura centrale è fuori uso: e in più ci si accorge della fuga di massa dal centro. Poliziotti e carabinieri vengono sguinzagliati sulle tracce dei fuggiaschi: ma molti sono rimasti lì, lungo i pendii del canyon. Ragionano qualche minuto sul che fare e poi, arrendendosi al fatto di essere su un’isola dalla quale è impossibile fuggire, alzano le mani e pian piano ridiscendono verso il Centro. Si consegnano ai poliziotti gridando «no Tunisia, libertà, libertà». Vengono riportati dentro, mentre tecnici e dirigenti della struttura tentano un primo bilancio dei danni subiti dal padiglione.
La notizia della rivolta fa in un baleno il giro dell’isola. Si diffonde un certo allarme anche tra i responsabili delle forze dell’ordine. Il sindaco di Lampedusa, Dino De Rubeis, si attacca al telefono e chiama il «concittadino» Berlusconi: «Sull’isola, nel Centro, possiamo tenerne ormai al massimo un paio di centinaia, per poi rimpatriarli da qui. Ma il resto dei tunisini deve adar via perchè la situazione rischia di andare fuori controllo». Il presidente del consiglio si mette in contatto con il ministro Maroni, discutono il da farsi: decidono che forse conviene ascoltare l’allarme del sindaco. Parte l’ordine: 700 ospiti del centro vengano trasferiti sulla Excelsior e poi portati via da Lampedusa. La grandenave lascia la fonda e si dirige verso la banchina di cala Pisana, da dove l’imbarco è più semplice: ma a sera inoltrata le operazionidi trasferimento dei migranti tunisini non erano ancora iniziate.
Decolla più o meno regolarmente, invece, il secondo volo di rimpatrio di altri 30 migranti. Urlano e protestano quando capiscono che il momento è arrivato e che il sogno è finito. Niente Italia, niente Francia, niente Germania. Tutti a casa, nonostante i soldi spesi e la vita messa in gioco trasversando il Canale di Sicilia su mezzi di fortuna.

La Stampa 12.4.11
Giustizia la legge contestata
“La Camera diventerà un Vietnam”
Sul “processo breve” riparte lo scontro. Le opposizioni annunciano battaglia senza risparmio di colpi


Il ruolo di Fini I berlusconiani escludono che il presidente voglia davvero contrastare l’ostruzionismo

Il menù politico è sempre uguale a se stesso: non si prevedono dibattiti di alto profilo sulla crisi economica, né sulla guerra di Libia, tanto meno sull’immigrazione. Si riparte invece alla Camera (oggi ore 15) nuovamente dal processo breve, che contiene la norma «ad personam» per salvare il premier dal processo Mills. Attendiamoci dunque un enorme stress delle istituzioni, perché l’aula di Montecitorio sarà per la terza settimana consecutiva teatro di uno scontro feroce. L’opposizione è intenzionata a dare battaglia fuori e dentro il Palazzo. Rinnovando il presidio davanti a Montecitorio e al Pantheon. E sfruttando, anticipa il portavoce dipietrista Leoluca Orlando, tutti gli strumenti offerti dal Regolamento parlamentare: «La Camera diventerà un Vietnam», nessuno sconto alla maggioranza, il fair-play è defunto da un pezzo.
In teoria dovrebbe essere tutto finito entro domani sera, con un voto sulla legge nel suo complesso che vale quasi quanto una fiducia. I tempi riservati all’opposizione sono circa 7 ore, più le varie ed eventuali. Tuttavia la maggioranza non si fida perché il repertorio dei possibili trabocchetti è sterminato. Particolarmente temute le votazioni «a singhiozzo», che possono essere chieste senza il consueto preavviso dei 20 minuti, mentre magari la massa dei deputati è alla buvette per un cappuccino. Oppure imboscate quando meno il Cavaliere se le aspetta, inversioni improvvise dell’ordine del giorno, addirittura tentativi di rispedire la legge in commissione...
Lo stato maggiore berlusconiano sospetta di Fini. Nell’entourage del premier si esclude che il presidente della Camera voglia davvero stroncare la guerriglia parlamentare. Alla sua gestione «super partes» nella villa di Arcore non credono nemmeno un po’. Ed è certamente vero che Gianfranco non perde occasione per picchiare forte sul Cavaliere. «Questo è il governo Berlusconi-Scilipoti», ha sfoderato ieri dalla Sicilia il suo sarcasmo. Però Fini ha detto altre due cose che creano scompiglio altrove. Anzitutto, che in un mondo del lavoro bene ordinato dovrebbe esserci una maggiore flessibilità in uscita (leggi: possibilità di licenziare). Vibrate proteste dall’Idv. Poi Fini ha detto una grande verità, che il sistema proporzionale purtroppo porta con sé un tot di corruzione. Meglio il sistema elettorale uninominale, è il suo verdetto. Casini, alleato nel Terzo Polo, la pensa in modo diametralmente opposto. L’Udc non ha gradito.
Riuscirà Fini ad arbitrare il match del processo breve senza farsi trascinare a sua volta sul ring? Ci sono ancora 200 emendamenti da votare, non è affatto da escludere che l’opposizione gli chieda tempi supplementari per il dibattito, sebbene Bersani giustamente sostenga che «con tutti i problemi del Paese» discutere una leggina su misura del premier è «uno scandalo»: piccola ma significativa evoluzione lessicale, dopo un’inflazione di «vergogna», «vergognoso», «vergognatevi», insomma «Vergognopoli», laddove tra i sinonimi e i contrari si trovano espressioni non meno efficaci (indecenza, ignominia, indegnità, infamia, abominio, sconcezza, scorno...). Può essere che il voto finale slitti a giovedì, forse addirittura oltre. Tutti precettati gli onorevoli Pdl, fino a venerdì sera devono restare a Roma.
Il rischio di sforare i tempi è una cattiva notizia per i Responsabili. Stasera incontreranno il responsabile della campagna-acquisti berlusconiana, Verdini, per discutere con lui le poltrone nel governo. Speravano che già venerdì si potesse procedere col rimpastino; ma se le votazioni sul processo breve dovessero trascinarsi, ecco l’appuntamento svanire una volta di più. [U. M.]
"La maggioranza punta a chiudere entro domani ma ci sono ancora 200 emendamenti da votare Severissimi ordini di scuderia: i deputati del Pdl sono tutti precettati fino a venerdì sera"

l’Unità 12.4.11
Intevista a Stefano Rodotà
«Bisogna parlare chiaro: Berlusconi è un eversore»
Per il professore «definire questi atti come conflitti istituzionali è una gentilezza inadeguata alla situazione E sull’Europa siamo all’impazzimento del governo»
di Maria Zegarelli


Non usa giri di parole il professor Stefano Rodotà per commentare l’ultimo show del presidente del Consiglio fuori dal tribunale di Milano. «È stato un atto eversivo». Uno dei tanti che «ormai quotidianamente commette», aggiunge scadendo bene le parole. Professore, ormai siamo oltre il normale conflitto tra i poteri dello Stato?
«Definire quello che sta accadendo in questi giorni e lo show di ieri come un conflitto tra poteri dello Stato è una gentilezza inadeguata alla situazione. I conflitti sono persino “normali” nei paesi democratici tanto che sono previste le sedi opportune dove risolverli. No, noi stiamo parlando di atti eversivi, non ci sono altri termini più adeguati di questo. Questo è il mio giudizio».
Anche lei definisce il premier un “eversore”? «Esattamente. Non è la prima volta che si comporta in questo modo e a giudicare da quanto è accaduto fuori dal Tribunale di Milano è intenzionato a proseguire su questa strada. I conflitti, ripeto, si possono determinare, esistono le sedi proprie dove possono essere sollevati, ma non ci si rivolge in un Aula di tribunale ai magistrati in maniera ipocrita dicendo che lo devono giudicare in modo equilibrato per poi uscire e fare un comiziaccio.
Ha aggredito la magistratura in quanto tale, affermando che lavora contro il Paese. Queste frasi pronunciate dal presidente del Consiglio assumono un carattere eversivo e non credo che un qualsiasi cittadino che avesse usato quelle stesse espressioni sarebbe sfuggito ad una denuncia».
Se siamo di fronte ad una situazione così grave, quale è la soluzione? «Berlusconi ha già sollevato un conflitto di attribuzione sul caso Ruby in maniera formale facendo votare la maggioranza in tal senso investendo della questione la Corte Costituzionale. Quel voto nasce dal presupposto grottesco che il premier fosse convinto che Ruby era la nipote di Mubarak. Poteva fermarsi e invece no, perché è uscito dal terreno formale e si è lanciato in questa ultima provocazione». Ma secondo il premier anche la Corte Costituzionale è un organo politico... «Altro fatto gravissimo. Lui ormai si comporta così: dà ordine ai suoi di sollevare il conflitto davanti alla Corte e nello stesso tempo la delegittima definendola un organo politico e quindi disconoscendo l’imparzialità del verdetto che è chiamata a pronunciare. Questo è il suo gioco, un altro pezzo della sua strategia eversiva».
E torniamo alla questione. Quali sono le soluzioni? «Le soluzioni sono politiche. Intanto è necessario dire tutto ciò che è doveroso per tutelare la magistratura e poi si deve chiedere conto al presidente del Consiglio di quanto sta avvenendo nelle sedi proprie, anche in parlamento. Noi abbiamo un premier che fa queste piazzate e non va in parlamento se non quando deve votare per se stesso. Venga a riferire agli eletti del popolo, quel popolo a cui ama tanto richiamarsi. Il parlamento non è un suo megafono, è un luogo istituzionale e non può essere piegato agli interessi privati di una persona. Infine, credo che si debba chiarire una cosa: sulla giustizia non si discute con questa gente».
Sta criticando chi, nell’opposizione, aveva cercato di aprire al dialogo? «Penso che troppe persone, anche nell’opposizione, senza aver letto neanche una riga di quel testo chiamato riforma, si siano dette disposte a dialogare. Se avessero letto con attenzione si sarebbero resi conto che la prima riga di quel testo si riferisce all’articolo 101 della Costituzione nel quale è scritto che la giustizia è amministrata in nome del popolo. Nella riforma non si fa più riferimento alla giustizia amministrata in nome del popolo. Di fronte ad una proposta del genere non solo non ci si siede ad alcun tavolo ma si denuncia l’ennesimo atto eversivo. Credo che l’unica cosa che resta da fare sia quella di dire che in parlamento non si può parlare di giustizia fino a quando c’è questo presidente del Consiglio e questa maggioranza che traduce in norme un piano eversivo. È necessaria una intransigenza assoluta e non per ritorsione, sia chiaro».
Ha sentito il ministro Maroni? Ha detto rispetto all’Europa: “meglio soli che male accompagnati”. «Ormai siamo di fronte all’impazzimento del governo. Ma lo sa Maroni cosa vuol dire l’Europa? Penso che non sappia neanche quali sono le regole per rimanere o per uscire. Il presidente della Repubblica non è un caso che abbia espresso la propria preoccupazione. Napolitano va ringraziato ogni giorno per quello che sta facendo, per il suo grande equilibrio e per l’autorevolezza che l’Europa gli riconosce. Sono sicuro che continuerà a guardare con scrupolo istituzionale, che è doveroso, a quanto accade.

l’Unità 12.4.11
Cinquanta anni fa Il 12 aprile 1961 il cosmonauta russo entrò in orbita intorno alla Terra
A bordo della capsula Vostock vide il pianeta scorrere velocemente sotto di lui. Un trionfo
«Vedo le nuvole, è bellissimo...»

Gagarin, il primo uomo nello spazio
di Umberto Guidoni


Degli oltre duemila candidati che parteciparono alla prima selezione dei cosmonauti russi, ne furono selezionati solo venti e Jurij Gagarin era fra questi. La sua avventura cominciò quando fu trasferito al nuovo centro dei cosmonauti nelle vicinanze di Mosca, quello stesso che oggi porta il suo nome. Erano le prime selezioni e gli specialisti sovietici utilizzarono delle prove durissime. La scelta finale fu fatta da Korolev ed i due candidati migliori risultarono Leonov e Gagarin, praticamente alla pari. Leonov alla fine fu escluso perché era troppo alto per le ridotte dimensioni della capsula Vostock. Il maggiore Jurij Aleksejevic Gagarin era ormai vicino al suo appuntamento con la storia.
Nelle prime ore del mattino del 12 aprile 1961 tutto era pronto per il lancio della capsula Vostock (in russo «Oriente»). Dopo la vestizione, Gagarin fu portato in autobus verso la rampa di lancio. Durante il tragitto, forse per la tensione, richiese una fermata non programmata per fare un bisognino. Lo stop, del tutto imprevisto, è diventato uno dei riti scaramantici prima del lancio, insieme a quello di piantare un albero. Jurij entrò in una capsula minusco-
la, in cui era quasi impossibile muoversi. Per alleviare l’attesa chiese di ascoltare un po’ di musica, interrotta alle 8:51, quando la voce di Korolev inviò le ultime istruzioni. «Si va!», urlò Jurij mentre il razzo si sollevava da terra.
Il viaggio di Gagarin fu molto breve. Dopo appena nove minuti, la Vostock 1 entrò in orbita attorno alla Terra. Con una certa emozione, Jurij descrisse lo spettacolo che appariva ai suoi occhi, un’esperienza che nessun essere umano aveva mai fatto prima di lui: «... la Terra è azzurra, vedo le nuvole: è bellissimo!». Vide la Terra scorrere rapidamente sotto di lui: viaggiava ad oltre 27.000 km/h, una velocità che nessuno aveva mai raggiunto prima. Dopo poco meno di cento minuti di volo, la navicella spaziale fece il suo rientro nell’atmosfera. Gagarin venne espulso col suo seggiolino iettabile, e rientrò a terra col paracadute. Era il primo essere umano che rientrava felicemente sulla Terra dopo aver girato intorno al pianeta.
Per la Russia fu un trionfo. Gagarin aveva dimostrato che l’uomo era in grado di volare oltre ogni limite. «I russi hanno un uomo nello spazio e gli Stati Uniti dormono», commentarono amaramente i quotidiani statunitensi il giorno dopo. La sua impresa ebbe un eco eccezionale in tutto il mondo. Nel suo paese venne decorato da Nikita Krusciov con l’Ordine di Lenin, e diventò eroe nazionale dell’Unione Sovietica. Nacque così il mito di Gagarin, un autentico eroe per i russi e per tutta l’umanità. Ancora oggi, molti cosmonauti portano il suo nome. Esattamente 40 anni dopo, mi è capitato di viaggiare nello spazio a bordo dello Shuttle Endeavour, fianco a fianco con un altro Jurij: il cosmonauta Lonchakov che non era ancora nato ai tempi del volo di Gagarin.
A distanza di mezzo secolo dallo storico volo di Gagarin si può fare un bilancio dell’esplorazione umana dello spazio. Nei primi anni di vita, i viaggi spaziali avevano raggiunto risultati sorprendenti: meno di dieci anni dopo il primo volo umano, altri uomini avevano messo piede sulla Luna. I nuovi esploratori dello spazio sembravano incarnare il grande fermento politico, economico e sociale di quegli anni, erano gli esempi più fulgidi dei grandi cambiamenti in atto. Milioni di giovani, ed io fra questi, pensavano che sarebbero andati nello spazio durante il corso della loro vita. Sappiamo che le cose sono andate diversamente. Il nuovo millennio non ha visto l’uomo tornare sulla Luna ne, tantomeno, mettere piedi su Marte.
Lo spazio si è dimostrato un ostacolo più difficile del previsto ma soprattutto sono cambiate le priorità della politica. Una volta che la sfida spaziale era stata vinta dagli Stati Uniti, vincitori e sconfitti hanno battuto strade differenti. Da un lato, la scelta è caduta su tecnologie avanzate per brevi missioni spaziali, dall’altro sono stati scelti veicoli più tradizionali abbinati a basi orbitali per lunghe permanenza in orbita: lo Space Shuttle per gli americani, le Soyuz e la stazione Mir per i russi. Ma entrambi i contendenti della corsa allo spazio hanno scelto di consolidare la propria presenza in orbita, rinunciando alla prospettiva di andare oltre la Terra.
Comunque questi anni non sono passati invano. Insieme a europei, giapponesi e canadesi, i nemici di un tempo stanno collaborando, da oltre un decennio, per realizzare la casa comune nello spazio: la Stazione Spaziale Internazionale.
È un cambiamento di prospettiva importante che rende concreta la frase riportata sulla targa lasciata sulla Luna dall’Apollo XI: «siamo venuti in pace a nome di tutta l’umanità».
Se c’è una cosa che abbiamo imparato in questi decenni è che per esplorare lo spazio dobbiamo mettere insieme le forze migliori del pianeta. Credo che Gagarin sarebbe d’accordo.

La Stampa 12.4.11
Libertà della volpe e libertà delle galline
Dopo il secolo dei totalitarismi, un nuovo mostro tirannico l’individualismo senza freni che distrugge la società
di Tzvetan Todorov


Perché un potere sia legittimo, non basta sapere com’è stato conquistato (ad esempio con libere elezioni o un colpo di Stato), occorre ancora vedere in che modo viene esercitato. Fra poco saranno tre secoli dacché Montesquieu ha formulato una regola per guidare il nostro giudizio: «Ogni potere senza limiti non può essere legittimo». Le esperienze totalitarie del XX secolo ci hanno resi particolarmente sensibili ai misfatti di un potere statale illimitato, in grado di controllore ogni atto di ogni cittadino.
In Europa questi regimi appartengono al passato ma, nei Paesi democratici, restiamo sensibili alle interferenze del governo negli affari giudiziari o nella vita dei media, perché queste hanno come effetto la soppressione di ogni limite posto al suo potere. I ripetuti attacchi del Presidente francese o del premier italiano ai magistrati e ai giornalisti sono una dimostrazione di questo pericolo. Tuttavia lo Stato non è l’unico a detenere poteri all’interno di una società. All’inizio di questo XXI secolo, in Occidente, lo Stato ha perso buona parte del suo prestigio, mentre è diventato una minaccia l’ampio potere che detengono alcuni individui, o gruppi di individui. Eppure questa minaccia passa inosservata, perché questo potere si orna di un bel nome, di cui tutti si fanno forti: libertà. La libertà individuale è un valore in crescita, i difensori del bene comune oggi sembrano arcaici.
Come si sia prodotto questo capovolgimento, lo si vede bene nei Paesi ex comunisti dell’Europa dell’Est. L’interesse collettivo oggi è sospetto: per nascondere le sue turpitudini, il regime precedente l’aveva invocato così spesso che più nessuno lo prende sul serio, lo si considera una maschera ipocrita. Se il solo motore del comportamento è in ogni caso la ricerca del profitto e la sete di potere, se la lotta senza pietà e la sopravvivenza del più adatto sono le dure leggi dell’esistenza, tanto vale smetterla di fingere e accettare apertamente la legge della giungla. Questa rassegnazione spiega perché gli ex burocrati comunisti abbiano saputo rivestire, con una facilità sconcertante, gli abiti nuovi dell’ultraliberismo.
A migliaia di chilometri di lì, negli Stati Uniti, in un contesto storico completamente diverso, si è sviluppato da poco il movimento del Tea Party, il cui programma inneggia alla libertà illimitata degli individui e rifiuta qualunque controllo del governo: esige di ridurre drasticamente le tasse e qualunque altra forma di redistribuzione delle ricchezze. Le sole spese comuni accettate riguardano l’esercito e la polizia, cioè ancora la sicurezza degli individui. Chiunque si opponga a questa visione del mondo viene trattato da criptocomunista! Il paradosso è che questa visione si rifà alla religione cristiana, mentre questa, in accordo con le altre grandi tradizioni spirituali, raccomanda di curarsi dei deboli e dei miserabili.
Si passa, in questi casi, da un estremo all’altro, dal tutto-Stato totalitario al tutto-individuo ultraliberale, da un regime liberticida a un altro, di spirito «sociocida», per così dire. Ora il principio democratico vuole che tutti i poteri siano limitati: non solo quelli degli Stati, ma anche quelli degli individui, anche quando rivestono i vecchi abiti della libertà. La libertà delle galline di attaccare la volpe è uno scherzo, perché non ne hanno la capacità: la libertà della volpe è pericolosa perché è la più forte. Attraverso le leggi e le norme che stabilisce, il popolo sovrano ha tutto il diritto di restringere le libertà. Questa limitazione non tocca allo stesso modo tutta la popolazione: idealmente, limita coloro che hanno già molto potere e protegge chi ne ha molto poco.
Il potere economico è il primo dei poteri nelle mani degli individui. Lo scopo di un’impresa è generare profitti, senza i quali è condannata a sparire. Ma al di fuori dei loro interessi particolari, gli abitanti di un Paese hanno anche interessi comuni, ai quali le imprese non contribuiscono spontaneamente. Tocca allo Stato liberare le risorse necessarie a prendersi cura dell’esercito e della polizia, dell’educazione e della salute, dell’apparato giudiziario e delle infrastrutture. O della protezione della natura: la famosa mano invisibile attribuita ad Adam Smith non serve a molto, in questi casi. Lo si è visto con la marea nera nel Golfo del Messico, nella primavera 2010: lasciate senza controllo, le compagnie petrolifere cercano i materiali da costruzione poco costosi e dunque poco affidabili. Di fronte allo smisurato potere economico di individui o di gruppi di individui, il potere politico si rivela spesso troppo debole.
La libertà di espressione a volte viene presentata come il fondamento della democrazia, e per questa ragione non deve conoscere freni. Ma si può dire che è indipendente dal potere di cui dispone? Non basta avere il diritto di esprimersi, occorre anche averne la possibilità; se non c’è, questa «libertà» non è che una parola vuota. Tutte le informazioni, tutte le opinioni non vengono accettate con la stessa facilità nei grandi media. Ora la libera espressione dei potenti può avere conseguenze funeste per i senza-voce: viviamo in uno stesso mondo. Se si ha la libertà di dire che tutti gli arabi sono degli islamisti non assimilabili, essi non hanno più quella di trovare lavoro e neppure di camminare per strada senza essere controllati.
La parola pubblica, un potere tra gli altri, a volte deve essere limitata. Dove trovare il criterio che permetta di distinguere le limitazioni buone da quelle cattive? Soprattutto nel rapporto di potere tra chi parla e colui di cui si parla. Non si ha lo stesso merito se si combattono i potenti del momento o si indica al risentimento popolare un capro espiatorio. Un organo di stampa è infinitamente più debole dello Stato, non c’è dunque ragione di limitare la sua libertà di espressione quando lo critica, purché la metta al servizio della libertà.
Quando il sito Mediapart rivela una collusione tra poteri economici e responsabili politici, il suo gesto non ha nulla di «fascista», qualunque cosa dicano quelli che sono presi di mira. Le «fughe di notizie» di WikiLeaks nulla hanno di totalitario: i regimi comunisti rendevano trasparente la vita dei deboli, non quella dello Stato. In compenso, un organo di stampa è più potente di un individuo e il «linciaggio mediatico» è un abuso di potere.
I difensori della liberà d’espressione illimitata ignorano la distinzione tra potenti e impotenti, il che permette loro di coprirsi da soli di alloro. Il redattore del quotidiano danese Jyllands-Posten , che nel 2005 aveva pubblicato le caricature di Maometto, cinque anni dopo torna sulla questione e modestamente si paragona agli eretici del Medioevo bruciati sul rogo, a Voltaire nemico della Chiesa onnipotente o ai dissidenti oppressi dalla polizia sovietica. Decisamente la figura della vittima esercita oggi un’attrazione irresistibile! Ciò facendo, il giornalista dimentica che quei coraggiosi praticanti della libertà di espressione si battevano contro i detentori del potere spirituale e temporale del loro tempo, non contro una minoranza discriminata.
Porre limiti alla libertà di espressione non significa sostenere la censura, ma fare appello alla responsabilità dei padroni dei media. La tirannia degli individui è certamente meno sanguinosa di quella degli Stati; eppure anch’essa è un ostacolo a una vita comune soddisfacente. Nulla ci obbliga a rinchiuderci nella scelta tra «tutto-Stato» e «tutto-individuo»: abbiamo bisogno di difenderli entrambi, e che ciascuno limiti gli abusi dell’altro.

Corriere della Sera 12.4.11
«Temo il messianismo politico. Come Goya»
Tzvetan Todorov: l’ambizione di estirpare totalmente il Male è molto rischiosa
di  Stefano Montefiori


D alla Spagna del 1808 alla Libia del 2011, molto è cambiato ma non la voglia di edulcorare la violenza delle armi con nobili motivazioni. Ecco perché secondo il filosofo Tzvetan Todorov, nato a Sofia 72 anni fa e parigino di adozione, per capire le guerre, compresa quella condotta dalla Nato in questi giorni tra Tripoli e Bengasi, basta rifarsi a Goya. «Non fu solo un grande pittore, ma un intellettuale che riuscì a riflettere in modo profondo su quel che succedeva intorno a lui — dice Todorov, autore di "Goya à l’ombre des Lumières"—. Era molto influenzato dagli illuministi spagnoli di fine Settecento, e assistette all’invasione della Spagna da parte delle truppe napoleoniche che combattevano, almeno in teoria, in nome dei diritti dell’uomo e degli ideali dei Lumi. Lo spettacolo delle atrocità commesse sia dai francesi sia dai guerriglieri spagnoli lo fece ragionare sulla guerra. Fu così in anticipo sui suoi tempi che possiamo considerarlo un contemporaneo» . Nella raccolta di incisioni «I disastri della guerra» Goya mostra pile di corpi, combattenti delle due parti gettati nelle fosse comuni, fucilazioni sommarie. «I francesi incontrarono una resistenza durissima, fu in quei giorni del resto che venne coniata la parola guerrilla. Gli spagnoli combattevano per patriottismo e per fedeltà ai valori tradizionali della religione, i francesi in nome della ragione e di libertà, fratellanza e uguaglianza. Gli orrori però erano gli stessi. Goya scelse di schierarsi non contro una parte o l’altra, ma contro la guerra» . Una posizione che oggi viene ripresa da Tzvetan Todorov a proposito degli interventi in Libia e anche in Costa d’Avorio, giustificati dalla necessità di difendere i diritti dell’uomo proteggendo le popolazioni civili. «Credo che purtroppo la guerra abbia una sua logica interna, che le impedisce di restare così circoscritta e chirurgica come sostiene chi la propone. Prima del 19 marzo le truppe di Gheddafi stavano per eseguire un massacro a Bengasi, ci ha ripetuto il presidente Sarkozy per convincere l’Occidente a intervenire. Sono stati allora legittimi i primi bombardamenti, quelli che hanno fermato l’avanzata del regime. Ma poi l’intervento pseudo-umanitario si è trasformato in un’altra cosa» . L’Occidente viene spesso criticato per la sua inazione, per la tentazione di stare a guardare mentre a pochi chilometri di distanza, in questo caso nella sponda sud del Mediterraneo, i carri armati soffocano il desiderio di libertà. Lei oggi critica il protagonismo di Sarkozy, ma prima dell’intervento il presidente francese e l’Europa venivano accusati di cinico disinteresse e di appeasement con i dittatori. «È un riflesso intellettuale in voga in Francia, quello di accusare chi si dice contrario alla guerra ricordandogli gli accordi di Monaco del 1938, che permisero a Hitler di guadagnare posizioni nella conquista dell’Europa. Non è la stessa cosa, e io non dico che tutte le guerre sono ingiuste. Le guerre difensive, come quella degli Alleati nel 1939-1945, sono legittime. E le guerre per impedire un genocidio acclarato. Ma in questi casi l’Occidente non si nuove mai. Fu il Vietnam a fermare la carneficina operata dai Khmer rossi in Cambogia. E sono stati i ruandesi alleati con l’Uganda a porre fine al massacro in Ruanda» . Eppure il fatto che i diritti dell’uomo siano tornati un vessillo dell’Occidente è forse positivo. «No, lo trovo invece molto rischioso. Siamo davanti a una nuova fase di messianismo politico. La prima è appunto quella napoleonica, dipinta da Goya. La seconda ondata messianica è stata quella del comunismo, che prometteva di portare la liberazione alle masse con l’Armata rossa, a cominciare dai piccoli Paesi europei al confine con la Russia. E ora assistiamo al terzo risveglio del messianismo politico: la prima guerra del Golfo è stato un rodaggio, l’intervento in Kosovo, senza mandato dell’Onu, la prova generale, ed ecco poi Afghanistan, Iraq, oggi Libia. In fondo, cos’è la guerra in Afghanistan, se non la riproposizione duecento anni dopo dello scontro tra illuminati e tradizionalisti, napoleonici e conservatori e patrioti spagnoli che oggi chiameremmo talebani?» . I dipinti di Goya come le foto su Internet di Abu Ghraib. Ma è possibile un no filosofico, assoluto, alla guerra? «No, e non credo sarebbe un bene. L’ambizione di estirpare totalmente il Male sarebbe ancora più dannosa: è la funzione del peccato originale, ricordarci, come diceva Romain Gary, che esiste una "parte inumana dell’umanità". Dobbiamo però cercare di limitare al massimo le guerre non inevitabili. Come quella in Libia, per esempio» .

La Stampa 12.4.11
Meno male che allora c’era Nerone
L’immagine che ci è stata tramandata non rende giustizia all’imperatore dal raffinato carisma. Una mostra a Roma
di Silvia Ronchey


Contrariamente a quanto il suo nome potrebbe far credere, Nerone di nero non aveva nulla, tranne la leggenda che prima la storiografia contemporanea e poi quella cristiana avrebbero proiettato su di lui, attribuendo i bui tratti di molti altri imperatori romani solo alla sua figura di tyrannos-pharmakòs, re-capro espiatorio rituale, del resto perfetta, se non altro per essersi autoeletta tale.
Sfruttando un’intima vocazione teatrale, mescolandola con una calcolata attenzione all’applauso del popolo, alla politica spettacolo, riunendo in sé le icone idolatrate dalle masse — campione sportivo, attore, musicista — si costruì un’immagine apollinea e «divina»: da divo, anzi quasi da popstar. Con, tuttavia, quel particolare, raffinato carisma, che avrebbe fatto di lui un mito prima settecentesco, poi decadente. Da oggi una mostra a Roma, lungo i fori imperiali, ne celebra la figura.
Fu Nerone a fornire l’exemplum dell’imperatore filosofo, cui si rifecero gli Antonini. Il culto per il corpo e la bellezza fisica, l’amore per l’antica paideia greca; l’estetismo, in ogni lato della sua personalità, dal collezionismo di opere d’arte alla passione per l’architettura; la sensibilità alla religione astronomico-filosofica pagana espressa nella Domus Aurea, con la grande aula ruotante su se stessa a simulare il moto della terra, costruita nel fervore del rinnovamento edilizio urbano promosso dopo il certo fortuito e a lui non imputabile grande incendio di Roma, hanno ben poco a che fare con le ostentazioni di Adriano e della sua villa a Tivoli. Di cui però nessuno ha criticato il narcisismo, lo sfarzo, il costo; che anzi è stata ed è esaltata, contrariamente alla domus «maledetta», che sarà «restituita al popolo» dagli imperatori successivi.
Il misticismo pagano di Adriano, insieme alla sua ambigua sessualità, sono stati amati, contrariamente a quelli di Nerone. Animula vagula blandula / hospes comesque corporis , poetava Adriano. Nessuno ha mai schernito questi versi, né questi tratti in lui, come invece in Nerone, che, pure, i frammenti rivelano poeta non dilettante.
La storiografia novecentesca — per non parlare della letteratura, con in testa Marguerite Yourcenar — ha esaltato, in contrapposizione alla crudeltà privata di Nerone, matricida e «suicidatore» del maestro Seneca, la moderazione di Adriano, sorvolando sulla sanguinaria repressione della rivolta in Giudea, primo genocidio ebraico della storia.
Ha stigmatizzato in lui le condanne inflitte alla minoranza cristiana dopo l’incendio di Roma attribuitole dalla plebe (ma sono leggendarie posteriori esecuzioni come la presunta decapitazione di San Paolo, che anzi da Nerone era stato assolto); dimenticando che i primi editti anticristiani risalgono a Domiziano e a Traiano e che il primo grande persecutore fu in realtà l’«imperatore filosofo» Marco Aurelio.
Ha esaltato l’amore per la cultura e per le arti degli Antonini, ridicolizzandolo invece in Nerone; ha ridotto a macchiette le letture poetiche con cui elettrizzava le folle, presentando come velleitaria la passione filosofica e letteraria che gli faceva conoscere a memoria Omero, i lirici greci, le tragedie attiche. Mentre degli «imperatori filosofi» antonini sono stata fatte icone del nostro tempo, Nerone è rimasto una macchia nera nell’aureo albo dei cesari.
Ma Nerone, di suo, non era nero. Il nobilissimo Lucio Domizio Enobarbo, discendente da Augusto per parte di madre — Agrippina, sorella di Caligola e moglie di Claudio —, apparteneva per parte di padre a una gens il cui nome significava «dalla barba ramata». I capelli, di un biondo tiziano, li portava trasgressivamente lunghi. Era salito adolescente sul trono di un impero che spaziava su tre continenti, il più grande mai esistito. Morì suicida a 31 anni, recitando un verso di Omero. Il prestigio che aveva e avrebbe avuto presso il popolo di Roma — così come in Grecia, alle cui poleis aveva restituito la libertà — è dimostrato dalle attese di un ritorno di Nerone testimoniate ancora mezzo secolo dopo la sua morte — come ricorda, nel catalogo Electa, il fondamentale saggio di Andrea Giardina —; dai ben tre falsi Neroni che insidiarono i suoi successori; dagli omaggi popolari alla sua effigie e alla sua tomba, durati fino al XII secolo, quando sul sepolcro dei Domizi Enobarbi fu costruita una cappella cristiana destinata a diventare la basilica di Santa Maria del Popolo.
«Il popolo amava Nerone. Perché opprimeva i grandi ma era lieve con i piccoli», avrebbe sentenziato Bonaparte. La verità è che non esistono imperatori «lievi»; né tanto meno imperatori filosofi. Nessun imperatore romano può non rispondere almeno parzialmente ai tratti che la Leggenda Nera di Nerone, antica e poi cristiano-medievale, prestò alla demagogia, avidità, crudeltà proprie di quei sovrani di fatto assoluti, anche se a volte più a volte meno dissoluti, che furono quasi sempre i cesari di Roma.

Corriere della Sera 12.4.11
Rousseau, quel passaggio dall’alchimia alla ragione
Esce l’edizione integrale delle «Institutions chimiques»
di Armando Torno


Ci sono pervenuti dei manoscritti di Jean-Jacques Rousseau riguardanti la chimica. Sino ad oggi non sono stati valutati in maniera corretta, tanto che per taluni critici restano mero esercizio di compilazione; altri, invece, ne hanno esagerato il valore, trasformandoli nel fondamento paradigmatico di tutta l’opera politica ulteriore. Le Institutions chimiques, insomma, registrano «l’embarras ordinaire» dei posteri di fronte alla questione fondamentale dei rapporti intrattenuti dal pensatore con le scienze del tempo. Dopo l’edizione del 1999 nel «Corpus» delle opere filosofiche in lingua francese, allora pubblicato da Fayard, a cura di Bruno Bernardi e Bernadette Bensaude Vincent, vede ora la prima sistemazione critica grazie a Christophe Van Staen (Honoré Champion, Parigi, pp. 416, e 75). Il testo, completamente riveduto e arricchito dalle appendici e da un lessico, restituito ai lettori nella sua completezza (per esempio, l’articolo «arsenico» , è dato integralmente per la prima volta) riserva non poche sorprese e mostra i passi compiuti dal celebre Jean-Jacques nell’indagare i principi della coesione dei corpi o quelli della loro trasparenza, i meccanismi della natura o «opérations» quali distillazione, fusione, cristallizzazione. Ma soprattutto tali pagine trovano finalmente un posto nel lascito di Rousseau: Van Staen ricorda che in esse si leggono preziose indicazioni sull’evoluzione sotterranea della sua opera e sulla coscienza che egli sviluppa progressivamente dinanzi ai pericoli in grado di contagiare le anime credule, nutrite da una concezione fantastica delle scienze e dei loro vantaggi. Non si tratta di un testo importante per la chimica del XVIII secolo, ma di un documento che mostra come tale disciplina riesca ad aiutare una grande mente a emanciparsi dall’ «imaginaire» che l’aveva plasmata. Il giovane Rousseau, detto in soldoni, non si forma sui libri di Descartes, Keplero o Newton (quest’ultimo, comunque, era interessato all’alchimia), ma su nozioni letterarie, oniriche, ingenue, non sempre rivelate nel primo libro delle Confessioni. Van Staen parla dell’attrazione che esercitavano su di lui gli orologi d’Oriente, i misteri della lingua dei segni, le macchine fantastiche degli antichi. C’è insomma una storia esemplare di conversione allo spirito scientifico in questo libro che si basa sui tre tomi manoscritti conservati a Ginevra (siglati Bge, Ms. fr. 238) e che non fu incluso nei cinque volumi delle Oeuvres complètes di Rousseau della «Bibliothèque de la Pléiade» , dove comunque si trovano le pagine sulla botanica. Si potrebbe, utilizzando un azzardo, affermare che le Institutions come pochi altri testi riflettono il passaggio definitivo dall’alchimia alla chimica nel XVIII secolo. Non è un mistero: il tempo dei Lumi è ancora percorso da idee esoteriche e Antoine-Laurent de Lavoisier (1743– 1794), che diede la prima versione della legge di conservazione della massa, riconobbe e battezzò l'ossigeno (1778), confutò la teoria del flogisto, conviveva con concezioni a lui diametralmente opposte. Basterà ricordare la monumentale Bibliotheca chemica curiosa, due volumi in-folio usciti a Ginevra nel 1702 e curati da Jean-Jacques Manget: conteneva i testi essenziali per gli iniziati, da Arnaldo di Villanova a Ruggero Bacone, da Avicenna a Raimondo Lullo. Di più: nel 1761, come ricorda Eric J. Holmyard nella Storia dell’alchimia (ora nelle edizioni Odoya), qualcuno credeva che il creatore della pietra filosofale, Nicolas Flamel, morto nel 1418, svolgesse ancora la sua attività a Parigi; anzi, con la moglie era vivo e vegeto. Del resto, i due nel secolo precedente furono segnalati in India: alla faccia delle pillole d’immortalità cinesi che si vendevano bene nella capitale francese, ma non sottraevano ancora i clienti ai becchini.

Corriere della Sera 12.4.11
Il «conflitto» interiore delle donne
Sabotatrici, eroine romantiche, ribelli e icone della propaganda
di Anna Bravo


Q uando nel 2003, durante la seconda guerra del Golfo, l’americana diciannovenne Jessica Lynch cade prigioniera degli iracheni, per liberarla si organizza una spettacolare irruzione notturna con telecamere al seguito e gran battage mediatico. Per giorni e giorni, su tutte le tv passano le sequenze dell’azione e le centinaia di nastri gialli, simbolo dei «missing in action» , appesi agli alberi di sicomoro, agli steccati, ai semafori di Palestine, il paese di Jessica. Il Pentagono ha fatto una buona mossa. Quella prigionia inquietava, evocava sofferenze e pericoli aggiuntivi, in primo luogo quello dello stupro. Anche se essere catturati rientra fra le ovvie possibilità del mestiere di soldato, è come se in quel momento si riscoprisse l’antico volto predatorio e antifemminile della guerra. Eppure negli ultimi decenni tutto sembra cambiato. In molti Paesi, compresa l’Italia, le forze armate hanno aperto alle donne. Con la fine della guerra fredda, con le nuove armi e i nuovi fondamentalismi, i modelli di conflittualità si sono moltiplicati. Si è modificata la concezione del nemico e dei limiti da porsi (o da non porsi). Abbiamo sotto gli occhi in contemporanea ogni tipo di guerra, tecnologica, tradizionale, etnica, religiosa, «umanitaria» , asimmetrica, a bassa intensità, e spesso mischiate fra loro. Come nell’intervento Nato contro la Serbia del marzo-giugno 1999, dove terra e cielo sono stati teatro di due guerre diverse: una tradizionale, fra l’Esercito di liberazione del Kosovo e le truppe di Milosevic, con le donne per lo più in veste di preda e di vittima; l’altra tecnologica, di soli bombardamenti Nato e azioni della contraerea serba, con alcune giovani pilote nel ruolo di combattenti. Dunque quando si parla di donne e guerra, la prima domanda dovrebbe essere: quale guerra, quali donne. Ma non vale solo per l’oggi. Già decenni fa, alcune studiose — penso a Jean Bethke Elshtain, Françoise Thébaud, Cynthia Enloe e a parecchie italiane— avevano mostrato che il binomio donne-guerra andava scomposto, direi sminuzzato. Nei due conflitti mondiali, per esempio, moltissime hanno lavorato nella produzione bellica, hanno tollerato la violenza per rassegnazione o per convinzione, spesso sotto le insegne della maternità, hanno offerto un retroterra materiale e morale a figli, mariti, fratelli, compagni. Alcune hanno preso le armi. Non è solo effetto dell’identificazione con il destino maschile o della propaganda. Il punto è che, in mezzo a sofferenze e rinunce, dalla guerra nascono anche nuove forme di autoaffermazione: maternità e lavoro delle donne sono promossi a fulcro dello sforzo nazionale, la femminilità viene esaltata come contraltare della violenza. Di più: nella seconda guerra, una donna può trovarsi a guidare un’azione armata, a fare sabotaggi, a salvare, a uccidere; e a potenziare con il proprio esempio le fantasie aggressive o eroico-romantiche di altre, vissute abitualmente per la interposta persona dell’uomo. A dispetto di recenti speranze e di antiche retoriche, nessun dono di nascita e nessuna eredità storica hanno immunizzato le donne dal piacere di condividere esperienze fondate sulle categorie di virtù civile, gloria, orgoglio nazionale, da cui nella normalità sono state escluse. Ma altre, o le stesse in tempi diversi, hanno dato vita a manifestazioni antibelliciste, tentato di fermare i treni diretti al fronte, nascosto disertori e renitenti. Come le molte italiane che all’indomani dell’ 8 settembre, quando l’esercito si disfa e decine di migliaia di soldati si sbandano nel Paese occupato dai tedeschi, li soccorrono a rischio della propria vita, rivestendoli in borghese per sottrarli alla cattura e mettendoli sulla via di casa. Forse una continuità va cercata sul piano dei simboli. Nell’immaginario e nella propaganda di guerra ha ancora corso la figura della donna in pericolo, da sempre una delle leve più potenti per sollecitare la combattività maschile e per costruire la maschera barbarica da sovrapporre all’Altro. Una maschera così essenziale — scrive George Mosse a proposito della Grande guerra— che i tabù destinati a frenare l’iconografia della brutalità vengono abbandonati: all’epoca circolano in quantità le cartoline che rappresentano il nemico coperto di escrementi e con gli organi sessuali bene in vista, o che illustrano stupri e sodomie. Le allusioni a una presunta violenza subita da Jessica Lynch hanno una lunga storia. E ha una lunga storia lo stereotipo base, secondo cui donne e guerra sono reciprocamente incompatibili. Saggio stereotipo, se si decidesse di farne il primo passo verso il riconoscimento che l’inconciliabilità riguarda ogni essere vivente.

Repubblica 12.4.11
Youcat, angeli e castità è il catechismo di Ratzinger in cinquecento risposte


Cosa è il cielo? Chi sono gli angeli? In che cosa crediamo? Come dobbiamo pregare? Sono domande eterne, che tutti ci poniamo. Ad esse prova a rispondere un piccolo ma denso libro di 300 pagine, dalla copertina gialla (il colore "forte" della bandiera vaticana, l´altro è il bianco), con la prefazione di Benedetto XVI, che verrà presentato domani nella Santa Sede.
Si chiama Youcat, sintesi di Youth catechism (catechismo per i ragazzi). È nato da un´iniziativa di Papa Wojtyla, con un lavoro svolto e portato a termine da Joseph Ratzinger in vista della prossima Giornata mondiale della gioventù (Madrid, 16-21 agosto). Si tratta di poco più di 500 domande e risposte, formulate in modo sintetico e con un linguaggio agile, ma perfettamente rispondenti ai criteri della Chiesa cattolica, elaborate sotto la guida di uno dei più fidati collaboratori dell´attuale Pontefice, l´arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schoenborn.
Alle domande poste in maniera rapida segue una risposta non più lunga, nei casi estremi, di 8-10 righe, spesso molto meno. C´è poi un commento, ma non più esteso di una ventina di righe. Come in questo caso, quando si risponde alla domanda: «Se Dio conosce ogni cosa e può fare ogni cosa, perché non impedisce il male?». Risposta: «Dio permette il male solo per lasciarne scaturire qualcosa di migliore». Commento: «Il male nel mondo è un mistero oscuro e doloroso (...). La morte e la risurrezione di Cristo ci mostrano che il male non aveva la prima parola e non avrà neppure l´ultima; dal male peggiore Dio ha fatto scaturire il bene migliore, e noi crediamo che col Giudizio Universale Dio porrà fine ad ogni ingiustizia (...)».
Questo è uno dei commenti più articolati. Altri sono brevi, ma ugualmente intensi. E alla domanda su «qual è l´importanza della domenica?», la risposta commentata è: «Se la domenica viene trascurata o abolita, tutti i giorni sono solo lavorativi. L´uomo, che è stato creato per la gioia, diviene così un animale da lavoro e potenzialmente asservito al consumismo».
Alcuni temi potrebbero essere soggetti a interpretazioni diverse, se non a critiche. «C´è contraddizione fra fede e scienza?». Risposta: «Non esiste una contraddizione insolubile fra fede e scienza, poiché non può esistere una doppia verità». Commento: «Non esiste una verità di fede che possa fare concorrenza alla verità della scienza. Esiste una sola verità a cui fanno riferimento tanto la fede che la razionalità scientifica. Dio ha voluto la ragione, con la quale noi possiamo riconoscere le strutture razionali del mondo, allo stesso modo in cui ha voluto la fede. Per questo la fede cristiana richiede e promuove la scienze e la scienza (...)».
Fra i tanti argomenti il mondo degli affari, il divorzio, l´ambiente, i media. Si va dai temi più strettamente religiosi alle questioni sociali. Che cos´è il peccato? E la castità? Come fa un uomo a capire se le sue azioni sono buone o cattive? Perché le passioni? E la democrazia? Scrive il Papa ai giovani nella Premessa, riferendosi agli scandali recenti che hanno toccato la Chiesa: «Se vi dedicate allo studio del catechismo, vorrei ancora darvi un ultimo consiglio: sapete tutti in che modo la comunità dei credenti è stata ferita dagli attacchi del male, dalla penetrazione del peccato all´interno, anzi nel cuore della Chiesa. Non prendete questo a pretesto per fuggire davanti a Dio: voi stessi siete il corpo di Cristo, la Chiesa!».
E´ scritto nella risposta di una delle domande da domani forse più consultate del libro («Cosa avverrà quando il mondo finirà?»): «Con l´avvento di Cristo ci saranno un cielo nuovo ed una terra nuova. "E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate" (Apocalisse di Giovanni 21, 2.4)».

Repubblica 12.4.11
I padroni dei simboli
Così parole e immagini diventano propaganda

di Gustavo Zagrebelsky

L´anticipazione/ Un brano dell´intervento di Zagrebelsky alla Biennale Democrazia sul potere "diabolico" di alcuni segni
Un blocco di potere economico e politico senza valori caratterizza la nostra epoca
Il senso delle istituzioni è ormai diventato un ferrovecchio di cui fare a meno

Anticipiamo una parte dell´intervento che terrà giovedì alla Biennale Democrazia

Secondo una classica visione della struttura delle nostre società, esse sono costruite su tre funzioni, riguardanti rispettivamente la politica, l´economia e la simbologia. Queste funzioni conformano rispettivamente le volontà, le necessità e le mentalità. Quale di queste tre funzioni sia più importante, sarebbe difficile dire. Forse nessuna, il che è quanto dire che tutte e tre sono ugualmente necessarie.
Non abbiamo nozione di alcun gruppo di individui costituiti in società senza un potere politico, senza un´attività rivolta alla provvista dei beni materiali, senza una funzione destinata al nutrimento delle menti. Se tutte e tre le funzioni sono necessarie, quella simbolica è però l´unica che dia un senso, un significato d´insieme alle altre due, che ci dica perché stiamo e vogliamo stare insieme.
La teoria dice che nelle società bene organizzate, cioè equilibrate, le tre funzioni sono reciprocamente indipendenti; una sorta di tripartizione dei poteri sociali. La storia ci dice invece che, essendo in questione il potere, ciascuna delle tre tende a imporsi sulle altre due e ad asservirle. Si potrebbe tratteggiare la storia delle nostre società come un continuo spostamento del baricentro da uno all´altro, all´altro ancora e così distinguerle a seconda del predominio del "politico", dell´"economico" o del "simbolico". Il potere simbolico, tuttavia, di tutti è il più sottile e pervasivo, ma fra tutti il più debole. Non ha dalla sua né la forza fisica, né quella dei bisogni materiali ed è perciò sempre stato il terreno più esposto alla capitolazione. Di una relativa, anche se sempre contestata, autonomia ha goduto nel periodo medievale, quando era monopolizzato dalla Chiesa e dai suoi ministri, forti d´una certificazione divina. La Chiesa è stata effettivamente, allora, una formidabile fucina di simboli politici, avendo di fronte a sé un potere civile fragile e bisognoso di sostegno e l´economia curtense non rappresentando un centro di potere competitivo. Ma questo monopolio è venuto meno da quando la cosiddetta secolarizzazione delle società ne ha rotto la compattezza, aprendo a visioni del mondo d´altra matrice, orientate al regno di quaggiù dove vige non il dogma unico ma la pluralità delle opinioni. Nel regno di quaggiù, poi, la funzione simbolica si è trovata a fare i conti, con sproporzione di mezzi, con la politica, che dispone dello Stato e dei suoi poteri coercitivi, e con l´economia basata sulla concentrazione di capitali immensi, capaci di tutto condizionare, se non comperare.
Chi sono dunque i padroni del mondo simbolico nel quale oggi viviamo? Se ci chiediamo chi muove le parole, le immagini, le cose che esprimono simbolicamente i valori, le aspirazioni, in genere le idee che plasmano le nostre società, andremmo probabilmente a cercarli in quel blocco di potere economico e politico chiamato lobbicrazia, che caratterizza in senso ormai sempre più chiaramente nichilistico la nostra epoca. Un´epoca definita come quella del "finanzcapitalismo" e del "grande saccheggio", del valore estraibile dagli esseri umani e dagli ecosistemi. È in quella compenetrazione d´interessi che nasce la commissione di schemi di pensiero, valori e modelli di comportamento, alla quale rispondono centri di ricerca, accademie, think-tanks, "opinionisti" ai quali la visibilità e il successo sono assicurati dalla misura della loro consonanza. L´influenza sul pubblico è poi assicurata dall´accesso a strumenti di diffusione capillari e omologanti.
La funzione simbolica diventa così una funzione passiva e servente. I simboli, strumentalizzati, imbrogliano circa il loro senso. Promettono il bene di chi li consuma e invece promuovono il bene di chi li produce. Si traducono in propaganda e in pubblicità. Il loro ideale è la società come superficie tutta liscia su cui scorrere liberamente. Se increspature all´omologazione vi sono, riguardano il folklore o l´arte d´avanguardia; l´uno a benefizio dei molto semplici, l´altra a beneficio dei molto raffinati. Ma non sono loro, quelli decisivi per i padroni dei simboli: è la massa quella che conta.
Il simbolo è un terzo tra due persone; in ogni caso è un segno riconosciuto dalle parti in causa che, essendo comune, non è proprio di nessuna di essa. Ciò che è di tutti, in certo senso, non è di nessuno in particolare. Il simbolo non si appiattisce e nessuno vi si può confondere. Solo così può svolgere i suoi compiti di unificazione, diffusione di fiducia, promozione di lealtà e di sentimento d´appartenenza. Se qualcuno se ne impadronisce, governandone i contenuti, inculcandoli come propaganda o come pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di dominio delle coscienze, il simbolo cambia natura. Allora, può diventare strumento di trasformazione degli uomini in masse fanatizzate, può diventare il diapason del potere totalitario.
Lo strumento del demagogo opera la più ardita delle identificazioni politiche: il popolo nel suo capo e il capo nel suo popolo. Il capo è organo del popolo e il popolo è organo del capo. Sono la stessa cosa. In questa identificazione, viene a mancare lo spazio per simboli "terzi" perché il capo stesso è il simbolo: il segno di tutti valori, le aspettative, le speranze convergenti del suo popolo.
Napoleone, Franco, Mussolini, Hitler, Stalin, Mao, Castro, i nord-coreani Kim Jong-il e Kim il-Sung e, esemplarmente, l´orwelliano Grande Fratello rappresentano le figure moderne di questo genere d´identificazione. Essi stessi, nella loro corporeità, vera o fittizia, si sono proposti immediatamente come simboli politici, cioè come fattori unificanti, e così hanno fagocitato le istituzioni e le leggi, cioè quegli strumenti della convivenza che gli uomini si sono dati, costruendole su simboli "terzi". Sono soverchiate dagli uomini del potere che esibiscono il loro volto, la loro voce, le loro fattezze, mille volte riprodotti, ritrasmessi, amplificati. Si sono cioè trasformati essi stessi, direttamente, in istituzione e legge.
Il simbolo si confonde col corpo e viceversa. Così, tutte le distinzioni che vengono da una lunga storia del diritto pubblico tra persona privata e carica pubblica svaniscono. Le regole sono "impicci", le costituzioni "gabbie", la legalità angheria Il "senso delle istituzioni", che distingue l´etica pubblica dalla morale privata, diventa un ferrovecchio su cui si può ironizzare. Le dimore personali sono equiparate ai palazzi delle istituzioni, anzi sono interscambiabili. La fortune private sono intoccabili come se fossero pubbliche e quelle pubbliche sono disponibili come se fossero private. Queste e altre confusioni si giustificano non come privilegio del capo, ma come diritto del popolo, tanto più in quanto il primo sia stato eletto dal secondo e l´elezione sia concepita come investitura salvifica. Tutto deriva infatti dall´identificazione simbolica del capo con il popolo e del popolo con il capo. L´arbitrio del capo, simbolicamente, non è più tale, ma diventa l´onnipotenza del popolo, che può esibirsi come la forma più pura di democrazia.
Questa versione del simbolo, però, è la sua estrema corruzione diabolica. Potremmo dire è il Lucifero dei diaboli. Infatti, si traduce nell´esaltazione del potere personificato, che è l´esatto contrario di ciò che ci attendiamo dai simboli politici: essere fattore d´unificazione "terzo", cioè impersonale, cioè nemico d´ogni demagogia Si traduce, infine, in un rischio mortale per la società stessa. La scomparsa della persona fisica, coincide con la fine del simbolo, cioè di ciò senza cui essa non sta insieme. La dissoluzione del corpo fisico del capo finisce così per coincidere con la dissoluzione del corpo sociale, cioè con instabilità, disordini, lotte fratricide. Ecco il prezzo che pagano i popoli quando si mettono nelle mani di qualcuno dicendogli: vai, noi ci riconosciamo in te, perché tu ti riconosci in noi.

Terra 12.4.11
«Vaticano, lo spettro del totalitarismo che si aggira per l’Europa»
di Federico Tulli

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Terra 12.4.11
La Nueva Ola approda al centro della Capitale
di Alessia Mazzenga

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Terra 12.4.11
Il dolore della perdita
di Francesca Pirani


http://www.scribd.com/doc/52817659

lunedì 11 aprile 2011

l’Unità 11.4.11
Doccia fredda La lettera della Malmstrom smentisce Maroni. Stop tedesco a Berlusconi
Maggioranza nel caos Calderoli: via dal Libano i nostri soldati, servono alle frontiere...
Schiaffo Ue all’Italia «Il vostro decreto non apre le frontiere»
Governo allo sbando. La commissaria Malmstrom scrive a Maroni e ne smentisce il decreto. Anche la Germania volta le spalle a Berlusconi. Mentre la Lega vuole portare i soldati via dal Libano...
di Umberto De Giovannangeli


L’italietta del Cavaliere collezione l’ennesima, mortificante bocciatura in Europa. E su un tema di scottante attualità: l’immigrazione. Il decreto firmato giovedì da Silvio Berlusconi non fa scattare «automaticamente» la libera circolazione nell'area Schengen. Lo ha scritto la Commissaria europea Cecilia Malmstrom, in una lettera inviata al Ministro dell'Interno, Roberto Maroni. Nella lettera, si sottolinea anche che, “al momento”, “non sussistono le condizioni” per attivare la direttiva 55 del 2001 sulla “protezione temporanea”. E’ uno schiaffo bruciante, che si aggiunge a quelli che sono venuti da Parigi e Berlino.
SCHIAFFI A RIPETIZIONE
La lettera è stata scritta dalla Malmstrom, titolare del portafoglio interni della Commissione europea, in risposta ad una richiesta di chiarimenti da parte del Ministro dell' Interno italiano. La Commissaria svedese afferma che Bruxelles «ha già attivato meccanismi per contribuire ad affrontare» quella che definisce una situazione «effettivamente molto difficile sul piano umano, sul piano economico e su quello del sistema di controllo alle frontiere dell'Unione». Ma per quanto riguarda «la tua richiesta di valutare la possibilità di attivare la direttiva 55 sulla protezione temporanea», la Commissaria che lunedì scorso davanti al Parlamento europeo si era mostrata possibilista pur sottolineando che «non c'era una maggioranza qualificata» disposta ad approvarla in Consiglio afferma che «al momento non ritengo che esistano le condizioni». «La mia prima valutazione scrive la Malmstrom mi porta infatti a nutrire dubbi sulla sussistenza delle condizioni di applicazione di tale direttiva nel caso di specie. In effetti, come spesso è stato indicato da parte italiana, i migranti irregolarmente entrati sul territorio italiano sono nella stragrande maggioranza migranti economici, non richiedenti asilo, quindi suscettibili in tempi brevi di essere rinviati in Tunisia. La direttiva sulla protezione temporanea intende invece tutelare gli sfollati provenienti da Paesi terzi che non possono ritornare nel Paese d'origine».
Una bocciatura a tutto campo. Argomentata al dettaglio. Non c'è «nulla di nuovo» nella lettera della commissaria Malmstrom al ministro Maroni, provano a parare il colpo fonti del Viminale. Missione impossibile, degna di miglior causa.
E a ribadire la debacle s’aggiunge un’intervista del ministro degli Interni tedesco alla Die Welt: «Il comportamento italiano viola lo spirito di Schengen». Ma l’Italietta che colleziona schiaffoni in Europa è degnamente rappresentata da ministri come il leghista Roberto Calderoli – titolare del dicastero della Semplificazione, sodale di partito e in esecutivo del ministro dell’Interno, Roberto Maroni che ieri ha annunciato che per affrontare il problema immigrazione «occorrono mezzi e risorse e proprio per reperirli proporrò al prossimo Consiglio dei Ministri, il ritiro delle nostre truppe dal Libano». Maggioranza nel caos. Il ministro la Russa replica, quasi incredulo. Parla di posizioni estreme espresse dal collega leghista, cerca di smussare il danno, dice che semmai verrà ridotto il numero di militari presenti. Un caos totale, insomma. «L'Italia si è dimostrata poco credibile agli occhi dei maggiori partners europei, ma come può essere credibile un Governo che fino a ieri, per volere della Lega, manifestava scetticismo verso l’Europa», rileva polemicamente il presidente della Camera Gianfranco Fini, concludendo ieri a Bari la prima conferenza nazionale di Generazione Futuro, l’organizzazione giovanile di Fli. E questo prima della lettera della commissaria Ue che gela l’Italietta del Cavaliere. Coprendola di ridicolo. Dopo Parigi, dopo Berlino.

l’Unità 11.4.11
Le critiche del Pd
«Governo senza credibilità s’inventa il nemico europeo»
D’Alema e Letta guardando preoccupati al conflitto fra l’Italia e l’Unione: «L’esecutivo ha fatto di tutto per non prendersi le sue responsabilità, e adesso chiede la solidarietà...certo, serve più Europa, ma ci sono governi conservatori, egoisti, proprio come quello di Berlusconi»
di Simone Collini


sLo schiaffo della Malmstrom, ma non solo. Berlusconi che dice all’Ue «o si trova l’accordo su Schengen o tanto vale dividerci», giusto mentre il Carroccio rilancia con Borghezio la linea «föra di ball» e con Calderoli propone il ritiro dei nostri soldati dal Libano per mandarli a proteggere i confini italiani. Per il Pd è desolante l’atteggiamento dell’asse Pdl-Lega di fronte all’emergenza immigrazione, e il governo piuttosto che accusare l’Europa dovrebbe interrogarsi sulle ragioni che
hanno determinato le difficoltà che sta attraversando l’Italia. «Se se ne andasse Berlusconi non sarebbe rimpianto da nessuno», dice con sarcasmo D’Alema riferendosi alle minacce del premier nei confronti dell’Ue. Il presidente del Copasir osserva che il problema è «il livello di discredito di cui gode il nostro Paese a causa sua»: «Una delle principali ragioni per cui il governo italiano dovrebbe lamentarsi dell’Ue è che i governi europei somigliano troppo al nostro. Nell’Eruopa dei leghismi c’è sempre una Lega più a nord di noi, persino Maroni risulta terrone per i tedeschi». E dunque, «se ha ragione Napolitano nel chiedere più Europa, il governo italiano non ha le carte in regola per unirsi a questo coro».
Reclamare ora la «solidarietà» dell’Europa come fanno premier e ministro dell’Interno, è per D’Alema un’atteggiamento che mal si concilia con la posizione tenuta troppo a lungo dal governo di fronte all’emergenza immigrati, quando era prevedibile che sarebbe arrivata e ancora dopo che è scoppiata: «L’Italia ha fatto di tutto per non assumersi le sue responsabilità. È vero che l’Europa, che è governata da partiti conservatori, egoisti, del tipo di quelli come la Lega e Berlusconi, dovrebbe avere un atteggiamento diverso. Ma la confusione, l'incapacità e le polemiche inutili che hanno caratterizzato l’azione del governo di fronte a questa prevedibile emergenza dei rifugiati che giungono dal Nord Africa e stata veramente impressionante».
L’ultima della Lega Ora alle polemiche si va ad aggiungere quella innescata dalla proposta di Calderoli di ritirare i militari italiani dal Libano per far loro difendere i nostri confini (su cui il titolare della Difesa La Russa frena). D’Alema, che era ministro degli Esteri quando nel 2006 l’Italia autorizzò quella missione, neanche replica. Ci pensa però Enrico Letta a far notare che «con il populismo e l’approssimazione non si fa politica estera»: «La querelle pasticciata La Russa-Calderoli sul Libano è una tappa in più del degrado del ruolo e dell’immagine del nostro paese, che perde affidabilità di giorno in giorno». Il punto, per Letta, non è solo il fallimento del governo, che ieri ha ricevuto un altro colpo con la lettera della Commissaria Ue Malmstrom (la cui portata viene minimizzata dal Viminale). Il problema, a questo punto, è che la destra continua con le sparate più estemporanee, senza rendersi conto delle conseguenze su più fronti. «Mi chiedo dice Letta come si sentano oggi i militari italiani impegnati in Libano, che rischiano la loro vita per l’Italia e per la pace e che vengono trattati in questo modo dal governo del loro paese».

l’Unità 11.4.11
Le carrette Continuano gli arrivi dal mare, ma non si vedono gli aerei promessi per i rimpatri
Oltre1.200 gli stranieri presenti a Lampedusa, il giorno dopo la visita-show di Berlusconi
Nell’isola «svuotata» del Cav sbarcano altri 700 migranti
Solo nel pomeriggio di ieri, sbarcati altri 400 stranieri. E 160 tunisini arrivano in aereo da Pantelleria, dove erano approdati negli scorsi giorni. E l’isola trema per il tracollo del turismo: «Arrivano solo disdette».
di Alessandra Rubenni


Per 143 persone la sagoma di Lampedusa si è avvicinata piano nell’oscurità. Erano a bordo di due barconi: in quello più grande erano stipati in 108. Solo poche ore di tregua dopo quell’ennesimo sbarco notturno e ieri pomeriggio altri 50, provenienti dalla Tunisia, sono arrivati scortati da una motovedetta delle fiamme gialle. Poco prima, altre due carrette stracariche di migranti venivano intercettate a una ventina di miglia dalla costa: a occhio e croce, altri 350 stranieri, ovviamente diretti verso l’isola siciliana. Non si fermano gli sbarchi, neanche il giorno dopo la passerella di Silvio Berlusconi, che sabato da Lampedusa ha detto di aver risolto l’emergenza, che «tutto è sotto controllo». E se di barconi se ne sono continuati a vedere tanti, non si è ancora vista l’ombra degli aerei con i quali il premier ha annunciato che da oggi si provvederà ai rimpatri di quanti sono rimasti nel centro di accoglienza. Del resto, i calcoli fatti dal presidente del Consiglio semplicemente non reggono, dal momento che non ha tenuto conto dei continui arrivi.
In compenso, ieri gli immigrati sono arrivati non solo dal mare, ma pure dal cielo: 80 tunisini che erano approdati a Pantelleria la scorsa settimana sono stati trasferiti a Lampedusa con un volo speciale; altri 80 destinati allo stesso tragitto invece sono rimasti a terra a Trapani, dopo minacce e proteste che hanno fatto rinviare il volo. Tutti loro, in teoria, dovrebbero finire a Lampedusa per essere poi messi sui voli diretti in Tunisia, a partire da oggi, a gruppi di 30. Ma il solo risultato, al momento, è che sull’isola ci sono di nuovo oltre 1.200 migranti, compresi i 243 profughi provenienti dalla Libia e ospitati nella base Loran. Una situazione che preoccupa non poco i lampedusani, quando è ormai alle porte l’estate, con l’aria di una stagione che già si annuncia devastata. Lampedusa chiede che sia mantenuto «ciò che è stato promesso dal presidente del Consiglio», dice l’assessore al Turismo Pietro Busetta, «vale a dire che i recuperi vengano trasferiti direttamente sulle navi appoggio in rada già a Lampedusa e che venga spiegato, anche con spot pubblicitari ad hoc che il fenomeno immigrazione, ormai riportato alla normalità, non è visibile sull'isola e non confligge con una vacanza tranquilla a Lampedusa». Insomma, alle promesse del Cavaliere qui pare ci credano poco. «Speriamo che l’ottimismo del ministro Brambilla sia confermato dai fatti. Noi siamo molto meno fiduciosi che la stagione si possa salvare anche se vorremmo avere torto», si lamenta Busetta, che parla di un sistema turistico in forte allarme per le disdette che arrivano, per chi già immagina vuote le camere di alberghi, pensioni e appartamenti, con i tour operator che stanno pensando di cancellare i voli charter previsti per l’estate, un affare che in genere fa affidamento su 800 mila presenze turistiche. «Qualcuno ricorda Busetta afferma che la stagione turistica di Lampedusa è già iniziata con gli alberghi pieni di militari, ma moltissime strutture sono ancora chiuse e quindi poche aperte sono piene, ma in ogni caso non è questo il tipo di turismo che l'isola vuole.
Intanto ieri la nave “San Giorgio” ha sbarcato a Pozzallo gli ultimi 198 migranti raccolti a Lampedusa, dopo averne lasciati altri 87 a Porto Empedocle, mentre a bordo della «Flaminia» almeno 400 tunisini venivano portati verso Civitavecchia, dove si aggiungeranno ai connazionali già ospitati nella caserma «De Carolis». E mentre a Cagliari proseguivano le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei 700 tunisini arrivati mercoledì scorso da Lampedusa, per Manduria è arrivata la notizia che a partire da mercoledì prossimo sarà rilasciato un primo centinaio di permessi di soggiorno ai profughi ospiti della tendopoli.

La Stampa 11.4.11
Bonino: Berlusconi non può trattare l’Europa come un taxi
Il premier non sa misurare le parole, né governare i problemi e se stesso
intervista di Fabio Poletti

qui

Repubblica 11.4.11
La rivoluzione senza Islam

In piazza per la democrazia così le rivoluzioni arabe hanno seppellito l´islamismo
Dall´Egitto allo Yemen, la protesta laica dei manifestanti
I dimostranti non sono scesi in strada in nome dell´Islam, ma i loro slogan facevano riferimento ai valori universali di dignità, giustizia e libertà

di Tahar Ben Jelloun

Nessuno aveva previsto la rivolta dei popoli arabi. Non i servizi di intelligence, particolarmente efficaci e radicati, non gli analisti politici, sia gli accademici che i giornalisti, non la semplice polizia e soprattutto i leader dei movimenti di ubbidienza islamica, dai più radicali ai moderati. La scintilla è partita il 17 dicembre da una cittadina della Tunisia, dopo un´umiliazione di troppo che ha spinto Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di frutta e verdura, a immolarsi dandosi fuoco di fronte al municipio dove nessuno voleva riceverlo o ascoltare le sue lamentele.
Darsi fuoco è qualcosa del tutto estranea alla cultura e alle tradizioni arabe, e soprattutto alla tradizione islamica che, come le altre religioni monoteiste, vieta il suicidio perché lo vede come un affronto alla volontà divina. Chi muore suicida non ha diritto a un funerale.
Altri cittadini hanno seguito l´esempio di Mohamed Bouazizi, nel Maghreb e nel Mashrek. Sono tutti musulmani, eppure, al momento di sacrificarsi, non hanno tenuto conto della parola di Allah. La prima sconfitta dell´islamismo ha origine da questa disubbidienza ad Allah; il fatto che centinaia di migliaia di persone siano uscite nelle strade a protestare contro un regime corrotto e dittatoriale, senza che venisse mai evocato in alcun modo l´islam o Allah è la dimostrazione che le tesi islamiste ormai sono superate e non riescono più a fare presa. È comprensibile che in Tunisia, che era stata laicizzata dall´ex presidente Bourghiba (1903-2000; deposto con la forza da Ben Ali il 7 novembre 1987) e che comunque è piuttosto refrattaria in generale al fanatismo religioso, i manifestanti non abbiano pensato a protestare in nome dei valori islamici. Per la prima volta la piazza araba non se l´è presa né con l´Occidente né con Israele. Il fatto che l´islam come costituzione e riferimento principale per un nuovo potere sia stato totalmente ignorato dai milioni di persone scesi in piazza è una chiara dimostrazione di quanto questa rivolta si discosti dalle abitudini consolidate.
La peculiarità delle rivolte arabe sta nella loro natura spontanea e nell´obbiettivo che si pongono, l´ingresso nella modernità, vale a dire l´affermazione dell´individuo e il suo riconoscimento come cittadino e non come suddito sottomesso. Questa modernità nessuno dei partiti politici esistenti l´aveva reclamata in modo tanto diretto.
Ma è in Egitto che l´assenza degli islamisti durante le manifestazioni che sono riuscite a cacciare Mubarak, lo scorso 11 febbraio, colpisce maggiormente. Questo Paese è la culla dell´islamismo dal 1928, quando nacque l´associazione dei Fratelli musulmani. Questo movimento è sempre stato combattuto dal potere, perché Nasser fece impiccare il 29 agosto 1966 un grande intellettuale, Sayyid Qutb, il maître à penser dei Fratelli musulmani, e perché Anwar Sadat fu assassinato il 6 ottobre 1981 da un commando islamista infiltratosi tra le forze armate. Lo scorso mese di febbraio, l´Egitto è stato «liberato» senza la partecipazione degli islamisti. Gli slogan che scandivano i dimostranti di piazza Tahrir facevano riferimento ai valori universali di democrazia, dignità, giustizia, lotta contro la corruzione e il ladrocinio. La gente non reclamava soltanto il pane, ma anche valori fondamentali che faranno sì che i regimi corrotti non possano più regnare in piena impunità. È questa novità che ha aiutato la rivolta a penetrare in altri Paesi altrettanto chiusi e autoritari, come la Siria o lo Yemen. Gli islamisti reclamano costantemente «un´igiene morale» dello Stato, ma sacrificano sempre l´individuo a beneficio del clan, il clan dei credenti. Non si sono resi conto dell´evoluzione del popolo, non hanno percepito la potenza di questo vento di libertà che cresceva in silenzio, perfino all´insaputa della maggior parte dei protagonisti della rivolta.
Questa è la novità. Non è stata la prima volta che gli egiziani sono scesi in piazza in massa. Non è stata la prima volta che la polizia li ha repressi con ferocia; non è stata la prima volta che dei giovani sono stati arrestati, torturati e perfino assassinati negli scantinati dei commissariati di polizia. Ma è stata la prima volta che la collera è esplosa radicale, profonda, irreversibile. Ed è stata anche la prima volta che questa rivolta ha assunto caratteristiche laiche, senza che i manifestanti lo avessero stabilito.
Qualche militante dei Fratelli musulmani ha cercato di salire in corsa sul treno della rivoluzione, ma gli hanno fatto capire che non era aria, e i Fratelli musulmani hanno mantenuto un profilo basso. Questa assenza, nella dinamica della rivoluzione egiziana, ha avuto conseguenze importanti nel panorama politico del Paese. Dopo la partenza di Mubarak e il trasferimento della direzione dello Stato nelle mani dei militari, gli islamisti si sono ritrovati nella mischia, fra tanti partiti politici, costretti a mettere in sordina un fanatismo divenuto anacronistico.
Come e perché gli islamisti hanno perso il treno? Innanzitutto perché i Fratelli musulmani sono da tempo in crisi al loro interno. Le nuove generazioni non si intendono con le vecchie. La retorica e i metodi di una volta non funzionano più. Questa crisi è deflagrata al momento della rivolta popolare. I Fratelli musulmani si sono ritrovati superati, marginalizzati, più nessuno credeva alle loro litanie. Questo non vuol dire che il movimento scomparirà. Avrà un suo posto nel contesto democratico. Prima della partenza di Mubarak si calcolava che in caso di libere elezioni gli islamisti non avrebbero superato il 20 per cento dei voti. Oggi queste stime sono riviste al ribasso.
Oggi constatiamo la scomparsa della retorica islamista tra i giovani libici che resistono alla furia del dittatore Gheddafi. Anche in questo caso la resistenza di Bengasi è guidata dalle nuove generazioni, gente che nella maggior parte dei casi ha meno di trent´anni, che in alcuni casi è rientrata dall´Europa e dall´America, dove lavora e studia. Sono arrivati con nuovi metodi di lotta, in particolare Facebook, Twitter e le notizie diffuse attraverso i cellulari. La retorica gheddafiana non li tocca. Hanno bruciato il «libro verde», accozzaglia di pensieri egocentrici senza fondamento e senza interesse.
All´inizio, quando gli insorti hanno preso la città di Bengasi, Gheddafi ha cercato di agitare lo spettro della paura e del terrorismo, dichiarando alle televisioni estere che si trattava di islamisti, di gente di Al Qaeda. Lo ha ripetuto talmente tante volte che si è capito chiaramente che il suo intento era principalmente quello di mandare un messaggio agli occidentali: attenzione, se accorrerete in soccorso degli insorti di Bengasi darete una mano ad Al Qaeda. La manovra non è riuscita. I ribelli non esibivano il Corano, invocavano l´aiuto delle Nazioni Unite, dell´America, dell´Europa. Il mondo non poteva abbandonare una popolazione male armata di fronte all´artiglieria del dittatore che aveva promesso che sarebbe andato a cercarli «casa per casa, fin dentro gli armadi».
Quando il Consiglio di sicurezza, con la benedizione della Lega araba e dell´Unione africana, ha votato la risoluzione 1973, che autorizza gli alleati a intervenire in soccorso del popolo in pericolo, Gheddafi ha utilizzato lo stesso stratagemma, parlando di crociate! Ma né la Francia, né la Gran Bretagna né nessun altro è andato in Libia per ammazzare musulmani. Il solo che ammazza e continua a massacrare musulmani è Gheddafi. La sua retorica islamista è completamente sfasata. Ricorda quello che aveva fatto Saddam al momento dell´invasione del Kuwait, nel 1991, quando aveva aggiunto un riferimento islamico sulla bandiera e si era fatto riprendere in preghiera, lui che era un famigerato miscredente.
Ma facciamo un passo indietro. L´Occidente per molto tempo ha creduto che fosse preferibile avere a che fare con un dittatore che avere a che fare con gli islamisti. Ha creduto che gente come il tunisino Ben Ali o l´egiziano Mubarak fossero dei «bastioni» contro il pericolo islamista. Gli europei chiudevano gli occhi e aiutavano questi regimi, facevano affari con loro. Improvvisamente l´islamismo acquisiva un´importanza che non corrispondeva alla realtà e ai fatti. Certo, i Fratelli musulmani contestavano il potere egiziano e si presentavano come l´alternativa di fronte al regime del partito unico. La società è attraversata da varie tendenze politiche, e una di queste è islamista, ma non ha l´ampiezza e la forza che certi osservatori occidentali le attribuivano. Certo, Al Qaeda ha cercato di insediarsi nel Maghreb, ha fatto sequestri di persona, ha ricattato gli Stati. Ma nessuno pensa più che Al Qaeda sia il vero volto dell´islam.
In Tunisia la lotta antislamista era diventata l´alibi perfetto per consentire il radicamento di una dittatura, mettere il bavaglio all´opposizione e fare affari indisturbati. Il leader del movimento islamista Ennahda, Rashed Ghannouchi, rifugiato a Londra, ha detto, appena tornato dall´esilio, che non vuole instaurare una repubblica islamica in Tunisia e che non intende presentarsi alle elezioni presidenziali.
La novità che cambierà radicalmente i rapporti tra l´Occidente e il mondo arabo è che l´alibi del terrorismo islamico non funziona più. L´islamismo continuerà a esistere, perché risponde a un´esigenza culturale e identitaria. Ma è l´assenza di democrazia che ha favorito la sua espansione. Una democrazia ben assimilata terrà conto delle correnti religiose, come terrà conto delle varie correnti laiche. L´islamismo è stato sconfitto dal popolo. È il popolo che l´ha ignorato e che non ha voluto fare la sua rivoluzione in nome dell´islam, e questo è merito delle nuove generazioni della diaspora araba e musulmana nel mondo. Il vento della rivolta ha spazzato via nella sua evoluzione le vecchie litanie che cercavano di far tornare il mondo islamico ai tempi del profeta Maometto (VII secolo). Ma i giovani hanno una nuova griglia di lettura del libro sacro: una lettura intelligente, razionalista e non letterale. È questo l´elemento nuovo e rivoluzionario.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 11.4.11
Il fondamentalista non riluttante
De Mattei: Il paradiso terrestre è esistito davvero

Intervista di Antonio Gnoli

Intervista al discusso vicepresidente del Cnr che suscita nuove polemiche con le sue tesi antiscientifiche
"Da cattolico devo credere nella storicità di quel passo della Genesi in cui si afferma che Adamo ed Eva sono la coppia originaria"
"Le mie idee affondano le loro radici nella coscienza stessa della nostra cultura: mi osteggiano gli scientisti"
"La fede religiosa è lontana dall´essere un fatto privato e va testimoniata pubblicamente"

Confesso una certa curiosità mentale mentre mi avvio all´appuntamento col professor Roberto De Mattei, l´uomo che con le sue idee – professate in varie sedi e occasioni – ha vinto l´Oscar del ridicolo. Che linea tenere, che domande rivolgergli, in una parola che cosa ci si aspetta da un signore che, con tutti i distinguo, ha sostenuto tesi balzane e in ogni caso antiscientifiche, come il creazionismo, l´immutabilità delle specie, la datazione della Terra a soli 15-20 milioni di anni fa? Se insieme al taccuino avessi con me un bel "tapirone d´oro", la questione potrebbe risolversi in pochi attimi. Ma in fondo, De Mattei non è un caso umano, è un affare più complicato: un uomo solo (o quasi) che sostiene certe idee. Non basta questo per farne un eroe della resistenza ottusa? Il problema è che De Mattei non è un signore qualunque: egli è vicepresidente del Cnr, un incarico che lo pone ai vertici della struttura che in teoria dovrebbe guidare la ricerca scientifica in Italia. Ma al tempo stesso egli ha una rubrica su Radio Maria, dirige il periodico Le radici cristiane, insegna alla Nuova Università Europea che appartiene ai Legionari di Dio. Il suo ultimo libro (pubblicato da Lindau) è una rilettura molto polemica del Concilio Vaticano II. Sguazziamo in un bel pasticcio ideologico.
Da dove nascono le sue provocazioni?
«Dalla mia coerenza. E dai miei studi. Sono stato allievo di Augusto Del Noce e Armando Saitta. Ho insegnato come associato all´Università di Cassino. Oggi ho un incarico alla Nuova Università Europea dove insegno storia moderna e storia del cristianesimo. Purtroppo sono spesso dipinto in maniera caricaturale».
Lei è vicepresidente del Cnr, un grande ente scientifico, diciamo il corrispettivo del Max Planck. Come è avvenuta la sua nomina?
«Fu la Moratti, nel 2004 Ministro dell´Istruzione, a nominarmi».
Perché scelse lei?
«Il Cnr ha anche un settore minoritario dedicato alle scienze umane. Al cui interno cadono le mie competenze».
Si è mai chiesto se ci fossero studiosi più preparati di lei, più legittimati sotto il profilo dei titoli e delle idee?
«Ho scritto centinaia di articoli, decine di libri, partecipato a convegni internazionali».
Non ci sono echi significativi dei suoi lavori nella comunità scientifica.
«Non è questo il punto. La contestazione alla mia nomina, una vera e propria levata di scudi, si basava sul fatto che la mia cultura cattolica era negatrice di alcuni valori fondanti della democrazia occidentale. Non ho mai nascosto che la fede religiosa non sia solo una questione privata, ma vada testimoniata pubblicamente».
Ho di fronte un missionario e un martire.
«Penso che il cristianesimo non possa ridursi a una religione intimistica e individuale, ma debba proiettarsi nella vita pubblica».
E questo l´autorizza a dichiarare che lo tsunami in Giappone è stato un castigo divino?
«Parlavo a titolo personale da una radio cattolica e non in qualità di vicepresidente del Cnr. Ho svolto una riflessione sul grande mistero del male e ho detto che tutto ciò che accade ha un significato. Non si muove foglia che Dio non voglia, verità antica e perenne. Coloro che credono in Dio sanno che esiste una remunerazione, che per i cattolici sia chiama inferno. E come si legge nella dottrina di Sant´Agostino e Bossuet anche i popoli possono peccare e per questo essere puniti».
Terremoto in Giappone e all´Aquila, devastazioni, guerre, catastrofi, crisi. Per lei Dio è molto occupato in questo momento?
«Non direttamente. Se Egli permette questo male non intendo dire che sia l´autore del male, perché altrimenti cadremmo in una visione manichea. Non esiste un Dio del male. Egli è il sommo bene capace di trarre il bene dal male. Anche dalla catastrofe giapponese».
Il Giappone è a prevalenza scintoista.
«Non ho la pretesa di conoscere la ragione per cui Dio ha permesso che ciò accadesse. Ma so che una ragione c´è».
Un´affermazione così perentoria e ilare la mette in totale contrasto con la comunità scientifica.
«Mi mette in contrasto con lo scientismo. A cominciare da Galileo, lo stesso Newton, ma poi Spallanzani, Mercalli, Pasteur, Mendel, fino a Max Planck, sono stati grandi scienziati che hanno creduto all´esistenza di Dio e non hanno trovato un contrasto tra la loro fede e la scienza».
Ma nessuno di loro si è piegato ai metodi biblici per spiegare il mondo. Per lei la Bibbia è il testo di riferimento?
«Per un cattolico non può che essere così. Lei sa che fin dal Concilio di Trento…».
Non vada troppo indietro. Contro l´evoluzionismo lei è un assertore del disegno divino. E le prove le ricava tutte dalla Bibbia. Un po´ poco, no?
«Per un cattolico la Sacra Scrittura va letta non come libero esame razionalista, ma alla luce della tradizione e del magistero della Chiesa».
Con quali conseguenze?
«Che un cattolico deve credere, per esempio, nella storicità di quel passo della Genesi in cui si afferma che Adamo ed Eva sono la coppia originaria da cui è nato il genere umano».
Uno scienziato inorridirebbe.
«Respingo il poligenismo evoluzionista. Se un cattolico lo accettasse verrebbe a cadere l´idea di un peccato originale trasmesso da una coppia di progenitori a tutta l´umanità. La mia battaglia culturale non è solo contro il laicismo, ma si svolge soprattutto all´interno del mondo cattolico sottomesso al clima intellettuale dominante».
Insomma lei sostiene che Adamo ed Eva non sono figure simboliche ma reali?
«Il paradiso terrestre è una realtà storica non una metafora».
Non le viene il dubbio che la storia della Terra, la sua origine, si possa raccontare in maniera diversa?
«Io ripropongo una cosmologia cristiana che fa capo alla stessa visione di Benedetto XVI».
Lei sa che la grande rivoluzione scientifica del Seicento cambia nel profondo anche la cosmologia cristiana, come può non tenerne conto?
«Mi pare più grave voler interdire la possibilità a un cattolico di esporre pubblicamente le proprie visioni cosmologiche e metafisiche».
Fino al punto di affermare che la caduta dell´Impero Romano avvenne principalmente per colpa dei gay?
«In realtà in quell´occasione io feci mio il discorso del Papa che paragonava la crisi del mondo attuale alla decadenza dell´Impero Romano. La cui caduta, secondo me, più che alle invasioni barbariche va fatta risalire al relativismo morale e culturale che lo minavano dall´interno».
E i gay?
«Un ragionamento che ho ripreso da Salviano di Marsiglia. Coevo di Sant´Agostino».
Come è stata la sua infanzia?
«Tranquilla. Sono nato e vissuto a Roma. Provengo da una famiglia cattolica. Mio padre e mio nonno erano professori universitari. Sono sposato e ho cinque figli ormai grandi».
Come reagiscono alle sue intemerate?
«Sono tutti dei buoni cattolici. Ho il loro sostegno. Certo, ricevo da fuori molti insulti, ma anche gente che mi sostiene e mi incita ad andare avanti».
Ha mai immaginato di farsi prete?
«Non ho mai avuto questa vocazione, né crisi mistiche. Sono un´eco del XXI secolo di una tradizione che viene da lontano e che è radicata nel senso comune. Quelle che espongo non sono idee originali o particolari, perché se tali fossero vivrebbero lo spazio di una bufera mediatica. Al di là della mia persona queste idee affondano nelle radici della coscienza stessa dell´Occidente».
Lei è un cattolico integralista?
«Mi piacerebbe definirmi un cattolico tout court. Ma oggi è insufficiente. Sono un cattolico senza compromessi».

Repubblica 11.4.11
C’erano una volta i barbari
Se lo scontro di civiltà non è un’invenzione classica
di Siegmund Ginzberg


Crudeli e insofferenti verso "gli altri" ma senza mai odiarli
Un saggio spiega come Greci e Romani non fossero xenofobi
Anche nelle guerre contro i persiani non ci fu mai quel clima da "occidente" contro "oriente". E Cesare non disprezza i Galli

Uno straniero lacero, sporco, affamato, proveniente da chissà dove, approda su un´isola del Mediterraneo. Anziché scacciarlo, Penelope ordina di lavargli i piedi. L´indimenticabile scena dell´Odissea ci dà un´idea di cosa pensassero gli antichi dei doveri di ospitalità. Ma ancora più sorprendente è scoprire il rispetto che i Greci nutrivano persino per i loro "nemici giurati", i Persiani, e i Romani per i Cartaginesi, i "selvaggi" del Nord e dell´Est, gli Africani e persino i tanto bistrattati Ebrei. È fin sorprendente quanto negli antichi autori, anche nei più sciovinisti, nei più prevenuti, ci sia sì spesso disinformazione, talvolta pregiudizio, talvolta denigrazione, talvolta senso di superiorità, talvolta fastidio, talvolta anche più o meno bonaria irrisione dell´estraneo, dell´"altro", dello "straniero", ma mai odio. Gli antichi avevano le loro fisime, i loro luoghi comuni, erano feroci coi nemici, crudeli coi vinti, infastiditi dagli ospiti indesiderati e dagli usi e costumi estranei, diversi dai propri. Ma non xenofobi, nemmeno per opportunità politica.
L´ultimo libro del grande classicista americano Erich S. Gruen offre una lettura assolutamente affascinante sull´argomento. Si intitola Rethinking the Other in Antiquity, è stato appena pubblicato dalla Princeton University Press. Prende in esame gli stessi testi che avevano portato altri studiosi ad elencare i semi del pregiudizio etnico, o persino l´"invenzione del razzismo" nell´antichità, ma li colloca nel loro contesto, giungendo alla conclusione che le cose stanno non proprio come siamo stati abituati a considerarle in base ai pregiudizi della nostra epoca, o comunque si prestano a letture più sfaccettate e complesse.
Greci contro Persiani. L´inizio del "conflitto di civiltà" tra l´Occidente e la "barbarie" dell´Oriente. Ovvio, no? No, non così ovvio. Eschilo aveva messo in scena i suoi Persiani appena sette anni dopo che i Greci avevano respinto una massiccia invasione e avevano ragione di temerne altre. Aveva lui stesso combattuto nelle file ateniesi. Non è affatto un pacifista. Eppure i suoi Persiani non sono demoni, sono semplicemente esponenti di una comune umanità, sono vittime travolte da una tragedia politica e umana, non bersagli di propaganda politica. Così Erodoto, il grande cronista delle guerre persiane, che, lungi dal contrapporre schematicamente la "libertà" dei Greci al "dispotismo" orientale, attribuisce ai Greci difetti "orientali", quanto ai Persiani virtù che definiremmo "occidentali". I "ricchi" che pretendono di esportare ai "poveri" il loro più elevato tenore di opulenza e una civiltà "superiore" sono i Persiani, peraltro definiti da Erodoto, senza ulteriori commenti come «più aperti ai costumi stranieri di qualsiasi altro popolo». Gli piace in particolare che abbiano in avversione la menzogna. Non per niente diversi secoli dopo Plutarco l´avrebbe chiamato philobarbaros.
Non si può immaginare peggior nemico per Roma del nordafricano Annibale. Contro Cartagine fu escogitata tutta una violenta "propaganda di guerra". Su quel nemico sono giunti a noi solo i resoconti di parte dei vincitori (e malgrado questo il personaggio giganteggia). Ma nemmeno nella foga delle guerre puniche l´avversario venne presentato come incarnazione della "barbarie nera", mostruosa alterità etnica. Il concetto di Punica fides, di cartaginese infido e per natura traditore si affermò in realtà solo molto dopo la distruzione di Cartagine, e anche lì spesso in modo scherzoso, facendo satira sugli stereotipi, o magari rovesciando le parti, come nel Poenulus di Plauto o anche nell´Eneide di Virgilio. È Enea a fare un brutto tiro a Didone, non viceversa. Straordinario come, anziché affermare la propria identità in termini di "purezza" nei confronti dell´altro, gli antichi si inventassero genealogie fittizie di ogni genere per rivendicare invece origini comuni, se non addirittura una comune umanità con gli altri popoli.
Cesare non disprezza i Galli. Anzi si sforza di studiarli con più profitto di quanto recentemente si sia cercato di studiare l´Iraq o l´Afghanistan, ne sa probabilmente più di quello che oggi sappiamo della Libia, dell´Egitto o dell´Iran. Tacito parla dei Germani, i "barbari" per antonomasia dei suoi tempi, in termini che avrebbero addirittura montato la testa agli apologeti del moderno Terzo Reich. Ma Gruen invita a non perdere di vista la sua vena ironica e a non sottovalutare l´abile manipolazione con cui lo storico romano attribuisce ai Germani virtù e difetti che lui vorrebbe indicare ad esempio o denunciare nella Roma imperiale del suo tempo. Insomma, usa la sua Germania per dire cose che non potrebbe apertamente dire della sua Roma. Pecca di eccesso di assimilazione, piuttosto che di contrapposizione.
Tacito, si sa, fu gran diffamatore degli Ebrei. Era abbastanza cinico da cavalcare il fastidio dei Romani per quella che consideravano una vera e propria, continua invasione di profughi, che per giunta restavano attaccati alle proprie strane usanze, facendo cricca a sé, e addirittura, nelle parole che Giuseppe Flavio attribuisce a Tito, osavano anche ribellarsi contro i loro benefattori, «mordendo la mano che li nutriva». Ma persino le sue invettive potrebbero essere lette in altro modo: come un gioco malevolo che prende di mira gli idioti e i mascalzoni al potere in casa propria, prima ancora che gli stranieri.
E dire che i loro stranieri dovevano essere particolarmente ingombranti. Ne avevano importati a frotte come schiavi, e questi gli facevano paura solo quando si ribellavano. Ma poi, col succedersi di "manumissioni" – era un incentivo formidabile, che fece la fortuna economica di Roma – divennero cittadini a tutti gli effetti, indipendentemente dall´origine etnica, persino dal colore della pelle. I "non romani" divennero ad un certo punto forse addirittura maggioranza. Questo suscitava anche forti risentimenti, specie quando i liberti assumevano posizioni di potere. Sarà magari perché si rendevano benissimo conto che degli stranieri avevano bisogno, ma colpisce l´assenza di incitamenti alla xenofobia viscerale. Paradossalmente i guai cominciarono quando, molto più tardi, cercarono di fermare maldestramente alle frontiere popoli scacciati da altri popoli più aggressivi. Ma questa è un´altra storia.

Repubblica 11.4.11
Le polemiche sulla Arendt a 50 anni dal caso Eichmann
L’11 aprile 1961 cominciava lo storico processo che portò alla "banalità del male"
di Michela Marzano


cinquant´anni di distanza dal processo di Adolf Eichmann, la nozione di "banalità del male" teorizzata da Hannah Arendt ha ancora un senso? L´11 aprile 1961 comincia a Gerusalemme uno dei processi più spettacolari del Ventesimo secolo, quello dell´uomo che, durante il regime nazista, aveva coordinato l´organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i campi di concentramento e di sterminio. L´annuncio della cattura e del processo di uno dei principali attori della soluzione finale riapre un capitolo rimasto ancora in sospeso dopo Norimberga e attira l´attenzione e la curiosità di tutti coloro che, più o meno deliberatamente, cercano di dimenticare gli orrori della Seconda Guerra mondiale. Che cosa aveva potuto spingere un alto funzionario a mettersi al servizio di un progetto folle e scellerato? Si trattava di un "mostro" o di un "uomo qualunque"? Due anni dopo Hannah Arendt pubblica il proprio resoconto del processo e formula, per la prima volta, un´ipotesi scabrosa: Eichmann non è un "mostro"; chiunque di noi, in determinate condizioni, può commettere atti mostruosi. Ma si può osare parlare della Shoah evocando, anche solo come ipotesi teorica, l´idea che il male possa essere banale?
A Parigi, la Fondation pour la Mémoire de la Shoah celebra in questi giorni il cinquantesimo anniversario del processo e organizza una serie di dibattiti e una mostra imponente: dall´8 aprile al 28 settembre il pubblico può avere accesso a molti documenti inediti, estratti di film, registrazioni e fotografie del processo. A Washington, il Center for Advanced Holocaust Studies ospiterà a maggio un convegno internazionale con la partecipazione della storica Deborah Lipstadt che critica aspramente, nel suo recentissimo The Eichman Trial, la posizione della Arendt. Dopo David Cesarani e Saul Friedländer, che contestano l´idea che la sola "macchina burocratica" abbia potuto portare avanti lo sterminio, la Lipstadt mette in discussione il concetto di "banalità del male". Banalizzare il male contribuirebbe solo ad "assolvere" la cultura europea dalla colpa di antisemitismo. Ma di quale banalità stiamo parlando? Hannah Arendt non voleva assolvere nessuno. Non intendeva fornire alcuna spiegazione storica della catastrofe nazista. Cercava una chiave di lettura antropologica e filosofica dell´azione umana. Della cattiveria. Dell´incapacità di rendersi conto del male compiuto…
Durante il processo, Eichmann non smise mai di proclamare la propria innocenza, spiegando come nella sua vita non avesse fatto altro che ubbidire agli ordini, rispettato le leggi e fatto il proprio dovere. «Le sue azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco, né mostruoso», scrisse allora Arendt per spiegare l´inspiegabile. Esiste una "banalità del male" che non si può non prendere in considerazione se si vuole evitare di ricadere nella spirale infernale dei genocidi. Non certo perché il male, in sé, sia banale. Né perché coloro che lo compiono possano essere ritenuti banali. Ma perché tutti possiamo fare il male, talvolta senza rendercene conto, anche se non siamo né sadici né mostruosi. Non si tratta di negare che la perversione esista e che alcune persone provino una jouissance particolare nel far soffrire gli altri. Si tratta piuttosto di spiegare che il bene e il male non sono separati da una barriera invalicabile. Anche se la barriera esiste sempre, superarla è molto più facile di quanto non si possa immaginare.
Nessuno di noi è al riparo dalla barbarie. Nessuno può sapere come si sarebbe comportato o come si comporterebbe in circostanze particolari. Anzi, tutti possiamo "banalmente" fare il male, perché barbarie e civiltà convivono in ogni essere umano. La cieca obbedienza al dovere può indurre chiunque ad agire senza riflettere. E quando si smette di pensare, non si è più capaci di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Il concetto di banalità del male non è dunque né un semplice slogan, come commentò Gershom Scholem al momento dell´uscita del libro di H. Arendt, né un modo per minimizzare quello che la stessa filosofa tedesca considerava la "più grande tragedia del secolo".
Al contrario. È forse l´unica possibilità per spiegare la radicalità del male umano: radicale proprio perché banale; radicale perché tutti possono farlo, talvolta banalmente, anche se alcune persone scelgono di non farlo. Non è difficile capire perché si faccia il male. La vera difficoltà è altrove: come si fa a fare il bene, quando è così facile scivolare nella barbarie, quando basta lasciarsi andare al flusso delle pulsioni per dimenticare la nostra comune umanità?


Il Secolo d'Italia 10.4.11
L'imputato Nietzsche
Un nuovo saggio fa il punto sul "processo politico" al filosofo tedesco:
profeta del nazismo o "spirito liberoi" illuminista? Forse nessuno dei due...
di Mario Bernardi Guardi
qui

Corriere della Sera 11.4.11
I cosiddetti «diari del duce»
Se la (mancata) filologia diventa ideologia
di Pierluigi Battista


Francesco Borgonovo è un giovane e bravo giornalista che cura le pagine culturali di Libero. Per difendere la tesi dell’autenticità dei cosiddetti «diari del duce» che il suo giornale «allega gratuitamente da alcune settimane» non trova di meglio, però, che buttarla in politica. E perciò decide di rintuzzare le tesi dello storico Mimmo Franzinelli, che sulla vicenda delle presunte agende mussoliniane ha dedicato Autopsia di un falso appena uscito da Bollati Boringhieri, sfoderando il consueto armamentario vittimistico purtroppo sempre più in auge nel centrodestra: quel libro infatti, secondo Libero, privo di persuasivi argomenti configurerebbe un barbaro e inconsulto «attacco ai nemici ideologici» . Un attacco ideologico sostenere che i «diari» pseudo mussoliniani portati alla ribalta oramai un anno fa da Marcello Dell’Utri siano molto più pseudo che mussoliniani? Per la verità anche Franzinelli la butta in politica quando sospetta che chi spaccia per genuine scartoffie che non furono scritte dal duce sia in realtà mosso da diabolici intenti «revisionistici» , eccetera eccetera. Ma almeno politicizza le interpretazioni, non i testi. La cornice culturale, non i documenti in quanto tali. Chi invece pubblica dei testi attribuendone la paternità a Benito Mussolini deve dimostrarne l’autenticità secondo criteri storici, filologici, grafologici, insomma scientifici, non secondo criteri di appartenenza politica. Non ha senso sostenere che il dubbio sull’autenticità degli pseudo-mussoliniani è di sinistra, mentre il prestare fede alla loro attendibilità sia di destra. I testi o sono veri o sono falsi. Con lodevole prudenza l’editore Bompiani aveva del resto avvertito il lettore, mettendoli in commercio, che si trattava di diari «veri o presunti» . Aveva accettato l’idea che si trattasse di scritti di paternità controversa. Libero no: i testi che allega li definisce, con perentorietà che non lascia margini a dubbi e contestazioni, «i diari del duce» . Ma nessuno storico autorevole e «indipendente» ne ha avallato l’autenticità. Al momento del molto eclatante «ritrovamento» di qualche anno, lo stesso senatore Dell’Utri aveva annunciato perizie scientificamente inattaccabili. Purtroppo non le abbiamo ancora viste. Ora lo stesso Dell’Utri promette che presto una perizia sgombererà il terreno da ogni perplessità. Vedremo. Con l’avvertenza che, a differenza di ciò che accade nelle vicende giudiziarie, l’onere della prova spetta a chi sostiene l’autenticità di documenti attribuiti a qualche protagonista della storia. E che dunque senza convincenti prove che ne attestino l’attendibilità, è legittimo avanzare il sospetto che si tratti di testi contraffatti. Gli attacchi «ideologici» non c’entrano niente. A meno che non si voglia arrivare che a decidere dell’autenticità di un testo sia autorizzato solo chi vince le elezioni. Un patacca. Ma una patacca a maggioranza.

l’Unità 11.4.11
Ora la Lega araba chiede all’Onu una no-fly zone anche per Gaza
Una «no-fly zone» su Gaza, per proteggere i palestinesi dai raid israeliani. È la Lega araba a formulare la proposta, prendendo ad esempio da quanto il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha deciso per la Libia.
di U.D.G.


La Lega Araba chiederà all’Onu una zona di esclusione aerea per Gaza, sul modello di quella da poco votata per la Libia. La “no-fly zone” servirà per impedire all'aviazione israeliana di bombardare l'area, spiega Amr Moussa, segretario generale della Lega Araba. «Abbiamo incaricato il gruppo arabo all'Onu di chiedere una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per chiedere che una zona di esclusione aerea sia imposta all' aviazione israeliana su Gaza», dichiara Moussa a margine di una riunione della Lega, al Cairo.
Il sostegno della Lega Araba per l'imposizione della stessa misura sulla Libia è stato fondamentale, ma è difficile, rilevano fonti diplomatiche occidentali al Palazzo di Vetro, che l'Onu prenda una decisione così drastica contro Israele alla luce del lancio di razzi di Hamas. In tutto, 18 palestinesi sono stati uccisi e quasi 70 feriti, secondo fonti mediche, dall'inizio di una nuova fase di violenze a partire da giovedì, quando un missile anti-carro lanciato da Hamas ha colpito un autobus, ferendo gravemente un adolescente in Israele. Si tratta del numero di vittime maggiore dalla fine dell'offensiva israeliana «Piombo fuso» contro la Striscia di Gaza, tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, quando morirono 1400 palestinesi e 13 israeliani.
APERTURE E MINACCE
Secondo radio Gerusalemme, Hamas ha fatto sapere a Israele di essere disposto a cessare gli attacchi in profondità contro le città del Neghev, rivendicando però il diritto di continuare azioni di guerriglia lungo la linea di demarcazione tra Gaza e Israele. A Gaza un portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha affermato che le milizie palestinesi non sono interessate a un'escalation.«Se Israele cesserà le aggressioni ha affermato in maniera naturale la calma tornerà ».
Secondo fonti palestinesi, Hamas stima che Israele voglia il ritorno al più presto della quiete per non trovarsi impelagato in una vasta operazione militare proprio durante l'imminente Pasqua ebraica. Mohammed Awad, ministro degli Esteri di Hamas a Gaza, ha detto alla stazione televisiva del gruppo “Al-Quds”, che è in cor-so «uno sforzo continuo» per fermare i combattimenti. «Posso dire che siamo in contatto con Egitto, Turchia e Nazioni Unite».
Da Gaza a Gerusalemme. Il ministro della difesa Ehud Barak ha assicurato che Israele non è interessato a estendere il conflitto e che se Hamas cesserà le ostilità, lo Stato ebraico farà altrettanto. «Ma se gli attacchi palestinesi contro civili o militari israeliani dovessero proseguire ha avvertito il premier Netanyahu Israele colpirà Hamas in maniera ancora più dura». E in serata, al termine di una riunione straordinaria del Gabinetto di sicurezza dello Stato ebraico, è stato ordinato all'esercito di «continuare a operare contro i terroristi per fermare i lanci (di razzi) su Israele».



Corriere della Sera 11.4.11
Scrittore insegue la vita con l’aiuto della psicoanalisi
Amore e bilanci nel romanzo di Alain Elkann
di Giorgio Montefoschi


«V ede — dice Vittorio Olmi, psicoanalista, al romanziere che da qualche tempo lo frequenta, seduto sulla poltrona di cuoio davanti a lui— sono convinto che per scrivere un libro importante, per essere un vero scrittore, si debba avere il coraggio di andare fino in fondo a se stessi» . Siamo all’inizio del nuovo romanzo di Alain Elkann, Hotel Locarno (Bompiani), un romanzo che come il precedente, L’equivoco, ha per protagonisti uomini in avanti con gli anni, dunque propensi — in una etàmatura e fragile— a considerare il tragitto della propria esistenza. Ma cosa può fare uno scrittore che va da uno psicoanalista a chiedere aiuto e consigli (poiché è bloccato, non riesce a buttar giù una riga), ed è terrorizzato dai sentimenti altrui, dal pericolo che la passione amorosa si trasformi in abitudine, se non provare, timidamente e con cautela, parola per parola, personaggio per personaggio, a inventare qualcosa, sperando che da questo qualcosa, da un abbozzo qualunque di trama, nasca quello spiraglio che potrebbe condurlo in fondo a se stesso? Nulla, perché gli scrittori non sono capaci d’altro. E così, il romanzo comincia. Con Michael, un critico d’arte settantenne, molto potente, australiano trapiantato a New York, dedito all’alcol; con le due donne della sua vita: la sudamericana Gabriela, invadente, conosciuta in una notte di sbornie a Ibiza, e la bionda Daisy (adesso sua moglie), incontrata in una mostra, più giovane di lui di circa trent’anni (bei capezzoli rosati, pelle morbida, spalle rotonde); infine, con Gloria, una sessantenne inglese protestante, vedova, che abita in campagna vicino a Manchester e ha messo un annuncio, allo scopo di trovare un altro cuore solitario, nientemeno che sul «Financial Times» . Cosa può nascere da questo abbozzo di trama (che lo psicoanalista incoraggia), in cui noi lettori fin da subito, pur nella girandola degli spostamenti e degli alberghi, di New York e di Ibiza, dei loft newyorkesi e delle bevute, dei trasporti amorosi e del sesso, scorgiamo un desiderio di pace e di tranquillità che nessun azzardo, nessuna spericolatezza mai ci garantisce? Può nascere un romanzo ironico e inquieto, e molto mosso, perché sia Michael, che Daisy, che Gabriela, (per non parlare della ineffabile Gloria, soprano mancato, dama di compagnia a New York addirittura di una Rockfeller, sposata con un dentista italiano di nome Vincenzo, e poi vedova, come s’è detto), pur di seguire le proprie ambizioni e i propri istinti, pur di annegare in qualche modo i vari naufragi dei rispettivi talenti, non si fermano davanti a nulla. Però, può anche nascere un romanzo (al quale persino lo psicoanalista vorrebbe partecipare, e partecipa a un certo punto, col racconto delle sue incertezze coniugali, e di una infanzia sofferente), nel quale la combinazione degli eventi e delle varie infelicità, coronata da un coup de théâtre finale decisamente brillante (sì, brillante: fra Roma e Napoli, con Gloria e Michael, e in treno), porterà per davvero lo scrittore in crisi a fare un pacato esame di coscienza, a scrutarsi in uno specchio limpido. Lì, riconoscerà che dal fondo di una insopprimibile malinconia ebraica, si distacca un desiderio altrettanto insopprimibile di carezzare la vita.
 
Corriere della Sera 11.4.11
Giustizia, le riforme goccia a goccia che producono iniquità e incertezze
di Luigi Ferrarella


Qualunque sia la loro parte in giudizio quando hanno la ventura di sperimentare tempi imprevedibili e procedure farraginose dei tribunali, cittadini e imprese conoscono bene quanto costi loro, e alla collettività, il non poter contare con certezza e uniformità sugli strumenti ordinari di risoluzione delle controversie. Sconfinata, dunque, sarebbe la prateria del consenso per legislatori che ponessero mano a una seria «manutenzione» di risorse, regole e contrappesi del sistema giudiziario. Peccato che la dichiarata intenzione meno di un mese fa della maggioranza di legiferare «per i cittadini» una «epocale» riforma della giustizia sembri sinora assumere curiose traduzioni. Infilano un emendamento che allarga in maniera generica la responsabilità civile dei magistrati, proprio nelle settimane in cui tre giudici d’appello del lodo Mondadori sono in camera di consiglio a decidere se l’azienda del «cittadino» Berlusconi deve o no pagare 750 milioni di euro per risarcire De Benedetti dei danni di una sentenza che la Cassazione ha stabilito comprata 20 anni fa da un avvocato dell’odierno premier nel suo interesse. Investono la Consulta del tentativo di dirottare il processo Ruby del «cittadino» Berlusconi sul Tribunale dei Ministri, alla cui eventuale richiesta di giudizio si sa già che 314 parlamentari negherebbero l’autorizzazione a procedere con la stessa nonchalance con la quale hanno trangugiato la storiella di Ruby nipote di Mubarak. Votano domani alla Camera un’altra chirurgica limatura di 8 mesi alla prescrizione degli incensurati, in modo che, combinata al taglio già di 5 anni propiziato dalla legge Cirielli nel 2005, incenerisca subito a maggio il processo Mills del «cittadino» Berlusconi e lo liberi dalle ambasce di dover convivere fino all’anno prossimo con l’incubo di una condanna in primo grado per corruzione giudiziaria. E poi piazzano al Senato una norma che impedisca ai Tribunali di sfoltire le liste di testi da elenco telefonico, in modo che il «cittadino» Berlusconi, nel processo sui diritti tv Mediaset dove oggi ascolterà discutere proprio della superfluità o meno della moltitudine di testimoni citati dalle difese, possa contare sul fatto che le eccezioni dei suoi avvocati legislatori trovino comunque accoglienza in Parlamento nella legge caldeggiata dai suoi legislatori avvocati. «Dal produttore al consumatore» può essere insegna confortante per i prodotti in salumeria, dove le leccornie di uno fanno l’utilità gastronomica di tutti, ma per le leggi sulla giustizia è deprimente in Parlamento, dove l’impunità per uno è ottenuta sacrificando i diritti di molti, le aspettative delle parti lese, gli interessi degli imputati. Chi in passato aveva patteggiato sulla base delle regole vigenti, in futuro con la prescrizione breve vedrà salvarsi i coimputati che a non patteggiare erano sembrati matti, e che ora invece le ultime estrazioni della «ruota della fortuna» legislativa agganceranno al «trenino» degli interessi processuali del premier. E chi ieri vittima di un reato nutriva qualche affidamento su un ristoro in giudizio, domani andrà a ingrossare la fila delle parti lese con un pugno di mosche in mano nei 170 mila fascicoli che ogni anno vanno in prescrizione già con le regole attuali. Prima e più ancora dell’impatto quantitativo sui processi, a dover dunque essere temute sono la strage qualitativa dei principi, l’iniqua disparità di trattamento goccia dopo goccia di norme estemporanee, la (in) certezza del diritto prodotta dal caotico stratificarsi di norme irrazionali e contraddittorie: appunto come la prescrizione breve agli incensurati, che va nella direzione opposta del «pacchetto sicurezza» di appena il 2008, e che nel solco della Cirielli fa discendere da qualità soggettive, come l’essere incensurati o recidivi, l’interesse oggettivo dello Stato a perseguire due autori ad esempio della medesima truffa per addirittura 3 anni di tempo in meno o in più. Visto che lo contrabbandano «processo europeo» , di europeo in tema di giustizia potrebbero prima fare qualcos’altro. Magari allinearsi alla direttiva per i pagamenti delle imprese da parte della Pubblica amministrazione in 30 giorni, anziché nei 128 di media che strozzano la dovuta liquidazione alle aziende di 37 miliardi di euro (il 2,4%del Pil): ma stranamente per l’approvazione definitiva dello Statuto delle imprese licenziato sinora in un ramo del Parlamento, un po’ come per la desaparecida nuova legge sulla corruzione annunciata più di un anno fa, non sembrano essere convocate sedute-fiume di ministri e peones, precettati invece per votare la prescrizione breve del processo Mills. Neppure farebbe male un approccio «europeo» ai numeri veri della giustizia, ad esempio per abbandonare il ritornello stantio dei 5 milioni di cause civili pendenti, quando ben 1 milione (cifra che da sola libererebbe nei tribunali più sprint di qualsiasi piano di «rottamazione» di cause fatte smaltire a cottimo da giudici non di professione) dipende già solo dal contenzioso previdenziale dell’Inps, scaricato sugli uffici giudiziari da ambiguità normative e furbizie elettorali. All’ «europea» andrebbero benedetti sia un meno barocco sistema di notifiche, capace di finirla con la farsa di sentenze che «saltano» per una notifica fatta anni prima bene a un avvocato ma male al domicilio del codifensore, e di azzerare i vizi formali che ogni giorno fanno rinviare 12 processi su 100; sia lo stop ai processi agli imputati irreperibili, per sgravare i tribunali dall’ingolfamento di questi processi ai «fantasmi» che l’Europa ritiene appunto tutti nulli, e che allo Stato costano però decine di milioni di euro di inutile «gratuito patrocinio» . E più di tutto è forse il carcere che il legislatore dovrebbe rendere «europeo» , tanto più che nel 2009 dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo arrivò la prima condanna dell’Italia per aver detenuto una persona in meno di 3 metri quadrati a testa: eppure oggi i detenuti in più rispetto alla capienza delle celle sono 22.280 persone, cioè 2.500 più di quanti fossero quando 15 mesi fa quando il governo dichiarò lo stato di emergenza e pluriannunciò un piano-carceri. Segno che solo sugli spot non cala mai la prescrizione.

Corriere della Sera 11.4.11
Un piano per salvare Pompei
Troppi errori nel passato, ora puntiamo sulla manutenzione
di Andrea Carandini


Pompei non si è trasformata in stratificazione come Roma. È stata coperta da lapilli nel 79 d. C., che l’hanno imballata intatta per il futuro. Purtroppo scavatori troppo avidi hanno tolto i lapilli e così il corpo della città ha cominciato a corrompersi dal Settecento e figuriamoci oggi come è ridotto. Grande parte della città, non protetta da coperture, ha perso gli ornamenti e si sfarina, e le parti inadeguatamente coperte vengono danneggiate da infiltrazioni. Un tempo giravano per la città una novantina di operai che suturavano fessure e pulivano gronde, ma il manipolo è da tempo svanito e gli archeologi si sono ridotti a uno. Chi è senza colpa? Tutti coloro che hanno operato a Pompei hanno lavorato bene e hanno compiuto errori: denari non spesi, incongrui capannoni, spese immotivate. Ora è venuto il momento di ricominciare con il giusto piede. La meraviglia di Pompei non sta nella planimetria. Conosciamo intere città antiche nelle due dimensioni, come Timgad in Algeria. Sta piuttosto negli elevati, nella conservazione dei dettagli e nei rari piani superiori. Ma questi possono essere documentati soltanto in rilievi a tre dimensioni, che ancora mancano e però essenziali alla tutela, alla conoscenza e alla comunicazione. Pompei è in gran parte inedita! Non si tratta solo di mosaici, pitture e stucchi, ma di quell’insieme di strutture e apparati decorativi fissi che ne formano l’inscindibile essenza. Per proteggere e apprezzare Pompei occorre dominarla con precisione, problema un tempo quasi impossibile, ma oggi risolvibile grazie ai rilievi a nuvole di punti. Pompei si salva, più che con riparazioni a danno avvenuto, con opere modeste e diffuse di manutenzione periodica. La manutenzione è diventata un metodo programmato che è stato elaborato dall’architetto Roberto Cecchi, oggi segretario generale del ministero. Prima lo ha sperimentato negli edifici medievali e moderni e poi, da commissario straordinario, lo ha esteso alle rovine di Roma. Il Consiglio superiore dei Beni culturali ha proposto infine di allargarlo a tutte le rovine antiche del Paese, quindi anche a Pompei. Un recente decreto consente finalmente di assumere trenta archeologi e quaranta operai, e poi vi è da contare sul finanziamento ottenuto per lo stesso decreto e vi è forse da sperare anche in un finanziamento europeo. Alla buona tutela deve accompagnarsi la gestione della sicurezza, dei servizi e dell’accoglienza. I visitatori — abitanti attuali di Pompei — apportano ventimilioni di euro l’anno, essenziali alla conservazione del sito. Evidenti sono dunque le necessità manageriali, ma un modello funzionante e condiviso non è stato ancora trovato, per cui la discussione rimane aperta. Più facile è impostare la conoscenza sistematica del tessuto urbano e la sua comunicazione al pubblico: i rilievi tridimensionali consentono di entrare in ogni edificio privato e pubblico tramite schermo, il che serve a definire precisamente e periodicamente i diversi gradi di vulnerabilità di costruzioni e decorazioni e a conoscere il monumento stesso; per non dire poi della loro assoluta indispensabilità in caso di sisma. I rilievi consentono anche di ricostruire graficamente i piani superiori, in modo da restituire gli edifici nella loro integrità, compresi mobilia e corredi. Infine l’analisi stratigrafica degli elevati consente di narrare la storia degli isolati negli ultimi secoli della città, per non rimanere ancorati al solo momento dell’eruzione. A questo proposito il Consiglio superiore ha auspicato una cooperazione fra il ministero dei Beni culturali e le università italiane che abbiano competenze di archeologia sul campo, le quali potrebbero adottare uno o più isolati, a partire da quelli solo in parte scavati e a ridosso degli interri, dove la minaccia di crolli è maggiore. A tali adozioni scientifiche si potrebbero accompagnare adozioni per la conservazione finanziata da privati. La soprintendenza dovrebbe garantire un metodo unitario, onde rendere i risultati comparabili e cumulabili. Si tratta di affrontare una novantina di isolati in tempi ragionevoli. Pompei rimarrà sempre un oggetto irraggiungibile: mai potrà aprire al pubblico tutte le case, ma qui potrebbe soccorrere un museo virtuale di Pompei su Internet, che permetterebbe anche a chi vive a Tucson, in Arizona, di curiosare in ogni stanza dell’abitato, prima di visitarlo. Serve in conclusione a Pompei un grande progetto culturale, tecnologicamente sofisticato, che si orienti verso uno scopo di conservazione e di apertura conoscitiva al mondo.

l’Unità 11.4.11
L’occhio bionico

Dal Giappone la retina costruita in provetta
di Cristiana Pulcinelli


Una retina costruita in provetta. Il primo passo per ottenere un occhio bionico. Un risultato importante e inaspettato quello raggiunto da un gruppo di ricercatori giapponesi che, infatti, hanno ottenuto che alla loro ricerca fosse dedicata la copertina dell’ultimo numero di Nature.
La retina è di topo ed è stata costruita grazie alle cellule staminali. Si tratta del tessuto biologico più complesso costruito finora in laboratorio e potrebbe aprire la strada alla cura di alcune malattie che colpiscono l’occhio umano, comprese alcune forme di cecità. Naturalmente la tecnica deve essere adattata alle cellule umane e si deve dimostrare che il trapianto dell’occhio artificiale sia sicuro, cose che richiederanno probabilmente anni. Tuttavia, un’applicazione che già si può avere della nuova tecnica è aiutare gli scienziati a studiare le malattie degli occhi e a cercare delle nuove terapie, inoltre la stessa tecnica potrebbe essere utilizzata per guidare l’assemblaggio di altri organi e tessuti. La struttura è stata creata da Yo-
shiki Sasai del Riken Center for Developmental Biology a Kobe, in Giappone. Il gruppo di ricerca ha fatto crescere le cellule staminali embrionali di topo in un nutriente contenente le proteine che spingono le staminali a trasformarsi in cellule della retina. All’inizio le cellule formavano ammassi di cellule della retìna, ma già nella settimana successiva, l’ammasso informe cominciava a trasformarsi in una struttura che si osserva nello sviluppo normale dell’occhio, il calice ottico.
I ricercatori non sanno se il calice ottico ottenuto possa vedere la luce o trasmettere gli impulsi al cervello, e questo è quello che vogliono scoprire in futuro. Ma intanto la scoperta più stupefacente è la capacità delle staminali embrionali di lavorare autonomamente, le cellule del topo infatti sono riuscite a coordinarsi e a ricomporsi in strutture diverse per dare vita a un organo complesso.