martedì 19 aprile 2011

l’Unità 19.4.11
L’ira di Napolitano. Basta insulti sulla giustizia
“Ignobili”


La Stampa 19.4.11
Il doppio obiettivo del Colle
di Federico Geremicca


Ha aspettato un giorno, poi due, poi tre. Ha sperato fino all’ultimo che, dopo la dissociazione di questo o quell’esponente della maggioranza di governo, «l’ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano» (parole del Quirinale) venisse finalmente stigmatizzata dallo stesso presidente del Consiglio. Alla fine, quando ha avuto chiaro che questo non sarebbe accaduto, la decisione: e stavolta non una nota di critica per i toni e i modi, non un generico invito alla moderazione e nemmeno un messaggio alle Camere oppure al Paese.
Piuttosto, il passo più istituzionale possibile, un’iniziativa che coinvolgerà e rappresenterà tutte le istituzioni: comprese quelle che mai avrebbero voluto che il prossimo Giorno della Memoria (9 maggio) venisse dedicato alle vittime del terrorismo, magistrati in testa a tutti.
Attesa da molti e temuta da altrettanti, ecco - dunque - la mossa del Quirinale. Che il Capo dello Stato intervenisse di fronte all’ormai incontrollabile escalation polemica in materia di giustizia era inevitabile: più difficile - piuttosto - era scegliere modi e toni capaci di evitare che a scontro si aggiungesse scontro, con tutto quel che avrebbe potuto seguirne. Di qui la decisione di non scegliere la via dell’ennesimo richiamo esplicitamente diretto al capo del governo, a vantaggio di un’iniziativa dal profilo inequivocabilmente istituzionale: il Giorno della Memoria - celebrazione voluta tre anni fa proprio da Giorgio Napolitano - ricorderà i magistrati assassinati dal terrorismo. Già, proprio quei magistrati definiti brigatisti nell’«ignobile manifesto» milanese e pesantemente attaccati come «eversori» dallo stesso presidente del Consiglio (che non ha avuto remore nel parlare addirittura di «brigatismo giudiziario»).
In verità, la scelta della via da seguire non è stata semplicissima. Da una parte, infatti, era evidente la necessità di una scesa in campo del Quirinale in difesa della magistratura (dalla Corte Costituzionale fino al singolo pm) sottoposta ad attacchi di gravità crescente; dall’altra - e altrettanto evidente - vi era la necessità di non contribuire a un ulteriore surriscaldamento del clima: col rischio, addirittura, di agevolare il capo del governo in una strategia che, giorno dopo giorno, si va sempre più manifestando in tutta la sua chiarezza.
Non si tratta di una strategia inedita: l’attacco alle «toghe rosse» e l’indice puntato verso «i comunisti» sono praticamente un classico per Berlusconi alla vigilia di ogni campagna elettorale. Con l’importante voto amministrativo di maggio alle porte (Torino, Napoli, Bologna e soprattutto Milano) il leader del Pdl ha ricominciato a suonare lo stesso ed evidentemente noto spartito. Per il Quirinale, dunque, l’esigenza era doppia: difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura senza fornire altra «benzina polemica» al capo del governo, così da poter corroborare una linea tipo «sono tutti contro di me, giudici, Alta Corte, poteri forti e perfino il Presidente della Repubblica...». Il fatto che la mossa del Quirinale non potrà comunque non essere intesa anche come un richiamo severo alle più recenti sortite di Silvio Berlusconi lascia immaginare che essa non risulterà particolarmente indigesta al capo del governo. Anzi. Nonostante l’attenzione del Colle a scegliere con cura un’iniziativa (il Giorno della Memoria, appunto) che non si prestasse a letture inevitabilmente polemiche, è facile prevedere che proprio in questo senso sarà - invece - utilizzata dal presidente del Consiglio. In questo - bisogna riconoscerlo - Berlusconi continua a dimostrare una indubbia abilità tattica: tanto che per l’avversario politico la scelta, a volte, sembra essere tra il non reagire (rischiando di apparire arrendevole, se non peggio) o passare all’attacco, col rischio di enfatizzare ulteriormente ogni argomento propagandistico del Berlusconi versione campagna elettorale.
Ieri il premier ha taciuto. Nessuna replica né diretta né indiretta all’annuncio che il Quirinale intende dedicare il 9 maggio ai magistrati vittime del terrorismo. Non è escluso che qualche commento possa arrivare di qui ad allora. Ma è soprattutto un altro l’interrogativo che comincia a fare il giro dei «palazzi romani»: che farà Berlusconi il 9 maggio? Potrà partecipare a una celebrazione che suonerà oggettivamente critica nei suoi confronti? E potrà mai, al contrario, disertare una cerimonia in ricordo di magistrati che hanno dato la vita per il loro Paese? Un bel rebus. Alla cui soluzione, forse, Silvio Berlusconi ha cominciato a pensare già ieri sera...

Corriere della Sera 19.4.11
Monito per impedire un conflitto istituzionale
di Massimo Franco


E ra inevitabile che intervenisse Giorgio Napolitano: da capo dello Stato e quindi del Csm. La sua lettera al vicepresidente Michele Vietti contro «l’ignobile provocazione» dei manifesti coi quali a Milano un candidato del Pdl ha equiparato le Brigate rosse alla Procura di Milano, era attesa da ieri mattina. E tenta di rassicurare una magistratura che si sente aggredita e delegittimata da Silvio Berlusconi; e che grazie all’irresponsabilità di un aspirante consigliere comunale ha trovato una solidarietà trasversale. L’imbarazzo della maggioranza è evidente. Fa passare in secondo piano le accuse, finora non dimostrate, del capo del governo su un «patto scellerato» fra Gianfranco Fini e i giudici per impedire qualunque riforma proposta da Berlusconi. Quando ieri Fini ha ricevuto i vertici dell’Anm, Luca Palamara avrebbe scherzato sul tema. Aggiungendo che la sua Associazione non vuole essere «trascinata in uno scontro politico» . Ma la sintonia che il colloquio ha fatto registrare è stata salutata dal Pdl come una conferma indiretta delle tesi berlusconiane: anche se era programmato da un mese. Si tratta di una spaccatura che non esita a comporsi: anzi, di giorno in giorno assume toni e cadenze da conflitto istituzionale. L’intervento di Napolitano si inserisce su questo sfondo, dopo giorni di crescendo polemico. Dedicare la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo, il 9 maggio, ai magistrati assassinati, è il modo in cui il capo dello Stato vuole rispondere. La domanda tacita è se lo scontro non sia destinato a scaricarsi sui rapporti fra Napolitano e Berlusconi. Finora il governo è stato attento a non entrare in rotta di collisione col Quirinale. Ma la riforma della giustizia fa saltare qualunque possibilità di compromesso. Minaccia di incanaglire ulteriormente le posizioni: con la maggioranza portata alla resa dei conti con quelli che considera giudici di parte; e con il resto della magistratura condannata ad arroccarsi da una logica conflittuale che non ammette concessioni al «nemico» . Quando Vietti invita ad avere «il coraggio di percorrere la strada dell’autoriforma» , intercetta il pericolo. Sono gli effetti distorti della guerra istituzionale; e della volontà berlusconiana di dimostrare che i processi nei quali è imputato sono altrettante tappe di una lunga persecuzione giudiziaria. Roberto Lassini, il candidato autore dei manifesti indefinibili di Milano, annuncia che non si ritirerà; e questo trasferisce il problema sul Pdl. L’impressione è che, continuando così, le vie d’uscita immaginabili saranno traumatiche: per entrambe le parti.

Repubblica 19.4.11
Il Quirinale in campo
di Giuseppe D’Avanzo


Dinanzi alle parole violente e alle iniziative aggressive di un uomo che ha preso dimora stabile nell´inimicizia, si attendeva una parola saggia del presidente della Repubblica. Una parola che potesse indicare a tutti – e soprattutto a Silvio Berlusconi – un limite. Il confine insuperabile per una democrazia e per le istituzioni che la governano prima che quell´inimicizia privatissima e ostinata e ossessiva le distrugga. Prima che la stessa identità del sistema diventi rovina, macerie.
Quella parola saggia ora è arrivata dal Quirinale. Con una lettera al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giorgio Napolitano ha deciso di dedicare «il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi» (il 9 maggio) ai servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro lealtà alle istituzioni repubblicane. «Tra loro – scrive il capo dello Stato – si collocano in primo luogo i dieci magistrati che, per difendere la legalità democratica, sono caduti per mano delle Brigate Rosse e di altre formazioni terroristiche».
Ricordiamone i nomi: Emilio Alessandrini, Mario Amato, Fedele Calvosa, Francesco Coco, Guido Galli, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Vittorio Occorsio, Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione.
Non c´è alcun convenzionalismo nella mossa del Capo dello Stato. Napolitano non tace le ragioni più autentiche della sua scelta. Che è esplicita e suona come un atto di accusa contro chi, come il capo del governo, da settimane aggredisce, insinua, minaccia, ingiuria, calunnia cianciando di «brigatismo giudiziario», premessa politica – e mandato morale – per un figurante, candidato a Milano nella lista del Pdl, che ha fatto affiggere manifesti che diffondono, con gran dispendio di mezzi, la stessa convinzione del premier: «Via le Br dalle procure».
«La scelta che oggi annunciamo per il prossimo Giorno della Memoria – scrive Giorgio Napolitano – costituisce una risposta all´ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano con la sigla di una cosiddetta "Associazione dalla parte della democrazia". Quel manifesto rappresenta una intollerabile offesa alla memoria di tutte le vittime delle Br, magistrati e non. Essa indica come nelle contrapposizioni politiche ed elettorali, e in particolare nelle polemiche sull´amministrazione della giustizia, si stia toccando il limite oltre il quale possono insorgere le più pericolose esasperazioni e degenerazioni. Di qui il mio costante richiamo al senso della misura e della responsabilità da parte di tutti».
Napolitano indica un confine, abbiamo detto. Si può dire, un primo limite, un primo confine alla "strategia del ricatto" che Berlusconi ha inaugurato per rendersi immune dai processi che possono svelare quanto corrotta sia stata la sua avventura imprenditoriale (Mills) e quanto disonorevole e ricattabile e irresponsabile sia la sua vita di capo del governo (Ruby).
Il dispotico egomane pretende di essere «tutelato», come dice. Strepita, gesticola, urla, aizza rumorose pattuglie di comparse a pagamento. Esige che il Parlamento diventato cosa sua, proprietà personale, approvi leggi che lo liberino dalle accuse, dai processi, dai giudici di Milano: le manifestazioni che organizza dinanzi al palazzo di giustizia palesemente vogliono costruire le condizioni di un trasferimento dei dibattimenti in un´altra sede «per gravi motivi d´ordine pubblico», un espediente per allontanarlo dal giudice naturale. La prescrizione ancora più breve (approvata alla Camera, ora al Senato) non gli può bastare. Reclama che anche il processo per concussione e prostituzione minorile sia sospeso in attesa che la Corte costituzionale decida se il Parlamento può stabilire contro i giudici la «ministerialità» dei reati contestati al Cavaliere. In caso contrario, una nuova legge è già pronta. Per condizionare le volontà della magistratura, influenzare le scelte della Consulta, ottenere (come dicono spudoratamente gli araldi del potere berlusconiano) un impegno di Giorgio Napolitano «in una sorta di moral suasion sulla Corte costituzionale, chiamata ad esprimersi», il premier spinge la riforma costituzionale della magistratura; la responsabilità civile delle toghe; la legge bavaglio sulle intercettazioni; l´introduzione del quorum dei 2/3 per le decisioni della Consulta che abrogano una legge per incostituzionalità. Berlusconi le chiama «riforme». Sono soltanto le poste del ricatto che egli lancia contro le istituzioni della Repubblica. Il programma, dimentico delle vere necessità di un Paese in crisi abbandonato al suo destino da un governo fantasma, ha un solo obiettivo: mostrare come il premier sia disposto – se non ottiene la «tutela» immunitaria – a «decostituzionalizzare» la nostra democrazia, come dice Stefano Rodotà, ribaltandone i principi, le regole, gli equilibri, i poteri.
Napolitano è il primo e più autorevole ostacolo a questo disegno ricattatorio. Dovrà decidere della ragionevolezza della prescrizione breve. Giudicare l´esistenza di una palese incostituzionalità di un riforma del pubblico ministero che affida a leggi ordinarie – e quindi a chi governa momentaneamente in Parlamento – materie oggi protette dalle garanzie della Carta fondamentale. Difendere l´indipendenza della Corte costituzionale dalla longa manus del potere politico. Vigilare sui diritti dell´informazione. Le sagge parole di oggi, ricordano a chi vuole screditare le istituzioni e ribaltare l´equilibrio democratico che c´è un limite oltre il quale si manifestano «degenerazioni» che egli non tollererà. A Napolitano è toccato in sorte il più ingrato dei ruoli politici. È il custode della Costituzione. È chiamato a difenderla e proteggerla da partiti e uomini che, in quella Costituzione, non credono; che quella Costituzione disprezzano e umiliano. È la condizione estrema in cui si trova il nostro presidente della Repubblica. Avrà bisogno del sostegno di tutto il Paese per affrontare i conflitti che lo attendono.

Repubblica 19.4.11
La menzogna come bandiera
di Barbara Spinelli


Nella favola i non-politici «trasporteranno al governo i metodi di azione che sono loro familiari; faranno marciare le ferrovie; licenzieranno gli inetti; incuteranno un sano terrore agli altri». Ma è una chimera, e la macchina s´incepperà: «Il problema da risolvere non è già di trovare dei grandi industriali disposti a governare la cosa pubblica con la mentalità industriale. Essi non potranno fare che del male. Saranno degli straordinari improvvisatori». Saranno audaci, ma il primo impulso di simili audaci è di semplificare quel che è complesso: «di tagliare i nodi gordiani, di mandare a spasso il giudice che non decide un processo in ventiquattro ore, di ordinare ai direttori delle banche di emissione di far scendere il cambio del dollaro a 10 lire e così via».
Gli italiani tuttavia erano attratti dalla chimera, allora come oggi. Il fatto è che si sentivano abbattuti, tristi: erano «come malati che non trovano tregua alle loro sofferenze da qualunque lato si voltino». La via della dittatura pareva così rapida, e brillante, mentre com´era «noiosa, fastidiosa, minuta, la via della legalità costituzionale, sotto il maligno sguardo di giornali avversari e infidi»! È a questo punto che Einaudi, che nel ´48 sarà il secondo Presidente della Repubblica, ricorda come esista una sola salvezza dall´errore e il disastro che è la dittatura: la discussione, essenza della democrazia. Al cittadino triste e malato ci si rivolge con fiducia, non trattandolo come un triste, un malato. Meglio informarlo bene e aiutarlo a discutere sul vero e il falso, piuttosto che dargli verità preconfezionate per sedarlo. Meglio una pluralità di poteri, che il potere apparentemente efficace di uno solo.
Sono saggezze che tanti italiani hanno difeso lungo il tempo, ma che si sfaldano quando viene meno la discussione libera. Si sfaldano da quasi un ventennio e spesso vien da pensare che siamo nella stasi più totale, ma non è così: ultimamente qualcosa si è incrinato ancor più vistosamente. Accusato di reati commessi prima e dopo essere entrato in politica, il premier ha smesso di presentare le leggi che si fa cucire sulla propria persona come utili per l´intero Paese. I suoi seguaci, politici o giornalisti, hanno cominciato a dire apertamente, senza remore, che sì, il Parlamento deve mobilitarsi per mettere il capo sopra la legge e le corti. Il capo è quel conta, e i suoi eventuali reati sono bazzecole, da non evocare. Di bene pubblico nessuno parla più, l´inganno si disfa e tutto ruota attorno a un privato che governando gode di meritati privilegi.
È cosa sana e buona, rispondere a un attacco giudiziario ad personam con leggi ad personam. Lo stesso Berlusconi ha citato il mitico mugnaio prussiano che nel ´700 decise di veder riconosciute le proprie ragioni, e ai soprusi di Federico il Grande replicò: «C´è pur sempre un giudice a Berlino». Solo che Berlusconi non è un mugnaio, diffida d´ogni giudice, ed essendo Re assoluto pensa di non dover rispondere dei propri soprusi, di potersi fare giustizia da sé. Perfino l´apologo sulla giustizia del mugnaio è riuscito a riscrivere, trasformandolo in apologo dell´impunità.
Altra incrinatura visibile, da settimane, è nel linguaggio dei potenti. I giudici che indagano sui reati sono chiamati ufficialmente brigatisti (Berlusconi davanti alla stampa estera, 13 aprile). Il loro scopo è sovvertire lo Stato, violare la sovranità del popolo elettore. Egualmente eversore è chiunque dissenta: giornalisti, intellettuali, coi quali non si discute. È lunga la lista dei neo-terroristi, e in cima a tutti sta ora Asor Rosa. Probabilmente anche il cardinale Tettamanzi disarticola lo Stato, avendo detto domenica scorsa al Duomo che davvero paradossali sono questi giorni in cui tocca domandarsi: «Perché ci sono uomini che fanno la guerra, ma non vogliono si definiscano come "guerra" le loro azioni violente? Perché molti agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni?». Siamo, insomma, davanti a un salto di qualità importante, a qualcosa che somiglia a una vigilia: tanto esibiti, innalzati come stendardi, sono inganni e paradossi.
Il colmo, a mio parere, è stato raggiunto con l´elogio, da parte di un giornale del potere berlusconiano, del Grande Inquisitore di Dostoevskij (Il Foglio, 16-4). Nelle Lamentazioni che si recitano alla vigilia della Croce e della Resurrezione, Geremia parla di abominio, di panno immondo, e c´è un elemento di abominio nell´allegra difesa di una delle più nere leggende della letteratura. Come pretesto si è scelto il libro di Franco Cassano, L´Umiltà del Male (Laterza). La leggenda narra di Gesù che torna sulla Terra - con la sua mitezza, con i suoi messaggi di libertà - e per la seconda volta, quindici secoli dopo la sua morte, è giustiziato.
Ma il libro è stravolto, usato in difesa del nostro premier. L´Inquisitore non è forse santo ma di certo è più attento alle umane debolezze di quanto lo sia stato Cristo, perché sa quanto il male sia radicato nell´uomo e come difficile sia estirparlo e dare pace ai mortali infelici invece che tormento e angoscia. Sa che l´uomo non sopporta la libertà che Cristo gli ha dato: che la salvezza la troverà inginocchiandosi davanti all´autorità, commettendo le colpe che vuole ma col consenso delle gerarchie ecclesiastiche, le quali prenderanno su di sé il castigo patteggiando con Satana. Le parole che ho letto sabato sul quotidiano berlusconiano sono stupefacenti.
È scritto che il cardinale gesuita di Siviglia (l´Inquisitore), «impartisce (a Gesù) una lezione appassionata e tragica di umiltà del male e di teologia della storia e nella storia, spiegandogli che il suo aristocratismo etico, la sua bontà naturale e santa, non riesce a fare i conti, come riesce invece e bene la sua chiesa gerarchica, con la natura radicale del peccato umano». Gesù non ha la boria e la iattanza dei neopuritani che oggi avversano Berlusconi, ma in fondo appartiene anch´egli a una minoranza etica, che non ama gli uomini come li ama e li aiuta la Chiesa. Solo la Chiesa e l´Inquisitore amano davvero, perché tengono conto dei «bisogni umili delle maggioranze relativamente indifferenti, di coloro che non sono tra gli eletti, che per insicurezza chiedono protezione e sogni, magari anche rivolgendosi ad agenti del male, e che praticano la tutela del proprio interesse legittimo nelle forme e nei modi possibili alla creatura umana sofferente» (i corsivi sono miei).
Se Gesù non diventa un brigatista, è solo perché nel momento decisivo (un momento musicale, vien definito) tace e bacia l´Inquisitore, a suo modo assoggettandosi. Così vengono distorti sia Gesù sia Dostoevskij: con il suo bacio, infatti, Gesù non s´assoggetta affatto; non accetta il parere dell´Inquisitore e i consigli di Satana. Il bacio è dato perché l´Inquisitore ha detto la verità, su se stesso e la Chiesa (la Chiesa gerarchica, non la Chiesa-popolo di Dio). Perché ancora una volta, come sempre ha fatto, Gesù restituisce all´uomo, compreso il malvagio, la piena libertà di scegliere, ragionando, tra il bene e il male. Dostoevskij almeno lo racconta così: il vecchio Inquisitore sussulta, «il bacio gli arde nel cuore» anche se resiste nella sua idea.
Non ho mai letto elogi simili del Grande Inquisitore, e mi domando cosa li renda possibili: oggi, qui in Italia. Forse perché siamo oltre la constatazione che l´umanità è fatta di un legno storto. La stortura non è constatata, ma incensata, addirittura cavalcata. Una sfiducia radicale negli uomini permette agli inquisitori odierni di trasformare il male e l´ingiustizia in vanti personali messi trionfalmente in mostra. L´uomo è malvagio. Inutile, assurdo, scommettere sulla sua libertà come fece Cristo, perché questa libertà la creatura umana vuole consegnarla, in cambio di protezione e sogni (di «felici canzoni infantili e cori e danze innocenti», scrive Dostoevskij) a chi usa le tre grandi forze necessarie al controllo delle coscienze: il miracolo, il mistero, l´autorità.
Per questo si giunge sino a sfoderare la menzogna come bandiera. Si dice senza temere smentite che Berlusconi è stato sempre assolto nei processi. È un falso: su 16 processi, solo 3 lo hanno assolto, gli altri o sono stati prescritti o è stato abolito il reato con leggi ad hoc. Si dice che i suoi processi iniziarono appena entrò in politica. È un falso: cominciarono prima, e fu colpa di tutta la classe politica accogliere chi era gravemente indagato. Da allora mentire è divenuto possibile, fino alle escrescenze odierne. Da allora la democrazia ha smesso di essere discussione e separazione dei poteri, intrisa com´è di paure, ricatti, silenzi inauditi. La macchina non ha funzionato, ma resta l´illusoria speranza in un audace, che infranga le leggi e permetta agli uomini deboli, inermi, di consegnargli la loro libertà in cambio di favole e favori.
 

il Fatto 19.4.11
I sondaggi: governo in caduta libera
La curva discendente è ormai inesorabile. E c’è il sorpasso del centrosinistra
di Wanda Marra


Fiducia in Silvio Berlusconi e nel suo governo in caduta libera. E sorpasso del centrosinistra sul centrodestra. È quanto emerge da un sondaggio realizzato da Ipr Marketing per Repubblica.it  . L’ultima di una lunga serie di rilevazioni che vanno tutte nella stessa direzione: il Caimano sembra ormai inesorabilmente sul viale del tramonto. Nel dettaglio. Secondo il sondaggio realizzato tra il 14 ed il 16 aprile intervistando un campione rappresentativo di 1000 italiani, Berlusconi si attesta al 31% (2 punti in meno del sondaggio realizzato dallo stesso istituto solo un mese fa). E ben 21 in meno rispetto a inizio legislatura (maggio 2008), quando il premier aveva il 53%. Il governo arriva addirittura al 23% (3 punti in meno di un mese fa). A inizio legislatura (maggio 2008) era al 49%, cioè 26 punti sopra l’attuale livello. In questi quasi tre anni la fiducia nel governo si è dunque più che dimezzata. Accanto alla curva discendente del centrodestra, il sondaggio certifica il sorpasso del centrosinistra, che sarebbe al 41,5%. Mentre il centro-destra si fermerebbe al 41%. Il13,5% va al Terzo Polo.
Male anche il risultato dei singoli ministri. Solo in 4 superano quota 50%. Si tratta di Angelino Alfano, che comunque in un solo mese ha perso il 3%, evidentemente per effetto dei suoi discutibili interventi sulla giustizia. E Sacconi, Tremonti e Maroni. Quest’ ultimo però vista l’approssimativa gestione dell’immigrazione perde il 6%. Da segnalare che il pessimo modo in cui sono state affrontate le crisi internazionali ha inciso pesantemente: La Russa è passato dal 35 al 30%, Frattini dal 24 al 20%. Peggior gradimento per Michela Brambilla, Raffaele Fitto, Paolo Romani (18%). Ultimo, la new entry Francesco Saverio Romano, con il 10%.
Quello di Ipr Marketing è solo l’ultimo dei sondaggi a fotografare la ormai costante discesa di Silvio Berlusconi. Secondo le ultime rilevazioni effettuate dalla Lorien Consulting (l’istituto di Antonio Valente) su un campione rappresentativo di 1000 cittadini, tra l’8 e l’11 aprile 2011, la fiducia nel governo sarebbe addirittura al 19,9% e quella in Berlusconi al 23,3%. E il Pdl, peraltro, si attesterebbe al 24,9%. Dice Nicola Piepoli che, seppure il calo sostanzioso è realistico, il sorpasso ancora non ci sarebbe (“c'è un lieve margine di vantaggio del centrodestra sul centrosinistra, 41% a 40%”), ma che in realtà il vero test sono le amministrative. E si dichiara convinto che in realtà Berlusconi sia ancora in vantaggio. Poi si allarga su un discorso più generale: “Questo è un bel governo, ci sono delle belle persone. Come era un bel governo il Prodi I. Gli italiani dovrebbero puntare a esecutivi così”. Non spreca troppe parole Renato Mannheimer: “È tanto che non ho dei dati miei”. Ma questi? “Sono un po’ bassi, ma realistici”, dice. Senza esitazioni.

l’Unità 19.4.11
Bersani: «Serve un concorso di forze ampie. C’è il rischio di vedere Berlusconi al Quirinale»
«Napolitano ha ragione. Io sono sicuro che la Milano democratica saprà rispondere»
Il Pd rilancia: «Un’alleanza tra moderati e progressisti»
«Il tramonto di Berlusconi sarà drammatico». Bersani definisce «sacrosante» le parole di Napolitano. Alle opposizioni: «Serve un’alleanza tra le forze progressiste e moderate per sconfiggere il berlusconismo».
di Maria Zegarelli


«Sacrosante e precise», le parole di Giorgio Napolitano, reale il rischio «di pericolose degenerazioni» evocate dal Capo dello Stato, perché «siamo dentro a questa degenerazione, certamente». Pier Luigi Bersani commenta così il duro monito del presidente delle Repubblica e definisce «vergognoso» l’episodio dei manifesti contro i magistrati a Milano, «le destre stanno seminando mentalità barbarica e anticostituzionale» aggiunge parlando ad una iniziativa elettorale a Civitanova Marche. È alla luce di questo che secondo il segretario dei democratici è necessaria una coalizione elettorale fra le forze progressiste e moderate del Paese, «non sante alleanze», ma un cartello forte e unito «perché se ci si divide, con un solo voto in più Berlusconi può fare il presidente della Repubblica il prossimo giro». Il Berlusconismo non si esaurirà con l’uscita da palazzo Chigi di Berlusconi, il suo «tramonto sarà drammatico, noi non abbiamo il cronometro ragiona Bersani -, non abbiamo il calendario ma sappiamo che sarà drammatico e ci sarà bisogno di una fase di ricostruzione, con un pacchetto di riforme per la democrazia e per un nuovo patto sociale, per dare un po’ di lavoro e di crescita economica». Forze progressiste e moderate per «un’operazione di ricostruzione» del Paese e per scongiurare l’ascesa al Colle di Silvio Berlusconi che non ha mai fatto mistero delle sue alte aspirazioni.
Che poi la condizione per tornare a parlare ed affrontare i problemi del paese sia quella di voltare pagina passando attraverso il voto anticipato, per Bersani, come per D’Alema, come per il resto dell’opposizione da Casini a Di Pietro e Fini, è ormai fuori di ogni dubbio. Superato il tempo dei governi tecnici, le urne restano l’unica soluzione all’attuale grave crisi politico-istituzionale in cui il centrodestra ha gettato il paese. Dai problemi della giustizia alle riforme, tutto passa in secondo piano davanti alle questioni personali e giudiziarie del premier. «Siamo al problema solito dice il leader Pd -: Berlusconi ha interesse a non risolvere i problemi e ad acuirli per poi poter sbandierare una guerra contro la magistratura. Questa è certamente una china pericolosa».
Ringraziano il presidente della Repubblica per «l’equilibrio e il senso di reponsabilità» tutti i leader democratici da Rosy Bindi a Anna Finocchiaro, Marina Sereni a Alessandro Maran che però denunciano il rischio di una pericolosa deriva dello scontro istituzionale sollevato da Palazzo Chigi. Nessuno tira per la giacca il Capo dello Stato ma è chiaro che ormai tutti guardano al Colle.

l’Unità 19.4.11
Lacrime e bandiere Gaza dà l’ultimo saluto a Vittorio «l’amico italiano»
Poche centinaia di ragazzi palestinesi con bandiere e slogan per l’ultimo saluto a Vittori Arrigoni a Gaza. Stasera la camera ardente al Cairo, poi la salma rientrerà in Italia per i funerali nel paese di Bulciago, in Brianza.
di U.D.G.


Una bara di compensato coperta da una bandiera italiana e una palestinese, gli slogan, e il pianto degli amici, onori funebri solenni, ma non di massa. Si è consumato così, ieri, l'ultimo viaggio di Vittorio Arrigoni nella Striscia di Gaza: lembo estremo di terra palestinese nel quale il volontario italiano aveva scelto di vivere, in nome dell'adesione senza riserve alla causa di un popolo, e dove per tragico paradosso ha incontrato alla fine, a 36 anni, un'atroce morte per strangolamento. Una morte che le indagini sembrano ricondurre alla mano di una cellula di ultra integralisti salafiti collocati su posizioni ancor più radicali di Hamas (il movimento islamico al potere nella Striscia): su tre dei quali pende adesso una taglia. Sviluppo rimasto sullo sfondo del corteo che ha seguito l'addio a Vik, come amava farsi chiamare. Alcune centinaia di persone in tutto, radunatesi dal mattino dinanzi all'ospedale di Shifa a Gaza City, da dove il feretro è uscito a metà giornata portato a spalla da due file di poliziotti con i baschi rossi. E da dove, cosparso di petali, è stato poi caricato su un'ambulanza (una di quelle su cui Arrigoni accompagnava i feriti durante l'offensiva israeliana “Piombo Fuso”) diretta con una coda di torpedoni e vetture private verso il valico di Rafah, al confine egiziano. Il percorso si completerà con l'arrivo al Cairo (dove per oggi è stata allestita una camera ardente), con il volo verso Milano e quindi con i funerali di Bulciago, il comune in provincia di Lecco da cui Vik era partito e dove, nella doppia veste di sindaco e madre, Egidia Beretta lo accoglierà. Per i funerali la madre ha chiesto agli amici e sostenitori di Vittorio di non mandare fiori ma casomai donazioni al conto a lei intestato presso la filiale di Bulciago della Banca popolare di Bergamo (Iban IT16Y0542851000000000000791 ). La famiglia valuterà in seguito a chi destinare i fondi raccolti. A Gaza gli attivisti dei diritti umani amici di Arrigoni hanno deciso di varare una lancia per il monitoraggio dei diritti per la spiaggia di Gaza. La barca, che proseguirà l’impegno di Vik a favore dei pescherecci gazawi sarà battezzata, come lui voleva, «Oliva».

La Stampa 19.4.11
Arrigoni, funerali di Stato a Gaza
L’attivista italiano, dichiarato “martire”, è stato trasferito in Egitto
di Aldo Baquis


Con una cerimonia solenne al valico di Rafah (fra Gaza e l'Egitto) la popolazione della Striscia e i dirigenti dell'esecutivo di Hamas hanno salutato ieri Vittorio Arrigoni, il volontario italiano ucciso venerdì da una cellula di integralisti islamici che con il suo sequestro speravano di liberare un loro dirigente recluso da febbraio in una prigione di Gaza.
Trovatosi in condizioni di difficoltà per l’aperta sfida dei terroristi salafiti, Hamas ha qualificato Arrigoni come «un martire della causa» e ha presentato alla stampa locale come «funerali di Stato» la cerimonia di commiato a Rafah. Nella tarda mattinata il feretro dell’attivista è stato infine issato in spalla da otto uomini di Hamas in alta uniforme ed è uscito dall'ospedale Shifa, avvolto per metà in un vessillo palestinese e per metà in una bandiera italiana. Da ore, sotto il sole, lo attendevano centinaia di amici, sostenitori nonché funzionari ufficiali e rappresentanti di istituzioni locali. Alcuni esponevano immagini di Arrigoni al suo arrivo a Gaza nel 2008 con la flottiglia umanitaria «Free Gaza», mentre altri hanno urlato a gran voce: «Fuori i terroristi da Gaza».
Il corteo funebre, guidato dal viceministro degli Esteri di Hamas Ghazi Hammad, ha lentamente percorso poi i 30 chilometri di tragitto fino al valico di Rafah. La decisione di trasferire la salma via Egitto è stata presa dai familiari della vittima, alla luce della forte animosità che Arrigoni provava verso Israele.
Al valico i dirigenti di Hamas hanno reso ancora una volta omaggio alla figura del volontario, hanno espresso condoglianze alla famiglia e al popolo italiano e hanno assicurato che condurranno una lotta serrata per catturare chiunque abbia partecipato al sequestro e alla uccisione. La salma tornerà in Italia domani, da stabilire la data delle esequie a Bulciago, il paese della famiglia in provincia di Lecco.
Il «ricercato numero uno», conferma adesso la direzione di Hamas, è un jihadista giordano penetrato a Gaza molti mesi fa e da allora attivo nel reclutamento di sostenitori. È lui, secondo gli investigatori, il cervello dell’operazione. Fonti locali aggiungono che questi conosceva personalmente Arrigoni, e che dunque poteva seguirne i movimenti con facilità. Il suo nome è Abdul Rahman al Breizat, noto anche come «il Giordano», o ancora come Muhammed Hisani. Le foto segnaletiche lo mostrano a braccetto con un amico, pure ricercato, e poi anche a bordo di una motocicletta. Sulla sua testa c'è una taglia di entità imprecisata. «Chiunque ci fornirà informazioni sarà ricompensato» ha detto ieri un portavoce del ministero degli Interni. Sempre ieri quel ministero ha pubblicato le foto e i nomi di altri ricercati (Muhammed al Breizat, Billal al Omari, Nimer Salfiti). I servizi segreti di Hamas setacciano a tappeto gli ambienti dei salafiti, e compiono decine di fermi. Di interrogatorio in interrogatorio cresce la sensazione che nel delitto siano implicate forze esterne: integralisti giordani, ad esempio, o anche egiziani che speravano - con la cattura di Arrigoni - di liberare Abu el Walid al Maqdesi, il leader salafita protagonista di una serie di attentati nel Sinai.
Finora sono state arrestate due persone (quattro, secondo altre fonti), direttamente coinvolte nel rapimento. I servizi di sicurezza di Hamas - che pure sono specializzati nel contrabbando di armi dal Sinai verso Gaza - hanno adesso rafforzato i controlli lungo il confine per impedire la fuga dei ricercati nel senso inverso, da Gaza verso il Sinai.

l’Unità 19.4.11
Il congresso del Pcc chiede svecchiamento, ma i mandati pubblici restano di dieci anni
Lobbisti del turismo Sono loro i veri padroni dell’agenda politica nell’Isla Bonita
Cuba, tutto come prima Ma si taglia sul welfare

Vento cinese su Cuba o vento fermo, gattopardesco. È il dilemma su cui si chiude oggi il sipario del 6 ̊ congresso del Partito comunista cubano, il primo senza Fidel e con Raul che promette un ricambio ma pensa all’economia.
di Leonardo Sacchetti


Può la burocrazia sburocratizzarsi? Possono i geronto-dirigenti del Partito comunista cubano (Pcc) avviare il processo di svecchiamento anagrafico e di ringiovanimento politico? Sono questi i dilemmi che circondano la conclusione del sesto Congresso del partito dei fratelli Castro, con Fidel chiuso in casa e costretto a «scusarsi» per la sua assenza e Raul sul palco, indeciso se premere il tasto «riavvia» o cambiare direttamente pc.
Messa così, la discussione che si sta concludendo in queste ore a L'Avana appare quasi kafkiana. Ma è la realtà di Cuba tutta a rientrare in queste domande. Sono i dirigenti del Pcc a chiederselo: alcuni impauriti per l'avvicinarsi di un'ennesima purga, come quella che nel 2009 ha fatto piazza pulita dei “giovani talebani” come l'ex ministro degli Esteri, Felipe Pérez Roque, o l'ex vicepresidente, Carlos Lage. Spariti dalle prime pagine del quotidiano ufficiale Granma e, di conseguenza, spariti dal dibattito nazionale. Altri dirigenti, invece, non sembrano aver paura.
«Niente cambierà», è il refrain cubano del momento, parafrasando il Gattopardo. Due soli mandati come dirigenti per forzare un rinnovamento che, al momento, appare difficile.
Solo oggi, con la chiusura del congresso e con la votazione del documento finale, dopo 24 ore passate dai delegati a porte chiuse, sapremo cosa Raul vorrà fare dell'eredità di Fidel.
Intanto, fin dalla settimana scorsa, il dubbio kafkiano di questo sesto congresso ha ridato slancio alla critica e alla dissidenza cubana, ridotta ai minimi termini da questi ultimi mesi di stretta su Internet e di nuove misure detentive. «Il congres-
so che alcuni immaginavano di rifondazione, è arrivato con troppo ritardo e ha perso per strada moltre delle speranze che ha suscitato» è il giudizio senza appello della blogger Yoani Sanchez. «È il sorriso che ci salverà», conclude quasi a voler chiudere il prima possibile il capitolo congressuale e tornare a concentrarsi sulla realtà di una società sempre più giovane, sempre più preparata e sempre meno occupata.
BRACCIA PER I CAMPI
Non è un caso che proprio i pilastri della propaganda cubana – la sanità e il sistema educativo – vengano messi all'indice da una parte di quella nuova dirigenza che, parole di Raul, ha già fallito ma che tarda
a rendersene conto. Per rilanciare un'economia ormai vicina al blocco, il Pcc potrebbe infatti tagliare in questi due settori, nel tentativo di costringere i giovani a tornare all'agricoltura (il sogno dei geronto-dirigenti) o ad emigrare.
Perché l'economia dell'isola caraibica è ormai legata quasi totalmente al turismo (vera bussola ideologica, se è vero che ancora oggi chi controlla i pacchetti-vacanza degli stranieri controlla l'andamento dei congressi del Pcc) e alla rimesse provenienti dagli Usa. Rimesse anche di qualità: 1.600 medici cubani andati in Venezuela o in Africa per il programma internazionalista “petrolio in cambio di medici” hanno accettato le offerte del governo di Washington. L'Avana proibisce loro il ritorno sull'isola e anche i viaggi per tutta la loro famiglia. I lavoratori cubani, secondo il governo, sono oltre 5milioni (di cui 4,3 milioni occupati nel settore pubblico), con solo 157mila lavoratori «in proprio». Numeri che hanno spinto Raul a riprendere in mano l'opzione “agricola”, visto che almeno mezzo milione di persone, nel corso di questo 2011, perderanno il lavoro a causa dei tagli ventilati.

Repubblica 19.4.11
Psicofarmaci
Diagnosi "facili" e tante pillole così cambia la cura
Secondo l´Organizzazione mondiale della sanità l´efficacia degli antidepressivi si ferma al 60 per cento dei pazienti
Ti arrabbi? "Disregolazione del temperamento". Sei preoccupato se un familiare tarda? "Depressione ansiosa". Sogni troppo? "Rischio psicosi". Così il nuovo manuale psichiatrico rischia di medicalizzare tutto. A vantaggio delle "pasticche della felicità"
di Elena Dusi


Ma ci resterà qualcuno di normale?: è la reazione di Til Wykes, psichiatra del King´s College London, alla lettura delle bozze del nuovo "manuale della psichiatria", quel Dsm-V che detterà ai medici di tutto il mondo i criteri per le diagnosi e il trattamento dei loro pazienti. La quinta versione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Dsm-V appunto) è attesa per il 2013. «Ma osservando i lavori preparatori, già si capisce che i criteri per diagnosticare le malattie mentali saranno ulteriormente allargati, dando modo ai medici di prescrivere ancora più farmaci», commenta Paolo Cioni, ex responsabile del servizio di salute mentale nella Asl di Firenze, attuale docente della scuola di specializzazione in Psichiatria dell´università del capoluogo toscano e autore di Neuroschiavi (Macro Edizioni).
Le preoccupazioni di Cioni si concentrano sulla prescrizione di farmaci antidepressivi: «Negli Usa i casi trattati tra il 1987 e il 1997 sono triplicati. Ormai dal lettino non passa quasi più nessuno. È molto più semplice prescrivere un farmaco; ci sono anche meno rischi per i medici». Il National Center for Health Statistics americano racconta che negli Usa undici persone su cento seguono una terapia con farmaci antidepressivi (le donne sono quasi il triplo degli uomini). In Italia i dati (Rapporto Osmed 2010) sul consumo di medicinali segnalano che per ogni mille abitanti si consumano 27,2 pillole "della felicità". Il loro uso è triplicato tra il 1988 e il 2000 (Osservasalute 2010, università Cattolica) e la maggior parte delle prescrizioni arriva dai medici di famiglia. Ma che questi farmaci restituiscano la gioia perduta è vero solo a metà: secondo l´Organizzazione mondiale della sanità l´efficacia degli antidepressivi si ferma al 60 per cento dei pazienti che li assumono regolarmente.
«Il consumo di questi farmaci diventerà sempre più facile» prevede Cioni. «Il nuovo Dsm, che viene redatto dall´American Psychiatrical Association ma è adottato anche negli altri paesi, crea molta confusione sui sintomi. La normale demoralizzazione destinata a passare da sé non viene più distinta dalla depressione maggiore che invece va trattata dal medico. Nelle versioni precedenti, l´aver subito un lutto era considerato un criterio di esclusione per la diagnosi di depressione. Non c´è nulla di strano infatti nell´essere tristi dopo aver perso una persona cara. Ora invece il lutto stesso è diventato una causa di depressione». Le bozze della nuova versione del Dsm in effetti hanno una malattia per tutti. Basta un´arrabbiatura per cadere nel "disordine da disregolazione del temperamento". Un familiare non torna a casa per l´ora di cena e ci si trova affetti da "moderata depressione ansiosa". Sognando troppo si rischia una diagnosi di "sindrome da rischio psicosi". La "pandemia" delle malattie mentali ha una causa di fondo: la mancanza di criteri oggettivi per la diagnosi. Ma per Cioni, che ha parlato recentemente al convegno "Ai confini della mente e oltre", la neurofisiologia può venire incontro ai medici. «Esistono indicatori fisiologici che possono essere usati, come la misurazione dell´attività elettrodermica, che è ridotta nella depressione, le alterazioni del ritmo cardiaco e del tono simpatico, l´alterazione dell´elettroencefalogramma nel sonno o il fenomeno per cui, osservando scene spiacevoli, gli individui depressi non hanno reazioni normali come il trasalimento, che si misura tra l´altro con l´aumento del battito delle palpebre. Questi criteri vanno sicuramente approfonditi prima di essere considerati validi in assoluto. Ma hanno il vantaggio di togliere al medico la piena discrezionalità della diagnosi».
Il rischio è che la depressione finisca ancora di più negli ingranaggi del marketing delle aziende farmaceutiche. Nel libro Storia segreta del male oscuro (ne parliamo nell´articolo accanto, ndr), lo psicoterapeuta Gary Greenberg cita un esperimento del 2005 di Richard Kravitz, psichiatra dell´università della California. Kravitz prese alcuni attori e li mandò da 300 medici con l´obiettivo di simulare i sintomi di una depressione e farsi prescrivere un farmaco. Missione compiuta per il 53% di chi aveva domandato un prodotto ben preciso e per il 76% di chi si era limitato a chiedere un antidepressivo qualsiasi.

Repubblica 19.4.11
La provocazione di Greenberg: il male oscuro un’invenzione dei medici
Gli psicoterapeuti italiani "La chimica non basta"
di Luciana Sica


Un manifesto a favore del diritto ad essere infelici e una denuncia contro l´eccessiva medicalizzazione di ogni stato depressivo, la Storia segreta del male oscuro, un libro divulgativo e a tratti anche spiritoso. Lo ha scritto uno psicoterapeuta americano, Gary Greenberg, incline alla scrittura brillante che collabora con riviste come il New Yorker e Wired. La depressione - azzarda l´autore - altro non è che una "invenzione" dei medici, fondata sul mito che dipenda da un difetto biochimico e alimentata dall´incapacità generalizzata di reggere ogni vuoto melanconico. In una società fobica del dolore che ipotizza la vita come un eterno carnevale e la ricerca della felicità come il suo scopo principale, anche la tristezza diventa "depressione", una "malattia" da cancellare rapidamente, cosa c´è di meglio di uno psicofarmaco che restituisca almeno la possibilità di essere più "funzionali" e adeguati alla realtà?
Nel mirino del j´accuse di Greenberg sembrerebbero esserci i cognitivisti, per la loro fama di ricorrere spesso alle "medicine". Ma le cose stanno diversamente, a sentire un caposcuola del cognitivismo italiano come Giovanni Liotti: «La depressione al singolare non esiste, è un errore linguistico e concettuale. Ma ha ragione Greenberg: è vero che c´è un abuso di antidepressivi. Se non c´è niente che non sia genetico e niente che non sia "appreso", per dirla con Popper, bisognerebbe valutare il grado di inibizione del soggetto nella sfera professionale e affettiva, prima di prescrivere farmaci. Allo stato attuale delle ricerche, una combinazione tra una piccola dose di serotoninergico e una psicoterapia è comunque la via più sicura per arrivare a un sostanziale sollievo in tempi ragionevoli. Ma se una persona elabora l´esperienza depressiva senza l´aiuto del farmaco acquisterà senz´altro maggiore fiducia nelle proprie risorse».
Ancora più refrattari alle semplificazioni sono gli analisti, e in particolare Lucio Russo, "didatta" della Società psicoanalitica italiana. Anche la sua posizione potrà risultare sorprendente. «Non escludo l´uso degli psicofarmaci - dice - ma non delego mai esclusivamente a delle molecole chimiche la cura di chi sta male. Lo stato depressivo è affare nostro, della psicoanalisi. Serve una relazione transferale dove il paziente venga realmente "risostenuto". Non basta ricostruire il passato infantile, bisogna riviverlo nella cura e dare un senso alla propria storia. Noi analisti non lavoriamo per riadattare l´Io, per rieducare il pensiero e gli affetti: pensiamo che la nostra mente possa riparare i danni subiti laddove qualcosa si è interrotto o non è mai cominciato». E se il paziente è a rischio di suicidio? «Allora occorrono i farmaci, senza però che venga meno l´ascolto. La medicalizzazione, che denuncia Greenberg, è soprattutto una "difesa" dal farsi carico di una cura pesante, carica di diffidenza, di attacchi, di turbolenze emotive. Ma condannare un individuo a una carriera farmacologica è sempre una sconfitta per tutti».

Repubblica 19.4.11
Circolo vizioso che colpisce la sessualità


Aumenta il ricorso agli psicofarmaci e questo ci racconta come lo stress e la paura siano oggi presenti nelle "persone normali". La paura, l´angoscia, le crisi di panico, la depressione sono oggetto di una costante informazione sui mass media e sono presenti in modo significativo nella narrazione clinica. Per quello che riferisce al sesso, sappiamo che molti farmaci hanno riflessi collaterali sul desiderio, ma l´urgenza di trovare risposte al dolore, all´inquietudine, portano a sopportare le deprivazioni sessuali che si possono verificare. Le stesse disfunzioni sessuali sono curate con psicofarmaci, innestando un circolo vizioso. Esiste un uso improprio delle parole, una confusione tra depressione e malinconia, tra dolore per una delusione amorosa e pensiero che non dovrebbe esistere. La difficoltà nel gestire l´insoddisfazione e l´ansia da prestazione sono molto forti perché c´è una continua idealizzazione degli obiettivi da raggiungere. Nella consultazione individuale e di coppia è necessario ripetere spesso che il lutto psichico per una perdita affettiva ha bisogno di tempo, che mantenere e far funzionare le relazioni richiede una fatica emotiva. La tendenza all´uso di sostanze e di alcol vanno di pari passo con l´azzardo: si vivono esperienze che sono rese possibili dall´attenuazione del controllo e nello stesso tempo si usano farmaci perché diventa difficile gestire il dopo e saperlo relazionare al progetto di vita, al carattere. Si è imparato a chiamare malattia quello che è fatica di vivere, difficoltà di adattamento, mancanza di identificazione delle proprie vere scelte. I tempi troppo brevi impediscono la rielaborazione delle emozioni e il ricorso facile ai farmaci, per dimagrire, dormire, sedare l´ansia, risolvere l´ansia da prestazione sessuale possono impedire la comprensione dei fatti.
www.irf sessuologia.org

Repubblica 19.4.11
Il gene delkla felicità
Così le teorie scientifiche diventano letteratura
Con la mappatura del genoma abbiamo cominciato a pensare di poter riscrivere il libro della vita
Lo scrittore americano spiega com´è nato "Generosity" il suo ultimo romanzo che esce adesso in Italia
di Richard Powers


Da quando oltre dieci anni fa è stata completata la prima bozza dell´intero genoma umano, la storia di ciò che significa essere uomini è stata oggetto di ininterrotte revisioni. Accanto alla ricerca dei presupposti genetici di alcune comuni malattie, sono apparsi infatti sempre più di frequente alcuni interessanti studi - di attendibilità variabile - sull´associazione dei geni. Nel corso degli ultimi anni hanno fatto notizia nei media di tutto il mondo il gene dell´alcolismo, il gene dell´omosessualità, il gene dell´aggressività, il gene della depressione, il gene della paura, il gene dello stress, il gene della xenofobia, il gene dell´istinto criminale e il gene delle fedeltà. Nel bene come nel male, abbiamo iniziato a leggere il libro della vita, pur avendo al contempo iniziato a credere di poterlo riscrivere a nostro piacimento.
Generosity racconta la storia di una giovane algerina, resa orfana dalla brutale e ininterrotta guerra civile di quel Paese, profuga in tre continenti, che finisce in una scuola d´arte di Chicago dove ha modo di apprendere a realizzare film d´animazione. Con grande stupore di tutti coloro che la conoscono, la giovane non evidenzia segno alcuno d´ansia, di depressione o di stress, normale in chiunque abbia vissuto analoghe esperienze devastanti. La giovane lascia trapelare al contrario un´esuberanza indefettibile. È semplicemente, tenacemente, luminosamente felice. Possiede quel genere di felicità che i figli dell´abbondanza, della sicurezza e del privilegio sono smaniosi di possedere. L´insegnante di un corso di scrittura creativa " non-fiction" al quale la giovane si iscrive, temendo che lei possa soffrire di qualche tipo di ossessione post-traumatica, contatta uno dei consulenti del college, che arriva alla conclusione che la ragazza sia affetta da una rara condizione sempre più comunemente definita "ipertimia", un´esagerazione prolungata dell´euforica sensazione di benessere generale, riservata a pochi fortunati.
La giovane algerina desta l´interesse di un ricercatore esperto di genetica che crede nel transumanesimo - la convinzione che la scienza della vita sia vicina ad affrancare la razza umana dai capricci dell´eredità genetica, offrendole libertà di scelta. Questo ricercatore genetico inserisce l´euforica giovane algerina nel suo studio sui collegamenti tra geni e benessere emotivo. È lei a inaugurare la curva massima, confermando l´intuizione del ricercatore che si basa sull´individuazione da parte del suo staff di un gruppo di geni responsabili in grandissima parte dell´indole affettiva - stimata in modo variabile tra il 50 e l´80 per cento - e che si eredita direttamente dai propri genitori. Quando i risultati della ricerca arrivano alla stampa, i giornalisti annunciano ciò che noi tutti sappiamo che comparirà presto negli aggregatori di notizie, in un qualsiasi momento dei prossimi mesi: il sistema a lungo cercato e a lungo inafferrabile dei geni della felicità. I blog si scatenano. Si propone di impiegare alcune tecnologie particolari quali lo screening e la selezione dei geni prima di effettuare un eventuale impianto. La razza umana pare vicina a fare della felicità un altro dei vantaggi che si crede possano ormai essere garantiti ai propri figli...
Anche se il romanzo è attualmente finalista al Premio britannico Arthur C. Clarke per la fantascienza, credo che sarebbe meglio considerarlo un´opera di scienza-verità (gioco di parole altrimenti intraducibile tra "science-fiction" = fantascienza e "science-faction", dove "faction" è contrazione di fact = verità e fiction = romanzo, ndt), una satira sociale su ciò che accade allorché la comprensione di una nuova scienza da parte dell´opinione pubblica è fuorviata da un settore biotech che fa l´impossibile per immettere sul mercato nuovi prodotti. In quanto tale, volevo che il libro fosse quanto più accurato possibile dal punto di vista scientifico. Pertanto, mentre scrivevo il romanzo, ho avuto la straordinaria occasione di poter diventare la nona persona al mondo a farsi sequenziare l´intero genoma. Ho preso un aereo per Boston, uno dei centri negli Stati Uniti nei quali è in corso la rivoluzione biotech. Lì mi hanno prelevato quattro fiale di sangue. Una volta concentrato e purificato, il mio sangue è stato spedito in Cina dove un centinaio di esperti tra scienziati e tecnici di laboratorio ha lavorato per quattro mesi consecutivi a produrre cinque sequenze complete dei sei miliardi di coppie di basi del mio Dna. Questo immenso volume - l´intero patrimonio genetico di - mi è tornato indietro su una funzionale memory card, esattamente identica a quelle che si utilizzano per conservare una copia di tutte le foto della propria famiglia.
Il mio navigatore genetico Usb mi permette di analizzare ogni paio di basi del mio Dna, di verificare la presenza o l´assenza di tutti i fattori di rischio genetici conosciuti, di collegarmi online alle ricerche più aggiornate riguardanti ogni variante che possiedo. Dalle sequenze del mio Dna risulta la presenza di oltre 51.000 varianti genetiche mai riscontrate finora nella letteratura scientifica, ma naturalmente il loro numero calerà rapidamente non appena altre persone si faranno sequenziare il proprio patrimonio genetico. Ho così scoperto di possedere il gene dell´originalità, che torna davvero molto utile a uno scrittore. Ho appreso che dovrei essere per alcuni aspetti resiliente allo stress e per altri aspetti soggetto alla depressione. Possiedo tre geni che risultano correlati a un´intelligenza notevole - fatto che mi risulta gratificante sapere, in modo alquanto stupido! Possiedo geni che fanno di me un candidato davvero poco ideale per l´assunzione di Coumadin (anticoagulante e fluidificante del sangue, ndt), e geni che aumentano il rischio di soffrire di propositi suicidi derivanti dall´assunzione dell´antidepressivo Citalopram.
Leggendo il mio genoma e scrivendo Generosity ho appreso parecchie cose. Ho avuto un´illuminazione riguardo a tutto ciò che dobbiamo ancora apprendere sulla misteriosa interazione tra patrimonio ereditario e ambiente. Ho avuto l´opportunità di vedere le antiche fantasie di previsione e verifica tuttora soggiacenti alla nostra idea dell´Io nell´era post-genetica. Abbiamo sempre desiderato "riscriverci". Generosity riguarda quel particolare momento nella lunga storia umana in cui per la prima volta abbiamo iniziato a capire come quel trucchetto possa riuscirci.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2011 Richard Powers

l’Unità 19.4.11
Luoghi & parole Il poeta che visse lunghi periodi a Chia, «il paesaggio più bello del mondo»
Il racconto di chi lo conobbe qui: «Ce l’ho scolpito nella mente... organizzò una partita di calcio»
Sulla torre di Pier Paolo Pasolini alla ricerca dei segreti perduti
Qui girò «Il Vangelo secondo Matteo», qui scrisse «Petrolio». Siamo andati a cercare la torre di Chia, vicino Bomarzo. La nipote Graziella: «Lui amava questo posto, che gli amici definivano un posto da lupi...»
di Sandra Petrignani

«Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti, /che io vorrei essere scrittore di musica, / vivere con degli strumenti / dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare,/ nel paesaggio più bello del mondo...» scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1967 nel finale del poema autobiografico Poeta delle Ceneri. La torre di Viterbo è in realtà la Torre di Chia, o castello di Colle Casale, vicino a Bomarzo, che Pasolini riuscì ad acquistare tre anni dopo. Dentro le mura del castello, risalente al 1200 e appartenuto, nel corso dei secoli, agli Orsini, ai Lante della Rovere, ai Borghese, il terreno era stato convertito a orti e pascolo. Il progetto di restauro, affidato all’amico scenografo Dante Ferretti, è un capolavoro di integrazione nel paesaggio, una casa di pietra e di vetro mimetizzata fra le rocce e nel verde di un dirupo.
Si vede quel paesaggio nel Vangelo secondo Matteo. Pasolini andò a girare nei dintorni di Chia, sulle rive dell’omonimo torrente, sotto il castello, la scena del battesimo di Gesù con lo scrittore Mario Socrate nei panni di Giovanni Battista. Era il 1963 e s’innamorò subito della terra dura e antica, del cielo turbinoso attraversato dalle cornacchie. Quegli uccellacci neri si appostavano sull’alta torre luogo di vedetta per soldati medievali rompendo i silenzi tenebrosi con il loro gracchiare rauco.
Il 19 marzo la casa è stata aperta a pochi amici, qualche autorità e al gruppo archeologico Roccaltìa, che molto s’impegna per rivalutare e scoprire i siti archeologici della zona, e vi è stato allestito un buffet di delizie locali. Si scopriva anche un busto dello scrittore e una lapide con incisi i suoi versi per Chia nella piazza centrale della cittadina e si festeggiava l’appena approvato Parco Letterario a lui intitolato. La casa-torre è appena fuori dal centro abitato, in mezzo a un bosco, bisogna camminare mezzo chilometro per raggiungerla dalla strada.
Qui stava scrivendo il romanzo rimasto incompiuto, Petrolio, quando venne assassinato all’idroscalo di Ostia. Vi passava lunghi periodi in solitudine, che però interrompeva volentieri partecipando alla vita del circondario o per ricevere gli amici. La nipote, Graziella Chiarcossi, ricorda di una volta che vennero alcuni ragazzi dei dintorni e gli raccontarono i loro sogni.
Fra un pasticcio di pasta e una polpettina Walter Veltroni, che più tardi presiederà all’inaugurazione del busto realizzato dallo scultore locale Gianluca Bagliani, ricorda com’era la casa trent’anni fa, quando venne a Chia, segretario della Fgci romana, insieme a Laura Betti, Bernardo Bertolucci, Ettore Scola e Maurizio Ponzi che dovevano realizzare per il cinema Il silenzio è complicità, ritratto del poeta. La casa allora somigliava di più al suo proprietario, ogni stanza affacciava direttamente sull’esterno attraverso una grande vetrata, la cucina era piccolissima tanto non gli interessava, non sapeva cucinarsi nemmeno un uovo, «era una casa emotiva, molto vicina alla sua poetica» la descrive Veltroni. Qualche cambiamento c’è stato, «per renderla più comoda, più abitabile» spiega Graziella. La famiglia è aumentata, i giovani hanno avuto figli e gli spazi pensati per un uomo sostanzialmente solo non bastano più. Mi guida su per una  scala a chiocciola che porta in cima alla torre a due piani fino al solaio dal tetto di vetro. Lei dormiva al primo piano perché le stanze accanto alla porta d’ingresso erano occupate una da Pasolini, che aveva camera e studio contigui, l’altra dalla madre Susanna, che nel Vangelo è una Maria dolorosissima.
Dei mobili originali è rimasto solo un comò in marmo e bambù; tutto il resto, preziosi arazzi portati dal Nepal, divani in pelle e reperti antichi, è stato rubato o distrutto con atti di vandalismo quando ancora era in vita Pasolini.
«Eppure lui amava questo posto, che gli amici definivano un luogo da lupi» dice ancora Graziella. Era a suo agio nella «bruma azzurra della grande pittura nordica rinascimentale» che avvolgeva Orte (e la non lontana Chia), come disse in una trasmissione televisiva dedicata alla forma delle città. Di Orte amava «la forma perfetta e assoluta» e dell’umile Chia si preoccupava di proteggere «il passato anonimo, popolare» perché è troppo facile, diceva, «difendere i monumenti e le opere d’arte». Anche nei restauri della Torre si preoccupò di «rispettare il confine naturale fra la forma della costruzione e la forma della natura circostante», era la sua poetica e la sua politica.
Era un solitario Pasolini («Ora io non sono più un letterato, /evito gli altri, non ho niente a che fare/ coi loro premi e le loro stampe» scriveva nel Poeta delle Ceneri), che amava coinvolgersi nella vita intorno, si preoccupava delle antiche pietre, degli alberi. Il sindaco di Chia, Domenico Tarantino, ricorda precisamente la prima volta che lo vide nel campo sportivo di Soriano. «Ce l’ho scolpito nella mente, anche se avevo solo otto anni. Pasolini aveva organizzato una partita di calcio e giocava senza risparmio. Era in gran forma fisica». E Terzo Canilli di anni ne aveva 13 quando faceva compagnia a suo zio, custode del castello, e incontrò quel regista magro e scavato che girava il Vangelo. Anni dopo, se lo ritrovò davanti che gli chiedeva di visitare il posto. «E io che non facevo passare nessuno, lo accompagnai in giro. Era così simpatico e gentile». E ricorda una volta che Pier Paolo arrivò carico di piante e le disseminò per il paese «per renderlo più bello», e una festa favolosa di Capodanno nella casa-torre, e «quando con una massa di gente lui venne a una festa di piazza e si misero tutti a ballare». E quando bandì, nel ’74, il concorso Case di Chia nel verde con tanto di premi in denaro per stimolare gli abitanti ad abbellire la cittadina riempiendola di lecci, allori, ulivi perché, come si legge nel bando, redatto di suo pugno con le correzioni a margine del foglio: «Chia è sorta disordinatamente... Bisogna urgentemente provvedere a un miglioramento estetico dell’abitato».
E ancora a Chia dedicò alcuni ultimi versi della Nuova gioventù: tornando sorprendentemente al dialetto friulano degli esordi, «Il soreli a indora Chia/ cui so roris rosa, / e i Apenìns a san di sabia cialda» (Il sole indora Chia con le sue querce rosa e gli Appennini sanno di sabbia calda). Ma i contadini di una volta non ci sono più, se ne sono andati – dice la poesia – «e là dov’erano, non resta neanche il loro silenzio».

il Riformista 19.4.11
La verità di Franzinelli sui falsi diari del duce
di Federico Fornaro

8

il Riformista 19.4.11
Habemus Solam. Il più brutto film del regista
Ma è Moretti o Don Matteo?
di Stefano Cappellini

http://www.scribd.com/doc/53321531

Terra 19.4.11
«Il Vaticano è ancora convinto di poter ignorare le leggi laiche»
di Federico Tulli

http://www.scribd.com/doc/53321588

lunedì 18 aprile 2011

l’Unità 18.4.11
Moderazione, è finito il tempo
di Silvia Ballestra


Con buona pace di coloro che insistono sulla sterilità dell’antiberlusconismo, che chiedono di capire le “ragioni” degli avversari, questo fine settimana ha risolto la questione. Il padrone ha parlato chiaro: no alla scuola pubblica che sforna cittadini invece che clienti. No alla magistratura che lega le mani al potere politico anche a fronte di reati. La rivendicazione di una legislazione ad personam. In più, quegli “sportelli del cittadino” che dovrebbero legare a un partito (il suo) questioni di vita e lavoro sotto forma di “assistenza agli italiani”, una specie di partito “sovietico” che controlla l’esistenza di tutti. Tirate le somme del berlusconismo così ben descritto da Berlusconi, la questione è risolta: il sapore vagamente golpista dell’uomo e la sua visione del mondo sono esattamente tutto, ma proprio tutto, il contrario di quello che un cittadino democratico, avvertito, pluralista, garantista e consapevole vuole e desidera dal suo paese. Oggi, nel momento in cui un potere dello Stato definisce “brigatista” un altro potere dello Stato (e non parlo dei noti vergognosi manifesti, ma delle esternazioni di Berlusconi, altrettanto vergognose), per la mediazione non c’è più posto. Ogni posizione “moderata” e dialogante è stata espulsa dal dibattito: o si vince o si perde. È bene saperlo, come è bene sapere che rincorrendo una mitologica “moderazione” di Berlusconi si è perso tempo prezioso. Può far paura un paese dove esiste una forte contrapposizione, ma ci sono tempi in cui la contrapposizione è necessaria e doverosa. E i tempi sono questi, Berlusconi ce l’ha detto chiaro e tondo. Per una volta, crediamogli.

l’Unità 18.4.11
Apriamo le finestre
di Giovanni Maria Bellu


Terrorista istituzionale? Analfabeta    civile? No, basta. Il vocabolario italiano, nonostante la sua ricchezza, non ha un numero di aggettivi adeguato a definire Silvio Berlusconi negli spot quotidiani della sua escalation eversiva. Tra l'altro alcuni di questi aggettivi, i più appropriati, potrebbero configurare reati che non val la pena di commettere. Non solo perché noi giornalisti non beneficiamo di leggi ad personam, ma soprattutto perché non vogliamo correre il rischio di ispirare ad Angelo Panebianco l'ennesimo sermone sulle «ragioni degli altri» (vedi il Corriere della sera di ieri) e sulla «inimicizia tra le fazioni» come fondamentale «problema italiano». Anche se saremmo curiosi di vedere come l'ecumenico editorialista reagirebbe se il leader di una parte a lui avversa (anche Panebianco, almeno ogni tanto, starà pure da qualche parte!) lo definisse come Silvio Berlusconi ha definito gli elettori del centrosinistra.
Il premier è nel pieno di una disperata campagna elettorale. Ieri ha trasformato Milano nell'ultima trincea. La verità è che se Lega e Pdl perdessero il capoluogo lombardo il governo sarebbe finito. Così l'astuto tenta di trasferire questa condizione sul centrosinistra e di rendere “epocale” una vittoria eventuale che, fino a pochi mesi fa, era data quasi per certa. Per far dimenticare che di “epocale” a Milano ci sarebbe solo la sua sconfitta.
Il timore di perdere le elezioni gli ha fatto anche perdere i residui freni inibitori. Ha smesso di nascondere i suoi vizi: li mette in piazza. Da qualche tempo (con l’evidente scopo di banalizzare l'accusa di prostituzione minorile) ogni volta che può scherza sul bunga bunga. Ieri ha aggiunto al repertorio le sue «due famiglie» (ma la fidanzata che fine ha fatto?) come dimostrazione del suo amore per la famiglia. E non è affatto escluso che prossimamente passi alla difesa della falsa testimonianza come suprema manifestazione di libertà di coscienza e della corruzione come strumento per la redistribuzione del reddito. D'altra parte ha già definito “eroe” un killer di mafia.
Siamo davanti a una situazione patologica e non a un ordinario problema politico. Il Paese è guidato da un pericoloso irresponsabile e corre il rischio di dover sopportare questa situazione ancora per un bel po' di tempo. Così oggi abbiamo pensato di aprire le finestre. E continueremo a farlo tutte le volte che sarà possibile. Apriamo tutti le finestre per ricordarci che siamo un grande Paese, popolato da milioni di persone che lavorano in modo onesto e che chiedono solo di poter continuare a farlo. Abbiamo superato momenti ben peggiori di questo. Abbiamo avuto esperienza di ben più tragici pagliacci. E ce ne siamo liberati. Ci libereremo (sì, con gli strumenti della democrazia) anche di Silvio Berlusconi e della sua squallida corte.
Oreste Pivetta ha intervistato Carlo Smuraglia, classe 1923, da una settimana presidente dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, la gloriosa Anpi che, dal 2006, si è aperta ai giovani e raccoglie tra loro adesioni crescenti. Smuraglia ci dice poche cose chiare: dobbiamo informare, dobbiamo spiegare bene le cose. E siccome i mezzi dell'avversario sono soverchianti, dobbiamo impegnarci tutti, uno per uno. Con gli strumenti che la Costituzione ci dà, quindi anche con la mobilitazione nelle piazze, come di recente hanno fatto le donne italiane. La situazione in cui il Paese si trova è molto complicata, ma per chi ne ha coscienza richiama doveri semplici e antichi: ognuno di noi, nel suo ruolo, agisca da cittadino democratico.

l’Unità 18.4.11
Intervista a Carlo Smuraglia
«Cari giovani reagite, mobilitatevi. Non è il paese che sognavamo»
Il neo presidente dell’Anpi «Bisogna spiegare, e smascherare le bugie Una manifestazione come quella delle donne è la prova che si può cambiare
di Oreste Pivetta


Dagli insulti ai magistrati, dalle offese ripetute alla istituzioni, dall’assalto alla Costituzione all’occupazione della televisione pubblica, ai nuovi attacchi nei confronti della scuola pubblica: è il quadro di un paese, che vive alcuni tra i suoi giorni peggiori, che deve assistere a una messinscena, dal copione ormai risaputo, ripetuto, noioso, che frastorna però, che confonde le idee, che nel frastuono continuo maschera le minacce alla democrazia. Carlo Smuraglia cita Carlo Azeglio Ciampi: non è questo il paese che sognavamo. Non è il paese che volevano quanti si sono battuti contro il fascismo e contro il nazismo, non è il paese che attraverso la sua carta costituzionale si garantiva un futuro di libertà, lasciandosi alle spalle le macerie dell’oppressione.
Carlo Smuraglia, una vita di studio e di politica, è diventato presidente dell’Anpi, a una settimana da un altro 25 Aprile, che torna a dirci quanto attuali e quanto vivi siano quei valori e quei principi per i quali si combattè ormai più di un sessantennio fa.
Professor Smuraglia, vorrei cominciare dall’altro ieri quando a Milano sono apparsi quei manifesti infami: «Via le br dalle procure». Se lo sarebbe mai aspettato?
«Non me lo sarei aspettato. Forse ce lo saremmo dovuti aspettare. Si è oltrepassato ogni limite, ma c’erano i segni. Non dimentichiamo certe manifestazioni davanti al tribunale di Milano e certi giudizi del nostro presidente del Consiglio, il quale semplicemente e volgarmente insulta: non si dica che esercita un inalienabile diritto di critica. Leggo che a proposito di quei manifesti è stata aperta una inchiesta. Quei manifesti, che chiamano in ballo il brigatismo per reagire a processi del tutto normali, comuni, niente di politico, sono istigazione all’odio, all’odio nei confronti delle istituzioni, quei manifesti sono anche materia da codice penale...».
Nel senso che quei manifesti valgono un reato punibile dal codice penale? «Nel codice penale molte voci sono state depennate in nome della libertà di opinione. In questo caso si potrebbe parlare di vilipendio alle istituzioni, punibile sì, ma con una multa, una multa che lascia ovviamente del tutto indifferente chi firma quelle iniziative.
Nulla di più. Comunque, evidente è che la risposta debba essere politica e debba essere una risposta forte e che la risposta non possa essere solo del presidente della Repubblica, che tante volte ha richiamato i protagonisti della nostra contesa politica a moderare i toni, a rispettare le regole, invitando al dialogo. Tante volte e sempre, purtroppo, inascoltato. La risposta deve essere forte e di tutti, di quanti ancora credono nella democrazia, una risposta all’altezza perché il problema non sono solo quei manifesti, il problema sono le azioni, sono le parole, sono i comportamenti che hanno istigato qualcuno a quelle scritte. Non ci sono solo gli insulti ai magistrati e alla magistratura. Ci sono gli attacchi alla scuola e la commissione d’inchiesta sui libri di testo. C’è l’intenzione di controllare l’informazione (compresa la televisione pubblica). Ci sono tanti altri episodi che danno evidenza al degrado culturale e politico. Basterebbe pensare alle divisioni che si sono manifestate quando si è trattato di decidere come celebrare l’Unità d’Italia. Basterebbe ricordare la proposta di legge presentata da alcuni parlamentari per abolire la norma transitoria della Costituzione che vieta la ricostituzione del partito fascista: non credo che si possa temere in questo momento la ricostituzione del partito fascista, ma evidentemente c’è chi pensa al futuro e crede invece possibile un ritorno al fascismo, magari in chiave populista».
Il pericolo, allora, c’è?
«Credo che l’Anpi debba aiutarci a tenere desta la nostra attenzione, a tenere desta la nostra coscienza critica, richiamandoci alla storia e allo spirito della nostra Costituzione, impegnandoci tutti perché la Costituzione venga attuata, sapendo che se si affonda la Costituzione si affonda il tessuto democratico di questo paese. Insultare le istituzioni significare scegliere lo sbandamento delle coscienze e il deterioramento della vita collettiva, significa invitare il cittadino a infischiarsene delle istituzioni e quindi delle regole». Come reagire? «Intanto dobbiamo reagire alla cattiva informazione. Gustavo Zagrebelski faceva opportunamente notare che le falsità ripetute diventano il cancro della società. Dobbiamo smascherare le falsità e se non possiamo contare sempre sui giornali o sulla televisione (quella pubblica peraltro) dobbiamo pensarci noi, noi dell’Anpi, noi delle libere associazioni democratiche, noi cittadini comuni. Informare significa ad esempio spiegare e far capire che la gravità del caso Ruby non sta solo nelle oscenità che possiamo immaginare ma soprattutto nella telefonata di un capo del governo in questura: così salta davvero il rapporto corretto tra le istituzioni, così si inquina... Informare significa contribuire a vincere l’indifferenza dei tanti, che non stanno con Berlusconi, ma non si sentono impegnati, perché sono sfiduciati, perché sono rassegnati. La nostra deve esser una battaglia contro la rassegnazione».
Si può cambiare qualcosa?
«Una manifestazione come quella romana delle donne è la prova che si può cambiare. Ma dobbiamo insistere. Mobilitare le coscienze è il nostro imperativo, mobilitare facendo intendere che cosa nascondono la riforma epocale della giustizia, l’aggressione alla Corte costituzionale, il rifiuto di un uomo di presentarsi ai processi che lo riguardano, che cosa nascondono persino le barzellette del premier, e che cosa significa per noi un parlamento bloccato settimane a discutere di leggi personali, mentre si dovrebbero affrontare temi come la crisi economica, la guerra in Libia, l’arrivo dei migranti sulle nostre coste. Dovremmo far capire che non stiamo vivendo una giornata normale in un paese normale». Vengono in mente quei giorni del 1945...
«Avevo vent’anni e scelsi di combattere contro i nazifascisti. Ero nelle Marche e quando arrivarono gli alleati rientrai nell’esercito, caporal maggiore, ottava arma ta divisione Cremona. Risalimmo la penisola, arrivammo a Ravenna, ad Alfonsine sostenemmo una battaglia terribile. Alfonsine venne rasa al suolo. Passammo e fummo a Padova e poi a Venezia: noi, gli americani, i polacchi, i partigiani di Bulow...».
L’Anpi è anche dei giovani adesso...
«Da quanto, dal congresso del 2006, aprimmo le iscrizioni a quanti non avevano combattuto: prima arrivarono persone di mezza età, poi arrivarono i ragazzi. Per noi si poneva una questione, amara in un certo senso, di ricambio generazionale, per loro, per quei ragazzi, l’Anpi era il luogo di una storia antifascista che doveva continuare... perché crediamo ancora nel paese che sognavamo».

l’Unità 18.4.11
Intervista a Carlo Federico Grosso
«Il premier offende ma il vilipendio scatta solo con l’ok di Alfano»
Il giurista «Berlusconi denuncia continuamente il potere giudiziario. È gravissimo. Ma per il codice l’accusa scatta solo se lo vuole il Guardasigilli»
di Claudia Fusani


Professor Grosso, ci si interroga sulle continue esternazioni del Presidente del Consiglio contro la magistratura. Un potere dello stato, l’esecutivo, contro un altro potere, quello giudiziario definito a più riprese dal premier “eversivo”. Tutto questo senza conseguenze?
«Ciò che sta accadendo è assolutamente intollerabile. Da un punto di vista giuridico però la questione è complessa. E dopo una consultazione comparata dei codici e della nostra Carta costituzionale, sono arrivato alla conclusione che, nonostante la gravità dei comportamenti, non esiste uno strumento penale efficace per far desistere il Presidente del Consiglio dal dire quello che sta dicendo».
Berlusconi accusa quotidianamente la magistratura di compiere attività «eversiva» contro di lui. Ripete che «vogliono farlo fuori con i processi».
«Se crede che la sue accuse abbiano un fondo di verità abbia il coraggio di denunciare nelle sedi opportune, che non sono i comizi elettorali, indicando situazioni, particolari e persone». Se invece sono campate in aria.... «Allora queste ripetute esternazioni vanno inquadrate in un contesto di delegittimazione sistematica e continua di un potere dello stato contro un altro potere dello stato. Politicamente e giuridicamente questo è molto grave».
Cosa è possibile fare?
«Ho consultato i codici alla ricerca di strumenti adeguati. Ma non ne ho trovati. Prendiamo l’articolo 283 del codice penale che riguarda gli attentati agli organi dello Stato. E’ stato modificato nel 2006. Prima recitava: “Chiunque commette un fatto diretto a mutare la costituzione dello Stato, o la forma del Governo, con mezzi non consentiti dall'ordinamento costituzionale dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni”. La modifica ha inserito “con atti violenti” e ha abbassato la pena a cinque anni”».
La violenza delle parole non è assimilabile ad atti violenti? «Direi di no». Perchè fu modificato?
«Su imput leghista. In quegli anni il Carroccio aveva guai giudiziari per l’articolo 283.... Più in generale si può dire che nel capitolo del codice dedicato ai delitti contro la persnalità dello stato, non mi pare ci possa essere nulla di riferibile alla situazione attuale. Lo dico meglio: la delegittimazione per quanto sistematica ma sempre a parole purtroppo non è sufficiente per far scattare un’incriminazione di questo genere. La dico ancora meglio: lo Stato ha scaricato la pistola».
Roberto Lassini, l’ideatore dei manifesti “Fuori le Br dalle procure”, è stato indagato per vilipendio. «Certo, l’articolo 290, ci stavo arrivando, vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e dell’ordine giudiziario».
Reato d’opinione...
«Che punisce con la multa faccio notare la mula da 1000 a 5000 euro chiunque pubblicamente vilipende la Repubblica, le assemblee legislative o il Governo o la Corte costituzionale o l’ordine giudiziario. In ogni caso per procedere è necessaria la richiesta di autorizzazione del ministro di Grazia e Giustizia».
Codice penale spuntato?
«Resterebbe forse spazio per la diffamazione. Comunque anche qui poca cosa. Più in generale quando si verificano situazioni di contrasto anche fortissime tra poteri dello stato il codice penale è strumento improprio». E la Carta costituzionale?
«Ci sono i poteri che la Carta riconosce al Presidente della Repubblica. Egli ha il potere di vigilare sul buon funzionamento degli organi costituzionali. La vigilanza si può però specificare solo con strumenti di moral suasion efficaci se i destinatari sono propensi ad ascoltare. Il Presidente può anche inviare i messaggi alla Camere che però non ne sono vincolate».
Anche il Quirinale quindi, pur in un momento così drammatico, ha strumenti spuntati? «Il Presidente oggi è forse l’unico riferimento morale forte di questo paese. L’auspicio è che questa forza morale e il suo indiscutibile prestigio riescano a disinnescare il dramma istituzionale che il Paese sta vivendo».

l’Unità 18.4.11
Allarme Il presidente Anm Palamara: «La delegittimazione quotidiana è pericolosa»
Cascini «Ormai è uno scempio delle istituzioni». Perché i ministri «non dicono nulla?»
Toghe a congresso straordinario contro gli attacchi di Berlusconi
di Claudia Fusani


Per l’Associazione nazionale magistrati ormai è allarme democrazia. Con toni più o meni diretti, il Presidente del sindacato delle toghe Luca Palamara e il segretario Giuseppe Cascini lanciano l’allarme («Il premier sta spingendo il Paese ad avvitarsi in una spirale senza via d’uscita») per la tenuta democratica del paese. Sono giorni durissimi per la magistratura continuamente sotto attacco con toni ogni giorno più duri ed espliciti da eversori e brigatisti sono state declinate tutte le possibili sfumature anche perchè, come ha confidato il premier, «il conflitto con le toghe e il farsi vedere nelle aule di giustizia fa crescere il suo gradimento».
Il presidente Palamara ha l’obbligo di tenere toni allarmati ma bassi. Tenta un’analisi politica della situazione. «L'escalation di attacchi e denigrazioni che subiamo ogni giorno dice è legata alle elezioni amministrative e ai processi giudiziari in corso. E’ chiaro che il presidente del Consiglio sta sfruttando entrambe le cose per trascinare la magistratura su un terreno di contrapposizione che non le appartiene».
Lo sforzo istituzionale di Palamara, però, pare scontentare le correnti di sinistra dell’Anm. E’ quasi certo sai che Md e Movimenti chiederanno un congresso straordinario anticipato proprio per rispondere in modo adeguato agli attacchi. Più esplicito infatti è il segretario dell’Anm, Giuseppe Cascini, rappresentante di Magistratura democratica. Cascini, ieri ospite di “In mezz’ora” di Lucia Annunziata, ha fatto appello ai ministri dell’Interno, della Giustizia
e degli Esteri affinchè blocchino gli attacchi del premier contro i giudici. «L’anomalia più grave ha detto è che si assista a questo spettacolo, a questo scempio delle istituzioni senza che si reagisca». Cascini va al di là delle opposizioni politiche che non possono essere interlocutori del sindacato delle toghe in questa fase così delicata. Si rivolge invece alle isti-
tuzioni, ai ministri della Repubblica con con incarichi di primo piano nella vita del paese e si chiede perchè «chi ha queste responsabilità non si ribella a quello che vede e sente ogni giorno». Oggi l’Anm incontrerà il presidente della Camera Gianfranco Fini. Incontro già in calendario da tempo, dopo il Presidente della Repubblica e dopo il presidente del Senato Renato Schifani. Il sindacato delle toghe è in stato di agitazione da due mesi, da quando è stata presentata la riforma costituzionale della giustizia. Non ha ancora deciso come rispondere. E’ chiaro che a questo punto uno sciopero servirebbe a molto poco.

Repubblica 18.4.11
La maggioranza lontana dalla democrazia
di Stefano Rodotà


Siamo di fronte ad una aggressione continua, manifestazione pericolosa di una ossessione quotidiana di un presidente del Consiglio che, privo da sempre del senso delle istituzioni, affida la propria sopravvivenza alla riduzione d´ogni istituzione ad un cumulo di macerie. La sua furia si nutre di insinuazioni, minacce, aggiunge all´attacco alla magistratura, abituale oggetto polemico, un nuovo affondo contro la scuola pubblica.
In questi giorni la Repubblica italiana sta prendendo congedo dall´Europa e dalla sua stessa Costituzione. Sta così tagliando le proprie radici. Non siamo solo di fronte ad una crisi istituzionale e politica, pur profondissima. Sprofondiamo in un tunnel oscuro, diviene sempre più evidente una "tirannia della maggioranza" ben al di là dei timori manifestati da Alexis de Tocqueville, perché la perversa legge elettorale maggioritaria e la sciagurata deriva verso il bipolarismo hanno separato i "designati" dai cittadini, hanno fatto perdere al Parlamento la sua virtù rappresentativa.
Ha scritto un filosofo liberale, Ronald Dworkin, che «l´istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far rispettare il diritto, dev´esser ancor più sincera».
Questi principi non scritti, ma fondativi della città democratica, sono ormai estranei al modo d´essere dell´attuale maggioranza. E forse la stessa nozione di maggioranza parlamentare ha perduto il suo significato storico, poiché siamo di fronte ad una semplice propaggine del potere di un autocrate, che premia famigli e designa successori, riceve suppliche da chi vuole andare ad occupare qualche posto di governo, dispone delle cariche pubbliche come di un pezzo del suo patrimonio personale.
Compiuta la prima fase della sua alta missione con l´edificazione di un muro a tutela della sua persona, il presidente del Consiglio annuncia ora una inquietante e pericolosa "fase due". Possiamo legittimamente chiamarla "decostituzionalizzazione". Questo è il tratto che unisce le proposte che dovrebbero segnare l´imminente stagione legislativa, nella quale si vuole sfruttare la spinta propulsiva delle radiose giornate del processo breve. Si tratta dell´«epocale» riforma costituzionale della giustizia, del minaccioso ritorno della legge bavaglio sulle intercettazioni, della disciplina ideologica e proibizionista del testamento biologico.
La riforma della giustizia, infatti, vuole in primo luogo rendere disponibile per i voleri della maggioranza l´intero sistema giudiziario. Questo non avviene soltanto attraverso una crescita complessiva del peso della politica in snodi fondamentali. Il punto chiave della riforma è rappresentato dal fatto che materie oggi affidate ad una diretta garanzia costituzionale vengono trasferite alla legislazione ordinaria. Due esempi. Nell´attuale articolo 112 della Costituzione si stabilisce che: «Il pubblico ministero ha l´obbligo di esercitare l´azione penale». La riforma proposta dal Governo aggiunge le parole «secondo i criteri stabiliti dalla legge»: sarà dunque la maggioranza del momento a stabilire in quali casi il pubblico ministero può indagare. Nell´attuale articolo 109 si stabilisce che «l´autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria». La riforma proposta dal Governo prevede che «il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge»: sarà dunque la maggioranza del momento a determinare le informazioni di cui i magistrati potranno disporre. Il mutamento è radicale, la decostituzionalizzazione è compiuta. Ciò che la Costituzione aveva voluto sottrarre alla possibile prepotenza delle maggioranze, per garantire l´autonomia della magistratura, dovrebbe essere assoggettato proprio a questa ipoteca.
Ed è sempre la decostituzionalizzazione a comparire negli altri casi. Sappiamo bene che la stretta sulle intercettazioni colpisce uno dei fondamenti della democrazia, la libertà d´informazione di cui parla l´articolo 21. E la proposta di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (il testamento biologico) è congegnata in modo tale da espropriare ogni persona del diritto fondamentale all´autodeterminazione, riconosciuto dalla Corte costituzionale sulla base degli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione.
Per chiudere definitivamente questa partita, l´obiettivo finale è indicato appunto nell´odiata Corte costituzionale, con la quale il presidente del Consiglio annuncia un definitivo regolamento di conti, probabilmente affidato ad una legge che escluderebbe la possibilità di decidere con il voto della maggioranza dei suoi componenti, sostituito da un quorum particolarmente elevato. Una mostruosità giuridica, sconosciuta a ogni civile sistema giuridico, che produrrebbe l´assurdo effetto di mantenere in vigore leggi che la maggioranza dei giudici costituzionali ha ritenuto illegittime. Il risultato complessivo di tutte queste mosse sarebbero la scomparsa di un effettivo sistema di garanzie, una alterazione degli equilibri costituzionale che ci porterebbe verso un mutamento di regime.
Quest´orizzonte ravvicinato, realistico e ineludibile, è quello al quale si deve guardare per individuare le strategie possibili per opporsi a questa ascesa, che appare a qualcuno non più resistibile con i mezzi ordinari della democrazia. Ma immaginare rovesciamenti del tavolo rischia di distogliere l´attenzione dalla faticosa ricerca di quel che deve essere fatto qui e ora.
Dicevo che la fase due, quella della decostituzionalizzazione, è inquietante, ma pure pericolosa. Il pericolo nasce dal fatto che siamo di fronte a proposte che potrebbero dividere il fronte delle opposizioni. Quando comparve la proposta di riforma costituzionale della giustizia, subito si materializzò il singolare partito dei «sedersialtavolisti». Ma chi mai accetterebbe di sedersi ad un tavolo da gioco insieme ad un baro, al tavolo di un ristorante dove il cuoco è un noto avvelenatore travestito da chef creativo? Mi auguro che la lezione del processo breve alla Camera sia servita a dissuadere gli aperturisti ad ogni costo, convincendo tutti della necessità di mantenere saldo un fronte comune. Allo stesso spirito l´opposizione dovrebbe ispirarsi in tutti gli altri casi, compreso quello del testamento biologico dove qualche cattolico potrebbe essere sedotto dall´ingannevole richiamo a valori non negoziabili.
In questi ultimi mesi Berlusconi ha costruito un conglomerato di cui non possono soltanto essere denunciate le modalità corruttive e i rischi grandi che fa cogliere al paese senza accompagnare questa diagnosi con una strategia politica conseguente – parlamentare, sociale, elettorale. E allora. Riprodurre in tutte le prossime occasioni parlamentari i comportamenti tenuti in occasione del processo breve, sfruttare ogni spazio parlamentare per far discutere le proposte dell´opposizione. Può reggere la maggioranza ad una mobilitazione permanente che coinvolga l´intero Governo? Non chiudersi in Parlamento, troppe cose avvengono nel paese. Costruire, quindi, una solida sponda politica per il crescente numero di cittadini che non si limitano a manifestare nelle piazze reale e virtuali ma, così facendo, costruiscono una concreta agenda politica. Ma, soprattutto, per le opposizioni scocca l´ora obbligata dell´unione, la sola a poter ricostruire le condizioni per una vera dialettica democratica.
Forse solo la saggia parola alle Camere del Presidente della Repubblica può ricordare a tutti che la politica deve essere sempre «costituzionale».

Repubblica 18.4.11
“La grande storia" ricorda il 25 aprile, l’Italia rinata


In occasione dei 150 anni dell´Unità d´Italia, La grande Storia dedica un film-documento a una delle date più importanti: il 25 aprile, il giorno dell´insurrezione e della liberazione dell´Italia del nord dalla violenza e dalla dittatura nazifascista. È 25 aprile, la liberazione! di Nietta La Scala, stasera alle 21.05 su RaiTre. Molti italiani furono posti drammaticamente davanti a una scelta: alcuni misero a rischio la propria vita per riconquistare libertà, dignità e democrazia, altri scelsero di affiancare i soldati nazisti. Nelle immagini scorre il racconto di quei giorni: lo sfondamento della linea Gotica tra Pisa e Rimini, e le insurrezioni di massa nelle città del Nord (da Bologna a Genova, da Milano a Torino), fino all´ingresso dei partigiani e degli alleati nelle città liberate. Immagini di guerra, dolore, morte: come quelle di una delle ultime stragi naziste, il 4 maggio 1945, nel paese friulano di Stramentizzo, una strage ancora più insensata e crudele, a guerra ormai finita.

Corriere della Sera 18.4.11
Il 25 aprile che cade di pasquetta e un calendario civico incerto
di David Bidussa


Quest’anno il 25 aprile cadrà nel giorno di Pasquetta. È prevedibile che la sovrapposizione con la consuetudine del picnic fuori porta renderà evidente una situazione che da tempo è nei fatti. Ovvero: da una parte un potere pubblico, rappresentato dal governo in carica che non ha alcun legame né affettivo né sentimentale con quella scadenza e brillerà per la sua assenza, dall’altra un Paese che nel complesso non si accorgerà nemmeno della coincidenza. In mezzo il manipolo esiguo del popolo resistenziale. Risultato: piazze vuote. Per molti sarà un sollievo; per altri un lutto; altri, infine, diranno che il ciclo segnato dal 25 aprile è finito. In ogni caso l’eclissi del 25 aprile è il venir meno di una data del nostro calendario civico nazionale (già alquanto incerto). Ce la siamo «mangiata» e non l’abbiamo sostituita con qualcos’altro. Non siamo più leggeri, ma più inconsistenti. È anche vero, peraltro, che il 25 aprile era la data di un sistema politico che non esiste più, fatto di partiti che nel frattempo sono tutti scomparsi. Ma questo vorrebbe dire che il 25 aprile era un loro patrimonio. Davvero la memoria della Liberazione era solo dei partiti politici? Nessun gruppo umano esiste senza riti collettivi. Liberarsi del passato non equivale a emanciparsi, ma a «perdersi» . Ovvero a «non darsi futuro» . Non abbiamo molte ricorrenze nazionali. E molte di quelle di nuovo conio, come sostiene Giovanni De Luna (La repubblica del dolore, Feltrinelli), ciascuna dedicata ai lutti di vari gruppi «offesi dalle violenze che hanno subito» , non hanno prodotto condivisione. Quali sono le date ancora «vive» nel nostro calendario e che ci uniscono? Le date che ci rimangono nel calendario civico come feste comandate sono quelle religiose (Natale e Pasqua), quelle delle vacanze (ferragosto) e una data che non ha mai scaldato il cuore, ovvero il 2 giugno. Siamo ancora una nazione? Forse più modestamente siamo un Paese, unito dal mangiare, dal bere, dal gioco delle carte, dai santi e dalle ferie. E’ sufficiente per dire che abbiamo un futuro?


l’Unità 18.4.11
Sono prof di sinistra. E allora?
di Mila Spicola

qui
http://laricreazionenonaspetta.blog.unita.it/sono-prof-di-sinistra-e-allora-i-di-mila-spicola-i-1.284030

La Stampa 18.4.11
Generazione 40 anni Si scrive flessibile ma si legge precario
di Tonia Mastrobuoni


C’ è chi li chiama bamboccioni, chi, citando una commedia francese di qualche anno fa su una famiglia che non riesce a cacciare il figlio trentenne inchiodato a casa, Tanguy. La verità è che se in Italia milioni di giovani hanno un problema a costruirsi un’esistenza fuori dalla famiglia, i motivi sono solo in parte antropologici. E più che a indolenti ragazzoni che preferiscono farsi lavare i calzoni dalle madri a quarant’anni, in mancanza di politiche pubbliche che li tutelino, i giovani somigliano sempre di più a funamboli senza rete. E la recessione ha avuto solamente l’effetto di rendere evidenti i difetti del sistema che stanno condannando ormai quasi due generazioni a stare peggio delle precedenti.
Cresciuta nella consapevolezza di dover dimenticare il mito del posto fisso che aveva segnato la vita dei propri genitori, dagli anni 90 la generazione dei flessibili ha imparato invece che il destino più comune è invece quello di precario. Non è una distinzione politica: lo affermano apertamente economisti e giuslavoristi autorevoli come Boeri, Trivellato o Ichino. La differenza? Chi è flessibile passa idealmente da un lavoro all’altro migliorando le proprie competenze e il proprio stipendio. Fino al 2008, l’anno della crisi, in Italia è cresciuto invece un esercito di lavoratori lontano da questa realtà. Uomini e donne spesso inchiodati allo stesso lavoro, senza tutele e sempre con lo stesso stipendio, con contratti a tempo reiterati per anni e anni.
Così, la differenza tra flessibile e precario è diventata in sostanza una differenza di prospettiva. Erano 2,8 milioni secondo la Banca d’Italia o l’Istat, quasi 5 secondo altri studiosi. Ma la crisi ha segnato uno spartiacque: l’ultimo Bollettino di Bankitalia afferma che per le nuove assunzioni si registra dalla fine del 2010 un crollo di quelle a tempo indeterminato mentre aumentano esponenzialmente quelle a tempo parziale e part time.
Questo esercito crescente - ecco un altro, enorme problema - secondo l’Istat è anche condannato a stipendi da fame: in media 1.026 euro al mese (rapporto 2009). È noto che milioni di imprese rimaste con l’arrivo dell’euro senza la possibilità della vecchia svalutazione competitiva non hanno investito in azienda per fare il salto tecnologico e sentirsi minacciate un po’ meno dai famosi prodotti cinesi. Hanno preferito invece mantenere basso il costo del lavoro schiacciando i salari. Il risultato è denunciato anche dalla Banca d’Italia, che parla spesso dei redditi dei dipendenti (tutti, non solo quelli dei giovani ovviamente) che hanno registrato addirittura un calo da quindici anni a questa parte, in termini reali.
A questo si aggiunga che anche il costo della vita costringe ad allungare la permanenza nella famiglia di provenienza. Un esempio banale? A causa della bolla immobiliare degli anni Duemila, è diventato proibitivo con un ragazzo con uno stipendio di mille euro mettere il naso fuori casa, cioè prendere un appartamento in affitto o men che meno, comprarsi una casa. Un ulteriore aspetto, non meno importante perché è emerso soprattutto durante la crisi, è la mancanza di un paracadute nei periodi difficili. Il nostro è ancora un sistema tarato sugli anni Settanta, quando in Italia c’era la grande industria e una prevalenza assoluta di contratti a tempo indeterminato: per i momenti difficili, era prevista la cassa integrazione. I precari non possono invece contare su alcun tipo di tutela. Ecco perché molti studiosi insistono da anni che la riforma prioritaria è quella degli ammortizzatori sociali per garantire un sussidio di disoccupazione a tutti. Non solo ai padri, ma anche ai figli.

Corriere della Sera 18.4.11
Occupazione e lavoratori stranieri Perché avremo più bisogno di loro
di Gianpiero Della Zuanna


I ntervenendo a margine del vertice del Fondo monetario internazionale, il ministro Tremonti ha affermato che gli immigrati che vivono in Italia lavorano tutti, che i giovani stranieri non rubano il lavoro ai coetanei italiani, e che non è né possibile né economicamente conveniente bloccare il flusso di nuovi arrivi. Lunedì 2 maggio all’università di Padova verranno presentati i risultati della ricerca Aspetti economici e sociali dell'immigrazione in Italia e in Europa, finanziata dallo Csea (Centro studi economici Antonveneta), e verrà presentato il libro dell’economista Nicola Sartor Invecchiamento, immigrazione, economia. Questi studi mostrano senza tema di smentita che — effettivamente — nell’Italia del Centro-Nord gli immigrati fanno lavori che gli italiani possono permettersi di non fare. Inoltre, i salari degli operai italiani non sono stati penalizzati dall’arrivo di tanti stranieri. Nel primo decennio del nuovo secolo, senza le immigrazioni, il numero di persone disposte a fare lavori manuali nel Centro-Nord Italia sarebbe drammaticamente diminuito, a causa di un numero di «colletti blu» pensionati molto maggiore rispetto al numero di nuovi lavoratori italiani disposti a fare gli operai. Quindi, l’arrivo di tanti stranieri ha solo permesso di mantenere costante l’offerta di lavoro manuale. Ecco il motivo per cui gli artigiani e gli industriali lanciano continui allarmi sulla difficoltà di trovare lavoratori per certe mansioni. E nei prossimi vent’anni le cose non cambieranno, perché nell’Italia del Centro-Nord, in assenza di immigrazioni, ogni quattro operai che andranno in pensione ci sarà solo un giovane disposto a diventare operaio. Addossando ai lavoratori stranieri la «colpa» dei bassi salari e della disoccupazione degli italiani, si spara sul bersaglio sbagliato. In Germania gli stranieri sono più che in Italia, ma i salari operai sono di molto superiori, sia per i tedeschi sia per gli stranieri. Ciò accade perché in Germania la produttività è più alta, e quindi è più grande la torta da spartire fra impresa e lavoratori. Al Sud le cose sono diverse. In un’economia più fragile, in larga misura precaria e irregolare, gli stranieri spesso portano via il lavoro agli italiani, perché si accontentano di salari ancora più bassi e accettano condizioni di lavoro ancora più disumane. Si realizza un apparente paradosso con l’ingresso di nuovi immigrati— sia pure in misura molto più contenuta rispetto alle aree ricche del Paese— che fanno lavori manuali, pur in presenza di migliaia di disoccupati italiani con basso titolo di studio. Ciò può accadere anche al Centro-Nord, ma solo in settori marginali del mercato, dove il lavoro è meno tutelato e meno strutturato, come nelle piccole imprese edili e di pulizia. Le affermazioni di Tremonti vanno però meglio articolate alla luce della crisi economica dell'ultimo biennio. L’Istat mostra che oggi il tasso di disoccupazione degli stranieri è un po’ più alto rispetto a quello degli italiani. In Italia non si è realizzato il dramma della Catalogna, la regione di Barcellona, dove il saldo migratorio con l’estero— positivo di 160 mila unità del 2007 — si è azzerato nel 2009, poiché il blocco dell’attività edilizia ha indotto decine di migliaia di stranieri a ritornare al loro Paese (vedi www. neodemos. it). Tuttavia, gli studi degli statistici Adriano Paggiaro e Anna Giraldo — nell’ambito della citata ricerca Csea— mostrano che anche in Italia la «gelata» del 2009-10 ha creato più disoccupati fra gli uomini stranieri. Infatti— anche se non c’è stata alcuna discriminazione secondo la nazionalità — gli uomini stranieri sono stati licenziati più frequentemente rispetto agli italiani, in quanto impiegati nei settori più colpiti dalla crisi. D’altro canto, le donne straniere spesso debbono restare a casa quando diventano madri, perché raramente hanno una rete familiare di sostegno, e poiché gli asili nido sono pochi e costosi. Quindi, Tremonti ha torto quando dice che in Italia gli stranieri lavorano tutti. Essi sarebbero disposti a farlo, anche a condizioni meno favorevoli rispetto agli italiani. Ma alcuni di loro sono involontariamente costretti a non lavorare. E per uno straniero perdere il lavoro può essere un vero disastro economico, sociale e giuridico, perché può portare — magari dopo dieci anni di residenza nel nostro Paese— alla perdita del diritto di vivere in Italia. In questi anni di crisi molti stranieri e italiani sono accomunati dal dramma della disoccupazione. C’è da sperare che — anche grazie all’azione del governo e del ministro Tremonti — la crescita riprenda a ritmi simili a quelli della Germania. Solo allora, almeno nel Centro-Nord, la piena occupazione verrà rapidamente raggiunta, sia per gli italiani che per gli stranieri. professore di Demografia università di Padova

Repubblica 18.4.11
Vangheluwe è scappato dal convento dove il Vaticano lo aveva mandato "per riflettere"
In fuga il vescovo pedofilo "In Belgio 500 casi di abusi"
di Marco Ansaldo


Il vescovo di Bruges. Sembra il titolo di un libro di Simenon. E il grande scrittore belga avrebbe di sicuro tratto uno strepitoso soggetto da questa trama di cui si intuiscono le atmosfere cupe, da giallo di provincia. Ieri l´ultima puntata. Roger Joseph Vangheluwe, che ormai è l´ex vescovo della città fiamminga, reo di pedofilia, è fuggito dal convento di La Ferté Imbault, dove il Vaticano lo aveva inviato per «riflettere». «E´ andato via ieri sera, non so dove», ha confessato la madre superiore del convento.
La Santa Sede aveva ordinato all´alto prelato di sottoporsi a una «terapia spirituale e psicologica» e di farsi dimenticare. Ma l´anziano religioso non ha rispettato le consegne. Costretto a dimettersi nel 2010 dopo aver riconosciuto di aver abusato sessualmente di un minore per tredici anni, giovedì scorso aveva dichiarato alla rete Vt4 di aver fornicato con un altro bambino, minimizzando i propri gesti, descritti come un «gioco», «un´abitudine» contratta quando i suoi nipoti, un paio di volte l´anno, dormivano da lui. «Una sorta di toccamenti intimi - spiegava - ma non del sesso brutale. Nella mia prospettiva non aveva niente a che fare con la sessualità».
I reati commessi risalgono al periodo tra il 1973 e il 1986 e sono quindi prescritti per la giustizia civile e per quella ecclesiastica. Ma l´imbarazzo delle alte gerarchie, tanto in Belgio quanto in Vaticano, è forte. «Siamo estremamente scioccati - dicono i vescovi del Belgio - del modo in cui ha minimizzato le sue azioni». «Vangheluwe - rincara la dose il vescovo di Tournai, Guy Harpigny, incaricato del dossier sulla pedofilia - mina un anno di sforzi della Chiesa per fare completa chiarezza».
Duro il giudizio del portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi: «La Congregazione per la Dottrina della Fede, l´organismo competente sui "delicta graviora commessi da ecclesiastici", ha stabilito che monsignor Roger Vangheluwe si sottoponga a un periodo di trattamento spirituale e psicologico».
Preoccupante è soprattutto la diffusione del fenomeno in Belgio. Il numero di abusi sessuali commessi nella Chiesa locale è arrivato a 500. L´intervista televisiva diffusa giovedì sera ha scioccato l´intero Paese. Che si chiede ora: dov´è finito il vescovo di Bruges?

Le 10 Scuse di Ratzinger sui Preti Pedofili
di YourVirus Top 10

http://virus.unita.it/video?video=1.244043

l’Unità 18.4.11
Cerimonia ufficiale oggi con le massime autorità del governo di Hamas nella Striscia
Testimone scomodo i radicali di Haniyeh accusati da un quotidiano israeliano: loro i killer
Vittorio, addio della «sua» Gaza prima dei funerali in Brianza
Si cerca un «giordano» come mente del rapimento e dell’uccisione di Vittorio Arrigoni. Forse una persona che il pacifista italiano conosceva. Hamas non conferma che due rapitori fossero sul suo libro paga.
di Umberto De Giovannangeli


La caccia al «giordano». Gli assassini di «Vik» forse sul libro paga di Hamas... A tre giorni dal ritrovamento del cadavere di Vittorio Arrigoni, i servizi di sicurezza di Hamas a Gaza sono impegnati nella caccia a un misterioso jihadista, «Abdel Rahman il Giordano». Già l’altro ieri si erano diffuse voci, fondate, che Hamas avesse rafforzato i controlli lungo il confine con l'Egitto per impedire ad un «infiltrato giordano» di abbandonare la Striscia. Ieri il quotidiano israeliano Ma’ariv ha confermato la notizia aggiungendo con grande evidenza che proprio questa figura misteriosa sarebbe il «cervello» del rapimento e dell’uccisione del giovane pacifista italiano.
Nella sua prima dichiarazione ufficiale sull'inchiesta un dirigente di Hamas, il ministro degli Esteri Mohammed Awad, ha mantenuto un atteggiamento cauto. Si è limitato a dire che finora vengono indagate due persone che risultano essere coinvolte nel rapimento, ma non nella uccisione di Arrigoni. Altre tre sono ricercate, ha aggiunto senza però
fare nomi. La versione ufficiale conferma il numero delle persone arrestate, reso noto già l’altro ieri da fonti ufficiose. Queste ultime fonti tuttavia avevano anche divulgato i nomi (Farid Bahar e Tamer al-Hasasnah) e avevano sostenuto che uno di essi sarebbe in effetti l'assassino di Arrigoni, mentre l'altro si sarebbe limitato a fare da basista.
DUBBI INQUIETANTI
Dal resoconto proposto intanto dal quotidiano israeliano (forse sulla base di informazioni di intelligence) trapelano diversi altri nomi ancora, nonchè scenari preoccupanti, anche per Hamas. Il «giordano» (che in un sito web di Gaza viene chiamato Abdel Rahman al-Brizat) sarebbe, a detta di Ma’ariv, un attivista del cosiddetto «Jihad mondiale», entrato a Gaza già da molti mesi attraverso i tunnel del contrabbando. Fonti locali ritengono che Arrigoni lo conoscesse di persona, e che dunque «il giordano» fosse al corrente dei suoi spostamenti.
Per Hamas la vicenda ha anche altri aspetti inquietanti. In una fase iniziale i rapitori avevano infatti chiesto la liberazione di un altro personaggio pericoloso, Abu el Walid al-Maqdesi (Hisham Saidni), ricercato in Egitto per presunte attività terroristiche. Si tratta del leader del gruppo salafita «al-Tahwid wal-Jihad», che accusa Hamas di non essere sufficientemente ligio alla dottrina islamica. Almeno in teoria, esiste la possibilità che il sequestro non sia l'iniziativa di una piccola cellula locale e che sia stato orchestrato da salafiti attivi nei Paesi vicini.
A rendere più aggrovigliata ancora la ricostruzione del delitto vi sarebbe la circostanza che i due salafiti torchiati dagli investigatori a Gaza sarebbero stati inquadrati nelle forze di sicurezza dello stesso Hamas. Certo un elemento di imbarazzo, se giungesse in merito una conferma ufficiale.
“FUNERALI DI STATO”
Nel frattempo Gaza si appresta al suo estremo saluto a «Vik». Per volere del capo dell'esecutivo Ismail Haniyeh, oggi alle 11 ci sarà una cerimonia solenne di addio, una sorta di «funerale di Stato». L'ospedale di Shifa ha intanto completato i preparativi per il trasporto della salma da Gaza verso l'Egitto, in vista del rimpatrio. Anche le procedure di carattere legale sembrano concluse. Saranno in molti, oggi a Gaza, a ricordare Vittorio Arrigoni come un «eroe», un «martire» della causa palestinese. Ma «Vik» non si riteneva un «eroe». Lui era un testimone diretto, partecipe, attivo. A volte scomodo. Anche per Hamas. Come quando aveva preso le difese dei giovani di Gaza che, sull’onda delle rivoluzioni in Tunisia e in Egitto, prima attraverso il web, Twitter, Faceebook e poi manifestando in strada, avevano rivendicato libertà, rinnovamento, diritti, non considerando queste rivendicazioni in contrasto con la resistenza all’occupazione israeliana. Vittorio Arrigoni ne aveva scritto sul suo blog, resocontato nei suoi articoli, e da spirito libero aveva condannato la repressione di quella protesta da parte della polizia di Hamas. Per questo, forse, si sentiva meno al sicuro nella “sua” Gaza. Perché gli amici «scomodi» a qualcuno possono non piacere più.

La Stampa 18.4.11
Ebrei e arabi, i nemici sconosciuti
di Avraham B. Yehoshua


In occasione di Pesah, la pasqua ebraica che si festeggia da questa sera, il quotidiano Haaretz pubblicherà un supplemento speciale in cui intellettuali e artisti sono stati chiamati a rispondere a varie domande.
A me è stata posta la seguente: come mai non si è ancora arrivati a una pace tra israeliani e palestinesi? Apparentemente un simile interrogativo dovrebbe essere rivolto a un orientalista, a uno studioso di scienze politiche o a uno storico, non a uno scrittore esperto unicamente della propria immaginazione. Siccome però l’argomento tocca in maniera dolorosa chiunque viva in questa regione proverò a suggerire una risposta.
La domanda è seria e inquietante per due ragioni: in primo luogo il conflitto israelo-palestinese è uno dei più prolungati dell’epoca moderna. Se se ne fissa l’inizio all’avvio della colonizzazione sionista della terra di Israele, negli Anni 80 del XIX secolo, ecco che questo scontro sanguinoso prosegue ormai da 130 anni.
In secondo luogo non si tratta di una contesa marginale in un luogo remoto e dimenticato da Dio, ma di una controversia costantemente al centro dell’interesse internazionale. Negli ultimi 45 anni governi e influenti organismi internazionali hanno investito seri sforzi di mediazione tra palestinesi e israeliani, presidenti degli Stati Uniti hanno cercato di intercedere tra le parti e primi ministri di tutto il mondo hanno prestato, e continuano a prestare, seria attenzione al conflitto. Inviati di alto livello arrivano nella regione nel tentativo di raggiungere un compromesso e istituzioni e singoli organizzano regolarmente simposi e incontri. Per non parlare poi delle innumerevoli ricerche, libri e proclami pubblicati in passato e nel presente. Ma nonostante si abbia a che fare con due piccole nazioni apparentemente facili da sottomettere a diktat internazionali, e nonostante accordi parziali tra le parti (grazie a colloqui diretti più o meno segreti) siano stati raggiunti in passato e chiare formule per una soluzione siano state accettate di recente, questa controversia serba un nocciolo duro refrattario alla pace.
Entrambe le parti hanno commesso molti errori e mancato numerose opportunità nel corso degli anni e siccome questo conflitto non segue un andamento lineare, bensì a spirale - vale a dire che il tempo non è un fattore essenziale per la sua soluzione e la pace si avvicina e si allontana in base alle congiunture storiche -, ha senso chiedersi cosa ci sia in esso di tanto speciale.
Non ho la pretesa che la mia risposta sia l’unica possibile, però la propongo qui in esame.
Il conflitto israelo-palestinese non giunge a una soluzione perché non ne è mai esistito uno simile nella storia umana. Non vi è infatti alcun precedente al fenomeno di un popolo che dopo aver perso l’indipendenza più di duemila anni fa ed essere stato disperso fra le genti abbia deciso, in seguito a circostanze interne ed esterne, di tornare nella sua antica patria e di ristabilirvi una propria sovranità. Per questo il ritorno a Sion è considerato da tutti un evento unico nella storia umana. Quindi anche i palestinesi, o arabi di Israele, sono costretti ad affrontare un fenomeno unico, come nessun altro aveva fatto prima di loro.
Agli inizi del XIX secolo risiedevano in terra di Israele 5000 ebrei e 250.000 o 300.000 arabi. All’epoca della Dichiarazione Balfour, nel 1917, c’erano circa 50.000 ebrei e 550.000 palestinesi. Nel 1948 gli ebrei erano 600.000 e i palestinesi 1.300.000. Il popolo ebraico si è quindi raccolto rapidamente in questa regione senza avere tuttavia l’intenzione di espellere i palestinesi (e di certo non di annientarli) ma nemmeno di integrarli come avevano fatto altri popoli con i residenti locali. Inoltre gli ebrei non hanno compiuto alcun tentativo di imporre un regime coloniale, dal momento che non avevano una nazione-madre come l’Inghilterra o la Francia che li mandasse a conquistare nuovi territori. In questa parte del mondo è avvenuto qualcosa di originale e di unico nella storia dell’umanità: un popolo è arrivato nella patria di un altro per cambiarvi l’identità, sostituendola con una nuova, ma antica.
Alla base del conflitto israelo-palestinese non vi è perciò una questione territoriale, come nel caso di tante altre controversie tra nazioni. Vi è piuttosto uno scontro sull’identità nazionale dell’intera patria, di ogni sua pietra e di ogni suo angolo. A entrambe le parti però - e ai palestinesi in particolare -, non sono chiare le dimensioni del popolo che hanno di fronte. Si tratta soltanto degli ebrei israeliani o di tutti gli ebrei della diaspora? E davanti agli israeliani è schierato solo il popolo palestinese o l’intera nazione araba? In altre parole neppure il confine demografico fra le parti è chiaro. Questo contrasto profondo crea dunque una costante e profonda sfiducia tra i due popoli impedendo una possibile soluzione del conflitto.
Sarebbe possibile risolvere questo scontro senza cadere nella trappola di uno Stato binazionale? La mia risposta è sì.

l’Unità 18.4.11
Intervista a Henry Laurens
«Il mondo arabo non sarà più lo stesso dopo la primavera»
Mesi difficili in Tunisia e Egitto, finché le elezioni non legittimeranno nuovi poteri. La Libia? «Temo che possa diventare un nuovo Afghanistan»
di Anna Tito


Al Collège de France, Henry Laurens insegna Storia contemporanea del mondo arabo. Fra le ultime opere L’Europe et l’Islam, quinte siècle (2009), con Mireille Delmas-Marty Terrorismes, histoire et droit e Le rêve méditerranéen (entrambi 2010).

Noi storici siamo abilissimi nel predire il passato: una volta accaduti, gli avvenimenti ci appaiono scontati e ineluttabili, e riusciamo a intravederne le cause sia remote sia immediate, fino a convincerci del fatto che la storia non sarebbe potuta andare in una direzione diversa», è il prologo dell’intervista di Henry Laurens, fra i più noti studiosi del mondo arabo contemporaneo.
Lei può dirsi sorpreso da quanto sta avvenendo in buona parte dei Paesi del mondo arabo? «Quanto accaduto ha lasciato sconcertati sia gli osservatori sia gli stessi protagonisti. Secondo i rapporti statistici del 2009, nulla lasciava presagire quest’ondata: si intravedevano a malapena “rapporti sociali più equilibrati” intorno al 2020-2025. E questo viene a ricordarci un elemento essenziale: ogni avvenimento comporta in sé un che di misterioso, specie quando si tratta di una rivoluzione. Ma ciò che conta, viste le esperienze della Tunisia e dell’Egitto, e forse della Libia, dove però la situazione mi appare più complicata e di meno immediata risoluzione, è che la dittatura nel mondo arabo non è una fatalità, e la prospettiva democratica rientra nell’ordine del possibile».
In Libia le forze della Nato hanno perseguito l’intervento contro le truppe di Gheddafi. Ma in questi giorni assistiamo a un rischio di impantanamento. Come vede la situazione?
«Ci troviamo davanti a due problemi fondamentali: il primo sta nel chiedersi “che cos’è un intervento umanitario?” Un diritto d’ingerenza? Ufficialmente interveniamo soltanto per proteggere le popolazioni civili, anche se pensiamo che il corollario comporterà il loro massacro, e il secondo è insito nella difficoltà, nelle guerre contemporanee, di distinguere fra il militare e il civile: nessun problema finché la coalizione poteva colpire le forze di Gheddafi, che agivano allo scoperto, ma non appena si è trovata ad agire in spazi urbani, si sono fatte inevitabili le perdite di civili. Così è avvenuto in Afghanistan, dove la Nato ha commesso un abuso dopo l’altro».
Nelle rivolte tunisina, egiziana, libica e nelle proteste in Algeria, Giordania, Siria, Yemen, possono riscontrarsi alcuni elementi comuni, ovvero l’esigenza di riforme economiche e sociali, nonché di democrazia. Non le sembra sufficiente?
«Queste esigenze, in sé, non sono sufficienti per far crollare dei regimi o soltanto a spingere la gente – consapevole che la repressione sarà feroce a scendere in piazza. Affinché ciò avvenga, le popolazioni devono sentire la necessità di rivendicare la loro dignità e rifiutare la paura. Vi è un momento in cui ci si convince del fatto che non vi è più alcun ragione di lasciarsi maltrattare come è avvenuto per secoli, si rivendica una dignità e si viene a scoprire da un giorno all’altro di non nutrire più alcun timore nei confronti del regime che seminato terrore fino a quel momento». Aldilà di una comune aspirazione alla libertà e alla giustizia, i progetti politici delle “primavere dei popoli” tunisino, egiziano e libico, le sembrano confrontabili?
«Mi colpisce la dimensione nazionale delle rivolte. Basta guardare le bandiere che vengono issate o brandite: né rosse né verdi, ma nella stragrande maggioranza bandiere nazionali. I popoli si stanno riappropriando della loro storia in ambito nazionale».
Sembra che la democrazia fatichi non poco a organizzarsi in Tunisia e in Egitto, ad esempio, una volta rovesciati i dittatori.
«I militari autori delle violenze sono gli stessi che hanno costretto Mubarak ad arrendersi e che ora l’hanno messo sotto processo insieme ai due figli. Tengo inoltre a sottolineare che non parlerei ancora di democrazia, ma di “politicizzazione”, ovvero di “presa di coscienza politica”, di apertura dell’ambito politico da parte di queste popolazioni. Certo, le violenze recenti hanno sorpreso molto sfavorevolmente quanti erano convinti che la transizione si sarebbe svolta in maniera pacifica. Ma è inevitabile che il processo di transizione risulti molto laborioso. Basti pensare alla situazione italiana fra il 1943 e il 1945. I prossimi mesi, sia in Egitto sia in Tunisia – saranno i più difficili, finché gli eletti in seguito a libere elezioni non potranno riorganizzare il Paese con un potere legittimo. Ciò che conta, è che la categoria del politico sia entrata nelle mentalità, e in questo è impossibile tornare indietro».

La Stampa 18.4.11
Il congresso del Pc a Cuba
La promessa delle riforme qui fa ridere
di Yoani Sánchez


Yoani Sánchez, 35 anni, gestisce all’Avana il blog Generación Y, «ispirato alla gente nata nei ’70, segnata dalle bambole russe, dalle uscite illegali e dalla frustrazione».

Ridere è sempre una cura efficace contro i problemi quotidiani. A Cuba aprire le labbra al sorriso è una forma di autoterapia più che un’espressione di felicità. Il problema è che i turisti scattano foto e dicono che questo è un popolo allegro che non perde il senso dell’umorismo di fronte alle difficoltà. Non sopporto le spiegazioni dei turisti! Fanno il giro del mondo mostrando l’istantanea di una risata che ha preceduto sul nostro volto un’espressione di angoscia o con l’immagine della contentezza che ci ha pervaso quando siamo riusciti a ottenere - dopo un anno di pratiche - gli occhiali graduati per il bambino. Ridere molto può essere anche una medicina preventiva per evitare le delusioni che sopraggiungeranno. Forse per questo motivo, ogni volta che chiedo a qualcuno cosa pensa sulle possibili riforme che verranno decise dal Sesto Congresso del Pcc, mi risponde con una risata, con un sogghigno ironico.
Il mio interlocutore subito dopo si stringe nelle spalle e dice una frase come: «Credo che non dobbiamo farci illusioni… per bene che vada autorizzeranno a comprare case e auto». Conclude con un’altra enigmatica smorfia di allegria che mi confonde ancora di più. Non è facile capire se oggi la maggioranza dei miei compatrioti preferisca che vengano approvate trasformazioni nel conclave del partito oppure che il congresso fallisca l’obiettivo per evidenziare l’incapacità del sistema di riformarsi. Le aspettative si sono molto affievolite negli ultimi mesi, ma resta ancora qualche speranza, soprattutto tra i più diseredati e tra le persone ideologicamente ostinate. L’immagine di un Raúl Castro pragmatico ha ceduto il passo a quella del governante dubbioso incapace di affrontare una situazione più difficile del previsto. Il congresso che alcuni auspicavano come riformatore del sistema, è stato convocato troppo in ritardo e nella lunga attesa ha perso molte delle speranze che un tempo aveva generato. Dietro il sorriso enigmatico di autisti a noleggio, venditori di pizze, studenti e persino militanti del partito, adesso si nasconde la consapevolezza che le cose non cambieranno molto. Sono persone smaliziate che usano la beffa silenziosa per vaccinarsi - in anticipo - contro le frustrazioni.
Traduzione di Gordiano Lupi Il blog di Yoani Sánchez

510.000 La ristrutturazione economica di Raúl Castro prevede il taglio di oltre mezzo milione di posti pubblici per rilanciare il settore privato nei servizi e nell’agricoltura. Saranno concesse ai privati le terre demaniali dipendenti pubblici incolte e sarà creato un sistema di credito ai piccoli imprenditori tagliati dalla riforma che si mettono in proprio

Corriere della Sera 18.4.11
Quando l’Angelo Azzurro voleva sedurre e avvelenare Hitler
di D. Ta.


Se avesse realizzato il suo sogno, altro che Angelo Azzurro: il mondo non avrebbe potuto trovare parole per mitizzare ancora di più Marlene Dietrich. In pieno nazismo, la diva tedesca, ormai americana e oppositrice instancabile del regime di Berlino, voleva uccidere Hitler. Avvelenarlo le sembrava il modo migliore. Sedurlo e avvelenarlo. Sapeva di piacergli, nonostante fosse noto il suo disprezzo per il Terzo Reich: era certa di poterlo adescare. Parlò del suo piano con il suo amante del tempo, a Hollywood, Douglas Fairbanks junior: avrebbe detto a Goebbels, ministro della propaganda e protettore del cinema in Germania, che sarebbe tornata in patria a continuare la sua carriera, un colpo di pubblicità immenso per il regime. A patto che avesse potuto incontrarsi faccia a faccia con il Führer per discuterne. A quel punto avrebbe avuto la strada spianata per entrare nelle sue grazie e trovare il modo di eliminarlo. «Conquisterei la sua fiducia facendogli pensare che lo amo» , diceva: sarebbe stata disposta persino a entrare nella camera da letto di Hitler e spogliarsi, per eliminare l’uomo che stava ingannando la Germania e compiendo atrocità. È stato lo stesso Fairbanks a raccontare l’idea-progetto della Dietrich a Charlotte Chandler, famosa biografa dei divi, che ha riportato la storia nel suo nuovo libro, «Marlene — Marlene Dietrich, a personal biography» . «Era una donna coraggiosa — ha detto Fairbanks junior, morto nel 2000 —. Sono convinto che fosse disposta a rischiare la vita se avesse avuto la minima chance» . In effetti, l'opposizione al nazismo di Marlene non era un atteggiamento. Era molto concreta. Fu la star che, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra nel 1941, fece — lei diventata americana nel 1939— la propaganda più di successo per la vendita delle obbligazioni di guerra. E per i suoi servizi alla causa della libertà ricevette in America la Presidential Medal of Freedom. Per scrivere la sua biografia, Charlotte Chandler ha intervistato negli anni decine di persone che la conoscevano e, negli Anni Settanta, la Dietrich stessa. È un libro che parla della sua carriera, degli amori, delle sue profonde convinzioni politiche. Con la rivelazione del fatto che i piani per assassinare Hitler non furono 42, come si è pensato finora, ma 43, con quest'ultimo forse uno dei meno probabili ma di certo il più affascinante. Purtroppo Hitler dovette accontentarsi di Eva Braun.

Repubblica 18.4.11
Il nostro nemico
Il carteggio fra il grande terapeuta, internato dai fascisti, e Dora Friedländer
Amore e psicanalisi le lettere di Bernhard
Il nemico peggiore è sempre quello interiore che ci spinge nell´ombra, che ci rimprovera distruggendoci da dentro
di Benedetta Craveri


«Io mi trovo bene. Studio la psicologia di questa situazione eccezionale con molto interessamento». Siamo nell´estate del 1940 e la condizione a cui si riferisce Ernst Bernhard in una lettera del 6 luglio a Dora Friedländer, la compagna della sua vita, è quella di internato in un campo di concentramento fascista. Ma per il medico berlinese che si preparava ad introdurre la psicoterapia junghiana in Italia e avere pazienti illustri come Adriano Olivetti, Natalia Ginzburg, Federico Fellini e Giorgio Manganelli, "la situazione eccezionale" non era solo un eufemismo in vista della censura, rispondeva a una precisa dichiarazione di intenti. Egli intendeva infatti conferire ordine e senso all´esperienza estrema che gli era toccata in sorte servendosene come un´occasione propizia alla riflessione, allo studio, alla maturazione spirituale.
Nei dieci mesi passati, assieme ad altri ebrei delle più varie provenienze, nel grande campo di concentramento di Ferramonti, in Calabria, Bernhard avrebbe mantenuto fede al suo proposito di progredire nel processo autoanalitico di "individuazione" ed "accettazione della sua intera personalità". Una prova certamente cruciale, di cui egli avrebbe trascritto i sogni, destinati non a caso a costituire un capitoletto della sua Mitobiografia (Adelphi, 1969), ma che possiamo ora seguire giorno dopo giorno, come un work in progress, sul filo della lettura di Tanti, tanti baci!, Lettere a Dora dal campo di internamento di Ferramonti (1940-41), il carteggio intrattenuto da Bernhard con la Friedländer nel corso della sua detenzione, che l´editore Aragno manda in questi giorni in libreria.
Arrivati a Roma, in fuga dalla Germania nazista, nel 1937, Ernst e Dora, entrambi quarantaquattrenni, sono costretti a scriversi, per motivi di censura, in un italiano che nessuno dei due padroneggia ancora perfettamente. Le poche lettere in tedesco che figurano nel carteggio sono, al contrario, assai belle. Ma spesso è il loro stesso dialogo epistolare, intessuto di sottintesi personali, di riferimenti astrologici e di responsi dell´I Ching (il libro divinatorio cinese che Bernhard farà poi pubblicare dall´Astrolabio), a coglierci impreparati. Tuttavia se ci affidiamo alla guida appassionata e sapiente della curatrice, Luciana Marinangeli, le lettere di Bernhard riveleranno la straordinaria molteplicità di messaggi che si nascondono, come in un palinsesto, sotto l´italiano zoppicante della sua scrittura.
Vi è innanzitutto il desiderio di rassicurare la sua corrispondente sulle sue condizioni fisiche e morali, ma vi è anche la necessità di infonderle coraggio e indicarle le iniziative da prendere per ottenere la sua liberazione. Amante e allieva, Dora ha con lui un rapporto di totale dipendenza e soffre di depressione. Quella che Bernhard svolge con lei è una vera e propria terapia di sostegno a distanza: «Non devi perdere il contatto con la vita, mia carissima… prendi le cose semplicemente come sono, guardale come segni dati per farci vedere la strada giusta». I "segni" sono in primo luogo quelli inviati dalle stelle e dall´I Ching che Dora consulta ossessivamente.
Vi è ugualmente l´incessante lavoro di autoanalisi, la cronaca dettagliata del dialogo che Bernhard intrattiene con se stesso e con il mondo, alla luce di un pensiero religioso frutto di una personalissima sintesi tra Oriente e Occidente. Vi sono poi i messaggi indiretti che l´internato spera possano impressionare favorevolmente i funzionari preposti al servizio di censura del campo. Dati oggettivi come il suo distacco dall´ebraismo ortodosso e la sua apertura ai valori del cristianesimo si prestano a essere spacciati per antisemitismo. Così come il suo interesse per il mito mediterraneo della Grande Madre, che sarà più tardi all´origine di un saggio famoso, e le sue riflessioni sul concetto junghiano di inconscio collettivo gli offrono i presupposti concettuali per progettare uno studio sulla psicologia fascista.
Vi è, infine, il suo celebre intuito rabdomantico che prima ancora di fare di lui un terapeuta d´eccezione, gli avrebbe salvato la vita. Sarebbe stato infatti Bernhard a guidare passo dopo passo Dora sulle tracce di Giuseppe Tucci, il famoso orientalista che pur avendo firmato il manifesto della razza, doveva garantire per lui e ottenere la sua liberazione.

Repubblica 18.4.11
Quel che resta dell’estetica
Perniola: "Un baluardo contro la tirannide"
di Antonio Gnoli


Da più parti si sente dire che la disciplina sia finita In un saggio del filosofo ecco la sua storia e la sua funzione oggi
I giudizi estetici nascono dalla discussione. Sono il modello dei giudizi politici
Nel passato questa scienza teneva insieme cose disparate, dal bello agli stili di vita

SULL´ESTETICA - disciplina nata nel Settecento, esplosa nell´Ottocento e infine data per morta, o quasi, col finire del Novecento - si sono scritti parecchi trattati, compendi, storie. Quasi che in quel fiorire di iniziative si sia tentato di elaborare un lutto che consentisse di legittimare la parola fine. E su questo aspetto "terminale" ha insistito Mario Perniola con il suo egregio lavoro di ricognizione dedicato all´estetica contemporanea (La società dei simulacri, numero speciale della rivista Agalma in uscita il 27 aprile): alle sue declinazioni, che sono molteplici e alle sue implicazioni con il tessuto sociale e storico che ne fanno un oggetto meno remoto e specialistico di quanto il lettore non immagini.
È possibile una definizione univoca dell´estetica?
«No. Il progetto estetico, nella sua complessità storica, pretendeva di tenere insieme cose disparate, come il bello, l´arte, la conoscenza sensibile e gli stili di vita che aspirano a qualche forma di eccellenza. Un po´ troppo: perciò a un certo punto è implosa. Della bellezza oggi si occupa la cosmetica o l´ecologia. L´arte è un business di lusso che finisce col confondersi con la moda e la pubblicità. Quanto agli stili di vita eccellenti aspirano al divismo o al contrario all´antidivismo».
Lei individua sei momenti con i quali l´estetica si è, nel corso dei secoli, riconosciuta: "vita", "forma", "conoscenza", "azione", "sentire", "cultura". Che tipo di classificazione ha costruito?
«Si tratta di poste in gioco per le quali si sono svolte le battaglie all´interno della cultura occidentale: gli amici della vita (spontaneisti ed effimeri), contro gli amici della forma (che vogliono tramandare qualcosa di valido alle generazioni future); gli amici della conoscenza (che vogliono trovare nell´arte la verità) contro gli amici dell´azione (che pretendono che l´arte cambi l´esistenza). Quanto alle due ultime categorie sono già al di là dell´estetica propriamente detta: i pensatori del sentire sono gli esploratori di esperienze psichiche inusuali o addirittura patologiche. Quanto alla cultura, la questione di fondo è come opporsi all´imbarbarimento della società».
Lei descrive quattro grandi pensatori del sentire: Freud, Heidegger, Wittgenstein, Benjamin. Cosa li tiene assieme?
«Ciò che li accomuna è l´esperienza di un sentire senza soggetto. Per Freud la psiche è sempre pensata come un campo di battaglia in cui si fronteggiano istanze opposte; l´intero pensiero di Heidegger è una critica radicale alla nozione di soggetto; Wittgenstein ci introduce in una dimensione impersonale del sentire: infine le nozioni su cui si focalizza il pensiero di Benjamin sono la morte, la merce e il sesso».
Si può ancora lavorare a un progetto estetico?
«No, penso che gli ultimi che hanno scritto di estetica in grande stile siano stati Lukács e Adorno. Entrambi nemici del populismo e del naturalismo refrattario ad ogni principio selettivo».
Lei ha spesso sostenuto che la vera crisi culturale sopraggiunge con gli anni Sessanta. Perché proprio in quel periodo?
«Il mito del progresso ininterrotto raggiunge negli anni Sessanta il suo apice. Perciò le nuove generazioni che non hanno vissuto gli orrori della Seconda guerra mondiale, sentono di poter fare ancora un grande balzo in avanti e si illudono di poter fare a meno dell´eredità del passato. C´era insieme molta ingenuità e molta malafede in questa pretesa. Gli "eredi" sono profondamente diversi dai "maestri": essi non avranno più seguaci ma fan. Nasce il divismo culturale e si afferma l´inefficacia della cultura».
Eppure sono stati anni culturalmente stimolanti.
«Ma con quali effetti? Da un punto di vista generale, la critica dell´autoritarismo si trasforma nella negazione di ogni tipo di autorevolezza. Il ruolo di educatore prima esercitato dai genitori e dagli insegnanti viene assunto dai mass media e dall´industria culturale. Inizia un processo di delegittimazione della famiglia e della scuola che si protrae fino ad oggi».
È un problema che ha alla base la crescita della cultura di massa e della formazione di un nuovo pubblico.
«Il "pubblico" compare nel Settecento e garantisce ad alcuni autori di vivere dei proventi dei loro libri. Oggi c´è una frammentazione e disgregazione del sapere che rende impossibile una cultura comune condivisa, che non sia quella sportiva o del lotto. Paradossalmente perciò sono più importanti i piccoli circoli, i cui membri sono tenuti insieme da un legame più profondo di quello offerto da Facebook».
Non ritiene che proprio Internet possa giocare ancora un ruolo sia estetico che culturale?
«Penso che Internet consenta un´organizzazione di tutto il sapere completamente diversa da quella teorizzata e realizzata agli inizi dell´Ottocento con la nascita dell´università moderna. È ancora presto per misurarne gli effetti, ma quelle che possono essere anche le novità positive non è detto che abbiano buon esito a causa delle feroce concorrenza e della velocità del cambiamento. Il problema è anche di capire a quale modernità vogliamo riferirci».
A questo proposito lei sostiene che non c´è stata una sola modernità, che Giappone, Cina, Brasile, Islam ne hanno conosciute di diverse. Con quali effetti?
«Di ricchezza e diversità culturali sorprendenti. Penso che non esista una sola forma di modernità, quella euro-americana, ma molte modernità che, a differenza della nostra, come ad esempio il Giappone, non hanno tagliato il loro legame con la tradizione, pur trasformandola profondamente. Il nostro errore è dare per scontato che il nuovo sia per definizione meglio dell´antico».
Che modernità incarna il Giappone le cui tragedie - almeno quelle tecnologiche - sono del tutto simili a quelle occidentali?
«La modernità giapponese nasce da un´approfondita conoscenza dell´Occidente, ispirata dal principio di incorporare le cose buone e rigettare le cose cattive. Un altro aspetto importante è il rifiuto del melting-pot, vale a dire del confondere tutto con tutto. Il Giappone ha un´eccezionale capacità di assimilazione di ciò che è altro e differente: tutta la sua cultura infatti è per un millennio e mezzo importata dalla Cina e nell´ultimo secolo e mezzo dall´Occidente. Tuttavia il criterio fondamentale è la giustapposizione: nessuno deve invadere il campo altrui».
Quello che in loro è giustapposizione in noi è il principio delle autonomie. Non è questo uno dei tratti della nostra modernità?
«Effettivamente occorre ricordare che la modernità occidentale comincia con il metodo: ogni attività o disciplina deve essere eseguita affermando la propria autonomia. Solo così la scienza, la politica, l´economia e anche l´estetica si sono emancipate dalla religione aprendo nuovi orizzonti di conoscenza».
Questi nuovi orizzonti sono quelli che hanno permesso il progresso e la lotta contro la barbarie. Due momenti oggi profondamente in crisi, non trova?
«La caduta del mito del progresso è ormai un fatto. Se poi - cosa che mi pare stia accadendo - viene negata la separazione e l´autonomia dei tre poteri dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario, cade uno dei principi fondamentali della modernità occidentale e noi finiremo col prendere dall´Oriente proprio l´aspetto peggiore del suo passato: il dispotismo. E l´estetica era nata e si era sviluppata proprio come un baluardo contro la tirannide».
In che senso?
«L´estetica è una medaglia a due facce. Da un lato essa è stata l´arma fondamentale usata dalla classe media per affermare la propria egemonia sociale e culturale nella forma della democrazia politica. I giudizi estetici nascono dalla discussione tra individui liberi: perciò essi sono il modello dei giudizi politici. Nello stesso tempo ha aperto una prospettiva antagonista rispetto all´assolutismo feudale, al capitalismo e al populismo. Nata nel Settecento è un prodotto complesso dell´Illuminismo».

Repubblica 18.4.11
Chirurghi sotto accusa con sentenza inventata
di Mario Pirani


Tre citazioni che, pur sul medesimo evento, non potrebbero essere di origini più lontane. La prima la trovo su Moked, il portale dell´ebraismo italiano, ed è stata scritta dal prof. Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, nonché primario al San Giovanni. La riporto in parte: «La città di Samaria è sotto assedio e gli abitanti muoiono di fame. Fuori dalla città quattro lebbrosi condividono la stessa sorte. L´unica alternativa è andare dal nemico a chiedere del cibo. Ma le possibilità di essere sfamati sono minime rispetto a quelle di essere uccisi come nemici. Che fare? Alla fine i lebbrosi decidono di andare ... È sulla scelta compiuta dai lebbrosi che il Talmud basa il principio per il quale è lecito mettere in gioco la certezza di una vita molto breve nel tentativo di poterla allungare in qualche modo, anche se questo modo comporta un rischio micidiale. Una delle applicazioni più comuni di questo principio è la scelta di un intervento chirurgico in pazienti in condizioni disperate. Nella discussione rabbinica le opinioni divergono... Per una strana coincidenza la lettura dell´haftarà dello scorso sabato (brano scelto per la lettura fra i testi dei profeti, ndr) ha coinciso con una sentenza della Corte di Cassazione che avrebbe stabilito che quando non ci sono speranze di guarigione il medico si deve fermare. La sentenza ha già sollevato notevoli perplessità; sarà certo interessante studiarla anche alla luce degli sviluppi della halakhà (l´assieme delle regole della vita ebraica, ndr)».
La seconda citazione è tratta dall´editoriale del Corriere Medico, a firma del presidente dell´Ordine dei medici di Roma. Mario Falconi e tocca lo stesso evento con un orientamento che si evince fin dal titolo: «Suggerisco un´Authority contro i media che manipolano la realtà... Persino una recente sentenza della Cassazione è stata stravolta con palese alterazione della verità». Come, del resto, sostiene la terza citazione, un comunicato a firma di Giovanni Hermanin, già assessore della piunta Veltroni ed oggi responsabile Sanità dell´Api (Alleanza per l´Italia), secondo cui «non esiste nessuna sentenza della Cassazione che affermi quanto riportato su tutti i giornali in merito agli interventi chirurgici su pazienti in condizioni estreme». Il comunicato si riferisce, appunto, alla notizia riportata con grande rilievo, su una condanna, sancita dalla Cassazione, nei confronti di tre chirurghi (il prof. Huscher e i sui collaboratori, i dott. Mereu e Napolitano) i quali avrebbero operato, suffragati dal consenso informato della paziente e dei familiari, una giovane donna, con due figli, al fine di prolungarne almeno per qualche tempo la vita. Il tentativo però fallì, ma la famiglia, consapevole del suo impegno, si guardò bene dal denunciare gli operatori. Questi furono egualmente condannati e ricorsero fino alla Cassazione per rivendicare la giustezza del loro operato. Sulla base però di una interpretazione erronea diffusa dalle agenzie, la notizia venne data come se la Suprema Corte avesse condannato i chirurghi e stabilito «in modo perentorio il principio secondo cui gli interventi chirurgici senza speranza (chi può definirli in anticipo? ndr) non devono essere tentati anche se esiste il consenso informato del paziente». Per capirne di più ho letto integralmente la sentenza la quale, in buona sostanza, non ha condannato nessuno né emesso alcun principio, ma, preso atto del decorso del termine di prescrizione, si è limitata a dichiarare estinto il reato, rifiutando di entrare nel merito.
Resta da chiedersi perché sia stata fatta circolare una versione così ingannevole. Si tratta forse di uno dei tanti risvolti della medicina preventiva che divide molti medici tra chi rischia e chi si arresta di fronte a scelte che possono portarli in tribunale. Basti dire che tra il 2005 e il 2010 le cause per responsabilità medica sono aumentate del 15%. La chirurgia, fra tutte, sta diventando una professione sempre più pericolosa per chi la pratica secondo coscienza.

Repubblica 18.4.11
Una serie di studi americani analizza la bugia Come nasce l'abitudine di falsificare la realtà
L'arte di mentire così l'imbroglio è diventato regola di vita
di Angelo Aquaro


Scrittori, sportivi, giornalisti ma anche importanti uomini d´affari: la tentazione di non dire la verità non risparmia nessuno Ora gli esperti vogliono capire cosa c´è dietro questo fenomeno
Gli Stati Uniti negli ultimi anni si sono trovati di fronte a moltissimi casi: qualcuno sostiene sia per la forte competitività sociale
Travolti personaggi che sembravano intoccabili: dal reporter Blair all´autore di bestseller Greg Mortenson

Prendete il vecchio Bernie Madoff. Anche lui ha confessato di aver cominciato con un imbroglio da poco per un cliente troppo esigente. Poi gli ha preso la mano: fino ai 70 miliardi della truffa del secolo.
Ma che cosa distingue noi imbroglioni di poco conto (chi più chi meno) dai giganti dell´imbroglio? Che cosa scatta nella mente del campione che sembra non avere bisogno dell´aiutino - se sei Diego Maradona non ti serve la mano di Dio, se sei Ben Johnson chi ti acchiappa - e invece è lì che ci frega anche lui? E insomma esiste una risposta, possibilmente sincera, alla domanda ineludibile a questo mondo: perché imbrogliamo?
Risposta numero uno. «Imbrogliare è particolarmente facile da giustificare quando ti vedi vittima di qualche tipo di scorrettezza» dice Anjan Chaterjee dell´Università di Pennsylvania. Il dottore s´è specializzato in un particolare tipo di truffa: l´uso di farmaci per migliorare le prestazioni. Una simpatica abitudine che dallo sport dilaga a Wall Street e al mondo della cultura. «Il tuo problema è centrare l´obiettivo. E tu non stai imbrogliando: stai soltanto riequilibrando una situazione».
La tesi raccolta dal New York Times ci sta anche. Ma altri studi dimostrano che imbrogliamo anche quando non ce ne sarebbe bisogno. E lo facciamo da subito: dai tempi della scuola. È la risposta numero due. Uno studio delle Rutgers University rivela che il 70 per cento degli studenti delle superiori Usa ammette di aver falsificato i test. E il 60 per cento dice di aver copiato altri studi. Di più.
Un´inchiesta della Duke Univeristy dimostra che messi in condizione di imbrogliare gli studenti semplicemente imbrogliano: anche i più bravi della classe.
Insomma non prendiamoci in giro: fregare è naturale. Nel senso che il nostro cervello - risposta numero tre - è naturalmente portato a prendere le scorciatoie. Il problema è quando si comincia a tagliare la strada agli altri. E qui scatta un altro meccanismo. «Di fronte a un comportamento negativo tendiamo a sovrastimare quanto il nostro somigli a quello degli altri» avverte David Dunning della Cornell University. Eccolo il meccanismo del così fan tutti - è la risposta numero quattro. Che però, guarda caso, scatta quando a fregare abbiamo cominciato "noi" - per giustificarci a posteriori.
Ma davvero è tutta una questione di natura? Dice David Callahan in La cultura dell´imbroglio che la fregatura diventa inevitabile in questa società in cui chi vince prende tutto. È la risposta numero cinque: più crescono le disparità e più cresce il ricorso alla scorciatoia. E come se ne esce?
Beh, spesso non bene. Il New York Times non può ricordare le disavventure di Jayson Blair: il suo reporter di punta cacciato dopo la scoperta che copiava dai giornali di provincia - e senza mai citarne uno straccio. Perfino la prestigiosa Columbia School of Journalism fu sconvolta due anni fa dallo scandalo delle ammissioni: ragazzi che copiavano per diventare copioni.
Non che la letteratura sia da meno. Senza risalire a William Shakespeare che rubò la trama di Romeo e Giulietta - lo ricorda Richard Posner nel divertente Piccolo libro dei plagi - il caso di questi giorni è quello di Greg Mortenson. L´autore del fortunatissimo Tre tazze di tè è stato accusato di essersi inventato tanti particolari del suo viaggio in Afghanistan - dove oggi la sua fondazione costruisce diverse scuole per bambine. Ok, prima del bestseller Mortenson era uno sconosciuto. Ma perfino uno scrittore di successo come Ian McEwan è stato accusato di aver copiato Espiazione dalle memorie di Lucilla Andrews. Per difenderlo si mosse nientemeno che l´autosegregatissimo Thomas Pynchon.
Nessuno, invece, s´è speso per il povero George W. Bush, che nelle sue memorie Decision points, per ovviare ai ricordi evidentemente non troppo decisivi, ha scopiazzato i retroscena del suo stesso incontro con Hamid Karzai da un altro libro... È la risposta numero sei, che nessun professore però confermerà mai: se proprio devi fregare qualcuno, risparmia almeno te stesso.

l’Unità 18.4.11
Un convegno a Ischia ripercorre il rapporto tra scienziati e politica
E oggi? La crisi attuale e il modo di uscirne, tema che corre sotto traccia
1861 e 1945, quando l’Italia si salvò grazie alla scienza
di Cristiana Pulcinelli


Scienza & Sviluppo: due volte nella sua storia l’Italia è uscita dalla crisi investendo su questo binomio, all’Unità e nel secondo dopoguerra. E oggi? A Ischia un convegno affronta questo tema.

Ci sono due momenti nella storia del nostro paese in cui siamo usciti da una situazione davvero difficile. Il primo è stato dopo l’unità d’Italia, il secondo dopo la seconda guerra mondiale. Cosa li accomuna? Il fatto che, a dispetto di tutto, gli italiani hanno avuto fiducia nel futuro, hanno scommesso sulla capacità del paese di farcela e hanno creduto nella scienza come motore di crescita. Oggi siamo di nuovo sotto le macerie, con un paese più povero e ingiusto di ieri e con una scarsa prospettiva di riprendersi. Ritroveremo la fiducia che ci ha aiutato nel passato?
TRA LE MACERIE
La domanda è serpeggiata nel convegno «La scienza nell’Italia unita» , venerdì e sabato scorsi al circolo Georges Sadoul di Ischia. A parlare Lucio Russo, Angelo Guerraggio, Marco Ciardi, Marco Pantaloni, Maria Lettieri, Lucio Bianco, Gianni Battimelli, Gianni Paoloni, Pietro Greco e Sergio Ferrari. Ognuno ha raccontato un pezzo della storia del rapporto tra la scienza e la società italiana, e ognuno cercava di rispondere alla stessa domanda: ce la caveremo? E il pubblico, soprattutto ragazzi delle scuole superiori, li ha ascoltati con un’attenzione dovuta forse al fatto che sentiva che non si stava tanto parlando del passato, quanto del futuro.
Guardiamo alla storia. Nel 1861 l’Italia era un paese poverissimo, l’analfabetismo molto diffuso, nel Mezzogiorno mancavano le infrastrutture, non c’era un servizio postale né trasporti. Ma il clima di euforia e di fiducia permise al paese di investire in scienza, innovazione e istruzione. Quintino Sella, ingegnere di formazione, da ministro delle finanze per risanare i conti operò tagli drastici ai finanziamenti, ma mai a quelli per la scuola. E gli scienziati, che avevano combattuto per l’Unità d’Italia, parteciparono attivamente alla costruzione dell’Italia appena unita, ricoprendo anche cariche istituzionali. L’impegno nasceva dall’idea che per lo sviluppo civile del paese bisognasse alzare il livello tecnologico e quindi ci volesse una politica della scienza nazionale. Poi si formò una classe politica professionale che scalzò gli scienziati e già agli inizi del ‘900 la luna di miele tra scienza e società era finita.
Nel 1945 l’Italia usciva dalla guerra in condizioni disastrose e nessuno avrebbe scommesso una lira sul suo futuro. Ma anche qui un clima di fiducia che si creò tra la scienza e alcuni settori produttivi permise di risollevarsi dalle macerie. Tra il 1945 e il 1964 l’Italia cresce in modo esponenziale anche grazie alla fiducia nella ricerca e nell’innovazione. Tanto che a inizio anni ‘60 il paese vantava poli di eccellenza scientifico tecnologici che il mondo gli invidiava: informatico, petrolifero, nucleare, chimico, medico. E le storie di Olivetti, Mattei, Ippolito, Natta e Marotta sono lì a testimoniarlo. Da allora sono passati quasi cinquant’anni e non si è più avuto un rapporto così felice tra scienza e società in Italia. L’Italia è in declino da oltre vent’anni. Il Pil italiano, fino a metà anni ‘80 migliore della media europea, da quel momento diventa peggiore. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono tra i più bassi in Europa e nel mondo. Ci sarà un legame tra questi fatti?

l’Unità 18.4.11
Le due passioni di Enrico Bellone, la fisica e la democrazia
di Pietro Greco


Enrico Bellone, storico della fisica, gran comunicatore della scienza, che i lettori dell’Unità ben ricordano, è morto sabato scorso, 16 aprile, a Tortona, dove era nato 72 anni fa. Si era laureato in fisica a Genova, aveva poi collaborato con Ludovico Geymonat e Paolo Rossi, dando un formidabile contributo a una disciplina, la storia della scienza, che forse solo con la sua generazione ha avuto in Italia un momento felice. Prima, ma ahimé, anche dopo ha avuto spazi molto stretti nelle università italiane. E questo si è rivelato (si rivela tuttora) come un bel guaio. Perché senza memoria storica non c’è cultura scientifica. E senza cultura scientifica diffusa il nostro paese – anche se ha espresso grandi scienziati (Bellone era un grande esperto di Galileo) e tuttora ne esprime – vive in un’eterna crisi di incompiutezza: sociale, economica e politica, oltre che strettamente cognitiva.
«LE SCIENZE»
A ben vedere questo era il quadro in cui Enrico Bellone ha svolto la sua attività sia di storico della fisica (che lo ha portato alla Cattedra Galileana di Storia della Scienza presso l’università di Padova) sia di comunicatore (è stato per anni il direttore di Le Scienze, edizione italiana della più prestigiosa rivista di divulgazione scientifica del mondo, lo Scientific American).Un’attività che in entrambe le dimensioni ha svolto sempre con straordinario rigore e formidabile passione. Parlando chiaro. Nel duplice senso di scrivere i suoi articoli, i suoi saggi, i suoi libri con stile brillante e comprensibile e di entrare nel vivo della discussione, senza guardare in faccia a nessuno. Poteva sembrare, a tratti, brusco: era solo animato da onestà intellettuale.Gli era stato conferito, di recente il premio Preti per il «dialogo tra scienza e democrazia». Ma era molto amareggiato, negli ultimi anni. Proprio perché vedeva, nel paese di Galileo, calpestata ancora una volta la scienza e, quindi, erosa ancora una volta la democrazia.

Repubblica 18.4.11
Ecco i campioni della ricerca in Italia e a sorpresa il Cnr arriva solo terzo
Al top per efficienza gli Istituti di Fisica nucleare e di Astrofisica
Il nostro Paese si difende: è al sesto posto nel mondo per numero di pubblicazioni Non decolla il promettente Iit
di Elena Dusi


ROMA - Eppur ci siamo. Nonostante uno dei finanziamenti per la ricerca più bassi al mondo (1,14% del Pil), l´Italia è al sesto posto per produzione scientifica. L´ultima classifica della Royal Society britannica ci attribuisce il 3,7% delle pubblicazioni che vengono citate in altri studi al mondo (uno degli indici usati per misurare la qualità della scienza), con gli Usa in testa al 30%.
Ma il panorama del paese è tutt´altro che omogeneo, e a scavare tra eccellenze e inefficienze sono andati Francesco Sylos Labini, astrofisico del Centro Fermi e del Cnr e Angelo Leopardi, docente di idraulica all´università di Cassino. Il loro articolo "Enti di ricerca e Iit: dov´è l´eccellenza" è stato pubblicato da "Scienza in rete" la rivista online del "Gruppo 2003 per la ricerca scientifica" che comprende alcuni fra gli studiosi italiani col maggior numero di citazioni. Incrociando i dati fra personale, finanziamenti e pubblicazioni sulle riviste scientifiche, la loro analisi offre un quadro ragionato di quali sono gli enti che muovono la ricerca scientifica in Italia.
Il gigante Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) ha 6.600 dipendenti e ottiene dallo Stato 566 milioni di euro all´anno per 6.300 pubblicazioni. Ogni studio in media costa dunque 89 mila euro e il rapporto fra scienziati e articoli è praticamente pari a uno (0,96). Il rapporto Scimago - un database internazionale che misura le performance dei vari istituti di ricerca - piazza il Cnr al primo posto in Italia e al 23esimo al mondo su un totale di quasi 2.900 enti di ricerca, ma tiene conto solo del numero delle pubblicazioni e non dei costi sostenuti.
Più efficienti del Cnr - secondo l´analisi di Sylos Labini e Leopardi - sono Infn e Inaf. L´Istituto nazionale di fisica nucleare ha 1.900 dipendenti e gli alti investimenti che i suoi esperimenti richiedono sono finanziati ogni anno dallo Stato con 270 milioni. La produzione scientifica è molto alta: 2.423 pubblicazioni all´anno. Ogni studio costa in media 111mila euro e ciascun ricercatore è autore di 1,27 articoli. Nel rapporto Scimago 2010, l´Infn si è piazzato al 181esimo posto. I più parsimoniosi in assoluto fra gli scienziati italiani lavorano all´Inaf, Istituto nazionale di astrofisica, posizione 397 nella classifica Scimago. In 1.130 ogni anno producono 1.356 articoli (1,2 a scienziato) con un finanziamento di 91 milioni di euro. Ogni loro pubblicazione costa al paese in media 67 mila euro. Un´inezia rispetto all´ultimo ente della classifica, quell´Istituto italiano di tecnologia che venne fondato nel 2003 per ricoprire il ruolo di "Mit italiano", ma che ancora non riesce a decollare.
Con 100 milioni all´anno di finanziamenti fissati dalla legge 363/2003 fino al 2014, l´Iit fa lavorare 811 scienziati, che nel 2009 (anno a cui si riferiscono i dati) hanno pubblicato 274 ricerche. La produttività di ogni ricercatore è di appena 0,34 articoli, ognuno dei quali costa ai contribuenti 363 mila euro, oltre il quintuplo rispetto all´Inaf. Nella classifica Scimago, il "Mit italiano" che ha sede a Genova, un´età media dei ricercatori di 34 anni e solo 2 dei 374 scienziati con un contratto a tempo indeterminato secondo il principio della competitività anglosassone, si piazza nella casella 2.823 su un totale di 2.833. Il direttore scientifico Roberto Cingolani, un fisico esperto di nanotecnologie, spiega che «l´Istituto italiano di tecnologia è nato di recente e ha bisogno di tempo per raggiungere criteri sufficienti per la valutazione». Ma di certo all´Iit - a differenza degli altri enti di ricerca che nuotano nelle ristrettezze - non sono mai mancati i mezzi, inclusi 128 milioni di euro provenienti dalla liquidazione dell´Iri nel 2008 e il lampante conflitto di interessi di un Vittorio Grilli che è allo stesso tempo direttore generale del ministero del Tesoro e presidente dell´Iit. Non stupisce con queste premesse che il 15 marzo la Corte dei Conti abbia lodato l´Istituto per il suo avanzo di bilancio di 60 milioni di euro. Si attende ora che questi soldi siano usati per migliorare ancora la posizione dell´Italia nella ricerca del mondo.

La Stampa 18.4.11
Villers, fotografo di Picasso
di Marco Vallora


Nizza. André le Magnifique», lo chiamano, confidenzialmente, in Francia. Ma anche: «il Geppetto di Mougins», per questo suo aspetto sempre spettinato e perennemente giovanile, incistato dentro la sua Costa Azzurra. Sperimentatore nato, André Villers, il fotografo «di» Picasso e di mille altri artisti, compie ottant’anni e la Francia lo celebra con varie iniziative. La più «familiare», quella della Galleria Sapone di Nizza: ove tutto l’albero genealogico della famiglia di galleristi viene documentata, nelle età più diverse, dal «fratello» o zio-Villers, uno di famiglia, insomma. Ma gli altri «parenti» si chiamano Burri, Magnelli, Max Ernst, Hartung (già sulla seggiola a rotelle), e poi scrittori ed amici, come Aragon, Butor, Simone de Beauvoir, Baldwin, ed inevitabilmente Picasso.
La storia d’una galleria storica, riflessa nella storia d'un singolare artista-fotografo. Che scopre la fotografia in un sanatorio: doveva essere uno svago pietoso e invece diventa il destino d’una vita. Con «l’occhio-trippa» della Kodak portatile, appesa al collo, come un inseparabile monile. All’inizio Villers è un magnifico documentarista «humaniste», alla francese, nutrito di Doisneau e di Cartier-Bresson, ma i suoi formidabili scatti, sono quasi interscambiabili. La sua Vallauris pare proprio, incredibilmente, la Scanno di Giacomelli o la Sicilia di Sellerio. Poi un «sisma»: l’incontro con Picasso. Lui è un ragazzo di vent’anni e non sa nulla di pittura, meno che mai di Picasso. E questo piace moltissimo al «Padre Eterno», che odia i sacerdoti del divismo. Lo prende sotto la sua ala («di colomba», dice il fotografo) e così si lascia sorprendere da lui in quegli scatti che l'hanno reso celebre. Si divertono insieme, «provano» le facce e poi prendon persino a lavorare a quattro mani. Con quelle geniali immagini ritagliate e stratificate che esaltano Prévert (faranno insieme «Fatras») e che chiamano Diurnes . Forse per prendere in giro Breton e le sue manie freudiane-notturne. Tutto è chiaro per loro, «basta non rifare mai la stessa cosa due volte» come gli ha insegnato Man Ray. Anche lui solarizza, cosparge la pellicola di spezie e piselli, come se fosse un intingolo, fotografa senza camera. Come il nostro Migliori, essendo sempre «avanti tutti».
VILLERS ET LES SAPONE NIZZA. GALLERIA SAPONE FINO AL 20 MAGGIO

l’Unità 18.4.11
«Avvenire» contro il Papa di Moretti Ma non si capisce il motivo...
di Alberto Crespi


«Avvenire» attacca «Habemus Papam»: bocciamo Nanni Moretti al botteghino, l’anatema lanciato ieri dal vaticanista Izzo. Non si è accorto che in due giorni il film ha ottenuto splendidi risultati al botteghino...

Verrebbe voglia di cavarsela con una battuta: non ci sono più gli anatemi di una volta. L’Avvenire, quotidiano cattolico, attacca il film di Nanni Moretti, Habemus Papam, con una rubrica del vaticanista Salvatore Izzo. «Bocciamo Habemus Papam al botteghino. Saremo noi a decretare il successo di questo triste film, se ci lasceremo convincere ad andare a vederlo, perché il pubblico laico si annoierebbe a morte e infatti diserterà le sale». Bum! Ai primi due giorni di programmazione (è uscito venerdì) il film contende a Rio la testa del box-office: tra venerdì e sabato ha incassato circa 740.000 euro contro gli 872.000 del cartoon «carioca». È facile pronosticare che, con gli incassi di domenica (saranno noti soltanto oggi), entrambi i film supereranno ampiamente il milione di euro nel primo week-end, il che non è davvero malaccio. Insomma, Habemus Papam sta andando bene. Speriamo che in questo weekend Izzo non abbia giocato al Totocalcio.
Al di là delle battute che lasciano il tempo che trovano e dei numeri che invece sono indiscutibili, ma non esauriscono il dibattito è curioso domandarsi come e perché l’Avvenire abbia deciso di «boicottare» il film di Moretti. Che intanto, ieri sera alla trasmissione di Fabio Fazio, Che tempo fa su Rai 3, ha detto: «Sul mio lavoro c'è libertà di opinione, chiunque può dire qualsiasi cosa, ma io non commento. Dopo averlo visto possono boicottare». Diversi critici di ispirazione cattolica hanno parlato bene del film: Messori sul Corriere della sera, ad esempio (più positivo lui che il critico del giornale, Paolo Mereghetti); o Tv2000, la televisione della Cei, che domani ospiterà un’intervista con il regista. Habemus Papam è invece stato bocciato da monsignor Roberto Busti, il vescovo che presiede l’Acec, l’associazione della Cei che coordina le sale parrocchiali. L’editorialista dell’Avvenire è in buona compagnia: l’Acec è la mitica responsabile delle «valutazioni pastorali», quelle che in passato definivano «licenziosi e inaccettabili» i film con Totò (e poi dice che uno si butta a sinistra). Busti ha definito il film «una ruffianata». E sapete perché? Perché Moretti lo userebbe per «introdurre un tema a lui molto caro da sempre, quello della psicoanalisi, anche in Vaticano. Ed è troppo comodo, e per questo parlo di ruffianata, tirare in ballo il Papa». Curioso argomento, che può essere messo accanto a quello filosoficamente altrettanto sottile che Izzo espone nel suo articolo sull’Avvenire: «Di motivi per non vedere il film di Moretti ce ne è almeno uno fortissimo, quello che ci hanno insegnato le nostre mamme: gioca con i fanti e lascia stare i santi». Però, che profondità di analisi!
Ma torniamo al come, prima del perché. Forse non è casuale che l’articolo di Izzo compaia solo a pagina 37 dell’Avvenire di ieri, nella pagina delle lettere, e con una formula (l’attacco «Caro direttore...») che fa pensare ad un’iniziativa individuale, non a una linea scelta dal giornale (l’Avvenire pubblica numerosi editoriali, a pagina 2, e ieri erano dedicati a tutt’altro). In realtà l’articolo se la prende con i compagni di strada: «...il fatto nuovo di questi giorni è invece come alcuni opinionisti cattolici trattano il film di Moretti... non fidiamoci dei critici cattolici, anche se preti, che lo assolvono» (meraviglioso l’uso del verbo «assolvere», che ha raramente asilo nei testi di critica cinematografica). Forse è tutta una problematica interna all’intellighenzia cattolica, che si sta disputando il diritto a decidere chi, e come, e perché può giudicare (e quindi condannare, o assolvere) un film in cui si parla del Papa. Certo se le cose stanno così, e se gli argomenti sono le «ruffianate» e i proverbi su santi & fanti, poi nessuno ci rompa più le scatole, cortesemente, con la vecchia storia dell’egemonia della sinistra all’interno della cultura italiana: di fronte a competitori simili, è come rubare le caramelle ai bambini.
Habemus Papam è la storia di un Papa neoeletto che si sente fragile e rivendica il proprio diritto al dubbio e alla paura. Forse Gesù, a leggere con attenzione i Vangeli, avrebbe apprezzato un uomo simile. Chi invece sostiene ancora come Izzo che «il Papa non si tocca, è il Vicario di Cristo, la Roccia su cui Gesù ha fondato la sua Chiesa» (le maiuscole sono tutte dell’autore), cosa volete che ne sappia, di umane debolezze?