lunedì 25 aprile 2011

il Fatto 24.4.11
L’appello dell’Anpi: “Non si torna indietro”


Ecco l’appello dell’Anpi per la Festa di domani: “ ‘Cari compagni, ora tocca a noi (...) Io muoio, ma l'idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella’. Giordano Cavestro (‘Mirko’), 18 anni, studente di Parma, medaglia d’oro al valor militare, scrisse questa lettera appena prima di essere fucilato dai nazifascisti il 4 maggio 1944. Il 25 aprile ha il suo nome e di tutti quei meravigliosi ragazzi e ragazze che immolarono la loro breve vita, senza alcuna esitazione, alla causa della liberazione del proprio Paese dalla tirannia nazifascista. Il 25 aprile avremo i loro nomi nel cuore, nella coscienza, e li diffonderemo nelle piazze, ne faremo una ragione di impegno, ancora, per il futuro di una democrazia che, come sappiamo, come vediamo, non è data una volta per tutte, non vive di respiri propri, ma va irrobustita, vivificata, giorno per giorno. Il 25 aprile diremo il nome di Giordano Cavestro a quei senatori della destra, che stanno tentando, con una ignobile proposta di legge, di abrogare la XII disposizione transitoria della Costituzione che vieta la riorganizzazione del partito fascista. Diremo NO! È una vergogna, un oltraggio ai caduti per la libertà. All’Italia intera. Il 25 aprile diremo che dalla Liberazione non si torna indietro”.

Carlo Galli, politologo
Questa giornata è l’antidoto alla giungla. Il 25 aprile è ciò che precede la nostra Repubblica, è la sua origine, l’energia propulsiva che l’ha fatta nascere, vivere e per qualche decennio anche prosperare. Per questo non possiamo trattarla come una data storica, ma dobbiamo viverla come una ricorrenza civile: è il compleanno della Costituzione. Noi oggi siamo di fronte a una sfortunata deriva, dove la vita associata del Paese assomiglia a una giungla, dove vince il più forte, dove anche le elezioni sono vissute come un giudizio divino. Il 25 aprile è stato, al contrario, l’inizio di una esistenza civile regolata, non primitiva o selvaggia, ma all'insegna del rispetto, dei diritti, del bilanciamento dei poteri, dei limiti dei poteri, compreso quello del popolo .
Se ci dimentichiamo questo passato, ci priviamo di un’arma con cui possiamo difendere la Costituzione da chi oggi vuole farla a pezzi per dare il via libera al peggio che è in noi.

Angelo d’Orsi, storico
Non ricordo un anniversario della Liberazione talmente vicino al crollo come questo. Oggi meno che mai non dobbiamo limitarci a celebrare, ma dobbiamo trasformare il 25 aprile in una occasione politica di mobilitazione. Dobbiamo riflettere sul significato storico del fascismo e sulla sua persistente minaccia sotto altre forme: sono assolutamente convinto che il berlusconismo sia il volto nuovo del fascismo. Per questo occorre mobilitarsi, ancora una volta, per cacciare il tiranno. Dobbiamo suonare la sveglia, spiegare agli ‘italiani tranquilli’ che sono seduti sull’orlo del baratro, che stanno per finirci dentro. Bisogna svegliare i dormienti, incitare i dubbiosi, incoraggiare gli esitanti.
Più tardi lo si fa, peggio è. Questo “partito della devastazione” sta spargendo un veleno che distrugge l’etica pubblica. Se non reagiamo, alla fine, diventeremo anche noi portatori sani di questo virus.

Carlo Lucarelli, scrittore

La festa della Liberazione è un riassunto. Un riassunto di tutto ciò che di bello e importante c’è nella nostra Italia. Perché tutto comincia da lì. Penso che il 25 aprile andrebbe festeggiato come la festa più importante dell’anno, almeno per l’Italia laica. C’è sempre stato e sempre ci sarà chi insulta la memoria. Il modo migliore per contrastare chi mortifica il 25 aprile è prendere in mano la memoria. Troppo spesso noi che siamo venuti dopo abbiamo delegato il racconto ai più anziani, a quelli che c’erano e non sempre questa operazione è riuscita al meglio . Tra non molto non avremo più la memoria diretta di chi ha fatto la Resistenza. Per fortuna esiste l’Anpi, che non è un’associazione per solo anziani partigiani, ma un luogo aperto a tutti. E negli ultimi anni le adesioni sono state tantissime. I valori non muoiono con chi li ha costruiti. Dipende da noi.

l’Unità 24.4.11
Questione di tempo
di Concita De Gregorio


A Milano «le Brigate rosse in procura» e, a Roma, le squadracce fasciste che augurano «buona pasquetta» per farsi beffe del 25 aprile. Direte: sono manifesti messi da qualche cretino. Vero, ma solo qualche anno fa non si sarebbero permessi. I cretini escono in massa allo scoperto perché si sentono tutelati, spalleggiati e in fondo approvati. Si specchiano in chi ci governa e improvvisamente non hanno più vergogna né paura, anzi, al contrario: sono tracotanti e rumorosi. Si sentono dalla parte di chi ha vinto, salgono sul carro.
Alcuni sono solo cretini, e pazienza. Altri sono sul crinale del crimine e a volte oltre, ci sono cose che non si possono fare non perché non sta bene o perché si offende qualcuno ma perché è proprio un reato. Apologia di fascismo, per esempio. Altri ancora sono applauditi e saranno probabilmente eletti, così da chiudere il cerchio fra rappresentanti e rappresentati.
Qualche tempo fa con Dacia Maraini abbiamo lanciato una campagna per sollecitare i giovani ad iscriversi all’Anpi, l’Associazione partigiani. Ha avuto molto successo, Fabrizio Gifuni Moni Ovadia e Giancarlo De Cataldo furono tra i sostenitori, moltissimi ragazzi giovani e giovanissimi presero la tessera: resistenti del nuovo millennio proprio nello spirito dei loro nonni, perché come dice oggi in un’intervista Gianrico Carofiglio nella Resistenza c’è «il valore della ribellione contro ogni tipo di sopruso. Violenza fisica, morale, del denaro o della propaganda».
È una forma di violenza (e di paura: sempre nella violenza c’è la paura della propria debolezza) quella di chi cerca in ogni modo di impedire il voto popolare. Prendete il caso dei referendum. Tutti sanno che il voto sul nucleare e sull’acqua ha la concreta possibilità di raggiungere il quorum, essendo questi temi – la salute, la sicurezza, i beni pubblici – quelli che davvero riguardano e interessano i cittadini, in specie raggiungono la sensibilità dei più giovani. È per questo che non hanno voluto l’accorpamento con le amministrative, rimandando il voto a giugno. È per questo che adesso provano in ogni modo, con provvedimenti tampone che puntano solo a far passare la nottata («l’onda emotiva», come dissero con disprezzo il giorno di Fukushima) per arrivare a quel momento non così lontano in cui si potrà ridiscutere daccapo, come se nulla fosse accaduto perché è proprio così: ogni giorno tutto sembra accadere e nulla accade mai.
I due referendum su acqua e nucleare portano con sé anche il voto sul legittimo impedimento, e qui come vedete siamo in tema giustizia, l’unico che al premier davvero interessi. L’obiettivo di tutto questo è semplicemente evitare il voto popolare in tempi di grande impopolarità del Nostro.
I resistenti del nuovo millennio, i giovani, hanno in mano il loro e il nostro destino. Questa incredibile pagliacciata finirà solo quando i giovani decideranno che è l’ora che finisca. I nonni saranno al loro fianco, e se abbiamo fortuna ci sarà ancora qualcuno fra i padri e le madri. Bisognerà informarli, è anche di questo che molto il governo si preoccupa: che non sappiano, che nulla passi in tv. È solo questione di tempo. I ragazzi ormai non si informano più attraverso la tv. Hanno altri canali, altre reti. Facciamoci trovare al loro fianco.
Buona Pasqua, e soprattutto buon 25 aprile a tutti.

l’Unità 24.4.11
In Parlamento i tentativi di revisionismo del Pdl, dai libri di scuola al periodo ‘44-‘48
In Commissione Difesa il ddl per mettere sullo stesso piano repubblichini e partigiani
Il fascismo dentro di loro. Sotto attacco la democrazia
Sono quattro i disegni di legge in discussione tra Camera e Senato: dalla norma per disciplinare le associazioni combattenti e reduci a quella per abolire la XII norma transitoria della Carta sul partito fascista.
di Claudia Fusani


Ricostituzione del partito fascista. Mescolare le acque in un unico calderone per mettere sullo stesso piano partigiani e repubblichini. Rivedere i libri di testo perché sulla storia «non sono imparziali». E già che ci siamo anche una bella commissione d’inchiesta su quello che è accaduto tra il ‘44 e il ‘48 nel triangolo tra la Liguria, il Piemonte e l’Emilia, il triangolo rosso dove particolarmente duro è stato il regolamento di conti tra partigiani e fascisti. Sono proposte di legge spuntate qua e là in Parlamento negli ultimi tre mesi. Di queste ore la notizia di alcuni manifesti che a Roma e a Salerno mani di destra hanno fatto giocare sulla coincidenza di calendario che quest’anno vuole la Pasqua di Resurrezione festeggiata alla vigilia della Festa di Liberazione.
L’attacco alla Carta, alle istituzioni, agli organi di garanzia come la Consulta e ai cardini dello stato di diritto come il Parlamento e la magistratura è cronaca quotidiana e battaglia condotta alla luce del sole dai partiti di maggioranza convinti che sia giunto il tempo di cambiare tutto o molto. Ma nella più generale volontà di ristrutturazione dello stato in nome, è la motivazione ufficiale del centro destra, «di un maggior efficientismo dell’organizzazione dello stato», trova posto anche un disegno finalizzato al revisionismo più sfacciato della resistenza e della liberazione dal nazifascismo.
«Non parliamo del tentativo più o meno esplicito di revisionismo osserva Emilio Ricci, avvocato, membro del Comitato nazionale dell’Associazione nazionale partigiani che periodicamente è sempre spuntato fuori. Oggi è diverso. Da un paio d’anni, leggendo insieme varie iniziative, si ha la sensazione invece di assistere a un piano strutturato per riscrivere la storia in modo strumentale. Un piano che questa volta ha la forza dei numeri di cui gode la maggioranza politica».
Il progetto più serio, «insidioso e subdolo» dice Andrea Orlando responsabile Giustizia del Pd, riguarda due pdl in discussione in Commissione Difesa e che recuperano un precedente tentativo (era il 23 giugno 2008) di mettere sullo stesso piano repubblichini e partigiani. Lo avevano chiamato Ordine del Tricolore. Il Pd si mise per traverso. Il presidente della Camera Gianfranco Fini lo fece morire nei cassetti.
Rispunta a febbraio, prime firme Cirielli e Fontana. In modo più generico vuole «disciplinare le associazioni combattenti e reduci» affidando il tutto alla regia del ministero della Difesa. Il punto è, insiste Orlando, che «chiunque, purchè abbia svolto attività militare, può reclamare il diritto di formare un’associazione di combattenti e reduci a prescindere da due criteri fondamentali: l’adesione ai valori della Costituzione e la distinzione tra legittimamente e illegittimamente belligeranti». Pd e associazioni partigiane sono convinte che questa norma sia il trucco per dare ai repubblichini di Salò il riconoscimento che cercano da anni.
Il 29 marzo viene presentato un altro progetto di legge, questa volta al Senato, che propone di cassare, dopo 63 anni, la 12 ̊ norma transitoria della Carta, che «vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista». Il primo firmatario della norma è Cristiano de Eccher, già condannato per via del partito fascista. È un crescendo. Il 12 aprile Gabriella Carlucci (pdl) chiede una commissione d'inchiesta sull'imparzialità dei libri di testo scolastici. Ci aveva già provato Storace nel duemila. Questa volta la Carlucci si porta dietro 19 deputati. Il 20 aprile Fabio Garagnani (pdl) mette sul tavolo la carta più grossa: vuole anche lui un Commissione d'inchiesta «sulla violenza politica tra il 1944 e il 1948 nel triangolo rosso tra Piemonte, Liguria e Emilia dove ci fu un terrore di massa in nome della Resistenza ma in realtà in un’ottica marxista furono colpiti innocenti cattolici e laici». E’ il filone revisionista avviato da Giampaolo Pansa.

l’Unità 24.4.11
«Nella Resistenza c’è un valore cardine: ribellarsi ai soprusi»
Lo scrittore e senatore Pd: «Festeggiare il 25 aprile significa difendere un’identità collettiva. Quelle del premier sono pagliacciate pericolose»
di Federica Fantozzi


Da un lato l’attenzione al passato: l’auspicata commissione parlamentare d’inchiesta sugli anni ‘44-‘48; l’ipotetica abolizione della norma che vieta la ricostituzione del partito fascista; la revisione dei libri di testo. Dall’altro l’assalto al presente: ogni giorno un “volonteroso” propone di riformare un articolo della Costituzione. Senatore Gianrico Carofiglio, con questa maggioranza che 25 aprile si appresta a festeggiare l’Italia?
«Questa serie di iniziative all’apparenza eterogenee fa parte di un grande disegno strategico. Una mistificazione collettiva. Un colossale gioco di prestigio. Una truffa: spararne ogni giorno una più grossa per distrarre l’attenzione dai temi sostanziali». Sotto il codicillo niente?
«Guardi, il valore politico e sostanziale delle sortite di questi ascari è uguale a quello della dichiarazione di Berlusconi quando uscì lo scandalo delle giovani prostitute per cortesia scriva così: non escort ad Arcore. Disse: ho una compagna stabile, non posso aver fatto ciò di cui mi si accusa. Ecco: una patacca». Siamo governati da burloni?
«Le offese ai professori comunisti, la riforma “epocale” della giustizia, le polemiche sui testi scolastici: tutte bufale. Si manifesta l’indole dell’uomo: un grandissimo pataccaro. Che però sa fare i suoi interessi. Non è sprovvedutezza: il chiasso copre la sostanza. La crisi, il lavoro che non c’è. E il fatto che la maggioranza degli italiani ha cambiato idea su di loro. Sono pronti al crollo e alzano il livello dello scontro». Pagliacciate, dice lei. Pericolose o no? «Le pagliacciate possono essere molto pericolose. È un dato, comunque, che la cifra stilistica di Berlusconi sia la pernacchia, la barzelletta volgare, il riferimento a odori corporali, il sesso meccanico e ossessivo».
Vede segnali di maggiore autoritarismo nel quadro istituzionale? «Non vedo tentativi in atto: l’impronta autoritaria c’è già. Non si parla di fascismo in senso storico, ovviamente. Ma attraverso la propaganda, il cambiamento di mentalità, l’abolizione dell’opinione pubblica si produce la torsione di una democrazia avanzata con tutti i suoi difetti, per carità in una di tipo plebiscitario e peronista».
L’Italia come l’Argentina anni ‘40?
«Berlusconi è un Peron in sedicesimo, in tutti i sensi» Se questo è il quadro, cosa fare? «Tenere la barra ferma sui punti fondamentali. Non abboccare alle provocazioni. Non discutere di temi inesistenti: la riforma Alfano e la commissione sul ‘44-‘48 non si faranno mai. Non reagire in modo scomposto. Dobbiamo dettare noi l’agenda».
Ne fanno parte le celebrazioni del 25 aprile? Che senso ha oggi la Resistenza? «È una categoria fondativa. Le feste servono a confermare l’identità di una collettività intorno a valori non prescindibili, che se vengono messi in discussione vanno difesi. Nella Resistenza c’è il valore della ribellione contro ogni tipo di sopruso: violenza fisica, morale, del denaro o della propaganda. Festeggiando il 25 aprile diciamo che non intendiamo assistere inerti a quello che stanno facendo».
Secondo lei, il Paese ha gli anticorpi per reagire? «Ne sono certo. Ha visto le ultime foto di Noemi? Era una ragazzina molto bella: i ritocchi l’hanno trasformata in altro. Non entrerei i dettagli. Basta guardarle, quelle foto. Quasi una metafora di cosa significhi entrare, a qualsiasi titolo, in rapporto con quest’uomo. Gli italiani lentamente cominciano a capirlo». Primo banco di prova per la sua tesi, le amministrative.
«Se quella città per loro cade il che significa che per noi risorge nulla sarà come prima». Su Milano è ottimista?
«Sì. Lì si gioca una bella partita politica. Chiariamo una cosa: Lassini, che ha offeso le vittime dei terroristi, poi si è ritirato e poi ha cambiato idea, sarà eletto e andrà in consiglio comunale. La cifra della destra oggi è quella di Lassini, dei suoi mandanti e fiancheggiatori».
Sui muri romani sono comparsi manifesti con fasci littori e soldati in fez. «È un fascismo da strada che fa parte di una lunga linea grigiastra di imbecillità miserabile e idiota. Non merita commenti politici ma antropologici e, in certi casi, criminologici».
Si stupirebbe se il premier passasse il giorno della Liberazione a Villa Certosa? «Non mi interessa cosa fa. Nulla potrebbe aggiungere scandalo o vergogna a quanto ha già fatto. Dobbiamo solo liberarcene».

il Fatto 24.4.11
La nostra festa
di Paolo Flores d’Arcais

Domani, 25 aprile, è Festa nazionale. Il che significa che la nazione italiana riconosce in quella data il fondamento della propria identità. Detto altrimenti: il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani perché per far parte della Patria è necessario riconoscere nel fatto storico che si celebra la radice della propria comune cittadinanza. Ora, il 25 aprile è stato scelto a riassumere i giorni in cui i partigiani insorgono in tutte le più importanti città del nord, liberandole. “Aldo dice ventisei per uno” è la frase in codice trasmessa da radio Londra con cui il comando della Resistenza il pomeriggio del 24 aprile dà l’ordine dell’insurrezione generale.
Il 25 aprile è dunque la festa di tutti gli italiani perché è la festa della Liberazione, la festa della vittoria della Resistenza antifascista. La Resistenza antifascista è dunque il fondamento del nostro essere italiani. Chi della Resistenza antifascista nega o disprezza o combatte i valori sta semplicemente minando e negando l’identità e l’appartenenza che ci fanno Patria. Patria e Resistenza antifascista sono sinonimi, fino a che l’Italia vuole restare “Repubblica italiana” e non collassare di nuovo in quella mera “espressione geografica” di cui parlava Metternich. La Resistenza antifascista fa tutt’uno infatti con la Costituzione repubblicana, che nasce nel pieno esplodere della guerra fredda e che tuttavia custodisce l’identità comune della Nazione, al di là di uno scontro politico sempre più aspro, proprio perché radicata nell’impegno comune – fino al sacrificio della vita cui hanno saputo dar luogo i partigiani in montagna, i militanti dei partiti clandestini nelle città, nelle carceri, in esilio.
La Resistenza antifascista, e la Costituzione che ne codifica la “buona novella” (firmata dal democristiano De Gasperi e dal comunista Terracini, ed elaborata da figure straordinarie come Calamandrei), rappresentano perciò una sorta di religione civile, di ethos comune dell’Italia democratica, nel venire meno dei quali va in pezzi la Patria stessa, e resta la nuda forza degli “spiriti animali”, le “ragioni” di chi ha più potere ed eversiva-mente lo esercita in una sorta di guerra civile soft. Forse l’articolo 1 va cambiato davvero: “L’Italia è una Repubblica democratica … nata dalla Resistenza antifascista, ai cui valori si ispira”.
Domani 25 aprile, giorno della Liberazione, della vittoria della Resistenza antifascista, è Festa nazionale. Festa dell’Italia. Chi non vi partecipa “toto corde” è perciò contro la Patria, dell’Italia si fa nemico.

il Fatto 24.4.11
La Costituzione per resistere
di Furio Colombo


“Sgomberare un campo nomadi” non significa spostare gente senza casa da un luogo inadatto a una abitazione vera. Ma spingere via, nel cuore della notte, donne e bambini, dopo averli terrorizzati con l'arrivo di polizia e militari.

Caro Furio, ti scrivo a proposito del 25 aprile. Come ogni anno noi investiamo in questo appuntamento, ritenendolo fondamentale non solo per la memoria storica.
Due anni fa siamo scesi in piazza con i rifugiati politici trattati in maniera disumana dal comune di Milano. L'anno scorso soprattutto per denunciare l'opera di revisionismo storico di un governo della città (e della provincia, e della regione e del Paese) che finanzia e sostiene gruppi neofascisti. Quest'anno il nostro obiettivo è gettare un ponte dall'altra parte del Mediterraneo per dire "cacciare il Rais è possibile". Come? Soprattutto distruggendo quelle frontiere che avevamo affidato a Gheddafi per bloccare i migranti in mare. Noi saremo in piazza con "El General" il rapper tunisino che è stato arrestato il giorno in cui Mohammed Bouazizi si dava fuoco, mentre cominciava la rivolta nel suo Paese.
Noi non saremo in piazza con Moratti, Podestà e i loro candidati.
firmato: Leon

QUANDO LEON, nella lettera che ho scelto di pubblicare come apertura di questo articolo dice "noi", intende persone molto giovani che, nella immensa confusione, dolosa e colposa in cui vive il Paese, non hanno dimenticato l'orrore del fascismo e delle leggi razziali e lo scrupoloso lavoro dei fascisti italiani al servizio del criminale progetto nazista. E sanno ciò che l'Italia di oggi, smemorata e caotica, sta facendo con una concitata persecuzione ai rifugiati delle rivoluzioni e della guerra in Nord Africa e l'ossessivo e persecutorio "sgombero" dei campi nomadi, veri e propri rastrellamenti notturni che non danno tregua a un piccolo popolo ospite in Italia e in Europa da centinaia d'anni. Mentre scrivevo questa pagina per fare in modo che tanti sappiano, nel nostro disperato Paese, dell'esostenza di persone giovani che hanno sentimenti e idee e progetti come quelli narrati da Leon, ho ascoltato, in un solo telegiornale, tre diverse vicende che ci danno notizie del tempo e del modo in cui stiamo vivendo. La prima notizia viene da Roma. In piena vigilia pasquale, e mentre la città si prepara a festeggiare la beatificazione di un Papa, è avvenuto un altro sgombero di campo nomadi della capitale.
Donne e bambini si sono presentati alla Basilica di San Paolo e hanno chiesto asilo. Infatti "sgomberare un campo nomadi" non significa spostare gente povera e senza casa da un luogo inadatto ad una abitazione vera. Non è ciò che accade. Qui, in questa civiltà e in questo Paese, "sgomberare" vuol dire spingere via, nel cuore della notte, donne e bambini, dopo averli terrorizzati con l'arrivo di polizia e formazioni militari, dopo avere distrutto con le ruspe il poco che avevano, per costringerli a vagare fuori, lontano, altrove, senza che nessuno (tranne le proteste appassionate della Comunità di Sant'Egidio) si preoccupi di dire dove e come risolvere il problema. Quale problema? I nomadi non ci sono più e basta.
Ma nello stesso telegiornale ragazzi tunisini facevano vedere ferite e lividi del pestaggio subito dalle guardie del centro di detenzione in cui erano stati ammassati (si chiamano “centri di identificazione e di espulsione” ma sono prigioni senza regole e senza codice). Hanno detto di esse stati puniti per avere tentato la legittima protesta della sciopero della fame. Oggi. In Italia.
MA QUESTI sono anche i giorni del candidato di pietra alle elezioni comunali di Milano, certo Lassini Roberto (foto), che ha ideato, pagato, stampato i manifesti che proclamano i giudici di Milano brigatisti rossi. Vuol dire assassini dediti a una missione, con fini oscuri e mandanti oscuri che infiltrano il Paese per eliminare le personalità più rappresentative, come Berlusconi.
Lassini Roberto è nessuno ma significa molto. Come in un tetro gioco del ventriloquo, parla, attraverso di lui e i suoi manifesti, il primo ministro italiano, uomo squilibrato dal quale il mondo ormai sta alla larga, cercando di non incontrarlo neppure nelle cerimoniose circostanze internazionali. Ma Lassini Roberto è qualcosa di più. E' un personaggio insignificante che ha lanciato apertamente e ufficialmente la guerra tra Potere esecutivo e Ordine giudiziario, in modo da eliminare le piccole trovate degli avvocati per ritardare o rendere pre-morti i processi a carico del capo del Governo. No, Lassini, a nome della banda Santanchè si impegna a fare in modo che sia guerra totale, trasformando elezioni amministrative, un tempo incentrate sulla qualità dei sindaci e del lavoro fatto o promesso, in una guerra senza quartiere per portare a termine il grande progetto, la spaccatura dell'Italia. Difficile dire se il solo grande partito di opposizione , il Pd sia in grado di fronteggiare il pericolo, se lo veda. A giudicare da ciò che dice e ripete il più combattivo alleato del Pd, la radicale Bonino, si direbbe di no. Se è no, vuol dire che Lassini potrà essere eletto insieme alla Moratti in un progetto di secessionismo fra Istituzioni dello Stato, un progetto anche più folle del secessionismo regionale della Lega.
ECCO PERCHÉ l'appello per il 25 aprile lanciato dai giovani e giovanissimi di Milano intorno a Leon, e detto chiaro nella sua lettera, mi sembra il punto di riferimento più forte. Non è nostalgico ma punta al dopo. Resistenza e Costituzione sono il senso, il percorso e il progetto, per cancellare una Italia storta e malata in cui si lasciano morire i "clandestini" in mare o sugli scogli di Lampedusa, si dà la caccia ai Rom, costringendoli a rifugiarsi in una chiesa, e si insegna ai bambini bianchi delle scuole italiane di oggi la canzoncina razzista "faccetta nera".
Grazie a ragazzi come Leon, possiamo ricordarci che a Milano ci saranno elezioni politiche drammaticamente importanti. E che Resistenza e Costituzione sono il programma e l'impegno per salvare la Repubblica.

Corriere della Sera 24.4.11
Un antidoto all’indifferenza
di Claudio Magris


N on è stato solo il Terzo Reich a proclamarsi e a credersi destinato a durare mille anni, anche se è durato solo dodici, meno del mio scaldabagno. Ogni potere, soprattutto ma non solo quello totalitario, ogni civiltà, ogni sistema di valori e di costumi si vogliono e si ritengono definitivi; siamo inclini a scambiare il presente, l’assetto delle cose che ci circondano, per l’eterno, qualcosa che non può cambiare. In questo senso, siamo quasi tutti ciechi conservatori, incapaci di credere che il nostro mondo— la politica, le gerarchie sociali, gli usi, le regole — possa mutare. Se nell’ottobre del 1989 qualcuno ci avesse detto che il muro di Berlino sarebbe presto caduto, lo avremmo preso per un ingenuo sognatore. Forse chi ha il senso religioso dell’eterno è più protetto dalla supina adorazione idolatrica di quel momento di tempo in cui vive e delle momentanee ed effimere forze che in quel momento appaiono vittoriose e insostituibili. Le cose invece cambiano, i muri cadono, ma l’idolatria del momento, che impone di essere «al passo dei tempi» , permane, profondamente radicata nel cuore e nella mente. Caduto il muro di Berlino che pareva eterno e con esso tutto il sistema comunista, uno studioso si è affannato a enunciare, con una celebre frase poco intelligente, che «la storia è finita» e dunque che il mondo sorto dal crollo del comunismo era quello definitivo, destinato a durare — con il suo meccanismo politico, le sue strutture economiche, il suo stile di vita — per sempre. Semmai è vero il contrario; quel muro congelava o cercava di congelare la storia, che invece oggi è vertiginosamente instabile, imprevedibile e mutevole. Sono soprattutto le dittature — quelle «molli» che soggiogano con strumenti economici, mediatici e culturali, e ancor più quelle «dure» che s’impongono direttamente con la forza bruta — che si presentano come l’unico sistema, l’unica realtà possibile. Le dittature invece cadono e il 25 aprile ricorda la caduta di quella fascista in Italia. C’è poco da aggiungere a quanto è stato detto tante volte sull’antifascismo e sulla Resistenza, sull’imperituro significato di quest’ultima quale liberazione nazionale, sulle sue contraddizioni, sulle sue diverse e contrastanti anime, sui suoi eroismi e sui misfatti compiuti in suo nome. Il 25 aprile simboleggia vent’anni di un’altra Italia, differente da quella del regime fascista; una resistenza che non è solo quella partigiana, ma anche quella di coloro che non si sono piegati quando un’altra Italia sembrava impossibile; di coloro che si sono opposti nettamente e clamorosamente, nella lotta clandestina, ma anche di chi, più modestamente, ha cercato di salvare il salvabile di dignità e ragionevolezza, senza eroismi ma con la capacità di non lasciarsi abbagliare dall’ «aria del tempo» , di respingere la tentazione di «marciare con la Storia» , di preservare quell’intelligenza critica che non si lascia sedurre dai belati del gregge, neanche quando sembrano ruggiti di leoni. Ogni resistenza ha una componente pasquale, di resurrezione; è un risorgere dalla morte, da quella falsa vita che si spaccia per immutabile e definitiva ossia finita e dunque morta.
Anche oggi, dinanzi al dilagare di confusione, volgarità, prepotenza, corruzione, sconcezza che sommerge il Bel Paese come liquami che salgano dalle fognature, è forte la tentazione di arrendersi, di lasciarsi andare, di credere che l’andazzo disgustoso sia uno stadio ultimo, che una vera mutazione antropologica abbia creato un nuovo tipo d’uomo, un non-cittadino, e che questa specie, nella selezione darwiniana, sia fatalmente dominante. L’indifferenza che mette in soffitta la Resistenza vera e propria e l’attentato alla Costituzione, che da essa è nata e che è la spina dorsale dell’Italia civile, sono un sintomo fra i tanti di questa involuzione morale. Ma proprio quella data insegna a non scoraggiarsi; ricorda come credere che tutto sia perduto e che non si possa più reagire sia una tentazione, stupida come lo sono in genere le tentazioni. C’è un’altra Italia possibile, rispetto a quella che oggi subiamo. Non è il caso di fare inchini al mondo così com’è e come esso pretende, anche perché, se proprio si è costretti a farlo, ci si può inchinare come Bertoldo, che si piegava davanti ai potenti, ma voltandosi dall’altra parte.

il Fatto 24.4.11
Rom “Fora dai ball”
Alemanno come Bossi: deporta coloro che si erano rifugiati nella Basilica di San Paolo
di Silvia D’Onghia


“Almeno pe’ sta’ qua me so’ risparmiato la spesa de Pasqua”. Il delegato del sindaco alla Sicurezza, Giorgio Ciardi, si sente un deus ex machina: per tutta la mattina fa avanti e indietro tra il parco interno alla Basilica di San Paolo, dove - dopo una notte passata in due stanzoni-magazzino - sono rimasti una quarantina di rom, e il piazzale antistante. Ciardi media, coordina, prova a chiamare al telefono Alemanno. E alla fine tira fuori il coniglio dal cilindro: mille euro al mese (500 dalle casse dei servizi sociali del Campidoglio, altrettanti “dal Vicariato o dalla Caritas, mo’ nun me ricordo”) per ogni nucleo familiare che accetterà il rimpatrio assistito in Romania.
Il cielo sopra Roma è grigio, viene giù anche qualche goccia di pioggia. Di prima mattina alcuni rom oltrepassano i cancelli della Basilica, le mamme vanno a comprare la colazione per i bambini, che sono tanti (alcuni anche neonati). Quando tornano, trovano un’amara sorpresa: non possono rientrare. I gendarmi dello Stato vaticano impediscono a chi è uscito di tornare dentro. Così i bimbi rimangono senza mamme o, viceversa, qualche ragazzino uscito resta senza genitori. È il caso di Giovanni, occhi vispi e brillantino all’orecchio. Parla con tutti, gendarmi, giornalisti, passanti: fa battute in romanesco e attira l’attenzione. È nato in Romania, come tutti i rom che venerdì hanno occupato la Basilica di San Paolo fuori le mura. “So’ annato a scola tre mesi”, ci racconta. “E poi?’”. “Poi so’ morte le maestre”.
MARIA ha 45 anni e cinque figli, il più grande 26 anni, il più piccolo 8. Viveva da cinque mesi nel campo di via dei Cluniacensi, a Casal Bruciato, l’ultimo in ordine di tempo fatto sgomberare da Alemanno. “Siamo venuti qui perchè in Romania non c’è lavoro. Non riuscivamo a pagare l’affitto nè a sfamare i nostri figli. Qui gli uomini lavorano come autisti, o vendono il rame. Io chiedo l’elemosina, e me ne vergogno. Ma capisco che non ci può essere lavoro per tutti. Se potessimo ritornare a casa, lo faremmo volentieri”.
La Prefettura di Roma ha dichiarato al Fatto che tutti i rom sgomberati (un migliaio solo nell’ultima settimana) sono stagionali, arrivati a Roma per lavorare durante la primavera. La smentita arriva direttamente da loro: “Sono arrivato in Italia 7 anni fa, e da 4 vivevo nel campo di Casal Bruciato” racconta Pietro, 26 anni, una moglie di 19 e un figlio di 15 mesi. “Ho lavorato per alcuni mesi come muratore, poi sono stato costretto ad andare ai semafori –. Gli italiani ci insultano, non hanno alcun rispetto per noi”. Constantine ha gli occhi blu e la pelle nerissima, in Romania faceva il paracadutista, in Italia dice di fare il madonnaro. Racconta anche di avere una moglie e un figlio a Bucarest e cerca il modo per strappare qualche euro a chi lo ascolta. Appena si sparge la voce dell’incentivo economico per tornare in patria, Constantine prova a fare il furbo con un funzionario dei servizi sociali: “Ma quando ce li date questi soldi?”. In tarda mattinata la confusione regna sovrana. Il Campidoglio non si schioda dalle sue posizioni: assistenza nei Cara (Centri per i richiedenti asilo) per le sole donne e bambini o rimpatrio assistito. A nulla è valsa la proposta delle associazioni che si occupano di integrazione: voi trovate un luogo provvisorio e noi ci occupiamo per qualche mese di loro a costo zero. “Lo vadano a chiedere alla Provincia il luogo”, risponde Ciardi ai cronisti. “Se accettassimo questa ipotesi – rincalza il sindaco Alemanno – a Roma arriverebbe un flusso incontenibile di persone che verrebbero qui nella convinzione di trovare una casa”.
QUALCOSA cambia quando una delegazione dell’ambasciata romena, poliziotti compresi, entra nel giardino della Basilica. Dopo una decina di minuti Ciardi ne esce orgoglioso: i primi romeni hanno accettato il rimpatrio. Armi e bagagli, 16 persone si concentrano in una zona off limits per chiunque non voglia imbarcarsi: trascorreranno la Pasqua separati (donne e minori nel Cara di Castelnuovo, uomini in un altro centro del Comune), poi partiranno martedì. “Chiediamo a chi rimane di firmare un documento in cui si impegna a garantire una migliore assistenza ai bambini – spiega Antonio Di Maggio, comandante dell’VIII Gruppo della polizia municipale –. Se firmano e non lo fanno, applichiamo la legge”. Cioè portiamo via i minori. E chi accetta il rimpatrio, cosa deve firmare? “Il modulo ‘convenzionale’ non è ancora stato preparato, ma non possiamo impedire a nessuno di rientrare”. Sarà, ma molti rom non si fidano. Per quale ragione Roma dovrebbe dare mille euro a una famiglia che tra poche settimane potrebbe rientrare?

il Fatto 24.4.11
Il Senato: sono 200 mila Mancano le politiche di integrazione

“A differenza di quanto comunemente si crede, la stragrande maggioranza dei Rom, Sinti e Caminanti presenti sul territorio italiano non è nomade e ha anzi uno stile di vita sedentario”. Lo scrive la commissione straordinaria per la Tutela e la Promozione dei diritti umani del Senato, in un rapporto stilato a febbraio. Di più, secondo il Viminale, solo il 2-3 per cento viaggia ancora in carovana. Opera Nomadi ha stimato che il 60 per cento della popolazione ha meno di 18 anni. “Un popolo di bambini”, spiega la commissione. Nei campi sparsi sul territorio nazionale vivono circa 40 mila persone, un dato che rappresenterebbe tra un quarto e un quinto della popolazione complessiva. A Roma sono stati censiti oltre 100 campi, di cui 7 villaggi autorizzati, 14 tollerati e oltre 80 insediamenti abusivi. A Milano (dati Ismu) esistono 45 campi. Per tutti loro, dice il Senato, non si fa abbastanza: manca un progetto di raccolta dei dati, manca un Piano nazionale (il che ci fa perdere risorse europee), manca la regolarizzazione, che passa anche attraverso il riconoscimento della cittadinanza per i minori.
In serata, arriva l’annuncio dei rom rimasti fuori dalla Basilica: “Se non potremo rientrare in chiesa e dormire lì anche stanotte, allestiremo una tendopoli sul prato”. La chiamano Pasqua.

Repubblica 24.4.11
La leader Cgil attacca: il provvedimento potrebbe non essere convertito e servire solo a far saltare la consultazione

Camusso: "Grande mobilitazione contro la trovata del decreto-imbroglio"
di Roberto Mania

L´acqua, come la scuola e la sanità è un bene primario, di cui si può parlare solo in termini pubblici
Devo ancora vederli i privati che entrano in un business e pensano prima agli investimenti e dopo al loro profitto
La Confindustria, appoggiando la posizione del governo, mostra una visione miope contro gli interessi delle imprese

ROMA - «Serve una mobilitazione della politica e della società civile per impedire il decreto-imbroglio che sta preparando il governo con l´obiettivo di far saltare il referendum sull´acqua. Bisogna dire all´esecutivo che un´operazione di questo tipo non si può fare». È la proposta di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, che ha messo la sua firma per la richiesta del referendum contro la privatizzazione del servizio idrico. In sintonia con il Comitato promotore pensa che l´acqua sia ancora un «bene primario» e che per questo, come la scuola e la sanità, non se ne possa parlare se non in termini «pubblici». Di «benessere della collettività», dice.
Perché parla di "decreto-imbroglio"? Anche nel passato i governi sono intervenuti con leggi per evitare i referendum.
«Sì, ma mai l´hanno fatto per decreto».
Vuol dire che mancano i requisiti di necessità e urgenza?
«Non solo. C´è di più. Credo che ci sia un problema giuridico non secondario. Ed è qui l´imbroglio: il decreto potrebbe ben non essere convertito in legge e dunque servire esclusivamente a impedire lo svolgimento del referendum. Un imbroglio, appunto».
Il suo è un processo alle intenzioni. È difficile che il governo possa confermare la sua interpretazione. In ogni caso: pensa che il Presidente Napolitano non dovrebbe firmare l´eventuale decreto?
«Non ho alcuna intenzione di tirare per la giacca il Presidente, lo fanno già in molti in un Paese che è in perenne conflitto istituzionale. Però possono entrare in campo la politica e la società civile. Serve una mobilitazione, appunto, di tutti coloro - dai sindaci ai comitati locali - che hanno raccolto le firme per il referendum».
Il governo ha annunciato che intende istituire un´Authority per sorvegliare il mercato dell´acqua. Non sarebbe una garanzia per gli utenti? La privatizzazione sarebbe regolata. È lo stesso modello realizzato nel gas e nell´energia.
«Qui non stiamo parlando di automobili per le quali, non ho dubbi, che debba essere il mercato il campo di gioco. L´acqua è un´altra cosa. L´acqua è come la scuola o la sanità: non si può che parlarne in termini pubblici. Qui bisogna pensare in termini di benessere della collettività, non di guadagni, di profitti o di affari di qualcuno. L´acqua è un bene prezioso ed è per questo che ha senso fare una grande battaglia».
Comunque è l´Europa che ha fissato le regole del gioco. In Francia, per esempio, c´è un modello privatistico del servizio di distribuzione dell´acqua.
«Sì, è vero in Francia è così. Ma ci sono battaglie che si possono fare anche per determinare un cambiamento in Europa».
Chi è a favore della privatizzazione sostiene che l´ingresso della logica di mercato aumenterebbe l´efficienza del servizio, riducendo gli sprechi, le perdite d´acqua lungo i tubi, e probabilmente finirebbe anche per abbassare i costi. Cosa risponde?
«Che questa contrapposizione tra pubblico e privato mi pare fuori luogo. Ci sono gestioni private che hanno migliorato l´efficienza e altre che fanno inorridire. Quello dell´acqua non solo è - come ho detto - un settore pubblico per definizione, ma richiede pure un significativo sforzo dal punto di vista degli investimenti. E io devo ancora vederli i privati che entrano in un business e pensano prima agli investimenti e dopo al loro profitto. Mi pare che le sirene secondo cui con i privati i servizi migliorano abbiano smesso di suonare. Insomma, l´argomento non funziona più e d´altra parte in giro si vedono tanti monopoli e poca concorrenza».
La Confindustria ha fatto da sponda, per quanto dietro le quinte, all´azione del governo per bloccare prima il referendum sul nucleare e ora quello sull´acqua. Cosa pensa della posizione degli industriali?
«Mi pare un´operazione molto miope, contraddittoria rispetto agli interessi stessi delle imprese ma anche la logica conseguenza di chi ha cancellato dal proprio vocabolario la parola "pubblico". Non mi pare proprio che si possa pensare di aver risolto i problemi mettendo, o provando a mettere, i referendum nel cassetto. Questo è un Paese che ha bisogno di un piano energetico, così come di investimenti nella distribuzione dell´acqua. Questo è un Paese che ha bisogno di scelte, non di nascondere i problemi, pensando di chiudere così le partite».
Perché la Cgil è molto impegnata in questa battaglia a difesa dell´acqua pubblica?
«Perché è un tema che attraversa da tempo tutta la nostra organizzazione. Noi non pensiamo agli acquedotti di quartiere, pensiamo a integrazioni e fusioni tra le municipalizzate. Noi pensiamo che il pubblico possa essere efficiente o, come dicono, anche efficientato».

l’Unità 24.4.11
Il killer dei referendum ha un nome: si chiama silenzio
di Mario Staderini


Il vero obiettivo del Governo rispetto ai referendum su nucleare e acqua non è tanto impedire il voto, bensì demotivarlo.
Spostare il confronto dal merito dei quesiti al permanere o meno della ragione per la tenuta degli stessi, significa far passare il messaggio che i referendum siano inutili perché tanto il Governo ha già fatto marcia indietro. In questo modo, una parte di indecisi si determinerà a disertare le urne e tanto basterà per non raggiungere il quorum in una consultazione dove mezzo milione di voti potrebbe fare la differenza. A quel punto, non conterà nulla che le leggine da azzeccagarbugli si rivelino incapaci di evitare la tenuta dei tre referendum, cosa peraltro nota anche ai proponenti.
Ad oggi, la norma per far saltare il referendum sul nucleare deve ancora essere approvata dalla Camera, mentre il decreto legge sull’acqua è allo stato una fantasia di un sottosegretario che per avere effetti dovrebbe essere convertito in legge ben prima della decisione della Cassazione.
Ammesso e non concesso che il Parlamento trovi il tempo di approvarle (negli stessi giorni si voterà per il processo breve e il testamento biologico), le leggine non soddisferanno comunque i parametri costituzionali per considerare superati i quesiti. Salvo il compiersi, da parte dell’Ufficio centrale, di un blitz come quelli che permisero alla Corte costituzionale di dichiarare inammissibili referendum in realtà legittimi ma scomodi al Palazzo.
Sarebbe un errore pensare che tutto accada in funzione solo del referendum sul legittimo impedimento, sottovalutando così la forza trasversale del blocco nuclearista e di quello affamato delle rendite assicurate dalla trasformazione dei monopoli pubblici in monopoli privati. Qui gli interessi di Berlusconi convergono con quelli di altri potenti. La partita referendaria si giocherà, ancora una volta, intorno alla possibilità che gli italiani conoscano le contrapposte tesi in campo al fine di esercitare un voto responsabile. Su questo il partito degli antireferendari ha già vinto, con la fattiva complicità della Rai e della Commissione parlamentare di vigilanza, la quale non ha ancora approvato il regolamento radiotelevisivo che doveva essere in vigore dal 4 aprile.
Se ci fosse un vero dibattito sul nucleare, si parlerebbe anche delle politiche energetiche italiane e delle oligarchie che le condizionano a loro esclusivo vantaggio. Allo stesso modo, parlare di acqua e di servizi pubblici locali significherebbe aprire il vaso di Pandora del consociativismo municipale e degli imprenditori d’area cui si vuole affidare la cogestione dei miliardi di investimenti pubblici nel settore idrico.
È la conoscenza quello che davvero temono.

l’Unità 24.4.11
Lo sviluppo secondo la destra: meno ricerca e più mestieri
Spingere i ragazzi verso i lavori manuali non risolve il problema della disoccupazione giovanile Per creare nuovi posti c’è solo una strada: puntare sull’innovazione. Come fanno gli altri Paesi
di Ignazio Marino


Non ho sempre pensato di fare il chirurgo. Da bambino mi affascinavano i carrettieri che sul molo di Genova trasportavano le merci su carri con ampi pianali trainati da imponenti cavalli; da ragazzo per un periodo ho pensato addirittura di fare l'orologiaio. Poi, dopo il primo trapianto di cuore eseguito da Christiaan Barnard, nel 1967, fui folgorato dalla chirurgia dei trapianti. I miei sogni e i miei dubbi di adolescente erano quelli di tantissimi giovani di oggi, ma io ho avuto una fortuna che molti non avevano: la possibilità di scegliere. Nello scenario politico senza visione di questi tempi, si sventola il vessillo del “lavoro manuale” e si scivola in dichiarazioni poco costruttive su “cattivi genitori” che spingono i figli alla laurea quando potrebbero “imparare un mestiere”. Non c’è nulla di sbagliato in questo ma deve rimanere una scelta, un progetto di vita che un giovane vuole costruire per seguire la sua passione. Temo non sia così.
È evidente che la maggioranza di destra governa ritenendo di trovarsi di fronte a cittadini poco consapevoli nella scelta dei percorsi di studio e senza interrogarsi se sia o meno un errore rinunciare ad investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo. Questo orientamento sulle politiche educative diverrà presto un obbligo implicito, sono i numeri a dirlo: disoccupazione giovanile quasi al 30%; diminuzione delle immatricolazioni nell’anno accademico 2009/2010 (293mila a fronte delle 338mila del 2003/2004); calo di studenti che al termine delle medie secondarie decidono di proseguire gli studi. Gli investimenti in innovazione e sviluppo sono fermi da undici anni, secondo i dati Ocse, all'1,18% del Pil: fanno meglio di noi Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia ed Estonia. E tutto questo mentre l’amministrazione Obama parla di un nuovo “momento Sputnik” e punta su un milione di auto elettriche entro il 2015; sulla maggiore percentuale di popolazione laureata rispetto ad ogni altro Paese entro il 2020; sull’80% di energia pulita entro il 2035; e poi banda larga e internet superveloce per tutti.
Nel ragionamento del governo manca inoltre una tessera fondamentale del mosaico sociale: il gelataio, il panettiere, l'orefice, il piccolo produttore di caffé hanno operato una scelta di vita legittima e lavorano per prodotti di alta qualità, ma vivono in un mondo globalizzato.
Quale competitività mondiale potremo assicurare a questi prodotti se non avremo ad esempio, laureati in economia ed ingegneria? Di più, il ministro Gelmini è certa che in Italia non ci sia più bisogno di fisici nucleari o di ricercatori delle malattie neurodegenerative? E chi svilupperà i software delle cartelle cliniche elettroniche e la telemedicina negli ospedali ma soprattutto le nuove applicazioni informatiche sul nostro territorio? Gli italiani che fanno ricerca all’estero sono migliaia e producono ricchezza: la loro fuga, infatti, in vent’anni è costata all'Italia oltre 4 miliardi di euro (la cifra corrisponde a quanto ricavato dal deposito di 155 domande di brevetto, dei quali l’inventore principale è nella lista dei “top 20” italiani all’estero).
Io vorrei vivere in un Paese in cui una cosa non esclude l’altra, in cui non ci sia una sola via all’occupazione: non è incitando i ragazzi ad accaparrarsi gli ultimi lavori da elettricisti, gruisti e falegnami che risolveremo il problema della disoccupazione giovanile.

l’Unità 24.4.11
Fu guerra civile a ridosso della linea Gotica
In «Uomini alla macchia» lo storico Fiorilli ricostrusce la guerriglia Le scoperte negli archivi militari inglesi e della Guardia repubblicana
di Carlo Ricchini


Alle spalle del fronte, ai confini tra Toscana e Liguria, monti della Lunigiana e entroterra spezzino, la guerra di liberazione svolse un ruolo chiave: i partigiani erano la spina nel fianco dei soldati tedeschi e dei loro rifornimenti. Svolsero questo compito con atti di coraggio e di eroismo, subirono con le popolazioni rastrellamenti, rappresaglie, fucilazioni. Ma, rivela Maurizio Fiorillo nel suo ottimo libro, mancò un comando unico, le bande erano divise, a volte rivali. Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-45 (editore Laterza), ricostruisce quel periodo con un’ottica complessiva, senza remore e reticenze, dopo avere attinto un’ampia documentazione, anche inedita, come le relazioni delle missioni militari di collegamento britanniche presso le formazioni partigiane, conservate presso i National Archives di Londra, documenti tedeschi e i notiziari della Guardia nazionale repubblicana.
Bisogna ricordare che il golfo della Spezia, nel 1943, era una grande piazzaforte militare, con l’Arsenale, caserme di marinai, batterie sulle colline del golfo con cannoni e mitraglie contro aerei e attacchi via mare. Migliaia di militari, in parte meridionali, che l’8 settembre, sbandati, non ebbero alternativa che seguire la via dei monti. Nascono così, nell’autunno del 1943, nuclei formati da sbandati, renitenti alla chiamata alle armi della repubblica di Salò, oltre che antifascisti di varie tendenze con esperienze di lotta clandestina, di carcere e di confino. Sono bande ribelli che passano gradualmente dalla resistenza passiva all’attività di guerriglia, senza mai unirsi in un vero e proprio «esercito di liberazione», mantenendo un’ampia autonomia, una variegata coloritura politica e proprie specificità locali. Il mondo alla macchia emerge come un mosaico complesso, nel quale sono contemporaneamente presenti idealismo e necessità di salvezza, progetto politico e spontaneismo, patriottismo e opportunismo, l’inevitabile violenza di un conflitto senza regole e la volontà di ricostruire dalle ceneri del disastro bellico e della dittatura un quadro politico diverso e democratico.
Deve essere inoltre ricordato che la provincia della Spezia venne insignita della medaglia d’oro della Resistenza e la città, fra le più ferite dai bombardamenti, della medaglia al valore militare.Il libro di Fiorillo è denso di fatti, narrati con una scrittura fluida, semplice, che intreccia storie diverse, riportandole a un racconto unico, avvincente. Non mancano gli episodi oscuri, come la ingiusta fucilazione da parte degli stessi partigiani del comandante «Facio», Dante Castellucci, poi decorato con la medaglia d’argento al valore militare. Emergono dal racconto personaggi della resistenza che già sui monti operarono per un movimento unitario, e che poi si distinsero nella ricostruzione e nell’amministrazione pubblica, come Anelito Barontini, Flavio Bertone, Paolino Ranieri, Pietro Beghi, Varese Antoni, soltanto per citarne alcuni. Sulla guerra di Liberazione gli storici si sono divisi: lotta di tutto un popolo unito oppure guerra civile. Fiorillo fa sua la tesi di Claudio Pavone, la sostiene e la documenta sul campo. Conclude la sua importante ricerca affermando che i ribelli, «nati da una sconfitta, dalla fuga da una guerra odiata e da un desiderio di riscatto spesso ancora confuso, combatterono contro i loro stessi errori e debolezze. Non si arresero e non accettarono di essere solo testimoni degli sconvolgimenti che attraversarono il loro paese, le città dove vivevano le loro famiglie. È forse questa la loro principale vittoria».

Corriere della Sera 24.4.11
«L’uomo non è il prodotto casuale dell’evoluzione»
Benedetto XVI riporta in primo piano la Creazione
di Gian Guido Vecchi


CITTA’ DEL VATICANO — «Se l’uomo fosse soltanto un prodotto casuale dell’evoluzione in qualche posto al margine dell’universo, allora la sua vita sarebbe priva di senso o addirittura un disturbo della natura. Invece no: la Ragione è all’inizio, la Ragione creatrice, divina» . Benedetto XVI ha l’aria un po’ affaticata ma le sue parole, nella Veglia di Pasqua in San Pietro, sono vertiginose. Nella notte più importante per i fedeli, il pontefice si sofferma sull’essenziale. Perché «la Chiesa non è una qualsiasi associazione che si occupa dei bisogni religiosi degli uomini» . No, scandisce, «essa porta l’uomo in contatto con Dio e quindi con il principio di ogni cosa» . L’alternativa che pone Ratzinger non è tra creazione e teoria dell’evoluzione ma tra «fede» e «incredulità» . Ed è anzi interessante notare come all’inizio liquidi il creazionismo che prende alla lettera il testo biblico. Nella tradizione liturgica, spiega, le letture sacre venivano chiamate «profezie» nel senso che «ci mostrano l’intimo fondamento e l’orientamento della storia» . Così anche il racconto della creazione nella Genesi è una «profezia» , argomenta: «Non è un’informazione sullo svolgimento esteriore del divenire del cosmo e dell’uomo. I Padri della Chiesa ne erano ben consapevoli. Non intesero tale racconto come narrazione sullo svolgimento delle origini delle cose, bensì quale rimando all’essenziale, al vero principio e al fine del nostro essere» . Le sue parole, semmai, contrastano col «darwinismo» , quella particolare interpretazione della teoria darwiniana che in ultima analisi vede l’evoluzione come frutto del caso. Non è vero che nell’ «universo in espansione» e «in un piccolo angolo qualsiasi» si «formò per caso» anche un essere razionale. «Ci troviamo di fronte all’alternativa ultima che è in gioco nella disputa tra fede ed incredulità: sono l’irrazionalità, la mancanza di libertà e il caso il principio di tutto, oppure sono ragione, libertà, amore il principio dell’essere? Il primato spetta all’irrazionalità o alla ragione?» . Ecco il punto, diverso anche dalla teoria dell’ «Intelligent design» che pretende di porsi come scientifica. In principio, dice Giovanni, era la Parola, quel «Logos» che significa «ragione» , «senso» , «parola» . E il grande teologo aggiunge: «Non è soltanto ragione, ma Ragione creatrice che parla e che comunica se stessa. È Ragione che è senso e che crea essa stessa senso» . Insomma, scandisce Benedetto XVI, «all’origine di tutte le cose non stava ciò che è senza ragione, senza libertà: il principio di tutte le cose è la Ragione creatrice, è l’amore, è la libertà» . Certo della libertà si può fare cattivo uso e «per questo si estende una spessa linea oscura attraverso la struttura dell’universo e attraverso la natura dell’uomo» . Ma «la creazione come tale rimane buona, la vita rimane buona. Per questo il mondo può essere salvato» . Nella veglia della Risurrezione, il Papa alza lo sguardo: «Ora celebriamo la vittoria definitiva del Creatore e della sua creazione» .

Corriere della Sera 24.4.11
L’altro Dante, profeta di se stesso
Le opere minori: rivoluzionario nella lingua, reazionario in politica
di Paolo Di Stefano


robabile che, anche se non avesse scritto la Commedia, Dante resterebbe la nostra maggiore personalità letteraria, la più innovativa, la più inimitabile. Basti pensare che all’originalità delle Rime si aggiunge la Vita nova, un romanzo amoroso giovanile. Che alla Vita nova si aggiunge il De vulgari eloquentia, un trattato in latino sull’idioma volgare. Che a quest’ultimo si aggiunge il Convivio, un trattato filosofico-morale. E si potrebbe continuare. Insomma, il cosiddetto Dante minore è minore solo a se stesso e a nessun altro. Anche perché, a ogni successiva lettura, riserva continue sorprese. Prendete il primo volume delle Opere dei Meridiani. dirette da Marco Santagata: vi troverete nuove prospettive e inedite interpretazioni. A cominciare dalla messa a fuoco dell’invadenza dell’io narrante o del personaggio Dante e dell’intreccio strettissimo tra biografia e opera. Una biografia, per altro, viziata da numerose lacune documentarie. «Essenzialmente — dice Santagata, autore di una lunga introduzione— quel che possiamo dire della vita di Dante ce lo racconta lui stesso nella sua opera, la quale si nutre dell’esperienza dell’autore. La Commedia è una specie di instant book in cui via via Dante caccia dentro tutte le sue personali vicende e gli eventi di attualità. Ma tutta la produzione dantesca ha questa caratteristica» . Si indovina una curiosa strategia nella Vita nova: Dante finge che il racconto non sia finzione: «Sì, ma per fare apparire credibile il libro, che narra una storia quasi del tutto falsa, Dante lo intesse di esperienze autobiografiche: è sempre lui il protagonista dei suoi scritti» . E che personaggio ne viene fuori? «Anche Petrarca mira sempre all’autobiografia, ma si tratta di un’autobiografia ideale da offrire ai posteri. Dante si propone come cronista e poeta, fonde elementi di realtà e di finzione, senza distinguere mai tra il vero e il falso. Per lui la finzione si trasforma in realtà e il dato letterario diventa dato autobiografico. Ma nonostante l’impulso irresistibile a mettere se stesso al centro, Dante non ha nessuna intenzione di costruire un’autobiografia ideale» . Tra i caratteri dell’autobiografismo dantesco, Santagata intravede infatti le «marche dell’eccezionalità» , come se l’autore volesse presentarsi quale portatore di un destino straordinario e dunque inimitabile, al punto da proporsi con i tratti del profeta, capace di accensioni mistiche: «Dante si sente diverso, un "unicum", sia sul piano letterario sia sul piano esistenziale: ha il pallino di sentirsi diverso anche nella vita pratica, si circonda di amici prestigiosi e quando la sorella Tana si sposa, le dà una dote immensa di 360 fiorini, con un gesto di grandeur che lo costringe a indebitarsi fino al collo. Questo senso di diversità lo trasferisce anche alla letteratura, facendo di sé un personaggio eccezionale che culmina nel profeta» . Santagata è alle prese con una biografia dantesca che consegnerà alla Mondadori: la ricostruzione si baserà sulle tracce disseminate nelle opere, comprese allusioni e enigmi indecifrabili: «Dante è incerto se rendere evidente il suo profetismo o accennarne attraverso segnali da interpretare ai fini della costruzione di sé. Nella Vita nova, quando accenna alla morte di Beatrice, afferma che se l’avesse raccontata sarebbe diventato "laudatore"di se medesimo. Come ha dimostrato Mirko Tavoni, si tratta di un rimando implicito a San Paolo, che nella seconda lettera ai Corinzi racconta il suo rapimento al terzo Cielo: l’apostolo confessa di avere resistito 14 anni prima di svelare quella sua esperienza per non "gloriarsi"di quel privilegio divino. Pure Dante, nel momento della morte di Beatrice, aveva avuto una visione mistica simile a quella di San Paolo. Da qui la sua reticenza. Dice e non dice» . Ma Dante era davvero dotato di particolari qualità o era solo un mistificatore? «Nessuno può dirlo, la verità è che lui si sente un profeta e su questa consapevolezza costruisce il suo personaggio letterario» . Quante contraddizioni, in un uomo che ha passato la vita a dare coerenza alle sue molte svolte politiche e intellettuali. La prima contraddizione è la convivenza irrisolta del rivoluzionario con il reazionario. «Dante era ideologicamente un reazionario antileghista, si direbbe oggi: se c’era una cosa che odiava era il particolarismo campanilista, che gli aveva rovinato la vita. Nel De vulgari scrive una sofferta tirata contro il provincialismo fiorentino di chi crede che il luogo natio sia il migliore. Era contro l’inurbamento, il fiorino, i mercanti, i banchieri, si opponeva ai fenomeni della modernità che vedeva nella sua Firenze e che riteneva cause del venir meno dei valori della pace e dell’ordine tipici della nobiltà del passato. A Dante sarebbe piaciuto molto essere un nobile feudale e il senso dell'inadeguatezza sociale si ribalta nell’affermazione di una superiorità esistenziale, ideologica e letteraria» . Cioè sfocia nello sperimentatore, nel rivoluzionario delle forme espressive: «È la frattura che percorre la sua intera personalità. Difficile trovare una mente più aperta all’innovazione: non c’è opera uguale all’altra, pur avendo reciproci collegamenti molto stretti. Cambiano i generi e gli stili, anche se il tentativo di Dante è quello di ricondurre tutto a un discorso unitario. L’innovazione più forte riguarda soprattutto la lingua. La scoperta della storicità delle lingue, che mutano nel tempo e nello spazio, è geniale se si considerano gli strumenti che aveva a disposizione. Non solo. In Dante c’è anche l’idea dell’evoluzione dei sistemi culturali. Ma è paradossale che uno uomo che sul piano politico vorrebbe spostare indietro l’orologio della storia, a livello intellettuale si spinga invece a questo punto di novità nella percezione della storia» .

«noi siamo animati da due forme di amore: quello verso se stessi e quello verso gli altri. Nessuno di questi due amori riesce a cancellare l´altro e la nostra vita non è che la dialettica convivenza di essi che si confrontano nella caverna dove abitano i nostri istinti, le nostre più segrete pulsioni e la nostra energia vitale. »
Repubblica 24.4.11
Pasqua, lo spirito risorge per tutti
di Eugenio Scalfari


IL MALE non esiste. Dio decise di incarnarsi, di assumere natura umana e assumere su di sé tutti i peccati del mondo. Ripristinò l´alleanza tra l´umanità e il suo creatore e indicò la via della salvezza lasciando agli uomini la libertà e la responsabilità di scegliere.
Nel giorno del giovedì cenò con i suoi apostoli. La sera si ritirò con loro nell´orto del Getsemani. Nella notte fu arrestato. Il venerdì fu processato, torturato e crocifisso. Sepolto. Dopo tre giorni (ma il sabato secondo la liturgia) resuscitò da morte, apparve alle donne e poi agli apostoli. Così raccontano i Vangeli.
Un altro racconto, pur sempre condotto sui testi della Scrittura ma diversamente interpretati, narra la storia di un uomo, figlio di Giuseppe e della giovane Maria, nato a Betlemme nei giorni del censimento, ma residente a Nazaret. Di lui, dopo la nascita ed una fuggitiva presenza al Tempio, i Vangeli non dicono più nulla, non esiste alcun racconto della sua infanzia e della sua adolescenza. Non sappiamo nulla del suo lavoro, dei suoi studi, della sua famiglia, della sua vita.
Lo ritroviamo a trent´anni, quando inizia la sua predicazione in Galilea e in Tiberiade. Va al Giordano a farsi battezzare dal Battista, raduna un gruppo di discepoli, pescatori, artigiani, mendicanti. La sua predicazione ha all´inizio contenuti soprattutto sociali; sostiene che nel regno di Dio gli ultimi saranno i primi, i deboli, i poveri, gli ammalati, saranno confortati, i giusti avranno giustizia, gli ingiusti saranno castigati.
Ma intanto quell´uomo sente crescere dentro di sé una potenza misteriosa, connessa a capacità medianiche e taumaturgiche. Ed è allora che domanda: «Voi chi credete che io sia?».
Alcuni dei discepoli rispondono: «Tu sei il "rabbi", il Maestro». Altri: «Tu porti in te lo spirito di Mosè». Ed altri: «Un grande profeta, più grande di Ezechiele e di Geremia». Altri ancora: «Tu sei il Messia, discendente dalla stirpe di David e sei venuto ad annunciare la fine dei tempi».
Gesù ascolta, si chiude in sé. Si ritira nel deserto passando dalle terre dove vive la comunità degli Esseni, rimane quaranta giorni solo con le sue tentazioni, ode la voce del Tentatore e ne respinge le impure proposte. Torna tra i suoi. Ora è convinto di essere il Figlio di Dio, il solo tramite attraverso il quale l´unico Dio manifesta il suo amore per gli uomini e la sua sconfinata misericordia.
Questi due racconti, pur svolgendosi nello stesso modo e configurando lo stesso percorso, sono però profondamente diversi, ma convergono nella stessa conclusione: quell´uomo dà inizio ad un´epoca che si ispira al principio dell´amore e della carità, del perdono e della misericordia. Il peccato è una caduta dalla quale ci si può rialzare. Il male è soltanto l´eccezionale assenza del bene. Il bene è il regno dei giusti che godono la beatitudine di poter contemplare Dio nelle sue tre consustanziali epifanie di Padre, di Figlio e di Spirito Santo.
In questa fine del viaggio e della storia il male avrà cessato di esistere, non ci sono né purgatorio né inferno, ma soltanto paradiso, senza tempo e senza luogo.
* * *
Ma c´è un terzo racconto, quello che caratterizza l´epoca della modernità. In esso non esistono né il male né il bene, non esiste il peccato. Ogni essere vivente è dominato dalla natura dei suoi istinti e vive in perfetta innocenza. Ma noi, unica specie dotata di mente riflessiva e capace di pensiero, noi ci vediamo vivere, invecchiare e morire; noi siamo animati da due forme di amore: quello verso se stessi e quello verso gli altri. Nessuno di questi due amori riesce a cancellare l´altro e la nostra vita non è che la dialettica convivenza di essi che si confrontano nella caverna dove abitano i nostri istinti, le nostre più segrete pulsioni e la nostra energia vitale.
In questo terzo racconto non esiste metafisica, nulla è divino oppure tutto è divino, due modi per significare la stessa cosa: "Deus sive natura".
Il terzo amore che tutto sovrasta è quello verso la vita e il solo peccato pensabile è quello contro la vita, la sua dignità, la sua libertà. Non una vita idealizzata, ma una vita storicamente determinata dagli istinti che si misurano, si combattono, si trascendono, si trasfigurano, diventando passioni e sentimenti analizzati dalla lente della ragione, cioè del pensiero che pensa se stesso e che si vede vivere.
Questo pensiero è capace di inventarsi e di raccontarsi molti mondi, è una fabbrica di illusioni che ci aiutano durante il viaggio, di speranze che alimentano la nostra energia vitale, di architetture morali indispensabili a tutelare la nostra socievolezza.
Noi siamo una specie pensante e socievole, perciò costruiamo regole morali che consentono la convivenza in quel dato contesto storico. Ecco perché non esistono peccati ma esistono reati.
Quando finisce un´epoca, finisce anche una morale, si verifica una rivoluzione che smantella la vecchia architettura per costruirne un´altra affinché la vita possa proseguire alimentata e incanalata da nuovi limiti, da nuove correnti, da nuove sorgenti.
* * *
Ognuno di questi racconti ha una sua Pasqua, ognuno raffigura un´epifania, una morte apparente e una resurrezione. Non c´è fine perché non c´è principio. Non c´è altro senso fuorché la vita che la nostra specie è in grado di raccontare, interpretare, trasfigurare, inventare. Abbiamo perfino inventato il tempo.
Il tempo morirà con noi. La morale morirà con noi. Purtroppo stanno già morendo e questo non è buon segno.
Quando si rifiuta di ricordare il passato non si può costruire il futuro, si vive schiacciati da un eterno presente come gli animali che vivono infatti fuori del tempo.
Quando si smonta un´architettura morale senza costruirne un´altra il fiume della vita cessa di scorrere diventando imputridita palude. A questa sorte dobbiamo ribellarci, questo pericolo dobbiamo scongiurare.
"Resurrexit" suoneranno oggi le campane. La Pasqua è di tutti ed è lo spirito di tutti che deve risorgere.

«In questa fase della mia vita sto studiando gli istinti e i sentimenti... L'uomo è un groviglio di due amori: quello per gli altri e quello per se stesso. E se mai ci si chiede quale sia il più forte e il più irruente di questi due istinti amorosi, s'arriva presto a concludere che l'amore per sé è quello dominante. Lo si può contenere, si può fare in modo di arginarne la pericolosità, ma non si riuscirà mai a spegnerlo perché si dovrebbe trasformare l'uomo in un angelo, dotarlo cioè di un'altra natura che estingua la natura umana.
La storia biblica comincia con Caino che uccide Abele. E neppure Cristo riuscì a spegnere l'amore di sé nell'umana natura. Provò a compiere questo miracolo ma non riuscì.»
L’Espresso nelle edicole 22.4.11
L'amore per sé e quello per gli altri
di Eugenio Scalfari

qui segnalazione di Roberto Giorgini
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lamore-per-sã©-e-quello-per-gli-altri/2149714

Repubblica 24.4.11 5 PAGINE!!!!
«Sì, ho vissuto con un santo»
Joaquin Navarro-Valls, il giornalista e psichiatra spagnolo che per ventidue anni ne è stato il portavoce, racconta il miracolo quotidiano di un uomo che ha saputo conquistare credenti e non credenti
di Vittorio Zucconi


il Riformista 24.4.11
Matteotti, un socialista incompreso
di Federico Fornaro

qui
http://www.scribd.com/doc/53765147

Terra 24.4.11
Affetti da “cioccolismo” Storia di una passione
di Alessia Mazzenga


Terra 24.4.11
«abusi: il pubblico sdegno
può piegare la Chiesa»
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/53765287

sabato 23 aprile 2011

Repubblica 23.4.11
I paradossi della fede
di Antonio Gnoli


Qualche tempo fa, in un confronto con il teologo John Milbank (poi edito nel libro La mostruosità di Cristo, ed. Transeuropa), Slavoj Zizek si interrogava sul senso della frase che Cristo pronuncia sulla Croce: «Padre, perché mi hai abbandonato». Non è un paradosso che la fede del figlio di Dio vacilli? Altrettanto assurdo può apparirci che il sacrificio sulla Croce salvi il mondo. «Credo perché è assurdo» afferma Tertulliano, sulla scorta di San Paolo. Assurdo è quanto di più distante ci sia dalla logica rassicurante della ragione. Ma è su questo abisso che si fonda la fede. Wittgenstein affrontò il significato del credere, precisando che la religione nulla aggiungeva alle nostre conoscenze, ma scopriva aspetti dell´umano cui la scienza non dava risposta. Anche John Wisdom – che gli successe alla cattedra di Cambridge – si interroga ne La logica di Dio (Quodlibet) sul paradosso della fede. Accoglierla o rifiutarla cade nel dominio dell´inesprimibile. Essa può divenire dogma o sofferenza. E la Chiesa percorse entrambe le strade. Ha praticato la fine del dubbio e al tempo stesso ha colto la grandezza salvifica del dolore. Gran parte dell´iconografia della Croce – da Holbain a Grünewald, da Bruegel a Juan de la Cruz – ha ritratto i volti della sofferenza del Cristo e di quell´abbandono gridato. Alla vigilia di Pasqua è giusto ricordarlo.

l’Unità 23.4.11
«Il premier ha paura di tutto, sa di avere perso i consensi»
Il vicepresidente dei senatori pd: così trasforma la democrazia parlamentare in un regime camuffato
di Claudia Fusani


Senatore Zanda, l’ultima è che il governo presenta un decreto per sminare anche il referendum sull’acqua. Il premier teme anche questo?
«Berlusconi è in una fase in cui ha paura di tutto: del referendum perchè può diventare un sondaggio a favore o contro la sua persona; del voto a Milano; di Tremonti e di Galan; di Scilipoti tanto che scrive le prefazioni al suo libro; dei giudici di Milano, di Ruby e delle ragazze che la sera andavano a Arcore».
Paura di cosa?
«Di non trovare più il consenso che racconta ancora di avere». Come definire i tentativi di levare di mezzo i quesiti referendari, strumento di controllo fondamentale del cittadino elettore?
«Sono pezzi di una tecnica collaudata per trasformare una democrazia parlamentare in un regime camuffato». E gli altri pezzi della strategia?
«La fine del Parlamento che come ha giustamente osservato il presidente uscente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo non fa più le leggi ma converte e vota solo quello che gli mette sul tavolo il governo. Il continuo accerchiamento della magistratura e della Corte Costituzionale, il dominio dell’informazione». Nel merito, che dire di questa idea di decreto per far nascere l’authority per l’acqua?
«In linea di principio potrei anche essere d’accordo. Il problema è che questo governo considera le varie Autorità quasi fossero dependances. In un paese dove non esiste una norma che regola il conflitto di interessi, il rischio è che mi ritrovo Berlusconi o chi per lui a gestire l’acqua. Quindi non possiamo che chiedere che l’acqua resti pubblica. E andare a votare». Sembra quasi che il populista per eccellenza, Berlusconi, abbia in realtà paura proprio del suo popolo. «E’ così. Quello che è grave è che riduce il quorum degli elettori a strumento per boicottare il referendum. Uno strumento di bocciatura o approvazione. Questo è contrario allo spirito costituzionale del referendum. Il fatto è che la maggioranza di centrodestra ci ha abituato a manipolazioni grossolane del nostro ordinamento. Il condizionamento del quorum è solo l’ultimo e, tra l’altro, è sfacciatamente contraddittorio del populismo berlusconiano. Siamo in un paese in cui da una parte c’è l’indecente proposta di Ceroni di costituzionalizzare il populismo e dall’altra il governo che mette il bavaglio agli elettori».
Lei era in aula nei giorni scorsi quando il ministro Romani ha cancellato con un emendamento la sua politica energetica. Crede che il quesito referendario sul nucleare sarà cancellato dalla Cassazione?
«Non credo e aspetterei con fiducia la decisione della Cassazione quando mai e se mai dovrà pronunciarsi. Il governo in realtà ha introdotto una sospensione e non una bocciatura. Lo stesso giorno dell’annuncio di Romani Idv e Pd avevano portato in aula un emendamento (alla moratoria al nucleare contenuta nel decreto omnibus, ndr) che prevedeva la rinuncia definitiva dell’Italia al nucleare. Il governo l’ha bocciata. Questo significa che il governo non vuole la bocciatura ma solo la sospensione».
Boicottare nucleare e acqua per far fuori anche il quesito sul legittimo impedimento? «E’ chiaro. E torniamo sempre al gioco sporco sul quorum. È implicito in quel voto un giudizio sulla sua condotta morale».
Sotto attacco anche l’istituto dei referendum? «Non me l’aspettavo. Devo dire che in quanto a spregiuticatezza Berlusconi ne inventa una più del diavolo».
Quale il limite?
«Non lo conosciamo. E a questo punto lo possono definire solo gli italiani cacciandolo via».

il Fatto 23.4.11
“Afascisti” e antifascisti
di Maurizio Viroli


Non ricordo un 25 aprile così carico di preoccupazioni come questo che ci prepariamo a celebrare. É ormai evidente a tutti che l'attuale scontro politico in Italia è fra il signore con la sua corte da una parte e la Costituzione repubblicana dall'altra. La nostra Costituzione, ricordiamocelo, è antifascista, non afascista. I Costituenti avevano quale loro ideale guida, pur con le grandi differenze politiche e ideologiche che li dividevano, la volontà di mettere per sempre al riparo l'Italia da una ricaduta nell'orrore del fascismo. Per questa ragione, che era in sintesi un'esigenza di libertà, vollero inserire nella nostra carta fondamentale tutti i principi che il fascismo aveva deriso e calpestato: i diritti individuali, il valore supremo della persona umana, l'idea che il potere sovrano deve procedere dal basso all'alto, il concetto dei limiti imposti all'esercizio del potere sovrano da parte della Costituzione, la centralità del Parlamento, l'indipendenza della magistratura, il puntiglioso elenco delle libertà individuali, il rifiuto di qualsiasi discriminazione di razza e religione.
E PER TOGLIERE ogni dubbio in merito allo spirito che sostiene ed ispira la nostra Costituzione deliberarono, pur fra contrasti e preoccupazioni serie, di collocare fra le disposizioni transitorie e finali la norma che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista. Non si può dunque difendere la Costituzione senza difenderne in modo intransigente il carattere antifascista.
E invece, in questa povera patria in cui si stanno perdendo anche le più elementari cognizioni di rigore intellettuale e di serietà politica e morale, l'attacco alla Costituzione tocca già l'antifascismo, e quel che più avvilisce è che si vuol distruggere l'antifascismo in nome della libertà.
È infatti in nome della libertà di esprimere le proprie idee che il senatore Cristiano De Eccher e i suoi sodali vogliono abolire la norma FINALE non transitoria (proprio non ci arrivano a capire la differenza!) XII che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista. Come si fa a non essere d’accordo? Il fascismo è un’idea politica come le altre e dunque chi vuole professarla, in uno Stato democratico e liberale, deve essere libero di farlo.
Il problema è che lo scopo di ogni partito politico non è dibattere idee ma governare. Un partito democratico vorrà governare secondo i principi della democrazia; un partito liberale secondo i principi liberali; un partito socialista secondo i principi socialisti; un partito fascista secondo i principi del fascismo. Il che vuol dire, per essere precisi, assassinare, mettere in carcere o inviare al confino di polizia gli oppositori politici; abolire la libertà di stampa; dichiarare illegali gli altri partiti; trasformare le elezioni in ratifiche di nomine dall’alto; perseguitare gli ebrei; scatenare guerre di conquista. La riorganizzazione di un partito fascista sarebbe dunque un vero e proprio atto di guerra contro la libertà. Favorirla o non ostacolarla, vuol dire aiutare la libertà a morire, altro che difenderla.
E NON TIRIAMO fuori i soliti argomenti: ‘lasciamoli fare tanto non sono un pericolo’; ‘ma il fascismo non può tornare’ e altre cretinate del genere. Nel 1922, 1923, 1924, nessuno, o pochissimi, pensavano che Mussolini avrebbe instaurato un regime come il fascismo. Quando l’élite politica si rese conto del pericolo, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti , era troppo tardi. Per questo bisogna agire ora, con assoluta intransigenza.
La mentalità comune italiana è intrisa di anticomunismo, di razzismo, di disprezzo per il parlamento e per i metodi della democrazia, per non parlare della spaventosa ignoranza storica. Ci sono parlamentari che copiano senza batter ciglio frasi intere del ‘Manifesto degli intellettuali fascisti’ redatto da Giovanni Gentile nel 1925 per dare base ideologica al nuovo regime. In un contesto simile un partito fascista troverebbe facilmente proseliti.
E quando ciò avverrà, cosa faremo? Lo lasceremo prosperare fino a quando conquisterà il potere? O dichiareremo uno stato d’emergenza con leggi eccezionali che metteranno a repentaglio la libertà di tutti? Non trascuriamo poi il fatto che appena abolita la norma, i fascisti sfileranno liberi ed esultati nelle piazze inneggiando al duce e ai campi di sterminio. Chi sarà allora in grado di impedire gravi disordini e inevitabili tragedie?
QUANDO SI tratta di libertà e di fascismo ciascuno deve fare la sua parte, subito, senza aspettare. Anche la Chiesa deve fare sentire la sua voce. Dica la verità, dica che il fascismo è incompatibile con la fede cristiana perché questa si fonda sul carità e quello la derideva e disprezzava come segno della mentalità dei deboli, e predicò e praticò una dottrina delle razze superiori e delle razze inferiori che ripugna alla fratellanza in Cristo.
Facciano sentire, una buona volta, una voce indignata e unanime le forze politiche, le associazioni che si riconoscono nell’antifascismo e gli intellettuali. Si schierino apertamente contro l’abolizione della norma XII tutte le persone che amano davvero la libertà e non voglio metterla in pericolo per la colpevole irresponsabilità di senatori che hanno studiato il liberalismo alla corte del signore.

Repubblica 23.4.11
Il vilipendio al potere
di Mario Pirani


Quanto più esplode con voluta sfrenatezza l´odio berlusconiano per le garanzie costituzionali, tanto più un nutrito gruppo di opinion makers si prodiga in deprecazioni per le reazioni risentite dell´opposizione.
bbandonasse ad una altrettanto rabbiosa e biasimevole violazione del galateo politico. Non è neutrale questa raffigurazione. Anche quando è delineata in buona fede essa presuppone la rimozione delle caratteristiche devastanti della situazione italiana. Si ignorano le degenerazioni tipiche del berlusconismo e si finge di assimilarle a quelle sussistenti nei normali contenziosi politici d´oltre frontiera.
Il panorama preferito da questi pittori della domenica nel dipingere i loro affreschi fintamente ingenui è quello che rappresenta gli italiani nella loro essenza fisognomica come tutti eguali, berlusconiani e avversari del premier, distinti solo dal secolare spirito di parte che dai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini li ha sempre spinti ad azzannarsi fra loro con quella esasperazione partigiana che sopravanza un pacato esame delle ragioni altrui. Se, invece, analizzassero con fredda oggettività le linee del contendere si accorgerebbero presto che esse passano, come in tutte le altre democrazie occidentali, per attaccamento a valori compatibili, se pur dialetticamente contrapposti, con la destra che predilige la libertà rispetto all´eguaglianza e la sinistra l´eguaglianza rispetto alla libertà. Insomma, saremmo degli inglesi, fieri della loro Westminister, se non fosse per le caldane iraconde da curva sud che ci fan scambiare i mulini a vento del Cavaliere per draghi e guerrieri vogliosi di distruggerci. Se poi a qualcuno sorge il dubbio che le cose non stiano proprio così e che Berlusconi abbia sdoganato e reso più accettabili comportamenti incivili tra il plauso dei suoi fan, basta lasciar da parte con noncuranza il fastidioso problema e rifarsi al solito vizio caratteriale, quella specificità negativa italiana della partigianeria che i politici eccitano, anziché moderare. In ogni caso, insomma, quale chi sia l´interprete, il dramma italiano sarebbe destinato a una eterna replica della disfida tra Capuleti e Montecchi. Tutti si somigliano e tutti si odiano perché tale è il loro destino caratteriale. Dopo di che non resta che acquistare il biglietto, sedersi in poltrona, applaudire o fischiare i commedianti nei quali ci rispecchiamo.
Debbo dire che il copione non mi soddisfa e il racconto mi sembra ingannevole. Eppure, data la diffusione che queste idee tendono ad assumere, credo utile contestarne la validità senza veruna indignazione di maniera. Ora, se è una banalità antropologica ricordare che gli italiani dell´una e dell´altra sponda sono tutti italiani e, in quanto tali, hanno molti tratti che li accomunano, va anche ribadito che la scissione che oggi ne divide le azioni e i pensieri non scaturisce da una tara caratteriale che li renderebbe naturalmente impenetrabili alle ragioni comuni ma da una ben individuabile fase della loro storia. Solo analizzando questo aspetto potremmo forse capire le odierne avversioni come le specificità di una situazione non paragonabile a quella delle altre nazioni democratiche e tale da far temere il nostro progressivo scivolamento verso un regime plebiscitario. Per contro, se poniamo al centro la Storia e la Politica, capiremmo assai meglio le cose e ricorderemmo meglio anche un passato non troppo lontano. Mi riferisco al periodo conclusivo del secondo conflitto mondiale, quando con il disastro bellico venne meno il consenso di massa al regime fascista. E poi al cinquantennio che ne seguì, quello della ricostruzione, della Repubblica, della Costituzione, del miracolo economico, dell´adesione all´Alleanza atlantica e al Mercato comune. Infine, il terrorismo. Il periodo si concluse con la caduta del Muro di Berlino e con Tangentopoli. Non si può dire, peraltro, che antropologicamente gli italiani fossero diversi da quelli di oggi né che le avversioni non avessero spazio per esplicitarsi nelle lotte e manifestazioni di piazza, negli scioperi, nelle elezioni, negli scontri parlamentari. Eventi che, per di più, si collocavano in un retroterra internazionale segnato dalla guerra fredda e da schieramenti di campo che vedevano gli uni sodali con l´universo sovietico, gli altri con gli Stati Uniti e il Vaticano. Tutto poteva scoppiare da un momento all´altro, ma non scoppiò mai. Il senso del reciproco limite e la valenza delle leggi e delle istituzioni che avevano assieme costruito fece sì che non solo i capi e i gruppi dirigenti, ma le masse che li seguivano, metabolizzarono un codice non scritto di tolleranza e di civiltà pur nelle fasi di asperrimi contrasti. "Don Camillo e Peppone" fu assai più di una felice serie filmica, quanto un quadro realistico della società nazionale. La proporzionale, i cui difetti si aggravarono nel periodo ultimo della degenerazione partitocratica, permise, peraltro, una rappresentanza anche alle forze minori, laiche, liberali e socialiste che assicurava elasticità e potenziali capacità di mediazione al sistema nel suo assieme.
Con l´Ottantanove, con Berlino e Tangentopoli, i partiti storici, fiaccati dal mancato rinnovamento, illusi di poter sopravvivere sulle fortune di un passato stravolto da una svolta radicale della Storia, crollano su loro stessi. Alcuni tentano di riprendere il mare raccogliendosi in una sola scialuppa (il Pd, post cattolico e post comunista). Altri sperimentano strade diverse. Non si può qui analizzare l´evolversi di ognuno. Prendono il potere e vi rimarranno due forze eversive, in quanto mai partecipi alla Storia della nazione, mai attori delle sue fortune e sfortune. L´una, Forza Italia, è un partito-azienda che si identifica col suo padrone e fondatore, l´altra, la Lega, una formazione che si richiama alla Penisola preunitaria e divisa in Stati e staterelli. Un tempo, prima del compiersi del Risorgimento, erano soprannominati austriacanti, papalini o borbonici, a seconda delle origini regionali; oggi si dicon tutti padani. La mancanza di ogni retroterra storico culturale a far da remora, permette a Berlusconi, unico in Europa, di raggiungere la maggioranza unendo tutti, dal Centro all´estrema destra. S´inventa un collante per aggregare il consenso, mai usato da nessun governo. Tutti quelli che lo hanno preceduto, dal liberalismo cavouriano alla destra crispina, dal riformismo giolittiano all´autoritarismo fascista, dalla duplicità costituzional-stalinista togliattiana al cattolicesimo interclassista dc, tutti trasmettevano una pedagogia di valori etici (il patriottismo, il nazionalismo, l´internazionalismo, la solidarietà di classe, i doveri del cittadino o del cattolico e così via). Non sempre, a volta raramente, questi venivano coerentemente applicati ma rappresentavano una tavola dei comportamenti, cui tutti cercavano di apparire adeguati e se la violavano si sforzavano di non farsene accorgere. Per la prima, e speriamo l´ultima volta, nella Storia, il consenso è incassato esaltando ogni tipo di offesa alle virtù civiche, dal vilipendio quotidiano della Giustizia e di chi è chiamato ad esercitarla al dileggio per chi paga le tasse nel paese della massima evasione fiscale («volete vivere sotto la dittatura della polizia tributaria?»), dal vilipendio delle Istituzioni alla proclamata oscenità sessuale e machista. Da ultimo, con l´attacco all´Europa e la minaccia di uscire dall´Unione, le basi tradizionali della nostra politica estera sono messe in forse. I difetti storici – non antropologici - degli italiani, il basso tasso di civismo, il mancato senso dello Stato, il familismo amorale, il sotterfugio delle leggi vengono esaltati come virtù di governo e richiamo fortissimo al consenso. Berlusconi li impersona nella sua personale biografia. Per questo tanti italiani ci si ritrovano e circa altrettanti no.

l’Unità 23.4.11
Esplode la protesta nel primo giorno dopo il decreto che cancella lo stato d’emergenza
Manifestazioni e violenze in molte città. Versioni discordanti sul numero delle vittime
Siria in rivolta, 60 morti Scontri alle porte di Damasco
Da nord a sud, da est a ovest. Nel «Venerdì santo», la Siria si scopre unita nel rivendicare diritti e libertà. La risposta del regime è una brutale repressione. Cecchini in azione. Ma la protesta non si ferma...
di Umberto De Giovannangeli


Hanno sparato ad altezza d’uomo, trasformando il «Venerdì santo» nel «Giorno della mattanza». Una mattanza «targata» Bashar al Assad. Oltre 60 persone sono state uccise ieri dalle forze di sicurezza durante le proteste anti-regime che
hanno scosso quasi tutte le città siriane, stabilendo il triste record del giorno più sanguinoso dall'inizio della mobilitazione cinque settimane fa. A decine di migliaia hanno sfidato il divieto, imposto nei giorni scorsi dal ministero degli Interni, di non manifestare, e hanno risposto «presente» agli appelli circolati da giorni sui social network per «raggiungere la libertà».
BAGNO DI SANGUE
Nel «Venerdì Santo» di preghiera comunitaria per i musulmani e di raccoglimento per tutti i cristiani è apparsa, per la prima volta dall'inizio della mobilitazione a metà del marzo scorso (oltre 260 vittime), una piattaforma comune degli organizzatori delle proteste. In un comunicato firmato dai «Comitati locali per il coordinamento» si afferma che «tutti i prigionieri politici devono essere liberati, l'attuale apparato di sicurezza deve essere smantellato e sostituito con uno che sia regolato da una legislazione precisa e che operi nel rispetto delle leggi». Nel testo, preparato nei giorni scorsi via email, Facebook e Twitter da giovani attivisti, oppositori in Siria e intellettuali all'estero, si invoca «libertà e dignità per il popolo siriano», ma si afferma che quest'ultimo rischia di rimanere «un semplice slogan senza un cambiamento pacifico del regime e l'instaurazione di un sistema politico democratico».
All'ennesimo giorno di mobilitazione anti-regime, le autorità avevano risposto preparando un massiccio schieramento a Damasco e nelle altre principali città del Paese, sin dalle prime ore della mattina, di agenti in borghese delle forze di sicurezza, di militari dell'esercito, di squadre di lealisti armati di bastoni, di check-point. Quando i fedeli cristiani, membri della minoranza confessionale più protetta dal regime dominato da una minoranza di un' altra minoranza (gli Assad e gli altri clan alawiti), erano già rientrati nei loro quartieri dopo aver assistito alle messe del Venerdì Santo celebrate in sordina e a porte chiuse, sono cominciati ad affluire nelle moschee decine di migliaia di fedeli-manifestanti. Damasco è stata percorsa da un'inedito corteo all'interno della cintura di protezione eretta dalle forze dell'ordine nel quartiere di Midan, roccaforte del conservatorismo sunnita. Un centinaio di persone sono uscite dalla moschea locale gridando «Il popolo vuole la caduta del regime».
In quelle stesse ore si sono radunati a migliaia i curdi a Qamishli, Amuda, Ayn al-Arab, località nella regione del nord-est al confine con Turchia e Iraq, sfilando in corteo con striscioni in arabo e curdo che ribadivano «l'unità del popolo siriano». Un migliaio di giovani sono tornati in piazza anche a Latakia, nel nord-ovest, seconda città, dopo Daraa, a esser presidiata dall'esercito.
Mentre in 10mila hanno occupato le strade di Salamiya, località a maggioranza ismailita nei pressi di Hama. Col passare delle ore sono giunte le prime notizie di feriti, quindi di morti, uccisi anche da cecchini appostati sui tetti dei palazzi: ad Azraa, località nei pressi di Daraa, a Homs a nord di Damasco, a Duma, Jawbar, Zamalka e Daraya (sobborghi della capitale). Nel pomeriggio si era manifestato anche a Banias e Jabla, cittadine costiere della regione a maggioranza alawita da cui proviene la famiglia presidenziale, e a Daraa, Raqqa, Idlib, Maarrat an-Numan, la remota Albukamal al confine orientale con l'Iraq e Dayr az-Zor, capoluogo della regione dell'Eufrate. E persino ad Aleppo, roccaforte assieme a Damasco, della borghesia commerciale cooptata dal regime.
CONTO ALLA ROVESCIA
«Dopo la carneficina di oggi (ieri, ndr), Bashar ha firmato la sua condanna politica e quella dell'intero sistema da lui rappresentato», dice Wissam Tarif, attivista di spicco per la difesa dei diritti umani in Siria. «Gran parte della Siria prosegue non ha più paura ormai di invocare la fine del dominio del Baath ( partito al potere da quasi cinquant'anni, ndr.), di chiedere il rilascio di tutti i prigionieri politici, di esigere che i responsabili delle uccisioni siano arrestati e rispondano dei loro crimini».

l’Unità 23.4.11
I diritti dei nati qui
Quei «cittadini» che aspettano da troppo tempo
di Khalid Chaouki


Basta parole. Vogliamo vedere i fatti. Le seconde generazioni figli di immigrati scendono in piazza insieme al Forum Immigrazione del Partito Democratico il prossimo mercoledì 27 aprile alle ore 11 davanti a Montecitorio per protestare contro la sparizione della proposta di riforma della legge sulla cittadinanza dal dibattito parlamentare. Circa un milione di ragazzi e ragazze, figli di immigrati nati o cresciuti in Italia, non possono più sopportare una grave ingiustizia che fa di loro dei perenni stranieri in attesa di cittadinanza nell’unico paese che effettivamente essi riconoscono ormai come la loro prima patria. Per lunghi diciotto anni una ragazza nata a Roma e colpevole di essere figlia di genitori filippini deve fare la fila in Questura e chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno nel Paese in cui è nata. Questa è la condizione di umiliazione a cui sono sottoposti i figli della cosiddetta seconda generazione, esclusi dal diritto di essere cittadini italiani a causa di un arcaico concetto di cittadinanza basato sul legame di sangue. L’Italia non può più permettersi una legge così arretrata e gravemente lesiva dei diritti dei tantissimi bambini e ragazzi che popolano le nostre scuole e di fatto sono il volto nuovo di questa Italia che compie i suoi 150 anni e che deve inevitabilmente guardare al futuro. Negare il diritto di appartenere a un Paese in cui si nasce, si cresce, si studia e via dicendo è una intollerabile ingiustizia che di fatto preclude a chi nasce e cresce in Italia di sentirsi effettivamente riconosciuto alla pari dei suoi coetanei italiani. Egli durante tutta la fase fondamentale di crescita non potrà essere libero di immaginarsi medico, giudice, poliziotto, avvocato, giornalista, ambasciatore e tanto altro. Tutte professioni che richiedono come primo requisito l’essere cittadini italiani. Ma ancora di più, sarà compromessa la sua libertà di movimento, perché relegata all’ottenimento del permesso di soggiorno e alle condizioni di regolarità dei propri genitori.
Un grave ritardo legislativo di cui è stato ed è complice una destra populista e a tratti con gravi derive xenofobe e razziste, che fanno di tutto per confondere le carte mischiando scientemente l’ultimo barcone arrivato a Lampedusa, l’operaio che lavora a Treviso da almeno vent’anni e la studentessa universitaria nata a Bologna da genitori immigrati.
Chiediamo a tutti voi, italiani e immigrati, giovani italiani e figli di immigrati di portare avanti tutti insieme questa battaglia di civiltà e di diritto che deve riguardare tutti i cittadini aldilà degli schieramenti politici. Perché i figli di immigrati non sono altro che i figli di questa nostra nuova Italia. Chi nasce e cresce in Italia è italiano!

l’Unità 23.4.11
Discriminate le minoranze non magiare. Evacuati nomadi per un campo paramilitare dell’ultradestra
Ungheria, villaggio rom in fuga Amnesty denuncia la Costituzione
Amnesty denuncia la nuova Costituzione ungherese: «Viola i diritti umani». L’opposizione chiede al presidente di non firmare il testo e prepara il referendum. E intanto i rom, minacciati dall’ultradestra, fuggono.
di Marina Mastroluca


Dopo aver visto le ronde per le strade di Gyongyospata e un campo d’addestramento di tre giorni alle porte del loro villaggio, hanno deciso di andarsene. Ieri la Croce rossa ha caricato 277 tra donne e bambini rom su cinque pullman, portandoli in un posto più sicuro, dove non ci fossero milizie armate determinate a «ristabilire l’ordine» contro «la criminalità tzigana». Vederoe, Forza di difesa, si chiama così l’organizzazione paramilitare che di esercita nell’uso delle armi ed è diventata il braccio armato del partito dell’ultra destra xenofoba d’Ungheria, Jobbik.
«NAZIONE ETNICA»
La polizia ha lasciato fare, come già in passato. E stavolta con qualche ragione in più. Da pochi giorni il parlamento con i voti della sola forza di maggioranza Fidesz ha approvato una nuova Costituzione che ha messo in allarme anche il segretario dell’Onu Ban Ki-moon. Oltre a indicare Dio e cristianesimo come «elementi unificanti» del Paese, a discriminare i gay, ad aprire la strada al divieto di abortire, la nuova Carta firmata dal premier Viktor Orban identifica la «nazione politica» con la nazione etnica, estendendo il diritto di voto agli ungheresi oltre confine: un pessimo segnale per le minoranze non magiare, a partire dai rom che già sono stati messi all’indice per statuto da partiti come Jobbik. Altro pessimo segnale, l’inclusione nella nuova Costituzione del cosiddetto diritto all’autodifesa, che poi non è altro che il diritto di possedere armi anche senza licenza. I rom di Gyongyospata hanno tirato le somme, anche se Jobbik non ha votato a favore della nuova Carta. Per quel che li riguarda potrebbe essere benissimo l’inizio di un’era di pogrom.
Amnesty international denuncia la Costituzione ungherese perché «viola gli standard internazionali ed europei sui diritti umani» e cita in particolare i princìpi anti-aborto, la definizione del matrimonio come unione di uomo e donna, la mancanza di tutela contro le discriminazioni sessuali. Non sono solo questi in realtà i punti controversi. Il testo limita l’autonomia della magistratura e vincola il parlamento ad un Consiglio di bilancio legato alla Banca centrale, che avrà il potere di sciogliere le camere. Un «golpe», così la nuova Carta è stato definita dall’opposizione. «Siamo sulla strada per
diventare una seconda Bielorussia», ha detto il leader socialista Ferenc Gyurcsany. Insieme ad altre organizzazioni il partito socialista ha chiesto al presidente Pal Schmitt di non firmare il testo, che dovrebbe entrare in vigore il prossimo 1 ̊ gennaio. Gruppi della società civile si stanno organizzando per chiedere un referendum contro la nuova Costituzione.
Il Consiglio d’Europa ha sollecitato l’invio di una missione in Ungheria per preparare un rapporto, esperti andranno a Budapest il prossimo 18 maggio. Ma in Europa è la sola Germania ad aver manifestato apertamente la sua preoccupazione, per il varo di un testo lontano dai valori Ue. Budapest ha respinto le critiche come «inaccettabili» interferenze. E i rom cambiano aria.

Corriere della Sera 23.4.11
Pogrom anti-rom in Ungheria Donne e bambini messi in fuga L’esodo dei civili minacciati dalle milizie di ultradestra
di Maria Serena Natale


Gli uomini restano, donne e bambini salgono sui pullman diretti al «campo estivo» : 277 rom in fuga da miliziani dell’estrema destra, in un’Ungheria che sembra aver riportato indietro le lancette di un secolo. È la prima volta dalla Seconda guerra mondiale che la Croce rossa evacua civili ungheresi minacciati da un’organizzazione paramilitare. Durante il weekend pasquale la c i t t a d i n a d i Gyöngyöspata, 2.800 abitanti ottanta chilometri a nord-est di Budapest, ospita un «campo di addestramento» del gruppo Vedero («Forza di difesa » ), che intende «migliorare la salute dei giovani magiari instillando in loro la disciplina militare» e dal suo sito Web invita i simpatizzanti a presentarsi in uniforme per lezioni di tiro al bersaglio e uso delle armi. Il tutto a un centinaio di metri dal quartiere che ospita i 450 membri della comunità rom. È da oltre un mese che a Gyöngyöspata e in altre località delle zone rurali Vedero e organizzazioni come la Guardia civile per un futuro migliore conducono pattugliamenti «per ristabilire l’ordine e difendere la maggioranza ungherese terrorizzata dalla criminalità zingara» — espressione ancora diffusa nelle aree dell’Europa centro-orientale dove un persistente pregiudizio anti-rom si salda all’avanzata di movimenti di estrema destra dichiaratamente razzisti. Fenomeno aggravato in Ungheria dalla recente approvazione di una Costituzione di prossima promulgazione, fiore all’occhiello del governo di centro-destra di Viktor Orbán, che cita l’ «etnicità» tra i valori fondanti dello Stato ed è accusata da Amnesty International di violare i diritti umani. Vedero è una delle organizzazioni paramilitari che gravitano nell’orbita del partito nazionalista Jobbik, entrato in Parlamento nel 2010 come terza forza. «Gyöngyöspata è un campo di battaglia, subiamo continue intimidazioni e abbiamo paura — denuncia il vice presidente del consiglio locale rom Janos Farkas —. Abbiamo mandato via i nostri figli perché qui non avrebbero preso sonno» . «Allarmismo — ribatte il capo di Vedero, Tamas Eszes— la criminalità rom è un problema ma il campo non si occuperà di questo. Ci accusano di razzismo, noi perpetuiamo l’antica tradizione ungherese dell’addestramento militare» . Ieri pomeriggio la polizia ha fermato alcuni miliziani e lo stesso Eszes: portato via in manette, ha urlato ai suoi di andare avanti. Il governo di Budapest, che ha fatto dell’integrazione dei rom uno dei temi principali dell’attuale presidenza di turno Ue e che ieri ha definito l’esodo una «provocazione politica» slegata dalle esercitazioni, ha annunciato multe di 100 mila fiorini (400 euro, un salario medio) per chiunque partecipi alle ronde. «Il mantenimento dell’ordine è monopolio dello Stato» , ha dichiarato il portavoce di Orbán annunciando un decreto anti-pattugliamenti. In Ungheria vivono 800 mila rom: una serie di attacchi ai campi nel 2008-2009 fece sei vittime. Solo poche aggressioni, denunciano gli attivisti, furono classificate come «crimini dell’odio» .

il Fatto 23.4.11
Ruspe e polizia: i Rom fuggono dal sindaco e si rifugiano in basilica
A Roma occupata San Paolo, ma Alemanno non si ferma
di Silvia D’Onghia


Carne da macello. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, non indietreggia di un millimetro: dopo aver deciso che la Capitale deve essere liberata dall’emergenza rom (settemila persone su una popolazione di oltre tre milioni), ogni giorno distrugge le baracche, e la vita, di centinaia di loro. Ieri è stata la volta di via dei Cluniacensi: le ruspe sono arrivate di mattina e hanno costretto 300 rom a recuperare in fretta e furia i propri bagagli e a mettersi in cerca di un’altra soluzione. Provvisoria, s’intende, considerato che il Comune offre come unica alternativa l’alloggiamento nei Cara (Centri per i richiedenti asilo), dove le famiglie vengono divise, donne e bambini da una parte, uomini dall’altra.
   E così ieri i rom hanno dato vita ad una protesta pacifica: circa 200 di loro hanno occupato la basilica di San Paolo. “Ci appelliamo alla Chiesa – hanno spiegato – perchè ci aiuti ad affrontare questa situazione. Oggi le nostre baracche sono state distrutte, ieri quelle di altri rom a via del Flauto, e prima quelle della Miralanza, di via Severini e Lungotevere San Paolo. È questa la nostra settimana santa”. Con loro, oltre alle associazioni che si occupano di integrazione, c’era anche don Pietro, parroco della chiesa della Natività di via Gallia: “Io so’ prete – ha detto in romanesco – e sto in chiesa e faccio come mi pare. Mica mi faccio cacciare da un gendarme”. Un presidio che ha consentito ai fedeli di assistere alle celebrazioni per il Venerdì Santo.
I ROM non ne possono più e ne hanno tutte le ragioni: quasi ogni giorno, dall’approvazione del Piano nomadi, polizia e vigili urbani buttano giù i campi abusivi sparsi per la capitale. Dall’inizio dell’anno, fa sapere la Prefettura, sono stati effettuati 33 sgomberi di piccoli e grandi insediamenti. Oltre 400 persone, forse molte di più, la Prefettura non sa essere precisa. Nessuno dei rom lasciati per strada ha accettato l’assistenza nei Cara. “Abbiamo scoperto che si tratta di stagionali – si giustificano dal Palazzo del governo –. Vengono a Roma in primavera per andare a lavorare nei campi, per esempio a Fondi”. Come se un lavoratore stagionale costruisse una baracca sotto i ponti romani per fare ogni giorno 200 chilometri e raggiungere il posto di lavoro.
Ma dove sono finite le soluzioni alternative promesse da Alemanno? “L’undicesimo campo di transito previsto dal Piano – raccontano ancora dalla Prefettura – non è ancora stato allestito. La tendopoli non si è fatta (come invece aveva annunciato il sindaco, ndr) perchè ha dei costi altissimi. Si va passo passo. Prima dobbiamo pensare a risolvere l’emergenza”.
   In realtà, Alemanno ha il terrore che nei campi abusivi possa scoppiare un nuovo incendio, come quello che a febbraio è costato la vita a quattro bambini sulla via Appia. Ma ha anche la speranza (e con lui il delegato alla Sicurezza , Giorgio Ciardi) che, continuando ad abbattere baracche, alle famiglie passi la voglia di costruirle. Qualcuno in Campidoglio già parla di vittoria, soltanto perchè nei giorni di Pasqua alcuni rom di origine romena sono tornati (temporaneamente) a casa. Alemanno ha le idee chiare: “Vengono qui perchè pensano di guadagnare di più”, ha sostenuto in risposta alle critiche della Comunità di Sant’Egidio.
Il sistema creato da sindaco e Prefetto è un cane che si morde la coda. E ne sa qualcosa la Questura: una volante che partecipa ad uno sgombero, il giorno successivo è costretta a tornare sulla stessa area, perchè l’insediamento si è già ricreato. Un dispendio di risorse e di energia, oltre che un disprezzo per la vita umana.
MA, DEL RESTO, Alemanno va a braccetto con Berlusconi, che ieri ha trovato il coraggio di scrivere - in una lettera al Papa - che l’Italia è “impegnata nell’assistenza alle migliaia di persone in fuga dai Paesi del nord Africa. In ossequio al rispetto della dignità e del valore della persona umana sancito - come ha affermato il Santo Padre - dai Popoli della terra nella carta dell'organizzazione delle Nazioni Unite, si sta adoperando al meglio per rispondere con generosità a tanta sofferenza”.

il Fatto 23.4.11
I ragazzi del Muro d’Israele e le colpe dei leader palestinesi
A Bil’in nella manifestazione attaccata dall’esercito di Gerusalemme. Molte critiche anche ad Hamas e Fatah
di Giampiero Calapà


Bil’in (Cisgiordania). Il corteo procede verso il Muro. La punta più avanzata è appena arrivata là sotto quando si sente il primo boato. Lacrimogeni seguiti da proiettili di gomma. La manifestazione dei palestinesi del villaggio di Bil’in non ha fatto neppure in tempo a vederlo da vicino questo maledetto muro che subito è stata spezzata. La gente retrocede, gli occhi lacrimano, non si vede più nulla, pare che manchi il respiro. Folate di vento portano anche più indietro i gas dei lacrimogeni atterrati altrove. I più sfortunati restano vittime di questi lanci dei soldati israeliani. Due ambulanze della Mezzaluna rossa fanno avanti e indietro nella piccola stradina che dal promontorio scende fino al muro. Per dare assistenza immediata. Un manifestante palestinese viene colpito alla gamba, un altro alla testa. Solo pochi minuti per la medicazione sull'ambulanza per loro, poi per terra, seduti sui sassi a cercare di riprendersi.
E i gas lacrimogeni sparati dall'esercito israeliano possono uccidere. È successo lo scorso dicembre a Jawaher Abu Rahma, 36 anni. Aveva inalato troppi gas sotto il Muro, nel corteo del 31 dicembre. È stata portata all'ospedale di Ramallah, ma niente da fare: morta per avvelenamento il giorno in cui il mondo ha festeggiato l'anno nuovo. Suo fratello Bassem era stato ucciso nel 2009, sempre durante una protesta del movimento di resistenza popolare di Bil’in.
IERI LA SENSAZIONE è stata quella di una gabbia in cui il corteo finisce per cacciarsi. Dall'altra parte c'è l'insediamento dei coloni israeliani di Modi’in Ilit, e il Muro è servito qui per dare terra alla colonia privando gli abitanti del villaggio di appezzamenti che fino a 5 anni fa erano loro. L'esercito ha ordine di respingere. Basta il primo sasso tirato da un bambino palestinese di solito, ieri la reazione è stata addirittura preventiva. Mentre altri militari salivano dalla destra nel corridoio così detto No man's land , usato come zona cuscinetto, accerchiando i manifestanti, partivano i primi getti degli idranti. Un liquido puzzolente che infierisce sulla testa di un corteo di trecento persone al quale hanno preso parte anche cittadini europei, soprattutto francesi e italiani. La manifestazione è ripetuta dagli abitanti del villaggio ogni venerdì. Ma una volta l'anno, in concomitanza con la chiusura della Conferenza internazionale di resistenza popolare, registra la partecipazione di un maggior numero di persone, provenienti anche dall'estero . Non mancano gruppi di giovani anarchici israeliani, pronti a manifestare in solidarietà e protezione dei coetanei palestinesi. Alcuni di questi, insieme a altri palestinesi, hanno provato a forzare la No man's land, scavalcando la recinzione. Subito le camionette dell'esercito li hanno fermati, un ragazzo investito in pieno si rialza per miracolo aiutato dai compagni. Poco più in là agenti con divise diverse, scure. È la temibile polizia di frontiera, armata di tutto punto. Se intervenissero loro sarebbe una carneficina. Fortunatamente l'occasione non si presenta. Qualche bambino continua il lancio di pietre, ma il corteo arretra, sconfitto per l'ennesima volta, fino a disperdersi.
Quale futuro per una resistenza palestinese che pare non avere sbocco, proprio come nella gabbia disegnata attorno a Bil'in dal Muro? Provano a dare una risposta i giovani, tra cui molte ragazze, vent'anni o poco più, del Movimento 15 marzo. Nato per chiedere l'unità tra Cisgiordania e Gaza, separate oltre che dall'occupazione anche dalla faida tra Fatah e Hamas: “Questa classe dirigente palestinese non ci rappresenta minimamente, chiediamo che il Consiglio nazionale venga riformato”. Sentono parlare di dichiarazione di settembre, quando l'Anp (Autorità nazionale palestinese) dovrebbe annunciare la nascita dello Stato di Palestina, ma non ci credono: “Che cosa vorrebbe dire? Una gabbia un po' più bella. La soluzione dei due Stati non ci convince. Vogliamo libertà, giustizia e uguaglianza”. Propongono un rilancio della resistenza: “Non parliamo di violenza o di armi, i nostri modelli sono Gandhi, Mandela e il movimento per i diritti civili degli Usa. La comunità internazionale deve sanzionare Israele per i suoi crimini. Mentre noi dobbiamo farci forza e scendere in strada a manifestare: cosa succederebbe se 50 mila persone si ritrovassero davanti al check point di Kalandia (l'accesso a Gerusalemme, ndr)?”. Le voci di Syheir, Ashira, Hurriyah, Saradat, universitari che sognano di portare anche in Palestina la primavera araba, per oggi si spengono sotto il lancio dei lacrimogeni.

l’Unità 23.4.11
Negozi aperti il 1 ̊ maggio Camusso a Renzi: provochi
Nel botta e risposta sulla festa dei lavoratori un altro capitolo dello scontro tra il sindaco e il segretario Cgil. Sindacati contro il «rottamatore»: sciopero
di Osvaldo Sabato


Non perdono occasione per pungolarsi. Era già successo nel pieno della polemica sui lavoratori del Maggio fiorentino bloccati a Tokyo per il terremoto. Ora il duello a colpi di dichiarazioni si rinnova sull’apertura dei negozi per il Primo Maggio. I protagonisti di questo duello sono il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, e la segretaria della Cgil, Susanna Camusso. Uno scontro che rischia di avere dei riflessi anche dentro lo stesso Partito Democratico. Il sindaco “rottamatore” da tempo sta pensando di mandare definitivamente in pensione la Festa dei lavoratori a differenza del sindacato, che da tempo ha lanciato una sua campagna contro il lavoro domenicale. L’argomento è di quelli caldi, e gli stessi sindacati sembrano compatti contro Renzi tanto da dichiarare uno sciopero regionale, bollato dal sindaco «ad personam». Il miracolo renziano di aver unito la Cgil con la Cisl e Uil nello sciopero del commercio è la sintesi di questo dibattito. E la Cgil, quasi come una sfida, decide di convocare per il 29 aprile a Firenze l’assemblea nazionale dei lavoratori della grande distribuzione con le conclusioni della segretaria Susanna Camusso. In Toscana la questione fa discutere e lo stesso presidente regionale, Enrico Rossi, annuncia una legge sulla chiusura dei negozi nelle feste principali, fra cui anche il Primo Maggio, per evitare che ogni città faccia come le pare.
Anche il segretario del Pd della Toscana, Andrea Manciulli, è contro Renzi («È giusto fare festa) e il sindaco si è trovato contro i giovani democratici che per protesta hanno organizzato anche un flash mob. «È una polemica che divide inutilmente» osserva l’europarlamentare Debora Serracchiani. Da sottolineare che anche lo stesso Rossi prenderà parte all’assemblea nazionale della Cgil, un segnale chiaro di presa di distanza da Renzi, che accusa i sindacati di svegliarsi su questo argomento ogni volta che si avvicina il Primo Maggio «sono tutto l’anno in tutt’altre faccende affacendati» aveva detto il sindaco «e colgono l’occasione per aprire una polemica con il Comune». Il sindaco chiama in causa la deregulation della legge Bersani. Dalla sua parte si è schierata la leader di Confindustria Emma Marcegaglia. Ma la polemica scompiglia il centro sinistra fiorentino, l’Idv è con la Cgil, e mette d’accordo il sindacato definito da Renzi «una casta» con la metà dei sindacalisti che «dovrebbe tornare a lavorare».
«Le mie opinioni sui sindacati, sui loro bilanci e sull'eccessivo numero di permessi sindacali rimando a ciò che ho scritto nel libro FUORI!: se vogliamo cambiare il Paese, non basta ridurre i costi della politica, ma bisogna dimezzare i costi e i posti di chi vive di politica, ma anche di chi si occupa di sindacato» dice il sindaco di Firenze. «Nell' idea di Renzi di aprire i negozi del centro storico il Primo Maggio» spiega la Camusso, a Trieste,per un attivo sindacale ci sono degli elementi di provocazione e ricerca della visibilità, ma al fondo aggiunge c'è davvero un'idea sbagliata che continua a evidenziarsi spesso nelle politiche delle amministrazioni». «Si pensa che siccome c'è la caduta dei consumi allora si aprono di più i negozi e i consumi risalgono, ma non è vero. La ragione della caduta dei consumi continua Camusso è che sono diminuiti i redditi e c'è la crisi».
Il segretario generale della Cgil sottolinea che «in qualche occasione nei toni del sindaco di Firenze abbiamo notato una volontà dissacratoria che devo dire sarebbe bene che usasse per altro, perché di dissacratori del lavoro conclude ne abbiamo fin troppi». «Stupisce che in questo momento della vita del Paese il problema principale della Cgil possa essere il Comune di Firenze» replica Renzi, prima dell’affondo finale «la dottoressa Camusso dicesi avventura poi in una lettura delle nostre scelte che suona semplicistica e banale».

Repubblica 23.4.11
Manna e miele ferro e fuoco
Natura e sentimento l´epica popolare delle donne selvatiche
Il nuovo libro di Giuseppina Torregrossa cerca la complicità del lettore Con una scrittura tutta al femminile rappresenta un´eroina coraggiosa
di Leonetta Bentivoglio


Giuseppina Torregrossa è una scrittrice tutta "al femminile", senza esitazioni di genere: non s´immagina una sua sola riga scritta da un uomo. Nelle sue storie miscela pancia e cuore. In più è siciliana, e come la maggior parte dei suoi conterranei percepisce quest´origine come "la" radice esistenziale. Ogni sua pagina esprime sicilianità, intesa come sentimento della natura poderosa dell´isola e come istinto irrinunciabile del proprio territorio; e quest´aspetto è una linfa che addensa ulteriormente la sua scrittura grondante di femminilità. Il che equivale a una spiccata devozione per il materico, a una complicità materna con il lettore (c´è una sorta di melodia cantabile e cullante nel suo narrare speziato da zone dialettali) e a un incedere pervaso da odori, sapori, giochi tattili e flussi di emozioni interne. Quasi ossessivo il suo affondo nella sensualità, con persistenti accensioni veristiche.
Quest´amabile signora, che ha lavorato a lungo come ginecologa curando tumori al seno (notizia utile per capire il rapporto con il corporeo che impregna la sua scrittura), ottenne un bel successo un paio d´anni fa con Il conto delle minne: un tenero quadro di famiglia (sicula, ovviamente) guidato dal filo conduttore di un´esaltazione del seno femminile, che conquistò notevoli cifre di vendite e dieci traduzioni all´estero. Ora, con Manna e miele, ferro e fuoco, in uscita per Mondadori, l´autrice palermitana, senza rinunciare alla sua impronta, si è posta obiettivi più ambiziosi.
Se il libro precedente era un´affettuosa fiaba mediterranea, con venature di biografismo e tratti esilaranti, l´attuale storia non solo si lancia nell´invenzione pura, senza appigli documentari o soggettivi, ma sembra volersi misurare con l´impianto "classico" del romanzone popolare femminile. Perciò è sospinto da un´eroina coraggiosa, oppressa dai soprusi di un contesto maschilista e a poco a poco in grado, dopo un gran succedersi di sofferenze, di ricostituire la sua dignità e il suo libero arbitrio: una rivendicazione che deve molto a un contatto intenso con le forze naturali, come in certe figure di donne selvatiche e possenti create da Isabel Allende.
Mira in alto anche lo sfondo scelto per Manna e miele, ferro e fuoco, la cui vicenda, ambientata tra i boschi delle Madonie, si sviluppa nel momento-chiave della transizione verso l´Unità d´Italia, col crollo del regno borbonico, l´impresa di Garibaldi al Sud e l´instaurarsi del governo sabaudo nel Meridione. Gli accenti amari e disillusi sui destini della Sicilia, osservati durante l´arduo passaggio, sembrano cogliere spunti da I Viceré, non a caso il libro prediletto dalla Torregrossa. E pure l´arco di tempo attraversato, da metà Ottocento agli anni Ottanta dello stesso secolo, è il medesimo del capolavoro di De Roberto.
Ma gli accadimenti storici sono solo una cornice: il motore della trama è il personaggio di Romilda, seguita dalla nascita alla maturità. La madre Maricchia sognava una figlia femmina, e quando arriva, ultima dopo tre maschi, se ne innamora alla follia, trasmettendole molte certezze su se stessa. Il padre Alfonso, quasi uno stregone, è "u mannaluoro": il suo mestiere è estrarre dai frassini la manna, una sostanza rara e preziosa usata come dolcificante e prodotta nel triangolo compreso tra Castelbuono, Cefalù e Gangi. Romilda cresce all´aria aperta e ha una bellezza fuori dall´ordinario. E´ una fata in sintonia con le più solide e inconoscibili correnti della terra, una regina che fiorisce nel verde e tra gli alveari: le api diventano le sue migliori amiche e le sue ancelle. Dal padre impara il segreto magico della manna, da raccogliere scortecciando i tronchi: arte chirurgica riservata ai maschi, esige destrezza e sapienza. Romilda se ne appropria così bene - meglio dei suoi fratelli - che diventerà la prima mannaluora femmina delle Madonie.
Spezza l´incanto il barone di Ventimiglia, un orco vecchio e incattivito dal brutale esercizio del potere, che la vuole in sposa quando è poco più di una bambina. Comprata e schiavizzata, Romilda patisce ogni notte gli assalti del marito come stupri. La sua energia si sgretola, il suo corpo è un tempio profanato. E quando partorisce due gemelli non riesce ad accettarli. Poi però, dopo un succedersi di morti e varie disavventure, ritrova la strada delle sue montagne e si riconcilia con il battito profondo della vita.
Lungo il romanzo abbondano gli amplessi, ora goduti ora subiti, e sempre esplorati con malizioso gusto anti-censorio del dettaglio. Il sesso incombe al positivo e al negativo: tanto è turpe quello del barone ai danni della sua moglie-bambina, quanto è armonico e ricco di risonanze quello che unisce fino alla vecchiaia i due umili e appassionati genitori della ragazza. Ed è la sponda più felice dell´eros a vincere nell´epilogo, quando Romilda, splendida e rigogliosa tra i suoi frassini come una dea della fertilità, si fa possedere, finalmente consapevole e partecipe, dal giovane Lorenzo.
Tra manierismi e squilibri strutturali, l´affresco serba comunque la gradevolezza di un abbraccio, e sa ancorarsi con abilità a un´intera mappa di perni seduttivi: trionfo della superiorità "naturale" della donna; fervido culto ambientalista; femminismo addolcito fino alla stucchevolezza (manna e miele ci inondano a ogni passo); il tema intramontabile del fascino del selvaggio.

Corriere della Sera 23.4.11
L’adolescenza delle bambine comincia alle scuole elementari
di Stefano Montefiori


O voi genitori fieri della piccola Lucille che a tre anni sa già leggere e scrivere le prime parole, papà ossessionati dal mito di Mozart che a cinque compose il primo concerto, mamme attente ad accompagnare la bambina al corso di danza, inglese, nuoto, violino prima ancora delle elementari, tecnofili orgogliosi dei figli «nativi digitali» che a quattro anni già sfiorano i touchscreen, non abbiate troppa fretta: la precocità potrebbe esigere presto il suo prezzo. I bambini sono sempre più sollecitati, stimolati, incoraggiati a bruciare le tappe per accumulare esperienze che faranno di loro — questa è la speranza— adulti realizzati, colti, competenti ed esperti. Solo che poi, a sette-otto anni, le bambine cominciano a preoccuparsi della peluria sulle gambe e a chiedere la depilazione, a esibire jeans attillati a vita bassa, e talvolta a mostrare i segni anche fisici di una pubertà precoce. L’orgoglio di mamma e papà per una bambina «avanti per la sua età» , alla prima maglietta striminzita, si trasforma in sconcerto. L’adolescenza anticipata è un fenomeno in crescita e le cause sono ancora poco chiare: si evocano inquinamento da Pcb ed estrogeni nella carne, una dieta troppo ricca di grassi, l’ansia da prestazione e l’iper-stimolazione indotta da genitori troppo attenti alla performance dei figli, il bombardamento di immagini e messaggi erotizzati tipico delle nostre società, fino all’ipotesi più probabile. Cioè l’insieme di tutti questi fattori, genetici, ambientali e culturali. Per il sociologo francese Michel Fize, autore di «Les Nouvelles Adolescentes» (Armand Colin), «l’adolescenza è culturale e psicologica prima di essere biologica, e comincia ormai ben prima della scuola media. Le bambine sviluppano atteggiamenti dell’adolescenza prima di svilupparne le caratteristiche fisiche. L’adolescenza non coincide più con la pubertà. Il desiderio di uscire dall’infanzia è molto più forte oggi, e questo deriva da un ambiente sociale che induce la frenesia di una crescita rapida e di un accesso immediato alla fascia di età superiore, bruciando le tappe» . I pediatri ricordano anche la cause biologiche, genetiche e fisiologiche di questo sviluppo anticipato: l’obesità, per esempio, può accelerare la pubertà. Negli Stati Uniti, una bambina bianca su 10 mostra segni di sviluppo sessuale già a sette anni, cioè il doppio di dieci anni fa. Tra le bambine afro-americane, per motivi genetici, la frequenza aumenta a una su quattro. In Francia, secondo lo studio dell’endocrinologo Charles Sultan, l’età media dello sviluppo del seno si colloca ormai a nove anni e tre mesi. E sono i fattori culturali, quelli che dipendono direttamente dal mondo degli adulti, a inquietare di più. Il fotografo francese Alain Delorme ha voluto denunciare lo stravolgimento dell’infanzia nella serie «Little Dolls» . «Riprendo sempre una bambina, un dolce, uno sfondo colorato, i genitori. Poi comincia la trasformazione, con un software per il fotoritocco— spiega Delorme—. Trucco il viso, rimodello il naso, alleggerisco i tratti e modifico carnagione, colore degli occhi, pettinatura. Questa chirurgia estetica del pixel fa sparire il reale a favore di un’immagine interamente artificiale» . Che però esprime perfettamente una tendenza che si afferma negli Stati Uniti e sempre di più anche in Europa. I concorsi di bellezza per bambine, a lungo criticati e portati spesso ad esempio della barbarie culturale americana, erano in realtà l’avanguardia di un processo ormai attuale anche in Francia e in Italia. I sogni delle bambine si incrociano con le ambizioni dei genitori producendo «donne bambine» di otto anni, ben più precoci del mito letterario della «Lolita» nabokoviana, la dodicenne Dolores Haze. E la società ipersessualizzata, che associa in modo più o meno subliminale qualsiasi oggetto— da una bibita ai pneumatici alla colla— al corpo femminile, non manca di fare sentire i suoi effetti su bambine che colgono inconsciamente segnali continui: un «effetto Barbie» moltiplicato per mille. Dopo il servizio su Vogue francese con bambine su tacchi a spillo, che costò il posto alla direttrice Carine Roitfeld, duecento pediatri francesi hanno firmato una petizione per denunciare «l’erotizzazione dei bambini nella pubblicità e nelle immagini di moda» . «Ma dipende anche dalle mamme — ricorda al Nouvel Observateur lo psichiatra Didier Lauru —: esibiscono ed erotizzano le figlie per valorizzare se stesse» . Non sono solo le bambine, purtroppo, a giocare alle Barbie.

Corriere della Sera 23.4.11
Come fare per aiutarle a «rallentare»
di Silvia Vegetti Finzi


Un mutamento epocale vuole che l’infanzia sia sempre più breve mentre l’adolescenza tende a non finire mai. Già a nove anni molte bambine rivelano i prodromi della pubertà, fisica e psichica, una anticipazione che si registra in molti paesi europei, anche nordici. La prematurità psichica è preoccupante in quanto inaridisce i processi immaginativi, riduce il tempo del gioco, depotenzia i sogni ad occhi aperti, separa i due sessi e favorisce un’acritica adesione alla identità stereotipa proposta dai mass-media. A lungo termine ne consegue un depauperamento del potenziale creativo proprio dell’infanzia. Chi esce troppo presto dagli «anni magici» rischia un’identità emotivamente arida, un pensiero conformista, una eccessiva ricerca del consenso sociale. Certo la fretta di crescere si afferma in un contesto di generale accelerazione della vita quotidiana. Sin da piccoli i bambini vengono incentivati all’autonomia e soprattutto le bambine ricevono particolari apprezzamenti per la loro «adultità» . Ma, visti gli esiti, è forse è il caso di rallentare la corsa. Ecco una serie di consigli che mi sento di dare ai genitori: 1) meglio adottare abitini sobri senza cedere alle lusinghe del «lolitismo» ; 2) non regalare cosmetici e gioielli; 3) sdrammatizzare l’eventuale sovrappeso e non colpevolizzare il cibo; 4) evitare libri e spettacoli eroticamente stimolanti; 5) rinviare l’acquisto del cellulare e controllarne l’abuso; 6) proibire i «viaggi» in chat dove sono sempre possibili incontri pericolosi; 7) non mostrarsi lusingati per i primi corteggiamenti o alludere divertiti al «fidanzatino» ; 8) favorire le amicizie di gruppo rinviando a più tardi l’esclusività dell’amica del cuore; 9) non incentivare le esibizioni (cast di baby modelle, spettacoli, book fotografici); 10) preferire sport di squadra non competitivi; 11) accordarsi con le mamme delle compagne di classe per adottare atteggiamenti coerenti. E, infine, convincersi che la pubertà è un’età di passaggio, intermedia tra un «non più» e un «non ancora» , che va rispettata e protetta.

Corriere della Sera 23.4.11
«Il chirurgo era il principe delle truffe»
La sentenza su tre medici: pazienti considerati come pozzi di denaro
di Giuseppe Guastella


MILANO — Hanno «violato» il giuramento di Ippocrate, «con incredibile cinismo hanno tradito il rapporto fiduciario medico paziente» considerando i malati «soltanto come serbatoi» di denaro senza fermarsi «neppure davanti a pazienti particolarmente fragili e indifesi trasformati senza un barlume di pietà in strumenti per la produzione del fatturato» . I giudici di Milano spiegano perché ad ottobre hanno condannato i tre chirurghi «insensibili e spietati» della «Clinica degli orrori» Santa Rita accusati di lesioni volontarie e truffa per 79 interventi toracici dannosi e fatti solo per ottenere i lucrosi rimborsi del servizio sanitario. Sonomonumentali e destinate a fare giurisprudenza le motivazioni (1.187 pagine) con le quali la presidente della 4a sezione penale Maria Luisa Balzarotti e i giudici Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro analizzano il processo, chiusosi accogliendo pressoché tutte le richieste dei pm Grazia Pradella e Tiziana Siciliano con la condanna a 15 anni e mezzo del primario Pier Paolo Brega Massone, a 10 anni del suo braccio destro Pietro Fabio Presicci e a 6 anni e 9 mesi dell’aiuto Marco Pansera. Brega Massone è ancora in carcere accusato con Presicci e Pansera anche di quattro omicidi per la morte di altrettanti pazienti e di altri 46 casi di lesioni volontarie. Ripercorsi passo per passo gli interventi sui quali ha indagato il pm Pradella e che impegnano più di mille pagine e che descrivono «una serialità di fatti, un’intensità di dolo» da parte di tre medici: ad «elevata propensione a delinquere» e alla «continua ricerca di un pretesto per operare» . «Chissà se il chirurgo Pier Paolo Brega Massone ricorda ancora il momento in cui ebbe a prestare il giuramento di Ippocrate; chissà se lo ricordano i suoi due assistenti» si chiedono i giudici secondo i quali, sin da quando i malati venivano in contatto con il primario, si pensava di operarli, anche quando erano così malati e anziani che l’intervento era inutile. Altrimenti li si convinceva con «informazioni largamente incomplete» , terrorizzandoli con il rischio inesistente di un tumore maligno. Ma perché tanto cinismo, tanta «aggressività chirurgica» ? Brega, «principe delle condotte truffaldine» , ha «rivendicato con orgoglio» la correttezza di tutte le operazioni. «Personalità assai forte e strutturata» , «incrollabilmente convinto dell’eccellenza delle proprie qualità» , si muove per consolidare la propria posizione nella clinica e nella chirurgia nazionale e internazionale anche, è l’agghiacciante spiegazione, «grazie alla pubblicazione di lavori scientifici basati sulle casistiche operatorie» ; Presicci e Pansera «non hanno esitato ad allinearsi alle direttive» del capo condividendone gli «intenti e la spregiudicatezza» . Severo il giudizio sui consulenti della difesa Brega Massone, Ludwig Lampl e Franco Giampaglia. Le loro «imbarazzati osservazioni» vengono fatte a pezzi sottolineando come si siano contraddetti tra loro e con lo stesso Brega. Nei loro confronti i giudici esprimono «rilevantissime perplessità di metodo, così radicali da determinare un giudizio aspramente negativo sulla attendibilità delle loro conclusioni» . Ritengono che abbiano voluto «giustificare il comportamento» di Brega Massone a tutti i costi in un tentativo, «decisamente non riuscito, di trasformare il processo in una disputa accademica, una sorta di confronto tra scuole di pensiero, che il giudice dovrebbe limitarsi a registrare» . Alle critiche per «l’assenza di controlli davvero incisivi e pregnanti da parte degli enti pubblici» perché «avrebbero potuto prevenire» queste condotte, la Regione risponde: «Il sistema di verifiche lombardo è il più avanzato in Italia» .

Corriere della Sera 23.4.11
I crimini di Stalin? Spiegati (in parte) dal cervello malato
di Fabrizio Dragosei


MOSCA — Si sa da tempo che il cervello di Stalin era malato e che almeno negli ultimi tempi non funzionava a dovere. Il diario di uno dei suoi medici pubblicato in questi giorni ci dice ora che l’arteriosclerosi non solo lo portò alla morte ma lo rese anche particolarmente crudele e sospettoso. Il Piccolo Padre dunque perseguitò e fece uccidere milioni di persone solo perché malato? No, visto che la sua crudeltà e mancanza di scrupoli era evidente già in gioventù, quando prima della rivoluzione era noto come Koba il sanguinario. Certamente però nell’ultimo periodo, quando il leader sovietico aveva raggiunto i settant’anni, gli effetti del male si fecero più acuti ed evidenti. Se non fosse morto a seguito di un ictus quel 5 marzo del 1953, avrebbe scatenato una nuova campagna di epurazioni. Questa volta contro i medici ebrei che accusava di tramare per assassinare lui e tutta la classe dirigente sovietica. Il dottor Aleksandr Myasnikov, vicino al grande dittatore per anni, aveva tenuto un diario che alla sua morte venne sequestrato dal Kgb. Ora è stato restituito agli eredi che hanno deciso di pubblicarlo. Dopo la morte, l’autopsia rivelò l’estensione dei danni subiti dal cervello del dittatore. «Stalin— scrive ilmedico — può aver perso il senso del buono e del cattivo, del giusto e di ciò che era sbagliato, di ciò che era permesso e di quello che non lo era» . Myasnikov aggiunge che la malattia tende a esasperare i tratti del carattere, «così che una persona sospettosa diventa paranoica» . Le memorie del dottore hanno suscitato perplessità fra coloro che conoscevano Stalin e lo stesso Myasnikov il quale era certamente nelle grazie del dittatore. Anche se in vecchiaia l’arteriosclerosi potrebbe aver peggiorato il suo carattere, è certo che Stalin si comportò per tutta la vita in maniera abbastanza «coerente» : quando operava a Bakù per conto di Lenin e non era ancora quarantenne; quando ordinava deportazioni ed esecuzioni di massa negli anni Trenta ed era quasi sessantenne. Sempre in questi giorni stanno uscendo anche gli estratti di un altro diario «segreto» , quello di Lavrentij Beria, capo dell’Nkvd e braccio armato di Stalin. Non è certo che i diari siano autentici, ma anche queste pagine sembrano scritte per rendere più umano il sanguinario dittatore. Ci raccontano, ad esempio, di come Koba si commosse dopo la fine della guerra e scoppiò in lacrime davanti al suo collaboratore.

La Stampa Tuttolibri 23.4.11
Intorno a Bacco si degusta la vita
di Claudio Franzoni


Simposio Un rito stabile per secoli: bere vino puro, conversare, amare, divertirsi
Scena di banchetto su un cratere a figure rosse del IV sec. a. C.

Non è accaduto a caso che a volte, in passato, il termine greco symposion sia stato tradotto con «banchetto», come, ad esempio, nel film che Marco Ferreri trasse dal Simposio di Platone nel 1988; il fatto è che ci viene naturale ricondurre alla nostra esperienza ciò che incontriamo nel mondo antico, e dunque anche le occasioni conviviali, quasi che le forme del mangiare e del bere siano le stesse sempre e dappertutto.
Negli ultimi vent’anni la saggistica di ambito anglosassone e francese ci ha spiegato invece che il simposio antico non era per niente paragonabile ai conviti, pubblici o privati, del Medioevo e dell’età moderna, tanto meno a quelli del nostro tempo. Si inserisce in questo ambito di ricerca anche il libro che Maria Luisa Catoni dedica a questo tema, facendo il punto sugli studi precedenti e aprendo nuovi fronti di discussione.
Il simposio era, come dice il nome, una «bevuta assieme», le cui forme, forse apprese dai Fenici, divennero dopo l’età omerica un vero e proprio contrassegno dello stile di vita aristocratico in Grecia. Al di là delle possibili varianti, il meccanismo del simposio dovette restare stabile per secoli: gli ospiti si accomodavano in una sala apposita della casa, l’ andrón («sala degli uomini») - termine che basterebbe a illustrare la destinazione esclusivamente maschile della «bevuta» - e qui si sdraiavano sui letti (di solito sette), modalità ereditata da forme conviviali orientali. Al centro della stanza era posto il cratere, un grande recipiente per mescolare vino e acqua: l’assunzione moderata del vino diventa infatti uno dei punti chiave dell’etica simposiale. Dal cratere si attingeva per riempire le larghe coppe decorate di ciascun invitato. Si iniziava con una libagione e una preghiera, ci si lavava, ci si incoronava con edera: azioni che iscrivevano il simposio in un ambito sacro e che ne rimarcavano il carattere rituale.
Tutto questo e molti altri dettagli si scoprono appunto in Bere vino puro , grazie anche al corredo di oltre 150 illustrazioni tratte proprio da quei vasi a figure nere e a figure rosse che servivano per lo svolgimento dei simposi e che vennero prodotti in Attica tra VI e V secolo prima di Cristo. Ma il saggio non punta tanto a descrivere lo svolgimento del simposio, quanto a osservare in questo «microcontesto quello che avviene nello spazio più ampio della polis e del mondo greco».
Del resto l’obbiettivo del simposio non era solo quello di condividere il piacere del vino, ma quello di conversare, di discutere temi filosofici, di eseguire o ascoltare canti e brani poetici; c’era posto anche per gli incontri amorosi, ed eventualmente per divertimenti, per giochi, per la baldoria finale. Attraverso queste «bevute assieme» i gruppi aristocratici rinsaldavano i rapporti reciproci e riaffermavano la propria identità; nello spazio modesto dell’ andrón viene così rappresentata la complessità della dialettica politica e sociale: basterebbe leggere i vivaci paragrafi sugli invitati e sugli esclusi (che però a volte vengono ugualmente e ne approfittano).
Ripetutamente l’autrice cambia angolazione e ordine di domande, affrontando anche problemi di metodo; in particolare, a proposito dell’interpretazione iconografica, non nasconde anche nodi problematici, come quello dei percorsi commerciali dei vasi da simposio: come mai migliaia di essi finirono in Occidente, magari destinati a conviti non greci o addirittura a corredi funerari di area etrusca?
Uno dei cardini del lavoro è l’analisi comparata di poesia e iconografie; sin dall’età arcaica infatti la lirica greca usa il simposio quale argomento, come quando Alceo incita i compagni a brindare per la morte del tiranno Mirsilo o invita a colmare le coppe «fino all’orlo» (ma di «due parti di acqua e una di vino»); nello stesso arco
Una «ricostruzione» di Maria Luisa Catoni nella antica Grecia con l’analisi comparata di poesia e iconografie

La Stampa Tuttolibri 23.4.11
Come conciliare Dioniso e Apollo, ebbri e assennati
Eros e Logos La lotta tra bellezza e verità che ha caratterizzato i Greci
Per Giorgio Colli, nel solco di Nietzsche, le due divinità non si contrappongono, ma coesistono
di Marco Vozza


Il debito di riconoscenza che la cultura internazionale, non soltanto quella italiana, intrattiene nei confronti di Giorgio Colli è inestimabile, innanzitutto per averci restituito un Nietzsche integro e credibile, sottratto alle reiterate manipolazioni precedenti, attraverso l’edizione critica delle sue opere condotta con Mazzino Montinari. Ma Colli era anche un grande editore e un filosofo autonomo, seppur sempre fedele alla traccia dei suoi autori prediletti, Schopenhauer e Nietzsche fra tutti, ma in particolare i primi pensatori greci, quei sapienti delle origini che si avvalevano delle forme espressive del mito, della religione e della poesia prima che si affermasse il pensiero astratto dei filosofi classici.
Ora abbiamo la possibilità di tornare su quei temi, tra antico e moderno, in virtù di una consistente, affascinante quanto rigorosa, raccolta di scritti inediti, la cui tesi assai ambiziosa considera «apollineo» e «dionisiaco» non soltanto criteri elettivi per la comprensione del mondo greco ma «principi universali e supremi della realtà», capaci di spiegare i dualismi del pensiero filosofico ma anche la musica di Beethoven. La chiave teoretica, non soltanto estetica, che introduce Colli, dell’antitesi tra dionisiaco e apollineo come connessione indissolubile, più che contrapposizione, tra interiorità ed espressione appare già prefigurata nella filologia nietzscheana dell’avvenire che indaga il fenomeno della vita secondo istanze metafisiche.
Apollo e Dioniso rappresentano il sogno e l’ebbrezza, la forma e la forza, la visione e l’impulso orgiastico, differenti espressioni del sentimento estatico dell’esistenza, quello in cui l’uomo viene trasfigurato nell’opera d’arte. Nietzsche insiste sulla coesistenza delle due divinità che si spartiscono il dominio nell’ordinamento delfico del culto, generando un equilibrio che vede alternarsi assennatezza e dismisura, moderazione e violenza. Nell’ebbrezza dionisiaca, la natura ritrova la propria potenza unitaria, dapprima dissipata nel processo di individuazione, opera altresì la redenzione di una volontà altrimenti intristita, ora rivitalizzata da una mescolanza panico-orgiastica di affetti.
Tra Dioniso e Apollo si instaurò la lotta tra verità e bellezza, che caratterizzò la grecità fino a raggiungere, depauperata e isterilita dopo Socrate, la modernità; i Greci intesero che il fine della cultura è quello di «velare la verità», di opporre la misura all’eccesso. Si trattò per la grecità apollinea di trasformare il carattere lacerante del pensiero tragico in «rappresentazioni con cui si potesse vivere», creando un mondo intermedio tra verità e bellezza, in cui il dolore, l’assurdità e l’atrocità dell’esistenza giungessero a manifestarsi in una bella parvenza, trasferendo cioè sul piano illusorio e salutare dell’apparenza la visione annichilente di quell’abisso terrificante.
L’arte rendeva possibile la creazione di «una possibilità più alta di esistenza», che consisteva nel mantenere aperta e vibrante l’espressione degli affetti, la comunicazione dei sentimenti, la condivisione del dolore, seppur trasferita «in rappresentazioni coscienti»; in tal modo, nell’esaltazione dell’essere che si avvale della danza e dell’intero simbolismo del corpo, la bellezza veniva ad accrescere «il piacere di esistere», cioè la vita ascendente.
Colli non ne fa menzione ma la più rilevante conferma della propria tesi giunge indirettamente dalla letteratura psicanalitica: Jung pone al centro dei Tipi psicologici la dicotomia tra apollineo e dionisiaco, come modello di spiegazione dei fenomeni di introversione ed estroversione. Il dionisiaco costituisce «l’espansione diastolica», pulsionale e multiforme, dell’esistenza, mentre l’apollineo rappresenta il tentativo razionale di ripristinare nella psiche un ordine unitario. Eros e Logos convivono permanentemente nella nostra vita.

La Stampa Tuttolibri 23.4.11
Vi presento Pletone (e non è un refuso...)
Il pensatore bizantino che innestò la dottrina platonica nel Quattrocento
di Silvia Ronchey


Che cosa sarebbe il nostro mondo senza Platone? Infinitamente diverso e certamente peggiore, lo sanno tutti. Ma pochi sanno che lo sarebbe anche senza un altro filosofo, suo quasi omonimo: Pletone. Non è uno scherzo, né, o non solo, un calembour. Il nostro pensiero, la nostra cultura, la nostra politica, questa nostra civiltà occidentale, che ha origine nella Grecia antica ma è nel Rinascimento che si forma alla modernità e appunto rinasce, non avrebbero avuto il loro imprinting nella filosofia di Platone se a trasmetterla all’internazionale degli umanisti europei non fosse stato quel grandissimo filosofo bizantino. Il suo vero nome, Gemisto, nel greco del Quattrocento voleva dire «colmo» ( gemistos ); e lo stesso o quasi — «pieno», «traboccante» — significava, nel greco classico, lo pseudonimo Plethon , Pletone, che si era dato in omaggio al filosofo per cui traboccava d'amore. Con questo nome era noto in tutto il mondo, come spiega Moreno Neri nello straordinario libro — un vero evento — che oggi ci consegna la traduzione del più diffuso fra i testi di Pletone, il Trattato delle virtù , e in cui più di 400 pagine sono dedicate a un saggio introduttivo che ha lo spessore intellettuale e critico oltreché la lunghezza di un’esemplare monografia.
Da Platone a Pletone, la filosofia platonica, per dieci secoli, aveva seguito un cammino carsico, ininterrotto ma spesso sotterraneo. Inizialmente cristianizzata, eppure quasi sempre coniugata a un sincretismo religioso intrinseco ai suoi princìpi e a un neopaganesimo filosofico condiviso anche dagli esponenti ecclesiastici delle più o meno eretiche o clandestine «eterìe» o «fratrie» che seguitarono a professarla anche dopo la sua eclissi dalla teologia ufficiale divenuta aristotelica, solo alla Scuola di Pletone sarebbe riemersa alla piena luce. E con la venuta del Gran Maestro e dei suoi discepoli in Italia per il concilio fiorentino del 1439 si sarebbe trasmessa agli intellettuali e ai politici riuniti in suo ascolto.
Fu un preciso passaggio di dottrine, uomini e testi, che da Bisanzio ormai prossima a cadere sotto il dominio turco vennero portati in salvo nell’Europa occidentale. Fu un deliberato passaggio di consegne, in nome del quale Cosimo de' Medici fondò l'accademia platonica. E quella filosofia diventò, come ha scritto Eugenio Garin, «l’ideologia della sovversione europea».
«E’ solo grazie a una combinazione di talento e fortuna che Marsilio Ficino - scrive Neri resta un nome che non si scorda, mentre quello di Giorgio Gemisto è ignoto ai più, così come Shakespeare è un’icona internazionale e Marlowe no». Di Pletone, come scrisse il suo grande estimatore e traduttore Giacomo Leopardi, «la fama tace al presente, non per altra causa se non che la celebrità degli uomini, come in effetti ogni cosa, dipende più da fortuna che da ragione, e nessuno può assicurarsi di acquistarla per merito, quantunque grande».
In realtà, non sono certo mancate le ragioni per dimenticare Gemisto, o per travisarlo, se non per diffamarlo, spiega Neri, il primo dopo Leopardi ad essersi misurato vittoriosamente con il suo greco splendido e impossibile, musicale e burrascoso, arcaico e futuribile, che ha dissuaso molti dal tradurre la sua opera omnia, di cui invece questo Trattato è il primo volume.
«Detestato da tutte le chiese costituite, finita sul rogo la sua opera più importante» — il libro delle Leggi, bruciato dal patriarca Gennadio poco dopo la sua morte —, «Pletone diede vita a entusiasmi come a odi non passeggeri tra le persone più eccellenti del Rinascimento», scrive Neri. «Fu uno dei primi geni del moderno, mosso da una curiosità quasi topografica per ogni ramo del sapere». Oltre che un teologo neopagano e un eretico, era un utopista che «aveva trovato nelle dottrine platoniche e neoplatoniche, nei mitici testi zoroastriani, orfici e pitagorici, il fondamento di un radicale programma di rinnovamento politico e religioso, di una rinascita della più antica sapienza che fosse l’inizio di un nuovo tempo dell’esperienza umana». Alla sapienza nascosta del cristianesimo non potevano non essere arrivati, riteneva Pletone, gli antichi saggi ellenici e orientali. Far rivivere i loro testi e riti avrebbe portato a una religione filosofica in cui le diversità dei culti e delle confessioni storiche sarebbero state irrilevanti per gli iniziati di un alto clero illuminato. In quel mondo nuovo, ogni devozione sarebbe stata ammessa e libera di prosperare.
Pletone affermava che tutto il mondo entro pochi anni avrebbe accolto una sola religione con un solo animo, una sola mente e una sola predicazione. «Cristiana o maomettana?», gli avevano chiesto. «Nessuna delle due - aveva risposto - ma simile a quella dei gentili. Solo quando Maometto e Cristo saranno dimenticati, la verità vera splenderà su tutte le terre del mondo». I filosofi musulmani amarono quanto gli umanisti italiani le sue opere e poco dopo la sua morte ciò che restava del libro delle Leggi fu tradotto in arabo.
«Trattato delle virtù»: l’opera di uno fra i primi geni del moderno, curioso di ogni ramo del sapere Stimato e tradotto da Leopardi, detestato da tutte le chiese, un utopista radicale, politico e religioso

Saturno Il Fatto 22.4.11
Il gesto dell’architetto Wittgenstein
di Marco Filoni

qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/04/22/il-gesto-dellarchitetto-wittgenstein/106435/

il Riformista 23.4.11
Silvio scrive al Papa
«Con gli immigrati l’Italia è generosa»
In Vaticano è arrivata una lettera dal premier, in cui si sottolinea l’impegno di Palazzo Chigi sul fronte migranti e si promettono a Benedetto XVI aiuti finanziari per il Primo maggio, giorno della beatificazione di Wojtyla. Ieri Ratzinger è stato ospite di una trasmissione tele- visiva (“A sua immagine”, su Rai1): è la prima volta per un pontefice
di Francesco Peloso

qui
http://www.scribd.com/doc/53670179