sabato 16 aprile 2011

Corriere della Sera 16.4.11
«Evoluzionismo, una visione cieca della vita umana»
L’attacco al nazista Kolbenheyer
di Martin Heidegger


Ogni epoca e ogni popolo hanno la loro caverna e gli annessi abitanti della caverna. Anche noi oggi. E un caso esemplare di un odierno abitante della caverna, con il suo annesso plaudente seguito, è ad esempio il filosofo popolare e politico della cultura Kolbenheyer, che ieri si è esibito qui. Non mi riferisco al poeta Kolbenheyer, di cui ammiriamo il Paracelsus. Egli è vincolato alle ombre e le considera l’unica concretezza e l’unico mondo determinante; cioè pensa e parla nello schema di una biologia che ha conosciuto trent’anni fa— in un tempo in cui era di moda produrre visioni del mondo biologiche, cfr. Bölsche e i libri sul cosmo. Kolbenheyer non vede, non è capace di vedere e non vuole vedere: 1. che quella biologia del 1900 si fonda sull’impostazione di fondo del darwinismo e che questa dottrina darwinistica della vita non è qualcosa di assoluto, e nemmeno di biologico; piuttosto essa è determinata genituralmente dalla concezione liberale dell’uomo e della società umana, che dominava nel positivismo inglese nel secolo XIX; 2. che la sua biologia del plasma e della struttura cellulare e dell’organismo è radicalmente superata e che oggi viene alla luce una formulazione interamente nuova, fondamentalmente più profonda, della questione concernente la «vita» .— Scardinamento del concetto di organismo, che è soltanto una propaggine dell’«Idealismo» , soggetto singolare, «Io» , e soggetto biologico. Tempra di fondo: relazione con l’ambiente, e questa non è una conseguenza dell’adattamento, bensì al contrario la condizione d’attendibilità per esso; 3. che, sebbene la costitutiva determinazione della vita sia più originaria e più appropriata di quella del secolo XIX, anche in questo caso la vita (modo d’essere di pianta e animale) non costituisce la sovrana sfera d’integrità della concretezza; 4. che, sebbene, in una certa forma, la vita umano-fisica sia il fondo portante dell’umano essere e della sua successione di generazioni raccolte in stirpi, con ciò non è ancora provato che il fondo portante debba e anche soltanto possa essere anche il fondo determinante (...). 5. In fondo questo modo di pensare non si differenzia in niente dalla psicoanalisi di Freud e dalle sue consorterie. In fondo nemmeno dal marxismo, che prende il tratto genitural-spirituale come funzione del processo di produzione economico (...). 6. Sulla base della cecità di questo biologismo rispetto alla geniturale ed esistenziale concretezza di fondo dell’uomo o di un popolo, Kolbenheyer è incapace di vedere genuinamente e di comprendere l’odierna concretezza politico-geniturale tedesca; infatti, nella conferenza non ve ne è traccia — al contrario: la rivoluzione è stata falsificata come mera azienda organizzativa. 7. Qui monta il tipico atteggiamento di un borghese reazionario nazionale e popolaresco. Per quest’ultimo la «politica» è un’ignobile, fatale sfera che si lascia nelle mani di certe persone, che poi per esempio fanno la rivoluzione. Il borghese aspetta finché questo processo è finito perché arrivi nuovamente il suo turno; qui con il compito di fornire infine, ex post, lo spirito alla rivoluzione. Naturalmente per questa tattica ci si appella ad un motto del Führer: finita la rivoluzione, inizia l’evoluzione. Suvvia — non indugiamo in falsificazioni. Evoluzione — certamente, ma appunto dove la rivoluzione è finita.

Corriere della Sera 16.4.11
Nelle lezioni del ‘33 il filosofo avviò lo strappo da Hitler
di Armando Torno


Martin Heidegger cominciò presto a porsi domande sulla verità. In Essere e tempo — la prima edizione è del 1927 — si trovano le questioni di fondo della sua ricerca, in particolare egli fissava le coordinate per ristabilire il luogo ontologico nel quale la verità si costituisce. Notò, tra l’altro, che essa «deve avere pure qualcosa di valido se perdura» . Poi, nell’autunno-inverno 1930, terrà a Brema, Marburgo e Friburgo, e la ripeterà nell’estate del 1932 a Dresda, la conferenza L’essenza della verità, la medesima che sarà pubblicata soltanto nel 1943 e poi inclusa nell’opera Segnavia (tradotta da Adelphi nel 1987). Quel che si legge in questo breve testo è indispensabile per comprendere il corso universitario che il filosofo svolgerà a Friburgo nel semestre invernale 1931-32: le lezioni, dal 27 ottobre 1931 al successivo 26 febbraio, avevano come titolo L’essenza della verità (tradotte da Franco Volpi per Adelphi nel 1997). Dopo l’incarico a Hitler del 30 gennaio 1933, Heidegger è coinvolto nel nuovo clima e in marzo entra nella Comunità di lavoro politico-culturale dei docenti universitari, il 3 aprile in una lettera a Jaspers ribadisce la sua volontà di agire, il 3 maggio è tesserato (con la data del giorno 1) nel Partito nazionalsocialista, il 27 si celebra la sua nomina a rettore dell’Università di Friburgo. Il 30 giugno ad Heidelberg tiene la conferenza L’università nel nuovo Reich e Jaspers nella sua Autobiografia nota: «... anch’egli preso da quella ubriacatura...» . Il 3 novembre sul Bollettino universitario viene pubblicato il discorso d’inaugurazione del semestre nel quale Heidegger indica Hitler come punto di riferimento e l’ 11, a Lipsia, ribadisce le sue posizioni. —, ma in quei mesi sta accadendo qualcosa nella mente del filosofo. Nel semestre estivo del 1933 tiene un corso dal titolo Die Grundfrage der Philosophie, ovvero L’interroganza di fondo della filosofia. All’inizio la questione posta è sulla «nobiltà dell’istante geniturale» ; poi esamina, tra l’altro, le posizioni di Hegel, Kant, Descartes, Wolff, Baumgarten. Nell’ultima pagina si legge: «Il popolo tedesco non appartiene a quei popoli che hanno perso la loro metafisica» . Quel qualcosa che dicevamo prende forma nel corso del semestre invernale 1933-34, che ha come titolo Vom Wesen der Wahrheit, cioè Dello stanziarsi della verità. Già nel primo capitolo della parte prima, Heidegger invita a riflettere sulla «liberazione dell’uomo verso la luce d’origine» ma anche sulla condizione di chi si trova «nella caverna» , chiamando in causa quanto Platone scrive nel VII libro della Repubblica, quell’allegoria che immagina uomini incatenati in un antro e in grado di vedere sul fondo soltanto le ombre degli oggetti che scorrono davanti all’ingresso. Sono pagine densissime, che esaminano il bene, la libertà; soprattutto offrono riflessioni formidabili sulla verità. Ora, sia il corso del semestre estivo 1933 che quello invernale ricordato, vedono la luce in italiano con il titolo Che cos’è la verità? (da lunedì in libreria per Christian Marinotti Edizioni, pp. 336, e 30). Tradotti da Carlo Götz, tali scritti ebbero la prima edizione tedesca nel 2001 a cura di Hartmut Tietjen. In questa pagina anticipiamo uno stralcio che nel testo è posto in corsivo e reca il titolo A proposito del 30 gennaio 1933. È un attacco a Erwin Guido Kolbenheyer (1878-1962), scrittore o «filosofo popolare» che dir si voglia, molto letto e apprezzato nel Terzo Reich, dal 1933 funzionario culturale dell’Accademia prussiana delle arti. Heidegger è ancora rettore — rassegnerà le dimissioni alla fine di questo semestre invernale —, ma lo strappo è già avvenuto. E le sue parole, qui date in anteprima, ne sono la prova.

l’Unità 16.4.11
Restiamo umani
di Vittorio Arrigoni


Questa non è una guerra perché non ci sono due eserciti che si danno battaglia su un fronte; è un assedio unilaterale condotto da forze armate fra le più potenti del mondo, che hanno attaccato una misera Striscia di terra di 360 kmq, dove la popolazione si muove ancora sui muli. (da Gaza, 6 Gennaio 2009)
RISPOSTA    «Abbiamo visto girare l'angolo e dirigersi verso di noi, lentamente, un carretto carico di persone sospinto da un mulo. Una coppia con i suoi due figlioletti. Quando il carretto si è fatto abbastanza vicino e con orrore abbiamo visto un bimbo sdraiato con il cranio fracassato, gli occhi letteralmente saltati fuori dalle orbite, il suo fratellino con il torace sventrato (gli si potevano distintamente contare le costole bianche oltre i brandelli di carne lacera) e la madre che teneva poggiate le mani sul quel petto scoperchiato, come se cercasse di aggiustare qualcosa. È stato il nostro ennesimo personale lutto». Personale era, infatti, il lutto vissuto da Vittorio per lo strazio della guerra e da qui bisogna partire,credo, per capire il senso della sua presenza a Gaza e il perché di una morte dovuta, oggi, alla crudeltà cieca di quelli che usano gli orrori compiuti da altri solo per giustificare i loro. All’interno di una spirale di odio da cui Vittorio voleva tenersi fuori. Chiudendo la sua lettera con un «restiamo umani!» che era il suo messaggio per tutti noi e che è stato oggi la ragione della sua condanna a morte.

l’Unità 16.4.11
Intervista con Ahmed Yousef
«Lo ricorderemo tra i martiri del nostro popolo»
Il dirigente di Hamas sostiene che il gruppo salafita può essere stato infiltrato: «Solo Israele poteva avere un vantaggio da questo crimine»
di U. D. G.


Ho avuto l’onore di conoscere Vittorio Arrigoni. Ho imparato ad apprezzarne il coraggio, la disponibilità, lo spirito di sacrificio. So che anche in questi momenti terribili c’è chi ha pensato di infangarne la memoria dipingendolo come “amico di Hamas”. Non è così. Vittorio era amico del popolo palestinese, ne aveva abbracciato la lotta di liberazione. Ed era divenuto un esempio per quanti in Europa volevano impegnarsi per Gaza, battendosi contro l’assedio israeliano. Per questo Vittorio Arrigoni era diventato un bersaglio. Da eliminare. Vittorio è uno “shahid” (martire, ndr) e come tale sarà ricordato e onorato da tutti i palestinesi». A parlare è uno dei più autorevoli dirigenti di Hamas: Ahmed Yousef, consigliere politico del primo ministro del governo di Hamas, Ismail Haniyeh. Yousef è considerato un esponente dell’ala «pragmatica» di Hamas, spesso in aperta polemica con l’ala militarista e con quei gruppi dell’islamismo radicale armato palestinesi contigui ad Al Qaeda. Per questo la sua denuncia acquista una particolare valenza: «Abbiamo studiato la situazione e abbiamo capito che solo Israele poteva avere un vantaggio da un crimine di questo genere».
Vittorio Arrigoni è stato assassinato. A Gaza come in Cisgiordania sono in molti a piangerlo. Così in Italia. C’è chi sostiene che la sua uccisione sia una sfida ad Hamas e al suo «regno» a Gaza...
«L’assassinio di Vittorio è una sfida, un oltraggio a tutto il popolo palestinese. C’è chi ha interesse a gettare discredito sulla nostra lotta di liberazione, a dipingere Gaza come una giungla ingovernabile dove ogni abiezione è possibile. Per il suo impegno solidale, per le sue puntuali denunce dei crimini compiuti da Israele contro la popolazione di Gaza, prima, durante e dopo “Piombo Fuso”, Vittorio Arrigoni era diventato un testimone scomodo, un nemico da eliminare...».
Chi aveva questo interesse?
«Le ripeto ciò che ho avuto modo di dire ad altri suoi colleghi in queste ore: abbiamo studiato la situazione e abbiamo capito che solo Israele poteva avere un vantaggio da un crimine di questo genere. Israele vuole fermare tutti coloro che cercano di aiutare la gente della Striscia di Gaza. È stato così con l’assalto alla Freedom Flotilla. E ora la storia si ripete...». La sua è un’accusa pesante. Fondata su che cosa? Lei chiama in causa Israele, ma a rivendicare il rapimento di Arrigoni è stato un gruppo salafita palestinese...
«Le indagini sono in corso e nelle prossime ore potrebbero esserci sviluppi importanti...Probabilmente Israele è riuscito a infilitrarsi in questo gruppo e a commettere l’assassinio direttamente o in combutta con alcuni traditori. Questo è l'unico modo per intimorire le persone che vogliono venire a Gaza per solidarietà come il movimento di cui Vittorio faceva parte. La morte di Vittorio è stata particolarmente raccapricciante, ma Israele non è nuova a operazioni di depistaggio che servono a screditare i palestinesi e, al tempo stesso, eliminare persone ritenute scomode per il loro impegno, per il loro esempio. La strategia israeliana è chiara è chiara: dividere i palestinesi, conquistare i territori e danneggiare Hamas...».
Insisto ancora. Tra le ipotesi che vengono avanzate in queste ore, c’è che Vittorio Arrigoni sia rimasto vittima di un regolamento di conti tra fazioni palestinesi....
«Gaza come una giungla, in balia di abietti assassini, dove nessuno può dirsi al sicuro, neanche chi “gode della protezione di Hamas...”. Ecco l’immagine che si tenta di far passare agli occhi dell’opinione pubblica italiana della Striscia, della sua gente, di Hamas...Ma le cose non stanno così. E Vittorio lo sapeva bene...».
Ma non può negare che a Gaza agiscano gruppi salafiti...se vuole le faccio l’elenco. «Non c’è bisogno. Costoro non hanno nulla a che vedere con la resistenza palestinese, sono solo una banda di degenerati fuorilegge che vogliono seminare l'anarchia e il caos a Gaza. Ma neanche questi banditi si sarebbero spinti fino a questo punto...».
Ritorna l’accusa a Israele...
«Anche il più fanatico tra i palestinesi ricerca un consenso alle sue azioni. Uccidere Vittorio getta solo discredito...
E Israele lo sa bene».

il Fatto 16.4.11
“Adesso siamo terrorizzati ma restiamo a Gaza”
I compagni di “Vik”: “Israele ed europei sono i veri colpevoli”
di Alessandro Oppes


Hanno paura. Ma non hanno lasciato trascorrere neppure ventiquattr’ore dalla morte di Vittorio Arrigoni per confermare che loro, da Gaza, non se ne andranno. Anche a costo di dover intensificare ulteriormente le misure di sicurezza, raddoppiare la prudenza, imparare – sempre di più – a diffidare. Sono ancora sotto choc i circa trenta rappresentanti delle dieci ong italiane presenti nella Striscia, tutte impegnate proprio in queste settimane nell’avvio del programma d’emergenza finanziato in parte dal dipartimento Cooperazione della Farnesina (con un impegno economico sempre più scarso: appena 2 milioni quest’anno, contro i sei del 2010), da diversi donors europei e da associazioni della società civile italiana. Conoscevano tutti Vittorio, uno dei veterani tra i nostri cooperanti a Gaza, e sapevano bene che da tempo era nel mirino di gruppi dell’estrema destra israeliana, che avevano messo una taglia sulla sua testa. È per questo che ora che è morto, anche se la responsabilità viene attribuita a gruppi salafisti ostili ad Hamas, pensano che la domanda principale a cui si deve cercare di rispondere sia: “A chi fa comodo questa uccisione?”.
LO CONFERMA al Fatto Quotidiano una cooperante impegnata da parecchi anni a Gaza, e che chiede di mantenere l’anonimato per timore di ritorsioni: “Parliamoci chiaro, questa è una zona di sperimentazione militare. Si sa che la linea delle autorità israeliane è che non ci debbano essere testimoni per raccontare lo schifo che si svolge sotto i nostri occhi”. Tra gli attivisti delle ong, “nessuno si aspettava che i palestinesi avrebbero potuto commettere un orrore simile: non avevano mai ammazzato uno che sostiene la loro causa. Mai in 60 anni di cooperazione con il popolo italiano hanno fatto qualcosa del genere”. E allora, che cosa può essere accaduto? Si sa che il clima cominciò a degenerare a partire dalla vittoria di Hamas nel 2006: “Da quel momento si è andati verso uno scontro interno sempre più aspro. Abbiamo visto emergere personaggi che contribuivano a creare una situazione sempre più preoccupante. Ma non avevamo mai avvertito nessuna ostilità verso di noi”. Al di là delle divisioni interne al campo palestinese, riemerge quindi la domanda: “Chi c’è dietro? Chi ha interesse a soffiare sul fuoco?”. Gli unici a dare una risposta secca, carica di rabbia, sono proprio i compagni di Vittorio, i dirigenti dell’International Solidarity Movement: “Ci sono responsabilità precise, politiche e morali, dello Stato d’Israele, con la complicità del governo italiano , che è tra i suoi più fedeli e cinici alleati, dell’Europa, degli Stati Uniti e dei cosiddetti Paesi arabi moderati”, taglia corto Alfredo Tradardi, portavoce della sezione italiana dell’ong.
UN ATTACCO frontale, che provoca un certo imbarazzo tra i rappresentanti delle altre associazioni impegnate nel portare aiuto a Gaza. Per questo, tutte insieme, ieri hanno stilato un comunicato nel quale esprimono soprattutto una preoccupazione: che l’opinione pubblica “non operi la solita, banale equazione, fuorviante e controproducente, tra palestinesi, terroristi, Islam e fondamentalismi”. La vera urgenza, proprio nel momento più delicato, è che non si inceppi la macchina degli aiuti. A rimetterci, sarebbero le vittime di sempre, quelle che più hanno sofferto in questi anni: la popolazione di Gaza sotto-posta a un brutale assedio. “Non li possiamo abbandonare, ce lo chiedono a gran voce”.

l’Unità 16.4.11
16 anni e mezzo all’ad Espenhahn Condanne da 10 a 13 anni per gli altri dirigenti imputati
Fra le fiamme morirono in sette L’applauso dei parenti. Il pm Guariniello: «svolta epocale»
«Omicidio volontario» Giustizia per la Thyssen
Sentenza storica per il processo Thyssen. Il Tribunale di Torino accoglie la richiesta dell’accusa: fu omicidio volontario. 16 anni e mezzo per l’a.d. Espenhahn, condannati gli altri dirigenti. L’applauso dei familiari.
di Oreste Pivetta


Un quarto d’ora dopo le nove di sera, arriva la sentenza. La Corte di Assise di Torino riconosce che vi è stato omicidio volontario con dolo eventuale. I sette morti del rogo alla Thyssenkrupp, tre anni e mezzo fa, non sono stati un accidente legato all’imperizia degli stessi lavoratori o dei loro compagni, come aveva fatto intendere la difesa, che aveva addirittura parlato di processo politico, di processo ideologico «contro il capitalismo». No, scandisce il presidente della Corte Maria Jannibelli: si tratta di omicidio volontario con dolo eventuale. Così l’amministratore delegato dell’azienda, Herald Espenhahn, viene condannato a 16 anni e mezzo di reclusione, come aveva chiesto il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello. Anche gli altri imputati vengono condannati, tutti per omicidio colposo: Gerald Priegnitz, Marco Pucci,  Raffaele Salerno e Cosimo Cafuerri a 13 anni e 6 mesi, Daniele Moroni a 10 anni e 10 mesi. I giudici accolgono le richieste dell’accusa, aumentando piuttosto la pena di Daniele Moroni (Guariniello aveva chiesto nove anni). È una decisione che farà storia, perché per la prima volta viene riconosciuto, per un incidente sul lavoro, un reato di omicidio volontario: nulla è avvenuto per caso, si sapeva, si poteva prevedere, per interesse si sono negate quelle misure di sicurezza che avrebbero potuto evitare la strage. Faranno scuola questa sentenza e l’attenta minuziosa indagine del procuratore Guariniello, che ha sostenuto la prova di una consapevolezza del pericolo: si sapeva del rischio, ma si è preferito correre quel rischio: Espenhahn «si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisce accettando il rischio di cagionarle».
Alla lettura molti applaudono. Saranno duecento circa ad affollare il salone della seconda corte d’assise di Torino. In prima fila anche il procuratore capo Giancarlo Caselli. Poi ci sono le madri, le sorelle, le mogli, i padri, con le foto dei loro cari. Si tengono per mano quando i giudici entrano. Ci sono gli amici. Qualcuno tra i parenti indossa la maglietta nera con la scritta: «giustizia, condanne severe per gli imputati». Non dicono: «giustizia è fatta». Con realismo dicono: «è un passo verso la giustizia». Qualcuno si sente male. Nessuna condanna potrebbe cancellare il dolore. Ma intanto al primo giudizio si è arrivati. Guariniello mette in guardia: bisogna fare in fretta con processi di questo genere, perché la possibilità della prescrizione c’è sempre (soprattutto se passerà la legge sul “processo breve”). Ma in questo caso siamo avanti: tutto è avvenuto, miracolosamente, in tempi relativamente rapidi. «È una svolta epocale prosegue Guariniello da oggi in poi i lavoratori possono contare molto di più sulla sicurezza. È un regalo che vogliamo fare al presidente della Repubblica».
La sentenza è l’ultima voce di una lunga notte cominciata tre anni fa. L’ultima giornata, ultima per ora, si era aperta con i primi drappelli nel piazzale davanti al palazzo di giustizia: poca gente, militanti, sindacalisti della Fiom, una scena fredda, come se Torino avesse scelto l’indifferenza. L’ultima giornata era continuata con i parenti delle vittime e con gli amici che sono arrivati e sono ripartiti per recarsi al cimitero: un saluto ancora ai loro cari. Poi sono tornati, stretti vicini. «Ci vorrebbe l’ergastolo. Mio fratello è rinchiuso in una tomba da tre anni e mezzo», diceva Concetta Rodinò. «In ogni caso, non ci rassegneremo mai», diceva Laura Demasi.
Il presidente della Corte d’Assise di Torino, Maria Jannibelli, aveva aperto l’udienza, per invitare tutti al rispetto del silenzio, di un «rigoroso silenzio»: «Ricordo che siamo in un’aula di Tribunale e che non verrà rispettata alcuna intemperanza da parte chiunque». Niente altro e aveva riunito il collegio in camera di consiglio. Fuori il pubblico si era ancora assottigliato. Restavano Giorgio Cremaschi e Antonio Boccuzzi, il sopravvissuto di quella notte, oggi parlamentare del Pd. Restavano presidi e striscioni. «Onore ai sette eroi della Thyssen, solidarietà ai familiari», recitava quello del Collettivo comunista piemontese. Restavano i cartelli che invocavano giustizia. Erano ricomparse, alle cancellate, le foto dei morti, tante volte viste in aula.

Repubblica 16.4.11
"Il lavoro non è solo profitto in fabbrica niente sarà come prima"
Il segretario Cgil Camusso: sentenza storica per la sicurezza
di Roberto Mania


È una decisione giusta: per la prima volta un dirigente viene condannato per omicidio volontario
C´è in Italia una deriva culturale che porta a sostenere che nelle aziende si possa fare a meno dei diritti

ROMA - «Questa sentenza dice una cosa precisa: la vita di un lavoratore non si può trasformare in profitto. Non so se sia una decisione storica, so che è la prima volta che un amministratore delegato viene condannato per omicidio volontario. Non era mai successo». Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, misura le parole di fronte alla sentenza della Corte d´Assise di Torino. Riflette su come la tragedia alla Thyssen abbia inciso sulla coscienza di tutta la società italiana, sulle resistenze che ancora ci sono di fronte al tema della sicurezza sui posti di lavoro, su come la tendenza ad abbassare il valore del lavoro possa condurre anche a consumare drammi come quello di due anni fa nello stabilimento siderurgico torinese.
Cosa ha provato quando ha saputo della condanna?
«La prima sensazione è stata positiva, per quanto si possa dire davanti a quella che è stata una vera strage. Ma, d´altra parte, la disattenzione alla sicurezza dei lavoratori in un impianto siderurgico non può che essere colpevole. Ricordo che subito dopo la tragedia, molti lavoratori denunciarono i tanti segnali di pericolo che c´erano stati dentro la fabbrica. E come l´azienda, avendo deciso di chiudere l´impianto, continuasse a produrre senza i necessari interventi sulla sicurezza. Ricordo, addirittura, il tentativo di fare ricadere le responsabilità sui lavoratori».
Cosa significa condannare un capo azienda per omicidio volontario?
«Sia chiaro, non ho nulla di personale, ma credo che sia una decisione giusta. Viene respinta l´idea che per conseguire il profitto si possano sacrificare le condizioni di sicurezza dei lavoratori».
Pensa che questa sia un´idea diffusa in Italia?
«C´è una tendenza secondo la quale bisogna togliere i controlli, ridurre le procedure burocratiche, deregolare. La verità che afferma la sentenza è che la responsabilità della sicurezza dei lavoratori è dell´impresa».
Definirebbe storica questa sentenza?
«Non lo so. Dico che è una sentenza molto importante: non si può scherzare con la vita di chi lavora».
Quasi un riscatto del lavoro, per quanto attraverso una vicenda drammatica?
«Sì. Un riscatto molto doloroso. Ma può essere d´aiuto per ribadire che non può esserci un profitto a prescindere».
Sta dicendo che nel nostro sistema imprenditoriale ci sia questa cultura?
«Io ho visto un governo molto impegnato ad alleggerire la legislazione sulla sicurezza sul lavoro. Quasi un «liberi tutti». Una deriva culturale che porta a sostenere che possa esserci un lavoro senza diritti. Questo c´è. Poi, non c´è dubbio, la crisi economica ha aumentato la pressione sui lavoratori. Non a caso sono aumentate le malattie professionali».
La crisi sta mettendo più a rischio la vita dei lavoratori nelle fabbriche?
«C´è chi ha usato la crisi per sostenere che prima di tutto viene il lavoro e sul resto (diritti, sicurezza, tutele) si può anche sorvolare».
Perché si continua a morire sul lavoro? Solo qualche giorno fa hanno perso la vita due lavoratori alla Saras dei Moratti in un incidente molto simile a quello della Thyssen.
«Perché non si fa tesoro dell´esperienza. C´è una cultura, ripeto, che gioca sulla povertà. Piuttosto penso che manchi un senso di mobilitazione civile per dire che è proprio ingiusto morire sul lavoro. Servirebbe una mobilitazione corale per dire che queste morti sono contro qualunque idea etica della società».
Eppure gli ultimi dati dell´Inail indicano un calo delle morti nell´ultimo anno.
«Ci andrei cauta perché vorrei capire quanto hanno inciso le ore di cassa integrazione, cioè di non lavoro».
In questo contesto culturale che lei descrive, c´è una responsabilità anche del governo?
«In quello che è accaduto non c´è una responsabilità diretta del governo. Ma certo questo governo è corresponsabile nell´aver creato un clima, un atteggiamento culturale, in cui si ritiene che i diritti non siano connaturati al lavoro».
Cosa è cambiato in Italia dopo la tragedia alla Thyssen?
«Purtroppo questo è diventato un paese che consuma qualsiasi notizia molto in fretta».

l’Unità 16.4.11
Se il sogno tv non incanta Chiara e Ambra
Berlusconi ha rabbia contro tutto ciò che è bello giovane e felice. Tutte queste cose il premier non le ha più e per questo attacca il corpo delle donne
di Luigi Cancrini


La deposizione di Ambra    e Chiara ai Pm di Milano è un documento che apre una finestra sul mondo (mercato) dello spettacolo televisivo, sui modi in cui esso viene vissuto (fantasticato) dai più giovani, sulle reazioni che produce su di loro e nelle loro famiglie. Propone un’immagine inquietante, nello stesso tempo, sul rapporto che c’è fra le caratteristiche attuali di questo mondo e la figura del premier. L’uomo intorno a cui tutto si muove.
L’accesso al mondo della tv Diventare meteorina, si sa, non richiede la partecipazione ad un concorso o curricula. Chiede di esibire ad uno che conta (nel caso Emilio Fede) le curve o le scollature, assecondare qualche movimento galante facendo finta (con se stesse, in questo caso) di considerarlo innocuo: («avrebbe potuto essere mio nonno: di che dovevo preoccuparmi?»), accettare l’idea di correre qualche rischio. In due, in questo caso, per proteggersi a vicenda (o di testimoniare l’una per l’altra) se qualcosa andrà di traverso.
Il rapporto fra uomo (nonno) e donna. Descritto con sobrietà e con grande precisione, il tipo di rapporto che l’uomo potente, che ha in mano le chiavi del tuo successo e/o del tuo guadagno (1800 euro al mese) è un rapporto di scambio ben sintetizzato, due secoli fa dal senatore di Donizetti nell’Elisir d’amore: «Io son vecchio/e tu sei bella/io ho i ducati/e i vezzi hai tu». Quello che il senatore prometteva ad Adina era il matrimonio, però, non il bunga bunga e/o l’acquisto del corpo che qui si intende interamente donato al compratore con tutti gli annessi e connessi (come un appartamento ) nel momento in cui accettando di concedersi (vendersi) le donne (fanciulla, ragazza, minore) mette la sua firma in calce al contratto. Chiaramente delineando il rapporto fra l’uomo che compra e la donna che vende: un rapporto di compravendita in cui lei mette in gioco tutto quello che ha (corpo e bellezza) in cambio di promesse vaghe, mantenute solo se lei si comporterà come vuole lui.
La psicopatologia della vecchiaia Invecchiare bene non è facile, specie per l’uomo di successo. Accettare l’idea della morte, non più così lontana, e i limiti imposti dagli anni alla propria possibilità di fare richiede maturità e capacità di accettare la depressione: compito difficile e a volte impossibile, questo per le persone patologicamente innamorate di sé, del proprio carisma, del proprio potere o del proprio denaro. Quello che ne risulta è naturalmente (purtroppo) una rabbia contro tutto ciò che è bello, giovane, riuscito, potenzialmente felice che è l’espressione immediata dell’invidia vissuta da chi queste cose non le ha e non le può avere più e che si traduce, qui, in questo attacco al corpo della donna. Sezionato in tette, culi, cosce dallo sguardo avido di un desiderio capace di scordarsi del tutto della persona e della dignità personale della bellezza.
L’eleganza Terribile di fronte alla descrizione delle cene e del bunga bunga, dei corpi così volgarmente esibiti e degli scherzi osceni del premier, il ricordo della parola che Berlusconi ha usato tante volte per caratterizzare quelle sue serate di “intrattenimento” quando di incontri eleganti e di conversazioni “raffinate” lui ci aveva parlato senza mai spiegare perché a quelle sue serate venissero invitate (a pagamento) solo donne giovani, belle e da lui “mantenute” (o mantenibili). Confondendo probabilmente anche in buona fede perché questo è il suo livello l’eleganza con la capacità di spendere e la raffinatezza con le mani bucate di un uomo vecchio e solo che si fa guardare e toccare da persone pagate per questo.
La dignità Che esiste, per fortuna, perché Ambra e Chiara se ne vanno, rinunciando al loro sogno televisivo. Dicendo di no a Emilio Fede, a Silvio Berlusconi, ai loro soldi e ai loro “stipendi” e decidendo, a distanza di tempo, di fare pubblica denuncia di quello che è accaduto. Con l’appoggio di famiglie molto più dignitose di quelle che incitavano le loro figlie, sorelle (o fidanzate) a prendere tutto quello che si poteva prendere. Prendendosi insieme dei rischi per mettere la parola fine alle chiacchiere che giravano intorno alle loro serate ad Arcore. Rivendicando in questo modo la loro dignità. Orgogliosamente facendosi forti, (come l’Adina di Donizetti) della loro gioventù e della loro bellezza contro cui poco davvero possono, ora, i soldi di chi spudoratamente aveva tentato di comprarle.

l’Unità 16.4.11
Nuova strategia Pd: una legge elettorale per impedirgli di arrivare al Colle
Bersani freddo di fronte alla proposta Veltroni-Pisanu di un governo di «decantazione»: «Si sbaglia chi crede che Berlusconi rifletta su come decantare». Cambiare la legge elettorale per impedire la scalta del premier la Colle.
di Simone Collini


2012: Berlusconi che passa la mano a un altro leader del centrodestra anche per la premiership, ma solo perché lui nel 2013 punterà al Quirinale. È lo scenario su cui iniziano a ragionare nel Pd ora che per dirla con Bersani «la compravendita va avanti» e l’ipotesi della spallata è definitivamente tramontata. Al Berlusconi «padre nobile» che si fa da parte non crede Bersani («sì, e poi farà il nonno nobile per altri 10 anni») il quale anzi è convinto che il premier punti alla presidenza della Repubblica. Non a caso il fronte antiberlusconiano, che sta preparando la battaglia per impedire la scalata al Colle, ha ripreso in mano una pratica che era finita nel cassetto dalle settimane in cui ha tentato di battere il governo sul voto di fiducia e poi sulle norme ad personam: la legge elettorale. Così, mentre i leader delle forze di opposizione hanno ripreso a sparare contro il “porcellum”, che assegna il 55% dei seggi a chi prende anche un solo voto in più («è peggio addirittura della legge Acerbo promulgata sotto il fascismo» per Bersani, mentre per Fini cambiare questa «legge pessima» è «una delle grandi emergenze»), i “tecnici” hanno ripreso il lavoro da dove lo avevano lasciato quattro mesi fa (un misto di proporzionale e uninominale a doppio turno). Il problema rimane, oltre al raggiungimento di un accordo tra Pd, Idv e Terzo polo, avere la maggioranza in Parlamento. È su questo per i vertici del Pd, più che su un improbabile governo di transizione, si deve ora lavorare, cercando una sponda tra le persone «di buona volontà» presenti nel centrodestra.
PROPOSTA VELTRONI-PISANU
A riaprire una discussione su questo tema è stata una lettera al “Corriere della Sera” di Veltroni e Pisanu.
L’esponente del Pd e quello del Pdl propongono un governo di «decantazione» per rasserenare il Paese, mettere mano alle emergenze e riformare la legge elettorale. È la prima volta che una personalità del partito del premier apre all’ipotesi di un governo non a guida Berlusconi. E gli apprezzamenti non mancano. Da quello di Fini, che dice di condividere «dalla prima all’ultima parola», a quelli dei diversi esponenti di Movimento democratico (e qualcuno si spinge a vedere un nesso col fatto che Napolitano ribadisca che «l’unità nazionale e la coesione sociale e istituzionale non solo non sono un ostacolo, ma sono la condizione per il successo concreto delle riforme necessarie nel nostro Paese»).
Il problema è che dal fronte centrodestra la bocciatura è totale, con il capogruppo del Pdl alla Camera Cicchitto che parla di «proposta che non sta né in cielo né in terra» e con il ministro leghista Calderoli che parla di «proposta del governo degli zombie».
È basandosi non tanto su queste parole quanto sul comportamento tenuto da Berlusconi e soci in questi mesi che Bersani ritiene difficilmente realizzabile la proposta Veltroni-Pisanu. «Tutte le soluzioni che portano a un passo indietro di Berlusconi sono benvenute ma non mi pare che lui sia intenzionato a farlo», dice il leader del Pd. La prova è che «c’è il decreto sulle intercettazioni e continuano le operazioni di compravendita dei deputati». Veltroni dice a chi sostiene che Berlusconi non è disposto a farsi da parte che allora «non rimane che attendere passivamente i prossimi due anni»? Per Bersani c’è un’altra soluzione: «Il Pd deve dire agli italiani sei, sette cose precise e attorno a quelle costruire le alleanze. Si può fare anche tra diversi ma su basi chiare. Bisogna chiamare le persone di buona volontà per andare oltre la fase attuale. Chi si sottrae deve dire cos’altro fare per evitare di trovarci Berlusconi Presidente della Repubblica. Se qualcuno immagina che l’uomo rifletta su come decantare, si sbaglia».

l’Unità 16.4.11
Noi ce ne andiamo e loro arrivano Su lavoro e nascite il record è loro
L’analisi dei dati dell’Istat «sconfessano» gran parte dei luoghi comuni che circolano sul tema dell’immigrazione. In aumento il numero dei giovani italiani che vanno a lavorare all’estero. Il peso del “Buco” demografico.
di Nicola Cacace


Gli italiani hanno paura degli immigrati per la diffusione di pregiudizi e cattiva informazione, oltre che per la pessima gestione politica dell’immigrazione. Quanti sanno che nel decennio 2000-2010 la popolazione residente è aumentata di quasi 4 milioni solo grazie agli immigrati e che gli sbarchi via mare sono stati 20mila l’anno, il 6% del totale? Quanti sanno che gli stranieri, pur essendo di istruzione «abbastanza simile a quella degli italiani» (Istat, gli stranieri nel mercato del lavoro) fanno lavori che gli italiani generalmente rifiutano? Quanti sanno che molti di questi lavori servono a salvare lavori italiani a valle altrimenti destinati a scomparire come, la pesca d’altura per il mercato del pesce, gli allevamenti per latte e formaggi, cuochi e camerieri per il turismo, portantini per ospedali, concerie per pelli e calzature, fonderie per la meccanica, raccolta frutta per l’industria conserviera, etc., senza parlare del milione e 400mila tra colf e badanti (stima Censis) che consentono ad altrettanti italiani/e di andare a lavorare? Se l’immigrazione nell’ultimo decennio
è cresciuta in Italia assai più che altrove è perché dal 2000 ha cominciato a pesare il Buco demografico, con nascite dimezzate da 1 milione a 500mila, a partire dal 1975, così che dal 2000 ci sono ogni anno solo 500mila ventenni a sostituire 1 milione di sessantenni. E di questi 500mila, quasi tutti diplomati, nessuno è disponibile a fare lavori «al di sotto della loro istruzione», soprattutto a Nord. E cosa fanno? La metà trova lavoro precario, gli altri emigrano. Secondo l’Istat l’emigrazione netta è stata di 20mila giovani nel 2008, 44mila nel 2009, 66mila nel 2010 (primi 11 mesi). Siamo di fronte a due mercati del lavoro, uno di lavori “umili” per gli stranieri, un altro di lavori “qualificati” per gli italiani. Mentre il primo mercato regge abbastanza bene, essendo lavori «faticosi, con molto sudore e paghe basse», il secondo mercato va male perché l’Italia va male, innova poco e quindi non crea lavori qualificati a sufficienza. La riprova del doppio mercato si ritrova nei dati sull’occupazione. Come certifica l’Istat quella degli stranieri è cresciuta sempre, 2009 (IV trimestre) +102mila, 2010, +183mila, anche quando quella degli italiani calava, 2009 (IV trimestre) -530mila, 2010 -336mila. Un dibattito serio sull’immigrazione deve affidarsi ai fatti, i costi dell’accoglienza ma anche i ricavi, dai contributi pagati dagli immigrati alle attività italiane salvate. L’idiozia non può far scuola, tantomeno dovrebbe guidare le scelte politiche.

il Fatto 16.4.11
Comunisti cubani a congresso tra Fidel ed esercito
Dopo dieci anni torna a riunirsi il vertice del Partito-regime
di Maurizio Chierici


Comincia all’Avana il sesto Congresso del Partito comunista cubano, partito unico riunito l’ultima volta dieci anni fa a Santiago, capitale orientale dell’isola. La malattia del Fidel (adesso risanato) fa saltare l’appuntamento 2006, ma il rimandare non aiuta le speranze: modello socialista dello stato padrone in agonia per il gran rifiuto ai consigli cinesi che suggerivano l’ibrido terribile del capitalismo socialista. Fidel non ne voleva parlare e Raul non sa a quali santi aggrapparsi.
Cuba balbetta nella prospettiva che le conclusioni del Congresso rovescino la vita del Paese. Ormai la povertà si è trasformata in una miseria difficile da spiegare a 11 milioni di cittadini tra i più evoluti delle due Americhe: alfabetizzazione, lauree tecniche e scientifiche in concorrenza con Stati Uniti. Ecco la scelta dolorosa annunciata da Raul Castro: cambiare le strutture economiche , aprire alle privatizzazioni tagliando i rami secchi che affogano i bilanci. Perdono il posto un milione e mezzo di dipendenti dello Stato ai quali si promettono permessi ed aiuti per aprire piccole aziende o reti commerciali. La delusione immalinconisce la generazione di chi ha 50 anni. Cresciuta nelle università, impegnata nell’orgoglio del nazionalismo respirato in ogni virgola dell’apprendistato di cittadinanza: ingegneri, medici, scrittori, la classe dirigente che illustra Cuba oltre i confini, viene imbalsamata e non sa che pesci pigliare.
Brontolii, blog pieni di spine: come possiamo diventare contadini o barbieri se la nostra vita è stata programmata in altro modo? Tra le spiegazioni la lotta alla corruzione non diversa da ogni altro Paese latino, ma Cuba è nella vetrina sbagliata mentre a Santo Do-mingo, Panama o Colombia, Paesi amici di Washington, le vetrine sono male illuminate e nessuna esasperazione gonfia la condanna . Uscito di prigione l’ultimo dei 75 detenuti politici che hanno infiammato i liberali d’Occidente, restano i buchi di una libertà di stampa che non c’è e la richiesta dell’opposizione interna consapevole e lontana dai traffici di Miami. Chiedono un altro partito in concorrenza col socialismo proclamato il 16 aprile di 50 anni fa da Fidel. Era la vigilia dell’invasione della Baia di Porci. Oggi Fidel, Raul e ogni vecchio militante sono consapevoli che si apre l’ultimo Congresso della loro generazione. Indispensabile l’ingresso dinuoviprotagonisti,perlopiùin divisa.
RAUL governa con loro: 10 militari tra ministri e vice nel suo governo. Ed è possibile che altri militari finiscano ai vertici: per una transizione non definita se non nel contenimento dei debiti. Gli oppositori seri che dall’interno contestano lealmente il regime, ne sono sconvolti. Manuel Cuesta Morua, meno di 50 anni, intellettuale di colore, socialdemocratico che si é formato in Europa, soprattutto in Italia, fa sapere che “militarizzare la politica è un modo per ingessare l’esistente senza pensare al futuro“. Più o meno le parole dell’ingegner Payà, democristiano ed autore del piano Varela, presentato all’università dell’Avana con Fidel in prima fila che applaude Jimmy Carter entusiasta della proposta. Subito sepolta. Da 8 anni non si parla più di una richiesta “sensata”, parole di Carter: affidare al bipartitismo il futuro del Paese. Il cui cambiamento è quasi quotidiano. Anche lo zucchero, bandiera del volontariato del Che, è un ramo secco: l’Avana lo importa dal Texas; la sua zafra mantiene il commercio solo del fantastico rum. Fuorigioco gli oppositori del passato: Elisardo Sanchez, spia della polizia, medaglia al valore di Castro per le “informazioni strappate agli stranieri di passaggio che bussavano alla sua porta”. La fine del socialismo non sarà un terremoto , ma brucerà sicurezze e memoria di tre generazioni. Le quali hanno sotto gli occhi l’importanza che il governo attribuisce alla mediazione della Chiesa cattolica, cardinale Ortega fino a qualche anno fa considerato avversario pericoloso: in gioventù spedito qualche mese ai lavori forzati. Storie di ieri sopravvissute al Duemila. Non è che dall’altra parte del mare i sentimenti siano diversi: solo rovesciati. Mentre piazza della Rivoluzione festeggia i 50 anni della vittoria alla Baia dei Porci, i reduci ricacciati dalla Baia di Porci vengono accolti al Congresso dagli amici repubblicani con la retorica di chi esalta il coraggio dei “liberatori”. L’assemblea del Partito trascurerà i veleni di questo populismo. Valuterà se la speranza di Obama che al secondo mandato apra davvero le porte a Cuba come Jimmy Carter ha lasciato capire nel viaggio all’Avana prima dell’assise del partito unico. Viaggio per sapere, viaggio per informare, chissà. L’immagine dei colloqui in giardino, sembra uscire dal tempo che fu: Carter e Raul, due camice bianche, pance ormai rotonde, ascoltano la camicia bianca di Fidel che alza il dito con autorità, ormai illusione. Alla fine del Congresso sapremo se questo passato sopravvive o se la speranza è un’altra.

il Fatto 16.4.11
Matteotti, italiano diverso
di Angelo d’Orsi


Il 10 giugno 1924 un signore, alto e distinto, che percorreva Lungo Tevere Arnaldo da Brescia veniva affiancato da un’automobile nera. Ne scendevano alcuni uomini che lo aggredivano, colpendolo fin quasi a tramortirlo, e a forza lo cacciavano nella vettura, dove la colluttazione proseguì, finché l’uomo fu trafitto da vari colpi di pugnale. Gli assassini erano guidati da Amerigo Dumini; l’ucciso si chiamava Giacomo Matteotti, e il suo cadavere, scarnificato, fu ritrovato in un bosco non lontano da Roma, il 16 agosto. La “crisi Matteotti” fece vacillare il regime fascista, ma si risolse in un fiasco per le opposizioni, per la loro interna divisione, e per la complicità del re Vittorio Emanuele III con Mussolini. Questi il 3 gennaio 1925, con un discorso arrogante e ribaldo davanti a una Camera largamente asservita, si assumeva la responsabilità morale e politica di quanto era avvenuto. E dava il via a una seconda ondata di violenze squadriste. Già, “il fascismo non era poi così male”, potrebbe commentare (come ha fatto) il Giuliano Ferrara di turno.
CHI ERA Matteotti? Un italiano diverso, lo definisce lo storico Gianpaolo Romagnani che gli ha appena dedicato una biografia appassionata (Longanesi), che sebbene discutibile in qualche punto e in molti giudizi, è un lavoro utile che, dopo l’agiografia e il martirologio, vuole raccontare in modo critico la vita di questo riformista anomalo, che non smise di pensare alla rivoluzione, ma che era stato uno dei più tenaci oppositori della guerra, tanto nel 1911, per la prima impresa di Libia (ora siamo alla terza, dopo la seconda, sterminatrice negli anni ’30), quanto, poco dopo, nella Grande guerra. La coerenza fu il tratto distintivo del rodigino Matteotti, pur nella incoerentissima posizione di rampollo (solo sopravvissuto dei 7 figli) di una ricca famiglia di proprietariespeculatori,nonproprio amatissimi nel povero Polesine tra Otto e Novecento. Ma a ben pensare, l’accusa di “tradimento” che gli si moveva da parte borghese, e i sospetti che si addensavano su di lui dalla sua parte, per quell’appartenenza sociale, costituiscono elementi che accrescono il valore del personaggio. Quanto gli sarebbe stato più facile fare l’avvocato, amministrare le proprietà, o avviarsi alla carriera universitaria, o persino fare quella politica, ma dalla “sua” parte, quella dei padroni: invece Giacomo scelse la via stretta e aspra del militante (poi dirigente) socialista, scelse di stare dalla parte degli umili, e di aiutarli a risorgere. Perciò egli ebbe sempre attenzione al linguaggio della politica: farsi capire dagli analfabeti e, aiutarli a crescere, culturalmente, prima che politicamente. Di qui il suo interessamento alle questioni scolastiche: e specialmente relative ai gradi più bassi dell’insegnamento. Organizzatore lefficace, formidabile oratore, ottimo amministratore a livello comunale, ebbe dei limiti sul piano della visione politica, ma fu davvero un combattente coraggioso, con quella sua “figuretta ostinata ed esigente”, come gli scriveva la sua adorata Velia, la compagna che gli diede tre figli, e che, cattolica e disinteressata alla politica, condivise con lui ansie, pericoli, ostracismi. Pur avendo denunciato, quasi con spavalderia, la natura ferocemente di classe del movimento mussoliniano, accusava innanzitutto la borghesia che lo sosteneva, ma non aveva il coraggio di farlo palesemente: reazionari e vili.
E LA REAZIONE incarnata dalle squadre armate fasciste colpì durissimamente proprio la provincia di Rovigo, dove il Socialismo aveva dominato incontrastato: era, come a livello nazionale, un gigante dai piedi d’argilla. E cadde, dolorosamente, travolto dal micidiale combinato disposto fra squadristi, forze dell’ordine (un bel paradosso) e altre pubbliche istituzioni, e associazioni agrarie. L’azione di Matteotti fu instancabile, anche quando fu costretto a lasciare la provincia: gli era del resto già accaduto durante il primo conflitto mondiale quando fu inviato al confino di polizia in Sicilia, per timore che la presenza di un antimilitarista come lui avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti sulle truppe italiane. Fu, il dopoguerra, la sua ultima stagione politica, ma anche la più intensa, cominciata e finita all’attacco: minacciato, pestato, addirittura (pare) sodomizzato dai fascisti, Giacomo Matteotti non arretrò di un passo, continuando nella sua opera di denuncia, documentata e precisa, delle violenze squadriste. Costanza, abnegazione, moralità severa, furono i tratti distintivi della sua azione, che ne fecero una delle figure più a rischio dell’antifascismo. Matteotti non era un deputato in vendita, come s’usa oggi; non era un uomo per tutte le stagioni, secondo i modelli correnti; non aveva l’impudicizia del voltagabbana, oggi sulla cresta dell’onda. Era un uomo intero, che visse la politica con abnegazione assoluta, certo compiendo errori, ma assumendosene la responsabilità, secondo princìpi etici inderogabili, che non lo fecero mai venir meno a quell’assunto di “redenzione delle “plebi agricole” (come disse in uno dei suoi celebri discorsi) e più in generale della masse dei diseredati, guidandole sulla strada del socialismo. Un italiano da rimpiangere, in tempi di bunga-bunga.

Corriere della Sera 16.4.11
Famiglie Le famiglie dei figli in provetta? Più equilibrate e solide
di franca Porciani e Maria rita Parsi


Fresca di laurea in biologia, sana, graziosissima è lei la più bella pubblicità alla fecondazione assistita. Nata nel 1983 a Napoli, Alessandra Abbisogno è il primo essere umano concepito fuori dal corpo della donna in Italia, cinque anni dopo il «miracolo» di Louise Brown, mitica figlia della provetta che ha valso cinquantadue anni dopo al suo artefice, Robert Edwards, il Nobel per la medicina. Lo scienziato, oggi ottantacinquenne, mantiene con la donna, adulta e madre a sua volta, un’affettuosa amicizia, analogamente a quanto avviene fra Alessandra e il ginecologo che l’ha fatta nascere, Vincenzo Abate. Ma sono casi «storici» ; nella vita di ogni giorno l’essere venuti al mondo grazie alla tecnologia resta un segreto gelosamente custodito all’interno della coppia. È prassi corrente in Italia, come testimoniano gli operatori dei centri di procreazione assistita; tra questi Andrea Borini, direttore scientifico di Tecnobios, a Bologna: «Forse la mentalità sta lentamente cambiando, ma la scelta prevalente è ancora oggi quella del silenzio» . In altri paesi le cose non vanno in modo diverso. Come testimonia il ginecologo Carlo Flamigni, uno dei maggiori scienziati italiani in questo ambito del quale è appena uscito per le Edizioni Pendragon, Figli del cielo, del ventre e del cuore: «Una ricerca condotta da uno psicologo dell’università di Londra e pubblicata su Human Reproduction nel 2006 ha studiato le famiglie di bambini nati con la fecondazione assistita che avevano raggiunto i dodici anni, scoprendo che nel 65 per cento dei casi i figli non sono a conoscenza della loro storia. Quando poi è in gioco una donazione di spermatozoi, il silenzio sfiora il 90 per cento» . «E certamente in Italia, il divieto di quest’ultima esperienza con il conseguente turismo sanitario, oggi rivolto soprattutto alla Spagna e alla Grecia, non è stato di aiuto» aggiunge Claudia Livi, direttore del Centro Demetra di Firenze. D’altro canto, la stessa ricerca ha messo in evidenza che questi ragazzi sembrano tranquilli e sereni e le famiglie reggono nel tempo: i tassi di divorzio sono bassissimi. Questa della family stile Mulino Bianco è una storia ricorrente fra le coppie che l’hanno formata grazie al laboratorio e alle provette; emerge da ricerche condotte negli Stati Uniti (alcune, molto superficiali), ma anche dall’unica finanziata dalla Commissione europea che ha riguardato l’Italia insieme alla Gran Bretagna, l’Olanda e la Spagna. Lo studio si è articolato in due fasi: la prima ha coinvolto 400 famiglie con bambini fra i quattro e gli otto anni nati con il seme di un donatore, con la fecondazione omologa (spermatozoi e ovuli della coppia), adottati e concepiti naturalmente; la seconda ha testato di nuovo le stesse famiglie cinque anni dopo per vedere che cosa succede con la crescita dei figli. Il quadro più roseo, dove i legami affettivi risultano più solidi e equilibrati (emerso dal primo studio, confermato dal secondo) è quello delle famiglie dove c’è stata l’esperienza della fecondazione assistita. Anche quando il padre non è quello biologico e vive, inevitabilmente, il «fantasma» del donatore: sente il bisogno di diventare protagonista del rapporto col figlio e, di conseguenza, gli si dedica molto. «È un risarcimento— conferma Carla Facchini, che insegna sociologia della famiglia all’università di Milano Bicocca —; l’equivalenza fra fertilità e virilità è un patrimonio interiorizzato dell’uomo di oggi; fare il superpapà è una sorta di battaglia contro questo. Peraltro siamo di fronte a realtà che pongono quesiti nuovi sulla genitorialità» . «Forse certi fantasmi potrebbero essere meno ingombranti se cambiassero le parole per dirlo, la terminologia medica aggiunge la sociologa Marina Mengarelli —; aver chiamato queste procedure tecniche di tipo eterologo, averle definite una sorta di adulterio legalizzato, è stato privo di conseguenze sul loro impatto sociale? Non si può più semplicemente parlare di donazione?» . «Credo— conclude Flamigni— che il desiderio di avere un figlio trascenda l’ordine biologico, sia da riferire prima di tutto al mondo del simbolico. Se cominciamo a ragionare così, la biologia perde, finalmente, un po’ della sua tirannia» .

Repubblica 16.4.11
Dal vuoto al Nulla viaggio nei misteri della (meta)fisica
a cura di Annalisa Usai


Leibniz si è chiesto «Perché c´è qualcosa piuttosto che niente? Giacché il niente è più semplice e più facile di qualcosa». Frank Close, fisico delle particelle di Oxford, colto e ironico come uno scienziato del Settecento, la pensa molto diversamente da lui, e dal senso comune, e compie sotto i nostri occhi un capovolgimento per cui non solo il niente risulta molto più complicato del qualcosa, ma soprattutto si rivela molto più operoso. È una gigantesca matrice creativa da cui deriva tutto, senza bisogno di interventi soprannaturali, e casomai con un gioco di prestigio in cui, invece che conigli e cappelli, si adoperano esperimenti ed equazioni. Per questo gioco sono necessarie tre mosse.
La prima è di tipo essenzialmente linguistico, e consiste nella metamorfosi (e nella esorcizzazione) del nulla, trasformato in vuoto. Il nulla è difficile da pensare, e inoltre può essere spaventoso, perché ha a che fare con la sparizione di tutto quello che ci riguarda, del mondo, dei colori, delle persone, e di noi stessi. Ma se dal nulla passiamo al vuoto è tutto un altro paio di maniche. Qui siamo in un laboratorio, con un tubo di vetro chiuso alla sommità che contiene una colonnina di mercurio che scende lasciandosi dietro qualcosa che non può che essere il vuoto. Non siamo affatto soli, siamo in un laboratorio, c´è tutto, e in una piccola regione di quel tutto abbiamo prodotto il vuoto. Di cosa dovremmo aver paura?
La seconda mossa, invece, consiste nel passaggio dalla fisica ingenua alla fisica esperta, dal mondo quale ci è immediatamente accessibile ai sensi, nella visione ecologica della esperienza quotidiana, a quello del molto grande e del molto piccolo. Con il passaggio dall´esperienza alla scienza, e soprattutto con il cambio di scala che dal mondo mesoscopico osservabile a occhio nudo ci porta a quello che si vede (o meglio si visualizza) con i microscopi e i telescopi, viene a prodursi un passaggio di stato. E contrariamente a quello che ci testimoniano i sensi dobbiamo arrenderci all´evidenza che il cuore della materia è pieno di vuoto. Gli atomi, cioè i componenti elementari del mondo fisico, sono vuoti (per l´esattezza, al 99, 999999999999%). Lo sappiamo bene, ma tendiamo a dimenticarlo, e soprattutto facciamo fatica a immaginarlo. Close racconta che vicino al Cern di Ginevra avevano pensato di adoperare un grande edificio sferico alto 20 metri, ideato per delle esposizioni e rimasto inutilizzato, per mettere in scena la grande rappresentazione di arte concettuale che è l´esperienza del vuoto interno a un atomo: appesa a un filo, una pallina del diametro di un millimetro. Quello è tutto il pieno dell´atomo, il resto è vuoto.
La terza mossa è il passaggio dalla fisica newtoniana al mondo della relatività e della fisica quantistica. È in questo universo che il nulla, pardon, il vuoto, si rivela un elemento altamente creativo. D´accordo con la visione (oggi un po´ antiquata, ma potente e affascinante) proposta ottant´anni fa dal fisico Paul Dirac, diventa un mare profondissimo agitato da onde di energia negativa, e che le cose stiano in questi termini è provato dal fatto che se in quel vuoto mettiamo due placche di metallo una forza oscura incomincerà a far sì che siano spinte l´una verso l´altra perché hanno interferito con le onde che attraversano il vuoto. A questo punto la creazione dal nulla è la cosa più naturale di questo mondo, in un processo che avrebbe fatto la delizia di Hegel. Quando nel gran mare negativo si produce un buco, sarà un positivo, sarà un qualcosa, che dunque non è affatto più complicato del nulla, come sosteneva Leibniz, e anzi, sembra il resto di niente, un buco nell´acqua. È da questa "tenebra ricoperta da tenebra", come dice Close citando i versi del Rig Veda, che viene tutta la materia che compone il nostro mondo. Un po´ come in quelle illusioni ottiche per cui una superficie concava si presenta a noi come convessa, tranne che questa non è una illusione, è la realtà, è l´universo. In questo senso, osserva ancora Close con tranquilla ironia, l´universo potrebbe essere il pasto gratis supremo.
E non finisce qui. Perché queste potrebbero semplicemente essere le leggi del vuoto per come si dà oggi alla nostra osservazione, ma potrebbe darsi benissimo che in altre epoche della storia dell´universo le sue forme fossero diverse. Così come potrebbe darsi altrettanto bene che le dimensioni spaziotemporali di cui abbiamo esperienza non siano tutte, che ce ne siano altre a noi non accessibili, o che la totalità del nostro universo (e delle sue leggi) non sia che uno degli infiniti mondi che ci circondano, quello in cui per un caso fortuito si sono realizzate le condizioni compatibili con la nostra vita. In questo quadro, il problema, si direbbe, si capovolge, e dal troppo vuoto si passa al troppo pieno. Nel frattempo noi, che continuiamo a chiederci dove finisce il presente quando è passato e dove finiremo noi quando passeremo, ci siamo distratti osservando il gioco di prestigio, e abbiamo seguito un corso di fisica privo di trionfalismo e pieno di humour.

Repubblica 16.4.11
Quando lo Zar Stalin fece pace con la chiesa


Quando competenza specifica, visione d´insieme e chiarezza di tesi si sposano in un libro, nascono i rari esempi di solida storiografia contemporanea. È il caso di Stalin e il patriarca, opera fondamentale di Adriano Roccucci, uno dei più profondi studiosi della Russia moderna e contemporanea. La sua ricostruzione del rapporto fra potere politico e autorità religiosa, ristabilito da Stalin in piena "grande guerra patriottica", ha fra l´altro il merito di indagare la matrice russo-zarista del sistema sovietico, spesso trascurata. Stalin si considerava il fondatore del nuovo impero russo, in cui tradizioni zariste e universalismo comunista agivano come moltiplicatori della potenza di Mosca. Visione suggellata nella convocazione notturna al Cremlino dei vertici della Chiesa ortodossa russa, fra il 4 e il 5 settembre 1943. Incontro nel quale il dittatore si mostrò particolarmente sollecito verso le necessità anche materiali dei suoi interlocutori. Ma che soprattutto concesse alla Chiesa di rieleggere finalmente il suo patriarca. Rinasceva così quella peculiare relazione fra imperatore e capo della Chiesa russa che il potere sovietico aveva inteso abolire.

La Stampa 16.4.11
Non perdere il filo del Bardo
Ritratto. Lo scrittore e l’uomo attraverso una guida alle opere e una suggestiva biografia
di Paolo Bertinetti


Stefano Manferlotti ripercorre commedie, drammi e tragedie: i testi e i personaggi di trama in trama Peter Ackroyd esamina le diverse, fantasiose ipotesi su tutto quanto non è sicuro: ad esempio la formazione cattolica

Per quale serie di sfortunate circostanze Romeo non sa della morte apparente di Giulietta e si suicida sulla tomba di lei? Perché Amleto si ritrova al cimitero poco prima della sepoltura di Ofelia, di cui ignorava la morte? Molti appassionati di teatro, e molti studenti, probabilmente ricordano in modo confuso (se non errato) le trame delle opere di Shakespeare.
L'appendice del saggio di Stefano Manferlotti, intitolato perentoriamente Shakespeare , provvede a colmare le possibili lacune fornendo le trame dei lavori teatrali che illustra ed esamina nelle precedenti 290 pagine. Il volume raggruppa per grandi settori i testi drammatici (dedicando un bel capitolo a parte alla produzione poetica): le commedie, i drammi «greci e romani», i drammi storici («troni di sangue», si dice con reminiscenza cinematografica nel titolo del capitolo) e infine i testi che costituiscono quello che Manferlotti definisce «il grande canone» - Romeo e Giulietta , Sogno di una notte d'estate , Il mercante di Venezia , La tempesta e le grandi tragedie (Amleto, Re Lear, Otello, Macbeth) - e che sono anche i lavori di Shakespeare più spesso rappresentati in ogni parte del mondo.
Ne emerge una guida alle opere del Bardo che si àncora saldamente alle parole del testo, sapientemente utilizzate come pilastri dell'interpretazione e gustate per la loro bellezza; che si avvale del richiamo illuminante ai più diversi testi e forme della produzione culturale di tutti i tempi; che coglie con rigore appena mascherato dalla piacevolezza della scrittura i nodi essenziali delle opere di volta in volta esaminate. Un volume utile, dotto il necessario e mai pedante, puntuale nell'esposizione e mai oscuro, sicuro nella valutazione e mai presuntuoso: un libro da collocare nello scaffale a portata di mano.
Alla vita di Shakespeare sono dedicate una quindicina di pagine, più che sufficienti in un saggio di questo tipo. Invece Peter Ackroyd, profondo conoscitore della storia di Londra, alla vita del Bardo ne dedica più di seicento. Per la verità, il suo lavoro, Shakespeare. Una biografia , parla anche ampiamente, in modo gradevole, non specialistico ma documentato, del contesto in cui si svolse il lavoro del più grande uomo di teatro di tutti i tempi. Cosa utilissima, perché molti aspetti della cultura teatrale elisabettiana, decisivi per lo sviluppo della produzione drammatica shakespeariana, sono tutt'altro che familiari al comune lettore. E, in ogni caso, il biografo di Shakespeare deve per forza «allargarsi», perché pochissimi sono i documenti relativi alla sua vita. E nessuno di essi, notarili come sono, particolarmente utile a capire «l'uomo» Shakespeare, o in grado di offrire degli spunti che ne illuminino la personalità.
Ackroyd, come gli altri biografi, propone così una serie di ipotesi suggestive riguardanti ciò che non è documentato ma che potrebbe essere vero. Ad esempio, a proposito delle convinzioni religiose di Shakespeare, presenta tutti gli elementi che propendono a favore di una sua possibile formazione cattolica (l'unico dato certo è che era cattolica sua madre). Su questo punto, come su altre fantasiose ipotesi (le opere di Shakespeare sono state scritte da un altro; negli anni della gioventù, su cui niente si sa, aveva viaggiato in Italia), Ackroyd illustra assai bene le posizioni contrapposte, ma poi si attiene alle conclusioni più ampiamente condivise dagli studiosi. In una sola occasione si sbilancia a favore di un'ipotesi azzardata, sostenendo che il monologo «Essere o non essere» è un' interpolazione. Strano sbilanciamento, dato che qualsiasi esperto di teatro elisabettiano poteva spiegargli senza difficoltà che interpolazione non è.
Il pregio di questa biografia sta soprattutto, oltre che nella scorrevolezza della scrittura, nell'ammirazione contagiosa con cui Ackroyd si porge al lettore per reclutarlo tra i fans di Shakespeare. Impresa meritoria. Ma per uno sguardo più acuto e puntuale sulla sua vita (cattolicesimo incluso), resta insuperato il saggio di Stephen Greenblatt Vita, arte e passioni di William Shakespeare, capocomico , pubblicato in Italia da Einaudi pochi anni fa.

Repubblica 16.4.11
Brillanti, sicuri, potenti alla ricerca della pillola che dà l´intelligenza
Molti i farmaci che aiutano le performance, ma nessuno è super come nel film "Limitless"
Il tema del potenziamento cerebrale diventa anche etico: si finisce nel doping
di Michele Bocci


Più intelligenti grazie a una pillola. Sempre presenti, brillanti, concentrati e tranquilli. Addosso un senso di potenza assoluta, la sicurezza di riuscire a fare bene ogni cosa. Non è la scienza (per ora) a segnare la rivoluzione ma un film a farla immaginare. Si intitola "Limitless", nel cast c´è pure Robert De Niro, e il protagonista grazie a un farmaco dal nome Nzt dà una svolta alla sua esistenza, il suo cervello diventa più potente e la sua vita va alla grande.
Una medicina come quella che sconvolge, non solo in positivo, Eddie Morra, interpretato da Bradley Cooper, ancora non esiste ma qualcuno la studia e soprattutto in molti la cercano tra quelle già disponibili in farmacia. Che siano amfetamine, farmaci anti narcolessia o anti parkinson, sono tante le molecole a cui chiede aiuto chi vuole più concentrazione e lucidità. Ma il prezzo da pagare è molto alto. «Questi prodotti possono dare effetti collaterali e dipendenza, come le droghe - dice Sandro Sorbi, ordinario di neurologia a Firenze - E poi è impensabile usarli per periodi prolungati se non si è malati».
Tra gli studenti di ogni età da anni c´è chi sceglie le amfetamine per imparare velocemente. Soprattutto negli Usa ora va di moda il Ritalin. Nel 2008 la rivista Nature ha intervistato 1.400 scienziati di 60 paesi scoprendo che un quinto di loro usava farmaci per ottenere un potenziamento cognitivo e quasi sempre si trattava dell´amfetamina nata per i bambini iper attivi. Anche il Provigil, efficace contro la narcolessia, viene usato da chi vuole rendere di più in ciò che fa. È stato pure testato sui piloti di elicottero Usa. Poi ci sono musicisti e performer: non pochi controllano l´agitazione prima degli show con betabloccanti, farmaci per l´ipertensione.
«Da anni si parla di un farmaco per l´intelligenza. La ricerca c´è, anche su pratiche come la stimolazione magnetica transcranica, che noi usiamo sui nostri pazienti - dice Carlo Caltagirone, direttore scientifico del Santa Lucia di Roma, importanti centro di neuroriabilitazione - Questa attività potenzia o inibisce certe aree cerebrali. In chi ha subito un danno può essere di grande aiuto. Esistono anche studi su persone sane per capire se stimolando determinate zone si accrescono certe capacità». Il tema del potenziamento del cervello non è solo sanitario. «L´intelligenza è un concetto troppo complesso: posso aumentare l´attenzione ma di qui a far venire idee migliori con una pillola ce ne vuole», dice Pierangelo Geppetti, farmacologo clinico di Firenze. «C´è un problema etico. È corretto migliorare la memoria e la lucidità se non in casi limitati, come quello del pilota che deve salvare i passeggeri da un pericolo? - chiede Caltagirone - Perché dobbiamo essere più produttivi ed efficienti, per lavorare di più? Non mi convince la ricerca della performance quando si parla di intelligenza. Si finisce nel doping». Laura Fratiglioni dirige il centro di ricerca sull´età del Karolinska di Stoccolma. «Dobbiamo ricercare per mantenere la capacità intellettiva di anziani e malati, non per aumentare l´apprendimento di chi è giovane e sta bene».

Repubblica 16.4.11
"La plasticità del sistema nervoso può farci migliorare, non le medicine"
Anche l´attività fisica è importante perché fa sì che funzionino più cellule


Non c´è bisogno di medicine, il cervello diventa più forte con l´allenamento, sia mentale che fisico. Ne è convinta Monica De Luca, professoressa di neurofarmacologia all´Università di Milano.
Come si diventa più intelligenti?
«Bisogna stimolare i circuiti del cervello, attivando le sinapsi. Se leggo un libro, parlo le lingue, socializzo metto in pratica dei processi che ampliano il mio "hard disk". Magari anche involontariamente».
In che senso?
«Una ricerca inglese ha scoperto che i tassisti di Londra, a furia di memorizzare strade, hanno l´area del cervello detta ippocampo più grande. Hanno fatto un allenamento inconsapevole».
E l´attività fisica serve?
«Lo dimostrano le ricerche di uno scienziato americano, Fred Gage. Un topolino in una gabbia vuota sviluppa molti meno neuroni di un altro a cui diamo la ruota per correre. Non è detto sia più intelligente ma ha più potenzialità perché ha cellule in più da far funzionare».
Quindi i farmaci non servono?
«Sono gli americani a lanciare i progetti di ricerca sui medicinali. È meglio agire sulla plasticità del sistema nervoso, sulla sua capacità di modificarsi e crescere seguendo certi stimoli».
(Monica De Luca è docente di neurofarmacologia, mi. bo.)

giovedì 14 aprile 2011

il Fatto 14.4.11
La politica che torna alle caverne
di Furio Colombo


CHI È IL VERO BOSSI? CHI È IL VERO LEGHISTA che mette in fila (ovvero a un livello inferiore) coloro che non parlano il suo dialetto e non fanno parte del suo villaggio? La domanda è urgente, perché proprio mentre le cose non vanno bene per la Lega, che sta rovinando se stessa dopo avere inferto duri colpi alla reputazione italiana, mentre il ministro Maroni sta per incassare il titolo di peggior ministro della Repubblica e autore del peggior danno (economico e morale) agli italiani (Varese inclusa) arriva l’allegro mare di insulti della stella nascente del leghismo svizzero, un uomo capace di far apparire il suo Paese, tutto banche e conti coperti, una sorta di mercato equo e solidale. Stiamo parlando di Giuliano Bignasca, un tipo che un tempo avremmo incontrato per disgrazia sbagliando osteria, e adesso, dopo le vittoriose elezioni locali nel Canton Ticino (Svizzera italiana) si avvia ad essere il più noto e vistoso protagonista di una vita politica di solito schiva e guardinga. Invece questo Bignasca è aggressivo, maleducato, dotato di un vocabolario violento quasi tutto diretto contro gli italiani, che (questo è il messaggio ai suoi concittadini) devono essere presi a calci in culo (sic!) e cacciati il più lontano possibile. Quando è proprio espressivo, manda a tutti i cittadini italiani, cominciando dai più vicini (i lombardi) la pesante frase ormai nota come “il saluto La Russa”.
Tutto ciò avviene a pochi chilometri da Varese, che sta alla Padania come Torino al Risorgimento, la culla del pensiero con cui Bossi ama esprimersi sul complesso problema dell’immigrazione: un semplice e limpido “foera di ball”. Ora qualcuno, con altrettanta delicatezza, sta dicendo “foera di ball” a lui, alla sua Lega, ai suoi sogni di una superiore razza padana con i tratti distinti del grande popolo (vedi il Trota). E precisa, con la stessa decisa sicurezza cattiva che Bossi esercita (tramite Maroni) sui migranti che hanno la disgrazia di finire nei “Centri di identificazione e di espulsione”, che gli italiani dalla Svizzera – e soprattutto dal Canton Ticino – se ne devono andare. Sono tutti indegni, inferiori e pericolosi, come “i clandestini che abitualmente delinquono” secondo la storica definizione della signora Moratti (probabilmente nel suo “Scritti in onore di Umberto Bossi”).
Le lezioni che se ne possono trarre sono tante: che esiste sempre qualcuno più a Nord che, se può, esercita il suo diritto di pretesa superiorità e (poiché si tratta di un pensiero volgare e stupido) lo fa con linguaggio adeguato; che il razzismo è come una infezione che facilmente contagia le intelligenze modeste; che quando impari che è possibile escludere e disprezzare, non rinunci più perché il gioco è tanto malefico quanto facile.
Infine Giuliano Bignasca spiega forte e chiaro alla Lega che, nella presunta e ridicola superiorità conclamata, non sei mai al sicuro. In un mondo infame come quello creato dalla Lega Nord, leader, deputati, militanti, Radio Padania Libera di Matteo Salvini, il quotidiano La Padania, diretto personalmente da Umberto Bossi, più ridicoli film come Barbarossa (in cui Bossi è attore), più l’infaticabile denigrazione su se stesso, della Lega Nord, ma anche della parte vergognosa e compiacente dell’Italia, rappresentata dal Pdl, dai suoi telegiornali, del deputato leghista Borghezio, ormai noto alla psichiatria europea, in quel mondo infame puoi sempre finire sotto ed essere trattato nel modo che tu stesso hai creato mobilitando il peggio dei sentimenti umani. Ma ci sono altre ragioni per il “saluto La Russa” indirizzato dal politico svizzero, fresco di fortunate elezioni, alla Lega Nord ma anche, bisogna ammetterlo, al resto degli italiani, politici e cittadini (purché siano italiani, proprio come l’Italia, dirottata da Pdl e Lega, fa con gli immigrati a cui viene persino vietato di chiedere diritto d’asilo). La prima ragione è certamente lo scandalo di avere, nel ruolo del ministro dell’Interno dell’intera Repubblica un leader secessionista che finge raramente di rappresentare l’Italia, e per il resto rappresenta strettamente credenze e superstizioni della sua tribù. Perché dovresti avere riguardo per una comunità che si lascia dirigere in modo così barbaro, capace di guardare il mondo solo da una feritoia?
Giuliano Bignasca, il volgare leghista ticinese, ci dedica pubblicamente il disprezzo che ci spetta per avere tollerato spettacoli come quello del leghista Calderoli che, con il lanciafiamme, nel telegiornale della sera, distrugge trecentomila leggi inutili da lui lette, giudicate e annullate in base a una autorità assoluta, che in un Paese normale non può avere, e mentre tutta la comunità giornalistica del Paese finge di credergli e qualcuno, anche, di celebrarlo. Ma – come si sa – la forza della tribù nordica della Lega Nord risiede nella disponibilità di un uomo ricco e disperato, Silvio Berlusconi, a sostenere in ogni modo la tribù a patto che la tribù voti tutte le sue leggi di salvataggio dalla giustizia. Ecco perché viviamo in una Repubblica apparentemente democratica, in cui, per più di due anni, il Parlamento ha lavorato solo a due tipi di leggi, tutte preparate esclusivamente dal, diciamo, governo. E tutto ciò mentre il mondo attraversava (e attraversa) i suoi momenti peggiori a causa delle guerre, dei crolli economici, della crisi immensamente pericolosa del nucleare, del ritorno furioso dell’inflazione, della disoccupazione mai così alta, della crisi diffusa delle imprese (“la solitudine delle imprese” denunciata dalla Confindustria), della paurosa fermata del Paese, della esclusione quasi totale dei giovani da ogni forma di vita pubblica e produttiva. Ma le leggi a cui si è lavorato e si sta lavorando, bloccando tutto il tempo del Parlamento, sono una lunga catena di decreti punitivi e vendicativi contro la magistratura, e in difesa di un solo imputato; oppure una lunga catena di decreti umilianti e deliberatamente disumani contro gli immigrati, compresi quelli legali, compresi i bambini nelle scuole, i bambini negli ospedali, i bambini Rom. Non penso certo che il leghista ticinese si scandalizzi di un simile modo di governare un Paese. Però vede una cosa che gli conviene e gli serve: non c’è bisogno di rispettare un Paese che si lascia piegare al servizio della Lega e di Berlusconi, dei truffatori delle quote latte e delle finte nipoti di Mubarak. Infatti, come vedete, il coraggioso Giuliano Bignasca non ci ha provato a fare il bullo con i turchi, vistosamente presenti nell’immigrazione svizzera. Ma se l’uomo del Nord che disprezza le trote del Sud avesse avuto anche solo un dubbio, a suo sostegno, e a sostegno di tutti coloro che lo hanno votato, è prontamente intervenuto il presidente del Consiglio italiano, organizzando uno spettacolo non proprio rispettabile, non proprio decoroso, davanti al Palazzo di Giustizia di Milano nella giornata dell’11 aprile. È evidente a tutti che, dopo una simile esibizione, diventa purtroppo impossibile, nel resto dell’Europa e nel resto del mondo, rispettare l’Italia.

il Fatto 14.4.11
Campi Rom abusivi, sgomberi quotidiani (senza alternative)


In una capitale che lascia cento profughi afghani vivere nelle tende allestite alla stazione Ostiense, continuano invece gli sgomberi dei campi abusivi. Il pugno duro di Alemanno contro i Rom. Ieri sono stati sgomberati tre insediamenti, in via Teano, via Seguenza e via del Tufo. Con grande soddisfazione del presidente della commissione Sicurezza, Fabrizio Sartori: “Anche oggi (ieri, ndr) si è dovuto assistere al rifiuto dell’assistenza alloggiativa da parte dei Rom. È inaccettabile, e ancora più inaccettabile è il fatto che la sinistra continui a tutelare anche chi non accetta l’assistenza”. Martedì era stata la volta di nove campi abusivi: 19 le persone “rintracciate” da polizia e vigili urbani, undici delle quali rumene. Altri 10 siti erano stati bonificati lo scorso venerdì, quando 2 cittadini cubani erano stati accompagnati all’Ufficio Immigrazione. “Le operazioni continueranno nei prossimi giorni”, la promessa/minaccia della Questura.

il Fatto 14.4.11
Una tendopoli nel centro di Roma
I profughi della stazione Ostiense dimenticati dal Campidoglio
di Silvia D’Onghia


I passeggeri che sfilano accanto alle grate sembrano non accorgersi di nulla. Eppure basta alzare gli occhi oltre quella recinzione per rendersi conto di come Roma tratta i profughi. Sono tutti afghani, almeno a quanto hanno dichiarato, un centinaio di persone in fuga dalla guerra. Almeno un quarto di loro ha meno di 18 anni. Sono arrivati qui, alla stazione Ostiense, come migliaia di loro connazionali in passato. Un problema che fino a marzo era stato affrontato dal Campidoglio, dopo una lunga mediazione con le associazioni che si occupano di loro, con l’inserimento all’interno della “Casa della Pace” di via Casilina. Poi, inspiegabilmente, le porte di quella struttura si sono chiuse. È finito il freddo e quindi i richiedenti asilo possono anche dormire per strada.
QUANDO ci avviciniamo, alle 10 del mattino, dormono ancora tutti nelle tende che “Medici per i diritti umani” (Medu) insieme al Municipio XI hanno montato per loro lunedì scorso. C’è soltanto un ragazzo che cammina: lo chiamiamo, si avvicina lentamente. Ha lo sguardo impaurito di chi sa che, dopo aver rischiato la vita in un viaggio allucinante durato parecchi mesi, ha ancora tanto da perdere. Non capisce l’italiano, parla un inglese stentato, ma si fa comprendere. Ha 20 anni, non vuole rivelarci il suo nome. Non si fida dei giornalisti, anzi, non si fida degli italiani. Vuole raggiungere l’Austria ed è per questo che non ha presentato la domanda di asilo. “No, non ho nessuno che mi aspetti in Austria, la mia famiglia è rimasta tutta in Afghanistan, sono solo”. Dopo qualche minuto si convince a farci entrare, apre appena il cancello d’ingresso. Ci accompagna tra le tende blu ammassate l’una accanto all’altra. Mentre continuiamo a chiacchierare entrano altre due persone, un uomo e una donna. Lui è il mediatore culturale che sta aiutando questi ragazzi anche a farsi capire (in pochi parlano l’inglese), Anita fa parte di Medu. Un minuto, il tempo necessario alle presentazioni, e il nostro cicerone afghano è già sparito. Da lontano arriva un altro ragazzo, anche lui sulla ventina. Il mediatore culturale lo ferma e gli chiede se ha voglia di raccontarci la sua storia. Abbassa gli occhi, con la mano declina l’invito e si allontana rapidamente. Hanno tutti paura, anche perchè fino a qualche tempo fa la polizia arrivava qui un paio di volte alla settimana e portava via tutto, coperte comprese . Quando tiriamo fuori la macchina fotografica il campo sembra addirittura deserto.
IN QUESTO LEMBO del centro di Roma, a due chilometri e mezzo dal Campidoglio, sono state piantate 15 tende da campeggio, altre ne pianteranno. In mezzo all’immondizia, ai panni stesi sulle recinzioni, alle scarpe lasciate fuori. In fondo all’accampamento c’è un tubo dell’acqua, fino a qualche giorno fa non c’era neanche quello. Almeno è potabile, anche se alcuni degli “ospiti” non lo sanno ancora. “Abbiamo anche chiesto i bagni chimici – racconta al Fatto il coordinatore generale di Medu, Alberto Barbieri –. Fino a lunedì scorso queste cento persone vivevano sul binario 15. Martedì, il giorno dopo aver montato le prime tende, sono piombati qui alcuni funzionari delle Ferrovie e la polizia. Abbiamo negoziato lo spostamento in quest’area recintata, fuori dal viavai dei passeggeri. Ma è una soluzione temporanea, non può certo durare a lungo. Da settembre 2010 a marzo 2011 eravamo riusciti a far entrare nella ‘Casa della Pace’ circa 400 profughi. Con il turnover si riusciva a garantire un tetto a tutti coloro che arrivavano alla stazione Ostiense”.
Già, perchè su questo binario a cavallo con l’Air Terminal (la struttura creata per i mondiali di calcio del 1990 e poi abbandonata, oggi in fase di ristrutturazione), è dal 2006 che continuano ad arrivare profughi afghani. Il luogo si presta, perchè le campagne limitrofe garantiscono l’invisibilità. Come sempre accade, tutti sanno, ma in pochi si muovono. “Abbiamo più volte chiesto al Comune di Roma di creare qui una struttura fissa, che sarebbe gestita in maniera volontaria dalle associazioni umanitarie, per offrire informazioni, prima accoglienza e primo orientamento – racconta il presidente dell’XI Municipio, Andrea Catarci –, ma continuiamo a non avere risposte. Anche la richiesta di bagni chimici avanzata alla Protezione civile è finora rimasta inevasa. Eppure due settimane fa avevamo lanciato l’allarme rispetto all’allargamento del nucleo degli afghani: le Ferrovie si sono mosse soltanto quando hanno visto le tende, come se dessero più fastidio quelle di cento persone abbandonate sui binari”.
Uscendo dal campo si torna alla vita reale. Il cancello si richiude, i passeggeri si infilano nel tunnel che porta ai treni. Basta tenere la testa bassa.

l’Unità 14.4.11
Bersani
«L’antipolitica? È l’altra faccia del populismo»
L’anticipazione Esce oggi «Per una buona ragione», il libro-intervista del segretario Pd realizzato con Miguel Gotor e Claudio Sardo
Ricostruzione In questo passaggio, l’analisi delle origini della sfiducia nella politica ed i suoi esiti
di Miguel Gotor, Claudio Sardo


Gli affanni della democrazia hanno una dimensione globale, ma in Italia hanno assunto caratteri specifici. La transizione istituzionale, avviata nel nome della democrazia diretta dopo l’esplosione di Tangentopoli, e il successo dei referendum elettorali hanno prodotto un «presidenzialismo di fatto» che mortifica il Parlamento e un bipolarismo di coalizione che non garantisce governi efficaci. Qual è la sua lettura di questa ormai lunga stagione?
«Con la torsione plebiscitaria che Silvio Berlusconi ha imposto al sistema istituzionale e con la legge elettorale, giustamente battezzata Porcellum, abbiamo raggiunto un punto molto critico: è a rischio la tenuta stessa dell’equilibrio costituzionale, e non sappiamo cosa sarebbe già accaduto se nel ruolo di garante al Quirinale non ci fosse un uomo della statura di Giorgio Napolitano. Per rispondere alla domanda sulla transizione, ovvero sul perché e sul come siamo giunti fin qui, ritengo però necessario ripercorrere un tratto più lungo della storia repubblicana. A me non convince questa periodizzazione fondata sulla separazione tra Prima e Seconda Repubblica e non mi persuade l’idea che la transizione sia cominciata negli anni tra il ’92 e il ’94. Per cogliere l’inizio della crisi democratica si deve tornare almeno agli anni Settanta. La nostra transizione comincia lì, non con i referendum elettorali che semmai furono un tentativo di uscire dall’involuzione e dal blocco di sistema degli anni Ottanta e che certo produssero cambiamenti nella configurazione e nelle regole della rappresentanza. Se vogliamo davvero chiudere questa lunga stagione, è necessario comprendere le ragioni più profonde della crisi della politica, perché cercare la soluzione solo in un meccanismo istituzionale o in un modello elettorale rischia di essere illusorio».
Onorevole Bersani, spieghi meglio come intende dividere i tempi della storia della Repubblica. «La prima fase della Repubblica, che affonda le radici nella Resistenza e nel Cnl, va dall’Assemblea costituente alla fine degli anni Sessanta. Sono gli anni della ricostruzione e dello sviluppo dopo il dramma della guerra. È il tempo in cui i partiti che hanno fatto la Costituzione si caricano di importanti e riconosciute funzioni nazionali: fare uscire il Paese dalla miseria, imparentarlo con la democrazia, accompagnare l’emancipazione civile e culturale di un popolo. Erano appunto grandi partiti popolari che, pur nei rigidi confini imposti dalla logica dei blocchi, innervavano la società e animavano le istituzioni rappresentative». (...)
Ma quando e perché, secondo lei, è entrato in crisi quel modello? «Alla fine degli anni Sessanta la società ha cominciato a conoscere un certo benessere e a pretendere di più. La nuova generazione, quella dei baby boomers cresciuti senza il trauma della guerra, ha cercato nuovi orizzonti, si è ribellata alle regole patriarcali, ha moltiplicato le istanze libertarie. Il ’68 è il punto di svelamento più clamoroso della crisi del vecchio equilibrio politico, anche se le tracce della crisi si possono trovare prima. Nelle sue memorie Giorgio Amendola racconta di una direzione del Pci in cui con preoccupazione si cominciò a parlare di un crescente disimpegno dei giovani dalla militanza politica: eravamo a pochi giorni dalla rivolta delle «magliette a strisce» del 1960 a Genova contro il governo Tambroni! A contribuire alla crisi è anche la scoperta che la crescita economica non ha una progressione infinita. Gli italiani conoscono la «congiuntura» e classificano presto la parola come negativa. Già negli anni Sessanta emergevano pulsioni ed esperienze che oggi chiameremmo di «società civile» che pretendevano politicità e che non trovavano espressione convin-
cente nell’assetto politico. Sono le emergenze (il petrolio, la guerra del Kippur, poi il terrorismo) a ridare ruolo e funzione ai partiti popolari e a tacitare quei fermenti. Sono Aldo Moro ed Enrico Berlinguer i leader autorevoli che fanno appello alle radici costituenti, al capitale di credibilità ancora disponibile, per difendere i capisaldi della Repubblica, e con essi i partiti che sono stati i principali artefici dell’allargamento della sua base democratica. Fu quella l’ultima possibilità di uscire dalla logica dei blocchi restando nel solco di una politica che continuasse a essere legittimata dalla fase costituente e potesse aprire prospettive di rinnovamento per la democrazia italiana. Ma il deterioramento della politica, intanto, scorreva come un fiume carsico. Ho un ricordo vivissimo della festa nazionale dell’Unità del ’77, a Modena, perché ero tra i volontari: Berlinguer aveva appena finito di parlare davanti a una folla sterminata, aveva detto che pochi «untorelli» a Bologna non sarebbero bastati per far deragliare il Pci dalla
sua linea di responsabilità nazionale, ma un paio d’ore dopo un’altra folla gigantesca, in parte composta dalle stesse persone che avevano applaudito Berlinguer, invase l’arena per ascoltare il concerto di Edoardo Bennato con il suo «sono solo canzonette» contro gli impresari di partito, e in fondo contro gli stessi partiti. Ecco, quel sentimento, che negli anni si è nutrito, da un lato, di autoreferenzialità della politica, dall’altro di crescente sfiducia e distacco, ha prodotto il nodo di una rappresentanza irrisolta che ha progressivamente coinvolto sia i partiti che le istituzioni».
Secondo un’interpretazione diffusa questa sarebbe la storia dell’antipolitica che alla fine ha prevalso sulla politica. Lei cosa ne pensa? «La realtà è più complessa e sarebbe assurdo classificare come antipolitica tutto l’intreccio di fenomeni, di domande sociali, di umori libertari, di modernità e di secolarizzazione che si è dipanato negli ultimi quattro decen-
ni. Noi abbiamo conosciuto un blocco politico, dovuto a ragioni di carattere internazionale, che ha impedito l’alternanza fisiologica e che poi negli anni Ottanta, ai tempi del cosiddetto «Caf» è diventato una cappa insopportabile. Una vera strozzatura democratica in cui le staffette a Palazzo Chigi tra leader del pentapartito non poteva valere come surrogato di una vera democrazia dell’alternanza. Il sentimento antipolitico e antipartitico, che pure ha origini antiche nella cultura del nostro Paese, è un fiume che ha corso lungo questo alveo e si è gonfiato progressivamente, talvolta alimentato anche da sinistra. Va detto che una grande spinta è venuta dall’incapacità dei partiti e delle istituzioni di riformarsi e di ricostruire circuiti trasparenti di partecipazione. Così, quando è caduto il Muro, mentre la Germania ha avviato la straordinaria macchina dell’unificazione e in tutti i paesi che uscivano dal blocco sovietico si apri-
vano delle speranze nuove, da noi invece c’è stato solo il vuoto d’aria. La crisi dei partiti nascosta, occultata, devastata dal dilagare della corruzione, è esplosa fragorosamente e non ha risparmiato nessuno. La crisi è di-
ventata discredito diffuso, i referendum hanno espresso una grande voglia di cambiare, ma è stato Berlusconi a occupare meglio quel vuoto. Anche perché con i partiti non funzionanti, si sono diffusi il culto del “leader” e la cultura della “supplenza”. La personalizzazione della politica ha animato suggestioni presidenzialiste, ovviamente senza delineare i necessari contrappesi istituzionali. Da un lato la magistratura e dall’altro i maggiorenti dell’economia nazionale si sono assunti invece compiti di moralizzazione: non che mancassero le buone ragioni per intervenire, ma non si può negare che da parte dei magistrati ci siano state invasioni di campo e che i poteri economici abbiano agito in difesa di interessi molto concreti. Ecco, nel motore di Berlusconi questa antipolitica accumulata è diventata la benzina che lo ha spinto, il propellente che aveva bisogno di una strutturale sfiducia della politica per dare energia al progetto. E si comprende bene come l’antipolitica in questo caso sia stata l’altra faccia del populismo: non sostengo certo che questa sia la sola ragione del successo berlusconiano, tuttavia è il fattore di maggiore squilibrio istituzionale. La cosiddetta transizione, in realtà, non si è mai chiusa proprio perché Berlusconi non vuole chiuderla: pensa di utilizzare a proprio vantaggio le deformazioni che l’hanno determinata e il discredito della politica e dei partiti che ne consegue».
Nel popolo del centrosinistra è ancora aperta la ferita del ’97, quando D’Alema tentò nella Bicamerale la strada delle riforme condivise con Berlusconi. Fu un errore quel tentativo oppure l’attuale squilibrio tra i poteri di oggi è proprio il frutto avvelenato del mancato compromesso di allora?
«Fu giusto scandagliare, provarci. Del resto la Bicamerale per le riforme era il primo punto del programma elettorale con cui l’Ulivo vinse le elezioni del ’96. E la ricerca di riforme condivise sta nella nostra cultura costituzionale. Probabilmente se il compromesso della Bicamerale fosse stato confermato dal Parlamento, oggi vivremmo un diverso rapporto tra istituzioni e società, tra politica e partiti: la riforma da sola non basta a ripristinare una relazione di fiducia tra i cittadini e la politica, ma se i partiti non sono neppure capaci di mettere ordine e ritrovare un equilibrio tra i poteri, allora l’impresa si fa quasi impossibile. Invece Berlusconi decise di far saltare tutto. E lo fece, non a caso, sul tema della giustizia. Dopo aver cavalcato Mani Pulite con piglio giustizialista, quando finì lui stesso al centro di inchieste con accuse piuttosto pesanti, cominciò a coltivare l’idea che all’indubbio squilibrio esistente bisognasse rispondere con un drastico recupero del primato della politica sulla giustizia. Si badi bene: la sua risposta non era un nuovo equilibrio tra governo, Parlamento e potere giudiziario, ma un diverso sbilanciamento, peraltro accentuato dalle forzature leaderistiche e dalla distorsione del concetto di sovranità attribuita in modo populistico direttamente alla funzione di governo. Sono tendenze che, negli anni 2000, hanno poi assunto curvature pericolose e che ora producono continui e intollerabili conflitti istituzionali. Ma già da allora, dal ’98 in poi, fu chiaro che Berlusconi avrebbe puntato le sue carte non sulla riforma, bensì sull’acuirsi della crisi. E da quel momento il precario equilibrio post-referendario tra istanze di democrazia diretta e regole della democrazia rappresentativa cominciò a saltare, a piegarsi verso esiti plebiscitari, a travolgere la divisione dei poteri. Se dunque fu giusto tentare nel ’97 con la Bicamerale un accordo di sistema con il leader del maggiore partito d’opposizione, ora non possiamo dimenticare quell’esito».

Corriere della Sera 14.4.11
Dal Pci a Crozza, il leader si racconta
di  Elsa Muschella


MILANO— Nell’Italia dell’ «incantesimo populista» Pier Luigi Bersani ha vita durissima. Stretto tra le presenze ingombranti del suo partito e quella che a torto è apparsa l’unica ragione sociale del centrosinistra, l’antiberlusconismo, l’uomo si carica sulle spalle la responsabilità di rappresentare l’alternativa riformista davanti a un Paese indicato dalla stampa straniera come la terra del bunga bunga. Il segretario del Pd prova a cristallizzare su carta il caos degli ultimi tempi e manda oggi in libreria Per una buona ragione, libro intervista a cura dello storico Miguel Gotor e del giornalista Claudio Sardo. Intanto, per sgombrare l’area dal satirico accostamento a Crozza, Bersani precisa che il suo linguaggio di metafore è frutto di un processo di crescita asservito alla comprensione dei più: «All’inizio parlavo in modo astratto e con venature filosofiche. Ma avvertivo un difetto che mi lasciava inquieto. Del resto, Gramsci individuava nel linguaggio aulico un sottile strumento di dominio. Certo, "pettinare le bambole"potrei dirlo anche in latino ma desidero che la voce del mio partito sia compresa in una dimensione popolare» . L’assunto della sua riflessione è che, con la deludente stagione del berlusconismo al lumicino, la visione umanistica del Pd rappresenti il futuro motore di «una riforma repubblicana e un nuovo patto sociale per la crescita e il lavoro» . Anche attraverso alleanze funzionali «alla ricostruzione» , da Sel all’Idv e fino al Terzo Polo. Bersani è impegnato a differenziarsi dal lessico che il centrosinistra ha masticato in questi anni: la narrazione (vendoliana) non lo soddisfa («Mi riporta alle favole» ) al pari del mito (veltroniano) a stelle e strisce («Democrazia è una parola meno leggera di quanto non lo sia per la cultura liberal americana» ), mentre l’uso (renziano) di Facebook non basta se resta esercizio di democrazia delegata. Non manca la parte biografica: figlio dell’Appennino piacentino, Bersani cresce in una famiglia di artigiani anticomunisti che solo dopo anni perdonerà la sua scelta di campo. La vena militante pulsa già da ragazzino, quando serve messa e organizza lo sciopero dei chierichetti per un’equa redistribuzione delle mance (ottenuta). Poi il comunismo («Ma l’Urss nella mia testa è stata sempre sinonimo di oppressione» ), il partito (scuola di «umiltà e rigore morale assoluto» ), le scelte («Nella famosa sfida D’Alema-Veltroni votai D’Alema ma avrei preferito una terza persona da cercare tutti insieme» ). La leadership nella sfida al Cavaliere? Non si tira indietro: «Verrà il momento di decidere insieme a quanti saranno con noi» .

il Riformista 14.4.11
«Il giustizialismo è contrario ai nostri valori»
Esce oggi “Per una buona ragione”, un libro- intervista in cui Bersani offre la sua lettura sulla crisi del berlu- sconismo. Qui si parla di cricche, questione morale e garantismo.

qui
http://www.scribd.com/doc/52986219

Repubblica 14.4.11
Libro-intervista del leader del Pd. Da studente scioperò da solo contro l´insegnante di greco. E della sua regione dice: mai usata la formula "modello emiliano"
Bersani, il liceale ribelle che ora ammira Ratzinger
"Se vinciamo le elezioni con Pd-Idv e Sel propongo governo al Terzo Polo"


ROMA - L´attività politica di Pier Luigi Bersani comincia con due scioperi. Da chierichetto organizza la protesta dei compagni per ottenere la distribuzione diretta delle mance. A scuola vuole impedire gli interventi dei professori nelle assemblee. E un giorno incrocia le braccia da solo contestando l´insegnante di latino e greco. Non proprio l´esordio più promettente per il profilo riformista che il segretario del Pd si è costruito negli anni successivi. Peccati di gioventù.
C´è anche questo nel libro intervista a cura dello storico Miguel Gotor e del giornalista Claudio Sardo che oggi Laterza manda in libreria. Per una buona ragione, il titolo. Un po´ autobiografia, ma soprattutto il manifesto politico e civile di Bersani. Che non entra nei dettagli della polemica quotidiana, non si sofferma sulla questione della leadership, sui contrasti interni del Partito democratico. Poche pagine sono riservate al tema annoso delle alleanze. Per dire con chiarezza qual è il suo pensiero: «Se il centrosinistra dovesse vincere le prossime elezioni con la coalizione naturale Pd-Idv-Sel, il giorno dopo io proporrei al Terzo polo un governo da fare insieme. Per ricostruire le basi istituzionali del Paese».
Gran parte del volume è dedicato alle riflessioni del segretario su un nuovo umanesimo, sul rapporto tra sé e la religione, tra il Pd e la Chiesa. A sorpresa e a dispetto di tante voci nel suo stesso partito, Bersani considera Benedetto XVI un Papa moderno. «Ratzinger ha validi strumenti per mettersi in contatto con la modernità in modo amichevole e al tempo stesso sfidante - scrive -. Invoca una ragione che non si autoriduca a ciò che è sperimentabile e un diritto naturale che non accetti il perimetro definito da scienziati e biologi». Con questa impostazione, dice Bersani, «non si fatica a interloquire». Il segretario del Pd, laureato in Filosofia con una tesi su San Gregorio Magno, vuole a sua volta interloquire con il mondo cattolico, con i credenti del Pd, con chi gli rimprovera di voler dare un segno di sinistra al Pd lasciando ad altri il compito di rappresentare cattolici e moderati. Ma la Bibbia del segretario, malgrado le attenzioni e la preparazione sulla materia, resta «la Costituzione repubblicana».
L´intervista vuole anche demolire l´immagine di uomo pragmatico che spesso è stata piegata nella considerazione generale al "pragmatico e basta". «Valori e ideali» sono invece la vera base del politico Bersani e del partito che guida. Realista, però, sì. Come quando pronostica un´apertura al Terzo polo a prescindere dalla loro collocazione al momento del voto. E realista sul futuro leader. Si parte anche da lui, ma si sceglie quello giusto per vincere. Realista, e non da oggi, quando contro il suo stesso Dna territoriale e politico distrugge il modello emiliano, per anni vanto del Pci. «Mai usata quella formula. Serviva a dimostrare agli italiani la nostra distanza dall´Est per ingraziarsi la borghesia. Ma finì per alimentare un istinto di conservazione». Rivela che nel 1994 «fra Veltroni e D´Alema» scelse il secondo ma avrebbe di gran lunga «preferito una terza persona».
Non ci sono polemiche nel libro, non ci sono sassolini da togliersi. I nomi di dirigenti vecchi e nuovi sono quasi tutti nelle domande degli autori. Nelle risposte poco o nulla. A Matteo Renzi, destinato a un ruolo di protagonista nel futuro, riserva solo un´osservazione: «È più faticoso rottamare la destra che rompere la cristalleria in casa propria».
(g. d. m.)

La Stampa 14.4.11
Napolitano: no al populismo


La democrazia, per essere solida e vitale, deve incardinarsi su un sistema di istituzioni ben bilanciate, sostenute da una partecipazione ordinata e razionale, che esclude sensazionalismo e populismo. Uomo delle istituzioni per cultura oltre che per ruolo, Giorgio Napolitano, impegnato in una visita di Stato nella Repubblica Ceca, ha lanciato ieri questo messaggio sia in chiave di politica interna, sia con un riferimento all’Unione Europea, scossa attualmente dalle polemiche sull’immigrazione.
Proprio mentre affrontava questi temi con le autorità ceche, a cominciare dal presidente Vaclav Klaus, il Capo dello Stato ha fatto pervenire un messaggio in questo senso alla presidenza della Biennale Democrazia in corso a Torino, imperniata appunto sul tema della partecipazione democratica. Napolitano condivide la «viva preoccupazione circa le insidie che la concentrazione dei poteri comporta per la vita democratica» e sottolinea «la grande attenzione posta dalla nostra Carta al bilanciamento dei poteri e alla presenza nel corpo sociale e istituzionale di formazioni intermedie», che costituiscono la base imprescindibile di una democrazia sana.
«Nulla - sostiene il Presidente della Repubblica - potrebbe essere più lontano dall’idea di una democrazia temperata e funzionante dell’idea di un corpo sociale indistinto, in grado di esprimersi solo elettoralmente, cui corrispondano ristrette oligarchie dotate di poteri economici e sociali senza contrappesi, resi più insidiosi dagli effetti del progresso tecnologico, impensabili solo sessanta anni fa».
Si tratta di concetti facilmente traducibili in linguaggio quotidiano. Una democrazia «bilanciata», infatti, presuppone che tutti i poteri fondamentali, Parlamento, governo e giustizia siano ugualmente forti e in grado di controbilanciarsi. E dunque sia la funzione legislativa sia quella giudiziaria non possono essere sottomesse all’esigenza dell’esecutivo. Si ricorderà che, due anni fa, nella sua prolusione alla prima edizione della Biennale, Napolitano fece una significativa citazione di Norberto Bobbio, quando ricordò che «la denuncia dell’ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie».
Ma il riferimento ai «poteri delle oligarchie» resi «più insidiosi dagli effetti del progresso tecnologico» non può non essere interpretato come una messa in guardia da forme di democrazia plebiscitaria innervate, invece che su un’intelligente partecipazione popolare, su proclami unidirezionali, cioè dall’alto verso il basso, convogliati da televisione, pubblicità o anche Internet. I riferimenti a un certa cultura politica propagandata anche da una parte non irrilevante dell’attuale classe politica nazionale sono evidenti. [P. PAS.]

La Stampa 14.4.11
La riforma aiuterà i corrotti
di Carlo Federico Grosso


Tutti sanno che la prescrizione abbreviata risponde all’interesse del premier nel processo Mills. Si può dire, anzi, che i suoi dettagli sono stati studiati per favorire il Presidente: l’abbreviazione vale per gli incensurati, e Berlusconi è incensurato, l’accorciamento non è elevato, ma quanto basta per evitargli una condanna, le nuove regole si applicano quando non è stata pronunciata sentenza di primo grado.
E in nessuno dei suoi processi tale sentenza è stata, appunto, pronunciata.
Dove è finito, tuttavia, il «processo breve» che costituiva l’obiettivo originario del progetto e, soprattutto, quali saranno le conseguenze della nuova «prescrizione» sulla sorte dei processi normali?
Con il «processo breve» s’intendeva introdurre una durata prestabilita di tutti i processi, nel senso che essi non dovevano superare determinati tempi, e se il giudice li sforava, il processo automaticamente si estingueva. Tale meccanismo era demenziale. Qualunque fosse stata la complessità del processo, anche se fosse stato impossibile chiuderlo nei tempi prefissati, esso sarebbe comunque finito nel nulla. La conseguenza? Un’ecatombe di processi, un mare d’impuniti. Un assurdo che lo stesso Capo dello Stato aveva, a suo tempo, additato con preoccupazione.
La legge approvata ha mantenuto lo scadenzario, ma ha eliminato l’estinzione, stabilendo, semplicemente, che in caso di sforamento il capo dell’ufficio «comunica il ritardo al guardasigilli ed al procuratore generale» (cioè ai due titolari dell’azione disciplinare). Per certi versi, bene. Non si rischia tuttavia, così, di scaricare sul magistrato «inadempiente» il carico degli sforamenti che, molte volte, sono dovuti a carenze delle strutture piuttosto che a negligenze individuali? Non sarà, questo, un modo per intimidire l’ordine giudiziario?
Ma veniamo al tema che interessa di più i cittadini. La prescrizione abbreviata per gli incensurati avrà l’effetto d’estinguere un numero elevato di reati? La prescrizione era già stata accorciata nel 2005, senza che fossero state, già allora, previste le riforme indispensabili per consentire un’accelerazione dei processi. Ciò ha causato una situazione pesante, con oltre 150 mila reati estinti all’anno. Se si considera che la maggior parte dei processi che si concludono con una decisione di merito riesce, già oggi, ad evitare per un soffio la mannaia, è facile immaginare che la nuova legge determinerà, in ogni caso, un ulteriore, doloroso, incremento del fenomeno.
Le conseguenze appaiono d’altronde ancora più gravi se si considerano i reati che saranno i più toccati, perché commessi da incensurati. Un incremento rilevante di reati prescritti si verificherà fra i reati dei colletti bianchi. Si pensi ai processi per truffa, per aggiotaggio, per bancarotta, per incidenti sul lavoro, molti dei quali già oggi riescono a sfuggire per poco, quando vi riescono, all’estinzione. Ad esempio, il primo processo Parmalat per aggiotaggio (che si prescriverà a giugno) riuscirà, forse, a concludersi con sentenza definitiva ai primi di maggio; ed il secondo, contro le banche, a giungere a sua volta alla sentenza di primo grado entro aprile, salvando così quantomeno i risarcimenti. Si tratta di processi che, dopo l’ulteriore riforma, sarebbero stati sicuramente prescritti. Davvero ragionevole?
Non solo. In taluni casi la normativa contraddice linee di politica criminale assolutamente prioritarie. Si consideri la corruzione. Le statistiche parlano di un suo incremento del 30%. Giuristi ed economisti chiedono, da anni, un’apposita legge anticorruzione (fra l’altro imposta dalla normativa europea). Ebbene, poiché i pubblici ufficiali corrotti sono, di regola, incensurati, con la nuova legge l’Italia, incrementando i reati prescritti, favorirà, anziché contrastare, la corruttela. Una vergogna, tanto più che il Parlamento, nel frattempo, si guarda bene dall’approvare il disegno di legge anticorruzione.
Il Guardasigilli ha sostenuto che l’aumento delle prescrizioni sarà minimo (0,2%). Il dato è contestabile (il Csm ha parlato del 10% in più); ma anche se fosse corretto, dato l’alto numero di prescrizioni già presenti, sarebbe comunque un male. Il ministro si è, d’altronde, ben guardato dallo spiegare «quali» saranno i reati più colpiti. Se lo avesse fatto, la gente avrebbe tanto più motivo d’indignarsi.

il Fatto 14.4.11
Di tragedia in farsa
di Angelo d’Orsi


Era una modestissima presenza televisiva, ma era (è, con gli opportuni ausili tecnici, tuttora) bionda e piacente. E tanto bastò perché il boss la reclutasse. E ce la siamo ritrovata in Parlamento, in attesa che finisca all’Isola dei famigerati. Parlo della signora Carlucci, nota per non aver saputo rispondere alle più elementari domande dei cronisti delle Iene. E, nel clima da basso impero (postfascista) del berlusconismo calante, la signora ritira fuori vecchie trovate, dalla proposta Storace dell’anno 2000, a quella del deputato forzista Garagnani, volte a sottoporre a verifica governativa, in funzione anticomunista, i libri di testo. Sono decenni che leggiamo le sparate di Ernesto Galli della Loggia & Co, contro la terribile “egemonia” gramsciana (o “gramsciazionista”, o togliattiana; o semplicemente comunista) che avrebbe imposto una “vulgata” antifascista, resistenziale, e, comunque dominata dal Pci. Un’egemonia che si sarebbe impadronita di università, scuola, giornali, editoria e, naturalmente, della produzione storiografica.
ABBIAMO così scoperto che editori, giornali, atenei erano in mano a funzionari di Botteghe Oscure, i quali non facevano che applicare il manuale gramsciano del Moderno Principe e costruivano, nei mondi della cultura, un potere di fatto, o un contropotere rispetto a quello delle istituzioni parlamentari. Misterioso , nascosto e perciò tanto più efficace potere dello spirito, che mentre corrompeva gli animi e inquinava le menti degli italiani, costruiva una “vulgata” storiografica: ad essa, finalmente, dopo la discesa in campo del Cavaliere, si è cercato di porre rimedio.
Dunque, dopo i tentativi – finiti in una indecorosa ritirata, dopo le sparate iniziali – del passato, ora si ripalesa il “vizietto”: quello del controllo della storia. Un sogno di ogni totalitarismo che si rispetti, come Orwell ci spiega in 1984. Dieci anni dopo l’anno in cui lo scrittore inglese colloca la sua allucinata e realistica distopia, con la “discesa in campo” di B., si avviava da un canto uno sguaiato uso politico della storia (si pensi alla vicenda foibe, su cui purtroppo anche il centrosinistra ha piegato la testa, diventando complice di una paurosa strumentalizzazione basata sulla falsificazione storica, a fini politici), dall’altro il tentativo di “indirizzare” la storiografia. L’hanno fatto Stalin e Franco, Hitler e Mussolini, perché non Storace e Carlucci? Come ci ha spiegato Marx (autore che immagino sarà vietato, prossimamente), la storia si ripete sempre due volte: la prima è tragedia, la seconda farsa. Entrando nel merito, vale la pena di ricordare che la sola distinzione accreditata nella comunità scientifica non è tra “storia di destra” e “storia di sinistra”, bensì tra buona e cattiva storia, che viene praticata da studiosi, i quali possono essere, personalmente, di qualsiasi collocazione politica.
LA STORIA è una scienza, signora Carlucci, e il suo compito è l’accertamento dei fatti, delle idee, delle biografie: accanto alla conoscenza, ci ha spiegato Max Weber, c’è la valutazione. E questa è ineliminabile: “Espungete dalla storia i giudizi, ed espungerete la storia stessa”, affermava quel sovversivo di Benedetto Croce (do you know, miss Carlucci?). Un altro grande, Gaetano Salvemini, storico e militante antifascista, nella Prefazione al suo Mussolini diplomatico (edito a Parigi nel 1932), si chiedeva come poteva essere credibile nei panni dello studioso, essendo un antifascista che voleva vedere il tiranno nella polvere. E rispondeva: lo storico non può essere obiettivo, ma può e deve essere intellettualmente onesto: il che significa dichiarare le proprie passioni (da che parte si sta, insomma) e prendere le “contromisure” nei loro confronti: ossia, come spiegava Marc Bloch (storico massimo e partigiano combattente, fucilato dai nazisti), “rimanere aggrappato ai documenti”. Ecco, appunto: lo scoop che Il Fatto può segnalare alla esimia parlamentare delle “libertà”, è che la storia si fa coi documenti, seguendo precise regole metodologiche e lavorando secondo determinate tecniche. Poi, ciascuno, darà le sue interpretazioni e valutazioni: credibili nella misura in cui metodo, tecniche e fonti appariranno ineccepibili. E il risultato non si valuta in una commissione parlamentare o in un’aula giudiziaria: il solo tribunale possibile è quello storiografico, costituito dalla comunità degli studiosi. Nella quale, finora, non è stata ammessa la sullodata signora. Ma, non si sa mai. Magari, una legge ad personam, et voilà; ecco una cattedra alla Carlucci.

il Riformista 14.4.11
La lite sui libri di storia «È una macabra farsa»
Marco Revelli. Lo storico e sociologo si scaglia contro la proposta del Pdl di epurare i testi scolastici dalle frasi “sinistre”
di Edoardo Petti

qui

Repubblica 14.4.11
Lezioni pericolose
Perché gli insegnanti tornano a fare paura
di Stefano Bartezzaghi


L´ultimo caso è quello sui libri di testo "troppo partigiani". Ma gli attacchi all´insegnamento tolgono autonomia e centralità al sistema educativo
Le classi sono il posto dove vengono forniti ai cittadini gli strumenti per giudicare
La proposta di una commissione per decidere sui testi segue l´accusa di plagio dei giovani
Non si può imporre un dosaggio agli argomenti storici o anche solo volerne discutere così

La campagna di primavera contro la scuola italiana ha un bersaglio principale: l´insegnamento e i professori. Dall´attacco all´educazione pubblica accusata di "inculcare nei ragazzi dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai propri figli" fino all´ultima proposta dei deputati Pdl che invocano una Commissione parlamentare che valuti l´imparzialità dei testi scolastici adottati perché molti, oggi, "plagiano i giovani" è evidente che sono gli insegnanti a fare paura. E che in questo modo si cerca di spezzare quella preziosa alleanza tra docenti, famiglie e ragazzi che spesso ha fatto delle aule scolastiche una sorta di laboratorio delle differenze culturali. Così colpire la figura dell´insegnante vuol dire, paradossalmente, enfatizzare il suo ruolo di solitario artefice della cultura, dall´altro, implicitamente, isolarlo sotto la lente di un´osservazione sociale e politica minuta, moltiplicata, asfissiante. Uno sguardo che non è complice e collaborativo, ma indagatore e giudice.
(...)
Non stiamo parlando di un carrozzone parastatale, di un ente inutile. Stiamo parlando della scuola, la principale agenzia culturale della Nazione. Il suo compito è fondamentale: fornire a ogni cittadino l´attrezzatura per intendere, comprendere ed elaborare personalmente tutto quanto gli verrà detto, o già gli è stato detto altrove (in famiglia, o anche nei libri di testo). La scuola non insegna giudizi: insegna a giudicare.
Senza l´autonomia da qualsiasi ordine superiore, l´insegnamento diventa quello che la destra mostra di credere sia già: una forma laica (troppo laica) di catechismo. La cultura, però, non è una dottrina: la minaccia che porta è casomai nella sua efficacia di antidoto antidottrinario. Tutti gli intellettuali, comunque votino, lo sanno: infatti gli intellettuali di destra si tengono lontani da questa questione, in cui sono sempre e soltanto i politici ad accanirsi.
Da quando, era il 2000, il presidente della Regione Lazio Francesco Storace inaugurò la polemica sui libri scolastici «troppo marxisti», l´idea (molto sovietica essa stessa) di una «Commissione» che valuti l´idoneità dei testi è ritornata, per esempio in dichiarazioni di Maurizio Gasparri. Quel che rende più serio e preoccupante il suo attuale rilancio è che avviene a poco più di un mese dalla polemica contro «la scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare princìpi che sono il contrario di quelli dei genitori» (Berlusconi, 28/2/2011; corsivo nostro). Data la pregnanza strategica e comunicativa di certi palleggi, non pare trascurabile la circostanza per cui il tema è stato ora sollevato da due collaudate componenti dell´inner circle berlusconiano. Prima da Gabriella Carlucci, che è membro della Commissione Cultura e Istruzione della Camera («Testi politicamente orientati, finalizzati a plagiare le nuove generazioni»), poi da Mariastella Gelmini, la ministra competente, che lo ha ripreso il giorno stesso («Il problema esiste»). Lo schema deputato-ministro ha già preannunciato diverse altre campagne, specialmente nel campo della Giustizia.
Si configura, insomma, un salto di qualità. Il problema non è il prevalere di un argomento storico sull´altro, con dosaggi (per esempio tra foibe e Lager) ritoccati a ogni cambiamento di maggioranza, almeno sino a quando, in questo Paese, le maggioranze cambieranno. Il problema è l´idea stessa del dosaggio: di poterne imporre uno, o anche solo di discuterlo.
Provenendo poi non da estremità propagandistiche e pirotecniche ma dall´interno delle tecnostrutture politiche impegnate nella legislazione e nell´amministrazione si può immaginare quanto maggiore effetto facciano simili affermazioni sugli interessati. Nuove prospettive si aprono a quegli studenti e a quei genitori che usano accogliere le meritate insufficienze con lo spirito di miglioramento recentemente dimostrato in altro campo da Zlatan Ibrahimovic. Non l´ha detto anche il Governo e il Parlamento, che non è giusto studiare su testi che elogiano la Resistenza o la presidenza di Oscar Luigi Scalfaro? Non è stato lo stesso Presidente del Consiglio a suggerire alla famiglia di correggere la scuola, ai genitori di controllare che i «princìpi» inculcati dai professori non siano diversi dai propri?
Per rottamare la scuola come agenzia culturale basta mortificarne l´autonomia, magari dichiarando l´intento di restaurarla. Se guardiamo all´insegnamento come a una tecnica per imprimere un calco solido in una materia duttile, e così formarla (questo il significato originario del termine «inculcare»), distruggiamo il significato vero, e prezioso, della relazione di insegnamento. Sarebbe come pensare di ridurre l´eros allo stupro, la comunicazione alla propaganda, il governo al comando.

Repubblica 14.4.11
Il nichilismo al potere
di Carlo Galli


Ieri la Camera – tra le proteste di una cittadinanza che si sente tradita dal Palazzo – ha approvato una legge vergognosa, l´ennesimo provvedimento ad personam per salvare Berlusconi dai suoi processi e farne un soggetto superiore alla Legge.
Se, secondo il premier, è ‘surreale´ la sua presenza, da imputato, in tribunale, va detto che davvero davanti alla giustizia emerge con chiarezza il rapporto peculiare che il Cavaliere instaura fra politica e realtà. Che certo e´ surreale, ma in senso opposto a quello che egli propone: nel senso, cioè, che per il premier la politica è la decostruzione della realtà, il rovesciamento della sua architettura. E nel provvedimento sulla ‘prescrizione breve´, in questa misura di autodifesa distruttiva, si rendono evidenti le implicazioni più generali – e più fatali – dell´essenza nichilistica e paradossale della destra al governo, che si concentra nella persona di Berlusconi.
Quell´essenza si presenta con una serie impressionante di inversioni delle logiche politiche di una moderna democrazia, di rovesciamenti dei suoi apparati concettuali. In primo luogo, come sempre, del rapporto fra pubblico e privato: il Parlamento, il luogo per eccellenza della politica, in cui la ‘pubblicità´ prende forma, che viene posto al lavoro, a testa bassa, con sprezzo della verita´ e della giustizia, al servizio e al soccorso della singola persona del premier – per salvarlo da pendenze giudiziarie nate dal suo passato di imprenditore –, è la più umiliante icona di questo processo perverso. Che si ripete, senza sostanziali variazioni concettuali, dal caso Ruby – in cui il vecchio e per certi versi nobile armamentario della ragion di Stato è stato mobilitato spudoratamente per rendere ‘politica´, e quindi ministeriale (e pertanto non giudicabile da un tribunale ordinario), una vicenda tutta privata – al caso Mills; e che verrà iterato, non v´è dubbio, ad ogni futura occasione.
Discende da ciò l´inversione tra norma e interesse particolare: la prima, anziché essere una costante, è una variabile di trascurabile importanza, infinitamente plasmabile, suscettibile di innumerevoli interpretazioni e manomissioni; la costante, la stella polare del sistema pubblico, la rocciosa consistenza dello Stato, il baricentro della politica, è invece la privatezza della vita, della libertà e degli affari (economici e sentimentali) di un singolo. Il liberalismo per una persona sola, il cui peso sovrasta quello della universalità dei cittadini, come si mostra plasticamente nella scandalosa proporzione di 15.000 a uno: la misura dei processi estinti, delle giustizie negate, dei torti accettati e ribaditi, perché uno si salvi. Non vale sostenere che quel numero è poca cosa, a fronte della quantità di reati (più del decuplo) che vanno in prescrizione ‘naturalmente´ – per la ‘fisiologica´ patologia della nostra giustizia –: questi, oltre che una macchia sul nostro Paese, sono una statistica, un prodotto casuale di un malfunzionamento generale, mentre quei 15.000 sono consapevolmente aggiunti al caso, sono calcolati come ‘perdite collaterali´ giustificate – come in una guerra – dal fatto che si sta difendendo un obiettivo vitale.
Dunque, l´inversione di gerarchia tra l´interesse generale – che vuole sia fatta giustizia – e l´interesse particolare dell´imputato, che è di salvarsi dalla condanna (nel procedimento, com´è diritto di chiunque; ma anche dal procedimento, com´è privilegio esclusivo di chi, mentre è imputato, può cambiare le leggi a proprio vantaggio) ne produce un´altra, ancora più grave: quella fra pace e guerra. Assistiamo infatti, e non da ora, al combinato disposto di due poteri, il legislativo e l´esecutivo, che anziché dedicarsi alla costruzione della giustizia e della pace interna – fondata sull´uguaglianza davanti alla legge e sull´efficienza della macchina giudiziaria – muovono guerra alla magistratura e all´ordinamento, ne cercano le falle non per porvi rimedio ma per trasformarle in comode e legali vie di fuga per un imputato; che, insomma per migliorare l´efficienza di un sistema (il mitico ‘processo europeo´) non lo potenziano ma fanno in modo che funzioni ancora peggio; che, anziché costruire, distruggono. E per di più – ultima beffa, ultima inversione – questa guerra d´attacco viene presentata come legittima difesa dalle ‘aggressioni´, politicamente motivate, della magistratura; come se all´imputato Berlusconi mancassero i mezzi per difendersi dentro le norme e le procedure, e, se ne è il caso, per trionfare sui giudici, svergognandoli per le loro trame.
Ma l´aperta sconsacrazione della politica, del primato dell´universale, viene proclamata dal cuore stesso della maggioranza, che nei suoi principali esponenti non resiste alla tentazione di affermare il proprio nichilismo, ammettendo che in effetti l´obiettivo di tutto questo lavorìo è di sottrarre Berlusconi alla ‘persecuzione giudiziaria´, di non farlo processare ne´ nelle aule ne´ nelle piazze (un´improvvida citazione da Aldo Moro). Ora, se la stessa destra rende palese la catena d´inversioni concettuali e di eversioni categoriali che ha costruito, c´e´ solo da augurarsi che le prossime elezioni (a partire dalle vicinissime amministrative) diano il segnale che la maggioranza dei cittadini di questo Paese vuole invece, democraticamente, far uscire la politica dal gorgo che si avvita su di una persona sola, che risucchia e deforma lo spazio politico. E - contrapponendo al nichilismo la realta´, all´eccezione la legalita´ - vuole por fine a una manomissione dello spirito pubblico, a una distruzione del concetto stesso di ‘pubblicità´, che è divenuta la disperante normalità di un´Italia umiliata.

Repubblica 14.4.11
L’agonia del regime
di Guido Crainz


Perché il consenso alla maggioranza non è ancora crollato, nonostante il premier abbia superato ogni limite e il Popolo della libertà sia lacerato dalle divisioni? Il moltiplicarsi delle rissose correnti del Pdl fa impallidire il ricordo della peggior Dc.
Quella Democrazia Cristiana evocata dallo Sciascia di Todo modo, per intenderci. E così nei giorni scorsi "Libero" ha cercato di scongiurare il fantasma di un Berlusconi "bollito" (il termine è del quotidiano) mentre Giuliano Ferrara ha lanciato un "avviso ai naviganti" per ricondurre bruscamente alla ragione i riottosi. Le sempre più affannate e affannose esibizioni del premier rendono chiarissimo il suo obiettivo, incompatibile con un Paese civile –umiliare la magistratura e renderla subalterna al potere politico- e diventano al tempo stesso dei clamorosi autogoal. Si pensi solo all´ultima (per ora) menzogna sul caso Ruby: «L´ho pagata perché non si prostituisse»: come se fosse del tutto normale per i presidenti del consiglio frequentare fanciulle con simili vocazioni.
Perché, allora, quella parte del Paese che ancora sostiene il premier non mostra visibili e sostanziose crepe, trangugia escort e Stracquadanio, il rientro di Scajola e l´evocata uscita dall´Europa, le barzellette più squallide e la paralisi dell´attività parlamentare, sacrificata per intero ai guai giudiziari del leader? Senza misurarsi con questo nodo sarà difficile iniziare a invertire una deriva. Sarà difficile anche impedire il diffondersi di ripiegamenti e di pessimistiche rinunce, di rinnovate forme di scetticismo e di conformistiche chiusure nel "particulare".
C´è in primo luogo da chiedersi se la residua capacità di tenuta del premier si fonda esclusivamente sull´assenza –o sulla flebilissima presenza- di un´alternativa politica. Sarebbe riduttivo pensarlo, rimuovendo così i più generali processi che hanno attraversato il Paese sin dagli anni ottanta. E che lo hanno plasmato in profondità nell´ormai lunghissima fase "berlusconiana", trasformandolo in quel "Paese del pressappoco" tratteggiato con amara ironia da Raffaele Simone: un Paese inesauribile, ad esempio, nel trasformare disastri pubblici in vantaggi privati. Propensione antica, colta già da Goethe nel suo Viaggio in Italia: le strade di Palermo, annotava, sono coperte di immondizie in disfacimento ma ciò è apprezzato dalla nobiltà che ha: «Interesse a mantenere uno strato così morbido alle sue carrozze per poter fare con tutto comodo la solita passeggiata su un terreno elastico».
Anche al Paese profondo rimanda dunque il nodo da cui abbiamo preso le mosse: di qui la difficoltà ma al tempo stesso l´urgenza di invertire la rotta. Di avviare, almeno, un´inversione di tendenza, prima che sia davvero troppo tardi. Prima che le lesioni alle istituzioni siano diventate irrimediabili. E sarebbe una vera iattura se il logoramento del premier si consumasse solo per via giudiziaria, in assenza di proposte credibili: il ruolo della politica è dunque primario, e sin qui le carenze dell´opposizione sono state indubbiamente gravissime. Una decina di anni fa, nella stagione dei "girotondi", si diffuse l´idea che fosse sufficiente dare nuovo slancio a sentimenti di opposizione, portare nelle piazze un´indignazione crescente. E che spettasse poi al centrosinistra raccogliere quello slancio, dargli corpo e prospettive. Che spettasse interamente ad esso, insomma, il passaggio "dalla protesta alla proposta", come si diceva un tempo. Nella crescente abdicazione a questo compito sta una delle radici della paralisi attuale: non vi è alcuna via d´uscita se non si è capaci di delineare in modo credibile "l´Italia che vogliamo", per citare il più efficace ma anche il più disatteso slogan del centrosinistra prodiano. E forse è necessario ricominciare passo dopo passo, con umiltà e rigore, provando a colmare anche su singole questioni lo stridente divario fra i nodi sul tappeto e le nebulose incertezze del dibattito politico attuale.
Si prendano alcuni degli aspetti più scandalosi di questa agonia di regime. È difficile denunciare in modo credibile una legge elettorale sciagurata, che condiziona le dinamiche politiche e favorisce la compravendita dei deputati, se non è in campo una proposta alternativa su cui le opposizioni concordino (lo si è visto anche a dicembre, nel momento di maggior debolezza del premier). Sullo sfondo vi è, naturalmente, la riflessione generale sul "bipolarismo" italiano: è possibile rianimarlo o occorre prender atto che non è mai realmente nato e che il suo simulacro innesca oggi dinamiche ben poco virtuose? E´ un nodo intricato, certo, ma eluderlo contribuisce alla paralisi.
Si pensi anche ad un altro elemento di indecenza, la gestione della Rai: si è aperta anche qui una spirale senza ritorno che costringe costantemente la maggioranza ad alzare il tiro, a sbarazzarsi delle voci che pongono dubbi e aiutano a riflettere. È impossibile spiegare a un osservatore straniero l´ostracismo dato a Vieni via con me, e i veti alla sua ripresa. È difficile spiegargli perché siano duramente osteggiate anche altre trasmissioni di qualità, che pur stanno portando consistenti introiti alla televisione pubblica: da Report a Parla con me o a Che tempo che fa. E mentre si studiavano improponibili contrappesi e alternanze per togliere spazi a Floris e Santoro si accresceva la faziosità del telegiornale di Minzolini creandogli una "coda" rafforzativa. Anche su questo terreno, però, è difficile condurre battaglie credibili se non è sul tappeto un´ipotesi elementare di riforma della Rai che la ponga al riparo sempre, qualunque sia il governo, da guasti come questi. Per non parlare naturalmente del conflitto di interessi: ricordando però che entrambi i nodi sono stati colpevolmente lasciati marcire dal centrosinistra negli anni in cui ha governato.
Infine, è difficile dare sbocchi alla ripresa del protagonismo collettivo, che pur si è manifestata, senza delineare scenari convincenti per il futuro. Si pensi, per fare l´esempio più recente, alla protesta dei lavoratori precari: difficile che possa ampliarsi e trovare continuità se non prende corpo in sede politica una proposta concreta, capace di raccogliere esigenze e ipotesi –pur diverse fra loro- che sono state avanzate anche nei giorni scorsi.
Sono solo alcuni esempi ma rimandano a un elemento centrale: la necessità di verificare sin da subito se è possibile costruire un terreno comune alle differenti e non omogenee "anime" e forze politiche del Paese realmente convinte che occorra voltare pagina prima che sia troppo tardi.

Repubblica 14.4.11
Una commedia da tre soldi
di Franco Cordero


Ha dell´allucinatorio il voto con cui la Camera berlusconiana qualifica reato ministeriale l´oggetto della causa postribolare pendente a Milano e intima al Tribunale d´astenersene: vale uno zero giuridico, perché i trecentoventi o quanti siano non hanno il potere che s´illudono d´esercitare; è come se un questore emettesse condanne penali o, arrogandosi funzioni ultraterrene, l´Olonese presidente del Consiglio distribuisse indulgenze à valoir nell´ipotetico purgatorio. Scene d´una sgrammaticata commedia da due soldi, i cui attori improvvisano. Se la res iudicanda sia reato comune o ministeriale, lo diranno i giudici: data una condanna, l´appellante ripropone la questione; qualora soccomba anche lì, gli resta il ricorso in Cassazione. I cervelloni credono d´avere sferrato un colpo da maestri: «dichiariamo improcedibile l´accusa» (il clou esoterico sta nel predicato), «così il Tribunale, spalle al muro, deve ammettersi incompetente o sollevare un conflitto d´attribuzioni e tutto rimane sospeso». Ogni sillaba manda il suono delle monete false. Gli onorevoli straparlano, ossequenti al regime egomaniaco. Ipse dixit: è ai ferri corti col «brigatismo giudiziario», tale essendo nel suo universo deforme l´idea che la legge vincoli anche l´impunito ricchissimo; castigherà le toghe proterve, bisognose «d´una lezione»; e i famigli rabberciano norme à la carte.
La «sovranità del Parlamento» (i berluscones la vantano almeno due o tre volte pro die) è formula italiota d´una monarchia assoluta prima che s´installino gli embrioni del futuro Stato costituzionale: le attuali Camere sono cassa armonica dell´esecutivo; vi siedono persone ignote agli elettori; le nominano agenti del beneplacito sovrano. Chiaro quale sia il modello: platee stupefatte dalla droga mediatica forniscono voti; lassù, accessibile soltanto alle baiadere, siede Dominus Berlusco, ogni mattina più ricco (quanto sia disinteressato, attento solo al bene collettivo, fuori della mischia d´affari, lo dicono sordi ringhi con cui accoglie l´estromissione dalle Generali della devota lunga mano Cesare Geronzi). Niente vieta che vecchi organi rimangano, anzi conviene tenerli in piedi, finti vivi, palcoscenico d´una troupe innocua: Sua Maestà ne prende uno o una qualunque nel mucchio e li addobba; voilà, diventano ministri o figure analoghe; gerarchie adoranti esercitano poteri subordinati in conflitto permanente; griglie selettive escludono i diversi. Tale struttura subpolitica connota un Paese solo geograficamente europeo, dal futuro miserabile perché lo sviluppo economico richiede tensione psichica, cultura, lavoro duro, regole ferme, mentre qui regnano privilegi parassitari, variegato malaffare, gusti fraudolenti, mente corta, animule spente. Confessa una vocazione ministeriale, né punta basso aspirando alla Farnesina, la svelta figliola che, secondo l´accusa, sovrintendeva alle ospiti della reggia: nei dialoghi intercettati coltiva un argot dal percussivo registro turpiloquo; e sotto accusa d´avere gestito prostitute, conferma la candidatura. Qui s´indigna uno che scrive in décor grammaticale, storpiando impetuosamente i concetti: non marchiamole con quel nome (nei Tre moschettieri Milady porta una P impressa a fuoco sulla spalla); sono damigelle intente allo scramble mondano; è risorsa anche il corpo. Lo stesso maestro pensatore sventola liberalismo sui generis e culto berlusconiano, classico ossimoro del genere «sole nero» o «ghiaccio bollente». Gli aneddoti dicono a che punto siamo nella corsa al Brave New World.
La malattia italiana non risponde più alla solita farmacopea. L´Unico squaglia gravi accuse in falsa ilarità turpiloqua, spaventando persino gli obbligati a ridere. Rebus sic stantibus, è imputato in quattro sedi. Da tre pendenze rognose lo liberano due leggi che le Camere votano sul tamburo, tagliando ancora la prescrizione e seppellendo d´un colpo l´intero processo, appena scadano dei termini. La terza toglie al giudice il vaglio del materiale probatorio offerto dalle parti: se la difesa indica mille testimoni, saranno escussi tutti, in mesi e anni, finché suoni la campana; l´aula chiude i battenti; non se ne parla più. I giudizi diventano materia volatile: dibattimenti fluviali, processi brevi, larghe sacche d´oblio; fantasie carnevalesche da Nave dei matti? No, leggi italiane. L´ordinaria prassi politica risulta impotente contro l´abuso sistematico, tanto l´ha pervertita Re Lanterna. Temendo la sfiducia, compra degli oppositori (gesto automatico, gli viene naturale: cambiano uniforme, esigono i prezzi, li incassano; il transito non è finito, sappiamo dal coordinatore. La secessione nel Pdl inalberava insegne virtuose ma i bei giochi durano poco. Le anime transumano salmodiando motivi edificanti. Di questo passo, la legislatura compie l´intero ciclo: tra due anni divus Berlusco s´insedia al Quirinale, portandovi i divertimenti che sappiamo (accadeva sotto Rodrigo Borgia, Sua Santità Alessandro VI; vedi monsignor Iohannes Burckardus, cerimoniere impeccabile e cronista meticoloso nel Liber notarum: domenica sera 31 ottobre 1501 danno spettacolo orgiastico «quinquaginta meretrices honestae»); presiede il consiglio l´attuale guardasigilli, viso spirituale; nella ratio studiorum dei licei appare una nuova materia, Arte dell´osceno. Tale essendo il presumibile futuro, è questione capitale come scongiurarlo: discutiamone perché i tempi stringono; tra poco il fuoco lambirà le polveri (scriveva Walter Benjamin, cultore d´allegorie e metafore).

Repubblica 14.4.11
La sparata di Asor Rosa "Stato d´emergenza per salvare la democrazia"
Ferrara: è golpe. La replica: bisogna reagire
di Goffredo De Marchis


È eversivo invocare l´intervento di polizia e carabinieri? Lo sarei se invocassi la rivolta
Nessuna critica a Napolitano. Dobbiamo accettare o meno la fatalità di un bis del ´22
Berlusconi manda in frantumi le regole e l´assetto democratico e repubblicano
Certo, la mia è una forzatura. Serve a farsi capire meglio e a focalizzare l´attenzione

ROMA - Per evitare che la storia si ripeta, che l´Italia torni alle condizioni del 1922 (alba del fascismo) o precipiti nella deriva della Germania del ‘33 (avvento di Hitler) Alberto Asor Rosa propone una strada: dichiarare lo stato di emergenza, congelare le Camere, chiamare al governo Carabinieri, Polizia di stato e magistratura. Il professore, ex parlamentare del Pci, descrive il suo progetto in un editoriale sul manifesto di ieri. La democrazia è già collassata, scrive Asor Rosa citando i precedenti del Novecento. Per colpa «di Berlusconi e dei suoi più accaniti seguaci».
L´articolo scatena, com´era prevedibile, Giuliano Ferrara che a Qui Radio Londra attacca a testa bassa accostando impropriamente Eugenio Scalfari e la Repubblica ad Asor Rosa e alla sua tesi: «C´è chi propone il colpo di Stato contro il governo eletto dai cittadini. Asor Rosa spiega con chiarezza un progetto politico che è di Repubblica. Del resto il professore fa parte della cricca di Scalfari». Ribatte a muso duro Asor Rosa: «C´è un´unica cricca lobbistica ed è quella notoriamente guidata dal presidente del Consiglio, ed i pericoli che ha provocato per la democrazia italiana sono pesantissimi». Asor Rosa però conferma la sua assurda exit strategy al berlusconismo. Lui stesso la definisce paradossale: «Pensavo mi chiamasse uno psichiatra, non un giornalista», dice rispondendo al telefono.
Se anche lei sa che il paradosso ha aspetti eversivi perché lo ha scritto? Propone di reagire alle regole calpestate violando tutte le regole. E gli amici del Cavaliere, come Ferrara, ci sguazzano. Bel risultato.
«Da tempo immemorabile Ferrara non rappresenta più nulla. Ma l´alternativa quale sarebbe? Tacere? Il mio ragionamento è chiaro, soprattutto nelle premesse. C´è un´obiettiva frantumazione delle regole ed è opera del capo del governo. L´atteggiamento etico politico di Berlusconi mette in discussione l´assetto democratico e repubblicano. Se tutto questo è vero, e secondo me è vero, bisogna porsi il problema di come se ne esce».
Ma lei immagina una «prova di forza» che è l´opposto della democrazia.
«La mia proposta è una forzatura e le forzature servono a farsi capire meglio. A focalizzare l´attenzione sulle premesse».
Poteva fermarsi a quelle.
«No, anche perché non credo che lo stato d´eccezione sia contro la nostra Costituzione».
Congelare le Camere, affidare i poteri alle forze dell´ordine. Dove ha letto queste cose nella Carta?
«Non sono un costituzionalista ma invito tutti a valutare bene gli articoli 87 e 88 della Costituzione. E a vedere cosa se ne ricava in un momento di rischio della democrazia. Se qualcuno mi dimostra che la democrazia in Italia non è a rischio accetto la confutazione. Altrimenti dobbiamo fare tutto il possibile per evitare il peggio».
Quegli articoli riguardano i poteri del presidente della Repubblica. Napolitano non sta già facendo moltissimo per respingere leggi inaccettabili e comportamenti fuori controllo?
«Non ho nessuna critica da muovere a Napolitano. Ma tutti abbiamo di fronte una responsabilità storica: accettare o meno la fatalità di quello che accade come avvenne nel ‘22 e nel ‘33. La prospettiva politica si è enormemente aggravata. E chiede un impegno che va oltre il semplice accettare o respingere leggi».
Lei soffia sul fuoco, non è anche questo pericolo? Per fortuna sono parole isolate.
«È eversivo, è soffiare sul fuoco invocare l´intervento di Polizia e Carabinieri? Sono organi dello Stato. Sarei eversivo se invocassi la rivolta popolare. Ma non lo faccio. Chiedo solo che la democrazia e lo Stato si autodifendano».
Un uomo con la sua storia di sinistra che invoca i generali. Non è in imbarazzo?
«L´apprezzamento per la polizia e i carabinieri fa parte della maturazione quasi secolare di cui sono portatore».

l’Unità 14.4.11
A centinaia all’incontro su donne e media al festival del giornalismo di Perugia
Tra i temi la precarietà. De Gregorio: «La classe dirigente si dimentica ogni orizzonte futuro»
Informazione nell’era della paura. Quando potere e media fanno tilt
Alla quinta edizione del festival, tantissimi incontri e tavole rotonde. Tra il pubblico donne e uomini, madri e figlie, ragazze e ragazzi. Susanna Camusso: «In Italia la precarietà non è transitoria».
di Giuseppe Rizzo


C’è un cortocircuito, in Italia, uno tra i tanti, ma è uno di quei cortocircuiti dai quali dipende il futuro di un paese. Salta fuori quando si associano parole come «informazione» e «potere». Ma anche «donne» e «precarietà», «new journalism» e «vecchi media». È sull’accostamento di questi temi che ha deciso di lavorare quest’anno la quinta edizione del Festival del Giornalismo di Perugia. Tanti gli incontri e le tavole rotonde. Pierpaolo Bruni, pubblico ministero alla Procura di Catanzaro, e i giornalisti Andrea Gerli, Riccardo Giacoia, Lucio Musolino e Roberto Rossi, hanno provato a spiegare cosa significa raccontare la realtà e battersi per la legalità in terra di ‘ndrangheta. Altri giornalisti, da Alessandro Campi, direttore di Rivista Politica, a Peter Gomez del Fatto, da Rachel Donadio del New York Times alla nostra Claudia Fusani, hanno invece provato a spiegare cosa significa raccontare la realtà, quando questa realtà è composta dai processi di Silvio Berlusconi, uomo che non ha mai nascosto tutta la sua disapprovazione, per usare un eufemismo, verso chi si impiccia dei suoi affari.
C’è stata, nei racconti degli speaker, ma anche nei discorsi fatti a bassa voce tra il pubblico, una parola che è ritornata spesso, una parola che fotografa benissimo la situazione del nostro paese, la parola «paura». Un termine che le relatrici dell’incontro Donne, media e potere hanno usato per misurare la febbre che ormai da anni avvampa l’Italia. Sul palcoscenico allestito nella Sala dei Notari di Palazzo Priori, il direttore de l’Unità Concita De Gregorio, il segretario della Cgil Susanna Camusso, la giornalista Maria Laura Rodotà e Irene Tinagli, ricercatrice all'Università Carlos III di Madrid. In sala, gremita fino al punto che gli organizzatori hanno dovuto sbarrarne le porte, centinaia di persone. Donne e uomini. Madri e figlie e ragazzi e ragazze. Tutti a cercare una risposta alla domanda-provocazione lanciata dalla Rodotà: Come si fa a essere assertive se si è precarie?
Irene Tinagli è andata a vivere all’estero proprio per sfuggirla, questa condizione, ma del resto è anche stata questa sua fuga a convincerla
che la cosa peggiore non è il binomio donne-precarietà, quanto il circolo vizioso che lega l’instabilità nel mondo del lavoro alla paura. «Non mi fa paura essere precaria – dice – perché sono talmente tanti anni che investo su di me, sulle mie conoscenze, continuando a studiare, anche quando tutto sembrava scongiurarlo, anche con tanti sacrifici, spostandomi parecchio, che credo di portarmi dentro un valore che mi aiuta e che mi viene riconosciuto». Il punto, però, è che questo rico-
noscimento avvenga. «Purtroppo siamo in un paese che non offre più possibilità», dice Concita De Gregorio, «e questo vuol dire che anche se una ragazza oggi dice di voler fare l’astrofisica e non il bunga bunga, è tutto inutile, e frustrante. La miopia della classe dirigente di questi anni ha portato ogni governo a occuparsi dell'immediato presente, dimenticandosi totalmente di ogni orizzonte futuro».
«La differenza rispetto al passato – continua la Camusso – è che allora la precarietà non era una condizione dell’esistenza, mentre oggi sì. Noi avevamo un orizzonte. Non si può essere assertive se si è precarie – anche se ci dobbiamo provare – perché alla fine si crea la sensazione di vivere in una trappola da cui non si riesce a uscire. La precarietà esiste in tutto il mondo. Ma il problema è che da noi non è una condizione transitoria, e si ha l’impressione, e anche un po’ di dati a sostegno di questa impressione, che chi hai studiato di più sia in verità più svantaggiato. È un segno del paese – che ci contraddistingue in Europa e in
tutto l’Occidente. I giovani oggi nascondono i titoli di studio per firmare un contratto». Brutalmente, la Rodotà legge così il contesto in cui si consuma la frizione tra donne, precarietà e potere. «In Italia – dice – le donne, da ragazze, vengono importunate, dai cinquanta in poi vengono mobbizzate, poi vengono pensionate, senza neanche troppi complimenti». Una fotografia impietosa in cui però «non bisogna mai rispecchiarsi», ribadisce la Tinagli. Singolarmente, ma anche e sopratutto come comunità. «Quello di cui ci ha veramente privato questa politica fondata sulla paura – conclude la De Gregorio – è stata la capacità e la volontà di fare rete. Loro puntano a separarci e a marginalizzarci, noi dobbiamo unirci e rispondere a chi dice che è meglio andarsene che no, è meglio rimanere e fare la rivoluzione».

Repubblica 14.4.11
Tre giorni di Dialoghi su relativismo e laicità
di Raffaella De Santis


ROMA - Sarà il relativismo il filo conduttore del primo festival dedicato interamente al tema della laicità. Al via dunque domani a Reggio Emilia le Giornate della laicità: tre giorni per discutere con filosofi, scienziati, giornalisti, teologi e sacerdoti di un tema diventato tabù, che suscita molte polemiche. Il festival, curato da Paolo Flores d´Arcais e promosso da "Iniziativa Laica" insieme alla rivista Micromega e all´Arci di Reggio Emilia, sarà aperto da Franco Cordero. Titolo dell´incontro: "Elogio del relativismo" (ore 17, Teatro municipale Romolo Valli). Nella stessa giornata interverrà Giulio Giorello, mentre d´Arcais dialogherà con don Carlo Molari sul tema "La dottrina cattolica è compatibile con la democrazia?". Il dibattito, che proseguirà sabato 16 con Piergiorgio Odifreddi, Gianni Vattimo e Roberta De Monticelli, toccherà le questioni spinose della bioetica e dell´etica in generale, interrogandosi sul problema dei valori e del rispetto della vita. In chiusura, nella giornata di domenica, alla quale parteciperanno anche Beppino Englaro e Carlo Augusto Viano, la conferenza con Sergio Luzzatto "Senza il crocefisso l´Italia sarebbe migliore". Titolo che ha infiammato le polemiche, spingendo vescovi e prelati a declinare l´invito a partecipare. Ma agli anatemi della curia ha risposto molto laicamente d´Arcais: «Il dialogo, se si vuole che sia dialogo, si fa tra posizioni diverse, che si esprimono in modo autentico, senza accomodamenti o censure».

il Riformista 14.4.11
Così mons. Galimberti ricicla le sue prediche filosofiche
Francesco Bucci ricostruisce in un saggio il metodo “liturgico” del celebre intel- lettuale, accusandolo di praticare sistematica- mente il “copia e incolla” di testi altrui
di Francesco Bucci

qui

l’Unità 14.4.11
La «pillola del giorno dopo»? In Italia averla è un’impresa
di  Cristiana Pulcinelli


Sono per lo più donne, giovani, abitano in prevalenza nel centro sud e si dichiarano cattoliche. Chiamano SoS pillola del giorno dopo per essere aiutate a prevenire una gravidanza indesiderata. L’Associazione Vita di Donna nel 2008 ha istituito questo servizio di orientamento telefonico sulla contraccezione d’emergenza che si avvale di una rete di 100 medici, volontari, che intervengono sul territorio nazionale anche nei fine settimana, nei giorni festivi o di notte. Ieri nella sede della provincia di Roma, Vita di Donna ha presentato il primo rapporto sul servizio. Ne è emerso un quadro preoccupante. Ai medici hanno telefonato in 3 anni quasi 8000 persone. Il 50,9% ha chiamato dopo aver ricevuto un rifiuto alla richiesta della prescrizione medica, l’85% dei medici che ha rifiutato lo ha fatto con la motivazione della «clausola di coscienza». Tra i medici che hanno negato la ricetta, il 34% lavora nei pronto soccorso, il 30% in guardia medica, il 25% nei consultori, l’11% sono medici di famiglia. Nel 15% dei casi invece il rifiuto è dovuto all’assenza del medico, ad esempio perché l’ambulatorio o il consultorio è chiuso in alcuni orari o in alcuni giorni della settimana. Insomma, la pillola del giorno dopo non si ottiene facilmente: in Italia ricorre alla contraccezione d’emergenza il 2,5% delle donne tra i 15 e i 49 anni, una prevalenza tra le più basse d’Europa. Si lamenta una insufficiente informazione sulla contraccezione di emergenza tra le donne ma talvolta anche tra i medici. «Per molte pazienti si tratta ancora di una bomba ormonale osserva Vincenzo Spinelli, direttore sanitario dei consultori Aied mentre gli effetti collaterali della moderna contraccezione di emergenza sono minimi».
Elisabetta Canitano, presidente di Vita di Donna, ha ricordato che mentre in Europa è disponibile anche la cosiddetta pillola di 5 giorni dopo, che può essere somministrata entro 120 ore dal rapporto a rischio, in Italia ancora non c’è per «inspiegabili ritardi».

Repubblica 14.4.11
Arriva in Italia l’anticoncezionale che si mette sotto la pelle sostituisce la tradizionale pasticca vecchia di quasi mezzo secolo
La pillola va in pensione adesso c’è un microchip
Gli effetti durano tre anni, libera le donne dalla schiavitù di doversi ricordare di prendere il farmaco tutti i giorni
di Michele Bocci


Un bastoncino sotto la pelle invece di una pasticca tutti i giorni per tre anni. Lo applica il medico nella parte posteriore dell´avambraccio e può essere tolto in qualsiasi momento. A 40 anni dal suo ingresso in Italia, la tradizionale pillola anticoncezionale ha un´alternativa che, come minimo, solleva le donne dall´obbligo di ricordarsi ogni giorno di prenderla. Il principio attivo di base è l´etonogestrel, il nome commerciale Nexplanon.
Da anni si parla dell´arrivo nel nostro paese dell´anticoncezionale sottocutaneo e del resto, come sempre accade con la contraccezione, vedi pillola del giorno dopo o dei 5 giorni dopo (che aspetta l´approvazione da 20 mesi), siamo molto in ritardo rispetto al resto del mondo. Prodotti simili all´etonogestrel sono in vendita in Sud America addirittura da decenni. In Inghilterra sono stati usati dal 2000. Vecchie molecole, e anche lo stesso ago, in certi casi hanno dato problemi ma il prodotto che arriva in Italia è più moderno. «Può essere utile anche per le straniere - dice Valeria Dubini, vicepresidente dell´Associazione ostetrici e ginecologi italiani - o dopo un´interruzione di gravidanza. Per metterlo o toglierlo ci vuole una leggera anestesia locale. Può provocare mestruazioni abbondanti e irregolarità del ciclo». Il prezzo è sui 250 euro, la pillola costa circa 180 euro all´anno. Chissà se convincerà il 33% delle italiane che, secondo una ricerca Eurisko, fanno sesso senza anticoncezionali anche se non vogliono rimanere incinte.
L´Italia non ha un rapporto facile con la contraccezione. La ricerca della pillola del giorno dopo, ad esempio, mette quotidianamente alla prova la pazienza di centinaia di donne che non riescono a trovarla. In tre anni 4mila persone si sono rivolte all´associazione "Vita di Donna" per segnalare l´impossibilità di ottenere il medicinale dal pronto soccorso (nel 34% dei casi), dalla guardia medica (30%), nei consultori (25%) e dai medici di famiglia (11%). Questo anche se non si tratta di un farmaco abortivo e quindi non è ammessa obiezione di coscienza. Chi si rivolge al servizio "Sos pillola del giorno dopo" dell´associazione ha tra i 19 e i 35 anni nell´80% dei casi e si dice cattolica nell´84%.
Quando arriva un farmaco nuovo nel campo di contraccezione o aborto, la trafila per l´approvazione è lunghissima. Lo ha dimostrato la vicenda della Ru486 (che è un medicinale abortivo) lo sta evidenziando quella della pillola dei 5 giorni dopo. Simile a quella del giorno dopo ma efficace più a lungo, questo medicinale, diffuso in tutta Europa, è da quasi 2 anni in attesa dell´approvazione da parte dell´Aifa. L´azienda produttrice, la Hra Pharma, ha presentato la richiesta ad agosto 2009. A settembre dell´anno scorso tutto si è fermato e il ministro Fazio ha dichiarato che il Consiglio superiore di sanità stava valutando se si tratta di un farmaco anticoncezionale o abortivo. In realtà nel marzo scorso, cioè sei mesi dopo, il parere del Css non risultava ancora chiesto. Di quel farmaco si sono perse le tracce.

l’Unità 14.4.11
Il libro di Russo e Santoni traccia la prima storia del sapere scientifico nel nostro paese
Il ruolo degli scienziati italiani fu fondamentale nella formazione dell’Unità d’Italia
Risorgimento e scienza: le relazioni prosperose
Risalendo a Fibonacci, primo matematico europeo, «Ingegni minuti» traccia una storia della scienza italiana, sottolineandone il ruolo avuto nel Risorgimento ma anche il mancato dialogo tra produzione e ricerca.
di Pietro Greco


Camillo Benso, Conte di Cavour, scriveva insieme ad Alessandro Volta sugli «Annali universali di statistica», una rivista fondata nel 1824 e a lungo diretta da Gian Domenico Romagnosi, giurista e fisico dilettante. Anche Carlo Cattaneo, il padre del (serio) pensiero federalista, collaborò alla rivista, prima di fondare a sua volta «Il Politecnico» nel 1839, perché i cittadini tutti avessero cognizione che la Scienza è il modo migliore per fecondare il campo della Pratica e accrescere «la prosperità comune e la convivenza civile».
Stanislao Cannizzaro, il più grande chimico italiano del XIX secolo insieme ad Amedeo Avogadro, partecipò ai moti siciliani del 1848 e dovette riparare in Francia inseguito da una condanna a morte da parte del Borbone. Macedonio Melloni, uno dei più grandi fisici italiani dell’Ottocento, fu destituito dall’insegnamento a Parma, dopo che nel 1830 aveva parlato ai suoi studenti della rivolta di Parigi. Riparò, in seguito, a Napoli dove gli fu chiesto di fondare e dirigere l’Osservatorio Vesuviano.
Il primo osservatorio vulcanologico al mondo fu inaugurato nel 1845, nel corso della settima «Riunione degli Scienziati Italiani», che portò nella capitale borbonica oltre 1.600 uomini di scienza provenienti da tutta Italia.
Hanno ragione Lucio Russo ed Emanuale Santoni, autori degli Ingegni minuti (Feltrinelli, pagine 506, euro 30,00), la prima storia completa della scienza italiana – dal 1202 (poi spiegheremo perché una data così precisa) ai nostri gior-
ni – e dei suoi limiti: quella del Risorgimento è semplicemente una storia monca se non tiene conto del ruolo che vi hanno avuto gli scienziati e la scienza. Per svariati motivi.
Perché gli uomini di scienza hanno partecipato in maniera attiva e da protagonisti assoluti al Risorgimento – anche in armi (esisteva, per esempio, un battaglione degli studenti pisani che ha partecipato alle battaglie di Curtatone e Montanara). E perché hanno partecipato in maniera altrettanto attiva alla costruzione dell’Italia appena unita: il fisico forlivese Carlo Matteucci fu Ministro dell’Istruzione del Regno d’Italia nel 1862; il chimico calabrese Raffaele Piria fu Ministro dell’Istruzione del governo Garibaldi a Napoli nel 1860, dopo la liberazione dai Borboni.
Perché la scienza è stato uno dei grandi collanti culturali che hanno creato uno «spirito nazionale». La prima «Riunione degli Scienziati Italiani» avvenne nel 1839, mentre l’Italia non esisteva – era ancora una costellazione di stati – ma gli italiani si percepivano come membri di uno stesso popolo e di una medesima nazione.
Perché, come ribadiscono Lucio Russo ed Emanuela Santoni, la scienza non era e non era vista come separata dalla politica e come un ruscelletto minore che scorre in parallelo al grande corso della storia. Ma, appunto, ne era componente essenziale.
Ma poi di tutto questo ce ne siamo dimenticati. Qual è la causa della damnatio memoriae che ricorre spesso nella vicenda scientifica italiana fin dalle origini?
LE ORIGINI
Il libro di Russo e Santoni ha molti meriti. Ci racconta in dettaglio la storia della scienza italiana fin dalle origini che risalgono, appunto, al 1202, quando Leonardo Fibonacci scrive il suo Liber Abaci e si afferma come il primo matematico e scienziato nella storia europea (Archimede appartiene alla cultura ellenistica e Roma non ha avuto mai una cultura scientifica sviluppata). Ci racconta di una scienza che ha avuto punte di valore assoluto – da Galileo ad Avogadro, da Redi a Fermi. Di una scienza che si è incontrata (nel Rinascimento, per esempio) o scontrata (con Croce e Gentile, per esempio) con gli intellettuali di diversa matrice culturale. Ma che ha avuto, sempre, una costante. Non ha mai incontrato un sistema produttivo che ha creduto nella ricerca scientifica e sulla ricerca scientifica ha fondato il suo sviluppo. Ed è questa incapacità, a ben vedere, il tema dominante della storia d’Italia. Prima dell’Unità. Ma anche dopo.
Certo ci sono state delle eccezioni, in cui il tessuto produttivo italiano è stato informato dalla scienza: nel Rinascimento, nella stagione risorgimentale (appunto), appena dopo la seconda guerra mondiale. Ma si è trattato di episodi, alcuni luminosissimi. Tutti rapidamente conclusi. Non dell’espressione di una cultura dalla radici profonde. Questa incapacità del sistema produttivo italiano di avere un rapporto critico ma stabile con la scienza spiega in buona parte la «crisi perenne» del paese. Il suo costante aggirarsi intorno al baratro. E, di tanto in tanto, caderci dentro.

Corriere della Sera 14.4.11
Cultura Il tramonto della Verità approda nei Paesi arabi
Nel Maghreb si rivivono le crisi del Novecento europeo
di Emanuele Severino


Quanto sta avvenendo nel Nord Africa è un tipico fenomeno del nostro tempo, dove nei modi più diversi ma tutti convergenti l’Occidente volta le spalle alla propria plurimillenaria tradizione. Il mondo arabo, infatti, dopo aver riattivato nel Medioevo la civiltà europea, ricollegandola alla grande cultura greca, di tale civiltà ha poi sentito e subìto la presenza, con un’intensità tanto maggiore quanto più ampia e profonda, rispetto ai popoli dell’Africa subsahariana, è stata la dimensione che il mondo arabo ha avuto in comune con l’Europa (si pensi anche al retaggio comune delle scritture veterotestamentarie). Intendo dire che quanto sta avvenendo nel Nord Africa è il modo specifico in cui anche quel mondo incomincia a voltare le spalle alla tradizione dell’Occidente. Tra i più visibili dei fenomeni tipici del nostro tempo, le due guerre mondiali. Nella prima le democrazie distruggono l’assolutismo degli Imperi centrali e di quello ottomano, contribuendo a determinare le condizioni che conducono alla fine dell’assolutismo zarista. Nella seconda le democrazie distruggono l’assolutismo nazionalsocialista e fascista. Ma anche la fine dell’assolutismo sovietico appartiene a quest’ordine di fenomeni. Gli appartiene anche, in Europa e sia pure in minor misura in America, la crisi del cristianesimo e dei costumi che ad esso si ispirano. Il cristianesimo intende infatti essere l’ordinamento assoluto che rende possibile la salvezza dell’uomo. A quell’ordine di fenomeni appartiene anche la crisi del capitalismo: non tanto quella relativa alle difficoltà in cui oggi si trova, quanto piuttosto quella per cui è sempre meno inteso come una «legge naturale eterna» — cioè come l’ordinamento assoluto che rende possibile la salvezza economica — e sempre più come un «esperimento» storico dai molti meriti, ma dall’esito incerto, anche per la devastazione della terra a cui esso conduce. A quell’ordine di fenomeni — all’abbandono cioè della tradizione dell’Occidente — appartengono anche grandi eventi degli ultimi due secoli della storia europea, che sebbene meno visibili sono tuttavia altrettanto e anzi in certi casi ancora più decisivi. Tra l’Otto e il Novecento l’arte europea si rifiuta di doversi adeguare al modello costituito dal bello assoluto e imposto dalla cultura tradizionale: si propone come libera invenzione di un mondo nuovo, nascono l’arte «astratta» e la musica atonale (cioè essa stessa «astratta» , separata dall’ordinamento sonoro della tradizione). Ma in modo eminente è la filosofia a rompere col passato, e innanzitutto col proprio, mostrando l’impossibilità di quell’Ordinamento degli ordinamenti che è l’esistenza stessa di una Verità assoluta e di un Essere assoluto che intenda valere come Principio del mondo. «Dio è morto» , e alla radice è morta quella Verità assoluta che presume di potersi mantenere stabile e inalterabile al di sopra della storia, del tempo, del divenire. Di questo atteggiamento del pensiero filosofico risentono le scienze naturali e logico-matematiche, che nei modi loro propri non si presentano più come Verità assolute, ma come ipotesi o leggi statistico-probabilistiche di cui è sempre possibile la falsificazione. Anche le scienze giuridiche abbandonano il concetto di «diritto naturale» , nella misura in cui esso vuol essere un diritto assoluto, assolutamente vero e presente nella coscienza di ogni uomo, e portano in primo piano il concetto di «diritto positivo» , posto dall’uomo in determinate circostanze storiche. L’abbattimento della tradizione dell’Occidente è un turbine gigantesco a forma di piramide, i cui strati diventano sempre più visibili man mano che si scende verso la base e sempre meno visibili — ma anche sempre più decisivi — man mano che si sale verso il vertice della piramide. Che è costituito dal pensiero filosofico e che, anche se per lo più si tiene nascosto, guida il turbine. Sia pure guardando, con perspicacia diversa, verso l’alto, i popoli dell’Occidente abitano la base della piramide. Anche i popoli del Nord Africa. Della filosofia non sanno ovviamente nulla, ma in qualche modo ne intravvedono l’ombra che essa lascia sulle cose e sugli eventi del mondo. Per completare la metafora della piramide, si aggiunga che la base soffia sulle convinzioni, i costumi, le opere, le istituzioni della tradizione occidentale, e che anche se non lo si percepisce, la potenza travolgente del soffio proviene dal vertice. Si dice che soprattutto i giovani del Nord Africa guardano la televisione e si servono di Internet e dei cellulari. Ma ciò che più conta rilevare è il loro intuire che il mondo sta cambiando in un senso del tutto particolare e non solo molto più profondamente e rapidamente di quanto non si sospettasse: intuiscono che nei mezzi di comunicazione tutte le prospettive sono poste sullo stesso piano, che quindi non esiste una prospettiva capace di prevalere e di dominare le altre, che permanga quando esse svaniscono e abbia pertanto quell’assolutezza di cui i popoli possono intuire il senso anche se ignorano la parola. Ognuno dei messaggi mass-mediatici assicura di comunicare i contenuti più importanti; ma, proprio perché sono tutti ad assicurarlo, il livellamento dei contenuti è inevitabile. Per chi abita la base del turbine a piramide che investe il passato, la preminenza dei valori tradizionali illanguidisce proprio perché essi appaiono sui teleschermi. Con ciò non si vuol dire che la tradizione dell’Occidente non possa essere Verità assoluta per il fatto che i messaggi mass-mediatici operano quel livellamento, ma che il modo in cui il tramonto degli assoluti è messo in luce dal pensiero filosofico del nostro tempo si fa in qualche misura sentire anche da chi, ascoltando quanto stiamo dicendo, non sarebbe in grado di capirlo. E, certo, quel modo di tramontare si è fatto sentire più chiaramente nella distruzione degli assolutismi e totalitarismi politico-economici operata nell’Europa del XX secolo. Rilievi, questi, che mettono in luce come le guerre e le rivoluzioni del Novecento europeo tendano ad avere un carattere del tutto diverso da quelle dei secoli precedenti, che per quanto profonde e anticipatrici, rovesciavano sì vecchi ordinamenti assoluti, ma lasciando che i nuovi conservassero il carattere dell’assolutezza. Per questo è più difficile — ma non tanto — che le rivoluzioni del Nord Africa, che in qualche modo possono dirsi europee, abolendo regimi totalitari abbiano a sfociare in nuove forme di assolutismo, quale l’integralismo islamico. — all'interno del turbine a piramide, il rapporto della cultura non filosofica con il pensiero filosofico degli ultimi due secoli è ovviamente di gran lunga più diretto di quello che può essere instaurato stando alla base o negli strati più bassi della piramide. Tale cultura ne abita gli strati intermedi. Ma quindi è ancora dall’esterno che essa può sentire la voce di quel pensiero. Una critica scientifica, religiosa, artistica, ecc. degli assoluti che sono affermati innanzitutto dalla tradizione filosofica può mostrare che quest’ultima afferma contenuti diversi e opposti rispetto a quelli che tale critica intende difendere, ma non per questo essa può concludere che quei contenuti debbano venire abbandonati. Ad esempio sarebbe una grossa ingenuità ritenere che la filosofia di Aristotele o di Hegel debba esser lasciata da parte perché è comparsa la fisica moderna o perché sono state scoperte le geometrie non euclidee e la fisica quantistica. Solo una critica filosofica della tradizione filosofica e delle dimensioni in cui l’assoluto filosofico si è rispecchiato degradando fino alla base della piramide, può essere irrefutabile. Quanto si è detto sin qui è infatti soltanto la descrizione di un fatto, sia pure di enormi proporzioni: il fatto in cui la piramide consiste. Ma non si è detto ancora nulla della irrefutabilità, ossia della verità di tale fatto: non si è ancora detto nulla di quell’altra forma di verità che è la verità della distruzione della Verità della tradizione occidentale — ossia della Verità che, si è detto, pretende porsi, inalterabile e immutabile, al di sopra del tempo e della storia. Questo giro di concetti è decisivo. Proviamo a chiarirlo per quel che qui è possibile. Le democrazie parlamentari hanno distrutto gli Stati totalitari del Novecento, che, appunto, si presentano come la forma terrena della Verità e del Dio assoluti. Questo, dal punto di vista delle scienze storiche, si può considerare un fatto. Ma da ciò non si può concludere che le democrazie siano verità e i totalitarismi errore! Concludere così significa confondere i criteri della lotta politica con quelli del pensiero critico filosofico — che invece in proposito può dire ben di più (quando lo si sappia capire). Di- ce infatti che, da un lato, lo Stato assoluto, controllando l’intera vita dei sudditi, predetermina il loro futuro, lo occupa interamente e gli impone la propria legislazione inviolabile; e che, dall’altro lato, lo Stato assoluto, ma anche i suoi sudditi, sono tuttavia più o meno consapevolmente convinti che il futuro esiste ed è la dimensione di tutto ciò che ancora non esiste, non è predeterminato, non è già occupato da alcuna inviolabile legislazione. Lo Stato assoluto è dunque una gigantesca contraddizione, in cui l’esistenza del futuro è, insieme, affermata e negata. E la contraddizione non solo è uno stato di essenziale instabilità, prima o poi destinata a crollare, ma è anche la forma essenziale dell’errore. Solo se si sa scorgere in modo appropriato la contraddizione da cui è avvolta una certa situazione storica è possibile prevedere il crollo di quest’ultima, senza che la previsione decada al rango di divinazione o di profezia (si può mostrare che il marxismo scorge in modo inappropriato la contraddizione dell’assolutismo capitalistico e imperialistico). La distruzione dello Stato totalitario (e della sua presunta Verità) da parte della democrazia ha dunque verità solo se la democrazia è consapevole della contraddizione del totalitarismo. Altrimenti (ed è questa la situazione) la democrazia è una forma di violenza che si contrappone a quella totalitaria e che in Occidente ha vinto solo «di fatto» — provvisoriamente, apparentemente—, non «di diritto» . La contraddizione dell’assolutismo politico è presente anche in tutte le altre forme di assolutismo (alle quali si è fatto cenno sopra) della tradizione occidentale. Ma, la loro, rispecchia in forma derivata la contraddizione estrema e grandiosa che avvolge la Verità della tradizione filosofica. Tale Verità intende infatti essere l’Ordinamento di tutti gli ordinamenti. Tutto deve esistere conformemente alla Verità assoluta: essa non è soltanto la legge che domina il futuro dei sudditi dello Stato assoluto, ma è la Legge che predetermina e dunque occupa e domina (oltre al presente e al passato) il futuro di tutte le cose, lo riempie completamente con sé stessa; e quindi lo vanifica nel modo più radicale, perché, così riempito, il futuro non è più futuro. Ma, insieme, la Verità della tradizione occidentale è il riconoscimento dell’esistenza del tempo e quindi del futuro: è la fede più incrollabile e profonda in tale esistenza: intende essere appunto la Legge del tempo, sopra il quale pone la dominazione del Dio esso stesso eterno e assoluto. La Verità assoluta è cioè fede intransigente nell’esistenza e, insieme, nell’inesistenza del tempo e della storia. Dunque è contraddizione estrema. L’essenza per lo più nascosta della filosofia del nostro tempo è il vertice del turbine che spinge al tramonto la tradizione occidentale. Nel vertice quella estrema contraddizione viene portata in piena luce. Ma, anche, è il vertice a cui non riesce a sollevarsi nemmeno la maggior parte della stessa filosofia contemporanea, che ripete sì il proclama della morte della Verità e di Dio, ma che solo raramente sa mostrare il fondamento senza di cui il proclama è soltanto fede, dogma, retorica. D’altra parte, se si riesce a scorgere in modo appropriato che la Verità assoluta della tradizione è contraddizione estrema e dunque estrema instabilità, si è in grado di affermare che tale Verità è destinata al tramonto. Questa— all’interno della cultura dell’Occidente, che ormai è la cultura del Pianeta — è la previsione fondamentale con cui ogni altra forma di previsione deve fare i conti (e alla cui chiarificazione lavoro da quasi mezzo secolo). Ma fino a che tale previsione rimane invisibile, restando lassù, al vertice del turbine, la potenza con cui essa guida l’intero turbine resta indebolita. Ne è un segno lo stupore, l’irritazione, se non la commiserazione, che anche i lettori possono provare leggendo qui che alla filosofia compete una funzione così decisiva nella storia del mondo. Gli strati della piramide sono immagini del vertice, e quindi ne sono l’alterazione, non ne lasciano vedere la potenza, e sempre meno quanto più si scende verso la base: incapaci di vedere e far propria la potenza del proprio vertice, tendono a somigliare a un esercito che vada al fronte portando con sé, invece delle proprie armi, le loro fotografie. In questo senso il vertice del turbine è un sottosuolo. Appunto per questo i grandi protagonisti della tradizione occidentale non si sentono ancora sconfitti: teocrazia, Stato assoluto ed «etico» , paleocapitalismo, democrazia (intesa sia come unione di libertà e Verità, sia come democrazia procedurale fondata tuttavia sulla metafisica dell’individuo), e anche comunismo marxista, continuano a rivendicare l’insopprimibilità dei loro valori e a sentirsi essi in diritto di guidare il mondo: dinanzi a loro si presenta la forma debole del turbine, mentre la voce della potenza del vertice — cioè l’essenza del sottosuolo del pensiero del nostro tempo, costituita dai pochi pensatori essenziali— rimane per lo più soverchiata dalle voci di quella debolezza. Anche per questo, nonostante la differenza radicale tra le rivoluzioni del passato e quelle del presente, non solo i popoli del Nord Africa, ma anche quelli dell’intero Occidente sono soltanto all’inizio del processo che è destinato a condurli all’abbandono della loro tradizione.

Corriere della Sera 14.4.11
Così Sofocle contestò la maggioranza iniqua
Quando la conta dei voti sancisce un abuso
di Luciano Canfora


Può sembrare semplificatoria l’osservazione, spesso ripetuta, secondo cui «quando parliamo dei Greci, allo stesso tempo parliamo dell’oggi» . Non è retorica. Poche epoche del passato si presentano a noi con una tale maturità di pensiero (filosofico, etico, giudirico, politico), con una tale avanzatissima elaborazione stilistica e tecnica dell’oratoria pubblica, per non parlare di altri aspetti sconcertanti quali la perfezione dell’esametro omerico. Al centro dell’attività artistica destinata alle masse, praticata ad Atene con il sostegno dello Stato, c’è il teatro. Ed è lì che il pubblico vedeva — attraverso il filtro delle trame relative a figure più o meno mitiche — scontrarsi idee, concezioni della vita, della morte, del destino dell’uomo, del vivere sociale, della politica. Davide Susanetti ha appena pubblicato un volume sui sette drammi superstiti della vastissima produzione drammaturgica di Sofocle, il «beniamino» (si usa dire) del pubblico ateniese. (E per «pubblico» , non dimentichiamolo, bisogna intendere migliaia e migliaia di persone, più numerose spesso di quello dell’assemblea popolare). Il titolo può sembrare troppo duro ma è, in fondo, appropriato: Catastrofi politiche (Carocci, pp. 236, e 18). Qui «politicità» è intesa nel senso più ampio, come è chiaro dal sottotitolo (Sofocle e la tragedia del vivere insieme). E del resto in senso ampio va intesa la stessa parola greca politeia, che, soprattutto nel V secolo a. C., indicava non soltanto il «sistema politico» , ma anche lo stile della conduzione politica della città: non soltanto, per dirla coi giuristi, la costituzione scritta e gli ordinamenti, ma anche la «costituzione materiale» . Del mutamento che convive con la tendenziale fissità degli ordinamenti si occupa un altro libro appena pubblicato, dovuto ad un nostro notevole storico, Giorgio Camassa: Scrittura e mutamento delle leggi nel mondo antico (L’Erma di Bretschneider, pp. 202, e 80). Da storico formatosi— tra l’altro— alla scuola di Giovanni Pugliese Carratelli, Camassa affronta non solo il mondo greco e romano, ma anche quello «orientale» , dalla Mesopotamia all’Israele biblico. Ma certamente il cuore dell’autore batte soprattutto in Grecia. Ed è importante l’attenzione che egli ha dedicato, nel finale, alla riflessione teorica antica sul «mutamento delle leggi» , che è quanto dire il modo in cui la costituzione materiale, consolidandosi, diviene col tempo, a sua volta, nuova costituzione formale o codificata. È quel processo descritto in modo geniale da Platone, nelle Leggi, là dove parla del «mutamento» come del «legame» (desmós) tra la costituzione esistente e quella che si viene formando, per l’appunto nel mutamento. Il tema è peraltro strettamente legato alla distinzione, vivissima nella riflessione filosofica-giuridica greca, tra legge scritta e legge non scritta la cui violazione — dice Pericle nell’ «epitafio» — reca «vergogna universalmente riconosciuta» . Una formula precorritrice, che storicamente ha condotto all’intuizione di un diritto «naturale» : fondamento etico profondo dell’agire morale, svincolato dalle singole confessioni o precettistiche religiose. Questo è un tema, come ben si sa, particolarmente sofocleo, legato alla figura e alla «disobbedienza civile» di Antigone nell’omonima tragedia. Susanetti studia, nel suo volume, questa tragedia soprattutto dal punto di vista del potere («Rovine e miraggi della sovranità» è il titolo di questo capitolo), e propone una lettura innovativa della vicenda: «Anche la norma posta da Creonte (il «tiranno» , l’antagonista di Antigone) è orale tanto quanto le leggi degli dei. Il richiamo alle norme che vivono da sempre è semmai una mossa retorica di delegittimazione di un Creonte che si è appena insediato al governo» . Ma è forse sull’Aiace che l’autore porta il miglior contributo. Egli dedica attenzione soprattutto alla parte finale della tragedia, quella in cui si svolge un serrato scontro dialettico tra Teucro, fratello di Aiace, che pretende sepoltura per l’eroe suicida, e la coppia Agamennone-Menelao, che tale sepoltura intende impedire in ragione della colpa (il massacro delle greggi) di cui Aiace si è macchiato. Il paragrafo s’intitola «Voti truccati e principio di maggioranza» . Infatti al centro della serrata disputa che Sofocle mette in scena viene appunto affrontata la questione delle questioni: la fondatezza o meno del principio di maggioranza. Aiace era stato soccombente: una «maggioranza» aveva decretato che le armi di Achille toccassero a Odisseo, non ad Aiace. Contro questo verdetto — nella sostanza iniquo ma nella forma ineccepibile se si assume il principio di maggioranza come risolutivo e irresistibile— Aiace è insorto. Ma la dea sua persecutrice, Atena, lo ha reso folle ed egli ha infierito nottetempo sugli armenti, non sugli Achei addormentati nelle loro tende. «Chi è stato sconfitto in base al criterio di maggioranza non ha diritto ad alcuna rivendicazione. Deve sottomettersi» . Questo pretendono due figure «negative» del dramma, gli Atridi. E la risoluzione del dramma viene dalla lungimirante intelligenza di Odisseo, che comunque favorisce la sepoltura del rivale suicida, meritandosi parole di dissenso da parte degli Atridi. Sofocle, che peraltro, da probulo, aveva agevolato la nascita dell’oligarchia nell’anno 411, ha posto sotto gli occhi del pubblico l’angoscioso problema in termini lucidi e dilemmatici. La «maggioranza» non ha necessariamente ragione. Anche se costituisce (o dovrebbe costituire) uno strumento del convivere civile, il principio di maggioranza — come bene spiegò Edoardo Ruffini in un fondamentale libretto ristampato da Adelphi negli anni Settanta — non ha alcun fondamento né logico né razionale.

Repubblica Firenze 14.4.11
S. Agostino? Contemporaneo Cacciari torna in Santo Spirito
di Maria Cristina Carratù


Massimo Cacciari è di casa, in Santo Spirito, la sua amicizia con il padre agostiniano Gino Ciolini, scomparso nel 2005, lo ha portato tante volte nel luogo da entrambi considerato una vera summa, architettonica e non solo, dell´Umanesimo. Dopo i primi incontri ai Convegni di S.Spirito, organizzati da Ciolini a ripresa dei convegni quattrocenteschi ospitati nella stessa sala capitolare del Convento, quella che poteva restare reciproca stima fra intellettuali era ben presto diventata una comune avventura, umana, filosofica, spirituale, capace di andare ben oltre gli steccati che uno sguardo banale avrebbe tracciato fra i due, uno teologo, l´altro filosofo non credente. Oggi (ore 18, sala del Capitolo) Cacciari sarà di nuovo in S.Spirito per parlare di «Agostino, pensatore contemporaneo», tema centrale della riflessione sua e di padre Ciolini. Contemporaneo in che senso, il vescovo di Ippona, milleseicento anni dopo? Innanzitutto, spiega il filosofo, «per le forme del tutto libere del suo pensiero, estraneo alla pesantezza sistematica che sarà il valore della grande speculazione scolastica successiva». Inoltre, per la sua scrittura, che risente dei grandi autori della classicità latina, «ma è piena di esperienza vissuta».
DeI riverberi «dei drammi personali» dell´ex giovane adepto del manicheismo, sedotto dai piaceri della carne, convertito al cristianesimo, portatore di una fede inquieta e interrogante, «ma anche dei mutamenti epocali» di cui fu testimone. «Un approccio esistenziale» che rivive anche nelle sue opere più ponderose e sistematiche, come il De Civitate Dei, e, dice Cacciari, simile solo «a quello di Dante». Ma poi, altra questione che da qui passerà al pensiero contemporaneo, c´è il tema gnoseologico di fondo: da dove si pensa? si chiede Agostino, prendendo le distanze dallo «scetticismo astratto e senza fondamento» dei primordi, e «arrivando a convincersi che pensare è impossibile senza pre-supporre la Verità di cui si va in cerca». Non, però, per «volgare asserzione dogmatica»: nel porre l´inizio, infatti, egli postula anche «l´avvio dell´itinerario che dovrà inverarlo», facendone così «punto di partenza». Ancora: la visione della storia, «come luogo di conflitto permanente fra due grandi principi contrapposti, insistenti nella stessa Città umana, e continuo infuturarsi, il cui fine non è nelle nostre mani, né in un ritorno alle origini», è, dice Cacciari, «la visione da cui nasciamo noi». Quanto poi ai temi teologici, ecco «il discorso scandaloso sulla predestinazione, la natura vulnerata dal peccato, che dominerà la Riforma, arriverà al male radicale di Kant, al Barth dell´Epistola ai Romani», mentre è nell´Agostino indagatore del Dio trinitario «che affonda le radici la dialettica hegeliana». E una cosa è certa: un cristianesimo che «non prenda più sul serio» i temi sollevati dal grande Dottore, a cominciare dal paradosso del Dio Uno e Trino, non può dirsi cristianesimo». Così come a Agostino la Chiesa dovrebbe ispirarsi per promuovere «un´indagine consapevole» sul volto autentico della fede cristiana, di ieri come di oggi: fede che, «pur sapendosi dono e grazia, non rinuncia mai ad essere intelligente, esigente, indagatrice di se stessa. Mai impaurita, ma bisognosa della interrogazione razionale».