lunedì 18 aprile 2011

l’Unità 18.4.11
Moderazione, è finito il tempo
di Silvia Ballestra


Con buona pace di coloro che insistono sulla sterilità dell’antiberlusconismo, che chiedono di capire le “ragioni” degli avversari, questo fine settimana ha risolto la questione. Il padrone ha parlato chiaro: no alla scuola pubblica che sforna cittadini invece che clienti. No alla magistratura che lega le mani al potere politico anche a fronte di reati. La rivendicazione di una legislazione ad personam. In più, quegli “sportelli del cittadino” che dovrebbero legare a un partito (il suo) questioni di vita e lavoro sotto forma di “assistenza agli italiani”, una specie di partito “sovietico” che controlla l’esistenza di tutti. Tirate le somme del berlusconismo così ben descritto da Berlusconi, la questione è risolta: il sapore vagamente golpista dell’uomo e la sua visione del mondo sono esattamente tutto, ma proprio tutto, il contrario di quello che un cittadino democratico, avvertito, pluralista, garantista e consapevole vuole e desidera dal suo paese. Oggi, nel momento in cui un potere dello Stato definisce “brigatista” un altro potere dello Stato (e non parlo dei noti vergognosi manifesti, ma delle esternazioni di Berlusconi, altrettanto vergognose), per la mediazione non c’è più posto. Ogni posizione “moderata” e dialogante è stata espulsa dal dibattito: o si vince o si perde. È bene saperlo, come è bene sapere che rincorrendo una mitologica “moderazione” di Berlusconi si è perso tempo prezioso. Può far paura un paese dove esiste una forte contrapposizione, ma ci sono tempi in cui la contrapposizione è necessaria e doverosa. E i tempi sono questi, Berlusconi ce l’ha detto chiaro e tondo. Per una volta, crediamogli.

l’Unità 18.4.11
Apriamo le finestre
di Giovanni Maria Bellu


Terrorista istituzionale? Analfabeta    civile? No, basta. Il vocabolario italiano, nonostante la sua ricchezza, non ha un numero di aggettivi adeguato a definire Silvio Berlusconi negli spot quotidiani della sua escalation eversiva. Tra l'altro alcuni di questi aggettivi, i più appropriati, potrebbero configurare reati che non val la pena di commettere. Non solo perché noi giornalisti non beneficiamo di leggi ad personam, ma soprattutto perché non vogliamo correre il rischio di ispirare ad Angelo Panebianco l'ennesimo sermone sulle «ragioni degli altri» (vedi il Corriere della sera di ieri) e sulla «inimicizia tra le fazioni» come fondamentale «problema italiano». Anche se saremmo curiosi di vedere come l'ecumenico editorialista reagirebbe se il leader di una parte a lui avversa (anche Panebianco, almeno ogni tanto, starà pure da qualche parte!) lo definisse come Silvio Berlusconi ha definito gli elettori del centrosinistra.
Il premier è nel pieno di una disperata campagna elettorale. Ieri ha trasformato Milano nell'ultima trincea. La verità è che se Lega e Pdl perdessero il capoluogo lombardo il governo sarebbe finito. Così l'astuto tenta di trasferire questa condizione sul centrosinistra e di rendere “epocale” una vittoria eventuale che, fino a pochi mesi fa, era data quasi per certa. Per far dimenticare che di “epocale” a Milano ci sarebbe solo la sua sconfitta.
Il timore di perdere le elezioni gli ha fatto anche perdere i residui freni inibitori. Ha smesso di nascondere i suoi vizi: li mette in piazza. Da qualche tempo (con l’evidente scopo di banalizzare l'accusa di prostituzione minorile) ogni volta che può scherza sul bunga bunga. Ieri ha aggiunto al repertorio le sue «due famiglie» (ma la fidanzata che fine ha fatto?) come dimostrazione del suo amore per la famiglia. E non è affatto escluso che prossimamente passi alla difesa della falsa testimonianza come suprema manifestazione di libertà di coscienza e della corruzione come strumento per la redistribuzione del reddito. D'altra parte ha già definito “eroe” un killer di mafia.
Siamo davanti a una situazione patologica e non a un ordinario problema politico. Il Paese è guidato da un pericoloso irresponsabile e corre il rischio di dover sopportare questa situazione ancora per un bel po' di tempo. Così oggi abbiamo pensato di aprire le finestre. E continueremo a farlo tutte le volte che sarà possibile. Apriamo tutti le finestre per ricordarci che siamo un grande Paese, popolato da milioni di persone che lavorano in modo onesto e che chiedono solo di poter continuare a farlo. Abbiamo superato momenti ben peggiori di questo. Abbiamo avuto esperienza di ben più tragici pagliacci. E ce ne siamo liberati. Ci libereremo (sì, con gli strumenti della democrazia) anche di Silvio Berlusconi e della sua squallida corte.
Oreste Pivetta ha intervistato Carlo Smuraglia, classe 1923, da una settimana presidente dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, la gloriosa Anpi che, dal 2006, si è aperta ai giovani e raccoglie tra loro adesioni crescenti. Smuraglia ci dice poche cose chiare: dobbiamo informare, dobbiamo spiegare bene le cose. E siccome i mezzi dell'avversario sono soverchianti, dobbiamo impegnarci tutti, uno per uno. Con gli strumenti che la Costituzione ci dà, quindi anche con la mobilitazione nelle piazze, come di recente hanno fatto le donne italiane. La situazione in cui il Paese si trova è molto complicata, ma per chi ne ha coscienza richiama doveri semplici e antichi: ognuno di noi, nel suo ruolo, agisca da cittadino democratico.

l’Unità 18.4.11
Intervista a Carlo Smuraglia
«Cari giovani reagite, mobilitatevi. Non è il paese che sognavamo»
Il neo presidente dell’Anpi «Bisogna spiegare, e smascherare le bugie Una manifestazione come quella delle donne è la prova che si può cambiare
di Oreste Pivetta


Dagli insulti ai magistrati, dalle offese ripetute alla istituzioni, dall’assalto alla Costituzione all’occupazione della televisione pubblica, ai nuovi attacchi nei confronti della scuola pubblica: è il quadro di un paese, che vive alcuni tra i suoi giorni peggiori, che deve assistere a una messinscena, dal copione ormai risaputo, ripetuto, noioso, che frastorna però, che confonde le idee, che nel frastuono continuo maschera le minacce alla democrazia. Carlo Smuraglia cita Carlo Azeglio Ciampi: non è questo il paese che sognavamo. Non è il paese che volevano quanti si sono battuti contro il fascismo e contro il nazismo, non è il paese che attraverso la sua carta costituzionale si garantiva un futuro di libertà, lasciandosi alle spalle le macerie dell’oppressione.
Carlo Smuraglia, una vita di studio e di politica, è diventato presidente dell’Anpi, a una settimana da un altro 25 Aprile, che torna a dirci quanto attuali e quanto vivi siano quei valori e quei principi per i quali si combattè ormai più di un sessantennio fa.
Professor Smuraglia, vorrei cominciare dall’altro ieri quando a Milano sono apparsi quei manifesti infami: «Via le br dalle procure». Se lo sarebbe mai aspettato?
«Non me lo sarei aspettato. Forse ce lo saremmo dovuti aspettare. Si è oltrepassato ogni limite, ma c’erano i segni. Non dimentichiamo certe manifestazioni davanti al tribunale di Milano e certi giudizi del nostro presidente del Consiglio, il quale semplicemente e volgarmente insulta: non si dica che esercita un inalienabile diritto di critica. Leggo che a proposito di quei manifesti è stata aperta una inchiesta. Quei manifesti, che chiamano in ballo il brigatismo per reagire a processi del tutto normali, comuni, niente di politico, sono istigazione all’odio, all’odio nei confronti delle istituzioni, quei manifesti sono anche materia da codice penale...».
Nel senso che quei manifesti valgono un reato punibile dal codice penale? «Nel codice penale molte voci sono state depennate in nome della libertà di opinione. In questo caso si potrebbe parlare di vilipendio alle istituzioni, punibile sì, ma con una multa, una multa che lascia ovviamente del tutto indifferente chi firma quelle iniziative.
Nulla di più. Comunque, evidente è che la risposta debba essere politica e debba essere una risposta forte e che la risposta non possa essere solo del presidente della Repubblica, che tante volte ha richiamato i protagonisti della nostra contesa politica a moderare i toni, a rispettare le regole, invitando al dialogo. Tante volte e sempre, purtroppo, inascoltato. La risposta deve essere forte e di tutti, di quanti ancora credono nella democrazia, una risposta all’altezza perché il problema non sono solo quei manifesti, il problema sono le azioni, sono le parole, sono i comportamenti che hanno istigato qualcuno a quelle scritte. Non ci sono solo gli insulti ai magistrati e alla magistratura. Ci sono gli attacchi alla scuola e la commissione d’inchiesta sui libri di testo. C’è l’intenzione di controllare l’informazione (compresa la televisione pubblica). Ci sono tanti altri episodi che danno evidenza al degrado culturale e politico. Basterebbe pensare alle divisioni che si sono manifestate quando si è trattato di decidere come celebrare l’Unità d’Italia. Basterebbe ricordare la proposta di legge presentata da alcuni parlamentari per abolire la norma transitoria della Costituzione che vieta la ricostituzione del partito fascista: non credo che si possa temere in questo momento la ricostituzione del partito fascista, ma evidentemente c’è chi pensa al futuro e crede invece possibile un ritorno al fascismo, magari in chiave populista».
Il pericolo, allora, c’è?
«Credo che l’Anpi debba aiutarci a tenere desta la nostra attenzione, a tenere desta la nostra coscienza critica, richiamandoci alla storia e allo spirito della nostra Costituzione, impegnandoci tutti perché la Costituzione venga attuata, sapendo che se si affonda la Costituzione si affonda il tessuto democratico di questo paese. Insultare le istituzioni significare scegliere lo sbandamento delle coscienze e il deterioramento della vita collettiva, significa invitare il cittadino a infischiarsene delle istituzioni e quindi delle regole». Come reagire? «Intanto dobbiamo reagire alla cattiva informazione. Gustavo Zagrebelski faceva opportunamente notare che le falsità ripetute diventano il cancro della società. Dobbiamo smascherare le falsità e se non possiamo contare sempre sui giornali o sulla televisione (quella pubblica peraltro) dobbiamo pensarci noi, noi dell’Anpi, noi delle libere associazioni democratiche, noi cittadini comuni. Informare significa ad esempio spiegare e far capire che la gravità del caso Ruby non sta solo nelle oscenità che possiamo immaginare ma soprattutto nella telefonata di un capo del governo in questura: così salta davvero il rapporto corretto tra le istituzioni, così si inquina... Informare significa contribuire a vincere l’indifferenza dei tanti, che non stanno con Berlusconi, ma non si sentono impegnati, perché sono sfiduciati, perché sono rassegnati. La nostra deve esser una battaglia contro la rassegnazione».
Si può cambiare qualcosa?
«Una manifestazione come quella romana delle donne è la prova che si può cambiare. Ma dobbiamo insistere. Mobilitare le coscienze è il nostro imperativo, mobilitare facendo intendere che cosa nascondono la riforma epocale della giustizia, l’aggressione alla Corte costituzionale, il rifiuto di un uomo di presentarsi ai processi che lo riguardano, che cosa nascondono persino le barzellette del premier, e che cosa significa per noi un parlamento bloccato settimane a discutere di leggi personali, mentre si dovrebbero affrontare temi come la crisi economica, la guerra in Libia, l’arrivo dei migranti sulle nostre coste. Dovremmo far capire che non stiamo vivendo una giornata normale in un paese normale». Vengono in mente quei giorni del 1945...
«Avevo vent’anni e scelsi di combattere contro i nazifascisti. Ero nelle Marche e quando arrivarono gli alleati rientrai nell’esercito, caporal maggiore, ottava arma ta divisione Cremona. Risalimmo la penisola, arrivammo a Ravenna, ad Alfonsine sostenemmo una battaglia terribile. Alfonsine venne rasa al suolo. Passammo e fummo a Padova e poi a Venezia: noi, gli americani, i polacchi, i partigiani di Bulow...».
L’Anpi è anche dei giovani adesso...
«Da quanto, dal congresso del 2006, aprimmo le iscrizioni a quanti non avevano combattuto: prima arrivarono persone di mezza età, poi arrivarono i ragazzi. Per noi si poneva una questione, amara in un certo senso, di ricambio generazionale, per loro, per quei ragazzi, l’Anpi era il luogo di una storia antifascista che doveva continuare... perché crediamo ancora nel paese che sognavamo».

l’Unità 18.4.11
Intervista a Carlo Federico Grosso
«Il premier offende ma il vilipendio scatta solo con l’ok di Alfano»
Il giurista «Berlusconi denuncia continuamente il potere giudiziario. È gravissimo. Ma per il codice l’accusa scatta solo se lo vuole il Guardasigilli»
di Claudia Fusani


Professor Grosso, ci si interroga sulle continue esternazioni del Presidente del Consiglio contro la magistratura. Un potere dello stato, l’esecutivo, contro un altro potere, quello giudiziario definito a più riprese dal premier “eversivo”. Tutto questo senza conseguenze?
«Ciò che sta accadendo è assolutamente intollerabile. Da un punto di vista giuridico però la questione è complessa. E dopo una consultazione comparata dei codici e della nostra Carta costituzionale, sono arrivato alla conclusione che, nonostante la gravità dei comportamenti, non esiste uno strumento penale efficace per far desistere il Presidente del Consiglio dal dire quello che sta dicendo».
Berlusconi accusa quotidianamente la magistratura di compiere attività «eversiva» contro di lui. Ripete che «vogliono farlo fuori con i processi».
«Se crede che la sue accuse abbiano un fondo di verità abbia il coraggio di denunciare nelle sedi opportune, che non sono i comizi elettorali, indicando situazioni, particolari e persone». Se invece sono campate in aria.... «Allora queste ripetute esternazioni vanno inquadrate in un contesto di delegittimazione sistematica e continua di un potere dello stato contro un altro potere dello stato. Politicamente e giuridicamente questo è molto grave».
Cosa è possibile fare?
«Ho consultato i codici alla ricerca di strumenti adeguati. Ma non ne ho trovati. Prendiamo l’articolo 283 del codice penale che riguarda gli attentati agli organi dello Stato. E’ stato modificato nel 2006. Prima recitava: “Chiunque commette un fatto diretto a mutare la costituzione dello Stato, o la forma del Governo, con mezzi non consentiti dall'ordinamento costituzionale dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni”. La modifica ha inserito “con atti violenti” e ha abbassato la pena a cinque anni”».
La violenza delle parole non è assimilabile ad atti violenti? «Direi di no». Perchè fu modificato?
«Su imput leghista. In quegli anni il Carroccio aveva guai giudiziari per l’articolo 283.... Più in generale si può dire che nel capitolo del codice dedicato ai delitti contro la persnalità dello stato, non mi pare ci possa essere nulla di riferibile alla situazione attuale. Lo dico meglio: la delegittimazione per quanto sistematica ma sempre a parole purtroppo non è sufficiente per far scattare un’incriminazione di questo genere. La dico ancora meglio: lo Stato ha scaricato la pistola».
Roberto Lassini, l’ideatore dei manifesti “Fuori le Br dalle procure”, è stato indagato per vilipendio. «Certo, l’articolo 290, ci stavo arrivando, vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e dell’ordine giudiziario».
Reato d’opinione...
«Che punisce con la multa faccio notare la mula da 1000 a 5000 euro chiunque pubblicamente vilipende la Repubblica, le assemblee legislative o il Governo o la Corte costituzionale o l’ordine giudiziario. In ogni caso per procedere è necessaria la richiesta di autorizzazione del ministro di Grazia e Giustizia».
Codice penale spuntato?
«Resterebbe forse spazio per la diffamazione. Comunque anche qui poca cosa. Più in generale quando si verificano situazioni di contrasto anche fortissime tra poteri dello stato il codice penale è strumento improprio». E la Carta costituzionale?
«Ci sono i poteri che la Carta riconosce al Presidente della Repubblica. Egli ha il potere di vigilare sul buon funzionamento degli organi costituzionali. La vigilanza si può però specificare solo con strumenti di moral suasion efficaci se i destinatari sono propensi ad ascoltare. Il Presidente può anche inviare i messaggi alla Camere che però non ne sono vincolate».
Anche il Quirinale quindi, pur in un momento così drammatico, ha strumenti spuntati? «Il Presidente oggi è forse l’unico riferimento morale forte di questo paese. L’auspicio è che questa forza morale e il suo indiscutibile prestigio riescano a disinnescare il dramma istituzionale che il Paese sta vivendo».

l’Unità 18.4.11
Allarme Il presidente Anm Palamara: «La delegittimazione quotidiana è pericolosa»
Cascini «Ormai è uno scempio delle istituzioni». Perché i ministri «non dicono nulla?»
Toghe a congresso straordinario contro gli attacchi di Berlusconi
di Claudia Fusani


Per l’Associazione nazionale magistrati ormai è allarme democrazia. Con toni più o meni diretti, il Presidente del sindacato delle toghe Luca Palamara e il segretario Giuseppe Cascini lanciano l’allarme («Il premier sta spingendo il Paese ad avvitarsi in una spirale senza via d’uscita») per la tenuta democratica del paese. Sono giorni durissimi per la magistratura continuamente sotto attacco con toni ogni giorno più duri ed espliciti da eversori e brigatisti sono state declinate tutte le possibili sfumature anche perchè, come ha confidato il premier, «il conflitto con le toghe e il farsi vedere nelle aule di giustizia fa crescere il suo gradimento».
Il presidente Palamara ha l’obbligo di tenere toni allarmati ma bassi. Tenta un’analisi politica della situazione. «L'escalation di attacchi e denigrazioni che subiamo ogni giorno dice è legata alle elezioni amministrative e ai processi giudiziari in corso. E’ chiaro che il presidente del Consiglio sta sfruttando entrambe le cose per trascinare la magistratura su un terreno di contrapposizione che non le appartiene».
Lo sforzo istituzionale di Palamara, però, pare scontentare le correnti di sinistra dell’Anm. E’ quasi certo sai che Md e Movimenti chiederanno un congresso straordinario anticipato proprio per rispondere in modo adeguato agli attacchi. Più esplicito infatti è il segretario dell’Anm, Giuseppe Cascini, rappresentante di Magistratura democratica. Cascini, ieri ospite di “In mezz’ora” di Lucia Annunziata, ha fatto appello ai ministri dell’Interno, della Giustizia
e degli Esteri affinchè blocchino gli attacchi del premier contro i giudici. «L’anomalia più grave ha detto è che si assista a questo spettacolo, a questo scempio delle istituzioni senza che si reagisca». Cascini va al di là delle opposizioni politiche che non possono essere interlocutori del sindacato delle toghe in questa fase così delicata. Si rivolge invece alle isti-
tuzioni, ai ministri della Repubblica con con incarichi di primo piano nella vita del paese e si chiede perchè «chi ha queste responsabilità non si ribella a quello che vede e sente ogni giorno». Oggi l’Anm incontrerà il presidente della Camera Gianfranco Fini. Incontro già in calendario da tempo, dopo il Presidente della Repubblica e dopo il presidente del Senato Renato Schifani. Il sindacato delle toghe è in stato di agitazione da due mesi, da quando è stata presentata la riforma costituzionale della giustizia. Non ha ancora deciso come rispondere. E’ chiaro che a questo punto uno sciopero servirebbe a molto poco.

Repubblica 18.4.11
La maggioranza lontana dalla democrazia
di Stefano Rodotà


Siamo di fronte ad una aggressione continua, manifestazione pericolosa di una ossessione quotidiana di un presidente del Consiglio che, privo da sempre del senso delle istituzioni, affida la propria sopravvivenza alla riduzione d´ogni istituzione ad un cumulo di macerie. La sua furia si nutre di insinuazioni, minacce, aggiunge all´attacco alla magistratura, abituale oggetto polemico, un nuovo affondo contro la scuola pubblica.
In questi giorni la Repubblica italiana sta prendendo congedo dall´Europa e dalla sua stessa Costituzione. Sta così tagliando le proprie radici. Non siamo solo di fronte ad una crisi istituzionale e politica, pur profondissima. Sprofondiamo in un tunnel oscuro, diviene sempre più evidente una "tirannia della maggioranza" ben al di là dei timori manifestati da Alexis de Tocqueville, perché la perversa legge elettorale maggioritaria e la sciagurata deriva verso il bipolarismo hanno separato i "designati" dai cittadini, hanno fatto perdere al Parlamento la sua virtù rappresentativa.
Ha scritto un filosofo liberale, Ronald Dworkin, che «l´istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far rispettare il diritto, dev´esser ancor più sincera».
Questi principi non scritti, ma fondativi della città democratica, sono ormai estranei al modo d´essere dell´attuale maggioranza. E forse la stessa nozione di maggioranza parlamentare ha perduto il suo significato storico, poiché siamo di fronte ad una semplice propaggine del potere di un autocrate, che premia famigli e designa successori, riceve suppliche da chi vuole andare ad occupare qualche posto di governo, dispone delle cariche pubbliche come di un pezzo del suo patrimonio personale.
Compiuta la prima fase della sua alta missione con l´edificazione di un muro a tutela della sua persona, il presidente del Consiglio annuncia ora una inquietante e pericolosa "fase due". Possiamo legittimamente chiamarla "decostituzionalizzazione". Questo è il tratto che unisce le proposte che dovrebbero segnare l´imminente stagione legislativa, nella quale si vuole sfruttare la spinta propulsiva delle radiose giornate del processo breve. Si tratta dell´«epocale» riforma costituzionale della giustizia, del minaccioso ritorno della legge bavaglio sulle intercettazioni, della disciplina ideologica e proibizionista del testamento biologico.
La riforma della giustizia, infatti, vuole in primo luogo rendere disponibile per i voleri della maggioranza l´intero sistema giudiziario. Questo non avviene soltanto attraverso una crescita complessiva del peso della politica in snodi fondamentali. Il punto chiave della riforma è rappresentato dal fatto che materie oggi affidate ad una diretta garanzia costituzionale vengono trasferite alla legislazione ordinaria. Due esempi. Nell´attuale articolo 112 della Costituzione si stabilisce che: «Il pubblico ministero ha l´obbligo di esercitare l´azione penale». La riforma proposta dal Governo aggiunge le parole «secondo i criteri stabiliti dalla legge»: sarà dunque la maggioranza del momento a stabilire in quali casi il pubblico ministero può indagare. Nell´attuale articolo 109 si stabilisce che «l´autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria». La riforma proposta dal Governo prevede che «il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge»: sarà dunque la maggioranza del momento a determinare le informazioni di cui i magistrati potranno disporre. Il mutamento è radicale, la decostituzionalizzazione è compiuta. Ciò che la Costituzione aveva voluto sottrarre alla possibile prepotenza delle maggioranze, per garantire l´autonomia della magistratura, dovrebbe essere assoggettato proprio a questa ipoteca.
Ed è sempre la decostituzionalizzazione a comparire negli altri casi. Sappiamo bene che la stretta sulle intercettazioni colpisce uno dei fondamenti della democrazia, la libertà d´informazione di cui parla l´articolo 21. E la proposta di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (il testamento biologico) è congegnata in modo tale da espropriare ogni persona del diritto fondamentale all´autodeterminazione, riconosciuto dalla Corte costituzionale sulla base degli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione.
Per chiudere definitivamente questa partita, l´obiettivo finale è indicato appunto nell´odiata Corte costituzionale, con la quale il presidente del Consiglio annuncia un definitivo regolamento di conti, probabilmente affidato ad una legge che escluderebbe la possibilità di decidere con il voto della maggioranza dei suoi componenti, sostituito da un quorum particolarmente elevato. Una mostruosità giuridica, sconosciuta a ogni civile sistema giuridico, che produrrebbe l´assurdo effetto di mantenere in vigore leggi che la maggioranza dei giudici costituzionali ha ritenuto illegittime. Il risultato complessivo di tutte queste mosse sarebbero la scomparsa di un effettivo sistema di garanzie, una alterazione degli equilibri costituzionale che ci porterebbe verso un mutamento di regime.
Quest´orizzonte ravvicinato, realistico e ineludibile, è quello al quale si deve guardare per individuare le strategie possibili per opporsi a questa ascesa, che appare a qualcuno non più resistibile con i mezzi ordinari della democrazia. Ma immaginare rovesciamenti del tavolo rischia di distogliere l´attenzione dalla faticosa ricerca di quel che deve essere fatto qui e ora.
Dicevo che la fase due, quella della decostituzionalizzazione, è inquietante, ma pure pericolosa. Il pericolo nasce dal fatto che siamo di fronte a proposte che potrebbero dividere il fronte delle opposizioni. Quando comparve la proposta di riforma costituzionale della giustizia, subito si materializzò il singolare partito dei «sedersialtavolisti». Ma chi mai accetterebbe di sedersi ad un tavolo da gioco insieme ad un baro, al tavolo di un ristorante dove il cuoco è un noto avvelenatore travestito da chef creativo? Mi auguro che la lezione del processo breve alla Camera sia servita a dissuadere gli aperturisti ad ogni costo, convincendo tutti della necessità di mantenere saldo un fronte comune. Allo stesso spirito l´opposizione dovrebbe ispirarsi in tutti gli altri casi, compreso quello del testamento biologico dove qualche cattolico potrebbe essere sedotto dall´ingannevole richiamo a valori non negoziabili.
In questi ultimi mesi Berlusconi ha costruito un conglomerato di cui non possono soltanto essere denunciate le modalità corruttive e i rischi grandi che fa cogliere al paese senza accompagnare questa diagnosi con una strategia politica conseguente – parlamentare, sociale, elettorale. E allora. Riprodurre in tutte le prossime occasioni parlamentari i comportamenti tenuti in occasione del processo breve, sfruttare ogni spazio parlamentare per far discutere le proposte dell´opposizione. Può reggere la maggioranza ad una mobilitazione permanente che coinvolga l´intero Governo? Non chiudersi in Parlamento, troppe cose avvengono nel paese. Costruire, quindi, una solida sponda politica per il crescente numero di cittadini che non si limitano a manifestare nelle piazze reale e virtuali ma, così facendo, costruiscono una concreta agenda politica. Ma, soprattutto, per le opposizioni scocca l´ora obbligata dell´unione, la sola a poter ricostruire le condizioni per una vera dialettica democratica.
Forse solo la saggia parola alle Camere del Presidente della Repubblica può ricordare a tutti che la politica deve essere sempre «costituzionale».

Repubblica 18.4.11
“La grande storia" ricorda il 25 aprile, l’Italia rinata


In occasione dei 150 anni dell´Unità d´Italia, La grande Storia dedica un film-documento a una delle date più importanti: il 25 aprile, il giorno dell´insurrezione e della liberazione dell´Italia del nord dalla violenza e dalla dittatura nazifascista. È 25 aprile, la liberazione! di Nietta La Scala, stasera alle 21.05 su RaiTre. Molti italiani furono posti drammaticamente davanti a una scelta: alcuni misero a rischio la propria vita per riconquistare libertà, dignità e democrazia, altri scelsero di affiancare i soldati nazisti. Nelle immagini scorre il racconto di quei giorni: lo sfondamento della linea Gotica tra Pisa e Rimini, e le insurrezioni di massa nelle città del Nord (da Bologna a Genova, da Milano a Torino), fino all´ingresso dei partigiani e degli alleati nelle città liberate. Immagini di guerra, dolore, morte: come quelle di una delle ultime stragi naziste, il 4 maggio 1945, nel paese friulano di Stramentizzo, una strage ancora più insensata e crudele, a guerra ormai finita.

Corriere della Sera 18.4.11
Il 25 aprile che cade di pasquetta e un calendario civico incerto
di David Bidussa


Quest’anno il 25 aprile cadrà nel giorno di Pasquetta. È prevedibile che la sovrapposizione con la consuetudine del picnic fuori porta renderà evidente una situazione che da tempo è nei fatti. Ovvero: da una parte un potere pubblico, rappresentato dal governo in carica che non ha alcun legame né affettivo né sentimentale con quella scadenza e brillerà per la sua assenza, dall’altra un Paese che nel complesso non si accorgerà nemmeno della coincidenza. In mezzo il manipolo esiguo del popolo resistenziale. Risultato: piazze vuote. Per molti sarà un sollievo; per altri un lutto; altri, infine, diranno che il ciclo segnato dal 25 aprile è finito. In ogni caso l’eclissi del 25 aprile è il venir meno di una data del nostro calendario civico nazionale (già alquanto incerto). Ce la siamo «mangiata» e non l’abbiamo sostituita con qualcos’altro. Non siamo più leggeri, ma più inconsistenti. È anche vero, peraltro, che il 25 aprile era la data di un sistema politico che non esiste più, fatto di partiti che nel frattempo sono tutti scomparsi. Ma questo vorrebbe dire che il 25 aprile era un loro patrimonio. Davvero la memoria della Liberazione era solo dei partiti politici? Nessun gruppo umano esiste senza riti collettivi. Liberarsi del passato non equivale a emanciparsi, ma a «perdersi» . Ovvero a «non darsi futuro» . Non abbiamo molte ricorrenze nazionali. E molte di quelle di nuovo conio, come sostiene Giovanni De Luna (La repubblica del dolore, Feltrinelli), ciascuna dedicata ai lutti di vari gruppi «offesi dalle violenze che hanno subito» , non hanno prodotto condivisione. Quali sono le date ancora «vive» nel nostro calendario e che ci uniscono? Le date che ci rimangono nel calendario civico come feste comandate sono quelle religiose (Natale e Pasqua), quelle delle vacanze (ferragosto) e una data che non ha mai scaldato il cuore, ovvero il 2 giugno. Siamo ancora una nazione? Forse più modestamente siamo un Paese, unito dal mangiare, dal bere, dal gioco delle carte, dai santi e dalle ferie. E’ sufficiente per dire che abbiamo un futuro?


l’Unità 18.4.11
Sono prof di sinistra. E allora?
di Mila Spicola

qui
http://laricreazionenonaspetta.blog.unita.it/sono-prof-di-sinistra-e-allora-i-di-mila-spicola-i-1.284030

La Stampa 18.4.11
Generazione 40 anni Si scrive flessibile ma si legge precario
di Tonia Mastrobuoni


C’ è chi li chiama bamboccioni, chi, citando una commedia francese di qualche anno fa su una famiglia che non riesce a cacciare il figlio trentenne inchiodato a casa, Tanguy. La verità è che se in Italia milioni di giovani hanno un problema a costruirsi un’esistenza fuori dalla famiglia, i motivi sono solo in parte antropologici. E più che a indolenti ragazzoni che preferiscono farsi lavare i calzoni dalle madri a quarant’anni, in mancanza di politiche pubbliche che li tutelino, i giovani somigliano sempre di più a funamboli senza rete. E la recessione ha avuto solamente l’effetto di rendere evidenti i difetti del sistema che stanno condannando ormai quasi due generazioni a stare peggio delle precedenti.
Cresciuta nella consapevolezza di dover dimenticare il mito del posto fisso che aveva segnato la vita dei propri genitori, dagli anni 90 la generazione dei flessibili ha imparato invece che il destino più comune è invece quello di precario. Non è una distinzione politica: lo affermano apertamente economisti e giuslavoristi autorevoli come Boeri, Trivellato o Ichino. La differenza? Chi è flessibile passa idealmente da un lavoro all’altro migliorando le proprie competenze e il proprio stipendio. Fino al 2008, l’anno della crisi, in Italia è cresciuto invece un esercito di lavoratori lontano da questa realtà. Uomini e donne spesso inchiodati allo stesso lavoro, senza tutele e sempre con lo stesso stipendio, con contratti a tempo reiterati per anni e anni.
Così, la differenza tra flessibile e precario è diventata in sostanza una differenza di prospettiva. Erano 2,8 milioni secondo la Banca d’Italia o l’Istat, quasi 5 secondo altri studiosi. Ma la crisi ha segnato uno spartiacque: l’ultimo Bollettino di Bankitalia afferma che per le nuove assunzioni si registra dalla fine del 2010 un crollo di quelle a tempo indeterminato mentre aumentano esponenzialmente quelle a tempo parziale e part time.
Questo esercito crescente - ecco un altro, enorme problema - secondo l’Istat è anche condannato a stipendi da fame: in media 1.026 euro al mese (rapporto 2009). È noto che milioni di imprese rimaste con l’arrivo dell’euro senza la possibilità della vecchia svalutazione competitiva non hanno investito in azienda per fare il salto tecnologico e sentirsi minacciate un po’ meno dai famosi prodotti cinesi. Hanno preferito invece mantenere basso il costo del lavoro schiacciando i salari. Il risultato è denunciato anche dalla Banca d’Italia, che parla spesso dei redditi dei dipendenti (tutti, non solo quelli dei giovani ovviamente) che hanno registrato addirittura un calo da quindici anni a questa parte, in termini reali.
A questo si aggiunga che anche il costo della vita costringe ad allungare la permanenza nella famiglia di provenienza. Un esempio banale? A causa della bolla immobiliare degli anni Duemila, è diventato proibitivo con un ragazzo con uno stipendio di mille euro mettere il naso fuori casa, cioè prendere un appartamento in affitto o men che meno, comprarsi una casa. Un ulteriore aspetto, non meno importante perché è emerso soprattutto durante la crisi, è la mancanza di un paracadute nei periodi difficili. Il nostro è ancora un sistema tarato sugli anni Settanta, quando in Italia c’era la grande industria e una prevalenza assoluta di contratti a tempo indeterminato: per i momenti difficili, era prevista la cassa integrazione. I precari non possono invece contare su alcun tipo di tutela. Ecco perché molti studiosi insistono da anni che la riforma prioritaria è quella degli ammortizzatori sociali per garantire un sussidio di disoccupazione a tutti. Non solo ai padri, ma anche ai figli.

Corriere della Sera 18.4.11
Occupazione e lavoratori stranieri Perché avremo più bisogno di loro
di Gianpiero Della Zuanna


I ntervenendo a margine del vertice del Fondo monetario internazionale, il ministro Tremonti ha affermato che gli immigrati che vivono in Italia lavorano tutti, che i giovani stranieri non rubano il lavoro ai coetanei italiani, e che non è né possibile né economicamente conveniente bloccare il flusso di nuovi arrivi. Lunedì 2 maggio all’università di Padova verranno presentati i risultati della ricerca Aspetti economici e sociali dell'immigrazione in Italia e in Europa, finanziata dallo Csea (Centro studi economici Antonveneta), e verrà presentato il libro dell’economista Nicola Sartor Invecchiamento, immigrazione, economia. Questi studi mostrano senza tema di smentita che — effettivamente — nell’Italia del Centro-Nord gli immigrati fanno lavori che gli italiani possono permettersi di non fare. Inoltre, i salari degli operai italiani non sono stati penalizzati dall’arrivo di tanti stranieri. Nel primo decennio del nuovo secolo, senza le immigrazioni, il numero di persone disposte a fare lavori manuali nel Centro-Nord Italia sarebbe drammaticamente diminuito, a causa di un numero di «colletti blu» pensionati molto maggiore rispetto al numero di nuovi lavoratori italiani disposti a fare gli operai. Quindi, l’arrivo di tanti stranieri ha solo permesso di mantenere costante l’offerta di lavoro manuale. Ecco il motivo per cui gli artigiani e gli industriali lanciano continui allarmi sulla difficoltà di trovare lavoratori per certe mansioni. E nei prossimi vent’anni le cose non cambieranno, perché nell’Italia del Centro-Nord, in assenza di immigrazioni, ogni quattro operai che andranno in pensione ci sarà solo un giovane disposto a diventare operaio. Addossando ai lavoratori stranieri la «colpa» dei bassi salari e della disoccupazione degli italiani, si spara sul bersaglio sbagliato. In Germania gli stranieri sono più che in Italia, ma i salari operai sono di molto superiori, sia per i tedeschi sia per gli stranieri. Ciò accade perché in Germania la produttività è più alta, e quindi è più grande la torta da spartire fra impresa e lavoratori. Al Sud le cose sono diverse. In un’economia più fragile, in larga misura precaria e irregolare, gli stranieri spesso portano via il lavoro agli italiani, perché si accontentano di salari ancora più bassi e accettano condizioni di lavoro ancora più disumane. Si realizza un apparente paradosso con l’ingresso di nuovi immigrati— sia pure in misura molto più contenuta rispetto alle aree ricche del Paese— che fanno lavori manuali, pur in presenza di migliaia di disoccupati italiani con basso titolo di studio. Ciò può accadere anche al Centro-Nord, ma solo in settori marginali del mercato, dove il lavoro è meno tutelato e meno strutturato, come nelle piccole imprese edili e di pulizia. Le affermazioni di Tremonti vanno però meglio articolate alla luce della crisi economica dell'ultimo biennio. L’Istat mostra che oggi il tasso di disoccupazione degli stranieri è un po’ più alto rispetto a quello degli italiani. In Italia non si è realizzato il dramma della Catalogna, la regione di Barcellona, dove il saldo migratorio con l’estero— positivo di 160 mila unità del 2007 — si è azzerato nel 2009, poiché il blocco dell’attività edilizia ha indotto decine di migliaia di stranieri a ritornare al loro Paese (vedi www. neodemos. it). Tuttavia, gli studi degli statistici Adriano Paggiaro e Anna Giraldo — nell’ambito della citata ricerca Csea— mostrano che anche in Italia la «gelata» del 2009-10 ha creato più disoccupati fra gli uomini stranieri. Infatti— anche se non c’è stata alcuna discriminazione secondo la nazionalità — gli uomini stranieri sono stati licenziati più frequentemente rispetto agli italiani, in quanto impiegati nei settori più colpiti dalla crisi. D’altro canto, le donne straniere spesso debbono restare a casa quando diventano madri, perché raramente hanno una rete familiare di sostegno, e poiché gli asili nido sono pochi e costosi. Quindi, Tremonti ha torto quando dice che in Italia gli stranieri lavorano tutti. Essi sarebbero disposti a farlo, anche a condizioni meno favorevoli rispetto agli italiani. Ma alcuni di loro sono involontariamente costretti a non lavorare. E per uno straniero perdere il lavoro può essere un vero disastro economico, sociale e giuridico, perché può portare — magari dopo dieci anni di residenza nel nostro Paese— alla perdita del diritto di vivere in Italia. In questi anni di crisi molti stranieri e italiani sono accomunati dal dramma della disoccupazione. C’è da sperare che — anche grazie all’azione del governo e del ministro Tremonti — la crescita riprenda a ritmi simili a quelli della Germania. Solo allora, almeno nel Centro-Nord, la piena occupazione verrà rapidamente raggiunta, sia per gli italiani che per gli stranieri. professore di Demografia università di Padova

Repubblica 18.4.11
Vangheluwe è scappato dal convento dove il Vaticano lo aveva mandato "per riflettere"
In fuga il vescovo pedofilo "In Belgio 500 casi di abusi"
di Marco Ansaldo


Il vescovo di Bruges. Sembra il titolo di un libro di Simenon. E il grande scrittore belga avrebbe di sicuro tratto uno strepitoso soggetto da questa trama di cui si intuiscono le atmosfere cupe, da giallo di provincia. Ieri l´ultima puntata. Roger Joseph Vangheluwe, che ormai è l´ex vescovo della città fiamminga, reo di pedofilia, è fuggito dal convento di La Ferté Imbault, dove il Vaticano lo aveva inviato per «riflettere». «E´ andato via ieri sera, non so dove», ha confessato la madre superiore del convento.
La Santa Sede aveva ordinato all´alto prelato di sottoporsi a una «terapia spirituale e psicologica» e di farsi dimenticare. Ma l´anziano religioso non ha rispettato le consegne. Costretto a dimettersi nel 2010 dopo aver riconosciuto di aver abusato sessualmente di un minore per tredici anni, giovedì scorso aveva dichiarato alla rete Vt4 di aver fornicato con un altro bambino, minimizzando i propri gesti, descritti come un «gioco», «un´abitudine» contratta quando i suoi nipoti, un paio di volte l´anno, dormivano da lui. «Una sorta di toccamenti intimi - spiegava - ma non del sesso brutale. Nella mia prospettiva non aveva niente a che fare con la sessualità».
I reati commessi risalgono al periodo tra il 1973 e il 1986 e sono quindi prescritti per la giustizia civile e per quella ecclesiastica. Ma l´imbarazzo delle alte gerarchie, tanto in Belgio quanto in Vaticano, è forte. «Siamo estremamente scioccati - dicono i vescovi del Belgio - del modo in cui ha minimizzato le sue azioni». «Vangheluwe - rincara la dose il vescovo di Tournai, Guy Harpigny, incaricato del dossier sulla pedofilia - mina un anno di sforzi della Chiesa per fare completa chiarezza».
Duro il giudizio del portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi: «La Congregazione per la Dottrina della Fede, l´organismo competente sui "delicta graviora commessi da ecclesiastici", ha stabilito che monsignor Roger Vangheluwe si sottoponga a un periodo di trattamento spirituale e psicologico».
Preoccupante è soprattutto la diffusione del fenomeno in Belgio. Il numero di abusi sessuali commessi nella Chiesa locale è arrivato a 500. L´intervista televisiva diffusa giovedì sera ha scioccato l´intero Paese. Che si chiede ora: dov´è finito il vescovo di Bruges?

Le 10 Scuse di Ratzinger sui Preti Pedofili
di YourVirus Top 10

http://virus.unita.it/video?video=1.244043

l’Unità 18.4.11
Cerimonia ufficiale oggi con le massime autorità del governo di Hamas nella Striscia
Testimone scomodo i radicali di Haniyeh accusati da un quotidiano israeliano: loro i killer
Vittorio, addio della «sua» Gaza prima dei funerali in Brianza
Si cerca un «giordano» come mente del rapimento e dell’uccisione di Vittorio Arrigoni. Forse una persona che il pacifista italiano conosceva. Hamas non conferma che due rapitori fossero sul suo libro paga.
di Umberto De Giovannangeli


La caccia al «giordano». Gli assassini di «Vik» forse sul libro paga di Hamas... A tre giorni dal ritrovamento del cadavere di Vittorio Arrigoni, i servizi di sicurezza di Hamas a Gaza sono impegnati nella caccia a un misterioso jihadista, «Abdel Rahman il Giordano». Già l’altro ieri si erano diffuse voci, fondate, che Hamas avesse rafforzato i controlli lungo il confine con l'Egitto per impedire ad un «infiltrato giordano» di abbandonare la Striscia. Ieri il quotidiano israeliano Ma’ariv ha confermato la notizia aggiungendo con grande evidenza che proprio questa figura misteriosa sarebbe il «cervello» del rapimento e dell’uccisione del giovane pacifista italiano.
Nella sua prima dichiarazione ufficiale sull'inchiesta un dirigente di Hamas, il ministro degli Esteri Mohammed Awad, ha mantenuto un atteggiamento cauto. Si è limitato a dire che finora vengono indagate due persone che risultano essere coinvolte nel rapimento, ma non nella uccisione di Arrigoni. Altre tre sono ricercate, ha aggiunto senza però
fare nomi. La versione ufficiale conferma il numero delle persone arrestate, reso noto già l’altro ieri da fonti ufficiose. Queste ultime fonti tuttavia avevano anche divulgato i nomi (Farid Bahar e Tamer al-Hasasnah) e avevano sostenuto che uno di essi sarebbe in effetti l'assassino di Arrigoni, mentre l'altro si sarebbe limitato a fare da basista.
DUBBI INQUIETANTI
Dal resoconto proposto intanto dal quotidiano israeliano (forse sulla base di informazioni di intelligence) trapelano diversi altri nomi ancora, nonchè scenari preoccupanti, anche per Hamas. Il «giordano» (che in un sito web di Gaza viene chiamato Abdel Rahman al-Brizat) sarebbe, a detta di Ma’ariv, un attivista del cosiddetto «Jihad mondiale», entrato a Gaza già da molti mesi attraverso i tunnel del contrabbando. Fonti locali ritengono che Arrigoni lo conoscesse di persona, e che dunque «il giordano» fosse al corrente dei suoi spostamenti.
Per Hamas la vicenda ha anche altri aspetti inquietanti. In una fase iniziale i rapitori avevano infatti chiesto la liberazione di un altro personaggio pericoloso, Abu el Walid al-Maqdesi (Hisham Saidni), ricercato in Egitto per presunte attività terroristiche. Si tratta del leader del gruppo salafita «al-Tahwid wal-Jihad», che accusa Hamas di non essere sufficientemente ligio alla dottrina islamica. Almeno in teoria, esiste la possibilità che il sequestro non sia l'iniziativa di una piccola cellula locale e che sia stato orchestrato da salafiti attivi nei Paesi vicini.
A rendere più aggrovigliata ancora la ricostruzione del delitto vi sarebbe la circostanza che i due salafiti torchiati dagli investigatori a Gaza sarebbero stati inquadrati nelle forze di sicurezza dello stesso Hamas. Certo un elemento di imbarazzo, se giungesse in merito una conferma ufficiale.
“FUNERALI DI STATO”
Nel frattempo Gaza si appresta al suo estremo saluto a «Vik». Per volere del capo dell'esecutivo Ismail Haniyeh, oggi alle 11 ci sarà una cerimonia solenne di addio, una sorta di «funerale di Stato». L'ospedale di Shifa ha intanto completato i preparativi per il trasporto della salma da Gaza verso l'Egitto, in vista del rimpatrio. Anche le procedure di carattere legale sembrano concluse. Saranno in molti, oggi a Gaza, a ricordare Vittorio Arrigoni come un «eroe», un «martire» della causa palestinese. Ma «Vik» non si riteneva un «eroe». Lui era un testimone diretto, partecipe, attivo. A volte scomodo. Anche per Hamas. Come quando aveva preso le difese dei giovani di Gaza che, sull’onda delle rivoluzioni in Tunisia e in Egitto, prima attraverso il web, Twitter, Faceebook e poi manifestando in strada, avevano rivendicato libertà, rinnovamento, diritti, non considerando queste rivendicazioni in contrasto con la resistenza all’occupazione israeliana. Vittorio Arrigoni ne aveva scritto sul suo blog, resocontato nei suoi articoli, e da spirito libero aveva condannato la repressione di quella protesta da parte della polizia di Hamas. Per questo, forse, si sentiva meno al sicuro nella “sua” Gaza. Perché gli amici «scomodi» a qualcuno possono non piacere più.

La Stampa 18.4.11
Ebrei e arabi, i nemici sconosciuti
di Avraham B. Yehoshua


In occasione di Pesah, la pasqua ebraica che si festeggia da questa sera, il quotidiano Haaretz pubblicherà un supplemento speciale in cui intellettuali e artisti sono stati chiamati a rispondere a varie domande.
A me è stata posta la seguente: come mai non si è ancora arrivati a una pace tra israeliani e palestinesi? Apparentemente un simile interrogativo dovrebbe essere rivolto a un orientalista, a uno studioso di scienze politiche o a uno storico, non a uno scrittore esperto unicamente della propria immaginazione. Siccome però l’argomento tocca in maniera dolorosa chiunque viva in questa regione proverò a suggerire una risposta.
La domanda è seria e inquietante per due ragioni: in primo luogo il conflitto israelo-palestinese è uno dei più prolungati dell’epoca moderna. Se se ne fissa l’inizio all’avvio della colonizzazione sionista della terra di Israele, negli Anni 80 del XIX secolo, ecco che questo scontro sanguinoso prosegue ormai da 130 anni.
In secondo luogo non si tratta di una contesa marginale in un luogo remoto e dimenticato da Dio, ma di una controversia costantemente al centro dell’interesse internazionale. Negli ultimi 45 anni governi e influenti organismi internazionali hanno investito seri sforzi di mediazione tra palestinesi e israeliani, presidenti degli Stati Uniti hanno cercato di intercedere tra le parti e primi ministri di tutto il mondo hanno prestato, e continuano a prestare, seria attenzione al conflitto. Inviati di alto livello arrivano nella regione nel tentativo di raggiungere un compromesso e istituzioni e singoli organizzano regolarmente simposi e incontri. Per non parlare poi delle innumerevoli ricerche, libri e proclami pubblicati in passato e nel presente. Ma nonostante si abbia a che fare con due piccole nazioni apparentemente facili da sottomettere a diktat internazionali, e nonostante accordi parziali tra le parti (grazie a colloqui diretti più o meno segreti) siano stati raggiunti in passato e chiare formule per una soluzione siano state accettate di recente, questa controversia serba un nocciolo duro refrattario alla pace.
Entrambe le parti hanno commesso molti errori e mancato numerose opportunità nel corso degli anni e siccome questo conflitto non segue un andamento lineare, bensì a spirale - vale a dire che il tempo non è un fattore essenziale per la sua soluzione e la pace si avvicina e si allontana in base alle congiunture storiche -, ha senso chiedersi cosa ci sia in esso di tanto speciale.
Non ho la pretesa che la mia risposta sia l’unica possibile, però la propongo qui in esame.
Il conflitto israelo-palestinese non giunge a una soluzione perché non ne è mai esistito uno simile nella storia umana. Non vi è infatti alcun precedente al fenomeno di un popolo che dopo aver perso l’indipendenza più di duemila anni fa ed essere stato disperso fra le genti abbia deciso, in seguito a circostanze interne ed esterne, di tornare nella sua antica patria e di ristabilirvi una propria sovranità. Per questo il ritorno a Sion è considerato da tutti un evento unico nella storia umana. Quindi anche i palestinesi, o arabi di Israele, sono costretti ad affrontare un fenomeno unico, come nessun altro aveva fatto prima di loro.
Agli inizi del XIX secolo risiedevano in terra di Israele 5000 ebrei e 250.000 o 300.000 arabi. All’epoca della Dichiarazione Balfour, nel 1917, c’erano circa 50.000 ebrei e 550.000 palestinesi. Nel 1948 gli ebrei erano 600.000 e i palestinesi 1.300.000. Il popolo ebraico si è quindi raccolto rapidamente in questa regione senza avere tuttavia l’intenzione di espellere i palestinesi (e di certo non di annientarli) ma nemmeno di integrarli come avevano fatto altri popoli con i residenti locali. Inoltre gli ebrei non hanno compiuto alcun tentativo di imporre un regime coloniale, dal momento che non avevano una nazione-madre come l’Inghilterra o la Francia che li mandasse a conquistare nuovi territori. In questa parte del mondo è avvenuto qualcosa di originale e di unico nella storia dell’umanità: un popolo è arrivato nella patria di un altro per cambiarvi l’identità, sostituendola con una nuova, ma antica.
Alla base del conflitto israelo-palestinese non vi è perciò una questione territoriale, come nel caso di tante altre controversie tra nazioni. Vi è piuttosto uno scontro sull’identità nazionale dell’intera patria, di ogni sua pietra e di ogni suo angolo. A entrambe le parti però - e ai palestinesi in particolare -, non sono chiare le dimensioni del popolo che hanno di fronte. Si tratta soltanto degli ebrei israeliani o di tutti gli ebrei della diaspora? E davanti agli israeliani è schierato solo il popolo palestinese o l’intera nazione araba? In altre parole neppure il confine demografico fra le parti è chiaro. Questo contrasto profondo crea dunque una costante e profonda sfiducia tra i due popoli impedendo una possibile soluzione del conflitto.
Sarebbe possibile risolvere questo scontro senza cadere nella trappola di uno Stato binazionale? La mia risposta è sì.

l’Unità 18.4.11
Intervista a Henry Laurens
«Il mondo arabo non sarà più lo stesso dopo la primavera»
Mesi difficili in Tunisia e Egitto, finché le elezioni non legittimeranno nuovi poteri. La Libia? «Temo che possa diventare un nuovo Afghanistan»
di Anna Tito


Al Collège de France, Henry Laurens insegna Storia contemporanea del mondo arabo. Fra le ultime opere L’Europe et l’Islam, quinte siècle (2009), con Mireille Delmas-Marty Terrorismes, histoire et droit e Le rêve méditerranéen (entrambi 2010).

Noi storici siamo abilissimi nel predire il passato: una volta accaduti, gli avvenimenti ci appaiono scontati e ineluttabili, e riusciamo a intravederne le cause sia remote sia immediate, fino a convincerci del fatto che la storia non sarebbe potuta andare in una direzione diversa», è il prologo dell’intervista di Henry Laurens, fra i più noti studiosi del mondo arabo contemporaneo.
Lei può dirsi sorpreso da quanto sta avvenendo in buona parte dei Paesi del mondo arabo? «Quanto accaduto ha lasciato sconcertati sia gli osservatori sia gli stessi protagonisti. Secondo i rapporti statistici del 2009, nulla lasciava presagire quest’ondata: si intravedevano a malapena “rapporti sociali più equilibrati” intorno al 2020-2025. E questo viene a ricordarci un elemento essenziale: ogni avvenimento comporta in sé un che di misterioso, specie quando si tratta di una rivoluzione. Ma ciò che conta, viste le esperienze della Tunisia e dell’Egitto, e forse della Libia, dove però la situazione mi appare più complicata e di meno immediata risoluzione, è che la dittatura nel mondo arabo non è una fatalità, e la prospettiva democratica rientra nell’ordine del possibile».
In Libia le forze della Nato hanno perseguito l’intervento contro le truppe di Gheddafi. Ma in questi giorni assistiamo a un rischio di impantanamento. Come vede la situazione?
«Ci troviamo davanti a due problemi fondamentali: il primo sta nel chiedersi “che cos’è un intervento umanitario?” Un diritto d’ingerenza? Ufficialmente interveniamo soltanto per proteggere le popolazioni civili, anche se pensiamo che il corollario comporterà il loro massacro, e il secondo è insito nella difficoltà, nelle guerre contemporanee, di distinguere fra il militare e il civile: nessun problema finché la coalizione poteva colpire le forze di Gheddafi, che agivano allo scoperto, ma non appena si è trovata ad agire in spazi urbani, si sono fatte inevitabili le perdite di civili. Così è avvenuto in Afghanistan, dove la Nato ha commesso un abuso dopo l’altro».
Nelle rivolte tunisina, egiziana, libica e nelle proteste in Algeria, Giordania, Siria, Yemen, possono riscontrarsi alcuni elementi comuni, ovvero l’esigenza di riforme economiche e sociali, nonché di democrazia. Non le sembra sufficiente?
«Queste esigenze, in sé, non sono sufficienti per far crollare dei regimi o soltanto a spingere la gente – consapevole che la repressione sarà feroce a scendere in piazza. Affinché ciò avvenga, le popolazioni devono sentire la necessità di rivendicare la loro dignità e rifiutare la paura. Vi è un momento in cui ci si convince del fatto che non vi è più alcun ragione di lasciarsi maltrattare come è avvenuto per secoli, si rivendica una dignità e si viene a scoprire da un giorno all’altro di non nutrire più alcun timore nei confronti del regime che seminato terrore fino a quel momento». Aldilà di una comune aspirazione alla libertà e alla giustizia, i progetti politici delle “primavere dei popoli” tunisino, egiziano e libico, le sembrano confrontabili?
«Mi colpisce la dimensione nazionale delle rivolte. Basta guardare le bandiere che vengono issate o brandite: né rosse né verdi, ma nella stragrande maggioranza bandiere nazionali. I popoli si stanno riappropriando della loro storia in ambito nazionale».
Sembra che la democrazia fatichi non poco a organizzarsi in Tunisia e in Egitto, ad esempio, una volta rovesciati i dittatori.
«I militari autori delle violenze sono gli stessi che hanno costretto Mubarak ad arrendersi e che ora l’hanno messo sotto processo insieme ai due figli. Tengo inoltre a sottolineare che non parlerei ancora di democrazia, ma di “politicizzazione”, ovvero di “presa di coscienza politica”, di apertura dell’ambito politico da parte di queste popolazioni. Certo, le violenze recenti hanno sorpreso molto sfavorevolmente quanti erano convinti che la transizione si sarebbe svolta in maniera pacifica. Ma è inevitabile che il processo di transizione risulti molto laborioso. Basti pensare alla situazione italiana fra il 1943 e il 1945. I prossimi mesi, sia in Egitto sia in Tunisia – saranno i più difficili, finché gli eletti in seguito a libere elezioni non potranno riorganizzare il Paese con un potere legittimo. Ciò che conta, è che la categoria del politico sia entrata nelle mentalità, e in questo è impossibile tornare indietro».

La Stampa 18.4.11
Il congresso del Pc a Cuba
La promessa delle riforme qui fa ridere
di Yoani Sánchez


Yoani Sánchez, 35 anni, gestisce all’Avana il blog Generación Y, «ispirato alla gente nata nei ’70, segnata dalle bambole russe, dalle uscite illegali e dalla frustrazione».

Ridere è sempre una cura efficace contro i problemi quotidiani. A Cuba aprire le labbra al sorriso è una forma di autoterapia più che un’espressione di felicità. Il problema è che i turisti scattano foto e dicono che questo è un popolo allegro che non perde il senso dell’umorismo di fronte alle difficoltà. Non sopporto le spiegazioni dei turisti! Fanno il giro del mondo mostrando l’istantanea di una risata che ha preceduto sul nostro volto un’espressione di angoscia o con l’immagine della contentezza che ci ha pervaso quando siamo riusciti a ottenere - dopo un anno di pratiche - gli occhiali graduati per il bambino. Ridere molto può essere anche una medicina preventiva per evitare le delusioni che sopraggiungeranno. Forse per questo motivo, ogni volta che chiedo a qualcuno cosa pensa sulle possibili riforme che verranno decise dal Sesto Congresso del Pcc, mi risponde con una risata, con un sogghigno ironico.
Il mio interlocutore subito dopo si stringe nelle spalle e dice una frase come: «Credo che non dobbiamo farci illusioni… per bene che vada autorizzeranno a comprare case e auto». Conclude con un’altra enigmatica smorfia di allegria che mi confonde ancora di più. Non è facile capire se oggi la maggioranza dei miei compatrioti preferisca che vengano approvate trasformazioni nel conclave del partito oppure che il congresso fallisca l’obiettivo per evidenziare l’incapacità del sistema di riformarsi. Le aspettative si sono molto affievolite negli ultimi mesi, ma resta ancora qualche speranza, soprattutto tra i più diseredati e tra le persone ideologicamente ostinate. L’immagine di un Raúl Castro pragmatico ha ceduto il passo a quella del governante dubbioso incapace di affrontare una situazione più difficile del previsto. Il congresso che alcuni auspicavano come riformatore del sistema, è stato convocato troppo in ritardo e nella lunga attesa ha perso molte delle speranze che un tempo aveva generato. Dietro il sorriso enigmatico di autisti a noleggio, venditori di pizze, studenti e persino militanti del partito, adesso si nasconde la consapevolezza che le cose non cambieranno molto. Sono persone smaliziate che usano la beffa silenziosa per vaccinarsi - in anticipo - contro le frustrazioni.
Traduzione di Gordiano Lupi Il blog di Yoani Sánchez

510.000 La ristrutturazione economica di Raúl Castro prevede il taglio di oltre mezzo milione di posti pubblici per rilanciare il settore privato nei servizi e nell’agricoltura. Saranno concesse ai privati le terre demaniali dipendenti pubblici incolte e sarà creato un sistema di credito ai piccoli imprenditori tagliati dalla riforma che si mettono in proprio

Corriere della Sera 18.4.11
Quando l’Angelo Azzurro voleva sedurre e avvelenare Hitler
di D. Ta.


Se avesse realizzato il suo sogno, altro che Angelo Azzurro: il mondo non avrebbe potuto trovare parole per mitizzare ancora di più Marlene Dietrich. In pieno nazismo, la diva tedesca, ormai americana e oppositrice instancabile del regime di Berlino, voleva uccidere Hitler. Avvelenarlo le sembrava il modo migliore. Sedurlo e avvelenarlo. Sapeva di piacergli, nonostante fosse noto il suo disprezzo per il Terzo Reich: era certa di poterlo adescare. Parlò del suo piano con il suo amante del tempo, a Hollywood, Douglas Fairbanks junior: avrebbe detto a Goebbels, ministro della propaganda e protettore del cinema in Germania, che sarebbe tornata in patria a continuare la sua carriera, un colpo di pubblicità immenso per il regime. A patto che avesse potuto incontrarsi faccia a faccia con il Führer per discuterne. A quel punto avrebbe avuto la strada spianata per entrare nelle sue grazie e trovare il modo di eliminarlo. «Conquisterei la sua fiducia facendogli pensare che lo amo» , diceva: sarebbe stata disposta persino a entrare nella camera da letto di Hitler e spogliarsi, per eliminare l’uomo che stava ingannando la Germania e compiendo atrocità. È stato lo stesso Fairbanks a raccontare l’idea-progetto della Dietrich a Charlotte Chandler, famosa biografa dei divi, che ha riportato la storia nel suo nuovo libro, «Marlene — Marlene Dietrich, a personal biography» . «Era una donna coraggiosa — ha detto Fairbanks junior, morto nel 2000 —. Sono convinto che fosse disposta a rischiare la vita se avesse avuto la minima chance» . In effetti, l'opposizione al nazismo di Marlene non era un atteggiamento. Era molto concreta. Fu la star che, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra nel 1941, fece — lei diventata americana nel 1939— la propaganda più di successo per la vendita delle obbligazioni di guerra. E per i suoi servizi alla causa della libertà ricevette in America la Presidential Medal of Freedom. Per scrivere la sua biografia, Charlotte Chandler ha intervistato negli anni decine di persone che la conoscevano e, negli Anni Settanta, la Dietrich stessa. È un libro che parla della sua carriera, degli amori, delle sue profonde convinzioni politiche. Con la rivelazione del fatto che i piani per assassinare Hitler non furono 42, come si è pensato finora, ma 43, con quest'ultimo forse uno dei meno probabili ma di certo il più affascinante. Purtroppo Hitler dovette accontentarsi di Eva Braun.

Repubblica 18.4.11
Il nostro nemico
Il carteggio fra il grande terapeuta, internato dai fascisti, e Dora Friedländer
Amore e psicanalisi le lettere di Bernhard
Il nemico peggiore è sempre quello interiore che ci spinge nell´ombra, che ci rimprovera distruggendoci da dentro
di Benedetta Craveri


«Io mi trovo bene. Studio la psicologia di questa situazione eccezionale con molto interessamento». Siamo nell´estate del 1940 e la condizione a cui si riferisce Ernst Bernhard in una lettera del 6 luglio a Dora Friedländer, la compagna della sua vita, è quella di internato in un campo di concentramento fascista. Ma per il medico berlinese che si preparava ad introdurre la psicoterapia junghiana in Italia e avere pazienti illustri come Adriano Olivetti, Natalia Ginzburg, Federico Fellini e Giorgio Manganelli, "la situazione eccezionale" non era solo un eufemismo in vista della censura, rispondeva a una precisa dichiarazione di intenti. Egli intendeva infatti conferire ordine e senso all´esperienza estrema che gli era toccata in sorte servendosene come un´occasione propizia alla riflessione, allo studio, alla maturazione spirituale.
Nei dieci mesi passati, assieme ad altri ebrei delle più varie provenienze, nel grande campo di concentramento di Ferramonti, in Calabria, Bernhard avrebbe mantenuto fede al suo proposito di progredire nel processo autoanalitico di "individuazione" ed "accettazione della sua intera personalità". Una prova certamente cruciale, di cui egli avrebbe trascritto i sogni, destinati non a caso a costituire un capitoletto della sua Mitobiografia (Adelphi, 1969), ma che possiamo ora seguire giorno dopo giorno, come un work in progress, sul filo della lettura di Tanti, tanti baci!, Lettere a Dora dal campo di internamento di Ferramonti (1940-41), il carteggio intrattenuto da Bernhard con la Friedländer nel corso della sua detenzione, che l´editore Aragno manda in questi giorni in libreria.
Arrivati a Roma, in fuga dalla Germania nazista, nel 1937, Ernst e Dora, entrambi quarantaquattrenni, sono costretti a scriversi, per motivi di censura, in un italiano che nessuno dei due padroneggia ancora perfettamente. Le poche lettere in tedesco che figurano nel carteggio sono, al contrario, assai belle. Ma spesso è il loro stesso dialogo epistolare, intessuto di sottintesi personali, di riferimenti astrologici e di responsi dell´I Ching (il libro divinatorio cinese che Bernhard farà poi pubblicare dall´Astrolabio), a coglierci impreparati. Tuttavia se ci affidiamo alla guida appassionata e sapiente della curatrice, Luciana Marinangeli, le lettere di Bernhard riveleranno la straordinaria molteplicità di messaggi che si nascondono, come in un palinsesto, sotto l´italiano zoppicante della sua scrittura.
Vi è innanzitutto il desiderio di rassicurare la sua corrispondente sulle sue condizioni fisiche e morali, ma vi è anche la necessità di infonderle coraggio e indicarle le iniziative da prendere per ottenere la sua liberazione. Amante e allieva, Dora ha con lui un rapporto di totale dipendenza e soffre di depressione. Quella che Bernhard svolge con lei è una vera e propria terapia di sostegno a distanza: «Non devi perdere il contatto con la vita, mia carissima… prendi le cose semplicemente come sono, guardale come segni dati per farci vedere la strada giusta». I "segni" sono in primo luogo quelli inviati dalle stelle e dall´I Ching che Dora consulta ossessivamente.
Vi è ugualmente l´incessante lavoro di autoanalisi, la cronaca dettagliata del dialogo che Bernhard intrattiene con se stesso e con il mondo, alla luce di un pensiero religioso frutto di una personalissima sintesi tra Oriente e Occidente. Vi sono poi i messaggi indiretti che l´internato spera possano impressionare favorevolmente i funzionari preposti al servizio di censura del campo. Dati oggettivi come il suo distacco dall´ebraismo ortodosso e la sua apertura ai valori del cristianesimo si prestano a essere spacciati per antisemitismo. Così come il suo interesse per il mito mediterraneo della Grande Madre, che sarà più tardi all´origine di un saggio famoso, e le sue riflessioni sul concetto junghiano di inconscio collettivo gli offrono i presupposti concettuali per progettare uno studio sulla psicologia fascista.
Vi è, infine, il suo celebre intuito rabdomantico che prima ancora di fare di lui un terapeuta d´eccezione, gli avrebbe salvato la vita. Sarebbe stato infatti Bernhard a guidare passo dopo passo Dora sulle tracce di Giuseppe Tucci, il famoso orientalista che pur avendo firmato il manifesto della razza, doveva garantire per lui e ottenere la sua liberazione.

Repubblica 18.4.11
Quel che resta dell’estetica
Perniola: "Un baluardo contro la tirannide"
di Antonio Gnoli


Da più parti si sente dire che la disciplina sia finita In un saggio del filosofo ecco la sua storia e la sua funzione oggi
I giudizi estetici nascono dalla discussione. Sono il modello dei giudizi politici
Nel passato questa scienza teneva insieme cose disparate, dal bello agli stili di vita

SULL´ESTETICA - disciplina nata nel Settecento, esplosa nell´Ottocento e infine data per morta, o quasi, col finire del Novecento - si sono scritti parecchi trattati, compendi, storie. Quasi che in quel fiorire di iniziative si sia tentato di elaborare un lutto che consentisse di legittimare la parola fine. E su questo aspetto "terminale" ha insistito Mario Perniola con il suo egregio lavoro di ricognizione dedicato all´estetica contemporanea (La società dei simulacri, numero speciale della rivista Agalma in uscita il 27 aprile): alle sue declinazioni, che sono molteplici e alle sue implicazioni con il tessuto sociale e storico che ne fanno un oggetto meno remoto e specialistico di quanto il lettore non immagini.
È possibile una definizione univoca dell´estetica?
«No. Il progetto estetico, nella sua complessità storica, pretendeva di tenere insieme cose disparate, come il bello, l´arte, la conoscenza sensibile e gli stili di vita che aspirano a qualche forma di eccellenza. Un po´ troppo: perciò a un certo punto è implosa. Della bellezza oggi si occupa la cosmetica o l´ecologia. L´arte è un business di lusso che finisce col confondersi con la moda e la pubblicità. Quanto agli stili di vita eccellenti aspirano al divismo o al contrario all´antidivismo».
Lei individua sei momenti con i quali l´estetica si è, nel corso dei secoli, riconosciuta: "vita", "forma", "conoscenza", "azione", "sentire", "cultura". Che tipo di classificazione ha costruito?
«Si tratta di poste in gioco per le quali si sono svolte le battaglie all´interno della cultura occidentale: gli amici della vita (spontaneisti ed effimeri), contro gli amici della forma (che vogliono tramandare qualcosa di valido alle generazioni future); gli amici della conoscenza (che vogliono trovare nell´arte la verità) contro gli amici dell´azione (che pretendono che l´arte cambi l´esistenza). Quanto alle due ultime categorie sono già al di là dell´estetica propriamente detta: i pensatori del sentire sono gli esploratori di esperienze psichiche inusuali o addirittura patologiche. Quanto alla cultura, la questione di fondo è come opporsi all´imbarbarimento della società».
Lei descrive quattro grandi pensatori del sentire: Freud, Heidegger, Wittgenstein, Benjamin. Cosa li tiene assieme?
«Ciò che li accomuna è l´esperienza di un sentire senza soggetto. Per Freud la psiche è sempre pensata come un campo di battaglia in cui si fronteggiano istanze opposte; l´intero pensiero di Heidegger è una critica radicale alla nozione di soggetto; Wittgenstein ci introduce in una dimensione impersonale del sentire: infine le nozioni su cui si focalizza il pensiero di Benjamin sono la morte, la merce e il sesso».
Si può ancora lavorare a un progetto estetico?
«No, penso che gli ultimi che hanno scritto di estetica in grande stile siano stati Lukács e Adorno. Entrambi nemici del populismo e del naturalismo refrattario ad ogni principio selettivo».
Lei ha spesso sostenuto che la vera crisi culturale sopraggiunge con gli anni Sessanta. Perché proprio in quel periodo?
«Il mito del progresso ininterrotto raggiunge negli anni Sessanta il suo apice. Perciò le nuove generazioni che non hanno vissuto gli orrori della Seconda guerra mondiale, sentono di poter fare ancora un grande balzo in avanti e si illudono di poter fare a meno dell´eredità del passato. C´era insieme molta ingenuità e molta malafede in questa pretesa. Gli "eredi" sono profondamente diversi dai "maestri": essi non avranno più seguaci ma fan. Nasce il divismo culturale e si afferma l´inefficacia della cultura».
Eppure sono stati anni culturalmente stimolanti.
«Ma con quali effetti? Da un punto di vista generale, la critica dell´autoritarismo si trasforma nella negazione di ogni tipo di autorevolezza. Il ruolo di educatore prima esercitato dai genitori e dagli insegnanti viene assunto dai mass media e dall´industria culturale. Inizia un processo di delegittimazione della famiglia e della scuola che si protrae fino ad oggi».
È un problema che ha alla base la crescita della cultura di massa e della formazione di un nuovo pubblico.
«Il "pubblico" compare nel Settecento e garantisce ad alcuni autori di vivere dei proventi dei loro libri. Oggi c´è una frammentazione e disgregazione del sapere che rende impossibile una cultura comune condivisa, che non sia quella sportiva o del lotto. Paradossalmente perciò sono più importanti i piccoli circoli, i cui membri sono tenuti insieme da un legame più profondo di quello offerto da Facebook».
Non ritiene che proprio Internet possa giocare ancora un ruolo sia estetico che culturale?
«Penso che Internet consenta un´organizzazione di tutto il sapere completamente diversa da quella teorizzata e realizzata agli inizi dell´Ottocento con la nascita dell´università moderna. È ancora presto per misurarne gli effetti, ma quelle che possono essere anche le novità positive non è detto che abbiano buon esito a causa delle feroce concorrenza e della velocità del cambiamento. Il problema è anche di capire a quale modernità vogliamo riferirci».
A questo proposito lei sostiene che non c´è stata una sola modernità, che Giappone, Cina, Brasile, Islam ne hanno conosciute di diverse. Con quali effetti?
«Di ricchezza e diversità culturali sorprendenti. Penso che non esista una sola forma di modernità, quella euro-americana, ma molte modernità che, a differenza della nostra, come ad esempio il Giappone, non hanno tagliato il loro legame con la tradizione, pur trasformandola profondamente. Il nostro errore è dare per scontato che il nuovo sia per definizione meglio dell´antico».
Che modernità incarna il Giappone le cui tragedie - almeno quelle tecnologiche - sono del tutto simili a quelle occidentali?
«La modernità giapponese nasce da un´approfondita conoscenza dell´Occidente, ispirata dal principio di incorporare le cose buone e rigettare le cose cattive. Un altro aspetto importante è il rifiuto del melting-pot, vale a dire del confondere tutto con tutto. Il Giappone ha un´eccezionale capacità di assimilazione di ciò che è altro e differente: tutta la sua cultura infatti è per un millennio e mezzo importata dalla Cina e nell´ultimo secolo e mezzo dall´Occidente. Tuttavia il criterio fondamentale è la giustapposizione: nessuno deve invadere il campo altrui».
Quello che in loro è giustapposizione in noi è il principio delle autonomie. Non è questo uno dei tratti della nostra modernità?
«Effettivamente occorre ricordare che la modernità occidentale comincia con il metodo: ogni attività o disciplina deve essere eseguita affermando la propria autonomia. Solo così la scienza, la politica, l´economia e anche l´estetica si sono emancipate dalla religione aprendo nuovi orizzonti di conoscenza».
Questi nuovi orizzonti sono quelli che hanno permesso il progresso e la lotta contro la barbarie. Due momenti oggi profondamente in crisi, non trova?
«La caduta del mito del progresso è ormai un fatto. Se poi - cosa che mi pare stia accadendo - viene negata la separazione e l´autonomia dei tre poteri dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario, cade uno dei principi fondamentali della modernità occidentale e noi finiremo col prendere dall´Oriente proprio l´aspetto peggiore del suo passato: il dispotismo. E l´estetica era nata e si era sviluppata proprio come un baluardo contro la tirannide».
In che senso?
«L´estetica è una medaglia a due facce. Da un lato essa è stata l´arma fondamentale usata dalla classe media per affermare la propria egemonia sociale e culturale nella forma della democrazia politica. I giudizi estetici nascono dalla discussione tra individui liberi: perciò essi sono il modello dei giudizi politici. Nello stesso tempo ha aperto una prospettiva antagonista rispetto all´assolutismo feudale, al capitalismo e al populismo. Nata nel Settecento è un prodotto complesso dell´Illuminismo».

Repubblica 18.4.11
Chirurghi sotto accusa con sentenza inventata
di Mario Pirani


Tre citazioni che, pur sul medesimo evento, non potrebbero essere di origini più lontane. La prima la trovo su Moked, il portale dell´ebraismo italiano, ed è stata scritta dal prof. Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, nonché primario al San Giovanni. La riporto in parte: «La città di Samaria è sotto assedio e gli abitanti muoiono di fame. Fuori dalla città quattro lebbrosi condividono la stessa sorte. L´unica alternativa è andare dal nemico a chiedere del cibo. Ma le possibilità di essere sfamati sono minime rispetto a quelle di essere uccisi come nemici. Che fare? Alla fine i lebbrosi decidono di andare ... È sulla scelta compiuta dai lebbrosi che il Talmud basa il principio per il quale è lecito mettere in gioco la certezza di una vita molto breve nel tentativo di poterla allungare in qualche modo, anche se questo modo comporta un rischio micidiale. Una delle applicazioni più comuni di questo principio è la scelta di un intervento chirurgico in pazienti in condizioni disperate. Nella discussione rabbinica le opinioni divergono... Per una strana coincidenza la lettura dell´haftarà dello scorso sabato (brano scelto per la lettura fra i testi dei profeti, ndr) ha coinciso con una sentenza della Corte di Cassazione che avrebbe stabilito che quando non ci sono speranze di guarigione il medico si deve fermare. La sentenza ha già sollevato notevoli perplessità; sarà certo interessante studiarla anche alla luce degli sviluppi della halakhà (l´assieme delle regole della vita ebraica, ndr)».
La seconda citazione è tratta dall´editoriale del Corriere Medico, a firma del presidente dell´Ordine dei medici di Roma. Mario Falconi e tocca lo stesso evento con un orientamento che si evince fin dal titolo: «Suggerisco un´Authority contro i media che manipolano la realtà... Persino una recente sentenza della Cassazione è stata stravolta con palese alterazione della verità». Come, del resto, sostiene la terza citazione, un comunicato a firma di Giovanni Hermanin, già assessore della piunta Veltroni ed oggi responsabile Sanità dell´Api (Alleanza per l´Italia), secondo cui «non esiste nessuna sentenza della Cassazione che affermi quanto riportato su tutti i giornali in merito agli interventi chirurgici su pazienti in condizioni estreme». Il comunicato si riferisce, appunto, alla notizia riportata con grande rilievo, su una condanna, sancita dalla Cassazione, nei confronti di tre chirurghi (il prof. Huscher e i sui collaboratori, i dott. Mereu e Napolitano) i quali avrebbero operato, suffragati dal consenso informato della paziente e dei familiari, una giovane donna, con due figli, al fine di prolungarne almeno per qualche tempo la vita. Il tentativo però fallì, ma la famiglia, consapevole del suo impegno, si guardò bene dal denunciare gli operatori. Questi furono egualmente condannati e ricorsero fino alla Cassazione per rivendicare la giustezza del loro operato. Sulla base però di una interpretazione erronea diffusa dalle agenzie, la notizia venne data come se la Suprema Corte avesse condannato i chirurghi e stabilito «in modo perentorio il principio secondo cui gli interventi chirurgici senza speranza (chi può definirli in anticipo? ndr) non devono essere tentati anche se esiste il consenso informato del paziente». Per capirne di più ho letto integralmente la sentenza la quale, in buona sostanza, non ha condannato nessuno né emesso alcun principio, ma, preso atto del decorso del termine di prescrizione, si è limitata a dichiarare estinto il reato, rifiutando di entrare nel merito.
Resta da chiedersi perché sia stata fatta circolare una versione così ingannevole. Si tratta forse di uno dei tanti risvolti della medicina preventiva che divide molti medici tra chi rischia e chi si arresta di fronte a scelte che possono portarli in tribunale. Basti dire che tra il 2005 e il 2010 le cause per responsabilità medica sono aumentate del 15%. La chirurgia, fra tutte, sta diventando una professione sempre più pericolosa per chi la pratica secondo coscienza.

Repubblica 18.4.11
Una serie di studi americani analizza la bugia Come nasce l'abitudine di falsificare la realtà
L'arte di mentire così l'imbroglio è diventato regola di vita
di Angelo Aquaro


Scrittori, sportivi, giornalisti ma anche importanti uomini d´affari: la tentazione di non dire la verità non risparmia nessuno Ora gli esperti vogliono capire cosa c´è dietro questo fenomeno
Gli Stati Uniti negli ultimi anni si sono trovati di fronte a moltissimi casi: qualcuno sostiene sia per la forte competitività sociale
Travolti personaggi che sembravano intoccabili: dal reporter Blair all´autore di bestseller Greg Mortenson

Prendete il vecchio Bernie Madoff. Anche lui ha confessato di aver cominciato con un imbroglio da poco per un cliente troppo esigente. Poi gli ha preso la mano: fino ai 70 miliardi della truffa del secolo.
Ma che cosa distingue noi imbroglioni di poco conto (chi più chi meno) dai giganti dell´imbroglio? Che cosa scatta nella mente del campione che sembra non avere bisogno dell´aiutino - se sei Diego Maradona non ti serve la mano di Dio, se sei Ben Johnson chi ti acchiappa - e invece è lì che ci frega anche lui? E insomma esiste una risposta, possibilmente sincera, alla domanda ineludibile a questo mondo: perché imbrogliamo?
Risposta numero uno. «Imbrogliare è particolarmente facile da giustificare quando ti vedi vittima di qualche tipo di scorrettezza» dice Anjan Chaterjee dell´Università di Pennsylvania. Il dottore s´è specializzato in un particolare tipo di truffa: l´uso di farmaci per migliorare le prestazioni. Una simpatica abitudine che dallo sport dilaga a Wall Street e al mondo della cultura. «Il tuo problema è centrare l´obiettivo. E tu non stai imbrogliando: stai soltanto riequilibrando una situazione».
La tesi raccolta dal New York Times ci sta anche. Ma altri studi dimostrano che imbrogliamo anche quando non ce ne sarebbe bisogno. E lo facciamo da subito: dai tempi della scuola. È la risposta numero due. Uno studio delle Rutgers University rivela che il 70 per cento degli studenti delle superiori Usa ammette di aver falsificato i test. E il 60 per cento dice di aver copiato altri studi. Di più.
Un´inchiesta della Duke Univeristy dimostra che messi in condizione di imbrogliare gli studenti semplicemente imbrogliano: anche i più bravi della classe.
Insomma non prendiamoci in giro: fregare è naturale. Nel senso che il nostro cervello - risposta numero tre - è naturalmente portato a prendere le scorciatoie. Il problema è quando si comincia a tagliare la strada agli altri. E qui scatta un altro meccanismo. «Di fronte a un comportamento negativo tendiamo a sovrastimare quanto il nostro somigli a quello degli altri» avverte David Dunning della Cornell University. Eccolo il meccanismo del così fan tutti - è la risposta numero quattro. Che però, guarda caso, scatta quando a fregare abbiamo cominciato "noi" - per giustificarci a posteriori.
Ma davvero è tutta una questione di natura? Dice David Callahan in La cultura dell´imbroglio che la fregatura diventa inevitabile in questa società in cui chi vince prende tutto. È la risposta numero cinque: più crescono le disparità e più cresce il ricorso alla scorciatoia. E come se ne esce?
Beh, spesso non bene. Il New York Times non può ricordare le disavventure di Jayson Blair: il suo reporter di punta cacciato dopo la scoperta che copiava dai giornali di provincia - e senza mai citarne uno straccio. Perfino la prestigiosa Columbia School of Journalism fu sconvolta due anni fa dallo scandalo delle ammissioni: ragazzi che copiavano per diventare copioni.
Non che la letteratura sia da meno. Senza risalire a William Shakespeare che rubò la trama di Romeo e Giulietta - lo ricorda Richard Posner nel divertente Piccolo libro dei plagi - il caso di questi giorni è quello di Greg Mortenson. L´autore del fortunatissimo Tre tazze di tè è stato accusato di essersi inventato tanti particolari del suo viaggio in Afghanistan - dove oggi la sua fondazione costruisce diverse scuole per bambine. Ok, prima del bestseller Mortenson era uno sconosciuto. Ma perfino uno scrittore di successo come Ian McEwan è stato accusato di aver copiato Espiazione dalle memorie di Lucilla Andrews. Per difenderlo si mosse nientemeno che l´autosegregatissimo Thomas Pynchon.
Nessuno, invece, s´è speso per il povero George W. Bush, che nelle sue memorie Decision points, per ovviare ai ricordi evidentemente non troppo decisivi, ha scopiazzato i retroscena del suo stesso incontro con Hamid Karzai da un altro libro... È la risposta numero sei, che nessun professore però confermerà mai: se proprio devi fregare qualcuno, risparmia almeno te stesso.

l’Unità 18.4.11
Un convegno a Ischia ripercorre il rapporto tra scienziati e politica
E oggi? La crisi attuale e il modo di uscirne, tema che corre sotto traccia
1861 e 1945, quando l’Italia si salvò grazie alla scienza
di Cristiana Pulcinelli


Scienza & Sviluppo: due volte nella sua storia l’Italia è uscita dalla crisi investendo su questo binomio, all’Unità e nel secondo dopoguerra. E oggi? A Ischia un convegno affronta questo tema.

Ci sono due momenti nella storia del nostro paese in cui siamo usciti da una situazione davvero difficile. Il primo è stato dopo l’unità d’Italia, il secondo dopo la seconda guerra mondiale. Cosa li accomuna? Il fatto che, a dispetto di tutto, gli italiani hanno avuto fiducia nel futuro, hanno scommesso sulla capacità del paese di farcela e hanno creduto nella scienza come motore di crescita. Oggi siamo di nuovo sotto le macerie, con un paese più povero e ingiusto di ieri e con una scarsa prospettiva di riprendersi. Ritroveremo la fiducia che ci ha aiutato nel passato?
TRA LE MACERIE
La domanda è serpeggiata nel convegno «La scienza nell’Italia unita» , venerdì e sabato scorsi al circolo Georges Sadoul di Ischia. A parlare Lucio Russo, Angelo Guerraggio, Marco Ciardi, Marco Pantaloni, Maria Lettieri, Lucio Bianco, Gianni Battimelli, Gianni Paoloni, Pietro Greco e Sergio Ferrari. Ognuno ha raccontato un pezzo della storia del rapporto tra la scienza e la società italiana, e ognuno cercava di rispondere alla stessa domanda: ce la caveremo? E il pubblico, soprattutto ragazzi delle scuole superiori, li ha ascoltati con un’attenzione dovuta forse al fatto che sentiva che non si stava tanto parlando del passato, quanto del futuro.
Guardiamo alla storia. Nel 1861 l’Italia era un paese poverissimo, l’analfabetismo molto diffuso, nel Mezzogiorno mancavano le infrastrutture, non c’era un servizio postale né trasporti. Ma il clima di euforia e di fiducia permise al paese di investire in scienza, innovazione e istruzione. Quintino Sella, ingegnere di formazione, da ministro delle finanze per risanare i conti operò tagli drastici ai finanziamenti, ma mai a quelli per la scuola. E gli scienziati, che avevano combattuto per l’Unità d’Italia, parteciparono attivamente alla costruzione dell’Italia appena unita, ricoprendo anche cariche istituzionali. L’impegno nasceva dall’idea che per lo sviluppo civile del paese bisognasse alzare il livello tecnologico e quindi ci volesse una politica della scienza nazionale. Poi si formò una classe politica professionale che scalzò gli scienziati e già agli inizi del ‘900 la luna di miele tra scienza e società era finita.
Nel 1945 l’Italia usciva dalla guerra in condizioni disastrose e nessuno avrebbe scommesso una lira sul suo futuro. Ma anche qui un clima di fiducia che si creò tra la scienza e alcuni settori produttivi permise di risollevarsi dalle macerie. Tra il 1945 e il 1964 l’Italia cresce in modo esponenziale anche grazie alla fiducia nella ricerca e nell’innovazione. Tanto che a inizio anni ‘60 il paese vantava poli di eccellenza scientifico tecnologici che il mondo gli invidiava: informatico, petrolifero, nucleare, chimico, medico. E le storie di Olivetti, Mattei, Ippolito, Natta e Marotta sono lì a testimoniarlo. Da allora sono passati quasi cinquant’anni e non si è più avuto un rapporto così felice tra scienza e società in Italia. L’Italia è in declino da oltre vent’anni. Il Pil italiano, fino a metà anni ‘80 migliore della media europea, da quel momento diventa peggiore. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono tra i più bassi in Europa e nel mondo. Ci sarà un legame tra questi fatti?

l’Unità 18.4.11
Le due passioni di Enrico Bellone, la fisica e la democrazia
di Pietro Greco


Enrico Bellone, storico della fisica, gran comunicatore della scienza, che i lettori dell’Unità ben ricordano, è morto sabato scorso, 16 aprile, a Tortona, dove era nato 72 anni fa. Si era laureato in fisica a Genova, aveva poi collaborato con Ludovico Geymonat e Paolo Rossi, dando un formidabile contributo a una disciplina, la storia della scienza, che forse solo con la sua generazione ha avuto in Italia un momento felice. Prima, ma ahimé, anche dopo ha avuto spazi molto stretti nelle università italiane. E questo si è rivelato (si rivela tuttora) come un bel guaio. Perché senza memoria storica non c’è cultura scientifica. E senza cultura scientifica diffusa il nostro paese – anche se ha espresso grandi scienziati (Bellone era un grande esperto di Galileo) e tuttora ne esprime – vive in un’eterna crisi di incompiutezza: sociale, economica e politica, oltre che strettamente cognitiva.
«LE SCIENZE»
A ben vedere questo era il quadro in cui Enrico Bellone ha svolto la sua attività sia di storico della fisica (che lo ha portato alla Cattedra Galileana di Storia della Scienza presso l’università di Padova) sia di comunicatore (è stato per anni il direttore di Le Scienze, edizione italiana della più prestigiosa rivista di divulgazione scientifica del mondo, lo Scientific American).Un’attività che in entrambe le dimensioni ha svolto sempre con straordinario rigore e formidabile passione. Parlando chiaro. Nel duplice senso di scrivere i suoi articoli, i suoi saggi, i suoi libri con stile brillante e comprensibile e di entrare nel vivo della discussione, senza guardare in faccia a nessuno. Poteva sembrare, a tratti, brusco: era solo animato da onestà intellettuale.Gli era stato conferito, di recente il premio Preti per il «dialogo tra scienza e democrazia». Ma era molto amareggiato, negli ultimi anni. Proprio perché vedeva, nel paese di Galileo, calpestata ancora una volta la scienza e, quindi, erosa ancora una volta la democrazia.

Repubblica 18.4.11
Ecco i campioni della ricerca in Italia e a sorpresa il Cnr arriva solo terzo
Al top per efficienza gli Istituti di Fisica nucleare e di Astrofisica
Il nostro Paese si difende: è al sesto posto nel mondo per numero di pubblicazioni Non decolla il promettente Iit
di Elena Dusi


ROMA - Eppur ci siamo. Nonostante uno dei finanziamenti per la ricerca più bassi al mondo (1,14% del Pil), l´Italia è al sesto posto per produzione scientifica. L´ultima classifica della Royal Society britannica ci attribuisce il 3,7% delle pubblicazioni che vengono citate in altri studi al mondo (uno degli indici usati per misurare la qualità della scienza), con gli Usa in testa al 30%.
Ma il panorama del paese è tutt´altro che omogeneo, e a scavare tra eccellenze e inefficienze sono andati Francesco Sylos Labini, astrofisico del Centro Fermi e del Cnr e Angelo Leopardi, docente di idraulica all´università di Cassino. Il loro articolo "Enti di ricerca e Iit: dov´è l´eccellenza" è stato pubblicato da "Scienza in rete" la rivista online del "Gruppo 2003 per la ricerca scientifica" che comprende alcuni fra gli studiosi italiani col maggior numero di citazioni. Incrociando i dati fra personale, finanziamenti e pubblicazioni sulle riviste scientifiche, la loro analisi offre un quadro ragionato di quali sono gli enti che muovono la ricerca scientifica in Italia.
Il gigante Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) ha 6.600 dipendenti e ottiene dallo Stato 566 milioni di euro all´anno per 6.300 pubblicazioni. Ogni studio in media costa dunque 89 mila euro e il rapporto fra scienziati e articoli è praticamente pari a uno (0,96). Il rapporto Scimago - un database internazionale che misura le performance dei vari istituti di ricerca - piazza il Cnr al primo posto in Italia e al 23esimo al mondo su un totale di quasi 2.900 enti di ricerca, ma tiene conto solo del numero delle pubblicazioni e non dei costi sostenuti.
Più efficienti del Cnr - secondo l´analisi di Sylos Labini e Leopardi - sono Infn e Inaf. L´Istituto nazionale di fisica nucleare ha 1.900 dipendenti e gli alti investimenti che i suoi esperimenti richiedono sono finanziati ogni anno dallo Stato con 270 milioni. La produzione scientifica è molto alta: 2.423 pubblicazioni all´anno. Ogni studio costa in media 111mila euro e ciascun ricercatore è autore di 1,27 articoli. Nel rapporto Scimago 2010, l´Infn si è piazzato al 181esimo posto. I più parsimoniosi in assoluto fra gli scienziati italiani lavorano all´Inaf, Istituto nazionale di astrofisica, posizione 397 nella classifica Scimago. In 1.130 ogni anno producono 1.356 articoli (1,2 a scienziato) con un finanziamento di 91 milioni di euro. Ogni loro pubblicazione costa al paese in media 67 mila euro. Un´inezia rispetto all´ultimo ente della classifica, quell´Istituto italiano di tecnologia che venne fondato nel 2003 per ricoprire il ruolo di "Mit italiano", ma che ancora non riesce a decollare.
Con 100 milioni all´anno di finanziamenti fissati dalla legge 363/2003 fino al 2014, l´Iit fa lavorare 811 scienziati, che nel 2009 (anno a cui si riferiscono i dati) hanno pubblicato 274 ricerche. La produttività di ogni ricercatore è di appena 0,34 articoli, ognuno dei quali costa ai contribuenti 363 mila euro, oltre il quintuplo rispetto all´Inaf. Nella classifica Scimago, il "Mit italiano" che ha sede a Genova, un´età media dei ricercatori di 34 anni e solo 2 dei 374 scienziati con un contratto a tempo indeterminato secondo il principio della competitività anglosassone, si piazza nella casella 2.823 su un totale di 2.833. Il direttore scientifico Roberto Cingolani, un fisico esperto di nanotecnologie, spiega che «l´Istituto italiano di tecnologia è nato di recente e ha bisogno di tempo per raggiungere criteri sufficienti per la valutazione». Ma di certo all´Iit - a differenza degli altri enti di ricerca che nuotano nelle ristrettezze - non sono mai mancati i mezzi, inclusi 128 milioni di euro provenienti dalla liquidazione dell´Iri nel 2008 e il lampante conflitto di interessi di un Vittorio Grilli che è allo stesso tempo direttore generale del ministero del Tesoro e presidente dell´Iit. Non stupisce con queste premesse che il 15 marzo la Corte dei Conti abbia lodato l´Istituto per il suo avanzo di bilancio di 60 milioni di euro. Si attende ora che questi soldi siano usati per migliorare ancora la posizione dell´Italia nella ricerca del mondo.

La Stampa 18.4.11
Villers, fotografo di Picasso
di Marco Vallora


Nizza. André le Magnifique», lo chiamano, confidenzialmente, in Francia. Ma anche: «il Geppetto di Mougins», per questo suo aspetto sempre spettinato e perennemente giovanile, incistato dentro la sua Costa Azzurra. Sperimentatore nato, André Villers, il fotografo «di» Picasso e di mille altri artisti, compie ottant’anni e la Francia lo celebra con varie iniziative. La più «familiare», quella della Galleria Sapone di Nizza: ove tutto l’albero genealogico della famiglia di galleristi viene documentata, nelle età più diverse, dal «fratello» o zio-Villers, uno di famiglia, insomma. Ma gli altri «parenti» si chiamano Burri, Magnelli, Max Ernst, Hartung (già sulla seggiola a rotelle), e poi scrittori ed amici, come Aragon, Butor, Simone de Beauvoir, Baldwin, ed inevitabilmente Picasso.
La storia d’una galleria storica, riflessa nella storia d'un singolare artista-fotografo. Che scopre la fotografia in un sanatorio: doveva essere uno svago pietoso e invece diventa il destino d’una vita. Con «l’occhio-trippa» della Kodak portatile, appesa al collo, come un inseparabile monile. All’inizio Villers è un magnifico documentarista «humaniste», alla francese, nutrito di Doisneau e di Cartier-Bresson, ma i suoi formidabili scatti, sono quasi interscambiabili. La sua Vallauris pare proprio, incredibilmente, la Scanno di Giacomelli o la Sicilia di Sellerio. Poi un «sisma»: l’incontro con Picasso. Lui è un ragazzo di vent’anni e non sa nulla di pittura, meno che mai di Picasso. E questo piace moltissimo al «Padre Eterno», che odia i sacerdoti del divismo. Lo prende sotto la sua ala («di colomba», dice il fotografo) e così si lascia sorprendere da lui in quegli scatti che l'hanno reso celebre. Si divertono insieme, «provano» le facce e poi prendon persino a lavorare a quattro mani. Con quelle geniali immagini ritagliate e stratificate che esaltano Prévert (faranno insieme «Fatras») e che chiamano Diurnes . Forse per prendere in giro Breton e le sue manie freudiane-notturne. Tutto è chiaro per loro, «basta non rifare mai la stessa cosa due volte» come gli ha insegnato Man Ray. Anche lui solarizza, cosparge la pellicola di spezie e piselli, come se fosse un intingolo, fotografa senza camera. Come il nostro Migliori, essendo sempre «avanti tutti».
VILLERS ET LES SAPONE NIZZA. GALLERIA SAPONE FINO AL 20 MAGGIO

l’Unità 18.4.11
«Avvenire» contro il Papa di Moretti Ma non si capisce il motivo...
di Alberto Crespi


«Avvenire» attacca «Habemus Papam»: bocciamo Nanni Moretti al botteghino, l’anatema lanciato ieri dal vaticanista Izzo. Non si è accorto che in due giorni il film ha ottenuto splendidi risultati al botteghino...

Verrebbe voglia di cavarsela con una battuta: non ci sono più gli anatemi di una volta. L’Avvenire, quotidiano cattolico, attacca il film di Nanni Moretti, Habemus Papam, con una rubrica del vaticanista Salvatore Izzo. «Bocciamo Habemus Papam al botteghino. Saremo noi a decretare il successo di questo triste film, se ci lasceremo convincere ad andare a vederlo, perché il pubblico laico si annoierebbe a morte e infatti diserterà le sale». Bum! Ai primi due giorni di programmazione (è uscito venerdì) il film contende a Rio la testa del box-office: tra venerdì e sabato ha incassato circa 740.000 euro contro gli 872.000 del cartoon «carioca». È facile pronosticare che, con gli incassi di domenica (saranno noti soltanto oggi), entrambi i film supereranno ampiamente il milione di euro nel primo week-end, il che non è davvero malaccio. Insomma, Habemus Papam sta andando bene. Speriamo che in questo weekend Izzo non abbia giocato al Totocalcio.
Al di là delle battute che lasciano il tempo che trovano e dei numeri che invece sono indiscutibili, ma non esauriscono il dibattito è curioso domandarsi come e perché l’Avvenire abbia deciso di «boicottare» il film di Moretti. Che intanto, ieri sera alla trasmissione di Fabio Fazio, Che tempo fa su Rai 3, ha detto: «Sul mio lavoro c'è libertà di opinione, chiunque può dire qualsiasi cosa, ma io non commento. Dopo averlo visto possono boicottare». Diversi critici di ispirazione cattolica hanno parlato bene del film: Messori sul Corriere della sera, ad esempio (più positivo lui che il critico del giornale, Paolo Mereghetti); o Tv2000, la televisione della Cei, che domani ospiterà un’intervista con il regista. Habemus Papam è invece stato bocciato da monsignor Roberto Busti, il vescovo che presiede l’Acec, l’associazione della Cei che coordina le sale parrocchiali. L’editorialista dell’Avvenire è in buona compagnia: l’Acec è la mitica responsabile delle «valutazioni pastorali», quelle che in passato definivano «licenziosi e inaccettabili» i film con Totò (e poi dice che uno si butta a sinistra). Busti ha definito il film «una ruffianata». E sapete perché? Perché Moretti lo userebbe per «introdurre un tema a lui molto caro da sempre, quello della psicoanalisi, anche in Vaticano. Ed è troppo comodo, e per questo parlo di ruffianata, tirare in ballo il Papa». Curioso argomento, che può essere messo accanto a quello filosoficamente altrettanto sottile che Izzo espone nel suo articolo sull’Avvenire: «Di motivi per non vedere il film di Moretti ce ne è almeno uno fortissimo, quello che ci hanno insegnato le nostre mamme: gioca con i fanti e lascia stare i santi». Però, che profondità di analisi!
Ma torniamo al come, prima del perché. Forse non è casuale che l’articolo di Izzo compaia solo a pagina 37 dell’Avvenire di ieri, nella pagina delle lettere, e con una formula (l’attacco «Caro direttore...») che fa pensare ad un’iniziativa individuale, non a una linea scelta dal giornale (l’Avvenire pubblica numerosi editoriali, a pagina 2, e ieri erano dedicati a tutt’altro). In realtà l’articolo se la prende con i compagni di strada: «...il fatto nuovo di questi giorni è invece come alcuni opinionisti cattolici trattano il film di Moretti... non fidiamoci dei critici cattolici, anche se preti, che lo assolvono» (meraviglioso l’uso del verbo «assolvere», che ha raramente asilo nei testi di critica cinematografica). Forse è tutta una problematica interna all’intellighenzia cattolica, che si sta disputando il diritto a decidere chi, e come, e perché può giudicare (e quindi condannare, o assolvere) un film in cui si parla del Papa. Certo se le cose stanno così, e se gli argomenti sono le «ruffianate» e i proverbi su santi & fanti, poi nessuno ci rompa più le scatole, cortesemente, con la vecchia storia dell’egemonia della sinistra all’interno della cultura italiana: di fronte a competitori simili, è come rubare le caramelle ai bambini.
Habemus Papam è la storia di un Papa neoeletto che si sente fragile e rivendica il proprio diritto al dubbio e alla paura. Forse Gesù, a leggere con attenzione i Vangeli, avrebbe apprezzato un uomo simile. Chi invece sostiene ancora come Izzo che «il Papa non si tocca, è il Vicario di Cristo, la Roccia su cui Gesù ha fondato la sua Chiesa» (le maiuscole sono tutte dell’autore), cosa volete che ne sappia, di umane debolezze?