mercoledì 13 aprile 2011

l’Unità 13.4.11
Articolo 88

Massimo D’Alema: «Mi sia consentito di leggere la prima riga dell'articolo 88: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere”. E più che una lettura è un auspicio».

l’Unità 13.4.11
«Il ministro Alfano è un irresponsabile. Questa è un’amnistia»
Il capogruppo del Pd in commissione giustizia commenta la 20esima legge salva-premier: «Perché chi è incensurato deve farla franca? Che principio è?»
di Claudia Fusani


Legge salva premier numero 20. Parlamento avvocato difensore del premier. Cosa le fa più rabbia? «Tutto quello che non è stato fatto e che si poteva fare per i cittadini. E’ allucinante che il Parlamento sia stato occupato dall’inizio della legislatura unicamente a ricercare strumenti per intervenire a gamba tesa nei processi del Presidente del Consiglio. Hanno cominciato con il blocca processi, poi il lodo Alfano, poi il legittimo impedimento, poi il processo breve, oggi stanno forzando sulla prescrizione breve per togliere da torno definitivamente il processo Mills dove Berlusconi rischia una condanna con la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. E che dire dei continui tentativi con cui la maggioranza ha cercato di infilare norme insidiose nei provvedimenti più vari? Ormai quando viene annunciata una nuova proposta di legge in tema di giustizia è automatico chiedersi “dov’è la fregatura?”. E non si smentiscono mai. Perché la prescrizione breve è un danno?
«Perché riduce irragionevolmente i tempi che lo Stato ha a disposizione per accertare la responsabilità penale. L’effetto sarà quello di un’amnistia incontrollata perché i calendari dei processi sono stati predisposti in base alle attuali norme della prescrizione. Sarà il caos».
Il ministro Alfano parla di 170 mila prescrizioni l’anno, la prescrizione breve ne aggiungerebbe un altro 0,2%. «E’ stato un intervento astratto e sganciato dalla realtà. I silenzi e l’omertà del ministro sui reali effetti delle nuove norme sono da irresponsabile. Un ministro garante del funzionamento del sistema giudiziario non avrebbe dovuto permettere neanche l’inizio di un provvedimento di cui non si conosce la reale portata ».
La maggioranza accusa le opposizioni di strumentalizzare. Strage di Viareggio, i crolli del terremoto: cosa rischiano veramente questi processi?
Moltissimo. Viareggio è il caso emblematico di un processo molto complesso, con decine di parti civili e la necessità di lunghi e rigorosi accertamenti. Intervenire sulla durata massima della prescrizione del reato in questo processo è di per sé sbagliato e può avere effetti drammatici. Le vittime esigono giustizia ed è incomprensibile che il legislatore si schieri dall’altra parte. Perché un imputato, seppur incensurato non dovrebbe pagare per una strage? La maggioranza non dà risposte, fa ammuina per nascondere questo scempio.
Più in generale quali sono gli effetti collaterali del pdl 3137? «Per prima cosa di principio. Perché se un imputato è incensurato deve farla franca? Più in generale dico che queste norme rappresentano un duro colpo alla lotta alla corruzione. E anche un solo processo per corruzione prescritto sarebbe una grave sconfitta per lo Stato: una vera e propria istigazione a delinquere.
Esistono margini per sollevare eccezione di costituzionalità quando la norma arriverà nei tribunali? La norma Paniz viola sicuramente il principio di uguaglianza dei cittadini e l’articolo 111 della costituzione sul giusto processo e sulla durata ragionevole dei processi che si devono concludere con una pronuncia di merito che riconosca il diritto delle vittime. I deputati della maggioranza le sembrano, in privato, colti dal dubbio?
«I malumori ci sono e profondi. In commissione più di un deputato della maggioranza ha fatto trasparire inquietudine per queste norme e per una legislatura segnata da un eccessivo interventismo in materia di giustizia. Nel caso Ruby qualcuno mi ha addirittura confidato di essere stato ripreso dalla madre perché «a tutto c’è un limite». Un tempo aiutare Berlusconi significava aiutare una parte del paese. Adesso si muove in totale solitudine. La situazione gli si è avvitata addosso».

il Fatto 13.4.11
La favola del processo breve
di Gian Carlo Caselli


Noi italiani siamo convinti di essere molto furbi. Più furbi degli altri e orgogliosi di ciò. Non c’è barzelletta che abbia come protagonisti, per dire, un francese, un tedesco e un italiano che non ci veda prevalere alla grande. Ma forse siamo cambiati. Perché ormai ce le beviamo tutte con allegria. Da tempo, infatti, ci prendono in giro e siamo contenti. Ci ingannano e godiamo. Cadere in trappola ci inebria.
Formule come “riforma (epocale) della giustizia” e “processo breve” sono né più né meno che ipocrisie degne della peggior propaganda ingannevole. Se le parole avessero ancora un senso, e non fossero usate come conigli estratti da un cilindro, sarebbe chiaro che di riforma della giustizia si potrebbe parlare soltanto se si facesse qualcosa per accelerare la conclusione dei processi. Ma se non si fa niente in questa direzione, parlare a vanvera di riforma della giustizia equivale a sollevare spesse cortine fumogene intorno al vero obiettivo: che è quello di mettere la magistratura al guinzaglio della maggioranza politica del momento (oggi, domani e dopodomani), buttando nella spazzatura ogni prospettiva di legge uguale per tutti.
QUANTO AL SEDICENTE “processo breve”, siamo al gioco di prestigio. La riforma, infatti, avrebbe come effetto non un processo breve ma un processo ammazzato a tradimento (con l’aggravante dei futili motivi). Ovviamente schierarsi contro il processo breve è da folli. Sarebbe come rifiutare una medicina efficace contro il cancro. Qui però non si tratta neanche dell’elisir di Dulcamara! Non basta urlare a squarciagola che il processo sarà breve. Occorre fare qualcosa di serio (procedure snellite; più mezzi agli uffici giudiziari) perché si possa arrivare a sentenza in tempi più rapidi. Se non si fa nulla è come proclamare ai quattro venti che la squadra di calcio del Portogruaro vincerà sicuramente la Champions, confidando nella disattenzione o dabbenaggine di chi ascolta.
ORA, COME per vincere la Champions ci vuole una squadra attrezzata, così per avere un processo davvero breve ci vogliono interventi che il processo lo facciano finire prima: ma finire con una sentenza nel merito (innocente o colpevole), non con una dichiarazione di morte per non aver rispettato un termine stabilito ex novo, più o meno a capocchia. In verità la riforma ha un sapore di truffa (verbale), perché i tempi non saranno ridotti ma castrati, ed i processi non saranno abbreviati ma morti e sepolti. In parole povere: si fissa un termine che deve essere rispettato a pena di morte senza minimamente preoccuparsi del fatto che l’attuale sfascio del sistema non consentirà di rispettarlo in una infinità di processi. È come pretendere che un palombaro vestito da palombaro percorra i cento metri in pochissimi secondi, sennò muore. Assurdo, esattamente come il sedicente processo “breve”. Una mannaia che impedirà di accertare colpe e responsabilità e concluderà il processo con un’attestazione di decesso (estinzione) tanto burocratica quanto definitiva e tombale. Uno schiaffo alla fatica che le forze dell’ordine compiono per assicurare alla giustizia fior di delinquenti. Uno schiaffo al dolore e alla sofferenza delle vittime dei reati.
UNO SCHIAFFO alla sicurezza dei cittadini. Proprio quella sicurezza su cui sono state costruite solide fortune elettorali. Sicurezza che ora diventa – di colpo – roba di scarto, rivelando con assoluta evidenza come il tema sia considerato un’opportunità da sfruttare biecamente, anche gabbando la povera gente, più che un problema da risolvere. E tutto questo perché? Per fare un favore a LUI, all’altissimo (ed ecco i futili motivi). Non sfugge a nessuno, difatti, che l’obiettivo vero non è tanto ammazzare migliaia di processi, quanto piuttosto sopprimere – nell’ammucchiata – anche quel paio di cosucce che appunto interessano a LUI. Con tripudio di un esercito di scippatori , borseggiatori, topi d’alloggio e ladri assortiti, truffatori, sfruttatori di donne, spacciatori di droga, corruttori, usurai, bancarottieri, estortori, ricattatori, appaltatori disonesti, pedofili, violenti d’ogni risma, operatori economici incuranti delle regole che vietano le frodi in commercio e tutelano la salute dei consumatori, imprenditori che spregiano la sicurezza sui posti di lavoro e via elencando... Questo catalogo già sterminato di gentiluomini che la faranno franca, che si ritroveranno impuniti come se avessero vinto al totocalcio senza neppure giocare la schedina, si “arricchirà” all’infinito con la cosiddetta “prescrizione breve”: un’altra misura che sa di presa per il naso, l’ennesima leggina “ad personam” (meglio, la fotografia di LUI in persona) che fa a pugni col principio di buona fede legislativa. Sarebbe poco se fosse una di quelle barzellette che il premier usa raccontare in pubblico per il divertimento di chi ama l’ossequio servile. Invece si tratta di una bastonata in testa a una giustizia che già sta affogando. Una catastrofe per l’Italia, perché il feudo di Arcore possa continuare a svettare sulla palude nella quale annaspano i comuni mortali in cerca di giustizia.

Corriere della Sera 13.4.11
L’inganno delle definizioni
di Michele Ainis


E' uno scandalo la prescrizione breve? E in generale è un insulto al senso di giustizia la prescrizione dei reati, quali che siano le sue modalità concrete? Al contrario: questo istituto attinge alle ragioni stesse del diritto. Altrimenti non ci spiegheremmo perché mai fosse già noto all’esperienza giuridica ateniese non meno che a quella romana.
Sotto Giustiniano, infatti, i delitti si prescrivevano in vent’anni, ma anche allora c’erano casi di prescrizione più breve). Non capiremmo perché sia regolato nei codici d’ogni Paese al mondo. Resteremmo increduli scoprendo che il decorso del tempo fa estinguere altresì i diritti, i crediti, le indennità lavorative. Nel campo penale, la ragione è presto detta. Dipende dalla funzione della pena, che non è un castigo divino, non è la dannazione eterna che t’insegue fin dentro la tomba. La pena mira a soddisfare un’esigenza umana, di noi dannati della terra. E quando la polvere del tempo copre l’allarme sociale che circonda ogni delitto, non ha più senso impugnare il bastone della legge. Perché quella società offesa dal reato non c’è più, è diventata un’altra. Perché anche il reo è diventato un altro uomo, sicché punirlo sarebbe come fargli scontare le colpe di suo nonno. Perché infine ciascuno ha diritto a un orizzonte di libertà, mentre l’attesa perpetua della pena si tradurrebbe in una pena perpetua. A meno che il crimine commesso non sia tanto efferato da trascendere la storia: l’omicidio è un delitto senza tempo, e infatti è imprescrittibile. No, non è la prescrizione il peccato che ci spedirà all’inferno. Non è neppure il diavolo con le sembianze di Silvio Berlusconi, se vogliamo misurare i problemi laicamente, senza pregiudizi, senza vade retro. E non è l’accorciamento del termine di prescrizione per gli incensurati, che dopotutto ha una sua ragionevolezza. Tuttavia quest’ultima diventa irragionevole se la caliamo nell’ambiente giuridico italiano, qui e ora. In primo luogo per l’incontinenza del nostro legislatore: magari ci avranno fatto caso in pochi, ma la prescrizione breve ce l’abbiamo già. Quella battezzata nel 2005 dalla legge ex Cirielli, che ha sforbiciato i termini per i reati meno gravi. Però a forza di stirare come un elastico il tempo della prescrizione si contraddice l’aspirazione alla certezza, che è alla base della stessa prescrizione. E a prendere sul serio le parole, quest’ultima creatura andrebbe denominata brevissima, per distinguerla dalla precedente. Ecco, le parole. Innervano da sempre la politica, ma pure il diritto è intessuto di parole, fin dall’epoca delle XII Tavole. Il guaio è che le parole della legge sono diventate false, ingannatrici. Evocano un permesso di soggiorno temporaneo per i tunisini, non con l’intenzione d’ospitarli, bensì per espellerli, a nord anziché a sud. Chiamano interventi umanitari le nostre guerre in Libia, in Afghanistan, in varie altre contrade. Promettono il testamento biologico nell’atto stesso in cui lo negano. Forgiano una legge elettorale che in realtà sostituisce la cooptazione all’elezione. Per forza i cittadini ne diffidano. Dei politici, e per conseguenza delle leggi. E il processo breve? C’è forse qualcuno che lo preferirebbe lungo? Ma per ottenerlo dovremmo tagliare il troppo diritto che appesantisce i nostri troppi tribunali (1.292, il doppio dell’Inghilterra o della Spagna). Dovremmo depenalizzare, anche perché 35 mila fattispecie di reato significano carceri affollate come il metrò di Tokyo. Dovremmo sfoltire procedimenti e riti (quelli civili sono 34). Noi invece seghiamo i processi, come se 170 mila prescrizioni l’anno non fossero abbastanza. L’incongruenza, ecco il vizio di quest’ultima riforma. Se la giustizia italiana fosse una gazzella potrebbe funzionare. Siccome è una lumaca, finirà per ammazzarla.

l’Unità 13.4.11
Progetto di legge firmato da Gabriella Carlucci e altri 18 deputati per stanare i «comunisti»
All’indice i testi Il Pd: preoccupante. Gelmini: ma il problema esiste davvero...
Libri di Storia, il Pdl vuole la commissione d’inchiesta
Non paghi di leggi ad personam 19 deputati Pdl hanno chiesto l’istituzione di una Commissione d’inchiesta sui libri di Storia. Secondo loro sono di parte e vanno cambiati. La Storia oggettiva è tipica delle dittature...
di Fabio Luppino


Definire Alcide De Gasperi «uno statista formatosi nel clima della tradizione politica cattolica» è un «tentativo subdolo di indottrinamento» presente nel libro di storia contemporanea scritto da della Peruta-Chittolini-Capra. Un testo eversivo a tal punto, questo come altri, da richiedere l’istituzione di una Commissione d’inchiesta parlamentare «sull’imparzialità dei libri di testo scolastici», in particolare quelli di storia. La prima firmataria del progetto di legge è Gabriella Carlucci, ma i deputati indignati del Pdl sono già 19 e il testo presentato il 18 febbraio è stato assegnato alla commissione Cultura della Camera il 14 marzo. Quindi, se ne discuterà presto.
Un’«emergenza nazionale» che il Pdl vuole risolvere subito. Secondo i firmatari i libri di storia sono pieni di «visioni ufficiali» asservite al centrosinistra e pericolose per le giovani generazioni. Per esempio è incredibile leggere nel De Bernardi-Guarracino che dal 1948 «l’attuazione della Costituzione sarebbe diventato uno degli obiettivi dell’azione politica delle forze di sinistra e democratiche»; ancora più grave trovare nell’Ortoleva-Revelli, noti storici sovversivi, questa definizione di Oscar Luigi Scalfaro: uomo distintosi «per il rigore morale e la valorizzazione delle istituzioni parlamentari». Ancor più colpevole il Della Peruta-Chittolini-Capra che definisce Enrico Berlinguer «un uomo di profonda onestà morale e intellettuale, misurato e alieno alla retorica». Per gli affaccendati deputati Pdl sarebbero tutte descrizioni false e soprattutto fuorvianti.
E così, interpretando a loro dire una preoccupazione nazionale, si chiedono nella premessa del progetto di legge: «Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano?». Gli illustri deputati dovrebbero ricordare che i nostri soldi vengono spesi anche per pagare i loro ricchissimi stipendi in nome della Costituzione repubblicana, in virtù della quale non era pensabile che un giorno qualcuno avesse la bella idea di presentare un progetto dal vago sapore fascisteggiante. Gelmini e Carlucci soggiungono che il problema c’è. In realtà non è la Storia che interessa gli scriventi. La memoria che loro devono salvaguardare è quella del loro capo carismatico, Silvio Berlusconi. Nel testo di Revelli, per esempio, è scritto che nel ‘94 «l’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d’Italia, alla Corte Costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese». Anche questo un falso eclatante, un giudizio non storico. Sarebbe tedioso e cattedratico spiegare come si fa Storia a chi si vuole ergere a difensore di una storia, quella di Silvio Berlusconi. Anche perché questo progetto è in piena armonia con la definizione data dal premier sugli insegnanti della scuola pubblica che «inculcano valori diversi rispetto a quelli delle famiglie». «Se non ci fosse da preoccuparsi ci sarebbe solo da ridere osserva Francesca Puglisi, responsabile scuola pd -La maggioranza in tre anni ha progressivamente distrutto la scuola pubblica, umiliato chi ci studia, offeso chi ci lavora».
A mala pena si fa, l’ora di Storia.
Nel progetto di legge del drappello di censori guidati da Gabriella Carlucci vengono citati quattro libri in odore di «eresia». Ne bastano quattro dicono i rappresentanti del Pdl «per capire la gravità della questione». I manuali scolastici interdetti sono: «La storia» di Della Peruta-Chittolini-Capra (Le Monnier), «Elementi di storia» di Camera-Fabietti (Zanichelli); «Storia», volume III, di De Bernardi-Guarracino (Bruno Mondadori) e «L’età contemporanea» di Ortoleva-Revelli (Bruno Mondadori).
Tra le frasi incriminate, estrapolate dal proprio contesto, quindi manipolabili, oltre alle definizioni di alcuni politici della nostra storia passata e recente, alcune osservazioni che sottoponiamo alla vostra attenzione. «Il Pds è scritto in «La storia» intende proporsi come il polo di aggregazione delle forze democratiche e progressiste italiane» con «un programma di riforme politico sociali miranti a rendere più governabile il Paese». In «Storia» si legge che dal 1948 «l’attuazione della Costituzione sarebbe diventato uno degli obiettivi dell’azione politica delle forze di sinistra e democratiche». Camera e Fabietti, infine, sono rei di aver detto del premier: «con Berlusconi al governo, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro»; «l’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d’Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese».
Le associazioni degli storici sono già sul piede di guerra, si faranno sentire e chiederanno ai rettori delle università di fare altrettanto.

l’Unità 13.4.11
Alberto De Bernardi
«E dire che io sarei un revisionista...»
Nel mirino una sua frase sugli anni Cinquanta Contemporaneista, ha studiato la Resistenza. Ma anche il fascismo letto come «dittatura moderna»
di Maria Serena Palieri


Alberto De Bernardi, contemporaneista dell’università di Bologna, è autore del terzo volume del manuale di storia per le superiori firmato insieme con Scipione Guarracino ed edito da Bruno Mondadori. E ha un dubbio: «Chi fa queste selezioni guarda le statistiche. Il nostro manuale è semplicemente tra i più frequentati nelle scuole. L’onorevole Carlucci ha letto le 5.000 pagine dei testi che mette all’indice? No, avrà incaricato un collaboratore che ha trovato quella frase...». Il passaggio incriminato, in effetti, è nel suo caso particolarmente anodino: dice che dal 1948 «l'attuazione della Costituzione sarebbe diventato uno degli obiettivi dell'azione politica delle forze di sinistra e democratiche». Verità storica o giudizio politico? «È un fatto. Tutta la storia degli anni Cinquanta vede la battaglia per l’applicazione della Costituzione. Da un lato i “democratici”, e qui intendo la sinistra, ma anche azionisti,laici, Calamandrei, dall’altro le forze di governo. Perché fosse creato il Csm abbiamo dovuto aspettare il 1961, per le Regioni gli anni Settanta. Applicare la Costituzione significava, tra l’altro, applicare l’articolo sul divieto di riorganizzazione del partito fascista, questione che ancora oggi ricorre. Ma questa è verità acclarata. Ne scrive anche Pietro Scoppola nella Repubblica dei partiti».
Lei ha studiato la Resistenza e il “modello emiliano”. È stato impegnato nel «Gramsci» emiliano. L’onorevole Carlucci ha visto giusto: è comunista?
«Nella mia comunità di riferimento, la comunità degli storici, sono stato classificato molte volte semmai come revisionista.Ho studiato anche il fascismo proprio per rivedere un paradigma classico. E il titolo del mio libro, Una dittatura moderna, è eloquente».
È la prima volta che viene messo all’indice? «Successe già ai tempi in cui Storace ideava una specie di comitato di controllo sui libri di testo».
Perché vogliono impallinarla?
«Per ignoranza. L’onorevole Carlucci non conosce la storia. E quindi attribuisce i fatti a una sorta di centrale comunista storiografica».
Lo storico è obiettivo? Può esserlo lo storico del Novecento? «La verità storica non esiste in sé: è il risultato dello sforzo interpretativo di generazioni successive di studiosi. Ma questo non vuol dire che il giudizio scientifico sia accumulabile al parere della persona qualunque. Che lo storico sia di destra come di sinistra. Il contemporaneista ha un lavoro più difficile. Dev e stare attento a non cadere nei tranelli della memoria personale degli avvenimenti che studia«.
Ora, professore, cosa pensa di fare?
«C’è una mobilitazione degli storici. Nei prossimi giorni faremo sentire la nostra voce».

l’Unità 13.4.11
Le mani sulla Storia
Ma chi accusa non sa di cosa parla
È palesemente evidente l’ignoranza degli estensori della proposta di legge Pdl Nemmeno il Fascismo prevedeva commissioni ministeriali sui manuali...
di Bruno Gravagnuolo


Le mani sulla storia, atto terzo. E dopo le sortite di Storace nel 2001 e di Adornato nel 2002, sulla «storia di sinistra» a scuola da ricalibrare e filtrare, torna la guerra civile culturale della destra sulla manualistica. Con la proposta di legge Carlucci, intesa come Gabriella, di istituire una commissione di inchiesta sull’imparzialità dei libri di testi scolastici, depositata il 18 febbraio scorso, e sottoscritta da 18 deputati Pdl.
Le prime due puntate, come è noto, naufragarono in un mare di ridicolo. Con Storace che rimase completamente isolato, e Adornato, a quel tempo forzista, a sua volta costretto a rimangiarsi l’idea da lui lanciata in Commissione cultura alla Camera (con i buoni uffici dell’indimenticabile sottosegretario Valentina Aprea). E cioè: occorreva vigilare istituzionalmente sull’«oggettività della storia». Minata dalla faziosità imperante della cultura egemenica di sinistra.
A quel tempo ad Adornato e Storace diede torto persino Giovanardi: «Discorso irricevibile», dixit Giovanardi medesimo, benché il problema «esistesse», di là «del modo».
E oggi però tornano sia il modo che la sostanza di allora. Segno che questa destra perde il pelo ma non il vizio. E cioè: il Pdl invoca controllo e censura preventiva sui libri di storia nelle scuole, e contesta tutta una serie di manuali in vigore. A detta di Carlucci, e dei magnifici 18, «vergognosi». Per giudizi di merito sugli ultimi decenni e su Berlusconi. E insomma storia da sorvegliare e punire, previa esclusione dai programmi di certi libri non graditi. A motivo del loro «tentativo di indottrinamento per plagiare le giovani generazioni a fini elettorali». Il tutto, argomentano i «carlucciani», in base a una visione della storia «asservita al centrosinistra» e di pura marca gramsciana, intrisa di «casamatte» da presidiare e conquistare, e di subdola egemonia comunista.
E quali sono i testi incriminati? Eccoli: Della Peruta-ChittoliniCapra (Le Monnier); Camera-Fabietti (Zanichelli) e De Bernardi-Guarracino (Bruno Mondadori). Nel piccolo ridicolo campione (ridicolo in quanto esiguo) mancano altri importanti testi aggiornatissimi. Ad esempio Il Salvadori (Loescher), il Villari (Laterza), il Sabbatucci-GiardinaVidotto(Laterza), il Trainiello(Sei),
per non dire del celebre Saitta, marxista divenuto liberale. Ma il campioncino di testi altresì illustri, grottescamente manipolato o frainteso, previe citazioni estrapolate, basta ai deputati Pdl per gridare allo scandalo. Ad esempio si inorridisce perché nel Della Peruta, massimo studioso del Risorgimento vivente, si legge che «Togliatti era duttile, intelligente e capace di visioni generali». Che «Berlinguer era uomo di profonda onestà, alieno dalla retorica». E che «De Gasperi era uno statista formatosi nella tradizione cattolica». Così come, citando passim dall’interrogazione Pdl, ci si indigna perché nel Guarracino si sostiene che la Costituzione «era uno degli obiettivi delle forze di sinistra e democratiche» (invece di dire magari che l’obiettivo erano golpe e gulag). Infine due giudizi positivi, uno su Oscar Maria Scalfaro e l’altro su Rosy Bindi, uno nell’ OrtolevaRevelli (Bruno Mondadori) e l’altro nel Camera-Fabietti fanno fremere di rabbia i 18, più che mai decisi a smascherare l’inganno di un’ideologia comunista e giudiziaria, che sopravvive e si rilancia «malgrado il crollo del Muro di Berlino».
Intanto, oltre alla ripetitività, colpisce l’ignoranza degli estensori della proposta di legge sulla super-commissione. Non solo essi ignorano che giudizi come quelli sul Togliatti, Berlinguer e De Gasperi sarebbero sottoscritti persino da Reagan e Bush Jr, oltre che esserlo già dagli storici più seri. Ma non hanno alcuna percezione e nozione di che cosa sono, e quanti sono i manuali di storia in uso nelle scuole. Di che pasta sono fatti, e di quali questioni soriografiche sono impastati, a partire dagli ultimi decenni. Intanto è falso che quei testi siano di sinistra gramsciana. Non lo è il Salvadori, critico di Gramsci e assertore della visione comparatista: tra totalitarsismi di destra e di sinistra. Non lo è, «gramsciano», il Sabatucci-Giardina-Vidotto, testo ispirto piuttosto a Rosario Romeo e Renzo de Felice, e al più liberal-progressista con un occhio alla revisione dell’idea del fascismo come «male assoluto». Non lo è, gramsciano e comunista, il Trainiello, aperto a De Felice, all’antigiacobino Furet, e naturalmente al popolarismo di Don Luigi Sturzo. Quanto ai tre manuali demonizzati dai 18, l’ispirazione di sinistra è evidente, ma non è vero , come ripete a pappagallo la destra, che il CameraFabietti non parli delle foibe (lo fa con dovizia e chiamate di responsabilità precise a Tito e al Pci, nelle pagine sul dopo-45). E d’altra parte alcuni giudizi negativi su Berlusconi in certe pagine dello stesso manuale sono ampiamente compensati da giudizi più «realistici» nel Sabbatucci, che in Berlusconi bene o male vede un artefice del bipolarismo. La verità è che questa destra è ancor più censoria del fascismo, che non aveva commissioni preventive sui libri, ma manovrava a valle la censura. Mentre oggi si vuole tornare alla legge Casati del 1859, che prevedeva filtro ministeriale a monte, abolita nel 1945-46. Perché? Per «occupare» la storia, e riscrivere le basi costituzionali della Repubblica. Ma anche per buttare la palla in tribuna, infuocare la rissa ideologica e lucrare sul vittimismo del Caimano. Su «assist» del medesimo.

l’Unità 13.4.11
Franco Della Peruta
«Messo all’indice?. È la prima volta...»
Al suo manuale vengono contestati i giudizi su Togliatti «uomo politico intelligente e duttile» e quello su Berlinguer: «profonda onestà morale»
di Maria Serena Palieri


Accademico dei Lincei, considerato lo studioso maggiore del nostro Risorgimento, 87 anni a giugno, Franco Della Peruta è autore con Giorgio Chittolini e Carlo Capra de La Storia (Le Monnier), uno dei subdoli testi che sarebbero in apparenza manuali scolastici in realtà materiale agit-prop, che la pattuglia pidiellina vorrebbe far scomparire dalla scuola pubblica. Dopo un sessantennio di studi sull’amato Mazzini, su Cattaneo (letto in chiave antileghista), su donne e operai (la storia «vista dal basso») si è concesso il manuale, nel 2003, quasi a ottant’anni: «Un po’ per sollecitazione degli editori. E perché, sulla base di studi accumulati, pensavo di poter fare una cosa non indecorosa» spiega con understatement. Professore, le era già capitato di essere messo all’indice? E che effetto le fa? «Che io sappia è la prima volta. Resto tranquillo, come prima». Le censurano il giudizio su Togliatti «uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generalì» e su Berlinguer «uomo di profonda onestà morale e intellettuale, misurato e alieno alla retorica». Lei, oggi, li confermerebbe?
«Parola per parola».
Anche De Gasperi «statista formatosi nel clima della tradizione politica cattolica» non è gradito. «È una verità storica. Ed era una valutazione positiva».
Strano che non piaccia, visto che Berlusconi stesso si è paragonato più volte a De Gasperi. Ma veniamo al problema di fondo: lo storico può essere obiettivo?
«Può esistere un’onestà intellettuale. La realtà storica, però, è quella che si forma nella mente dello storico, quindi è soggettiva. Benedetto Croce riassumeva così, magnificamente, la questione in napoletano: “la storia è la capa dello storico che ce sta ‘rentro”. L’obiettività assoluta non esiste, la questione è sempre quella di un equilibrio tra informazione e conoscenza».
La storia è scienza?
«Sì. Non è fantasia, non è opera poetica, lirica. Poggia su documenti. Ma anche la scienza è soggettiva».
Negli ultimi anni alla scuola sono arrivate sollecitazioni crescenti perché si studiasse il Novecento. Fare storia di un’epoca che si è vissuta in prima persona crea problemi di obiettività maggiori?
«No, perché la storia è sempre narrazione di un passato. E che sia il ‘600 o il 1948 il metodo resta quello».
Dal 1994 i manuali scolastici di storia hanno ricevuto ricorrenti attacchi. Perché, a suo parere? «Storia e scuola sono due grandi agenzie formative. Insegnare storia non è come insegnare latino o matematica: insegni un modo di ragionare, trasmetti dei parametri intellettuali. E, quindi, la politica ha per la storia un’attenzione privilegiata».

l’Unità 13.4.11
Nel Paese di Berlusconi anche la storia diventa ad personam
di Nicola Tranfaglia


Alcuni tra i testi di storia più diffusi nelle scuole italiane da dieci, venti, in certi casi trent’anni come il manuale di Della Peruta-Chittolini-Capra o il Camera-Fabietti, sono usati da decine di migliaia di istituti secondari, dovrebbero essere sottoposti al vaglio critico di una commissione parlamentare d’inchiesta e adeguarsi a canoni di “obbiettività” stabiliti dall’attuale maggioranza parlamentare. Sarebbero, secondo i proponenti della legge, troppo partigiani e nasconderebbero «tentativi subdoli di indottrinamento». C’è ancora da stupirsi di fronte alla proposta di legge, presentata alla Camera dei Deputati e assegnata il 14 marzo scorso alla Commissione Cultura, da quella luminare del sapere che è Gabriella Carlucci e da diciotto deputati del Pdl (tra i quali c’è e mi dispiace per lui anche il capogruppo in commissione Emerenzio Barbieri, ex seguace di Casini
e dell’Udc)? A me pare proprio di no. La destra berlusconiana non sa cosa sia la cultura in senso proprio, non lo ha mai saputo e ha sempre pensato che i libri non esistano o abbiano scarsa importanza. I seguaci di Berlusconi sono convinti, con qualche rara eccezione, che l’unica forma di espressione della cultura contemporanea sia lo spettacolo televisivo o che al massimo si possa leggere un romanzo, ma che tutto il resto la storia, la filosofia, la saggistica in generale, umanistica ma anche scientifica, dalla matematica alla medicina alla fisica siano un affare riservato a pochi esperti e che non può interessare in alcun modo l’italiano medio.
Ne stiamo vedendo le conseguenze anche sul piano editoriale. Ho appena letto nelle statistiche editoriali che il libro più ven-
duto nel 2010 è stato un testo di cucina di una conduttrice televisiva di Mediaset. E i librai, soprattutto nelle città meno grandi, hanno verificato che i libri, per diventare bestseller, devono andare in televisione e che la saggistica è ormai un genere residuale per un pubblico sempre più limitato.
Questo, sicuramente, è uno degli effetti culturali del berlusconismo trionfante. Se non fosse che sul piano politico c’è ora il tentativo di andar oltre: non basta più controllare le televisioni e impedire che gli intellettuali non allineati non ci vadano o, come succede a me da qualche anno, ci vadano dopo la mezzanotte. È necessario anche epurare i testi di storia, almeno quelli che danno fastidio al capo. Di questo passo perché non far finire i testi con il 1945, con la dittatura fascista? Solo così, forse, non ci saranno più pericoli.

Repubblica 13.4.11
Un saggio di Massimo Salvadori ripercorre i 150 anni del paese
Benvenuti nelle tre Italie che hanno fatto la storia
Una vicenda caratterizzata da regimi politici destinati sempre a crollare e mai a dar luogo a un ricambio che porti al potere le forze di opposizione
di Nello Ajello


centocinquant´anni dell´unità del nostro Paese hanno visto susseguirsi tre diversi sistemi politici: l´assetto liberale successivo al Risorgimento, il regime fascista e le istituzioni democratico-repubblicane. È questa la tesi che lo storico Massimo L. Salvadori ha posto al centro del proprio volume intitolato appunto L´Italia e i suoi tre Stati, uscito da Laterza (pagg. 114, euro 9). Queste forme di ordinamento politico erano troppo diverse l´una dall´altra per poter comporre una tradizione omogenea. Esse hanno presentato tuttavia una paradossale continuità, fondata sul fatto di essere assolutamente "bloccate", rigorose nell´escludere alternative al proprio potere. Esse potevano crollare d´un colpo solo – e così, di fatto, avvenne – ma mai ammettere più o meno consensualmente un ricambio, come accade nell´Occidente evoluto.
Alla prima Italia, quella delle élites liberali, pose fine l´avvento del fascismo, che a sua volta venne soppiantato dal ritorno della libertà dopo la sconfitta del 19450-45; mentre risale all´era di "Mani pulite" – esordio degli anni Novanta – il tramonto della Prima Repubblica, con la dissoluzione dei partiti che l´avevano promossa e sostenuta. Un altro fattore di somiglianza tra questi tre momenti è rintracciabile nella particolarità dei relativi epiloghi: al quale non tenne dietro la prevalenza degli avversari che ne avevano determinato la caduta. Come ai dignitari post-risorgimentali subentrarono i nazionalfascisti in armi e non i proletari di Turati o di Bordiga, così all´assetto littorio tenne dietro il moderatismo dei democristiani e dei loro alleati "minori". E così, il crollo della prima Repubblica – con tutti i caratteri che le aveva conferito il finale craxiano – propiziò l´esordio di Berlusconi, che del craxismo è un erede riconosciuto e riverente. In realtà, nelle fasi di trapasso considerate da Salvadori, mai le forze di cambiamento, e meno che mai quelle «progressiste», hanno fatto registrare una loro prevalenza.
Stando alla periodizzazione dell´autore, saremmo, ora, alla "quarta Italia". E si potrebbe pensare che almeno una delle carenze tipiche delle prime tre – cioè "il blocco", la fissità del potere, l´esclusione dell´alternanza – sia caduto. Ma Salvadori lo esclude. O, quanto meno, egli sembra ritenere inconsistente – a causa della partecipazione al governo di una componente come la Lega, ma non solo per questo – l´eventualità che in questo paese stia per prevalere alcuna forma di "patriottismo costituzionale" capace di convincerci davvero, e nel profondo, della legittimità di quell´alternanza al potere che è "il presupposto dei regimi democratici maturi". La dissoluzione di ciò che qui chiamiamo "la quarta Italia", quando avverrà, sarà dura: «La caduta del plutocrate lascerà al nostro paese una pesante eredità», prevede Salvadori.
L´Italia e i suoi tre Stati non è un libro che emani astratte verità politologiche. È nutrito di fatti storici, accertati e sofferti. Citiamone qualcuno: l´incapacità di noi italiani di edificare e diffondere nelle coscienze uno spirito nazionale condiviso, l´influsso negativo esercitata sulle coscienze e sulle istituzioni dalla Chiesa cattolica, il nulla (o quasi) cui sono approdati i tentativi di ridurre la "frattura territoriale" fra Nord e Sud, nonostante la predicazione di meridionalisti insigni: Sonnino, Franchetti, Fortunato, Salvemini, Nitti, Sturzo. E ancora, l´operosa ubiquità della criminalità organizzata, la sterilità civile del terrorismo, la lunga "subalternità" della magistratura al potere politico e la rivolta di quest´ultimo di fronte alle sue pretese d´indipendenza: tutti questi temi trovano in molte pagine di Salvadori un´eco adeguata in termini di dramma. Alla domanda, inevitabile, su che cosa abbia consentito di sopravvivere a un paese gravato da simili mali, la risposta che si trova nel volume è netta ed eloquente. Salvadori si dà a rievocare uomini e fatti del passato remoto e recente: l´ardua probità del ceto politico della Destra storica, la "guida coraggiosa" assunta da Giolitti per far "uscire l´Italia" dalla crisi di fine Ottocento, la rifondazione dello Stato dopo l´avventura fascista, con protagonisti uomini della statura di Nenni, Togliatti, De Gasperi.
Ritenere che si tratti di stagioni e persone irrecuperabili significherebbe condannarci a una disperata rassegnazione. Dopo tutto, questa che ci fa soffrire e dovrebbe farci riflettere è l´unica Italia che abbiamo.

Corriere della Sera 13.4.11
Onfray: i freudiani sono una setta che lancia anatemi
di Stefano Montefiori


CAEN — «Non so lei, ma francamente io non sono mai stato attratto da mia madre. E da bambino andavo più d’accordo con mio padre. Solo che, per Freud, questo fa di me una vittima di Edipo al cubo: sarei così edipico che lo nego. Son capaci tutti di avere ragione così...» . Dopo essersela presa con Dio (Trattato di ateologia, 2005) e sempre insofferente al principio di autorità, il filosofo Michel Onfray attacca ora la divinità laica Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi. In Crepuscolo di un idolo, che domani esce in Italia per Ponte alle Grazie (traduzione di Gregorio De Paola, pp. 486, e 22), lei si impegna a demolire personalità e dottrina di un totem della cultura occidentale, soprattutto di sinistra. Sceglie sempre il bersaglio grosso? «Ma no, ho riletto un po’ per caso Il libro nero della psicoanalisi, che all’uscita nel 2005 avevo tralasciato, fidandomi delle recensioni feroci. Mi sono incuriosito, ho trovato argomenti molto fondati, e ho deciso di fare ulteriori ricerche studiando l’opera completa di Freud e la sua corrispondenza, trovando verità straordinarie e volutamente dimenticate» . Per esempio? «Le simpatie di Freud per Mussolini, al quale scrisse una dedica piena di ammirazione, e per il cancelliere fascista austriaco Engelbert Dollfuss. E poi la costruzione di una rete di fedelissimi in ogni capitale europea, chiamati a una ferrea obbedienza al capo, l’emarginazione dei dissidenti e di chiunque potesse fargli ombra. Freud aveva il culto del leader, nei suoi scritti teorizza la necessità che una sorta di superuomo prenda il potere per guidare la massa informe. La sinistra si è scelta davvero uno strano idolo» . Questo quanto alla personalità di Freud. E la psicoanalisi? «Una truffa fondata sulla totale ascientificità dei suoi enunciati. Attenzione, io me la prendo solo con la psicoanalisi freudiana, non con la psicoanalisi tout court e tantomeno con tutte le altre tecniche di terapia psicologica. Ma Freud ha fondato un sistema chiuso, una pseudoscienza, per curare sintomi e problemi che erano solo suoi. Da lì ad applicarli al resto dell’umanità ce ne corre. Freud si è basato su un caso particolare, se stesso, e a colpi di prepotenza intellettuale e tecniche egemoniche ha preteso di estenderlo all’universale. Dopodiché a qualcuno può piacere e persino servire, ma sia chiaro che è tutto fondato sulle turbe di una sola persona» . La correttezza scientifica di Freud è contestata ormai da tempo, resta il suo valore culturale. «Ma lo si studi allora come un pensatore tra tanti. Il suo strapotere negli Stati Uniti è finito dagli anni Sessanta, in Francia invece è tuttora un’autorità indiscutibile. Forse l’Italia è più fortunata, non ha conosciuto l’era di Lacan, che ha protratto l’influenza freudiana fino ai giorni nostri. Quella di Freud in Francia è una chiesa pronta a scomunicare. Basta guardare l’accoglienza che ha avuto il mio libro» . Un ottimo successo di pubblico. «E articoli violenti contro il saggio ma soprattutto contro di me. Sono stato trattato da nazista e massacrato dalla stampa intera, tranne Lire e Le Point. Eppure sono noto per avere idee di sinistra. Il fascista semmai è Freud. E nessuno, neanche uno dei miei tanti critici, ha saputo smontare le mie tesi. Solo insulti» . Signor Onfray, non è che il successo l’ha fatta diventare antipatico? «Questo è sicuro, in Francia la popolarità è un peccato imperdonabile. Negli Stati Uniti mi avrebbero già offerto un campus, qui continuo a riempire il teatro di Hérouville-Saint-Clair alla periferia di Caen. Ne sono fiero. Ottocento persone due volte al mese vengono per sentirmi parlare di Otto Gross o Wilhelm Reich. Non è un risultato da poco, specie per uno completamente fuori dalle combriccole come me» . Lei gioca a fare l’outsider ma la si vede spesso in tv, anche lei è un personaggio mediatico. «Per ogni invito accettato ce ne sono decine rifiutati. E non vedo perché dovrei condannarmi a sparire, visto che già sono stato fatto fuori dai grandi giornali. Mi piace farmi sentire, almeno ogni tanto. Sono un provinciale capace di andare in televisione» .

La Stampa 13.4.11
Santo Padre sul lettino: Freud, ego te absolvo
Disciplina eretica. Le gerarchie ecclesiastiche si sentivano defraudate del monopolio sulle anime
Montini riconobbe la possibilità di un aiuto psicoanalitico per i sacerdoti in difficoltà
Nel nuovo film di Moretti un Papa depresso in psicoanalisi Così da Pacelli in poi la Chiesa e la scienza dell’inconscio hanno fatto la pace dopo un conflitto durato mezzo secolo
di Fabio Martini


Neppure la brusca ascesa al potere di Adolf Hitler bastò a far cambiare idea a Sigmund Freud: «I nazisti? Non li temo. Piuttosto aiutatemi a combattere la mia grande nemica, la Chiesa cattolica». L’ebreo Freud che sceglie Hitler come male minore esprime una convinzione destinata a incontrare la dura replica della storia, eppure proprio quella «preferenza» forzosa restituisce il senso dello scontro asperrimo che divideva Chiesa cattolica e psicoanalisi. Un conflitto che in Italia sarebbe durato 70 anni e che era stato ingaggiato ai primi del Novecento dalle gerarchie vaticane contro gli psicoanalisti, «colpevoli» - ma nessuno si esprimerà in questi termini - di aver infranto il monopolio cattolico nella confessione e nella introspezione delle anime.
E dunque, anche per effetto di questo storico antagonismo, appare intrigante il plot di Habemus Papam , il film di Nanni Moretti che dopodomani uscirà nei cinema e che racconta la storia di un Papa depresso alla ricerca di sollievo sul lettino di uno psicoanalista. Eppure, dentro la lunga guerra ideologica della Chiesa contro il freudismo, c’è una interessante storia «interna» - un filone ancora inesplorato dagli studiosi - e che riguarda il personale interesse di singoli Papi per la psicoanalisi. Con interventi pubblici e curiosità intellettuali coltivate in privato, Papi diversissimi tra loro come Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI - pur mantenendo le distanze - si sono trovati spesso più avanti dell’Istituzione. Aprendo in modo carsico la strada verso una progressiva, non dichiarata revisione ideologica, che già da qualche anno ha sdoganato la psicoanalisi anche in Vaticano.
Disciplina, almeno in Italia, eretica come poche altre. Agli albori, non solo la Chiesa ma tutti i poteri costituiti la avversano. L’idealismo crociano, il fascismo e nel secondo dopoguerra il Pci di influenza sovietica. Tanto è vero che all’inizio degli Anni Trenta i pionieri, non per caso, sono due ebrei - Edoardo Weiss ed Emilio Servadio - e due antifascisti socialisti, Cesare Musatti e Nicola Perrotti. La Chiesa è diffidentissima perché, da subito, intuisce nella psicoanalisi una pericolosa concorrente. Certo, ne denuncia il «pansessualismo» e il «materialismo», ma di quelle teorie ancora più inquieta la cifra ideologica, l’ambizione «totalitaria», un’attitudine che oltretutto finisce col rubare alla Chiesa il monopolio dell’anima e quell’infinito rosario di segreti personali, fino ad allora custoditi in confessionale. E crolla persino il monopolio sull’attività onirica, rispetto alla quale la Chiesa aveva elaborato, ben prima di Freud, una sua «Interpretazione». I sogni? Attraverso di loro, è il diavolo che vuole catturare l’anima.
E infatti la psicoanalisi, in Italia soffocata sul nascere dal fascismo, nel secondo dopoguerra ritrova subito la durissima ostilità della Chiesa, al punto che nel 1952, sul Bollettino del clero romano, si arriva a qualificare addirittura come «peccato mortale» ogni pratica psicoanalitica. Una scomunica apparentemente senza appello, eppure, proprio in quell’anno - in piena Guerra fredda uno spiraglio viene aperto nientedimenochè da Pio XII. Rigidissimo sul piano dottrinario e politico, papa Pacelli è incuriosito da quel che si muove nel campo della medicina, della scienza, della tecnologia. Nel suo sforzo di riportare nell’alveo della Chiesa tutto ciò che è moderno, il Papa «positivista», durante il congresso di Istopatologia del sistema nervoso, interviene, sostenendo che «è inesatto sostenere che il metodo pansessuale di una certa scuola di psicoanalisi sia parte indispensabile di ogni psicoterapia degna di tal nome». Parole possibiliste quelle del Papa, che, come farà osservare subito padre Agostino Gemelli, non avevano comportato «nessuna condanna, per alcun sistema». E qualche anno più tardi, sia pure in forma privata, Giovanni XXIII - secondo la testimonianza dello psicoterapeuta svizzero Durand - si mostrò interessatissimo e commosso da alcuni casi di nevrosi, al punto che un segretario del «Papa buono» avviò studi sulla psicoanalisi per la dottrina matrimoniale.
Eppure, a dispetto di questi spiragli, la cultura prevalente nelle istituzioni ecclesiastiche restava fortemente repressiva. Tanto è vero che nel luglio del 1961 il Sant’Uffizio produce un Monitum , nel quale si arriva a proibire ai sacerdoti di accedere alle cure psicoanalitiche. E toccherà proprio a un papa, Paolo VI, sciogliere quell’interdetto: nella enciclica Sacerdotalis coelibatus del 1967 riconosce la possibilità di un aiuto psicoanalitico per i sacerdoti in difficoltà, un placet che teoricamente consentirebbe anche a un papa vero, non solo a quello di Moretti, di accomodarsi sul lettino. E sarà proprio papa Montini, sette anni più tardi, a far cadere l’ultimo muro, esprimendo stima «per questa oramai celebre corrente di studi antropologici, la psicoanalisi». Papa che ne comprende la profondità, perché a sua volta attraversato da una grande angoscia, quella che gli farà pronunciare durante i funerali di Aldo Moro un’omelia che allude ad una crisi di coscienza: «Tu, Dio, non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro...».

l’Unità 13.4.11
Misteri della fede: il prof. De Mattei ai vertici del Cnr
Le uscite del vice
di Rino Falcone


Le dichiarazioni che il vice-presidente del Cnr ha rilasciato negli ultimi tempi hanno avuto grande eco nei media nazionali. Si tratta di affermazioni i cui tratti di fondamentalismo sono difficili da ritrovare persino nelle più estreme posizioni del clericalismo ipertradizionalista. Piuttosto che entrare nel merito delle gravi tesi sostenute, vorrei affrontare una questione metodologica. -Il principio di libertà d’opinione non può esimerci da indagare con attenzione l’opportunità di certi giudizi quando espressi in sede di rappresentanza istituzionale e la loro compatibilità con incarichi di forte rilevanza simbolica. Il punto è: se le opinioni di De
Mattei si fondano nella dimensione della fede perché mai dovrebbe egli assumere un incarico così rilevante nel principale Ente di ricerca nazionale? Ente che esprime nella sua essenza più profonda le ragioni del pensiero razionale. Ente che organizza una comunità di scienziati, ne disciplina le azioni e ne finalizza le strategie.
Perché mai una tale comunità (quella scientifica) deve trovare rappresentanza (seppure nella funzione di “vice”) in chi ha come principale obiettivo l’affermazione del pensiero dogmatico? Altri ambiti socio-politici (o più strettamente metafisici e confessionali) possono ospitare tali opinioni. E la società può/deve prendersi carico di stabilire spazi di confronto costante e dinamico tra questi approcci metodologici differenti e contrapposti. Ma mai confonderli!
Come è successo allora che De Mattei sia finito nel CdA del Cnr?
Come si organizza la ricerca nel nostro Paese? In queste settimane alcuni enti di ricerca (tra cui il Cnr) hanno definito i cosiddetti «statuti autonomi» a seguito della legge 165 del 2007. Il ministro Gelmini, ha fortemente distorto le intenzioni di quella legge e operato trasformazioni e pressioni tali che gli statuti varati non produrranno autogoverno e reale autonomia statutaria. In particolare, le comunità scientifiche non potranno esprimere loro rappresentanze dirigenziali e la politica continuerà a svolgere un ruolo preminente (con gli evidenti paradossi cui stiamo assistendo). Le comunità scientifiche hanno manifestato pubblicamente le loro preoccupazioni per questo fatto ma l’opinione pubblica, alquanto disattenta ai temi sostanziali per il futuro del Paese, ha offerto un’attenzione infinitesimale rispetto a quella che oggi si è attivata per il caso De Mattei. Eppure i due fenomeni sono strettamente connessi. Ed è la stessa Costituzione ad indicare la soluzione quando nell’articolo 33 pone l’esigenza di rendere autonome le istituzioni della conoscenza. Ecco perché una malintesa relazione tra scienza e politica può condurre a clamorose e controproducenti aberrazioni.

http://www.noninmionome.it/

il Fatto 13.4.11
Storia (o quasi)
Mussolini. Libera patacca in Libero diario
Il quotidiano di Belpietro accusa Mimmo Franzinelli di usare le “agende” contro B. Lo studioso: i documenti sono falsi, per questo la buttano in politica
di Silvia Truzzi


Da qualche giorno è resuscitata la polemica sui Diari del Duce, quelli “veri o presunti”, un po’ taroccati di sicuro, praticamente in similpelle. Le agende restano quel che sono (più patacche che preziosi documenti: leggere per credere la dettagliata relazione di Emilio Gentile sul sito dell’Espresso), eppure sembrano essere diventate l’ennesimo argomento pro o contro il presidente del Consiglio.
Breve riassunto delle puntate precedenti: il senatore-bibliofilo Marcello Dell’Utri, tra un processo per mafia e l’altro, entra in possesso del manoscritto dei Diari, annunciati al mondo in pompa magna; segue una lunghissima polemica sulla loro autenticità. L’editore Bompiani decide di pubblicare il primo volume relativo all’anno 1939, con un sottotitolo “veri o presunti” e una guida introduttiva che propende per la tesi del falso. Qualche giorno fa un altro editore, Bollati Boringhieri, esce con un libro di Mimmo Franzinelli dall’inequivoco titolo “Autopsia di un falso. I diari del duce e la manipolazione della Storia”. Il quotidiano Libero, che sta pubblicando a fascicoli i Diari, non la prende affatto bene, soprattutto perché un altro giornale non proprio in linea con il bifronte Feltri-Belpietro (Repubblica) dedica una pagina a un colloquio con Franzinelli. Nell’intervista lo storico sostiene che difficilmente Dell’Utri e Bompiani pubblicheranno le rimanenti quattro agende (ma la casa editrice fa sapere che i Diari usciranno al ritmo di due agende l’anno. A giugno il 1935, a novembre il 1936). Un punto in particolare fa arrabbiare il giornalista di Libero Francesco Borgonovo. Cioè quando Franzinelli dichiara quanto segue: “Da quelle pagine balza l’immagine di un Mussolini inedito: statista autocritico, nemico dei tedeschi, desideroso di tenere l’Italia fuori dalla guerra, addirittura scettico rispetto alle leggi razziali”.
Quand’è troppo è troppo. I liberi s’infuriano: “Questa è la balla più clamorosa, propria di chi – davvero – non conosce la differenza tra finzione e realtà. Dai diari, come più volte specificato su queste pagine, dai vertici di Bompiani e dallo stesso Dell’Utri (tanto che ormai ci siamo stancati anche noi di ripeterlo) non emerge affatto un Mussolini “buono”. Non si nega affatto l’orrore delle leggi razziali né si tenta di riabilitare un regime. Che avrebbe dovuto fare Benito per convincere gli amici progressisti? Avrebbe dovuto scrivere nel suo diario: “Eccomi, sono un bastardo razzista e assassino? Ma per favore”. A questo punto sul Corriere interviene Pierluigi Battista, persuaso della falsità dei Diari e ancor di più – come dargli torto – che la patente di autenticità a un documento storico la diano i metodi di analisi scientifica e non le “ideologie” (ma le ideologie sono morte da tempo: al massimo resta qualche, confusa, idea). Il Corriere fa notare che Libero non dichiara apertamente la falsità delle agende, gli altri rispondono sostenendo che non è vero: i Diari sono stati “realizzati da chi ha avuto sottomano gli originali”. Oltre al botta-risposta giornalistico (e alle reciproche affettuosità Borgonovo-Battista: uno “giovane e bravo giornalista”, l’altro “esperto e intelligente editorialista”), cosa resta? Proviamo a fare il punto con Mimmo Franzinelli.
Perché questa meta-polemica sull’uso politico dei Diari?
Nel mio libro dimostro sul piano filologico, biografico e storiografico l’assoluta inattendibilità dei Diari 1939, attribuiti a Mussolini dall’editore Bompiani. I giornalisti di Libero che hanno in corso la pubblicazione a dispense di quel volume, non riuscendo a rispondere alle argomentazioni scientifiche, la buttano in politica e si atteggiano a vittime di una manovra anti-berlusconiana.
Però lei ha detto: “Un clamoroso esempio di falsificazione della storia, che corrisponde a una fase della vita pubblica italiana segnata da confusione tra finzione e realtà”.
Nell’intervista a Repubblica mi è stata chiesta un’interpretazione e una contestualizzazione del progetto editoriale impostato da Dell’Utri, allora ho risposto che a mio avviso rientra in una dimensione di fiction teorizzata da Vittorio Sgarbi sul Giornale del 1 settembre 2010. E che mi piace citare: ‘Effettivamente quei Diari, ancor meglio se fossero apocrifi, e la cui autenticità è dunque ininfluente, sono resi ancora più attraenti e desiderabili per il loro scopritore’.
Quindi?
Sono dunque i ‘berlusconiani’ ad ammettere che sono falsi e che l’operazione s’inquadra in quella politica culturale di cui il senatore Dell’Utri, Sgarbi e il quotidiano Libero vanno fieri.
Dell’Utri però si è detto felice dell’uscita del sua autopsia.
Se davvero ne è felice, perché non ha ancora accettato l’invito a un dibattito pubblico sui Diari da lui patrocinati? A farmi dubitare della sua contentezza c’è poi il commento al vetriolo con cui definisce ‘pentito’ lo storico Brian Sullivan, colpevole agli occhi del senatore di essersi convinto della falsità di quelle agende sulla base della documentazione archivistica da me reperita .
Ma gli sarà sfuggito: pentito è una parola molto siciliana...
Sì, ma il punto è che Sullivan era, fino a un mese fa, l’unico studioso a credere nell’autenticità di queste pagine. Ora attorno all’operazione c’è un assordante silenzio storiografico.
Sembra essere rimasto solo un interesse commerciale: pare che le agende siano state pagate 1 milione e mezzo di euro, più se ne parla, più diventano spendibili sul mercato.
Le eventuali preoccupazioni finanziarie del senatore Dell’Utri non possono legittimare la diffusione di un falso storico. Proviamo a immaginare se il gruppo editoriale Stern dopo aver pagato profumatamente i cosiddetti ‘Diari di Hitler’ nel 1983 li avesse pubblicati per ragioni di cassetta.
L’editore Arnoldo Mondadori comprò alla fine degli anni ‘50 altre agende del duce. Poi quando si scoprì che era una bufala, si fecero restituire il denaro.
Proprio quel materiale, acquistato incautamente da Mondadori proviene dalla stessa officina di falsari che hanno fabbricato il materiale comprato da Dell’Utri: le signore Rosetta e Mimì Panvini di Vercelli.
 In quale trappola cadiamo se perfino parlando di un documento storico arriviamo a Berlusconi?
Autopsia di un falso compara i Diari pseudo-mussoliniani con fonti d’epoca, con la biografia del duce e con i diari inediti della Petacci. Con l’esito di mostrarne l’insostenibilità. È questo il nodo. Non certo dietrologiche ricostruzioni pro o contro Berlusconi, che non sono minimanente oggetto né del mio lavoro né del mio interesse.

Repubblica 13.4.11
Le avventure di Fabrizio Mori, paletnologo da poco scomparso
I misteriosi graffiti perduti nel deserto
Le ricerche iniziano in Libia negli anni Cinquanta. I reperti risalivano all´epoca paleolitica

di Stefano Malatesta

Nei sette anni in cui rimase in Libia, molto più come viceré che come governatore, Italo Balbo aveva cercato di far dimenticare le nefandezze degli italiani "brava gente": come Graziani - un autentico criminale - che aveva fatto bombardare la popolazione civile in fuga, compresi donne e bambini, durante l´avanzata militare nel sud del paese. O come Badoglio, che aveva deportato decina di migliaia di paesani dal Gebel cirenaico, chiudendoli in campi di concentramento, dove la prigionia si era trasformata in un vero genocidio. Balbo aveva messo su a Tripoli una corte, molto teatrale e operistica, circondato da amici che venivano quasi tutti dalla bassa ferrarese e da belle donne. Ma nello stesso tempo aveva tentato, con una certa velleità e ingenuità, di risollevare i libici dallo stato miserabile in cui erano caduti dopo gli orrori della conquista italiana e prima della scoperta del petrolio. Era stato lui a chiamare progettisti, come Gatti Casazza, che avevano inventato una straordinaria architettura coloniale. E aveva invitato nella colonia geografi, paleontologi, africanisti perché studiassero il sud del paese e i deserti attraversati solo dai tuareg e dai berberi discendenti dai Garamanti, gli antichi abitatori del Sahara.
All´epoca non si sapeva nulla dell´Acacus, un deserto di sabbia e di roccia plasmato dalle forze telluriche che avevano creato il mondo e disseminato di straordinarie formazioni che il vento aveva eroso, facendogli prendere figure simili a quelle dipinte da Miró. L´Acacus era lungo 250 km e largo 50, e assomigliava più a un labirinto in cui era molto facile perdersi che a un deserto, impervio e di difficile accesso. Completamente privo di vegetazione, eccettuate poche acacie spinose, nessuno credeva che potesse racchiudere qualcosa d´interessante. Paolo Graziosi, un bravissimo geografo che aveva visitato la Libia negli anni Trenta, parlava d´incisioni rupestri che però nessuno aveva visto. Tutti continuavano a credere che queste espressioni artistiche di un mondo paleolitico di cui non si sapeva nulla fossero un´esclusività delle aree montane dei Tassili e degli Hoggar.
Negli anni Cinquanta un giovanotto fiorentino che si era comportato coraggiosamente durante la Seconda Guerra mondiale, Fabrizio Mori, cominciò a perlustrare l´Acacus servendosi di una guida tuareg. A differenza degli Inglesi innamorati del deserto, e soprattutto degli audaci bedù, da giovane Mori non era stato travolto da nessuna fatale attrazione per le dune e tutto il resto. Il suo unico desiderio era di guarire da una malattia polmonare respirando l´aria priva di umidità della Libia e di non fare assolutamente nulla. Furono le storie raccontate da un capitano dell´esercito che si chiamava Ferdinando Morelli, incontrato nell´oasi di Ghat, a convincerlo a superare l´unico passo che portava all´Acacus e a scendere lungo i guadi ingombri di rocce aguzze e instabili. Le ricerche all´inizio non lo portarono a nulla. Fino a quando nell´oasi di Ghat non arrivò un vecchio altissimo e magrissimo che si chiamava Amghar Kebir: un tuareg che conosceva tutti i deserti e tutti i pozzi della Libia del sud. Quelle figure che Mori andava cercando lui le aveva viste a centinaia sotto i costoni delle uadi. Ma ne esistevano anche di gigantesche, scolpite nelle rocce del Gebel.
Mori aveva avuto una ricaduta delle sue malattie polmonari e mandò in avanscoperta Simone Velluti Zati, un giovane studioso che lo aveva accompagnato in Libia. Dopo pochi giorni l´assistente era di ritorno portando notizie straordinarie: aveva visto stupendi graffiti e decine di figurazioni di animali come elefanti e ippopotami. A partire da quel momento Mori tornò in Libia ogni anno, perlustrando metro dopo metro tutto l´Acacus. Era accompagnato da due giovani pittori che poi diventarono celebri, Piero Guccione e Lorenzo Tornabuoni, che riprodussero con grande accuratezza e finezza tutto quel mondo in movimento come cacce, danze, partenza per la guerra e i famosi carri dei Garamanti.
Era commuovente accorgersi come durante il corso dei millenni l´ancestrale paura che spingeva a dipingere gli animali in forme grandiose per esorcizzarli fosse andata diminuendo, quasi scomparendo e le bestie avevano preso dimensioni sempre più ridotte mentre gli uomini apparivano come i veri protagonisti. Alcune di queste opere costituiscono non solo un magnifico materiale archeologico. Ci offrono nello stesso tempo una testimonianza unica di un´evoluzione che non si è svolta secondo un processo lineare, secondo quanto dicevano i darwiniani classici, ma a salti, attraverso quelle che Mori chiamava «improvvise prese di coscienza». Il fuoco è sempre esistito sulla terra da miliardi di anni. Ma solo l´homo erectus ha compreso che poteva essere addomesticato e adoperato come uno strumento o come un´arma. I graffiti dell´Acacus sono stati preceduti da un periodo interminabile in cui si mimavano le cacce, le danze e gli animali. E poi un giorno ci fu l´illuminazione di qualcuno che scoprì la possibilità di dipingere sulle rocce quello che gli altri mimavano.
Afflitto da innumerevoli malanni e annientato da una disgrazia spaventosa – gli era morto il figlio di quindici anni – Mori si era ritirato in Toscana, a Trequanda. Non viveva solo, ma aveva creato una fondazione che ospitava periodicamente dieci bambini disabili. Qualche anno fa, molto popolare e amato in Libia, era stato nominato cittadino onorario del paese, un onore credo quasi unico. Negli ultimi tempi si era costruito una zeriba, una sorta di forte sahariano, nell´oasi di Ghat. Quando gli chiesi se voleva andarci a vivere lui mi rispose: «No. Ci vado a morire». Si è spento nella sua Toscana qualche mese fa, lasciando alcuni tra i migliori testi che un italiano abbia scritto sull´Africa.

La Stampa TuttoScienze 13.4.11
Penne di falco e avvoltoio per i cacciatori Neandertal
La scoperta nel sito nascosto in una grotta delle Prealpi Venete “Ecco le prove che si decoravano corpo e vestiti, come i Sapiens”
di Marco Peresani, Università di Ferrara


Vivo e ricco di colpi di scena si presenta il dibattito scientifico sull’uomo di Neandertal, tanto da impegnare fiumi di inchiostro nella bibliografia internazionale e centinaia di studiosi in accorati convegni a discutere della sua biologia, vita sociale, sussistenza e comportamento. Proprio quest’ultimo aspetto segna un picco d’attenzione, legato alle cause che hanno portato alla scomparsa dei nostri «cugini» tra 50 e 40 mila anni fa: come si rapportavano con l’ambiente e le innumerevoli risorse – alimentari e non - che questo offriva? Quant’era profondo il grado di conoscenza del territorio in cui si muovevano, degli animali che vi abitavano, dei giacimenti di rocce da scheggiare? Quali sistemi di identificazione adottavano per loro stessi, le proprie famiglie e i membri dei clan, sempre che una qualche struttura sociale ne contemplasse l’esistenza?
Gli interrogativi non lasciano dubbi: identificare tra i Neandertal comportamenti etnograficamente «moderni», cioè più prossimi al modo «sapiens» di pensare e strutturare la società, porta inevitabilmente ad interrogarsi sulla loro origine: autoctona oppure frutto del risultato di interazioni con i primi sapiens anatomicamente moderni che colonizzarono l’Europa 41-40 mila anni fa?
Se, da un lato, il confronto con il DNA fossile neandertaliano rivela le tracce di un flusso genico verso i sapiens euro-asiatici, dall’altro l’archeologia esclude contatti tra le due forme biologiche, sostenendo piuttosto l’emergenza autonoma di certe invenzioni nella scheggiatura della pietra, la lavorazione dell’osso e, di importanza fondamentale, l’impiego di materiali ad uso ornamentale. Conchiglie marine e canini di volpe ed orso perforati suggeriscono un’attenzione per la decorazione del corpo o per gli abiti, arricchita dall’impiego di polveri coloranti ricavate dalla triturazione di ossidi di ferro e manganese.
A rafforzare l’opinione di quanti pensano che i Neandertal avessero comportamenti astratti molto simili a quelli dei «cugini» sapiens anatomicamente moderno è una recente scoperta archeologica di unicità straordinaria, emersa in seguito a uno studio condotto su resti ossei di uccelli provenienti da uno strato risalente a 44 mila anni fa, nella Grotta di Fumane nel Parco Naturale Regionale della Lessinia, le Prealpi Venete. Le ricche testimonianze archeologiche conservate nei depositi di riempimento di questa cavità, oggetto di ricerche promosse dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto e condotte dall’Università di Ferrara in collaborazione con il Museo Nazionale Preistorico Etnografico «L. Pigorini», rappresentano una precisa documentazione della vita dei Neandertal e dei primi sapiens, tanto da registrarne fedelmente la sostituzione biologica e culturale lungo una sequenza stratigrafica scandita dettagliatamente dalle datazioni al radiocarbonio.
Grazie al perfetto stato di conservazione delle ossa sono state riconosciute tracce microscopiche di tagli effettuati con schegge di pietra su ossa dell’ala come l’omero distale, l’ulna e il carpometacarpo. La distribuzione dei tagli, a volte attorno ai bottoni di innesto delle penne remiganti, suggerisce il recupero forzato di questi vistosi elementi oppure di porzioni dell’ala. Le ossa in questione sono riferibili, infatti, a grandi rapaci come il gipeto, l’avvoltoio monaco e il falco cuculo e ad altri uccelli (gracchio alpino e colombaccio) e appartengono a porzioni di scarso interesse alimentare, ma dalle quali il recupero delle penne richiede strumenti da taglio con cui avere ragione della resistenza degli innesti. Va ricordato che i confronti archeologici ed etnografici attestano queste pratiche solo a partire da 15 mila anni fa e nei tempi successivi, fino al Medioevo.
L’utilizzo ornamentale delle penne a Fumane esclude eventuali ipotesi di un loro impiego nell’impennaggio di frecce o giavellotti lanciati con il propulsore, in quanto questi strumenti erano di esclusivo appannaggio dei sapiens. Piuttosto, rimanda alla vastissima documentazione etnografica riferibile all’arte piumaria delle popolazioni primitive attuali e sub-attuali, connessa alle decorazioni di abiti, oggetti, abitazioni ed individui, anche di rango, oppure all’araldica in uso per esempio tra i nativi del Nord America. Inoltre alle penne, di varia forma e colore, si aggiungevano gli artigli, solitamente dell’aquila, i cui resti peraltro non mancano a Fumane.
Oltre a retrodatare di decine di migliaia di anni questa pratica nella storia evolutiva umana, sinora considerata appannaggio di società più complesse, queste scoperte contribuiscono a modificare l’immagine di «bruti» che per oltre 100 anni ha ingiustamente accompagnato, nella letteratura scientifica e non, questo nostro stretto parente.

La Stampa TuttoScienze 13.4.11
Misteri. L’infinitamente piccolo
La particella senza nome che inaugura la nuova fisica
Lo stupore al Fermilab: “Non è prevista dal Modello Standard”
di Gianni Parrini


Il contributo italiano Tra i 500 ricercatori da tutto il mondo, il gruppo made in Italy ha avuto un ruolo fondamentale

Non sempre una scoperta porta certezze. Talvolta può far nascere dubbi, incrinare tesi date per scontate e produrre una sorta di «spaesamento scientifico». Ma è così che la conoscenza avanza. Qualcosa del genere l'aveva già spiegato Popper con la falsificabilità, oggi invece la comunità internazionale si trova a commentare con qualche imbarazzo e un misto di incredulità ed entusiasmo i dati rilevati dal Fermilab di Chicago.
Nei laboratori americani, infatti, mentre si dava la caccia al celebre bosone di Higgs - l'anello mancante per spiegare come mai le particelle elementari hanno masse così diverse - sono stati registrati segnali sconosciuti che i fisici non sono riusciti a far corrispondere a niente di quello che si aspettavano di vedere. In pratica, durante le collisioni protone-antiprotone avvenute nell' acceleratore Tevatron sono saltate fuori tracce di una particella esotica, non contemplata dal Modello Standard, la formulazione che già dalla metà del secolo scorso comprende e descrive le particelle elementari e (quasi) tutte le forze finora conosciute. E proprio questo gigantesco impianto teorico, che tiene insieme meccanica quantistica e Relatività speciale, e le cui previsioni sono state in larga parte verificate sperimentalmente, rischia di sgretolarsi di fronte alla nuova, minuscola particella, la cui esistenza se confermata - potrebbe rappresentare la chiave d’accesso a una «nuova fisica».
La coppia di bosoni Co-leader dell'esperimento «Collider Detector at Fermilab» (CDF), in cui lavorano oltre 500 scienziati provenienti da tutto il mondo, è l'italiano Giovanni Punzi, professore associato all'università di Pisa e membro dell'Istituto nazionale di Fisica nucleare (Infn). «La particella è venuta fuori per caso - spiega Punzi -. Stavamo studiando il decadimento di una coppia di bosoni W, quando abbiamo notato un picco addizionale non previsto». La sorpresa era dovuta a due particolari «getti» di adroni, che in genere rappresentano la firma del decadimento di una particella pesante. Nel caso specifico, si sarebbe trattato di un oggetto con una massa 150 volte superiore a quella del protone! «All'inizio abbiamo pensato che si trattasse di un errore dovuto a un difetto di calibrazione o di una nostra cattiva comprensione di processi che producono decadimenti simili - prosegue Punzi -. Ma dopo un anno di prove e tentativi, il picco continuava a manifestarsi e così abbiamo deciso di preparare un articolo per divulgare la notizia». E il testo è stato accettato dalla «Physical Review Letter».
I maligni notano che l'annuncio arriva proprio nel momento in cui il Tevatron si appresta a uscire in silenzio dalla scena della ricerca: nel gennaio scorso, infatti, dopo 23 anni di gloriosa attività, il dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti ha deciso di mandare in pensione il vecchio acceleratore che a settembre chiuderà i battenti. Sulla decisione probabilmente - ha pesato anche il soverchiante prestigio del Large Hadron Collider di Ginevra, il gigantesco acceleratore che studia le proprietà della materia in uno spettro di energia assai più elevato: 7 Teraelettronvolt contro i 2 dell'omologo americano. E così, mentre gli occhi del mondo erano fissi sul Cern e sul più grande strumento di ricerca mai costruito dall'uomo, è arrivato del tutto inatteso il colpo di coda del Fermilab, che porta a casa un risultato di portata rivoluzionaria. O almeno così pare.
Ulteriori conferme Molti fisici teorici, infatti, appaiono ancora dubbiosi e attendono ulteriori conferme prima di commentare le prospettive aperte dalla scoperta della nuova particella. Lo stesso Punzi usa cautela: «Le nostre osservazioni hanno ottenuto 3 sigma nella scala utilizzata a livello internazionale per stabilire la solidità di uno studio (5 sigma è il livello richiesto per considerare una scoperta un fatto acquisito ndr). Ciò significa - aggiunge - che siamo di fronte ad una “evidenza” considerata molto indicativa, ma che dovrà essere ancora indagata». Di sicuro, se questo canto del cigno del Fermilab dovesse essere confermato, scompiglierebbe le carte sul tavolo della fisica contemporanea, tirando in ballo teorie estrose e postulando persino l'esistenza di una quinta forza, oltre alle quattro già note: gravità, magnetismo, forza nucleare debole e forte.
«Preferisco lasciare le ipotesi ai teorici - spiega Punzi, che sottolinea il ruolo di punta nelle ricerche in corso di Viviana Cavaliere (alla University of Illinois at Urbana-Champain), Pierluigi Catastini (alla Harvard University) e Alberto Annovi (all’INFN di Frascati) -. Sono già usciti un discreto numero di articoli che avanzano ipotesi affascinanti. I sostenitori del modello “Technicolor”, ad esempio, tirano in ballo l'esistenza di un nuovo tipo di forza, simile alla nucleare forte, ma che agisce a livelli di energia molto più alti. Come possiamo immaginarla? Innanzi tutto, occorre dire che non vi sarebbero manifestazioni esperibili direttamente dall'uomo: si tratterebbe di una forza che ordina il “dietro le quinte” della natura e da cui sono influenzati molti dei fenomeni osservabili che ancora non siamo stati in grado di spiegare».
Un sostituto del bosone di Higgs, una variante della particella Z scoperta dal Nobel Carlo Rubbia o una chiave per risolvere la gerarchia tra le forze? Queste le domande a cui si spera di poter dare risposta. Staremo a vedere, sempre che Lhc non faccia un ultimo sgarbo all'omologo d'oltreoceano: per ironia della sorte toccherà all'acceleratore ginevrino svelare il mistero della nuova particella e ad aprire (o chiudere) le porte alla nuova fisica. E forse anche quelle del Fermilab.
"Giovanni Punzi Fisico"

martedì 12 aprile 2011

La Stampa 12.4.11
Lampedusa
Nel Cie in fiamme scoppia la rivolta “Libertà, libertà”
Decine di uomini riescono a evadere dal centro
di Federico Geremicca

Era nell’aria? Era nell’aria. Si poteva evitare? Probabilmente si poteva evitare. O quanto meno prevedere. Sono questi - e altri - gli interrogativi che frullano nella mente mentre un leggero vento di maestrale, gonfia, ingigantisce e porta via le dense nuvole di fumo nero che si alzano dal Centro di accoglienza. Sono le quattro e un quarto del pomeriggio, e dopo ore di lenta incubazione la rivolta dei mille tunisini rinchiusi nella struttura divampa in tutta la sua ineluttabilità. E questa, allora, è la cronaca di una delle giornate più nere di Lampedusa, una giornata che si conclude con una decisione che coglie tutti di sorpresa: via i migranti da un Centro ormai ingestibile e tutti a bordo della nave Excelsior (da giorni alla fonda) per essere trasferiti sul continente e poi divisi e distribuiti un po’ qui e un po’ lì.
Nessuno può saperlo, naturalmente, ma la miccia di questa giornata infernale comincia a bruciare poco dopo mezzogiorno, quando trenta tunisini giunti a Lampedusa dopo il 5 aprile (e dunque rimpatriabili, secondo gli accordi stretti col governo di Tunisi) cominciano a essere imbarcati su un aereo che deve riportarli nel loro Paese. A scortarli sessanta uomini delle forze dell’ordine. Le operazioni sono lunghe e complesse, viene sequestrato loro qualunque oggetto avessero addosso (cellulari compresi) e poi - finalmente - quando è ormai ora di pranzo, l’aereo decolla e fa rotta verso Tunisi. Tra i rimasti nel centro già serpeggia il nervosismo: che diventa pura disperazione appena qualche telefono cellulare comincia a squillare... Sono i rimpatriati che, appena riportati in Tunisia, li avvertono del destino che ormai li attende.
È l’inizio della rivolta. Qualcuno sale sui tetti e grida «libertà, viva l’Italia»; qualcun altro lancia bottiglie di plastica contro i reparti di polizia e carabinieri che stazionano dentro e fuori il centro. Poi si passa allo sciopero della fame. I migranti rifiutano il cibo, tentano un corteo interno alla struttura, vengono divisi e dispersi. Sono ormai le quattro del pomeriggio quando, all’improvviso, nel Centro tutto si placa. Non un grido, non una protesta. Sembra tutto finito e invece è il preludio al peggio che sta per cominciare.
Prima un grido, poi qualcuno che scappa. E in un attimo è l’inferno. Nuvole di fumo nero spesse come batuffoli di ovatta sporca cominciano a sollevarsi dal padiglione centrale: lo stesso che fu dato alle fiamme nella drammatica rivolta del 2008. Gente che scappa ovunque, la campana dell’allarme anti-incendio che comincia a suonare assordante, i reparti della polizia che avanzano brandendo manganelli e scudi. E non basta: mentre i mezzi dei vigili del fuoco cercano di farsi largo tra la folla impaurita, decine e decine di tunisini cominciano a scappare dal Centro scavalcando l’esile rete che cinge la struttura nel retro. I pochi militari che sono di guardia all’esterno vengono colti di sorpresa: è una fuga di massa. Che non durerà a lungo, però.
I getti degli idranti non impiegano molto ad aver ragione delle fiamme che si sviluppano dai materassi di gommapiuma cui i tunisini hanno dato fuoco. È un fuggi fuggi generale, nessuno sa bene cosa fare per riportare la calma. Quando le fiamme vengono domate e il fumo si dirada, si tirano le somme. Non ci sono feriti, ma una parte del piano terra della struttura centrale è fuori uso: e in più ci si accorge della fuga di massa dal centro. Poliziotti e carabinieri vengono sguinzagliati sulle tracce dei fuggiaschi: ma molti sono rimasti lì, lungo i pendii del canyon. Ragionano qualche minuto sul che fare e poi, arrendendosi al fatto di essere su un’isola dalla quale è impossibile fuggire, alzano le mani e pian piano ridiscendono verso il Centro. Si consegnano ai poliziotti gridando «no Tunisia, libertà, libertà». Vengono riportati dentro, mentre tecnici e dirigenti della struttura tentano un primo bilancio dei danni subiti dal padiglione.
La notizia della rivolta fa in un baleno il giro dell’isola. Si diffonde un certo allarme anche tra i responsabili delle forze dell’ordine. Il sindaco di Lampedusa, Dino De Rubeis, si attacca al telefono e chiama il «concittadino» Berlusconi: «Sull’isola, nel Centro, possiamo tenerne ormai al massimo un paio di centinaia, per poi rimpatriarli da qui. Ma il resto dei tunisini deve adar via perchè la situazione rischia di andare fuori controllo». Il presidente del consiglio si mette in contatto con il ministro Maroni, discutono il da farsi: decidono che forse conviene ascoltare l’allarme del sindaco. Parte l’ordine: 700 ospiti del centro vengano trasferiti sulla Excelsior e poi portati via da Lampedusa. La grandenave lascia la fonda e si dirige verso la banchina di cala Pisana, da dove l’imbarco è più semplice: ma a sera inoltrata le operazionidi trasferimento dei migranti tunisini non erano ancora iniziate.
Decolla più o meno regolarmente, invece, il secondo volo di rimpatrio di altri 30 migranti. Urlano e protestano quando capiscono che il momento è arrivato e che il sogno è finito. Niente Italia, niente Francia, niente Germania. Tutti a casa, nonostante i soldi spesi e la vita messa in gioco trasversando il Canale di Sicilia su mezzi di fortuna.

La Stampa 12.4.11
Giustizia la legge contestata
“La Camera diventerà un Vietnam”
Sul “processo breve” riparte lo scontro. Le opposizioni annunciano battaglia senza risparmio di colpi


Il ruolo di Fini I berlusconiani escludono che il presidente voglia davvero contrastare l’ostruzionismo

Il menù politico è sempre uguale a se stesso: non si prevedono dibattiti di alto profilo sulla crisi economica, né sulla guerra di Libia, tanto meno sull’immigrazione. Si riparte invece alla Camera (oggi ore 15) nuovamente dal processo breve, che contiene la norma «ad personam» per salvare il premier dal processo Mills. Attendiamoci dunque un enorme stress delle istituzioni, perché l’aula di Montecitorio sarà per la terza settimana consecutiva teatro di uno scontro feroce. L’opposizione è intenzionata a dare battaglia fuori e dentro il Palazzo. Rinnovando il presidio davanti a Montecitorio e al Pantheon. E sfruttando, anticipa il portavoce dipietrista Leoluca Orlando, tutti gli strumenti offerti dal Regolamento parlamentare: «La Camera diventerà un Vietnam», nessuno sconto alla maggioranza, il fair-play è defunto da un pezzo.
In teoria dovrebbe essere tutto finito entro domani sera, con un voto sulla legge nel suo complesso che vale quasi quanto una fiducia. I tempi riservati all’opposizione sono circa 7 ore, più le varie ed eventuali. Tuttavia la maggioranza non si fida perché il repertorio dei possibili trabocchetti è sterminato. Particolarmente temute le votazioni «a singhiozzo», che possono essere chieste senza il consueto preavviso dei 20 minuti, mentre magari la massa dei deputati è alla buvette per un cappuccino. Oppure imboscate quando meno il Cavaliere se le aspetta, inversioni improvvise dell’ordine del giorno, addirittura tentativi di rispedire la legge in commissione...
Lo stato maggiore berlusconiano sospetta di Fini. Nell’entourage del premier si esclude che il presidente della Camera voglia davvero stroncare la guerriglia parlamentare. Alla sua gestione «super partes» nella villa di Arcore non credono nemmeno un po’. Ed è certamente vero che Gianfranco non perde occasione per picchiare forte sul Cavaliere. «Questo è il governo Berlusconi-Scilipoti», ha sfoderato ieri dalla Sicilia il suo sarcasmo. Però Fini ha detto altre due cose che creano scompiglio altrove. Anzitutto, che in un mondo del lavoro bene ordinato dovrebbe esserci una maggiore flessibilità in uscita (leggi: possibilità di licenziare). Vibrate proteste dall’Idv. Poi Fini ha detto una grande verità, che il sistema proporzionale purtroppo porta con sé un tot di corruzione. Meglio il sistema elettorale uninominale, è il suo verdetto. Casini, alleato nel Terzo Polo, la pensa in modo diametralmente opposto. L’Udc non ha gradito.
Riuscirà Fini ad arbitrare il match del processo breve senza farsi trascinare a sua volta sul ring? Ci sono ancora 200 emendamenti da votare, non è affatto da escludere che l’opposizione gli chieda tempi supplementari per il dibattito, sebbene Bersani giustamente sostenga che «con tutti i problemi del Paese» discutere una leggina su misura del premier è «uno scandalo»: piccola ma significativa evoluzione lessicale, dopo un’inflazione di «vergogna», «vergognoso», «vergognatevi», insomma «Vergognopoli», laddove tra i sinonimi e i contrari si trovano espressioni non meno efficaci (indecenza, ignominia, indegnità, infamia, abominio, sconcezza, scorno...). Può essere che il voto finale slitti a giovedì, forse addirittura oltre. Tutti precettati gli onorevoli Pdl, fino a venerdì sera devono restare a Roma.
Il rischio di sforare i tempi è una cattiva notizia per i Responsabili. Stasera incontreranno il responsabile della campagna-acquisti berlusconiana, Verdini, per discutere con lui le poltrone nel governo. Speravano che già venerdì si potesse procedere col rimpastino; ma se le votazioni sul processo breve dovessero trascinarsi, ecco l’appuntamento svanire una volta di più. [U. M.]
"La maggioranza punta a chiudere entro domani ma ci sono ancora 200 emendamenti da votare Severissimi ordini di scuderia: i deputati del Pdl sono tutti precettati fino a venerdì sera"

l’Unità 12.4.11
Intevista a Stefano Rodotà
«Bisogna parlare chiaro: Berlusconi è un eversore»
Per il professore «definire questi atti come conflitti istituzionali è una gentilezza inadeguata alla situazione E sull’Europa siamo all’impazzimento del governo»
di Maria Zegarelli


Non usa giri di parole il professor Stefano Rodotà per commentare l’ultimo show del presidente del Consiglio fuori dal tribunale di Milano. «È stato un atto eversivo». Uno dei tanti che «ormai quotidianamente commette», aggiunge scadendo bene le parole. Professore, ormai siamo oltre il normale conflitto tra i poteri dello Stato?
«Definire quello che sta accadendo in questi giorni e lo show di ieri come un conflitto tra poteri dello Stato è una gentilezza inadeguata alla situazione. I conflitti sono persino “normali” nei paesi democratici tanto che sono previste le sedi opportune dove risolverli. No, noi stiamo parlando di atti eversivi, non ci sono altri termini più adeguati di questo. Questo è il mio giudizio».
Anche lei definisce il premier un “eversore”? «Esattamente. Non è la prima volta che si comporta in questo modo e a giudicare da quanto è accaduto fuori dal Tribunale di Milano è intenzionato a proseguire su questa strada. I conflitti, ripeto, si possono determinare, esistono le sedi proprie dove possono essere sollevati, ma non ci si rivolge in un Aula di tribunale ai magistrati in maniera ipocrita dicendo che lo devono giudicare in modo equilibrato per poi uscire e fare un comiziaccio.
Ha aggredito la magistratura in quanto tale, affermando che lavora contro il Paese. Queste frasi pronunciate dal presidente del Consiglio assumono un carattere eversivo e non credo che un qualsiasi cittadino che avesse usato quelle stesse espressioni sarebbe sfuggito ad una denuncia».
Se siamo di fronte ad una situazione così grave, quale è la soluzione? «Berlusconi ha già sollevato un conflitto di attribuzione sul caso Ruby in maniera formale facendo votare la maggioranza in tal senso investendo della questione la Corte Costituzionale. Quel voto nasce dal presupposto grottesco che il premier fosse convinto che Ruby era la nipote di Mubarak. Poteva fermarsi e invece no, perché è uscito dal terreno formale e si è lanciato in questa ultima provocazione». Ma secondo il premier anche la Corte Costituzionale è un organo politico... «Altro fatto gravissimo. Lui ormai si comporta così: dà ordine ai suoi di sollevare il conflitto davanti alla Corte e nello stesso tempo la delegittima definendola un organo politico e quindi disconoscendo l’imparzialità del verdetto che è chiamata a pronunciare. Questo è il suo gioco, un altro pezzo della sua strategia eversiva».
E torniamo alla questione. Quali sono le soluzioni? «Le soluzioni sono politiche. Intanto è necessario dire tutto ciò che è doveroso per tutelare la magistratura e poi si deve chiedere conto al presidente del Consiglio di quanto sta avvenendo nelle sedi proprie, anche in parlamento. Noi abbiamo un premier che fa queste piazzate e non va in parlamento se non quando deve votare per se stesso. Venga a riferire agli eletti del popolo, quel popolo a cui ama tanto richiamarsi. Il parlamento non è un suo megafono, è un luogo istituzionale e non può essere piegato agli interessi privati di una persona. Infine, credo che si debba chiarire una cosa: sulla giustizia non si discute con questa gente».
Sta criticando chi, nell’opposizione, aveva cercato di aprire al dialogo? «Penso che troppe persone, anche nell’opposizione, senza aver letto neanche una riga di quel testo chiamato riforma, si siano dette disposte a dialogare. Se avessero letto con attenzione si sarebbero resi conto che la prima riga di quel testo si riferisce all’articolo 101 della Costituzione nel quale è scritto che la giustizia è amministrata in nome del popolo. Nella riforma non si fa più riferimento alla giustizia amministrata in nome del popolo. Di fronte ad una proposta del genere non solo non ci si siede ad alcun tavolo ma si denuncia l’ennesimo atto eversivo. Credo che l’unica cosa che resta da fare sia quella di dire che in parlamento non si può parlare di giustizia fino a quando c’è questo presidente del Consiglio e questa maggioranza che traduce in norme un piano eversivo. È necessaria una intransigenza assoluta e non per ritorsione, sia chiaro».
Ha sentito il ministro Maroni? Ha detto rispetto all’Europa: “meglio soli che male accompagnati”. «Ormai siamo di fronte all’impazzimento del governo. Ma lo sa Maroni cosa vuol dire l’Europa? Penso che non sappia neanche quali sono le regole per rimanere o per uscire. Il presidente della Repubblica non è un caso che abbia espresso la propria preoccupazione. Napolitano va ringraziato ogni giorno per quello che sta facendo, per il suo grande equilibrio e per l’autorevolezza che l’Europa gli riconosce. Sono sicuro che continuerà a guardare con scrupolo istituzionale, che è doveroso, a quanto accade.

l’Unità 12.4.11
Cinquanta anni fa Il 12 aprile 1961 il cosmonauta russo entrò in orbita intorno alla Terra
A bordo della capsula Vostock vide il pianeta scorrere velocemente sotto di lui. Un trionfo
«Vedo le nuvole, è bellissimo...»

Gagarin, il primo uomo nello spazio
di Umberto Guidoni


Degli oltre duemila candidati che parteciparono alla prima selezione dei cosmonauti russi, ne furono selezionati solo venti e Jurij Gagarin era fra questi. La sua avventura cominciò quando fu trasferito al nuovo centro dei cosmonauti nelle vicinanze di Mosca, quello stesso che oggi porta il suo nome. Erano le prime selezioni e gli specialisti sovietici utilizzarono delle prove durissime. La scelta finale fu fatta da Korolev ed i due candidati migliori risultarono Leonov e Gagarin, praticamente alla pari. Leonov alla fine fu escluso perché era troppo alto per le ridotte dimensioni della capsula Vostock. Il maggiore Jurij Aleksejevic Gagarin era ormai vicino al suo appuntamento con la storia.
Nelle prime ore del mattino del 12 aprile 1961 tutto era pronto per il lancio della capsula Vostock (in russo «Oriente»). Dopo la vestizione, Gagarin fu portato in autobus verso la rampa di lancio. Durante il tragitto, forse per la tensione, richiese una fermata non programmata per fare un bisognino. Lo stop, del tutto imprevisto, è diventato uno dei riti scaramantici prima del lancio, insieme a quello di piantare un albero. Jurij entrò in una capsula minusco-
la, in cui era quasi impossibile muoversi. Per alleviare l’attesa chiese di ascoltare un po’ di musica, interrotta alle 8:51, quando la voce di Korolev inviò le ultime istruzioni. «Si va!», urlò Jurij mentre il razzo si sollevava da terra.
Il viaggio di Gagarin fu molto breve. Dopo appena nove minuti, la Vostock 1 entrò in orbita attorno alla Terra. Con una certa emozione, Jurij descrisse lo spettacolo che appariva ai suoi occhi, un’esperienza che nessun essere umano aveva mai fatto prima di lui: «... la Terra è azzurra, vedo le nuvole: è bellissimo!». Vide la Terra scorrere rapidamente sotto di lui: viaggiava ad oltre 27.000 km/h, una velocità che nessuno aveva mai raggiunto prima. Dopo poco meno di cento minuti di volo, la navicella spaziale fece il suo rientro nell’atmosfera. Gagarin venne espulso col suo seggiolino iettabile, e rientrò a terra col paracadute. Era il primo essere umano che rientrava felicemente sulla Terra dopo aver girato intorno al pianeta.
Per la Russia fu un trionfo. Gagarin aveva dimostrato che l’uomo era in grado di volare oltre ogni limite. «I russi hanno un uomo nello spazio e gli Stati Uniti dormono», commentarono amaramente i quotidiani statunitensi il giorno dopo. La sua impresa ebbe un eco eccezionale in tutto il mondo. Nel suo paese venne decorato da Nikita Krusciov con l’Ordine di Lenin, e diventò eroe nazionale dell’Unione Sovietica. Nacque così il mito di Gagarin, un autentico eroe per i russi e per tutta l’umanità. Ancora oggi, molti cosmonauti portano il suo nome. Esattamente 40 anni dopo, mi è capitato di viaggiare nello spazio a bordo dello Shuttle Endeavour, fianco a fianco con un altro Jurij: il cosmonauta Lonchakov che non era ancora nato ai tempi del volo di Gagarin.
A distanza di mezzo secolo dallo storico volo di Gagarin si può fare un bilancio dell’esplorazione umana dello spazio. Nei primi anni di vita, i viaggi spaziali avevano raggiunto risultati sorprendenti: meno di dieci anni dopo il primo volo umano, altri uomini avevano messo piede sulla Luna. I nuovi esploratori dello spazio sembravano incarnare il grande fermento politico, economico e sociale di quegli anni, erano gli esempi più fulgidi dei grandi cambiamenti in atto. Milioni di giovani, ed io fra questi, pensavano che sarebbero andati nello spazio durante il corso della loro vita. Sappiamo che le cose sono andate diversamente. Il nuovo millennio non ha visto l’uomo tornare sulla Luna ne, tantomeno, mettere piedi su Marte.
Lo spazio si è dimostrato un ostacolo più difficile del previsto ma soprattutto sono cambiate le priorità della politica. Una volta che la sfida spaziale era stata vinta dagli Stati Uniti, vincitori e sconfitti hanno battuto strade differenti. Da un lato, la scelta è caduta su tecnologie avanzate per brevi missioni spaziali, dall’altro sono stati scelti veicoli più tradizionali abbinati a basi orbitali per lunghe permanenza in orbita: lo Space Shuttle per gli americani, le Soyuz e la stazione Mir per i russi. Ma entrambi i contendenti della corsa allo spazio hanno scelto di consolidare la propria presenza in orbita, rinunciando alla prospettiva di andare oltre la Terra.
Comunque questi anni non sono passati invano. Insieme a europei, giapponesi e canadesi, i nemici di un tempo stanno collaborando, da oltre un decennio, per realizzare la casa comune nello spazio: la Stazione Spaziale Internazionale.
È un cambiamento di prospettiva importante che rende concreta la frase riportata sulla targa lasciata sulla Luna dall’Apollo XI: «siamo venuti in pace a nome di tutta l’umanità».
Se c’è una cosa che abbiamo imparato in questi decenni è che per esplorare lo spazio dobbiamo mettere insieme le forze migliori del pianeta. Credo che Gagarin sarebbe d’accordo.

La Stampa 12.4.11
Libertà della volpe e libertà delle galline
Dopo il secolo dei totalitarismi, un nuovo mostro tirannico l’individualismo senza freni che distrugge la società
di Tzvetan Todorov


Perché un potere sia legittimo, non basta sapere com’è stato conquistato (ad esempio con libere elezioni o un colpo di Stato), occorre ancora vedere in che modo viene esercitato. Fra poco saranno tre secoli dacché Montesquieu ha formulato una regola per guidare il nostro giudizio: «Ogni potere senza limiti non può essere legittimo». Le esperienze totalitarie del XX secolo ci hanno resi particolarmente sensibili ai misfatti di un potere statale illimitato, in grado di controllore ogni atto di ogni cittadino.
In Europa questi regimi appartengono al passato ma, nei Paesi democratici, restiamo sensibili alle interferenze del governo negli affari giudiziari o nella vita dei media, perché queste hanno come effetto la soppressione di ogni limite posto al suo potere. I ripetuti attacchi del Presidente francese o del premier italiano ai magistrati e ai giornalisti sono una dimostrazione di questo pericolo. Tuttavia lo Stato non è l’unico a detenere poteri all’interno di una società. All’inizio di questo XXI secolo, in Occidente, lo Stato ha perso buona parte del suo prestigio, mentre è diventato una minaccia l’ampio potere che detengono alcuni individui, o gruppi di individui. Eppure questa minaccia passa inosservata, perché questo potere si orna di un bel nome, di cui tutti si fanno forti: libertà. La libertà individuale è un valore in crescita, i difensori del bene comune oggi sembrano arcaici.
Come si sia prodotto questo capovolgimento, lo si vede bene nei Paesi ex comunisti dell’Europa dell’Est. L’interesse collettivo oggi è sospetto: per nascondere le sue turpitudini, il regime precedente l’aveva invocato così spesso che più nessuno lo prende sul serio, lo si considera una maschera ipocrita. Se il solo motore del comportamento è in ogni caso la ricerca del profitto e la sete di potere, se la lotta senza pietà e la sopravvivenza del più adatto sono le dure leggi dell’esistenza, tanto vale smetterla di fingere e accettare apertamente la legge della giungla. Questa rassegnazione spiega perché gli ex burocrati comunisti abbiano saputo rivestire, con una facilità sconcertante, gli abiti nuovi dell’ultraliberismo.
A migliaia di chilometri di lì, negli Stati Uniti, in un contesto storico completamente diverso, si è sviluppato da poco il movimento del Tea Party, il cui programma inneggia alla libertà illimitata degli individui e rifiuta qualunque controllo del governo: esige di ridurre drasticamente le tasse e qualunque altra forma di redistribuzione delle ricchezze. Le sole spese comuni accettate riguardano l’esercito e la polizia, cioè ancora la sicurezza degli individui. Chiunque si opponga a questa visione del mondo viene trattato da criptocomunista! Il paradosso è che questa visione si rifà alla religione cristiana, mentre questa, in accordo con le altre grandi tradizioni spirituali, raccomanda di curarsi dei deboli e dei miserabili.
Si passa, in questi casi, da un estremo all’altro, dal tutto-Stato totalitario al tutto-individuo ultraliberale, da un regime liberticida a un altro, di spirito «sociocida», per così dire. Ora il principio democratico vuole che tutti i poteri siano limitati: non solo quelli degli Stati, ma anche quelli degli individui, anche quando rivestono i vecchi abiti della libertà. La libertà delle galline di attaccare la volpe è uno scherzo, perché non ne hanno la capacità: la libertà della volpe è pericolosa perché è la più forte. Attraverso le leggi e le norme che stabilisce, il popolo sovrano ha tutto il diritto di restringere le libertà. Questa limitazione non tocca allo stesso modo tutta la popolazione: idealmente, limita coloro che hanno già molto potere e protegge chi ne ha molto poco.
Il potere economico è il primo dei poteri nelle mani degli individui. Lo scopo di un’impresa è generare profitti, senza i quali è condannata a sparire. Ma al di fuori dei loro interessi particolari, gli abitanti di un Paese hanno anche interessi comuni, ai quali le imprese non contribuiscono spontaneamente. Tocca allo Stato liberare le risorse necessarie a prendersi cura dell’esercito e della polizia, dell’educazione e della salute, dell’apparato giudiziario e delle infrastrutture. O della protezione della natura: la famosa mano invisibile attribuita ad Adam Smith non serve a molto, in questi casi. Lo si è visto con la marea nera nel Golfo del Messico, nella primavera 2010: lasciate senza controllo, le compagnie petrolifere cercano i materiali da costruzione poco costosi e dunque poco affidabili. Di fronte allo smisurato potere economico di individui o di gruppi di individui, il potere politico si rivela spesso troppo debole.
La libertà di espressione a volte viene presentata come il fondamento della democrazia, e per questa ragione non deve conoscere freni. Ma si può dire che è indipendente dal potere di cui dispone? Non basta avere il diritto di esprimersi, occorre anche averne la possibilità; se non c’è, questa «libertà» non è che una parola vuota. Tutte le informazioni, tutte le opinioni non vengono accettate con la stessa facilità nei grandi media. Ora la libera espressione dei potenti può avere conseguenze funeste per i senza-voce: viviamo in uno stesso mondo. Se si ha la libertà di dire che tutti gli arabi sono degli islamisti non assimilabili, essi non hanno più quella di trovare lavoro e neppure di camminare per strada senza essere controllati.
La parola pubblica, un potere tra gli altri, a volte deve essere limitata. Dove trovare il criterio che permetta di distinguere le limitazioni buone da quelle cattive? Soprattutto nel rapporto di potere tra chi parla e colui di cui si parla. Non si ha lo stesso merito se si combattono i potenti del momento o si indica al risentimento popolare un capro espiatorio. Un organo di stampa è infinitamente più debole dello Stato, non c’è dunque ragione di limitare la sua libertà di espressione quando lo critica, purché la metta al servizio della libertà.
Quando il sito Mediapart rivela una collusione tra poteri economici e responsabili politici, il suo gesto non ha nulla di «fascista», qualunque cosa dicano quelli che sono presi di mira. Le «fughe di notizie» di WikiLeaks nulla hanno di totalitario: i regimi comunisti rendevano trasparente la vita dei deboli, non quella dello Stato. In compenso, un organo di stampa è più potente di un individuo e il «linciaggio mediatico» è un abuso di potere.
I difensori della liberà d’espressione illimitata ignorano la distinzione tra potenti e impotenti, il che permette loro di coprirsi da soli di alloro. Il redattore del quotidiano danese Jyllands-Posten , che nel 2005 aveva pubblicato le caricature di Maometto, cinque anni dopo torna sulla questione e modestamente si paragona agli eretici del Medioevo bruciati sul rogo, a Voltaire nemico della Chiesa onnipotente o ai dissidenti oppressi dalla polizia sovietica. Decisamente la figura della vittima esercita oggi un’attrazione irresistibile! Ciò facendo, il giornalista dimentica che quei coraggiosi praticanti della libertà di espressione si battevano contro i detentori del potere spirituale e temporale del loro tempo, non contro una minoranza discriminata.
Porre limiti alla libertà di espressione non significa sostenere la censura, ma fare appello alla responsabilità dei padroni dei media. La tirannia degli individui è certamente meno sanguinosa di quella degli Stati; eppure anch’essa è un ostacolo a una vita comune soddisfacente. Nulla ci obbliga a rinchiuderci nella scelta tra «tutto-Stato» e «tutto-individuo»: abbiamo bisogno di difenderli entrambi, e che ciascuno limiti gli abusi dell’altro.

Corriere della Sera 12.4.11
«Temo il messianismo politico. Come Goya»
Tzvetan Todorov: l’ambizione di estirpare totalmente il Male è molto rischiosa
di  Stefano Montefiori


D alla Spagna del 1808 alla Libia del 2011, molto è cambiato ma non la voglia di edulcorare la violenza delle armi con nobili motivazioni. Ecco perché secondo il filosofo Tzvetan Todorov, nato a Sofia 72 anni fa e parigino di adozione, per capire le guerre, compresa quella condotta dalla Nato in questi giorni tra Tripoli e Bengasi, basta rifarsi a Goya. «Non fu solo un grande pittore, ma un intellettuale che riuscì a riflettere in modo profondo su quel che succedeva intorno a lui — dice Todorov, autore di "Goya à l’ombre des Lumières"—. Era molto influenzato dagli illuministi spagnoli di fine Settecento, e assistette all’invasione della Spagna da parte delle truppe napoleoniche che combattevano, almeno in teoria, in nome dei diritti dell’uomo e degli ideali dei Lumi. Lo spettacolo delle atrocità commesse sia dai francesi sia dai guerriglieri spagnoli lo fece ragionare sulla guerra. Fu così in anticipo sui suoi tempi che possiamo considerarlo un contemporaneo» . Nella raccolta di incisioni «I disastri della guerra» Goya mostra pile di corpi, combattenti delle due parti gettati nelle fosse comuni, fucilazioni sommarie. «I francesi incontrarono una resistenza durissima, fu in quei giorni del resto che venne coniata la parola guerrilla. Gli spagnoli combattevano per patriottismo e per fedeltà ai valori tradizionali della religione, i francesi in nome della ragione e di libertà, fratellanza e uguaglianza. Gli orrori però erano gli stessi. Goya scelse di schierarsi non contro una parte o l’altra, ma contro la guerra» . Una posizione che oggi viene ripresa da Tzvetan Todorov a proposito degli interventi in Libia e anche in Costa d’Avorio, giustificati dalla necessità di difendere i diritti dell’uomo proteggendo le popolazioni civili. «Credo che purtroppo la guerra abbia una sua logica interna, che le impedisce di restare così circoscritta e chirurgica come sostiene chi la propone. Prima del 19 marzo le truppe di Gheddafi stavano per eseguire un massacro a Bengasi, ci ha ripetuto il presidente Sarkozy per convincere l’Occidente a intervenire. Sono stati allora legittimi i primi bombardamenti, quelli che hanno fermato l’avanzata del regime. Ma poi l’intervento pseudo-umanitario si è trasformato in un’altra cosa» . L’Occidente viene spesso criticato per la sua inazione, per la tentazione di stare a guardare mentre a pochi chilometri di distanza, in questo caso nella sponda sud del Mediterraneo, i carri armati soffocano il desiderio di libertà. Lei oggi critica il protagonismo di Sarkozy, ma prima dell’intervento il presidente francese e l’Europa venivano accusati di cinico disinteresse e di appeasement con i dittatori. «È un riflesso intellettuale in voga in Francia, quello di accusare chi si dice contrario alla guerra ricordandogli gli accordi di Monaco del 1938, che permisero a Hitler di guadagnare posizioni nella conquista dell’Europa. Non è la stessa cosa, e io non dico che tutte le guerre sono ingiuste. Le guerre difensive, come quella degli Alleati nel 1939-1945, sono legittime. E le guerre per impedire un genocidio acclarato. Ma in questi casi l’Occidente non si nuove mai. Fu il Vietnam a fermare la carneficina operata dai Khmer rossi in Cambogia. E sono stati i ruandesi alleati con l’Uganda a porre fine al massacro in Ruanda» . Eppure il fatto che i diritti dell’uomo siano tornati un vessillo dell’Occidente è forse positivo. «No, lo trovo invece molto rischioso. Siamo davanti a una nuova fase di messianismo politico. La prima è appunto quella napoleonica, dipinta da Goya. La seconda ondata messianica è stata quella del comunismo, che prometteva di portare la liberazione alle masse con l’Armata rossa, a cominciare dai piccoli Paesi europei al confine con la Russia. E ora assistiamo al terzo risveglio del messianismo politico: la prima guerra del Golfo è stato un rodaggio, l’intervento in Kosovo, senza mandato dell’Onu, la prova generale, ed ecco poi Afghanistan, Iraq, oggi Libia. In fondo, cos’è la guerra in Afghanistan, se non la riproposizione duecento anni dopo dello scontro tra illuminati e tradizionalisti, napoleonici e conservatori e patrioti spagnoli che oggi chiameremmo talebani?» . I dipinti di Goya come le foto su Internet di Abu Ghraib. Ma è possibile un no filosofico, assoluto, alla guerra? «No, e non credo sarebbe un bene. L’ambizione di estirpare totalmente il Male sarebbe ancora più dannosa: è la funzione del peccato originale, ricordarci, come diceva Romain Gary, che esiste una "parte inumana dell’umanità". Dobbiamo però cercare di limitare al massimo le guerre non inevitabili. Come quella in Libia, per esempio» .

La Stampa 12.4.11
Meno male che allora c’era Nerone
L’immagine che ci è stata tramandata non rende giustizia all’imperatore dal raffinato carisma. Una mostra a Roma
di Silvia Ronchey


Contrariamente a quanto il suo nome potrebbe far credere, Nerone di nero non aveva nulla, tranne la leggenda che prima la storiografia contemporanea e poi quella cristiana avrebbero proiettato su di lui, attribuendo i bui tratti di molti altri imperatori romani solo alla sua figura di tyrannos-pharmakòs, re-capro espiatorio rituale, del resto perfetta, se non altro per essersi autoeletta tale.
Sfruttando un’intima vocazione teatrale, mescolandola con una calcolata attenzione all’applauso del popolo, alla politica spettacolo, riunendo in sé le icone idolatrate dalle masse — campione sportivo, attore, musicista — si costruì un’immagine apollinea e «divina»: da divo, anzi quasi da popstar. Con, tuttavia, quel particolare, raffinato carisma, che avrebbe fatto di lui un mito prima settecentesco, poi decadente. Da oggi una mostra a Roma, lungo i fori imperiali, ne celebra la figura.
Fu Nerone a fornire l’exemplum dell’imperatore filosofo, cui si rifecero gli Antonini. Il culto per il corpo e la bellezza fisica, l’amore per l’antica paideia greca; l’estetismo, in ogni lato della sua personalità, dal collezionismo di opere d’arte alla passione per l’architettura; la sensibilità alla religione astronomico-filosofica pagana espressa nella Domus Aurea, con la grande aula ruotante su se stessa a simulare il moto della terra, costruita nel fervore del rinnovamento edilizio urbano promosso dopo il certo fortuito e a lui non imputabile grande incendio di Roma, hanno ben poco a che fare con le ostentazioni di Adriano e della sua villa a Tivoli. Di cui però nessuno ha criticato il narcisismo, lo sfarzo, il costo; che anzi è stata ed è esaltata, contrariamente alla domus «maledetta», che sarà «restituita al popolo» dagli imperatori successivi.
Il misticismo pagano di Adriano, insieme alla sua ambigua sessualità, sono stati amati, contrariamente a quelli di Nerone. Animula vagula blandula / hospes comesque corporis , poetava Adriano. Nessuno ha mai schernito questi versi, né questi tratti in lui, come invece in Nerone, che, pure, i frammenti rivelano poeta non dilettante.
La storiografia novecentesca — per non parlare della letteratura, con in testa Marguerite Yourcenar — ha esaltato, in contrapposizione alla crudeltà privata di Nerone, matricida e «suicidatore» del maestro Seneca, la moderazione di Adriano, sorvolando sulla sanguinaria repressione della rivolta in Giudea, primo genocidio ebraico della storia.
Ha stigmatizzato in lui le condanne inflitte alla minoranza cristiana dopo l’incendio di Roma attribuitole dalla plebe (ma sono leggendarie posteriori esecuzioni come la presunta decapitazione di San Paolo, che anzi da Nerone era stato assolto); dimenticando che i primi editti anticristiani risalgono a Domiziano e a Traiano e che il primo grande persecutore fu in realtà l’«imperatore filosofo» Marco Aurelio.
Ha esaltato l’amore per la cultura e per le arti degli Antonini, ridicolizzandolo invece in Nerone; ha ridotto a macchiette le letture poetiche con cui elettrizzava le folle, presentando come velleitaria la passione filosofica e letteraria che gli faceva conoscere a memoria Omero, i lirici greci, le tragedie attiche. Mentre degli «imperatori filosofi» antonini sono stata fatte icone del nostro tempo, Nerone è rimasto una macchia nera nell’aureo albo dei cesari.
Ma Nerone, di suo, non era nero. Il nobilissimo Lucio Domizio Enobarbo, discendente da Augusto per parte di madre — Agrippina, sorella di Caligola e moglie di Claudio —, apparteneva per parte di padre a una gens il cui nome significava «dalla barba ramata». I capelli, di un biondo tiziano, li portava trasgressivamente lunghi. Era salito adolescente sul trono di un impero che spaziava su tre continenti, il più grande mai esistito. Morì suicida a 31 anni, recitando un verso di Omero. Il prestigio che aveva e avrebbe avuto presso il popolo di Roma — così come in Grecia, alle cui poleis aveva restituito la libertà — è dimostrato dalle attese di un ritorno di Nerone testimoniate ancora mezzo secolo dopo la sua morte — come ricorda, nel catalogo Electa, il fondamentale saggio di Andrea Giardina —; dai ben tre falsi Neroni che insidiarono i suoi successori; dagli omaggi popolari alla sua effigie e alla sua tomba, durati fino al XII secolo, quando sul sepolcro dei Domizi Enobarbi fu costruita una cappella cristiana destinata a diventare la basilica di Santa Maria del Popolo.
«Il popolo amava Nerone. Perché opprimeva i grandi ma era lieve con i piccoli», avrebbe sentenziato Bonaparte. La verità è che non esistono imperatori «lievi»; né tanto meno imperatori filosofi. Nessun imperatore romano può non rispondere almeno parzialmente ai tratti che la Leggenda Nera di Nerone, antica e poi cristiano-medievale, prestò alla demagogia, avidità, crudeltà proprie di quei sovrani di fatto assoluti, anche se a volte più a volte meno dissoluti, che furono quasi sempre i cesari di Roma.

Corriere della Sera 12.4.11
Rousseau, quel passaggio dall’alchimia alla ragione
Esce l’edizione integrale delle «Institutions chimiques»
di Armando Torno


Ci sono pervenuti dei manoscritti di Jean-Jacques Rousseau riguardanti la chimica. Sino ad oggi non sono stati valutati in maniera corretta, tanto che per taluni critici restano mero esercizio di compilazione; altri, invece, ne hanno esagerato il valore, trasformandoli nel fondamento paradigmatico di tutta l’opera politica ulteriore. Le Institutions chimiques, insomma, registrano «l’embarras ordinaire» dei posteri di fronte alla questione fondamentale dei rapporti intrattenuti dal pensatore con le scienze del tempo. Dopo l’edizione del 1999 nel «Corpus» delle opere filosofiche in lingua francese, allora pubblicato da Fayard, a cura di Bruno Bernardi e Bernadette Bensaude Vincent, vede ora la prima sistemazione critica grazie a Christophe Van Staen (Honoré Champion, Parigi, pp. 416, e 75). Il testo, completamente riveduto e arricchito dalle appendici e da un lessico, restituito ai lettori nella sua completezza (per esempio, l’articolo «arsenico» , è dato integralmente per la prima volta) riserva non poche sorprese e mostra i passi compiuti dal celebre Jean-Jacques nell’indagare i principi della coesione dei corpi o quelli della loro trasparenza, i meccanismi della natura o «opérations» quali distillazione, fusione, cristallizzazione. Ma soprattutto tali pagine trovano finalmente un posto nel lascito di Rousseau: Van Staen ricorda che in esse si leggono preziose indicazioni sull’evoluzione sotterranea della sua opera e sulla coscienza che egli sviluppa progressivamente dinanzi ai pericoli in grado di contagiare le anime credule, nutrite da una concezione fantastica delle scienze e dei loro vantaggi. Non si tratta di un testo importante per la chimica del XVIII secolo, ma di un documento che mostra come tale disciplina riesca ad aiutare una grande mente a emanciparsi dall’ «imaginaire» che l’aveva plasmata. Il giovane Rousseau, detto in soldoni, non si forma sui libri di Descartes, Keplero o Newton (quest’ultimo, comunque, era interessato all’alchimia), ma su nozioni letterarie, oniriche, ingenue, non sempre rivelate nel primo libro delle Confessioni. Van Staen parla dell’attrazione che esercitavano su di lui gli orologi d’Oriente, i misteri della lingua dei segni, le macchine fantastiche degli antichi. C’è insomma una storia esemplare di conversione allo spirito scientifico in questo libro che si basa sui tre tomi manoscritti conservati a Ginevra (siglati Bge, Ms. fr. 238) e che non fu incluso nei cinque volumi delle Oeuvres complètes di Rousseau della «Bibliothèque de la Pléiade» , dove comunque si trovano le pagine sulla botanica. Si potrebbe, utilizzando un azzardo, affermare che le Institutions come pochi altri testi riflettono il passaggio definitivo dall’alchimia alla chimica nel XVIII secolo. Non è un mistero: il tempo dei Lumi è ancora percorso da idee esoteriche e Antoine-Laurent de Lavoisier (1743– 1794), che diede la prima versione della legge di conservazione della massa, riconobbe e battezzò l'ossigeno (1778), confutò la teoria del flogisto, conviveva con concezioni a lui diametralmente opposte. Basterà ricordare la monumentale Bibliotheca chemica curiosa, due volumi in-folio usciti a Ginevra nel 1702 e curati da Jean-Jacques Manget: conteneva i testi essenziali per gli iniziati, da Arnaldo di Villanova a Ruggero Bacone, da Avicenna a Raimondo Lullo. Di più: nel 1761, come ricorda Eric J. Holmyard nella Storia dell’alchimia (ora nelle edizioni Odoya), qualcuno credeva che il creatore della pietra filosofale, Nicolas Flamel, morto nel 1418, svolgesse ancora la sua attività a Parigi; anzi, con la moglie era vivo e vegeto. Del resto, i due nel secolo precedente furono segnalati in India: alla faccia delle pillole d’immortalità cinesi che si vendevano bene nella capitale francese, ma non sottraevano ancora i clienti ai becchini.

Corriere della Sera 12.4.11
Il «conflitto» interiore delle donne
Sabotatrici, eroine romantiche, ribelli e icone della propaganda
di Anna Bravo


Q uando nel 2003, durante la seconda guerra del Golfo, l’americana diciannovenne Jessica Lynch cade prigioniera degli iracheni, per liberarla si organizza una spettacolare irruzione notturna con telecamere al seguito e gran battage mediatico. Per giorni e giorni, su tutte le tv passano le sequenze dell’azione e le centinaia di nastri gialli, simbolo dei «missing in action» , appesi agli alberi di sicomoro, agli steccati, ai semafori di Palestine, il paese di Jessica. Il Pentagono ha fatto una buona mossa. Quella prigionia inquietava, evocava sofferenze e pericoli aggiuntivi, in primo luogo quello dello stupro. Anche se essere catturati rientra fra le ovvie possibilità del mestiere di soldato, è come se in quel momento si riscoprisse l’antico volto predatorio e antifemminile della guerra. Eppure negli ultimi decenni tutto sembra cambiato. In molti Paesi, compresa l’Italia, le forze armate hanno aperto alle donne. Con la fine della guerra fredda, con le nuove armi e i nuovi fondamentalismi, i modelli di conflittualità si sono moltiplicati. Si è modificata la concezione del nemico e dei limiti da porsi (o da non porsi). Abbiamo sotto gli occhi in contemporanea ogni tipo di guerra, tecnologica, tradizionale, etnica, religiosa, «umanitaria» , asimmetrica, a bassa intensità, e spesso mischiate fra loro. Come nell’intervento Nato contro la Serbia del marzo-giugno 1999, dove terra e cielo sono stati teatro di due guerre diverse: una tradizionale, fra l’Esercito di liberazione del Kosovo e le truppe di Milosevic, con le donne per lo più in veste di preda e di vittima; l’altra tecnologica, di soli bombardamenti Nato e azioni della contraerea serba, con alcune giovani pilote nel ruolo di combattenti. Dunque quando si parla di donne e guerra, la prima domanda dovrebbe essere: quale guerra, quali donne. Ma non vale solo per l’oggi. Già decenni fa, alcune studiose — penso a Jean Bethke Elshtain, Françoise Thébaud, Cynthia Enloe e a parecchie italiane— avevano mostrato che il binomio donne-guerra andava scomposto, direi sminuzzato. Nei due conflitti mondiali, per esempio, moltissime hanno lavorato nella produzione bellica, hanno tollerato la violenza per rassegnazione o per convinzione, spesso sotto le insegne della maternità, hanno offerto un retroterra materiale e morale a figli, mariti, fratelli, compagni. Alcune hanno preso le armi. Non è solo effetto dell’identificazione con il destino maschile o della propaganda. Il punto è che, in mezzo a sofferenze e rinunce, dalla guerra nascono anche nuove forme di autoaffermazione: maternità e lavoro delle donne sono promossi a fulcro dello sforzo nazionale, la femminilità viene esaltata come contraltare della violenza. Di più: nella seconda guerra, una donna può trovarsi a guidare un’azione armata, a fare sabotaggi, a salvare, a uccidere; e a potenziare con il proprio esempio le fantasie aggressive o eroico-romantiche di altre, vissute abitualmente per la interposta persona dell’uomo. A dispetto di recenti speranze e di antiche retoriche, nessun dono di nascita e nessuna eredità storica hanno immunizzato le donne dal piacere di condividere esperienze fondate sulle categorie di virtù civile, gloria, orgoglio nazionale, da cui nella normalità sono state escluse. Ma altre, o le stesse in tempi diversi, hanno dato vita a manifestazioni antibelliciste, tentato di fermare i treni diretti al fronte, nascosto disertori e renitenti. Come le molte italiane che all’indomani dell’ 8 settembre, quando l’esercito si disfa e decine di migliaia di soldati si sbandano nel Paese occupato dai tedeschi, li soccorrono a rischio della propria vita, rivestendoli in borghese per sottrarli alla cattura e mettendoli sulla via di casa. Forse una continuità va cercata sul piano dei simboli. Nell’immaginario e nella propaganda di guerra ha ancora corso la figura della donna in pericolo, da sempre una delle leve più potenti per sollecitare la combattività maschile e per costruire la maschera barbarica da sovrapporre all’Altro. Una maschera così essenziale — scrive George Mosse a proposito della Grande guerra— che i tabù destinati a frenare l’iconografia della brutalità vengono abbandonati: all’epoca circolano in quantità le cartoline che rappresentano il nemico coperto di escrementi e con gli organi sessuali bene in vista, o che illustrano stupri e sodomie. Le allusioni a una presunta violenza subita da Jessica Lynch hanno una lunga storia. E ha una lunga storia lo stereotipo base, secondo cui donne e guerra sono reciprocamente incompatibili. Saggio stereotipo, se si decidesse di farne il primo passo verso il riconoscimento che l’inconciliabilità riguarda ogni essere vivente.

Repubblica 12.4.11
Youcat, angeli e castità è il catechismo di Ratzinger in cinquecento risposte


Cosa è il cielo? Chi sono gli angeli? In che cosa crediamo? Come dobbiamo pregare? Sono domande eterne, che tutti ci poniamo. Ad esse prova a rispondere un piccolo ma denso libro di 300 pagine, dalla copertina gialla (il colore "forte" della bandiera vaticana, l´altro è il bianco), con la prefazione di Benedetto XVI, che verrà presentato domani nella Santa Sede.
Si chiama Youcat, sintesi di Youth catechism (catechismo per i ragazzi). È nato da un´iniziativa di Papa Wojtyla, con un lavoro svolto e portato a termine da Joseph Ratzinger in vista della prossima Giornata mondiale della gioventù (Madrid, 16-21 agosto). Si tratta di poco più di 500 domande e risposte, formulate in modo sintetico e con un linguaggio agile, ma perfettamente rispondenti ai criteri della Chiesa cattolica, elaborate sotto la guida di uno dei più fidati collaboratori dell´attuale Pontefice, l´arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schoenborn.
Alle domande poste in maniera rapida segue una risposta non più lunga, nei casi estremi, di 8-10 righe, spesso molto meno. C´è poi un commento, ma non più esteso di una ventina di righe. Come in questo caso, quando si risponde alla domanda: «Se Dio conosce ogni cosa e può fare ogni cosa, perché non impedisce il male?». Risposta: «Dio permette il male solo per lasciarne scaturire qualcosa di migliore». Commento: «Il male nel mondo è un mistero oscuro e doloroso (...). La morte e la risurrezione di Cristo ci mostrano che il male non aveva la prima parola e non avrà neppure l´ultima; dal male peggiore Dio ha fatto scaturire il bene migliore, e noi crediamo che col Giudizio Universale Dio porrà fine ad ogni ingiustizia (...)».
Questo è uno dei commenti più articolati. Altri sono brevi, ma ugualmente intensi. E alla domanda su «qual è l´importanza della domenica?», la risposta commentata è: «Se la domenica viene trascurata o abolita, tutti i giorni sono solo lavorativi. L´uomo, che è stato creato per la gioia, diviene così un animale da lavoro e potenzialmente asservito al consumismo».
Alcuni temi potrebbero essere soggetti a interpretazioni diverse, se non a critiche. «C´è contraddizione fra fede e scienza?». Risposta: «Non esiste una contraddizione insolubile fra fede e scienza, poiché non può esistere una doppia verità». Commento: «Non esiste una verità di fede che possa fare concorrenza alla verità della scienza. Esiste una sola verità a cui fanno riferimento tanto la fede che la razionalità scientifica. Dio ha voluto la ragione, con la quale noi possiamo riconoscere le strutture razionali del mondo, allo stesso modo in cui ha voluto la fede. Per questo la fede cristiana richiede e promuove la scienze e la scienza (...)».
Fra i tanti argomenti il mondo degli affari, il divorzio, l´ambiente, i media. Si va dai temi più strettamente religiosi alle questioni sociali. Che cos´è il peccato? E la castità? Come fa un uomo a capire se le sue azioni sono buone o cattive? Perché le passioni? E la democrazia? Scrive il Papa ai giovani nella Premessa, riferendosi agli scandali recenti che hanno toccato la Chiesa: «Se vi dedicate allo studio del catechismo, vorrei ancora darvi un ultimo consiglio: sapete tutti in che modo la comunità dei credenti è stata ferita dagli attacchi del male, dalla penetrazione del peccato all´interno, anzi nel cuore della Chiesa. Non prendete questo a pretesto per fuggire davanti a Dio: voi stessi siete il corpo di Cristo, la Chiesa!».
E´ scritto nella risposta di una delle domande da domani forse più consultate del libro («Cosa avverrà quando il mondo finirà?»): «Con l´avvento di Cristo ci saranno un cielo nuovo ed una terra nuova. "E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate" (Apocalisse di Giovanni 21, 2.4)».

Repubblica 12.4.11
I padroni dei simboli
Così parole e immagini diventano propaganda

di Gustavo Zagrebelsky

L´anticipazione/ Un brano dell´intervento di Zagrebelsky alla Biennale Democrazia sul potere "diabolico" di alcuni segni
Un blocco di potere economico e politico senza valori caratterizza la nostra epoca
Il senso delle istituzioni è ormai diventato un ferrovecchio di cui fare a meno

Anticipiamo una parte dell´intervento che terrà giovedì alla Biennale Democrazia

Secondo una classica visione della struttura delle nostre società, esse sono costruite su tre funzioni, riguardanti rispettivamente la politica, l´economia e la simbologia. Queste funzioni conformano rispettivamente le volontà, le necessità e le mentalità. Quale di queste tre funzioni sia più importante, sarebbe difficile dire. Forse nessuna, il che è quanto dire che tutte e tre sono ugualmente necessarie.
Non abbiamo nozione di alcun gruppo di individui costituiti in società senza un potere politico, senza un´attività rivolta alla provvista dei beni materiali, senza una funzione destinata al nutrimento delle menti. Se tutte e tre le funzioni sono necessarie, quella simbolica è però l´unica che dia un senso, un significato d´insieme alle altre due, che ci dica perché stiamo e vogliamo stare insieme.
La teoria dice che nelle società bene organizzate, cioè equilibrate, le tre funzioni sono reciprocamente indipendenti; una sorta di tripartizione dei poteri sociali. La storia ci dice invece che, essendo in questione il potere, ciascuna delle tre tende a imporsi sulle altre due e ad asservirle. Si potrebbe tratteggiare la storia delle nostre società come un continuo spostamento del baricentro da uno all´altro, all´altro ancora e così distinguerle a seconda del predominio del "politico", dell´"economico" o del "simbolico". Il potere simbolico, tuttavia, di tutti è il più sottile e pervasivo, ma fra tutti il più debole. Non ha dalla sua né la forza fisica, né quella dei bisogni materiali ed è perciò sempre stato il terreno più esposto alla capitolazione. Di una relativa, anche se sempre contestata, autonomia ha goduto nel periodo medievale, quando era monopolizzato dalla Chiesa e dai suoi ministri, forti d´una certificazione divina. La Chiesa è stata effettivamente, allora, una formidabile fucina di simboli politici, avendo di fronte a sé un potere civile fragile e bisognoso di sostegno e l´economia curtense non rappresentando un centro di potere competitivo. Ma questo monopolio è venuto meno da quando la cosiddetta secolarizzazione delle società ne ha rotto la compattezza, aprendo a visioni del mondo d´altra matrice, orientate al regno di quaggiù dove vige non il dogma unico ma la pluralità delle opinioni. Nel regno di quaggiù, poi, la funzione simbolica si è trovata a fare i conti, con sproporzione di mezzi, con la politica, che dispone dello Stato e dei suoi poteri coercitivi, e con l´economia basata sulla concentrazione di capitali immensi, capaci di tutto condizionare, se non comperare.
Chi sono dunque i padroni del mondo simbolico nel quale oggi viviamo? Se ci chiediamo chi muove le parole, le immagini, le cose che esprimono simbolicamente i valori, le aspirazioni, in genere le idee che plasmano le nostre società, andremmo probabilmente a cercarli in quel blocco di potere economico e politico chiamato lobbicrazia, che caratterizza in senso ormai sempre più chiaramente nichilistico la nostra epoca. Un´epoca definita come quella del "finanzcapitalismo" e del "grande saccheggio", del valore estraibile dagli esseri umani e dagli ecosistemi. È in quella compenetrazione d´interessi che nasce la commissione di schemi di pensiero, valori e modelli di comportamento, alla quale rispondono centri di ricerca, accademie, think-tanks, "opinionisti" ai quali la visibilità e il successo sono assicurati dalla misura della loro consonanza. L´influenza sul pubblico è poi assicurata dall´accesso a strumenti di diffusione capillari e omologanti.
La funzione simbolica diventa così una funzione passiva e servente. I simboli, strumentalizzati, imbrogliano circa il loro senso. Promettono il bene di chi li consuma e invece promuovono il bene di chi li produce. Si traducono in propaganda e in pubblicità. Il loro ideale è la società come superficie tutta liscia su cui scorrere liberamente. Se increspature all´omologazione vi sono, riguardano il folklore o l´arte d´avanguardia; l´uno a benefizio dei molto semplici, l´altra a beneficio dei molto raffinati. Ma non sono loro, quelli decisivi per i padroni dei simboli: è la massa quella che conta.
Il simbolo è un terzo tra due persone; in ogni caso è un segno riconosciuto dalle parti in causa che, essendo comune, non è proprio di nessuna di essa. Ciò che è di tutti, in certo senso, non è di nessuno in particolare. Il simbolo non si appiattisce e nessuno vi si può confondere. Solo così può svolgere i suoi compiti di unificazione, diffusione di fiducia, promozione di lealtà e di sentimento d´appartenenza. Se qualcuno se ne impadronisce, governandone i contenuti, inculcandoli come propaganda o come pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di dominio delle coscienze, il simbolo cambia natura. Allora, può diventare strumento di trasformazione degli uomini in masse fanatizzate, può diventare il diapason del potere totalitario.
Lo strumento del demagogo opera la più ardita delle identificazioni politiche: il popolo nel suo capo e il capo nel suo popolo. Il capo è organo del popolo e il popolo è organo del capo. Sono la stessa cosa. In questa identificazione, viene a mancare lo spazio per simboli "terzi" perché il capo stesso è il simbolo: il segno di tutti valori, le aspettative, le speranze convergenti del suo popolo.
Napoleone, Franco, Mussolini, Hitler, Stalin, Mao, Castro, i nord-coreani Kim Jong-il e Kim il-Sung e, esemplarmente, l´orwelliano Grande Fratello rappresentano le figure moderne di questo genere d´identificazione. Essi stessi, nella loro corporeità, vera o fittizia, si sono proposti immediatamente come simboli politici, cioè come fattori unificanti, e così hanno fagocitato le istituzioni e le leggi, cioè quegli strumenti della convivenza che gli uomini si sono dati, costruendole su simboli "terzi". Sono soverchiate dagli uomini del potere che esibiscono il loro volto, la loro voce, le loro fattezze, mille volte riprodotti, ritrasmessi, amplificati. Si sono cioè trasformati essi stessi, direttamente, in istituzione e legge.
Il simbolo si confonde col corpo e viceversa. Così, tutte le distinzioni che vengono da una lunga storia del diritto pubblico tra persona privata e carica pubblica svaniscono. Le regole sono "impicci", le costituzioni "gabbie", la legalità angheria Il "senso delle istituzioni", che distingue l´etica pubblica dalla morale privata, diventa un ferrovecchio su cui si può ironizzare. Le dimore personali sono equiparate ai palazzi delle istituzioni, anzi sono interscambiabili. La fortune private sono intoccabili come se fossero pubbliche e quelle pubbliche sono disponibili come se fossero private. Queste e altre confusioni si giustificano non come privilegio del capo, ma come diritto del popolo, tanto più in quanto il primo sia stato eletto dal secondo e l´elezione sia concepita come investitura salvifica. Tutto deriva infatti dall´identificazione simbolica del capo con il popolo e del popolo con il capo. L´arbitrio del capo, simbolicamente, non è più tale, ma diventa l´onnipotenza del popolo, che può esibirsi come la forma più pura di democrazia.
Questa versione del simbolo, però, è la sua estrema corruzione diabolica. Potremmo dire è il Lucifero dei diaboli. Infatti, si traduce nell´esaltazione del potere personificato, che è l´esatto contrario di ciò che ci attendiamo dai simboli politici: essere fattore d´unificazione "terzo", cioè impersonale, cioè nemico d´ogni demagogia Si traduce, infine, in un rischio mortale per la società stessa. La scomparsa della persona fisica, coincide con la fine del simbolo, cioè di ciò senza cui essa non sta insieme. La dissoluzione del corpo fisico del capo finisce così per coincidere con la dissoluzione del corpo sociale, cioè con instabilità, disordini, lotte fratricide. Ecco il prezzo che pagano i popoli quando si mettono nelle mani di qualcuno dicendogli: vai, noi ci riconosciamo in te, perché tu ti riconosci in noi.

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