martedì 26 aprile 2011

Corriere della Sera 12.8.10
Platone è totalitario, va corretto
Popper ha ragione: filosofi e politici non possiedono la verità
di Dario Antiseri


Sebbene la caduta del Muro di Berlino abbia ormai sepolto, tra cose di gran lunga più importanti, anche gli insulti al Popper «critico di Marx», continua però a non placarsi, e di continuo riemerge, la disputa sul Popper «interprete di Platone» (si vedano, al riguardo, le riflessioni di Mario Vegetti sul «Corriere della Sera» del primo agosto e, sullo stesso giornale, la nota del 6 agosto a firma di Mario Andrea Rigoni).
Popper è esplicito nel considerare Platone il più grande di tutti i filosofi. Ma è altrettanto chiaro nel ritenere che grandi uomini possono commettere grandi errori. E il grande errore di Platone fu quello di offrire «argomenti seducenti e profondi a favore del perenne attacco contro la libertà e la ragione». Questa è la tesi sostenuta da Popper nel primo volume de La società aperta e i suoi nemici dedicato, appunto, a Platone totalitario. Il filosofo-re di Platone sa che cosa è il Bene e cosa è il Male ed è pertanto divorato dallo zelo di eliminare il Male e di imporre il Bene con ogni mezzo e a ogni costo — con la soppressione del libero pensiero, la difesa della menzogna, l’intrusione dell’autorità politica anche nei più remoti angoli della vita privata e, alla fine, con il ricorso alla violenza. In breve: «Il programma politico di Platone è un programma che, lungi dall’essere moralmente superiore al totalitarismo, è fondamentalmente identico ad esso». Il sapiente di Socrate è colui che sa di non sapere; il sapiente di Platone, invece, è colui che sa di sapere. Platone, insomma, tradì Socrate, fu il suo Giuda.
Già subito dopo la sua pubblicazione, il Platone totalitario di Popper fu fatto bersaglio di attacchi anche durissimi da parte di eminenti studiosi di filosofia. Sarà qui sufficiente ricordare l’Antisthenes redivivus di G. J. D. de Vries (1952); le 645 fittissime pagine del lavoro In Defence of Plato di R. B. Levinson (1957); o anche il libro Plato’s Modern Enemies and the Theory of Natural Law (1953) di J. Wild, la cui conclusione è che «la diffusa opinione secondo cui il pensiero platonico sia sostanzialmente un pensiero avverso a tutti i moderni ideali progressisti è il risultato di una tragica incomprensione».
Da noi, in Italia, se per Margherita Isnardi Parente «l’antidemocrazia della Repubblica è metapolitica e metempirica» e la concezione di Popper è «una deformazione modernizzante di Platone», per Giovanni Reale, se si pretende di leggere la Repubblica in funzione delle categorie delle moderne ideologie politiche, «si tradisce il significato più autentico del discorso politico di Platone, che non è soltanto ideologico, ma è soprattutto filosofia, metafisica e perfino escatologia dello Stato. Dunque la corretta prospettiva di lettura della Repubblica resta la seguente: Platone vuole conoscere e formare lo Stato perfetto per conoscere e per formare l’uomo perfetto».
Ora, però, dinanzi a siffatta conclusione, non può non sorgere una domanda che, con la più sincera stima e con ormai antica amicizia, rivolgo a Giovanni Reale: non ti pare che voler conoscere e formare lo «Stato perfetto» per conoscere e formare «l’uomo perfetto» costituisca il nucleo di quella presunzione fatale che è a base di ogni concezione totalitaria?
In ogni caso, fu nel 1983 che Gadamer, nel saggio Il pensiero di Platone nelle utopie, ha sostenuto che Popper non ha compreso Platone per la ragione che non si sarebbe reso conto del genere letterario — che è quello della «costruzione satirico-utopica» — in cui sono scritte sia la Repubblica sia le Leggi. Non è possibile comprendere Platone se non si capisce che il genere letterario dell’utopia, il «pensare nelle utopie», non equivale alla progettazione, in vista di una sua realizzazione, di un ideale Stato perfetto, ma è piuttosto una critica indiretta, una «allusione da lontano» allo stato di cose esistente. In altri termini, si fantastica degli Stati della Luna per criticare situazioni insoddisfacenti sulla Terra. Questa, dunque, la ragione principale per cui, ad avviso di Gadamer, l’interpretazione di Platone proposta da Popper sarebbe errata. Ma, in ogni caso, Gadamer è pronto a riconoscere — sempre ne Il pensiero di Platone nelle utopie — che «il contributo di Popper rientra in una grande tradizione che da Hobbes e Grozio attraverso il positivismo e Hegel e i filologi viennesi del livello di Theodor e Heinrich Gomperz (ma pure Toynbee rientra in questa linea) porta sino a Popper».
In realtà, nel Compendio di storia della filosofia greca, Eduard Zeller asserisce che «la costituzione dello Stato platonico è aristocratica, governo assoluto degli intendenti, dei filosofi, non limitato da alcuna legge». Da parte sua, Theodor Gomperz, nella monumentale opera Pensatori greci, fa notare che alla classe dei dominatori Platone accorda «una potenza senza limiti». E sarà Max Pohlenz a dire ne L’uomo greco che, «poiché i filosofi sono i soli a disporre anche del sapere necessario all’uomo di governo per assicurare a tutta la cittadinanza prosperità, pace ed eudaimonia, sarebbe assurdo limitarli nell’esercizio delle loro mansioni con un corpo di leggi». Interpretazioni analoghe a queste richiamate le ritroviamo in altri studiosi di Platone come G. Grote, R. H. Crosman e A. D. Winspear. E se Werner Fite ( Platonic Legend, 1939) ha condotto una interessante analisi sulla volontà di potenza che emerge dagli scritti di Platone, tale analisi trova sviluppi di sorprendente acutezza e durezza in tre saggi di Hans Kelsen: La giustizia platonica (1933); L’amore platonico (1933) e La verità platonica (1936). «La mistica di Platone — scrive Kelsen — costituisce la giustificazione della sua politica antidemocratica, l’ideologia di ogni autocrazia». Il filosofo-re «è il solo a conoscere la giustizia», ragion per cui «può e deve guidare i suoi sottoposti ed esigere da loro un’obbedienza incondizionata».
Tutto ciò semplicemente per ribadire che l’interpretazione popperiana di Platone si situa all’interno di una consolidata e rispettabilissima tradizione di storiografia filosofica. Certo, si tratta pur sempre di una interpretazione e, quindi, in quanto tale, falsificabile, contestabile, come ogni altra teoria scientifica. Ma viene da chiedere: è solo un puro caso che a Mosca, nella stele in cui vengono elencati i grandi pensatori comunisti, Platone figuri al primo posto? Ed è davvero irrilevante il fatto che influenti intellettuali nazisti come H. A. Grunsky, H. Guenther e Theodor von der Pfordten abbiano visto in Platone — e non, per esempio, in Locke, Hume o Kant — la sorgente delle loro nefaste idee sulla razza e sullo Stato onnipotente? E, da ultimo, una domanda a un altro mio vecchio amico, noto studioso di filosofia antica, Enrico Berti: è davvero priva di ogni fondamento, campata per aria, l’interpretazione che Marino Gentile, il tuo maestro, dette di Platone nel 1940 nel suo libro La politica di Platone?
 

l’Unità 26.4.11 
La memoria presente
di Concita Di Gregorio


Nella guerra di slogan e di manifesti, di fischi e di applausi che ha segnato, purtroppo, anche il 25 aprile due figure assumono ancora una volta il rilievo di simbolo per la nazione: per quelle parti dell’Italia e per quegli italiani scelgono di identificarsi nell’una o nell’altra. Silvio Berlusconi ha brillato per la consueta assenza (il discorso di Onna, due anni fa, era evidentemente un evento estemporaneo) dalle celebrazioni per la Festa della Liberazione. Si è fatto gli affari suoi, in privato, salvo poi letteralmente esplodere a sera con una nota di palazzo Chigi che annuncia la partecipazione italiana ai raid della Nato in Libia. Bisogna riconoscergli una capacità di adattamento non comune: dal “non disturbiamolo” al “bombardiamolo” in meno di due mesi. La Lega, a quanto pare, l’ha presa malissimo. Staremo a vedere.
Giorgio Napolitano, invece, era al lavoro dalla mattina. In pubblico. Nel giorno della Liberazione, il presidente ha chiamato alla responsabilità nazionale, ha chiesto di «non far prevalere il cieco e acceso scontro», poi ha declinato nell’attualità il significato della Resistenza: «Nonostante la distanza e la diversità dei periodi e degli eventi storici ritroviamo le forze migliori della nazione impegnate a perseguire gli stessi grandi obiettivi ideali: libertà, indipendenza, unità», ha detto.
La Resistenza è adesso, non solo memoria del passato ma disciplina nel presente. È quello di cui si diceva domenica a proposito dei giovani e dell’Associazione nazionale partigiani, della straordinaria prova che danno i ragazzi: una lezione a tutti noi.
Mi trovavo a Casole d’Elsa, ieri, un piccolo paese toscano. Il nuovo sindaco, della cui giunta fa parte un esponente di Casa Pound, ha annunciato alla popolazione che il 25 aprile si sarebbe festeggiato il 29. Ma come, hanno detto gli abitanti di Casole: il 25 è il 25, non si festeggia mica il Natale a Capodanno, ma che bischerata è? In ventiquattr’ore hanno deciso di fare lo stesso un piccolo corteo. Dalla piazza del paese alla stele ai caduti. Si sono passati parola di porta in porta, si sono convocati alle dieci e mezzo del mattino. Si era una trentina di persone, al principio: sei o sette ragazzi tra cui Alice, la giovane segretaria del Pd locale, un paio di ventenni, un vecchio partigiano, molte donne. Col megafono uno di loro ha cominciato a leggere gli articoli della Costituzione. Nessuno aveva pensato ai fiori da portare alla stele, così una delle donne è salita in casa e ha preso dal salotto la sua pianta di anturium fioriti.
Siamo partiti un’ora dopo, con le coccarde tricolori al petto. Alice ha detto: e se cantassimo Bella ciao? Qualcuno pianissimo ha cominciato a cantare, le finestre del paese si aprivano, qualcuno applaudiva, qualcun altro scendeva per unirsi al corteo. Lido, il vecchio partigiano, cantava più forte di tutti, e I ragazzini con lui. Poi ha cominciato a cantare le canzoni della Brigata Garibaldi, e si è fatto silenzio: nessuno sapeva quelle parole. Così siamo arrivati al monumento ai caduti e Lido ha cantato tutte le canzoni di quando andava in bicicletta al rifugio sulle colline metallifere, aveva 15 anni. Poi, commosso, ha chiesto: e adesso cantiamo tutti l’inno. Con l’Inno di Mameli si è conclusa la cerimonia: una cinquantina di persone di ogni età, a cantare insieme. I ragazzi lo hanno baciato, gli hanno detto ci rivediamo il primo maggio, Lido.
Ecco, è stata una cerimonia così. E siccome c’era il sole, le colline metallifere erano lì davanti, ciascuno raccontava un aneddoto e ricordava qualcuno abbiamo salutato anche due amici che ci hanno lasciati in questi giorni, Vezio Bagazzini e Mario Di Carlo. La lezione passata di bocca in bocca, di padre in figlio è stata tramandata anche da loro, e per questo grazie.

l’Unità 26.4.11
Bersani: «Berlusconi al Colle? Ho i brividi Ci pensi chi frena le alleanze larghe...»
Per Bersani a Milano molti applausi e qualche fischio dei centri sociali. Stretta di mano con Moratti. Il leader Pd difende la Carta da chi la vuole «picconare» e lancia l’allarme sull’ipotesi «da brividi» di Berlusconi al Quirinale.
di Simone Collini


Cravatta rossa e Toscano perennemente tra le labbra, Pier Luigi Bersani sfila per le vie di Milano e incassa molti applausi e qualche fischio da parte dei ragazzi dei centri sociali, poi sale sul palco in piazza Duomo per stringere la mano a Letizia Moratti ma solo dopo aver sottolineato he col voto di metà maggio si potrà contribuire a dare una svolta a questa città (il sindaco se la prende e definisce l’intervento «ingeneroso»). Il leader del Pd marcia tra le bandiere del suo partito, condanna l’assenza del premier, dice che questa è una «bellissima manifestazione che richiama i valori fondamentali della Costituzione» e insiste sui rischi di uno stravolgimento a colpi di maggioranza dell’architrave istituzionale: «La nostra Carta dice cose chiare, lavoro prima di tutto, uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, equilibrio dei poteri e disciplina nello svolgere le funzioni pubbliche. Se riprendiamo questi valori possiamo uscire insieme dai problemi che abbiamo, se continuiamo a picconare questi valori non riusciremo a fare un’Italia migliore».
Bersani dice che «ha ragione Napolitano» e assicura che per quanto riguarda la sua parte «nessuno vuole uno scontro cieco» (aggiunge anche che ieri non avrebbe fischiato La Russa, «ma due settimane fa in Parlamento sì»). Però il leader del Pd vede in pericolo i «pilastri fondamentali della Costituzione» e teme le manovre di Berlusconi e soci per il breve e per il lungo periodo. Ovvero: i tentativi della maggioranza di modificare la Carta e l’aspirazione del premier a scalare il Colle.
OBIETTIVO QUIRINALE
«Con questa legge elettorale ricorda mentre sfila per le vie di Milano basta un voto in più per la Camera per avere la possibilità di eleggere il presidente della Repubblica. E credo che chi sta apprezzando adesso un’opera come quella del presidente Napolitano potrà bene immaginare, credo con un brivido, come potrebbe essere diversa la situazione, con Berlusconi al Quirinale. Perché ormai è chiaro che perseguirà il massimo degli obiettivi, che il suo sogno è di una posizione di preminenza e non di equilibrio. Lo dico anche a chi ha un po’ di puzza sotto il naso quando parlo di alleanze larghe per la ricostruzione».
Sul fatto che col “porcellum” il rischio sia reale concordano tutti sul fronte opposizione. Se il leader dell’Idv Antonio Di Pietro dice che il premier «ambisce a tutti i posti che possono garantirgli immunità, se potesse anche il ruolo di Gesù Cristo», anche il vicepresidente di Fli Italo Bocchino paventa che Berlusconi possa «distruggerebbe la democrazia» andando al Colle e «scegliendo personalmente» premier e presidenti delle Camere «affidando questi ruoli a Schifani di turno». Come impedirlo? Dice Bersani, che pure lavora con gli altri partiti per una nuova legge elettorale, che «l’unico limite e il vero ostacolo tra Berlusconi e il Quirinale è il fallimento della sua politica».

il Riformista 26.4.11
Liberà e lavoro non si contraddicono
A proposito dell’articolo 1 della Costituzione
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/53925553

l’Unità 26.4.11
La pelle come una colpa
Italia leader per violenze contro gli immigrati
Rapporto dell’Enar sui maltrattamenti e discriminazioni a sfondo razziale: il nostro paese è 2 ̊ in Europa. I «mandanti» politici dell’ondata xenofoba
di Flore Murard-Yovanovitch


Secondo l’organizzazione non governativa European Network Against Racism (Enar), l’Italia nel 2009/10 è il secondo Paese d’Europa per il tasso di incidenza di maltrattamenti, aggressioni e violenze a sfondo razziale. Principali vittime, i cittadini di origine africana, i rom e sinti. L’“Enar Shadow Report”, presentato nei giorni scorsi al Parlamento europeo, si basa sui dati non ufficiali che vengono forniti da studi e ricerche realizzati da associazioni e Ong che si dedicano alla lotta contro le discriminazioni. Questo rapporto continua ad essere la maggiore fonte di informazione per descrivere la violenza razzista in Europa e colmare la scarsità dei dati per assenza di denunce, procedimenti giudiziari e condanne relative ad atti di discriminazione razziale: che non è prova di scarsa diffusione del razzismo, ma nasce anche dalla disinformazione delle vittime, dalla inconsapevolezza e difficoltà di accesso al sistema giudiziario.
Interessante notare che sul caso italiano, il rapporto dedichi pagine intere alla politica, sottolineando che il generale «clima anti-migranti» non è dissociabile dalla violenta «retorica xenofoba» delle massime cariche dello Stato, del potere della Lega nel Nord e della legge 94 che ha fatto della migrazione irregolare un «crimine», senza contare le altre norme che discriminano i migranti nell’accesso all’alloggio, servizi sanitari, ricongiungimento familiare e cittadinanza. Nell'Italia di Rosarno, cioè, le discriminazioni basate sull’appartenenza a un certo gruppo etnico, hanno in primis una matrice politica, quando non sono direttamente «motivate» dalla stessa legge. Secondo il rapporto, «il “pacchetto sicurezza” ha reso i sindaci leghisti del Nord maggiormente indipendenti nell'approvare provvedimenti locali discriminatori verso i migranti in tutti campi della vita sociale». Inoltre, le operazioni di controllo dell’immigrazione irregolare stanno diventando un terreno fertile per comportamenti discrezionali finanche abusivi da parte delle forze di polizia.
Definire persone «sospette», e quindi passabili di un controllo, in base alla loro razza, tecnicamente si chiama «ethnic/racial profiling». Anche se ancora poco studiati in Italia, secondo il rapporto speciale dell'Enar dedicato all'Ethnic profiling nel nostro Paese, i casi di discriminazione in operazioni di polizia, nel 2009-10 hanno raggiunto livelli molto gravi. Due i casi eclatanti che hanno avuto un'ampia eco nei media: il corpo speciale della polizia municipale di Milano che, dal settembre 2009, effettua controlli massicci solo per i non-italiani a bordo degli autobus, con chiusura dei senza-documenti in «bus-prigioni» con tanto di grate; l’operazione “Natale Bianco” di Coccaglio, con i suoi raid notturni in 400 case di stranieri allo scopo di verificare i loro permessi di soggiorno e, entro il 25 dicembre, di «ripulire la città» (parole del sindaco). Tuttavia, entrambi gli episodi sono solo la punta dell’iceberg di quotidiani abusi a sfondo razziale in operazioni di polizia. Per fare qualche altro esempio, nelle città del Nordest, in Lombardia e Veneto, vari sindaci hanno approvato una norma locale sui requisiti «igienico-sanitari», dedicata esclusivamente alle abitazioni degli stranieri. A Montecchio maggiore, la polizia municipale ha fatto irruzione in 20 abitazioni di migranti, al fine di snidare eventuali ospiti connazionali non dichiarati.
Ripetuti controlli di identificazione sono la realtà quotidiana per quelli dai «volti scuri», per strada e sui mezzi di trasporto. Vere e proprio retate sono avvenute sulla linea ferroviaria Pisa-Follonica, con blocco del treno e arresti selettivi dei soli venditori senegalesi. Operazione con uso sproporzionato della forza che, secondo l’Arci Toscana, oltre a maltrattare migranti, radica nella popolazione autoctona una loro immagine negativa. A Verona, ispezioni aggressive in kebab shops e call center sono state effettuate da tutti i corpi delle forze dell'ordine, più volte a settimana, causando danni economici ai proprietari. Al contrario, quando si tratta di intervenire in difesa o in favore di migranti, capita che la polizia retroceda. Nel 2009, l’associazione di migranti del Sudest asiatico “Dhuumcatu” di Roma ha denunciato i carabinieri che, nonostante fossero sul posto, non sono intervenuti per fermare l’aggressione a un bengalese, perché «clandestino»! Per non menzionare i trattamenti riservati ai cittadini di origine rom o sinti nei campi, soggetti a sgomberi forzati, distruzioni di proprietà, espulsioni illegali, violenze e pressioni psicologiche. Dal rapporto dell'Enar emerge che in tutti i luoghi della vita pubblica, i migranti sono soggetti a violenti controlli selettivi di identità, in violazione dei diritti della persona.
Quanto alla percezione negativa che i cittadini stranieri che vivono stabilmente in Italia hanno dei trattamenti subiti dai tutori della legge, il sondaggio dell’Eu Midis (European Union Minorities and Discrimination Survey) rivela che siamo ai primi posti in Europa. Per il 67% degli albanesi, il 45% dei rumeni e il 55% dei nordafricani, l’ultima volta che sono stati fermati dalla polizia era a causa della loro etnia. Ma, per queste vittime, cercare giustizia per gli abusi delle autorità può rivelarsi impresa ardua: per inconsapevolezza, difficoltà di accesso al sistema giudiziario, per paura di rappresaglie; inoltre in un contesto dove la violazione del codice di condotta da parte delle forze dell’ordine, anche nel caso di cittadini italiani, viene spesso insabbiata e raramente punita. L’Italia, malgrado i numerosi richiami internazionali, è l’unico Paese dove non si registrano prese di posizione politiche e tantomeno legislative volte a inserire questi episodi di ethnic profiling all’interno di un quadro normativo in grado di punirli.

Repubblica Lettere 26.4.11
Cacciare i rom crudele e illegale
di Margherita Hack


È un'infamia oltre che un reato contro le persone quello che il sindaco di Roma sta perpetrando contro i rom. Come si può buttare in mezzo alla strada intere famiglie, con bambini piccoli e donne incinta, senza offrire un'alternativa? Come si può impedire ai genitori di ricongiungersi con i bambini? Cittadini comunitari colpevoli di nessun reato. E perché la capitale della quinta potenza industriale non è stata capace di provvedere quei pochi campi attrezzati dove i rom avrebbero potuto vivere in pace prima di bruciargli le loro povere cose? Cosa dice Giovanardi che accusa l'Ikea di andare contro la costituzione perché in favore di ogni tipo di famiglia? Non sa che la cosa più importante fra due persone è l'affetto reciproco e la solidarietà? Queste cose succedono in un paese che si dice cristiano.


Repubblica 26.4.11
L’invasione dell’ultradestra
Ungheria laboratorio dell’ultradestra europea
Ungheria, primavera del 2011, ecco il laboratorio delle nuove destre nazionali. Il nuovo vento della stanchezza d´Europa, la voglia d´identità etnica e tolleranza zero


«Tuo papà non è come si deve, non è un buon patriota», dicono le maestre alle figlie piccole dei veterani del dissenso anticomunista, intellettuali critici anche oggi. Oppure le trattano male, le isolano dagli altri bimbi come fossero intoccabili o paria. Le e-mail private di quei padri escono, fornite da chi sa quale gola profonda dei servizi, su quotidiani governativi, se serve per comprometterli. Quasi tutti i direttori di teatri e musei sono stati licenziati, le università si preparano ad avere un terzo di studenti e insegnanti in meno. Ungheria, primavera del 2011, ecco il laboratorio delle nuove destre nazionali europee. Il nuovo vento della stanchezza d´Europa, la voglia montante d´identità etnica e tolleranza zero, "il tea party in versione europea", come lo chiama il decano degli scrittori magiari Gyorgy Konrad, qui è già realizzato.
Tentiamo allora da qui il viaggio nel "brave new world" del nazionalpopulismo, il nuovo spettro che si aggira per l´Europa.
La svolta brutale non la vedi subito, nella bella capitale inondata dal sole di primavera: splendono di luce i palazzi asburgici, coppiette e famiglie affollano gli shopping malls o si godono il weekend di Pasqua, nelle strade il traffico è caotico e rumoroso quasi come a Roma. Devi scavare, ascoltare racconti sussurrati. Scopri il quotidiano di Gaspar Miklos Tamas, docente invitato spesso nel Regno Unito e negli States, intellettuale di prestigio reduce da anni di persecuzione sotto il vecchio regime: taglio a ogni fondo accademico e alle retribuzioni, e in strada insulti e minacce di giovani radicali: «Heil Hitler, pidocchio, sputi sulla patria». O apprendi che Agnès Heller, l´epigona di Gyorgy Lukacs, emarginata all´università, vive ormai chiusa in casa sotto shock: «Volevo solo continuare ricerca in Filosofia», singhiozza. Spreco, secondo il governo. Ecco il volto del paese presidente di turno dell´Unione europea, mentre a Helsinki i "Veri finlandesi" volano attorno al 20 per cento dei consensi dicendo no al salvataggio alla Grecia, ma anche «è troppo dire che gli immigrati siano un pericolo, ma certo sono un costo». Mentre nella Stoccolma di cui Olof Palme fece il tempio del Welfare e dell´economia efficiente e solidale, gli "Sveriges Demokraterna" cavalcano la stanchezza per i troppi musulmani. O mentre Marine Le Pen tallona Sarkozy nei sondaggi, e quasi appare possibile che un partito nostalgico di Vichy conquisti l´Eliseo e la valigetta per il comando delle 300 bombe atomiche.
Il nazionalpopulismo non è una tendenza passeggera, va preso sul serio, avverte alla Fondazione Robert Schuman Pascal Perrineau, docente a Sciences Po. «È una sfida colossale contro i governi, di destra moderata o di sinistra moderata che siano, li chiama a trovare risposte credibili ai problemi dell´identità nazionale e dell´immigrazione». L´intransigenza, come rifugio a caccia d´identità nazionale che senti perduta, si fa strada. Insieme, continua Perrineau, al rifiuto delle élites politiche nazionali e dell´eurocrazia di Bruxelles.
«Non sono ancora maggioranza, ma sono un fenomeno forte, i problemi etnici troppo a lungo sottovalutati esplodono in mano ai partiti storici», nota triste Gyorgy Konrad. Il potere conquistato col voto sovrano va gestito senza remore: da quando Viktor Orban è premier qui a Budapest, i notiziari tv dedicano il 91 per cento dello spazio al governo. La temuta Nmhh, l´autorità di controllo dei media creata dalla legge-bavaglio, vigila orwelliana. Ma non ha censurato Jobbik, il partito d´opposizione addirittura a destra del governo, che ha ricreato come milizia privata l´antica Csendorség, la gendarmeria del dittatore Horthy (1919-1944) che fu esecutore zelante dell´antisemitismo fin dagli anni Venti e complice con efficienza manageriale della Gestapo. Né la tv di Jobbik che ha celebrato il compleanno di Hitler, «grande figura positiva, artefice di rinascita economica, morale e culturale».
Budapest è il nazionalpopulismo reale, ma il trend s´impone, articolato e intelligente. A Vienna, città rossa storica, la Fpoe cioè la nuova destra radicale di Heinz Christian Strache, è al 28 per cento. Ci dice Strache: «I successi dei nuovi partiti patriottici, democratici ed euroscettici è causato dal fiasco dell´establishment. La gente vede che il centralismo della Ue e l´errore di costruzione basilare dell´unione monetaria sono assolutamente negativi». I problemi sono diversi da paese a paese, nota Strache: no all´aiuto agli Stati-bancarotta del sud tipo Grecia in Finlandia, deficit di democrazia nelle strutture della Ue per tutti, o in Austria come altrove «angoscia per l´immigrazione di massa»". Da Vienna viene anche l´idea di un´alleanza europea: «I problemi dell´Italia con la marea di migranti», continua Strache, «sottolineano quanto sia necessaria la cooperazione europea dei conservatori. Se democratici di destra fossero nei governi, concorderemmo un´azione comune, non lasceremmo l´Italia sola».
I rom in Ungheria o altrove nella "nuova Europa", i migranti musulmani all´Ovest. E sulla testa di tutti, una Ue sempre più verticistica e lontana dagli umori dei cittadini d´Europa. Ecco il background del nuovo vento di destra. «La gente vuole riprendersi la democrazia, contro una Ue che impone al contribuente di pagare per Grecia e Portogallo, posso capirlo, in Germania il partito più grande sono i non votanti», ammonisce il professor Michael Stuermer, ex consigliere di Kohl, storico e intellettuale-chiave del centrodestra democratico tedesco. «Purtroppo il sogno di Kohl, che l´unione monetaria portasse tutti più vicini, non si è avverato. Questi partiti sono ormai Volksbewegungen, movimenti di massa, la paura del futuro è reale, più di quanto i partiti storici non abbiano capito». E aggiunge: «Lo stesso Otmar Issing (l´ideologo della Bundesbank da decenni, ndr ) dice che l´Unione monetaria è stato un errore strutturale. Eccoci a pagarne le conseguenze. Le sinistre storiche, ma anche i conservatori, non sanno più esprimere questi nuovi malcontenti». E di verticismo di Bruxelles ed errore costruttivo dell´euro parlano ormai, rispettivamente, anche Hans Magnus Enzensberger e Juergen Habermas, i massimi maitre-à-penser liberal tedeschi.
Da destra a sinistra, se tenti un viaggio tra i partiti storici che finora hanno incarnato i valori europei, la doccia fredda scuote tutti. «Temo che queste nuove paure e spinte nazionaliste disintegrino l´Europa», avverte Peter Schneider, scrittore e intellettuale socialdemocratico tedesco. Continua: «La difficile integrazione dei musulmani è un problema sottovalutato. Nessuno lo dice ma le donne europee hanno un ruolo importante nel nuovo trend: rigettano l´idea della donna relegata tipica di parte della cultura islamica». E poco importa che dell´Europa unita tutti, a cominciare dalle economie più forti come la Germania, abbiano da guadagnare: «Non ci sono più politici e statisti di grosso calibro, capaci di spiegarlo alla gente. Angela Merkel non è Helmut Kohl».
Dalla Padania alla Svezia, dalla Finlandia all´Ungheria, passando per la Francia del nuovo Front national, la nuova destra vola ovunque. O quasi. La grande eccezione è la Germania. «Da noi pesano ancora memoria e coscienza del passato», nota Giovanni di Lorenzo, direttore di Die Zeit. Ma avverte: «Problemi reali come l´integrazione spesso difficile dei migranti sono stati sottovalutati e taciuti, dalle sinistre e destre democratiche, che non sanno più rappresentare nuovi malcontenti». Il prezzo è «l´imbarbarimento del dibattito politico in Europa». La Germania resiste al trend, insieme a Regno Unito e Polonia, ma il trend avanza. Qui a Budapest la nuova Costituzione, votata dal Parlamento la scorsa settimana e firmata ieri dal presidente ungherese Pal Schmitt, ha già cancellato l´autonomia di magistratura e media. E il potere di Viktor Orban si accanisce nei minimi dettagli: dal teatro al cinema, dove ormai vengono aiutate solo operette e soap, all´aeroporto ribattezzato in omaggio al grande compositore Ferenc Liszt. La commissione di storici che chiedeva sommessa di conservargli il vecchio nome geografico, Férihegy, è stata licenziata in tronco, guai a discutere della Patria.
(ha collaborato Gaspar Miklos Tamas)

Repubblica 26.4.11
La preoccupazione della scrittrice Sofi Oksanen: "Il governo è a rischio"
"La mia povera Finlandia nelle mani degli xenofobi"
di Anais Ginori


«La Finlandia ha una granitica fede nella libertà di espressione. Come artista, sono molto stupita che, nel 2011, mezzo milione di miei connazionali abbia votato per un partito che si ispira a Hitler». Sofi Oksanen, 34 anni, è tra gli scrittori più apprezzati del suo paese. Racconta storie disturbanti, che rievocano le ombre di un passato mai del tutto archiviato. Il romanzo al femminile La purga, tradotto in decine di paesi e pubblicato l´anno scorso da Guanda, ha vinto numerosi premi, nel 2010 quello assegnato dall´Ue al "miglior scrittore europeo", in coabitazione con Roberto Saviano.
È stata una delle prime intellettuali a scagliarsi contro l´onda nera che dal continente è arrivata fino a Helsinki, con la vittoria del partito di estrema destra e xenofobo "Veri Finlandesi" alle elezioni del 17 aprile. L´ascesa del razzismo in Finlandia era uno dei temi del suo primo romanzo, Stalin´s cows, le mucche di Stalin, non ancora tradotto in Italia.
«Quando è stato pubblicato - ricorda Oksanen - molti lettori erano sorpresi di vedere descritto il loro paese come xenofobo. Ora diventa tutto più chiaro».
La sorpresa non è solo dei suoi lettori. In Europa prevale ancora l´immagine della Finlandia come un paese tollerante e attaccato alla solidarietà sociale. Cos´è successo?
«Sono nata in Finlandia, la mia madrelingua e il mio passaporto sono finlandesi, ho fatto tutte le scuole in questo paese. Mio nonno e i suoi fratelli hanno combattuto la guerra come tutti gli altri finlandesi. Eppure mia madre è estone. Questo è sufficiente per non essere considerata una "vera finlandese". Per avere riconosciuta la piena nazionalità, bisogna avere il sangue al cento per cento finlandese».
Sta dicendo che una certa cultura xenofoba esisteva da tempo?
«Tra Helsinki, la capitale, e il resto del paese ci sono due mondi a parte. Credo che Helsinki rimanga ancora oggi tollerante, liberale, sicura. Il partito dei Veri Finlandesi è molto meno popolare nella capitale: solo il 10% degli elettori lo ha votato, la metà che nel resto della Finlandia. Come tanti, io ho dato la preferenza ai Verdi, che a Helsinki hanno avuto grande successo e si possono definire un partito urbano, cosa che non sono i Veri Finlandesi».
Eppure questa formazione di estrema destra è diventata l´ago della bilancia per la formazione di un nuovo governo.
«Sono stati bravi a muoversi sul territorio. Il loro successo si è costruito negli anni, non è stato un colpo di scena. I militanti avevano l´abitudine di piantare "tende del caffè" anche nei posti più sperduti della Finlandia. Inoltre, le forze politiche tradizionali hanno perso la faccia a causa di casi di corruzione sul finanziamento della campagna elettorale».
Quanto ha contato il tema dell´immigrazione?
«Abbiamo molti meno immigrati di gran parte dei paesi europei. Da noi non è mai stato un problema. Mi sembra poi strano che nessuno si ricordi che, qualche decennio fa, mezzo milione di finlandesi ha dovuto immigrare in Svezia».
Il leader dei Veri Finlandesi, Timo Soini, è un uomo politico molto popolare?
«E´ un buon oratore, gira sempre con una cravatta blu e bianca con la bandiera nazionale. Ha esperienza nel suo campo, non c´è che dire».
E il suo programma?
«Ha fatto un sacco di promesse che non potrà mantenere. Nel campo dell´arte ha delle idee chiaramente ispirate a Hitler. Non posso credere che andrà avanti. Almeno lo spero».
Questo partito xenofobo assomiglia agli altri che ci sono nel resto d´Europa?
«Seguo da vicino quello che succede nei paesi dell´Est. Ovunque, l´estrema destra guadagna consensi. Anche i partiti razzisti prendono voti, così come quelli antisemiti. I Veri Finlandesi riuniscono tutte queste caratteristiche, fanno parte di una tendenza europea».
Intanto la Finlandia si allontana così dall´Ue. Come finirà la discussione sul salvataggio del Portogallo?
«Credo che questo risultato vada inserito nella lunga crisi iniziata nel nostro paese con la depressione economica degli anni Novanta. Non ci siamo mai ripresi. Avevamo già avuto un altro partito populista in passato, l´Smp, che non è durato molto. Sul Portogallo è impossibile fare una previsione. Il nostro primo ministro ancora in carica non vuole prendersi la responsabilità di scegliere. La posizione ufficiale della Finlandia si deciderà non prima di metà maggio, quando sicuramente non avremo un nuovo governo, se mai sarà possibile averne uno. Con questo risultato elettorale rischiamo di dover aspettare a lungo».

l’Unità 26.4.11
Testamento biologico
I furbetti delle parole: giocare con i termini per negare nuovi diritti
Eterologo, infertilità, embrione: sono tante le espressioni scientifiche usate a sproposito nella discussione bioetica. Così come idratare un morente non equivale a somministrare acqua e cibo. Ora che si torna a parlare di biotestamento prepariamoci ad altri strafalcioni. Voluti
di Carlo Flamigni


C’è chi afferma (scherzando?) che la bioetica, con le mosche e i professori universitari, è una prova indiretta dell’inesistenza di Dio, un ente supremo che non potrebbe perdere il suo tempo nella creazione di cose, persone ed enti inutili. La cosa non mi convince per niente: in realtà la bioetica (che è, tra le altre cose, un contenitore dei diritti e delle libertà dei cittadini) è utilissima a chi vuole legiferare, almeno nel nostro Paese, tenendo conto unicamente della visione etica del mondo che ci viene ammannita dalla Chiesa Cattolica, in spregio alla laicità dello Stato e ad altre simili sciocchezze. Come i nostri parlamentari la maggior parte dei quali non crede nemmeno nel radicchio vengano ripagati per questo vergognoso comportamento lo sappiamo tutti, la sopravvivenza della Chiesa cattolica nel nostro Paese è almeno in parte legata alla possibilità di gestire un notevole numero di voti e di poter garantire cose di non poco conto come la supremazia e il potere politico. Deve trattarsi di un patto realmente scellerato, visto il supporto che eminenti esponenti vaticani hanno recentemente fornito alle case di tolleranza private. Per poter garantire questo contributo la Bioetica ha dovuto piegarsi a qualche disonesto compromesso ed è stata così brava che nessuno se ne è accorto.
Prima di tutto ha scelto di essere “normativa”, tradendo così la sua fondamentale natura, che è quella di essere “descrittiva”. Pensate per un momento (di più non è conveniente) al Comitato Nazionale di Bioetica e ai suoi documenti: secondo logica e buon senso dovrebbe esaminare i problemi etici proposti dalla ricerca scientifica in campo biologico e dalla medicina per chiarirli a tutti (cittadini e parlamentari) e per consentire alla politica di proporre mediazioni rispettose di tutte le posizioni morali compatibili con i principi e i diritti di un Paese laico e democratico, come fanno tutti i Paesi civili; invece si esprime a maggioranza (sempre, rigorosamente cattolica) e toglie le castagne dal fuoco ai nostri legislatori indicando a tutti, come unica soluzione dei problemi, la via più gradita oltre Tevere. Naturalmente deve ricorrere, per poter mentire senza essere contraddetta, ad una sorta di antilingua, che si sovrappone alla terminologia medica e scientifica e la sostituisce, un’operazione che mi sembra opportuno spiegare.
Biologia e medicina, almeno per gran parte delle loro attività e conoscenze, sono discipline empiriche, non hanno niente a che fare con le cosiddette “verità scientifiche”. La medicina, dal canto suo, vive soprattutto di consensi, cioè dei pareri formulati dai suoi esperti, ai quali è affidata anche la facoltà di formulare le definizioni. I consensi sono verità parziali e temporanee, spesso destinate ad essere sostituite in tempi brevi, ma finche esistono sono la nostra unica verità, chi non l’accetta sceglie di vivere in un mondo strampalato e vagamente disonesto. Solo alcuni esempi, per chiarire meglio questo concetto.
Eterologo in biologia significa «frutto della relazione tra soggetti di due specie diverse».
Se io avessi un rapporto imprudente con una ornitorinca, il termine sarebbe appropriato; applicato a donazioni tra soggetti appartenenti alla stessa specie, no. Perché forzare il significato del termine? Semplice, per sovrapporre al concetto di donazione di gameti un elemento bestiale; poi, l’esemplare ignoranza dei nostri parlamentari fa il resto.
Ancora: Infertilità non significa sterilità ma incapacità di produrre una progenie sana e capace di sopravvivere. La parola è stata artatamente inserita nella legge 40 per creare confusione. La gravidanza inizia quando è terminato l’impianto dell’embrione (definizione dell’Oms). Il termine embrione non significa niente, va precisato, altrimenti non si capisce se il riferimento riguarda oociti attivati o penetrati, ootidi, zigoti, morule, blastocisti, gastrule e così via. La pillola del giorno dopo non è “abortigena”, lo sappiamo con certezza da almeno due anni, cioè da quando il Karolinska Institutet di Stoccolma ha dimostrato, con una sperimentazione diretta, che il levonorgestrel non impedisce gli impianti in utero. Ne consegue che non c’è più spazio per futili argomentazioni per giustificare il “principio di precauzione”, ma malgrado ciò i farmacisti chiedono di poter fare obiezione di coscienza, e presto la stessa richiesta verrà dagli ortolani, che sono costretti a vendere il prezzemolo (da cui si ottiene l’apiolo, questo veramente abortigeno).
Ma, mi chiederete, non accade mai che differenti gruppi di studiosi, che magari si sono riuniti ad insaputa gli uni degli altri, abbiano partorito “consensi” contrastanti tra loro? Ebbene sì, anche se molto raramente: ma in questi casi le differenze vengono messe a confronto e analizzate e non si usa più il termine consenso fino a che il problema è stato chiarito. E comunque, alla resa dei conti, il parere che conta è sempre quello dell’Autorità di grado più elevato che è stata chiamata in causa, quasi sempre l’Oms, altrettanto spesso le Società scientifiche competenti.
E veniamo ai problemi della fine della vita e del testamento biologico,oggi particolarmente importanti per via della vergognosa proposta di legge che il Parlamento intende approvare in tempi brevi. Sappiamo tutti che la nostra Costituzione ci consente di rifiutare le cure e che questo rifiuto non può essere disatteso. Cosa si inventa allora il Magistero cattolico per scipparci anche questo diritto? Sceglie una nuova e personale definizione e dichiara che il cosiddetto sostentamento ordinario di base, la nutrizione e l’alimentazione artificiali, non rappresentano né un atto medico né un possibile accanimento terapeutico, e che interromperle configura, da un punto di vista umano e simbolico, un crudele atto di abbandono del malato, illecito sia moralmente che giuridicamente. È chiaro che se accettassimo questa “originale” definizione, l’alimentazione artificiale non potrebbe far parte delle “cure” che la Costituzione ci consente di rifiutare e dovremmo accettare la possibilità che qualche tipo di “sollecitudine affettuosa” venisse ad inquinare la nostra povera dignità di morenti.
Poiché non sono mai stato molto impressionato dalla competenza scientifica dei teologi (non molto superiore a quella dei parlamentari) sono andato a cercare la definizione che ha dato, del “sostentamento ordinario” la Società italiana di nutrizione artificiale. Eccola: «La miscela nutrizionale è da ritenere un preparato farmaceutico che deve essere richiesto con una ricetta medica e deve essere considerato una preparazione galenica magistrale... Si tratta comunque di un trattamento medico a tutti gli effetti che prevede il consenso informato del malato o del suo rappresentante e che deve essere considerato un trattamento sostitutivo vicariante». Potete andare tranquillamente a cercare nei documenti delle Società scientifiche degli altri Paesi europei, la definizione è sempre la stessa. Non si tratta dunque di “cibo e acqua”, come scrivono i bioeticisti cattolici e idratare un morente non equivale a «procurare acqua e cibo alle persone che non sono in grado di procurarselo in modo autonomo». Questo linguaggio così evocativo e emotivamente coinvolgente del quale molti documenti cattolici sono intessuti è finalizzato a sostenere la tesi del forte significato umano, simbolico e sociale di sollecitudine per l’altro rivestito dalla somministrazione artificiale di “pane e acqua”. Mi dicono che si tratta di concezioni etiche che sono divenute parte della coscienza giuridica complessiva, capisaldi pregiuridici che non possono essere ignorati dal legislatore laico. A mio avviso è un tentativo di giustificare l’ennesima scelta di uno stato “laico” di privilegiare principi sostenuti da una specifica fede religiosa. Insomma, mentre io mi batto per il “diritto di avere diritti”, c’è chi si impegna perché su questo diritto io non possa contare, nemmeno in punto di morte.

l’Unità 26.4.11
Il loro progetto: trasformare il ddl in clava elettorale
di Maria Antonietta Farina Coscioni


È questione più di ore, che di giorni. La legge sul fine vita, che sostanzialmente nega la possibilità di esprimersi con un testamento biologico, già approvata dal Senato, sarà usata dal centrodestra come una clava in campagna elettorale: nella speranza di acquisire il sostegno, sempre più flebile, della comunità dei credenti cattolici e della gerarchia vaticana. I prodromi già si sono manifestati: il devoto ministro del Lavoro Sacconi auspica «il più tempestivo esame del Ddl Calabrò»; e con lui la non meno devota sottosegretaria Roccella e vari esponenti della maggioranza.
Qualche giorno fa la richiesta del centrodestra di calendarizzare immediatamente per l’Aula la legge sulle dichiarazioni anticipata di trattamento è stata respinta, ma solo per il ritardo con il quale a Montecitorio è stata licenziata la legge sulla prescrizione breve, dopo tre settimane di serrato ostruzionismo dell’opposizione. Entro il 30 aprile dovrà essere approvato il Documento economico-finanziario e ai primi di maggio sarà la volta del testamento biologico.
È evidente che lo vogliono esibire prima del voto; e in ciò si registra significativa convergenza tra maggioranza di centrodestra e Udc: il partito di Casini ha già fatto sapere che chiederà l’inversione dell’ordine del giorno e sarà spalleggiato da PdL e Lega.
Vogliono arrivare all’approvazione del Ddl Calabrò prima che si sviluppi nel Paese un dibattito e una riflessione su una legge che se fosse conosciuta dalla pubblica opinione nei suoi termini e nelle sue pratiche conseguenze, inevitabilmente provocherebbe una massiccia reazione di rivolta. Come ha detto Benedetto Della Vedova, che ha lanciato l’allarme a nome del Fli: «Vogliono fare campagna elettorale sulla pelle dei malati e delle famiglie».
Il Ddl Calabrò, se sarà approvato, sarà la pietra tombale della libertà e dell’autodeterminazione del cittadino. Occorre fare di tutto per rallentare l’iter legislativo e far crescere la resistenza nel Paese. Per questo chiedo alle compagne e ai compagni del Pd: si può rinunciare a sostenere, come già si è fatto al Senato, l’incostituzionalità della legge che ci vogliono imporre? Possiamo rinunciare a utilizzare tutte le pieghe che il regolamento della Camera ci consente, come si è fatto per la “prescrizione breve”? Grazie alle “invenzioni” di Roberto Giachetti e alla tenacia degli altri parlamentari di opposizione abbiamo guadagnato preziosi spazi informativi, perfino la televisione di Stato, obtorto collo, è stata costretta a darne conto, sia pure in modo molto parziale. Io credo che sia una lotta necessaria, opportuna, urgente.

Repubblica 26.4.11
Chi mette le bandiere sul testamento biologico
di Michela Marzano


CI SONO dei temi che nessuno dovrebbe poter strumentalizzare. Eppure succede. Fin troppo spesso. Come se, in Italia, tutto fosse lecito. Soprattutto in periodo elettorale. Anche quando sono direttamente in gioco la sofferenza, la fine della vita, il senso della morte, come nel caso del disegno di legge sul testamento biologico. Perché morire è una della caratteristiche della condizione umana.
La vita è mortale proprio "perché" è la vita, come scriveva il filosofo Hans Jonas. Ma ognuno di noi dovrebbe poter essere riconosciuto come soggetto della propria vita fino alla fine, anche in punto di morte. Si può allora anche soltanto osare utilizzare il tema della fine della vita a scopi politici? Si può pensare di imporre, a chi ha chiaramente espresso la volontà di interrompere inutili terapie, l´alimentazione e l´idratazione forzata? Di cosa si parla quando si sventola la bandiera del "valore inalienabile della vita"?
La frattura tipicamente italiana tra coloro che assimilano l´interruzione dell´accanimento terapeutico all´omicidio e coloro che difendono l´esistenza di un diritto di morire si riapre in un clima teso, che non solo lascia poco spazio alla riflessione etica, ma che impedisce soprattutto di porre in modo corretto le questioni fondamentali che riguardano la vita e la morte di ognuno di noi. Si decide di discutere in Aula di un progetto - uno tra i tanti - senza fare lo sforzo capire cosa possa voler dire rispettare la dignità della persona quando la morte si avvicina. Ci si dilania invocando norme e valori universali senza interrogarsi su come una persona malata possa "riappropriarsi" della propria morte. Si utilizza in modo superficiale il termine "eutanasia" senza fare alcuna distinzione tra il lasciar morire e il far morire. Si dà per scontato che il medico sappia meglio di chiunque altro ciò che si deve o non si deve fare. E nel frattempo, ci si dimentica che il dramma della fine della vita ci riguarda tutti. Perché tutti, un giorno o l´altro, ci ritroveremo lì, sentendoci impotenti di fronte alle decisioni che altri vorranno prendere al nostro posto… cercando disperatamente di essere rispettati almeno un´ultima volta… soprattutto quando non c´è più niente da fare…
Uno dei tanti problemi italiani risiede nell´incapacità di affrontare alcune questioni etiche fondamentali con pacatezza e rigore. Facendo i distinguo necessari. Analizzando la complessità delle situazioni. Chiarendo una buona volta per tutte che l´interruzione dell´alimentazione e dell´idratazione forzate non c´entra niente con il far morire di fame o di sete qualcuno. Che esiste una differenza di natura morale tra la somministrazione diretta di sostanze letali - che provocano quindi automaticamente il decesso - e l´interruzione di terapie inutili che, mettendo fine all´accanimento terapeutico, possono poi anche avere un "doppio effetto" e provocare la morte del paziente. Ma in Italia si preferisce semplificare e banalizzare i problemi. Scegliere la via della facilità ideologica opponendo "dignità" e "libertà". Riempirsi la bocca di parole che suonano bene, che ci fanno sentire in pace con la nostra coscienza, che ci trasformano in paladini del valore della vita o dell´inalienabilità dell´autodeterminazione senza interrogarsi sul "senso" di quella vita, quel dolore, quella fine… Nei Fratelli Karamazov, Dostoevskij scriveva: "Ama la vita più del senso, e anche il senso troverai". Ma quando niente è più possibile, quando si sopravvive solo perché attaccati ad un respiratore, nutriti con una sonda gastrica e trascinati come se non si fosse altro che una macchina biologica, che senso può ancora avere il concetto di dignità? Quando si è esplicitamente chiesto che in quelle condizione si desidera essere lasciati tranquilli, partire, andarsene, in nome di cosa qualcun altro può opporsi?
In Francia, la legge del 22 aprile 2005 affronta direttamente queste questioni spinose e rappresenta un modello cui potrebbero ispirarsi gli italiani. Anche semplicemente perché questa legge è il frutto di un dibattito etico portato avanti per anni, in cui il tema della fine della vita è stato sviscerato con spirito critico, fino ad arrivare ad una soluzione equilibrata e giusta. In primo luogo, la legge ribadisce la necessità di rispettare l´autonomia personale di ogni paziente: si tratta di prendere in considerazione la volontà del malato, espressa direttamente o per mezzo di un testamento biologico, senza che, per questo, il medico rifiuti di assumere le responsabilità legate al proprio ruolo. Abbandonando il tradizionale paternalismo, la Francia accetta l´idea che ogni persona abbia il diritto di esprimere il proprio punto di vista e che il medico non debba imporre a nessuno la propria concezione della morale. E non è tutto. Dopo aver riconosciuto l´importanza del "consenso" del malato, il legislatore francese prende posizione anche rispetto all´accanimento terapeutico, e afferma la necessità, per il medico, di non lasciarsi prendere la mano "dall´ostinazione irragionevole": le cure possono essere interrotte o mai intraprese se il loro unico fine è quello di mantenere artificialmente in vita un malato. Infine, l´art. 2 permette al medico, sempre in accordo col malato e la famiglia, di somministrare forti dosi di analgesico per lenire la sofferenza, anche se la somministrazione "può avere come effetto secondario il fatto di accorciarne la vita". Senza domandare ai medici di intervenire direttamente per far morire il paziente, la legge francese rispetta il diritto di ogni persona di morire in modo degno. Invece di proclamare in modo astratto il valore inalienabile della vita, cerca di prendere in considerazione la specificità individuale di ogni malato.
Uno dei motivi per cui il dibattito italiano non riesce ad avanzare è la difficoltà che hanno i nostri politici, ma anche molti intellettuali, a mettere da parte le proprie credenze e le proprie prese di posizione ideologiche, per uscire dalle opposizioni di principio sterili e pericolose. Il problema non è tanto quello di opporre tra loro libertà assoluta e dignità intrinseca della vita. In entrambi i casi, si parla di qualcosa che non esiste o non ha senso. La libertà personale non è mai assoluta: la mia libertà non è solo limitata dalla libertà degli altri, ma è anche e soprattutto condizionata dai limiti della realtà, dal caso, dalle condizioni socio-economiche, dalla storia individuale di ognuno che interferisce sempre (nel bene e nel male) con le scelte che si possono fare. E un discorso analogo deve essere fatto nel caso della dignità: che valore si attribuisce realmente alla vita quando non si presta più alcuna importanza alla soggettività e quando, nel nome della dignità, si nega ogni valore alle scelte e alle decisioni individuali, ossia a tutto quello che dà senso alla vita e che ci protegge da ciò che Freud chiamava "la morte psichica"?

l’Unità 26.4.11
Nel testo dello storico Sergio Luzzatto l’accusa contro il governo
Si parte dalla Costituzione per ribadire la libertà di culto così violata
Via il crocifisso di stato per rispettare tutti i culti religiosi senza simboli al muro
«Il crocifisso di Stato» dello storico Sergio Luzzatto edito per «Le vele» Einaudi. Alla base del rispetto di tutte le religioni c’è la Costituzione ma nell’Italia berlusconiana si riesce a far sovvertire la giurisprudenza
di Nicola Tranfaglia


Ci voleva proprio un saggio su Il crocifisso di Stato come quello che ha pubblicato adesso Sergio Luzzatto (pp.120, dieci euro) , in una piccola collana einaudiana, Le vele, che ha già ospitato due titoli notevoli, Salviamo l’Italia di Paul Ginsborg e Poveri noi di Marco Revelli. Due titoli che gettano luce, in poche pagine, sul buio della repubblica che da quindici anni affligge la penisola, affamando una parte notevole degli italiani ed esaltando il cinismo e l’ipocrisia dei nostri governanti.
Ricordo ancora la grande indifferenza con cui questo paese accolse nel 2006 il mio libro su Le classi dirigenti nella storia d’Italia per l’editore Laterza. Che cosa importava a quei signori di una riflessione storica su quel che avevano fatto i loro padri e nonni, se non sapevano neppure da dove venivano e dove volevano andare?
Nulla, con tutta evidenza. Ed è un peccato perché si tratta di una storia lunga e tortuosa, ma molto significativa, della difficoltà che, dopo settant’anni, hanno i padri della nostra Costituzione a far rispettare i principi fondamentali che vennero elaborati durante i lavori di un’assemblea costituente che metteva insieme i filoni fondamentali della nostra cultura cattolici democratici, liberali, azionisti, socialisti e comunisti.
La nostra Costituzione è chiara sui principi. All’articolo 8 il testo afferma con chiarezza:«Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge». E nell’articolo precedente la Carta ricorda che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Ma al primo comma l’articolo 7 recita: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.»
Cioè si ripete all’inizio la formula usata da Cavour poco prima di morire, quella che Luzzatto chiama, a ragione, un’utopia nell’Italia di oggi, ma subito dopo si dice che per la religione cattolica le cose non avvengono allo stesso modo che per le altre fedi religiose, perché i patti diretti tra Chiesa e Stato, se accettati da ambedue le parti, si iscrivono nel testo costituzionale. E perché non vale lo stesso per le altre fedi religiose, visto che sono eguali? A questa domanda né il testo costituzionale né la Corte costituzionale che la Carta difende hanno mai risposto, finora.
Ma il Concordato nella sua versione del 1984 (firmato da Craxi e da Martelli) si rifà alla prima parte dell’articolo 7 e non potrebbe far diversamente. E dunque la contraddizione tra l’eguaglianza delle fedi religiose e la condizione privilegiata attribuita di fatto a quella cattolica risalta anche nel contrasto tra la seconda parte dell’articolo 7 e quel che dicono sia l’articolo 8 della Costituzione sia la norma del nuovo Concordato voluto da un governo di democristiani e socialisti (non dei soliti comunisti senza dio, come direbbe oggi l’attuale presidente del Consiglio). La storia si complica e Luzzatto ce ne dà conto in poco più di cento pagine che oscillano tra il grottesco delle vicende di un paese, il nostro, culla del cattolicesimo apostolico romano e la serietà dei problemi che riguardano le nostre libertà presenti e future. C’è una sentenza della Petite Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (organo del Consiglio Europeo, sia ben inteso, e non dell’Unione Europea) a Strasburgo che, il 3 novembre 2009, ha detto che «i crocifissi nelle aule scolastiche italiane configurano una forma di proselitismo religioso». Costituiscono una violazione sia del diritto dei genitori di educare liberamente i propri figli, sia del diritto dei figli di non essere lesi nella loro libertà di coscienza. Ma ora la Grande Chambre ha rovesciato la giurisprudenza, su ricorso dell’Italia berlusconiana, e difende il crocifisso di Stato, attirandosi l’ira di tutti i giuristi di diritto internazionale che trovano deboli e contraddittori gli argomenti di una sentenza schiacciata sui desideri del Vaticano.
Ma gli italiani riusciranno a modernizzarsi e a vivere la loro religione, qualunque essa sia, senza bisogno di simboli attaccati al muro?

Repubblica 26.4.11
Il premio Pulitzer Maureen Dowd: "Come fai ad essere santo se non proteggi i bambini?"
L’attacco sul New York Times "Coprì lo scandalo dei pedofili"


NEW YORK. "Un papa tanto progressista" sul versante della lotta al totalitarismo "quanto terribilmente conservatore nelle questioni sociali come contraccezione, sacerdozio femminile, celibato dei preti, divorzio e nuove nozze". Ma quel che è peggio, scrive sul New York Times l´editorialista e premio Pulitzer Maureen Dowd, Karol Wojtyla avrebbe insabbiato lo scandalo della pedofilia nella Chiesa, proteggendo alcuni degli alti prelati coinvolti. Per questa grave ombra la Dowd - una delle editorialiste americane più graffianti e influenti, laureatasi all´Università Cattolica di Washington - chiede a Benedetto XVI di rinunciare alla beatificazione e scrive: "Santo non subito. Come fai a essere santo se non sei riuscito a proteggere dei bambini innocenti?". Secondo Maureen Dowd non bastano "gli occhi allegri e la fermezza temprata dalle battaglie contro nazismo e comunismo, o l´appeal di un ex attore e di un ex operaio, di un cardinale sciatore e un poeta alpinista" a cancellare "la macchia indelebile di uno scandalo sessuale globale che non smette di ribollire neanche in questi giorni di Pasqua". Per la Dowd, la beatificazione di Giovanni Paolo sarà "uno show due giorni dopo il matrimonio di Kate e William" in cui Benedetto XVI "otterrà un boom mediatico facendo rivivere la magia di Giovanni Paolo, motivo per cui ha accelerato il processo ". Ma la beatificazione di papa Wojtyla sarebbe incompatibile con "la sua incapacità di allontanare i pedofili voltando lo sguardo dall´altra parte per molti anni".

il Fatto 26.4.11
Il rottamatore
Renzi: “Il sindacato è una balla spaziale”
di Fabrizio d’Esposito


In attesa del Primo maggio coi negozi aperti a Firenze, il giovane Matteo Renzi non si ferma e celebra degnamente la sua Pasqua di rottamazione. Il giovane sindaco del capoluogo toscano si conferma sempre più il giovane campione della sinistra che piace alla destra del premier. Le invettive contro la Cgil di Susanna Camusso gli hanno procurato l’autorevole nomination di Vittorio Sgarbi: “Penso a Renzi come candidato del centrodestra”. Investitura che rappresenta l’ultima variazione su un tema aperto cinque mesi fa da Barbara Berlusconi, dopo il pranzo di Arcore tra il Cavaliere e il giovane Renzi: “Mi è sembrata una persona che vuole davvero cambiare le cose. Da lui mi sentirei rappresentata. Credo che ad avvicinarci non siano le idee politiche ma la stessa cultura generazionale”.
Incensato poi, sempre a Pasqua, dal Giornale di famiglia con un’intervista anti-Cgil che ha organizzato “uno sciopero ad personam” contro di lui, quello delle commesse, ieri il giovane sindaco di Firenze è tornato sulla questione delle serrande alzate il Primo Maggio: “Si sta giocando un derby tra l’ideologia e il buon senso e io sto con il buon senso. La Camusso mi accusa di cercare visibilità. In realtà è lei che me la dà continuando a polemizzare con me”. In pratica, il giovane Renzi si è messo in testa di rottamare la “casta del sindacato”, dopo il tentativo fallito coi vertici del suo partito, il Pd.
DEL RESTO, tracce di questa ossessione-bis sono rinvenibili nel suo ultimo libro: Fuori, edito da Rizzoli e uscito nel febbraio scorso. Primo esempio: “La concertazione è diventata una parola vuota. In alcuni casi, addirittura, la scusa per rimandare le decisioni”. Il giovane sindaco di Firenze fa la storia della pedonalizzazione di piazza del Duomo: “Dopo anni di concertazione che aveva lasciato le cose uguali e ferme come prima, decidemmo senza concertare. Chiudemmo al traffico alla fine di ottobre dopo averne dato scarna comunicazione in Consiglio comunale il mese precedente. I commercianti e i sindacati lo lessero sui quotidiani il giorno dopo”.
Il giovane Renzi sogna una sinistra con una “visione desindacalizzata” non solo su piazza del Duomo, ma anche sull’istruzione e sulle pensioni. Su tutto. La Cgil è descritta come una roccaforte conservatrice fuori dalla realtà. Secondo esempio, le primarie che lo designarono a giovane candidato sindaco di Firenze: “Firenze, zona Gavinana, centro commerciale Coop. A fare la spesa c’è il sindacalista più in vista della Cgil toscana. Quello che una volta al mese sulle cronache locali ci spiega come va l’economia, cosa dovrebbe fare la politica, come gira il mondo insomma”. L’episodio deve aver ispirato parecchio la linea del giovane Renzi, che si autocolloca tra Blair e Obama, alla ricerca di terze, quarte e quinte vie. Continua il giovane narratore Renzi: “Tra un carrello e l’altro il sindacalista incontrò Marco, il mio portavoce, anche lui impegnato a fare le spesa. Il sindacalista appoggiava il candidato dalemiano, naturalmente, quello che il giorno dopo, per mille motivi, sarebbe quarto su cinque. ‘Allora, come andiamo secondo te domani?’ domandò Marco. ‘Il mio uomo va al ballottaggio di sicuro’, rispose spavaldo il sindacalista. ‘Va almeno al ballottaggio perché se così non fosse vorrebbe dire che noi di questa città non abbiamo capito proprio nulla’”. Commenta sarcastico il giovane sindaco-scrittore: “Preciso. Analisi perfetta. Non ci hanno capito nulla, proprio nulla effettivamente, però sono bravissimi a dimenticarselo subito”.
Nella lista dei tabù da abbattere per costruire la sinistra del terzo millennio, il primo riguarda proprio il sindacato: “Primo tabù da combattere. La frase, spesso ripetuta e quasi sempre praticata, per cui il ‘il sindacato ha sempre ragione’. Balla, balla spaziale. Oggi le varie sigle hanno lo stesso problema di rappresentanza che viene contestato ai partiti o alle associazioni di categorie. Però hanno meccanismi di iscrizione e di rendicontazione del bilancio che consentono loro di essere forti anche se sono poco rappresentativi. Abbiamo il dovere di liberarci dal riflesso condizionato per cui prima di dire la nostra sulle questioni economiche aspettiamo il comunicato delle rappresentanze dei lavoratori”. Ovviamente, il giovane Renzi è stato a favore di Marchionne nel referendum Fiat, tanto per precisare.

Corriere della Sera 26.4.11
No ai negozi aperti il Primo maggio

Cgil démodé? I valori non si monetizzano
di Susanna Camusso


Se avessimo avuto bisogno di una dimostrazione ulteriore della qualità del dibattito pubblico italiano, la «querelle» sull’apertura dei negozi il Primo maggio ne è prova scolastica. Ci permettiamo di suggerire a Di Vico che nell’articolo di domenica 24 aprile si è cimentato nell’opera, per lui abituale, di collocare la Cgil a capo della conservazione, che le ragioni di chi lavora ed i valori insiti in alcune date meriterebbero da parte di tutti di essere prese sul serio. La nostra non è disattenzione alla globalizzazione, è attenzione a non farsi travolgere dall’ideologia del mercato che, appunto, ci ha portato nella crisi. Dopo la crisi speriamo che nulla sarà più come prima. Sentiamo, però, forti venti di restaurazione. In Italia, comunque, le cose sono già cambiate. Basta riflettere sulla divisione, sulla paralisi, sulla non crescita. Eppure ogni giorno si attribuisce ai lavoratori il «dovere» della discontinuità. E la festa del lavoro (che pure si celebra nel mondo) diventa un simbolo, come già successo poco tempo fa con la festa dell’Unità d’Italia. Ma davvero crediamo che le sorti dell’economia, del cambiamento, dipendano dall’apertura dei negozi il Primo maggio, mentre, per esempio, sul fisco si può rinviare da una campagna elettorale all’altra? Davvero è moderno negare la festa del lavoro, in altri casi il 25 aprile, come se fossero giorni qualunque? Dobbiamo immaginare che presto anche il Natale diverrà un attentato all’economia? O il trattamento è riservato solo alle feste laiche? Non crediamo che ragionare di consumi sia riservato ai partiti, se non altro perché dal nostro osservatorio ne vediamo la diminuzione e abbiamo ragione di sospettare che non avvenga per la mancata apertura dei negozi. Per questo pensiamo sia sbagliato spostare la tassazione sull’Iva, che inoltre nega ragioni di giustizia fiscale di cui ci sarebbe gran bisogno. Possiamo ricordare che lo «shopping» non è un servizio di pubblica utilità, nemmeno, per quei turisti che, abituati a viaggiare, sanno bene che in ogni luogo del mondo ci sono orari e chiusure e non per questo rinunciano a visitare città d’arte o a frequentare celebrazioni. Potremmo citare molti accordi sull’utilizzo di impianti ed investimenti, sono il fare quotidiano, sono accordi appunto, non ordinanze, con il rispetto delle condizioni dei lavoratori, con i riposi e le festività. È quanto abbiamo sempre proposto anche nel commercio, perché si eviterebbe l’effetto Cenerentola, rispettando e valorizzando il lavoro. In questo settore, fatto di nastri orari, part time non richiesto, frammentazione, che rende fragile il lavoro, tante, troppe commesse si definiscono invisibili. Non servirebbe, allora, un’attenzione di tutti, uno sforzo collettivo, per definire regole rispettose, più che crociate per cancellare la festa del lavoro? Infine, sappiamo che sarà ritenuto retrò, ma farsi sfiorare dal pensiero che non tutto è monetizzabile, che non tutto si può comprare, non sarebbe un bel segno per questo Paese? Consolidare dei valori, dei segni di identità del lavoro non farebbe bene a tutti? Susanna Camusso Segretario generale Cgil

Guglielmo Epifani, per ammettere di aver sbagliato ai tempi del negoziato con Montezemolo sulla riforma contrattuale, ha impiegato sei anni (2004-2010). Sarei stato un folle a pretendere che nel caso di Susanna Camusso, e la stravagante campagna della Filcams sulla «festa non si vende» , i tempi dell’autocritica si potessero accorciare. La Cgil, come tutte le grandi organizzazioni, ha il suo metabolismo e a un osservatore esterno non resta che aspettare. Intanto però posso rassicurare Camusso che nessuno vuole cancellare la Festa del lavoro, per l’indiscutibile valore simbolico e poi perché in Italia le festività è più facile aggiungerle che tagliarle. Esaurite le polemiche di giornata, però sarebbe bene che partisse una riflessione strategica sulla grande distribuzione, sulla necessità che vada all’estero, che si raccordi più strettamente con le esigenze dell’industria italiana e che dia nuovi posti di lavoro. Questa è la discussione che ci piacerebbe ascoltare e se Camusso contribuisse — rinunciando a qualche luogo comune largamente presente nella sua lettera — saremmo i primi ad esserne felici. La Cgil, del resto, dovrebbe sapere che se gli scaffali restano pieni le fabbriche si svuotano. Dario Di Vico

La Stampa 26.4.11
Economia Globale, Oriente contro Occidente
Cina batte Usa “Fra cinque anni il sorpasso del Pil”
Il Fondo monetario: Pechino prima già nel 2016 Per Washington finisce la supremazia mondiale
di Maurizio Molinari


Nel 2016 la Cina sorpasserà gli Stati Uniti nella classifica della ricchezza del pianeta, ponendo fine all’era della supremazia economica americana iniziata alla fine dell’Ottocento: ad attestarlo è il rapporto del Fondo monetario internazionale sulle previsioni di crescita globale. L’indice adoperato è il «Ppp» che misura le economie sulla base del «Purchasing power parity» - parità del potere d’acquisto - prevedendo che la Cina si espanderà dagli attuali 11,2 mila miliardi di dollari a 19 mila miliardi nel 2016 mentre gli Stati Uniti cresceranno da 15,2 mila miliardi a 18,8 mila miliardi. Di conseguenza fra cinque anni l’economia degli Stati Uniti sarà pari al 17,7% di quella dell’intero pianeta mentre quella cinese raggiungerà il 18. Per avere un’idea della rapidità dell’inversione di tendenza basti pensare che nel 2001 l’economia degli Stati Uniti era tre volte quella della Cina mentre dopo il 2016 il vantaggio cinese viene proiettato in continua crescita. Ci troviamo dunque nel bel mezzo del rovesciamento degli equilibri del potere economico con il Fmi che non esclude la possibilità di un sorpasso anticipato anche rispetto al 2016. Ciò che colpisce dalla lettura del World Economic Outlook è come il sorpasso sia la conclusione della sovrapposizione fra due tipi differenti di crescita. L’economia americana viene infatti descritta «in ripresa» con la creazione dei posti di lavoro «in accelerazione» anche grazie a un aumento dell’export, ma se gli Stati Uniti «riacquistano forza», anche grazie all’indebolimento del dollaro, l’Asia «cresce a velocità maggiore di ogni altra area», con la Cina «destinata ad aumentare il Pil del 9,5% nel 2011 e 2012» grazie a una crescita combinata della «domanda pubblica e privata» fino al 2016. La maggiore novità a tale riguardo viene dai privati perché «il miglioramento del mercato del lavoro e le politiche per sostenere i redditi delle famiglie» consentono di prevedere l’aumento dei consumi delle famiglie, che finora è stato uno dei freni al Pil nazionale.
Le previsioni sul sorpasso coincidono con la fase di indebolimento valutario del dollaro che porta il governatore della Banca centrale di Pechino, Zhou Xiaochuan, ad affermare che «le nostre riserve di valuta straniera eccedono le nostre ragionevoli necessità» e inoltre sarebbe opportuna una «diversificazione» delle valute possedute. In concreto ciò significa avanzare l’ipotesi di una riduzione delle riserve in dollari, che al momento ammontano a 3000 miliardi. A tale proposito Tang Shuangning, presidente del China Everbright Group, si spinge a ipotizzare che vengano «ridotte ad una cifra fra 800 miliardi a 1.300 miliardi di dollari» ovvero a un terzo del valore attuale. Anche Xia Bin, membro del comitato monetario della Banca centrale di Pechino, ritiene che «mille miliardi sarebbero sufficienti» avvalorando lo scenario di una massiccia vendita di dollari che potrebbe innescare un terremoto valutario. Il riequilibrio di potere economico fra Washington e Pechino solleva interrogativi sulle conseguenze strategiche. Per Victor Cha, analista di Asia al Centro di studi strategici e internazionali di Washington, «i Paesi dell’Estremo Oriente sono inquieti perché nell’ultimo mezzo secolo hanno visto negli Usa un’egemonia benigna ma ora temono l’aggressività cinese».

Repubblica 26.4.11
L’ultimo colpo di WikiLeaks abusi su vecchi e ragazzi ecco i segreti di Guantanamo
Le nuove rivelazioni imbarazzano la Casa Bianca
Nelle carte anche gli errori di valutazione sui detenuti catturati dopo l´11 settembre
di Federico Rampini


NEW YORK - Il ciclone WikiLeaks si abbatte su Guantanamo: dalla tortura degli innocenti alla liberazione di veri terroristi, le rivelazioni sul supercarcere militare rilanciano le controversie su un´istituzione che Barack Obama aveva promesso di chiudere ma di cui non riesce più a disfarsi. La Casa Bianca tenta di contenere il disastro, definisce «superate» le informazioni di WikiLeaks (che vanno dal febbraio 2002 al gennaio 2009) perché «in seguito ogni detenuto è stato oggetto di un riesame del suo dossier di accuse».
Ma intanto i file consegnati dal sito di Julian Assange a Washington Post, Repubblica, l´Espresso ed ad altri giornali americani ed europei - con 750 "schede di valutazione" degli inquirenti militari su ogni prigioniero - aprono uno squarcio di verità che imbarazza tutti. Spiegano perché lo stesso Obama ha sostanzialmente rinunciato a trasferire i residui 172 detenuti in carceri civili e a sottoporli a processi normali: «La maggioranza delle prove a carico contenute in quei dossier - commenta il New York Times - non sarebbero accettate come valide da un giudice». Perché estorte con la violenza; oppure da confessioni di altri detenuti inaffidabili.
WikiLeaks fornisce argomenti a sostegno della sinistra democratica, che negli Usa ha sempre visto in Guantanamo un´intollerabile violazione dei diritti umani e della tradizione legale americana. Ma in quella mole di documenti - che dovevano restare segreti per 20 anni - c´è anche di che sostenere la tesi opposta, quella dei "falchi", la destra repubblicana che al Congresso ha bloccato i trasferimenti di detenuti verso istituzioni civili. Non mancano infatti gli errori del segno inverso, prigionieri rilasciati che sono tornati a militare nelle file di Al Qaeda e a organizzare attacchi terroristici contro l´America e i suoi alleati.
Un caso a sé è quello del libico Ahmed Hamuda: rilasciato dopo cinque anni a Guantanamo, è riapparso tra i leader dei ribelli anti-Gheddafi, passando così nei ranghi degli "alleati" della Nato.
Tra le rivelazioni di WikiLeaks c´è anche la mole di notizie raccolte dagli americani sugli spostamenti di Osama bin Laden durante e subito dopo l´11 settembre: dritte tardive o inutilizzate, visto che la cattura del leader storico di Al Qaeda si è sempre rivelata un miraggio.
I documenti pubblicati da WikiLeaks danno ragione alla valutazione che Obama fece nel maggio 2009, quando definì Guantanamo «un disastro». Le schede compilate dai militari addetti agli interrogatori confermano la loro dipendenza dalle spiate degli "informatori" interni, detenuti trasformati in accusatori dei propri compagni: spesso nell´assenza di controlli incrociati, per cui le "prove" si rivelarono in seguito delle illazioni fabbricate per compiacere i carcerieri. Tra le vittime di questi metodi, un caso estremo è quello di un contadino afgano di 89 anni, malato di demenza senile, deportato a Guantanamo solo perché trovato in possesso di numeri telefonici sospetti. Un ragazzo di 14 anni è stato detenuto nel supercarcere militare per la sua «possibile» conoscenza di qualche leader taliban. In certi casi gli inquirenti si contraddicevano tra loro: il "prigioniero 1051", un pastore afgano di nome Sharbat, è stato tenuto a Guantanamo per tre anni nonostante che fin dai primi interrogatori i militari americani lo avessero scagionato. Un giornalista sudanese di Al Jazeera è detenuto per sei anni per carpirgli notizie sui «metodi di raccolta delle informazioni» della sua rete tv.
In quanto alla tortura, una vittima illustre è il cosiddetto "ventesimo dirottatore" dell´11 settembre, il saudita Mohammed Qahtani, tenuto al guinzaglio come un cane e sottoposto a ripetute umiliazioni sessuali. All´estremo opposto, il prigioniero Alam Shah fu liberato con la motivazione che «non è una minaccia»; appena tornato in Afghanistan, nel 2004 si rivelò essere il terrorista pachistano Abdullah Mensuh e organizzò un attentato con 31 morti. Un´altra rivelazione scottante è il ruolo svolto a Guantanamo da agenti dei servizi cinesi e russi, "invitati" dagli americani a condurre degli interrogatori con i loro metodi. Le confessioni estorte da cinesi e russi sono poi finite nei dossier a carico dei prigionieri. Anche queste verrebbero respinte da qualsiasi tribunale civile (e probabilmente anche militare) degli Stati Uniti.

l’Unità 26.4.11
Nel nuovo testo del celebre psicoanalista Luigi Zoja una riflessione a partire dall’etica
La pratica analitica per superare il meccanismo autodistruttivo del capro espiatorio
Il cuore della psicoanalisi? È combattere la menzogna
S’intitola «Al di là delle intenzioni. Etica e analisi», il nuovo libro dello psicoanalista Luigi Zoja, edito da Bollati Boringhieri. L’incipit è folgorante: «il cuore dell’analisi è etico». Da qui una riflessione sul suo ruolo.
di Romano Màdera


Le prime parole di questo libro di Luigi Zoja (Al di là delle intenzioni. Etica e analisi, Bollati Boringhieri) suonano come un folgorante incipit: «il cuore dell’analisi è etico». Una dichiarazione impegnativa, un programma di senso: se il cuore
dell’analisi è etico, ne deve seguire che la psicoanalisi dovrebbe abbandonare ogni pretesa di farsi riconoscere come una delle scienze naturali (obbiettivo vanamente inseguito fin dai tempi di Freud), ma non può neppure rifugiarsi tra le arti (come sembra suggerire una diffusa propensione postmoderna), deve invece prendere coscienza d’essere una pratica eticamente orientata. L’ideale della bellezza, dunque la dimensione estetica, è intimamente legato a quello della giustizia, quindi alla dimensione etico-politica. Non casualmente l’introduzione del 2005 alle Fay Lectures , prestigiosa serie di conferenze dell’università del Texas, ha preso il titolo, nella edizione pubblicata da Bollati Boringhieri nel 2007, di Giustizia e Bellezza. Alla fine del libro troviamo un guizzo sorprendente: per illustrare la sua proposta di principi etici che potrebbero ispirare l’etica dell’analisi, Zoja ricorre al «dolce stil novo». Sembra una boutade, per raffinata che sia. Ma la fiducia conquistata con la serietà delle prime centrotrenta pagine, consente di incassare lo spiazzamento: al dolce stile «dobbiamo una nuova filosofia della creatività umana ... l’amore non aspira al possesso della persona amata, ma all’elevazione di chi ama ... nei tempi lunghi e in una prospettiva politica, ciò che dapprincipio altro non sembra che un nuovo orientamento poetico diventa l’alfiere dell’abolizione dei privilegi aristocratici [ per via dell’uso del termine «gentile» riscattato dalla connotazione di sangue e di casta ndr.] e dell’instaurazione della democrazia». Che c’entra questo con l’analisi? Zoja ha stortato il bastone dall’altra parte abbandonando il terreno scottante della prima parte del libro sugli abusi della traslazione? Nei capitoli precedenti aveva ricostruito le origini freudiane del dilemma etico-professionale nel caso di Anna O. (trattata da Breuer ma «usata» per fini scientifici da Freud), e quelle junghiane nel caso ormai famoso di Sabine Spielrein, dove l’abuso – pur a fronte di uno straordinario successo terapeutico – sconfina nella relazione amorosa. La conclusione è rigorosa: «Lo stil novo è riuscito a edificare un ponte fra l’indomabile potere delle emozioni più arcaiche e il bisogno – anzi il diritto – moderno di vivere esperienze emotive individuali ... senza con questo alimentare aspettative o rivendicare diritti tali da trasformare la presenza in possesso. Ha insegnato a serbare il potenziale poetico, immaginifico e creativo della psiche anche in assenza della persona amata. Lo stil novo rappresenta il modello archetipico di una dinamica transferale e controtransferale che rispetti in pieno le due parti coinvolte nel lavoro d’analisi; al tempo stesso, evidenzia i loro limiti, offrendo il paradigma di un senso della giustizia che non si accontenta di divieti, ma ... aspira a trascendere i confini dei nostri incontri quotidiani, e cerca di creare significati che sopravvivano alla fugacità della condizione umana». Così si conclude il libro. Zoja ha l’ardire di rimettere al centro la domanda sulla verità: poiché il cuore dell’analisi è etico essa «si propone di combattere la menzogna, prima di tutto quella che raccontiamo a noi stessi». Siamo all’attraversamento di quella «zona grigia», evocata da Primo Levi, nella quale bene e male non possono essere separati dallo schematismo binario del bianco o nero. È questo il dono più delicato che la pratica analitica può offrire all’etica generale: una coltivata attenzione all’ascolto delle urgenze oscure dell’umano, per elaborarne una più acuta consapevolezza. Il discernimento delle ombre può scoprire tesori: la pietra filosofale di una nuova etica capace di superare il meccanismo, ormai impotente e socialmente autodistruttivo, del capro espiatorio.




Corriere della Sera Salute 24.4.11
Paure dissolte nel sonno
di Claudio Mencacci


I sogni ci interrogano da migliaia di anni e da sempre cerchiamo di capirli, ci affascinano e ci turbano. Nella Bibbia Giuseppe diventò l'interprete dei sogni del Faraone, nell’era moderna Freud e Jung colsero quale importante contributo rappresentasse per la medicina avvicinarsi al sogno permettendo oggi che neurofisiologia e psicologia analitica, pur partendo da punti di osservazione e tecniche differenti, arrivino entrambe a conclusioni analoghe. Numerosi studi sostengono che sognare sia solo un prodotto non essenziale di quella fase di riorganizzazione del nostro corpo che ha luogo durante il sonno e che abbiamo denominato REM (Rapid Eye Movement). In questa fase, in cui sono presenti contemporaneamente anche altre condizioni peculiari e di forte contrasto, come ad esempio massimo rilassamento fisico e massima attività cerebrale, compare il sogno che consentirebbe di modulare l'impatto emotivo dei ricordi di eventi spiacevoli, per facilitarne l'integrazione nella memoria. Questa funzione di riorganizzazione della memoria, e dunque della capacità di dare un senso all'esperienza, viene attivata anche nel corso di quella particolare modalità di sogno che è "il sogno a occhi aperti". Sognare diventa dunque un modo particolare di pensare che avviene anche quando siamo svegli sebbene non ce ne rendiamo conto. È quanto sostiene anche la psicoanalisi contemporanea: non è tanto importante "interpretare"qualcosa di non conosciuto al paziente, quanto consentirgli di sognare la propria vita. Shakespeare del resto scriveva che "siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni". Non sorprende in questo contesto la vicinanza di due esperienze solo apparentemente distanti come sognare e godersi un'opera d’arte nella quale l'artista ha saputo riversare i propri sogni e le proprie emozioni rappresentando un linguaggio quasi universale. Una suggestiva ipotesi etologica relativa alla funzione dei sogni è la loro capacità di stimolare le competenze relative alla percezione e reazione a stimoli potenzialmente pericolosi, la funzione di insegnare a padroneggiare la paura. Oggi, pur se viviamo senza fiere pronte a sbranarci, il sogno continua a funzionare nell’aiutarci a gestire meglio le condizioni di timore insegnandoci ad affrontarle.
Claudio Mencacci  è Direttore del Dipartimento di Neuroscienze Ospedale Fatebenefratelli-Oftalmico, Milano

Corriere della Sera Salute 24.4.11
I sogni non sono desideri, ma una necessità del cervello Una tecnica per chi vuole il «lieto fine»
La loro funzione è diversa nelle varie fasi del sonno
di Danilo di Diodoro


I sogni oggi non sono più terreno di studio soltanto degli psicoanalisti, ma anche, e forse soprattutto, dei neurofisiologi, che sono impegnati a scoprire se i sogni hanno una specifica funzione e qual è il loro ruolo nel funzionamento complessivo del cervello. Chiusi nei laboratori del sonno, questi specialisti stanno cercando di comprendere a che cosa possa servire al cervello quella magmatica ideazione fatta di immagini ed emozioni che si attiva invariabilmente tutte le notti nelle menti addormentate. Strumento fondamentale per le loro ricerche è la polisonnografia, cioè il monitoraggio continuo delle diverse variabili fisiologiche durante il sonno, come la rilevazione dei movimenti oculari, dell’elettroencefalogramma, dei movimenti toracici, e addominali, del flusso respiratorio, dell’elettrocardiogramma, dell’elettromiografia di alcuni muscoli. Tutte funzioni che si modificano nelle diverse fasi del sonno. «Numerosi studi hanno ormai dimostrato che il sonno esercita un’influenza positiva sul funzionamento della memoria, chiamata sleep effect — spiega il professor Giuseppe Plazzi del Dipartimento di neuroscienze dell’Università di Bologna —. Lo sleep effect è dovuto a diversi fattori, come la riduzione delle interferenze causate dagli stimoli esterni che si verifica mentre si dorme, ma è anche la conseguenza di una funzione attiva del sonno nel consolidare le informazioni che sono presenti nella memoria» . Questa funzione attiva del sonno è probabilmente collegata anche a un’azione specifica dei sogni. E il loro ruolo è alquanto diverso per quello che riguarda il sonno profondo, che fa parte del "sonno non-REM", e per quanto riguarda invece il "sonno REM", ovvero la fase in cui si sogna in maniera nettamente più vivida. Secondo Robert Stickgold della Harvard Medical School di Boston, il sogno della prima fase servirebbe soprattutto per la stabilizzazione e il rafforzamento della memoria; invece il sonno e i sogni della fase REM del sonno giocherebbero un ruolo nel riorganizzare il modo in cui i ricordi sono immagazzinati, consentendo di operare confronti e soprattutto di integrare le nuove esperienze con quelle già immagazzinate. Il lavoro che il cervello realizza durante questa fase è dunque un po’ simile a quello di un archivista che mette a posto il materiale arrivato di recente in biblioteca, in modo che possa essere sistemato organicamente vicino a quello già presente in archivio, senza che si creino confusioni e sovrapposizioni di alcun genere. Dunque i sogni non sarebbero "figli di un cervello ozioso"come li aveva definiti William Shakespeare in Romeo e Giulietta, ma piuttosto i figli di un cervello assai operoso, che approfitta del sonno per consolidare le nuove esperienze e integrarle con il suo bagaglio di conoscenza in continua crescita. Ma ancora più straordinario è che questa funzione di riorganizzazione della memoria viene attivata anche nel corso di quella particolare modalità di sogno che è il sogno a occhi aperti. La mente è "imbambolata", vaga lontano, eppure anche in quel momento il cervello è attivo nella rielaborazione dei dati in suo possesso, come hanno dimostrato le ricerche S u L consumo di ossigeno, che è altrettanto elevato durante compiti impegnativi quanto durante il sogno a occhi aperti. Secondo Marcus Raichle, neuroscienziato della Washington University di Saint Louis, nel cervello esiste una specie di organo interno, che è stato chiamato network di default, che si attiva tutte le volte che il cervello è in condizioni di riposo e il cui compito è verosimilmente proprio quello della riorganizzazione interna delle informazioni passate e la preparazione di azioni e scelte future. Un’altra funzione dei sogni, stavolta quelli veri, notturni, e soprattutto di quelli della fase REM, frequentemente minacciosi o comunque ad alto contenuto emotivo, è di erodere progressivamente l’impatto emotivo dei ricordi di eventi spiacevoli, per far perdere loro forza, facilitandone l’integrazione non conflittuale nella memoria. Un meccanismo che non funzionerebbe nelle persone affette da quella particolare condizione patologica che è il disturbo post-traumatico da stress, nel quale eventi traumatici realmente vissuti continuano a ripresentarsi nei sogni con tutti i dettagli e tutta la loro potenza psicologica distruttiva. Dice in proposito ancora il professor Plazzi: «Sogni estremamente vividi, come film tridimensionali, spesso terrificanti e ricorrenti, pervadono la notte delle persone affette da questo tipo di disturbo, provocando risvegli terrifici e anche lunghi periodi di insonnia forzata nel cuore della notte, per la paura che hanno queste persone di re-immergersi nello stesso sogno, dato che spesso ricominciano il sogno proprio dal punto in cui si erano svegliate» .

Corriere della Sera Salute 24.4.11
Gli incubi restano ancora un mistero


Che cosa sono gli "incubi"? In senso stretto, non sono considerati propriamente sogni. Spiega infatti il professor Giuseppe Plazzi del Dipartimento di neuroscienze dell'Università di Bologna: «Gli incubi si verificano solitamente durante il sonno non-REM e sono caratterizzati, in genere, da immagini statiche e sfuocate e da situazioni isolate, alle quali si accompagnano intense sensazioni di ansia, ma anche senso di oppressione toracica, soffocamento e palpitazioni» . «Al risveglio, a causa della mancanza di vivide immagini, — prosegue l’esperto— di solito non si riesce a ricordare esattamente quale fosse la causa del terrore, ma restano la paura e l'impressione di essersi misteriosamente trovati avvolti da un'atmosfera minacciosa. La causa dell'incubo è tuttora sconosciuta, così come sconosciuto è il suo ruolo nel funzionamento generale del cervello, ma si tende ad attribuirla a un disturbo nel processo di risveglio dal sonno non-REM» . Diversi dagli incubi sono, infine, i cosiddetti "sogni terrifici", delle vere e proprie esperienze oniriche durante il sonno REM, che si verificano a notte inoltrata. «I sogni terrifici durano una quindicina di minuti e si ricordano meglio degli incubi — aggiunge il professor Plazzi —. Si tratta di sogni che producono reazioni di spavento, perché di solito il sognatore si trova ad essere attaccato, inseguito o affogato, e anche di questi fenomeni non conosciamo la specifica funzione» . Ad analizzare questi fenomeni viene proprio da chiedersi come mai, nel linguaggio corrente, si continui a usare il termine "sogno"per indicare qualcosa di desiderabile. D. d. D.

Corriere della Sera Salute 24.4.11
Chiavi di lettura diverse anche sul «lettino»
Le immagini hanno valore in sé


La classica visione psicoanalitica del sogno, avanzata da Sigmund Freud ne L’interpretazione dei sogni del 1900, prevedeva che, tranne alcune eccezioni, i sogni rappresentassero la soddisfazione di un desiderio inconscio, nella maggioranza dei casi a sfondo sessuale o aggressivo. Il desiderio, non potendo essere accettato dalla coscienza, veniva censurato dal cosiddetto "lavoro onirico", il processo di formazione del sogno, che trasformava il contenuto nascosto, o "latente", in quello manifesto, ovvero la scena del sogno. Secondo Freud, questa censura aveva uno scopo difensivo, consentendo la gratificazione di impulsi proibiti senza che il sognatore ne fosse disturbato, e per questo il sogno era considerato una sorta di "guardiano del sonno". «Oggi molti psicoanalisti non fanno più riferimento alla classica concezione freudiana— dice Paolo Migone, condirettore di Psicoterapia e Scienze Umane, rivista interdisciplinare arrivata al 45 ° anno di pubblicazione —. Piuttosto rivalutano l’aspetto manifesto dei sogni come immagini che hanno una validità in se stessa, che va rispettata e capita in altro modo. Non si crede più tanto che vi siano due racconti paralleli, il sogno manifesto, che è mascherato e censurato, e il sogno latente, il racconto "vero"che risulta dall’interpretazione del primo. Le immagini manifeste del sogno possono avere valore in se stesse, sono un modo di elaborare le informazioni attivo nel sonno» . Secondo la Psicologia del Sé, una delle moderne correnti della psicoanalisi, le funzioni del sogno sarebbero soprattutto di crescita, di regolazione e riparazione dei processi psichici, con l’obiettivo di migliorare l’adattamento e il funzionamento mentale. «Questa nuova visione è coerente con la Psicologia del Sé — continua Migone— secondo la quale l’individuo ha un programma innato di sviluppo, volto alla crescita, all’adattamento e alla socializzazione, in armonia -in condizioni ottimali -con il mondo esterno. Diversa era invece la concezione freudiana, che prevedeva un conflitto innato con la realtà esterna» . Quindi, stando a queste nuove idee, sempre meno lo psicoanalista ricorre all’interpretazione dei sogni, allo svelamento del loro significato nascosto, e sempre più durante le sedute gli eventuali sogni raccontati dal paziente sono elaborati in termini di relazione con l’analista. Insomma, il sogno resta un potente veicolo di significati, ma in termini diversi. Dice Migone: «Ci si concentra non tanto sui contenuti tradizionalmente intesi come inconsci, quanto su quella parte della produzione mentale che non è codificata in parole. La traduzione verbale del contenuto onirico necessariamente limita la sua ricchezza, dato che le parole che conosciamo e usiamo limitano gli stessi pensieri che possiamo avere. Una limitazione che i sogni, fatti di immagini ed emozioni, non hanno» . E infatti nei sogni compaiono fenomeni sconosciuti alla normale vita diurna, oggetti bizzarri che da qualche anno stanno attraendo l’attenzione degli psicoanalisti. Come le cognizioni disgiunte e gli inter objects. «Le prime si manifestano in quei sogni in cui ad esempio ci appare una persona che sappiamo con certezza che non è lei— — dice Migone —. Ad esempio, un paziente può dire: "ho sognato mia madre, ma sembrava la mia amica Giovanna"» . Invece gli inter-objects sono nuovi oggetti, inesistenti, a metà strada tra due oggetti di cui sono una condensazione. Ad esempio, un paziente può dire: "ho sognato un grammofono ma, non so spiegare come, sembrava anche un ferro da stiro» . Queste manifestazioni si presentano anche in certe forme di danno cerebrale e di psicopatologia, oltre che in alcune espressioni artistiche, come i quadri di Hieronymus Bosch. È per questo motivo che oggi si ritiene che i sogni possono essere sì una "via regia", come diceva Freud, ma non tanto verso l’inconscio, quanto piuttosto per conoscere come funziona il cervello» . D. d. D

Corriere della Sera Salute 24.4.11
Così i grandi artisti hanno svelato l’inconscio
di Pierluigi Panza


Se i sogni sono «come immagini che hanno una validità in se stessi» (si veda in proposito l’articolo qui sotto), le immagini hanno validità in se stesse ma sono come sogni. E la critica d’arte d’impostazione psicologica ha da tempo connesso i due campi. Rispettando le principali scuole di pensiero, abbiamo avuto sia una critica d’arte freudiana che una junghiana. La prima ha cercato di mettere in evidenza i nessi tra la psicologia dell’artista e l’opera creata. Noti, a questo proposito, sono gli studi su Vincent Van Gogh o Leonardo da Vinci e sulla cosiddetta «follia» degli artisti, un topos che ha scarsi connotati scientifici. Per quanto molti creativi abbiano sviluppato comportamenti che rientrano nei disagi psicologici del DSM IV (il manuale di riferimento internazionale per le patologie psichiatriche), come ha mostrato lo psichiatra Antonio Marigliano in L’artista matto ma non troppo, raramente si può parlare di disturbi psichici. L’analisi critica junghiana ha invece mostrato la ricorrenza nelle opere d’arte di immagini dell’inconscio collettivo presenti anche nei sogni. «L’immagine primordiale, o archetipo, è una figura… che si ripete nel corso della storia, ogni qualvolta la fantasia creatrice si esercita liberamente» scriveva infatti Jung in Il problema dell'inconscio nella psicologia moderna. E questa lettura critica è risultata efficace per particolari opere. Possiamo citarne alcune. The Nightmare di Johann Heinrich Füssli è forse il quadro che meglio esprime gli incubi notturni. In un interno borghese, il demone-incubo, dai tratti di scimmia, siede sul corpo di una donna addormentata, quasi soffocandola. Inoltre, una giumenta minacciosa e spettrale, dagli occhi bianchi, si affaccia da dietro una tenda, simboleggiando la bramosia sessuale di chi aggredisce una dormiente. Füssli vuole rappresentare l’inconscio della fanciulla libero, durante il sonno, dai freni inibitori. Un’altra immagine dell’inconscio è L’isola dei morti di Arnold Bocklin, che raffigura un isolotto roccioso sopra una distesa di acqua scura e una piccola barca a remi, condotta da un Caronte che trasporta una figura vestita di bianco ed una bara ornata di festoni. È la rappresentazione del proprio funerale, che qualche volta è stato incubo notturno. Il pittore stesso ha descritto questo quadro come «un’immagine onirica che deve produrre un tal silenzio che il bussare alla porta dovrebbe fare paura» . Sogni inquietanti sono anche il Colosso di Goya e l’Ofelia di Dante Gabriel Rossetti; più gioiosi quelli dipinti dai surrealisti Mirò e Dalí. Quest’ultimo si è avvalso di classiche sostituzioni (un’aragosta al posto della cornetta di un telefono) e di immagini archetipe. L’uovo, ad esempio, associato al periodo intrauterino è usato da lui per simboleggiare la speranza e l’amore. Ma anche le formiche, che rappresentano la morte e uno smisurato desiderio sessuale; la chiocciola, in stretta connessione con la testa umana e le locuste, simbolo di distruzione e paura.
La Stampa 26.4.11
L’Italia, una nazione fondata sulla lingua
A differenza di altri Paesi è stata la letteratura e non fattori economici a innescare il processo unitario
di Gian Luigi Beccaria


Esce oggi in libreria Mia lingua italiana. Per i 150 dell’unità nazionale di Gian Luigi Beccaria (Einaudi, 90 pag., 10 euro). Anticipiamo alcuni brani dal capitolo iniziale.

Per prima è venuta la lingua. Non c’era ancora la nazione, ma da secoli esisteva un’unità linguisticoletteraria nazionale. «Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt», scriveva Isidoro di Siviglia in Etymologiae ): sono le lingue che fanno i popoli, non i popoli già costituiti che fanno le lingue. Gli ambiti in cui si sono realizzati valori in grado di unire più di ogni cosa l’Italia e tali da costituire la linea maestra di un’aspirazione unitaria non sono stati tanto principi oggettivi o materiali, l’etnia, l’economia, il mercato, il territorio, una comunità di costumi, la politica ideale dell’uguaglianza e della democrazia, l’unità delle istituzioni giuridiche, il principio della tolleranza o altro ancora. La coscienza e la volontà di un’unione si sono basate soprattutto su un valore culturale (la lingua della letteratura, la sua validità e la sua tenuta) che ha prefigurato sin dalle Origini un’unità immaginata e inseguita come un desiderio. «È un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa» il popolo italiano, ribadirà Gioberti (Del primato civile e morale degli italiani), nel secolo dell’Unità.
Non è stata dunque una nazione a produrre una letteratura, ma una letteratura a prefigurare il progetto di una nazione. Carducci nel discorso Presso la tomba di Francesco Petrarca del 1874 recitava: «Quando il principe di Metternich disse l’Italia essere una espressione geografica, non aveva capito la cosa; ella era un’espressione letteraria, una tradizione poetica». In quegli anni anche De Sanctis indicava «nella letteratura e nella lingua gli strumenti di fondazione della collettività nazionale». E già Foscolo, al suo esordio sulla cattedra di eloquenza all’università di Pavia, 22 gennaio 1809, aveva così esortato: «Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra nazione, e potrete alfine conoscervi fra di voi, e assumerete il coraggio della concordia».
Era toccato a un poeta, Dante, segnare la data d’inizio di quest’unità ideale: nel De vulgari eloquentia egli già vede l’Italia come lo spazio geografico su cui una lingua letteraria ha da diffondersi («videlicet usque ad promuntorium illud Ytalie qua sinus Adriatici maris incipit, et Siciliam»). La sua è un’audacissima «conquista intellettuale», un’idea nuova che da allora farà «costantemente parte del patrimonio culturale italiano fino ai nostri giorni». Dante pensa a un volgare letterario del sì di ampio respiro, fondato su un gruppo non solo di toscani (Cino, Cavalcanti, Dante stesso), ma sul gruppo meridionale dei siciliani già fioriti al tempo di Federico II, accogliendo nella «federazione» dei lirici anche un bolognese, Guinizelli. La parola letteraria si stende su un’unità geografica e culturale prima che essa esista realmente. Dante sin dai primissimi anni del XIV secolo persegue dunque l’esigenza unitaria «di una ideale unità linguistica e letteraria, proposta e richiesta a una reale, frazionata varietà, un’unità insomma che supera, ma nello stesso tempo implica questa varietà». Soltanto sei secoli dopo si realizza quell’antico «desiderio». Un grande poeta contemporaneo, Mario Luzi, ripensando alla nostra storia come percorso volitivo e non politico («O Italia, ininterrotto agone | ininterrotta pena»: in Via da Avignone, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini ), parla dell’«antico sogno di un paese da costruire, di un’Italia perennemente da fare, illimitatamente futura. Inventata dalla appassionata genialità dei poeti e dei filosofi e tramutata in disegno politico condiviso e contrastato dagli uomini di governo, l’Italia non è mai stata un paese che riposasse sulle proprie ragioni acquisite, ma è stata sempre vera e indubitabile nella tensione verso un sé da raggiungere».(...)
Nel corso del tempo abbiamo faticato non poco a costruirci una nazione e una lingua comune. La storia della nostra patria, la parola stessa ha conosciuto le tormentate e alterne vicende che conosciamo. Oggi è soggetta addirittura a proposte di cancellazione. Sentiamo con disappunto di tanto in tanto parlare di secessione di una parte di pianura che un tempo, dicono, fu dei Celti, e di «centomila fucili pronti a scendere/da non so che vallate». È pur vero che per molti secoli patria ha indicato soltanto la città di provenienza (la «nobil patria» di Farinata è Firenze; anche il titolo Patria di una delle Myricae di Pascoli ad altro non si riferisce che alle campagne di San Mauro). Oggi, a centocinquant’anni dall’Unità raggiunta, ci sono italiani che ancora sentono di appartenere più alla «piccola» che alla «grande patria», che ripristinano le pratiche del «particulare», come se lo spirito di parte dei comuni medievali occhieggiasse tuttora tra la foresta di torri che minacciosa caratterizza il paesaggio delle nostre terre. Lo spirito di fazione ha radici antiche. Dante ha ampiamente disseminato i faziosi nei gironi infernali e nelle cornici del Purgatorio. Già fa potentemente emergere la rivalità faziosa che durerà nei tempi, strettamente legata alla frammentazione politica della penisola. Soltanto l’Unità ne sconvolge la strutturazione frammentata in entità comunali e statali, con storie e istituzioni molto diverse.
Da tanta e lunga divisione dipende l’allentato sentimento patriottico-identitario di noi italiani, così diverso da quello degli altri. Lo ha ribadito ancora qualche anno fa la Storia d’Italia di Pierre Milza. Abbiamo uno Stato, ma uno scarso senso della nazione. Non abbiamo mai avuto il senso reale e profondo di una comunità nazionale, l’orgoglio di una identità pari a quella che si sente per esempio risuonare nelle parole appassionate che Shakespeare ha messo in bocca a Giovanni di Gand nel Riccardo II. (...)
Ma nel nostro Paese, come ho detto, ci aveva pensato la lingua della letteratura a indicare, sin dalle origini, un desiderio di unità, una perseveranza, che si protende nel tempo tra le pieghe delle scritture. La colgo al volo anche in un’annotazione come questa, dovuta a Raffaele La Capria: «Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’Unità d’Italia». Quest’unità, più umilmente sotto forma di aria di famiglia, noi rifacciamo ogni giorno anche nel parlare quotidiano. Penso alle parole delle patrie lettere come echi di un riconoscimento, quelle che affondano le radici nei classici letti a scuola, quei classici che hanno costantemente fatto da collante, raccolto la memoria della nazione, mantenuto la memoria storica della comunità, fatto da contrappeso alla ben nota labilità della nostra coesione nazionale. Comincio da esempi di superficie, piluccando qua e là dal linguaggio colloquiale. Osservo che Dante padre della lingua ha fornito più di altri materia al parlare e allo scrivere mediamente colto: il «natio loco», «le dolenti note», il «discendere per li rami», «perdere il ben dell’intelletto», «senza infamia e senza lode», «ma guarda e passa», «mi fa tremare le vene e i polsi». Ben presente, con tante tessere trasfuse nel parlare quotidiano, il più popolare dei generi nazionali, il melodramma: dal solo Rigoletto «pari siamo», «la donna è mobile», «cortigiani vil razza dannata», e via seguitando. Riusciamo, consapevolmente o inconsapevolmente, il patrimonio patrio della letteratura. Tant’è che ci sentiamo quasi offesi se un’annunciatrice (è capitato) dice in tv che «I cipressi di Bolghéri si sono ammalati». Ci sembra di aver mandato in soffitta il nostro Carducci, che un tempo a scuola mandavamo a memoria («I cipressi che a Bolgheri alti e schietti/van da San Guido in duplice filar…»). (...)

il Fatto 26.4.11
Chiedo asilo a Rai Storia
di Fulvio Abbate


Rai Storia è un pianeta a parte del flusso televisivo, un pianeta azzurro che tuttavia, fra le pieghe dei suoi crateri, custodisce come fosse un tesoro, un giacimento il bianco e nero della memoria, lo stesso bianco e nero suggestivo delle antiche fototessere. Verso Rai Storia, prendo a planare ogniqualvolta mi ritrovo stremato dallo zapping forsennato che, prova e riprova, non mi dona nulla, nonostante tutta la buona volontà di questo mondo, dopo uno slalom fra spot e format che sempre e comunque all’estetica (e all’ideologia) commerciale fanno ritorno. Sempre Rai Storia, dove temporaneamente mi sono trasferito, in questi ultimi giorni mi ha ricordato l’esistenza trascorsa del 25 aprile 1945, anzi, il suo più significativo portato storico e morale, così come da in nessun altro belvedere televisivo avrei potuto, sarei riuscito a ritrovare, a comprendere. Si tratta, tutto vero, di antichi documentari di quasi quarant’anni fa, fotogrammi occupati da volti e abiti di una moda ormai tramontata, fra giacche a due bottoni Lebole e cappotti aderenti Facis, insieme alle cravatte a losanghe dai grandi nodi, così come i veicoli di passaggio sullo sfondo, Fiat 850 e Lambrette, materiali di riflessione storica messi al mondo con un’idea che oggi sarebbe ritenuta inconcepibile: tempo e ancora tempo a disposizione di signori brizzolati che sembrano presidi o vicepresidi, gli stessi che proprio dopo l’8 settembre del 1943, e così fino alla fine di aprile del 1945, vestirono l’uniforme delle formazioni partigiane, ora garibaldini, ora giellisti, ora socialisti delle “Matteotti” ora autonomi rimasti fedeli al re. Nello stesso rullo, anche volti di figure eminenti della storia repubblicana e del pensiero democratico che dovrebbero essere ancora adesso noti, Riccardo Lombardi, Sandro Pertini, Giorgio Amendola, Alessandro Galante Garrone, Paolo Emilio Taviani, Cino Moscatelli, tutti lì a raccontare cosa furono “I giorni dell’insurrezione ” (così il titolo dell’antico programma nel 1975 riproposto), a cominciare da Ferruccio Parri, primo presidente del Consiglio di un governo di unità nazionale sotto l’egida del Comitato di liberazione nazionale. Parri che nelle parole dello scrittore Carlo Levi, con il senno di poi, riflettendo sul tradimento delle speranze dell’aprile della Resistenza o comunque rispetto alla sua incompiutezza, apparirà “come un fiore su un letamaio”. Un giacimento nel quale andare a scavare quando la misura della programmazione “reale” è davvero colma, così ho detto. Un tesoro di suggestioni in bianco e nero. La sensazione di un’intatta consapevolezza civile, civica, la sensazione che non possano esserci dubbi fra la vera sostanza morale delle rispettive parti in causa. Già, dopo aver trascorso un pomeriggio immerso nel bianco e nero delle fototessere di Rai Storia, tra i volti dei “padri della patria” repubblicana, in tutto simili a maschere di presidi e vicepresidi, di anziani parenti cui solo di rado si decide di far visita, volano via lontano i dubbi d’ogni possibile revisione storica. Rai Storia? Un atollo sul quale al momento non sembra che Berlusconi sia intenzionato a prendere casa, a trasferire il suo stupido circo della grande zona grigia.