giovedì 28 aprile 2011

l’Unità 28.4.11
Sit in del Pd e degli «immigrati di seconda generazione». Nati qui ma non riconosciuti
Costretti al permesso di soggiorno perché non c’è una legge a renderli subito «regolari»
«Noi, italiani Vogliamo la piena cittadinanza»
Bersani: «È una vergogna che lo Stato non riconosca un milione di nati in Italia». Alla Camera, due proposte di legge sulla cittadinanza in attesa di essere calendarizzate. Turco: «Fini passi dalle parole ai fatti»
di Mariagrazia Gerina


Ritmo sincopato. Parole leggermente piegate alle esigenze dell’hip hop. «Fratelli in Italia, l’Italia s’è desta...», cantano i nati nel paese che ancora non ha deciso il loro status. Né italiani, né stranieri, finché la legge non li riconoscerà per quello che sono. Loro davanti a Montecitorio l’inno d’Italia lo scandiscono come un rap di protesta, con le braccia che si levano su e giù come un avvertimento. E come dovrebbero cantarlo visto che lo Stato dove i loro genitori li hanno messi al mondo e/o cresciuti li ha lasciati per anni senza cittadinanza?
Le idee sul futuro del paese sembrano avercele più chiare loro, che, come dice Khalid Choauki portavoce del Forum Immigrazione conoscono anche l’inno di Mameli «meglio di tanti parlamentari della Lega».
«Appena finita la scuola vorrei montare pannelli solari, le energie alternative sono il futuro», spiega Jasmeet Singh Samra, 18 anni, all’ultimo anno dell’istituto tecnico industriale. «Il rap con i Termini Underground è un hobby». Quando è nato, nel Punjab, suo padre, che ora fa il giardiniere, era già l’Italia. Lui lo ha raggiunto che aveva appena 4 anni, con sua madre, che ora lavora in un ospizio per anziani. E ora a 18 anni si ritrova addosso l’inconfondibile accento della periferia romana in cui è cresciuto, a Quarto Miglio. Che non lo salva però dalla trafila riservata agli immigrati. Fatta di permessi di soggiorno. E di «perquise», che in gergo giovanile è «quando la polizia ti ferma in strada e ti comincia a domandare: da dove vieni?».
Cristina He, 17 anni, è nata in Italia, ma deve aspettare i 18 anni per chiedere la cittadinanza. I suoi, che erano appena arrivati dalla provincia del Zhejiang, le misero quel nome desiderando che loro figlia si sentisse sempre a casa sua nel paese in cui l’avevano fatta nascere. «È stato un trauma quando a cinque anni ho capito che non ero cittadina italiana». Era piccola ma sapeva già leggere e aveva visto che sulla carta sanitaria c’era scritto «cittadina cinese»: «Perché papà?».
Julija Stevanovic (che al rap preferisce una sintetica cronistoria) è un po’ più grande: 21 anni, iscritta a Scienze Politiche a Padova, anche lei è ancora in attesa di cittadinanza. «Ormai a casa mia ce l’hanno tutti, mio fratello mi prende anche in giro», ironizza Julija che è venuta in Italia a tre anni, con i genitori «cittadini croati di origine serba, costretti a fuggire per paura delle persecuzioni». Per fare la domanda ha dovuto aspettare i 18 anni e la risposta non è ancora arrivata: «Lo sai la cosa che mi fa più rabbia? È che ora ci sono i referendum e io non posso nemmeno votare».
Sullo sfondo, mentre i fratelli d’Italia si raccontano, Montecitorio sembra di cartapesta. Lì dentro giacciono indiscusse tutte e due le proposte di legge per riconoscere la cittadinanza ai nati in Italia. La prima, depositata dai deputati del Pd Bressa e Zaccaria, risale al 2008. L’altra, a doppia firma Sarubbi (Pd) e Granata (allora ancora Pdl), a quando Fini, proprio sull’immigrazione, cominciava a smarcarsi dagli alleati. «Siamo qui anche per dire al presidente della Camera che dopo più di un anno dovrebbe passare dalle parole ai fatti», scandisce Livia Turco, dallo stesso palco de i giovani rapper: «Sappiamo che il centrodestra è ostile, ma noi quella proposta l’abbiamo iscritta all’ordine del giorno e vogliamo che vada avanti». Anche Bersani nonèvolutomancarealsit-inorganizzato dal Pd. «Sull’immigrazione il fallimento delle politiche del centrodestra è stato totale», dice il segretario, «ma qui parliamo del diritto di chi è nato e cresciuto in Italia di essere cittadino italiano ed è una vergogna che pesa sulla coscienza del paese che ci sia un milione di ragazzi né immigrati né italiani». L’impegno del Pd spiega è riconoscerli italiani e basta ,«appena avremo mandato a casa il centrodestra». La legge sulla cittadinanza sarà all’ordine del giorno del primo Consiglio dei ministri, promette Livia Turco. E intanto il sit-in spiega Marco Pacciotti, coordinatore del Forum Immigrazione serve a dare una scossa a chi siede ora in parlamento.

La Stampa 28.4.11
20 mila come fantasmi. È il numero dei giovani nati in Italia da genitori stranieri che negli ultimi 18 mesi sono diventati maggiorenni: cittadini italiani fino al giorno prima, ora sono costretti a chiedere in questura il permesso di soggiorno per non essere clandestini “Noi, italiani con permesso di soggiorno
Nati e cresciuti qui da genitori immigrati, a 18 anni perdono la cittadinanza: le loro storie in un film
di Franco Giubilei


Un bambino (o una bambina) può nascere in Italia, andare all’asilo e poi a scuola in Italia, diciamo fino alla quinta superiore, ma non per questo potrà necessariamente dirsi italiano: sì, perché al compimento della maggiore età il figlio di due stranieri privi di cittadinanza si ritroverà in un’anagrafica terra di nessuno, dato che da noi si diventa cittadini a patto che lo sia almeno uno dei genitori, o che si rispetti una normativa contorta.
Una condizione in cui vivono quasi 20mila ragazzi che sono diventati maggiorenni fra il 2010 e il 2011 nel nostro Paese, tutti venuti alla luce lungo lo Stivale o giunti qui a pochi anni d’età, e tutti rigorosamente orfani di cittadinanza. Parla di loro il documentario «18 ius soli», realizzato da un regista nato a Bologna 40 anni fa da padre ghanese e madre italiana: Fred Kudjo Kuwornu, già aiuto di Spike Lee nel film «Miracolo a Sant’Anna», ha raccontato le storie di quindici giovanissimi costretti, loro malgrado, a fare il permesso di soggiorno nonostante siano italiani a tutti gli effetti.
Basta scorrere il curriculum di alcuni degli intervistati, come la ventenne Heena, nata a Reggio Emilia da genitori indiani, studentessa di Giurisprudenza e mediatrice culturale. O di Valentino, romano di origini nigeriane, studente di Biotecnologia e artista hip-hop. Oppure di Anastasio, parmigiano di nascita ma con padre e madre delle Mauritius, di professione cuoco, nel tempo libero volontario alla Croce Rossa. O vogliamo parlare di Angela, 23 anni, nata a Rimini ma dagli occhi a mandorla dal taglio inconfondibilmente cinese, studentessa di Economia e commercio?
A guardarli e ad ascoltarli nel documentario – che oggi sarà presentato in anteprima nazionale alla fiera Cittadini del Mondo di Reggio Emilia e che, per iniziativa della Regione Emilia Romagna, sarà proiettato in tutte le scuole superiori – c’è da chiedersi dove stia la differenza fra questi ragazzi e i loro coetanei italiani a tutti gli effetti, colore della pelle e lineamenti a parte.
Il fatto è che in Italia vige il criterio dello Ius sanguinis, il diritto di sangue, ragion per cui il titolo del film è «18 ius soli», in segno di auspicio perché la legislazione cambi tenendo conto della terra in cui si vive, mettendo così fine a un controsenso dai risvolti discriminatori. Nel documentario c’è anche la testimonianza del presidente della Camera Gianfranco Fini.
L’autore del film ricorda come, a complicare la vita dei figli degli immigrati, ci sia una burocrazia rugginosa: «Ci sono i ragazzi nati in Italia, che quando compiono 18 anni hanno un anno di tempo per presentare domanda e che devono dimostrare di aver vissuto ininterrottamente in Italia per un decennio. E poi c’è la casistica più numerosa, cioè quelli arrivati in Italia da piccoli, che a 18 anni possono fare domanda ma ai quali lo Stato non è tenuto a dare la cittadinanza, perché è un atto discrezionale. C’è anche un problema d’informazione, pochi conoscono le regole».
Prima della maggiore età ci sono difficoltà ad espatriare, anche solo per andare in gita scolastica all’estero, perché serve il permesso del consolato. Dopo i 18 anni poi bisogna trovare subito un lavoro, oppure non sgarrare negli studi, altrimenti il permesso di soggiorno non viene rinnovato e ci si trasforma in clandestini a rischio espulsione. Fra i casi estremi, quello di Anastasio, nato a Parma 21 anni fa: «E’ stato clandestino per sei mesi perché, per un errore dell’ufficio anagrafe in occasione di un trasloco della famiglia, il periodo di dieci anni necessario per la cittadinanza si è interrotto per un mese, e così ha dovuto ricominciare da capo. A lui sarebbe piaciuto fare il soldato, invece non ha potuto perché non ha ancora la cittadinanza. Ed è una persona ottima: quando c’è stato il terremoto all’Aquila è andato per un mese a far volontariato. Eppure incontra mille problemi».

http://www.18-ius-soli.com/

il Fatto 28.4.11
Una paga per il Vaticano
di Marco Politi


Berlusconi paga sull’unghia. Uno strapuntino nel governo ai responsabili-pronti-a-tutto. Una legge sul biotestamento, che espropria il paziente di qualsiasi decisione, per tacitare la Chiesa e garantirsi il suo appoggio.
Le gerarchie ecclesiastiche si adombrano, quando si accenna al do ut des. Ma è sotto gli occhi di tutti. In cambio delle concessioni sui principi “non negoziabili”, la Chiesa italiana chiude gli occhi sullo sfascio inflitto dal premier al Paese.
Il testamento biologico non spacca gli italiani, non divide credenti e sinistre – come continua caparbiamente a sostenere la stampa ecclesiastica – non separa cattolici da laici. Il diritto del paziente di non essere sottoposto a trattamenti medici contro la propria volontà, sancito dalla Costituzione, è un concetto radicato nella stragrande maggioranza degli italiani. Se i media ecclesiastici vogliono conoscere la voce del Paese, possono facilmente rintracciare i sondaggi che da anni confermano la stessa tendenza. Dai due terzi ai quattro quinti degli italiani vogliono decidere personalmente se rimanere attaccati a un tubo o dipendere a oltranza da trattamenti artificiali. Non c’entra l’eutanasia, non c’entra la voglia di darsi la morte . È in gioco – lo ribadiscono da sempre coscienze cattoliche come il filosofo Giovanni Reale – la scelta se lasciare che la morte arrivi naturalmente o accanirsi a rimandarla tecnologicamente.
L’ultimo sondaggio all’interno del collegio dei chirurgi italiani certifica che il 73 per cento di loro considera “trattamento medico” la nutrizione e l’alimentazione artificiale e quindi un argomento su cui il paziente ha diritto di decidere. Anche all’interno del Pdl già nel 2009 il 70 per cento era per il biotestamento (dati Crespi). I cattolici quotidiani hanno già scelto.
La cinica manovra di Berlusconi nasce dalla paura che il Terzo polo lo possa scavalcare nei rapporti con la Chiesa e dal desiderio di demonizzare le sinistre come partito anti-vita. Al di là di queste miserie, resta che la legge anti-paziente, che il premier e la gerarchia vogliono varare, è imposta contro la volontà degli italiani: credenti e diversamente credenti.

il Fatto 28.4.11
Un pessimo biotestamento in cambio dell’assoluzione dal bunga bunga?
Alla Camera il ddl Calabrò diventa un comizio elettorale per attrarre il voto cattolico Berlusconi: “Senza legge i tribunali scavalcano il Parlamento”
di Caterina Perniconi


In aula giusto il tempo di un comizio elettorale, qualche applauso e poi tutto rimandato a dopo le elezioni. Lo show sul testamento biologico offerto ieri dalla Camera dei deputati è servito alla maggioranza e all’Udc per mostrare i muscoli al loro elettorato cattolico sui temi etici. Ma nulla di più.
Il clima era incendiato già dal mattino, quando il presidente del Consiglio ha inviato ai parlamentari del Pdl una missiva per ringraziarli del lavoro delle scorse settimane sul processo breve, chiedere loro impegno sul biotestamento e, tanto per non perdere il vizio, attaccare i giudici. “La gran parte di noi – ha scritto Berlusconi – ritiene che sul ‘fine vita’, questione sensibile e legata alla sfera più intima e privata, non si dovrebbe legiferare, e anch’io la penserei così, se non ci fossero tribunali che, adducendo presunti vuoti normativi, pretendono in realtà di scavalcare il Parlamento e usurparne le funzioni”. La lettera ha fatto molto arrabbiare Beppino Englaro: “Il problema di Berlusconi è la magistratura – ha detto il padre di Eluana – ma nel caso di mia figlia, non ha fatto altro che rispondere alla domanda di giustizia del cittadino con principi di diritto allineati alla costituzione senza essere serva di alcun potere”.
NELLO STESSO tempo la Cgil consegnava al presidente della Camera Gianfranco Fini, le diecimila firme raccolte tra medici, infermieri e operatori sanitari contro il disegno di legge all’esame dell’aula. Gli stessi che promettono battaglia in caso di approvazione di questa legge: “Se passerà vedremo di percorrere tutte le vie possibili per fermarla, visto che così com’è è incostituzionale”.
Poi si è arrivati in aula, in tutta fretta, per un provvedimento che è rimasto nei cassetti di Montecitorio per quasi due anni. L’urgenza dettata dalla morte di Eluana Englaro era venuta meno. E il testo arrivato alla Camera il 26 marzo del 2009 non accennava a essere discusso. Fino a ieri. Quando una ragione “di convenienza e non d’importanza”, come ha spiegato durante il suo intervento il presidente dei deputati democratici Dario Franceschini, ha riportato la legge all’ordine del giorno. Così il partito di Casini ha chiesto la priorità per il biotestamento che è stata approvata grazie ai voti dei ministri, tutti schierati in aula a “salvare” il governo.
Perché la discussione sul “fine vita” spacca sia la maggioranza che l’opposizione. La sospensiva presentata dal Pd è stata respinta con 248 sì e 306 no. Anche Fli ha votato coi democratici e l’Idv. Bocciate inoltre le pregiudiziali di costituzionalità di Idv e Radicali (225 sì, 307 no). Ma la maggioranza, oltre alle assenze (mancavano 16 Pdl, oltre a 7 Responsabili e due leghisti, mentre 19 erano in missione), ha registrato il dissenso di Giuseppe Calderisi (Pdl) che ha votato a favore delle pregiudiziali e si è astenuto, assieme a Santo Versace, sulla sospensiva. Versace si era astenuto anche nella votazione precendete assieme a Lella Golfo, Antonio Martino e Manuela Repetti. Per quanto riguarda i democratici, gli ex Ppi vicini a Giuseppe Fioroni non hanno partecipato al voto sulle pregiudiziali, mentre Luigi Bobba ha votato contro.
Un tema delicato e scivoloso sul quale “la maggioranza si sente onnipotente e libera di ledere i diritti degli italiani” ha dichiarato l’Italia dei valori. E per il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani “è indecoroso che con tutte le urgenze e le priorità che abbiamo, il Parlamento, ancora una volta, usi la maggioranza per stravolgere gli ordini del giorno e imbastire iniziative che sono solo elettoralistiche. Nel merito – ha spiegato – noi siamo assolutamente contrari ad una legge che entra a piedi giunti tra la vita e la morte del cittadino. Chi ci accusa e dice la parola eutanasia ci offende sanguinosamente”. Ma i distinguo sono forti anche nel suo partito. E a Bersani resta meno di un mese per provare a ricompattarlo su una posizione comune.

La Stampa 28.4.11
Blitz elettorale sul biotestamento
Berlusconi e Casini accelerano ma il sì finale dopo il voto
di Carlo Bertini


Per ora è una toccata e fuga, con uno scopo non confessato, sventolare una bandiera che dovrebbe piacere all’elettorato cattolico in vista delle amministrative. Ma siccome il biotestamento è tema sensibile che investe le coscienze di tutti gli italiani, è probabile che all’accelerazione decisa ieri alla Camera, segua una prudente frenata per far slittare a dopo le elezioni un testo controverso e foriero di lacerazioni in tutti i partiti. Un testo che esclude la possibilità di rinunciare in piena coscienza, al momento della stesura di un testamento biologico, ad alimentazione e idratazione forzate. Che i medici saranno tenuti a fornire al paziente, salvo i casi in cui non sia più in grado di assimilarle.
Non stupisce dunque che ieri in piazza Montecitorio le associazioni dei medici Cgil protestassero consegnando a Fini 10 mila firme in difesa del dettato costituzionale che riconosce alla persona il diritto di non curarsi. Questo poco prima che l’aula votasse, su richiesta di Casini, un’inversione dell’ordine del giorno per passare subito all’esame del testo sul fine-vita. Quindi, dopo una battaglia tra Pd-RadicaliIdv-Fli e Pdl-Lega-Udc, la proposta di Casini passava a larga maggioranza 306 a 248. Con Fini lesto a chiarire che, comunque sia, l’aula oggi procederà con l’esame del Documento di finanza pubblica come deciso dall’ultima capigruppo. E quindi, dopo la bocciatura delle pregiudiziali di costituzionalità di Idv e Radicali, tutti a casa con la scusa che mancavano i pareri delle commissioni di merito agli ultimi emendamenti depositati. Ma con la consapevolezza generale che se ne riparlerà dopo il 17 maggio, complice la fitta agenda e la pausa dei lavori dovuta alla campagna elettorale.
«Hanno detto che bisognava fare presto e ora si scopre il bluff», attaccava il Radicale Maurizio Turco. «Vedremo, ancora non sappiamo quando concluderemo l’esame», metteva le mani avanti il capogruppo del Pdl Cicchitto. «Ma certo che slitterà al 17 maggio!», sbottava un cattolico moderato come Pierluigi Castagnetti del Pd. Convinto che il blitz di Casini fosse dettato dall’esigenza di «non farsi scavalcare nel rapporto con il Vaticano dalla Lega, che per prima in capigruppo aveva chiesto di procedere all’esame del fine-vita». E che il motivo del probabile rinvio del voto finale sia «la paura che tutti hanno di misurarsi in campagna elettorale con questo tema». E come viatico dell’incontro di oggi con Bertone, ieri Berlusconi è sceso in campo con una lettera ai deputati «per un voto responsabile» su una legge, che non sarebbe stata necessaria, «se non ci fossero tribunali che, adducendo presunti vuoti normativi, pretendono in realtà di scavalcare il Parlamento e usurparne le funzioni». Il riferimento è al caso Englaro e tutto quel che comportò, comprese le divisioni in Parlamento tra laici e cattolici, tanto che il premier ha voluto chiarire che «nel nostro partito esistono sensibilità diverse su questo tema, e non è mia intenzione chiedere che queste convinzioni personali siano sacrificate. Ma il lungo lavoro sul testo di legge credo abbia portato a un risultato largamente condivisibile».
E se l’obiettivo della maggioranza era spaccare il Pd, i primi effetti si son visti all’assemblea del gruppo Democrat dove Fioroni è stato convinto da Veltroni a non far votare i «suoi» con la maggioranza contro la pregiudiziale dei Radicali. E dopo aver tuonato in aula contro chi «butta un tema così delicato nel tritacarne della campagna elettorale», Franceschini si è sorbito l’accusa di Buttiglione di esser andato al traino dei Radicali e della loro «campagna eutanasica». Accusa che «ci offende sanguinosamente», ha reagito duro Bersani. Con massima soddisfazione di Pdl e Lega, che in un colpo hanno ottenuto la spaccatura di Pd, Terzo Polo e opposizioni.

Corriere della Sera 28.4.11
Da Mina Welby a La Malfa, i mille volti del fronte del «no»
E Monicelli è il simbolo della protesta
di Alessandra Arachi


ROMA— Maria Antonietta Coscioni parte dal principio: «La chiamano legge sul testamento biologico. Peccato che in questa legge il biotestamento non abbia più alcun valore. La volontà della persona perde senso» . Radicale, la Coscioni è stata eletta alla Camera nel Pd proprio in virtù della battaglia vissuta sulla sua pelle con la morte del marito Luca. Il suo no al testo in esame a Montecitorio risuona forte e chiaro, proprio come quello di Mina, la moglie di Piergiorgio Welby. Sopra di tutti quello di Beppino Englaro, il papà di Eluana, la donna chiamata a simbolo di questa legge. Dice: «Questa legge nasce da un evento che ha traumatizzato l’opinione pubblica, la morte di mia figlia Eluana. Ma per il motivo contrario a quello che dice Berlusconi. La gente è rimasta traumatizzata dalle sue parole. Soprattutto quando il premier ha detto che Eluana avrebbe potuto generare un figlio» . Ma la verità è che contro la legge in discussione alla Camera, sono parecchi i no che si levano decisi. Turbati. Sdegnati. Dal fronte politico, come dalla società civile. E se le anime cattoliche del Pd frenano, i laicismi di senatori come Ignazio Marino o Vincenza Vita trascinano. «Al Senato contro questo testo abbiamo fatto una battaglia che deve diventare un simbolo» , incita Vita. E spiega: «Non dobbiamo mai dimenticarci le parole del cardinal Villot, il segretario di Stato di Paolo VI: fu lui, in punto di morte, a dire che proprio sulla morte non c’è nessuno che possa dare lezioni. Anche Papa Wojtyla chiese di poter tornare a casa dall’ospedale, per morire» . Walter Veltroni e Rosy Bindi, presidente del Pd, puntano il dito contro l’uso strumentale della legge che a loro dire sta facendo il Pdl. L’ecodem Ermete Realacci, invece, entra nel merito: «È sbagliato proprio fare una legge su un tema così delicato. Anche noi abbiamo sbagliato quando abbiamo cercato di farla» . In Transatlantico il repubblicano Giorgio La Malfa passeggia nervoso: «È assurdo» , sbotta. Poi dice: «È un argomento terribile. Questo testo sancisce il dovere di continuare a soffrire» . E così dicendo interpreta gli umori che navigano anche fuori dalle mura dei palazzi. Meglio: i malumori. Come quello di Oliviero Toscani. «Ma come si permettono là dentro di decidere sulla mia morte?» . Il pubblicitario sembra non vederci dalla rabbia: «Saranno responsabili di tanti suicidi. Perché se non sarò consapevole chiederò a mio figlio di ammazzarmi, altrimenti farò come Mario Monicelli e mi butterò dalla finestra» . Con Mario Monicelli l’attore Alessandro Haber (che a teatro sta portando Craxi sulle scene) ha girato sei film. E anche lui non esita a tirare in ballo il gesto estremo fatto dal regista della commedia all’italiana: «È stato un gesto di grande coraggio e forza. E chi sta cercando di impedirci di decidere come gestire la fine della nostra vita dovrebbe tenerne conto» . Anche il regista Mimmo Calopresti alza le spalle e gli occhi al cielo: «Adesso non è più possibile neanche morire in pace? Se una persona lascia scritto un testamento, la sua scelta, che diritto hanno i signori che ci governano di non volerla rispettare?» .

il Fatto 28.4.11
Paolo Flores d’Arcais vs. Marco Politi
Wojtila santo subito o santo no?
Il 1 Maggio Giovanni Paolo II verrà beatificato: due voci opposte a confronto
di Silvia Truzzi


KAROL WOJTYLA CURVO SUL BASTONE, TESTIMONE della fragilità della condizione terrena. Un padre sofferente, vicino agli ultimi del mondo, ambasciatore di un forte sentimento di fede. Eppure, in un pontificato lunghissimo, fu anche un Capo di Stato le cui azioni furono oggetto di critiche e suscitarono polemiche. Nel processo di beatificazione, iniziato immediatamente al momento della scomparsa, il 2 aprile 2005, al grido di “Santo subito” qualcosa è stato dimenticato. Ne abbiamo discusso con Paolo Flores d’Arcais e Marco Politi alla vigilia di quel 1 maggio che lo vedrà beato.
Di Giovanni Paolo II è rimasta l’immagine di papa umano, vicino ai deboli, buono. Cosa è stato dimenticato?
MARCO POLITI: Il Papa buono resta Giovanni XXIII. Wojtyla è il primo papa geopolitico, che capisce la globalizzazione. Quei viaggi, che all’inizio sembravano una sorta di turismo frenetico, hanno rivitalizzato il senso di unità della Chiesa. E’ il primo pontefice a presentarsi nella sua fisicità anche di maschio, il primo che usa la parola “io”. Riesce a tenere insieme, come disse Bill Clinton, la capacità di parlare a tutti: ai musulmani, agli ebrei, agli agnostici. Un rapporto con il mondo che include anche polemiche, critiche. Ha unito il discorso religioso al richiamo ai diritti umani, la solidarietà economica, i diritti del Terzo mondo.
PAOLO FLORES D’ARCAIS: Le immagini popolari sono quelle del papa sofferente. “Santo subito” è il grido che nasce dopo mesi di esposizione mediatica di una sofferenza autentica, sempre più evidente e vissuta fino all’estremo. Questo colpisce il cuore di fedeli e non, anche perché Wojtyla era stato il papa “atleta della fede”. Ha affascinato anche i non credenti, secondo me del tutto a torto, per un equivoco di fondo. E cioè: Wojtyla è riuscito a presentarsi come pontefice pacifista. Politi parla di “diritti umani”. In realtà è l’opposto: è stato il nemico dei diritti umani in quanto prodotti della democrazia e della modernità, due secoli e mezzo di lotte dall’Illuminismo a oggi. E’ il papa che mette al centro dei diritti umani la “vita” come la intende lui (e anche Ratzinger, più che mai): dal concepimento alla morte, l’uomo non ha nessun diritto all’autodeterminazione. Da qui la violenta crociata di Wojtyla contro l’aborto, che ha definito “il genocidio dei nostri tempi”. Se non ricordo male usa quest'espressione in una delle tante visite in Polonia, di ritorno da Auschwitz. Quindi è evidente il cortocircuito simbolico che vuole esprimere: è l'olocausto dei nostri tempi. Stabilisce un'equazione tra il responsabile di un aborto e le Ss responsabili dei forni crematori. Questo è l'impatto che vuole creare. Anche sul piano degli aspetti sociali, la sua critica del capitalismo non è che la critica della pretesa dell'uomo di decidere su se stesso, di cui la dismisura del profitto come unico Dio è solo una delle espressioni. Ma questa denuncia non impedisce al papa di avallare, per esempio, in maniera plateale il regime di Pinochet, presentandosi al balcone insieme al dittatore. E i gesti simbolici per un pontefice mediatico come lui sono cruciali.
Non c'è stato solo l'episodio di Pinochet, ma anche l'opposizione alla Teologia della liberazione in America latina e la volontà di isolare il vescovo Romero, ucciso poi barbaramente mentre diceva Messa. Un giudizio sul Capo di Stato che tanto ha fatto contro i regimi dell'ex blocco sovietico.
POLITI: E’ stato un grande leader politico. Ma anche una personalità complessa, un mistico. In realtà non voleva nemmeno fare il prete, voleva fare il monaco. Era un filosofo della storia: ecco perché dopo la caduta del comunismo non si inebria della vittoria della parte “capitalista”, ma pone il problema del capitalismo sfrenato. E dice espressamente a noi giornalisti durante un viaggio: “Non so se è un bene che sia rimasta una sola superpotenza”. Gli elementi negativi di un lungo pontificato sono fatti, che è giusto giudicare. Un leader, che lascia la sua traccia nella storia, non è un “santino”. Ne aggiungerei altri: la lotta spietata contro la Teologia della liberazione in America latina, la contraddizione tra l'essere sul piano politico-sociale il portavoce dei diritti dell'uomo e la repressione sistematica all'interno della Chiesa del dissenso dottrinale, grazie al suo braccio destro che era Joseph Ratzinger. Ha creato una leva di vescovi scelti più per l'obbedienza che per la capacità critica. Ha lasciato completamente solo Romero. Io ero nel Salvador con lui, quando andò per la prima volta sulla sua tomba e lo definì “zelante pastore”, come fosse un curato di campagna. Solo in un secondo viaggio, quando ormai era cambiata la situazione politica, ha cominciato a elogiare Romero. E comunque, con tante beati da lui proclamati, Romero non è ancora stato fatto santo. Però rimane la capacità di Wojtyla di aprire il dialogo con le altre religioni. Lui non voleva che, come il XX secolo era stato marcato dalla guerra fredda est-ovest, il XXI fosse segnato dallo scontro tra cristianesimo e islam. Ha lavorato perché le religioni condannassero insieme la manipolazione del nome di Dio usata dal terrorismo. È stato il primo papa a proclamare un grande mea culpa per errori ed orrori nella storia della Chiesa. Bastano solo questi fatti per considerarlo, laica-mente, una grande personaggio storico.
FLORES D’ARCAIS: la grandezza storica di un personaggio prescinde dalle valutazioni positive o negative. Io considero Karol Wojtyla il più grande oscurantista del XX secolo. Un grande oscurantista può innescare anche degli effetti positivi, dal punto di vista di un progressista come me. È certo che la caduta del Muro di Berlino non sarebbe avvenuta con le stesse modalità e negli stessi tempi senza il papa polacco. Ma è l'unico effetto collaterale positivo del grande oscurantsimo di Giovanni Paolo II. Il nemico è l'illuminismo: questo è il filo rosso di tutta la sua predicazione . La presunzione, mostruosa secondo lui, che l'uomo prenda in mano il proprio destino prescindendo dall'obbedienza a Dio. Non si può imputare questa impostazione estremamente ortodossa a un papa. Ma il Concilio Vaticano II aveva segnato un elemento di assoluta novità, di apertura alla critica del mondo. L'annientamento della Teologia della liberazione non è uno degli elementi di un percorso contraddittorio, ma è parte della coerenza del pontefice. Dom. Franzoni è l'unico padre conciliare che ha testimoniato contro la beatificazione di Wojtyla: sostiene che Romero avrebbe potuto essere fatto cardinale. E non sarebbe mai stato ammazzato. Non sappiamo se è vero, ma certo sarebbe stata una bella sfida contro un potere che lo voleva morto. Il mea culpa sugli errori della Chiesa riguarda “peccati” ormai lontanissimi. Riconoscere, tra mille distinguo, che si è sbagliato con Galileo quattro secoli dopo è acqua fresca, quando contemporaneamente si difendono fino all'ultimo Maciel e i Legionari di Cristo. Le prime denunce, molto circostanziate, contro i Legionari risalgono a qualche anno prima dell'elezione di Wojtyla. Per 26 anni il papa respinge qualsiasi richiesta di intervenire. Schönborn ha raccontato che Ratzinger pose il problema. E spiega: vinse la Curia. Vinse perché Wojtyla così aveva deciso. E che dire del vescovo di Boston Bernard Law, che aveva coperto il più grande scandalo di pedofilia nella sua arcidiocesi? Fu insignito del titolo di Arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma! Aggiungiamo la santificazione di padre Escriva, cioè dell'Opus Dei e lo spazio crescente che viene concesso a Comunione e liberazione. Non dimentichiamo la santificazione di Pio IX, che condannò a morte due patrioti italiani e fu protagonista del caso Mortara: il bimbo ebreo rapito perché ricevesse un’educazione cattolica coatta. Mettendo insieme tutti questi elementi non si può dire che il suo sia un papato contraddittorio. Anzi è lineare, all’insegna della contrapposizione tra obbedienza alla legge di Dio e quel vero e proprio Satana che è la pretesa umana all’autonomia. In questo quadro abbiamo, è vero, lo straordinario effetto collaterale, liberatorio, della caduta dei regimi comunisti.
POLITI: Responsabilità, colpe, meriti di Giovanni Paolo II sono agli atti. Nella memoria popolare, quei tre milioni di persone che si sono messe in fila per vedere il suo corpo (ed erano in massima parte non praticanti), non attecchisce l’idea del papa oscurantista. Ha aperto nuovi orizzonti al cattolicesimo. Il rapporto con gli ebrei: riconosce Israele e chiude il capitolo dell’antisemitismo, recandosi al muro di Gerusalemme e facendo atto di pentimento per l’antigiudaismo secolare della Chiesa. Ha posto con forza la questione dei diritti sindacali sul finire del secolo XX, specie dopo la caduta del comunismo. La sua attività geopolitica non si esaurisce con la caduta del comunismo. L’autocritica sugli errori del passato non si è limitata a Galileo. Ha riconosciuto per la prima volta che la Chiesa non è infallibile come si era sempre presentata, in un’apologetica continua. Ha riconosciuto le responsabilità nelle crociate, nelle guerre di religione, la distruzione di Costantinopoli per mano dei cattolici. A differenza di altri papi, che spesso hanno fatto dichiarazioni sulla pace semplicemente esortative, lui sull’avventura di Bush in Iraq ha esercitato un’azione diplomatica continua, sistematica, per otto mesi. L’effetto fu che nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite il Messico e il Cile, paesi chiave per decidere la maggioranza, votarono no a Bush. America e Inghilterra non riuscirono ad avere il timbro dell’Onu sull’operazione in Iraq. Anche in Italia, dove il governo Berlusconi approvava – pur non partecipando all’operazione – la politica di Bush, e in tutta Europa la maggioranza della popolazione è stata chiaramente contraria alla guerra. Qui si è sentito il ruolo di Wojtyla. Anche se poi l’invasione è avvenuta, lui – come autorità morale – ha indicato che l’operazione era fallimentare perché avrebbe alimentato il fondamentalismo. Questi sono atti che rimangono sul piano storico. Altre responsabilità, indubitabili, non cancellano il resto. Una puntualizzazione, peraltro: non è credibile e non ci sono prove che Wojtyla, sapendo della vita pedofila di Maciel, lo abbia coscientemente protetto. Esistono forti indizi, compreso l’intervento di Schönborn, che il suo entourage gli abbia nascosto i fatti.
Guardiamo per un attimo il nostro Paese: che papa è stato Wojtyla per l’Italia?
POLITI: il suo ruolo è stato molto negativo. Ha appaltato la politica italiana al cardinale Ruini, che ha sconfitto quella parte della Chiesa che avrebbe voluto concentrarsi sulla missione religiosa. La gestione Ruini ha significato un totale livellamento, il soffocamento di qualsiasi voce di dissenso e riflessione critica nelle organizzazioni sociali cattoliche: dall’Azione cattolica alle Acli. Hanno perso la voce, si è creato un clima che lo storico Pietro Scoppola chiamava l’afasia dei cattolici. Ruini ha schierato la Chiesa nelle operazioni politiche più dannose per la crescita della società civile: l’astensione al referendum sulla fecondazione artificiale, il sabotaggio del tentativo del governo Prodi di varare una legge sulle coppie di fatto, la lotta al testamento biologico che ancor oggi blocca una legge esistente in altri paesi, perché la maggioranza berlusconiana appoggia comunque il Vaticano per coprire i propri abusi.
FLORES D’ARCAIS: Sottoscrivo tutto quello che ha detto Marco. Per Wojtyla le cose che contano davvero sono – per usare le sue stesse parole – le “strutture del peccato” che hanno l’incubazione nell’illuminismo e danno luogo ai vari versanti del fenomeno modernità. A lui interessa molto di più la questione testamento biologico o ricerca sulle staminali da impedire, rispetto a tutto il resto . E dunque ecco perché rimodella l’intero episcopato italiano: le chiese hanno rapporti con i governi in cui si privilegiano questi aspetti. Poi se questi stessi governi fanno mascalzonate incredibili su altri piani, conta meno. E allora si può sostenere Berlusconi in tutti i modi come si sostiene Pinochet. E si è cercato di ridurre al silenzio tutti i fermenti delle varie Chiese locali attivati dal Concilio. Non riesco a vedere elementi di grandezza in senso positivo. Sull’apertura all’ebraismo ricordo nuovamente la beatificazione di Pio IX: per un papa che ha parlato per simboli fu uno schiaffo alla comunità ebraica. I diritti sindacali furono riaffermati ma senza trarne nessuna conseguenza pratica, visto che in America latina tutte le forze della Chiesa coinvolte nella difesa dei diritti dei lavoratori erano quelle che sostenevano la Teologia della Liberazione. Rimane lo scontro con Bush sull’Iraq: non è una cosa da poco, ma è in chiave di preoccupazione per i diritti delle religioni. Wojtyla è il papa che propone alle altre religioni qualcosa di più che un dialogo, una santa alleanza: tutte le religioni unite contro la modernità. Viene fuori nel caso Rushdie: non ci fu condanna per la fatwa contro lo scrittore. Anzi si disse, in numerose occasioni compresi articoli sull’Osservatore Romano, che Rushdie non si doveva permettere di insultare dei fedeli, anche se la condanna a morte viene criticata.
Il miracolo di papa Wojtyla è stato trovato: quello della suora guarita. Ma ce n’erano altri pronti. Si è detto che la beatificazione è stata un’operazione di marketing religioso. D’accordo?
FLORES D’ARCAIS: La questione della santità riguarda la Chiesa dei fedeli. Un ateo come me non ha titolo né voce in capitolo. Può semplicemente parlare del papa come presenza mondana nelle vicende storiche e quindi anche del suo governo della Chiesa, in relazione alla società. Posso solo riportare quello che alcuni fedeli sostengono contro la santità, come dom. Franzoni e Hans Küng, il più autorevole teologo cattolico anche se oggi messo in mora dalla Chiesa. Ci sono anche gruppi ecclesiali di base che sono contrari a quest’operazione. La santità deve basarsi sulla pratica delle famose sette virtù, cardinali e teologali, in forma eroica. Questi autorevolissimi fedeli, punto per punto, demoliscono la teoria della santità. Franzoni considera l’impunità garantita a Marcinkus e l’azione per impedire l’accertamento della verità sul crac dell’Ambrosiano un venir meno alle virtù della prudenza e della fortezza. E imputa a Wojtyla di non aver ascoltato la chiesa dei fedeli su due questioni fondamentali: la presenza delle donne e il celibato dei preti. Sull’umanità di Wojtyla poi io starei attento: penso al caso Romero.
POLITI: La questione tecnica della beatificazione mi appassiona poco. M’interessa capire perché nella memoria popolare, vasta e trasversale, Wojtyla rimane come figura affascinante. Trovo comprensibile, anche per un pubblico che non sia cattolico, il fatto che venga posto come personalità cruciale tra il XX e il XXI secolo. La Storia è complessa, non è una foto in bianco e nero. Si può benissimo dire che Wojtyla sognava l’alleanza delle religioni per bloccare il diritto all’aborto e al tempo stesso riconoscere che lavorava per una collaborazione tra le religioni ai fini della pace e di uno sviluppo economico globalmente sostenibile. Questo è interessante. La beatificazione riguarda solo la Chiesa. Non credo però si tratti di marketing religioso. Corrisponde a un sentimento popolare. Qualcosa che va oltre il fenomeno mediatico. Giovanni Paolo II ha testimoniato una fede fortemente sentita. Ricordo che durante il suo viaggio in Terrasanta una poliziotta israeliana, evidentemente critica per quanto accaduto durante la Seconda guerra mondiale, mi disse: “La Chiesa cattolica non m’interessa affatto. Però questo è un uomo di Dio”. Anche i diversamente credenti sono rimasti colpiti dall’intensità del suo sentimento religioso, unito a una carica di umanità assolutamente tangibile. La memoria popolare giustamente seleziona. E’ assolutamente vero che lui considerava gli ultimi quattro secoli come ispirati da un programma anti-cristiano. Ma tantissimi cattolici sono illuministi nel loro quotidiano e poi apprezzano la capacità di Wojtyla di intrecciare una fede autentica alla sensibilità sociale. In Italia, per esempio, ha difeso l’unità del paese. L’ultimo suo messaggio è stata la volontà di non nascondere la sofferenza, di portarla all’esterno. Un messaggio al contempo religioso: la volontà di identificarsi con la Passione di Cristo. E laico: la riaffermazione che l’uomo sofferente ha una dignità e un suo ruolo. Infine, i messaggi “caro papà… caro nonno” diffusi al funerale rivelano che ha impersonato una figura paterna, oggi in crisi.

Il Mattino 28.4.11
Quando si può staccare la spina in Francia Inghilterra e Spagna


In Francia la legge è del 22 aprile 2005, in Olanda nel 2001. Ecco «le regole» adottate nel resto d’Europa. Francia. La legge autorizza il medico a prendere la decisione di limitare o anche interrompere il trattamento se il malato non è in grado di esprimere la propria volontà. Si prevede che «atti» scientificamente ritenuti inutili possono essere sospesi o non iniziati affatto. Se si è maggiorenni si può esprimere anticipatamente la propria volontà su limiti o cessazioni di trattamenti medici se non si dovesse avere più la facoltà per esprimersi. Spagna. La legge è del 14 novembre 2002. Sancisce il «rispetto dell’autonomia del paziente», ovvero il malato può sottoporsi o rifiutare alcuni trattamenti. Per coloro che non sono in grado di decidere, per problemi fisici o psichici il consenso viene dato da un delegato del paziente o dai familiari. Inghilterra. Dal 1 ottobre 2007 è in vigore il «Mental Capacity Act» che ha istituito un quadro giuridico per le persone incapaci di prendere decisioni in modo autonomo e per le dichiarazioni anticipate di volontà. Si prevede, quindi, la compilazione di un modulo in cui siano specificati i tipi di trattamento che si vogliono rifiutare ma si può anche delegare un terzo a decidere per lui se non fosse più in grado di decidere. Olanda. Le norme sono del 2001. Si prevede perfino il livello di «assistenza al suicidio», che si compie assistendo il malato o fornendogli i mezzi: sono però previste commissioni regionali di controllo. Per i malati tra i 16 e i 18 anni, la richiesta è legale solo se i genitori o il tutore siano stati coinvolti nella decisione.
il Fatto 28.4.11
Referendum nucleare. Il parere di Lorenza Carlassare
“Resta solo il ricorso alla Consulta”
di Luca De Carolis


“A mio avviso, la Cassazione dirà che il referendum sul nucleare non si potrà tenere, ma per i promotori è sempre possibile un ricorso alla Consulta”. Lorenza Carlassare, docente emerito di diritto costituzionale presso l’università di Padova, pesa le parole e raccomanda di continuo attenzione nel riportare le sue risposte: “Siamo di fronte a una situazione inedita per il diritto italiano, occorre prudenza”.
Il governo ha abrogato la legge sul nucleare che doveva essere oggetto del referendum, e Berlusconi ha ammesso che l’ha fatto per evitare la vittoria dei sì. Ora che accadrà?
Come prevede la legge, succederà che sui quesiti si esprimerà la Cassazione. E, a mio avviso, dirà che il referendum sul nucleare non si potrà fare, perché la relativa legge è stata già abrogata. Difficilmente potrà andare diversamente.
Non vede alternative?
Direi di no, perché il governo ha abrogato senza varare una nuova legge. Se ci fosse stato un nuovo testo, sarebbe stato diverso. La Consulta, con una sua sentenza, ha previsto che se il governo abroga una legge prima del referendum, ma sostituendola con un’altra, la consultazione si tiene lo stesso, ma sulla nuova legge. Ciò può avvenire se il nuovo provvedimento non ha cambiato i contenuti essenziali e i motivi ispiratori della legge abrogata .
Di fatto, abrogando con decreto il governo si è tutelato.
Teoricamente, l’uso del decreto potrebbe aprire ulteriori scenari, perché ogni decreto va convertito in legge entro 60 giorni. In caso contrario, i suoi effetti decadono sin dalla sua emanazione, ossia in maniera retroattiva (il decreto legge omnibus che include il nucleare scade il 30 maggio, ndr). Ma vorrei aggiungere una cosa.
Prego.
A mio parere, l’uso del decreto su materie come i diritti fondamentali non è consentito dalla nostra Costituzione, perché su questi temi c’è la riserva assoluta di legge. Ovvero, deve pronunciarsi solo il Parlamento. É una mia posizione, ma che rispecchia ad esempio il contenuto della costituzione spagnola: l’unica in Europa che prevede i decreti legge, ma che li vieta per un lungo elenco di materie.
Poniamo che, come appare probabile, la Cassazione dica no al referendum. Partita persa per i promotori?
Non necessariamente. In quel caso, i promotori potrebbero presentare un ricorso alla Corte Costituzionale, sostenendo che l’unica finalità del decreto di abrogazione era quella di espropriare il corpo elettorale di un suo diritto.
In questo senso, le parole di Berlusconi sul referendum…
Beh, è evidente che potrebbero avere un peso. Il presidente del Consiglio è stato quanto mai chiaro. Tenga presente però che parliamo sempre in linea teorica. Non ci sono precedenti di questo tipo.
La Consulta però potrebbe dare ragione ai ricorrenti.
Sì, ma la decisione finale spetterebbe comunque sempre alla Cassazione, che dovrebbe tenere conto della pronuncia della Corte Costituzionale.
Tutto questo in che tempi potrebbe avvenire?
Non voglio avventurarmi in previsioni. Ricordo però che la Consulta può anche essere rapida nel pronunciarsi.

Repubblica 28.4.11
L’intervista
D’Alema sfida Berlusconi "Non ha più una maggioranza se perde il 16 maggio vada a casa"
"Opposizioni unite ai ballottaggi senza se e senza ma"
di Massimo Giannini


L’unica svolta possibile è una modifica dei rapporti di forza nel Paese. Non faccio pronostici, ma mai come oggi il premier è in difficoltà e si può battere
Una proposta positiva quella di Veltroni e Pisanu sul governo di decantazione ma il premier non se ne va Quindi insisto: si può solo batterlo alle elezioni
Sarebbe devastante se il Cavaliere fosse eletto al Quirinale. Ma è bene che si sappia: alle prossime amministrative la posta in gioco è anche questa
Il centrodestra naviga a vista. Unica bussola sono gli interessi del capo del governo: processi, affari, donne. Poi c´è il nulla
Per superare il berlusconismo e una idea di bipolarismo malato devono contribuire moderati e progressisti

ROMA - «Berlusconi avrebbe già dovuto dimettersi da un pezzo. Non ha più la maggioranza parlamentare: se l´è dovuta comprare. Ma ora siamo alla resa dei conti: se le elezioni amministrative dimostreranno che la maggioranza politica che vinse le elezioni, oltre a non esistere in Parlamento, non c´è più neanche nel Paese, allora il premier ne dovrà trarre le logiche conseguenze». Massimo D´Alema dà il preavviso di «sfratto» al Cavaliere. A pochi giorni da un voto sui sindaci che porterà alle urne 12 milioni di italiani, il presidente del Copasir avverte: «Ormai non è più il tempo di finti sondaggi. Ci sono i voti veri. Berlusconi si è messo in gioco, chiedendo un voto di fiducia al governo. Se viene bocciato non ha più alibi...».
Presidente D´Alema, come può illudersi che Berlusconi faccia un passo indietro?
«Guardiamo i fatti. Nella maggioranza c´è uno stato di confusione imbarazzante. Il discredito del nostro premier non ha precedenti. Persino un presidente francese in forte difficoltà come Sarkozy si può permettere di venir qui a svillaneggiare il governo. L´Opa di Lactalis su Parmalat, lanciata proprio nel giorno del bilaterale Italia-Francia, è ai limiti dello sfregio. Ma è ovvio che questo accada: il Paese è privo di un governo. Berlusconi paga un drammatico deficit di prestigio internazionale, e galleggia tra furbizie e prepotenze in una logica di pura sopravvivenza. Prendiamo l´operazione sul nucleare: lo scippo di democrazia tentato sul referendum è vergognoso. Tanto più perché non nasce da una riflessione vera sulla nostra politica energetica, ma dalla bieca necessità di far fallire il referendum sul legittimo impedimento. La stessa cosa si può dire sulla Libia, dove la condotta del governo è confusa e contraddittoria e la Lega si smarca per opportunismo propagandistico.
Anche il centrosinistra è diviso sulla Libia. E il Pdl vi risponde che siete divisi oggi come lo foste ai tempi della guerra in Kosovo. Cosa risponde?
«Sono bugie. AI tempi della guerra in Kosovo Bertinotti non faceva parte della maggioranza di governo, che allora era del tutto autosufficiente. La verità è che questo centrodestra naviga a vista. L´unica bussola sono gli interessi personali di Berlusconi: i processi, gli affari, le donne. Al di fuori di questo, non c´è più una politica. Non ci sono scelte, non ci sono contenuti. C´è il nulla».
Ma la maggioranza regge, nonostante tutto. E il governo, quando si tratta di votare questioni decisive in Parlamento, i numeri continua ad averli. Non vede che anche la Lega ha in parte ridimensionato lo strappo sulla Libia?
«Purtroppo "l´intendenza" segue il premier, nel suo dissennato e dannoso galleggiamento. La Lega ormai è un partito addomesticato, non più "libero e selvaggio" com´era alcuni anni fa. Anche sulla Libia, al di là dei mal di pancia pre-elettorali, Bossi non romperà. E quanto agli altri, il Pdl si regge su un patto fideistico, nel quale ciascuno si sente vincolato al premier da un rapporto di fedeltà, a-critico e quasi a-politico. E anche questo è il segno di un´inquietante regressione del nostro sistema, che ormai si basa su un equilibrio di tipo privatistico. Ma ora proprio questo "equilibrio" produce danni incalcolabili per il Paese».
L´avete detto tante volte. Avete scommesso sulle elezioni anticipate, che invece non sono arrivate. E adesso?
«Adesso l´unica leva che può scardinare questo disastroso equilibrio sono le elezioni amministrative, e poi i referendum. Io non vedo complotti, mosse tattiche o imboscate parlamentari in vista. L´unica svolta possibile è un effettivo spostamento dei rapporti di forza nel Paese. Sono convinto che anche nell´elettorato il governo rappresenti ormai una minoranza sbandata. Si tratta solo di aspettare che lo certifichino le urne, il 15 e 16 maggio».
È vero che i sondaggi gli sono sfavorevoli, ma com´è ormai noto in campagna elettorale Berlusconi da il meglio di sé. Lei è così sicuro che vincerete?
«Io non faccio pronostici, Ma mai come oggi Berlusconi è in clamorosa difficoltà e si può battere. Anche per l´impresentabilità dei suoi candidati e il fallimento delle sue amministrazioni locali. A Milano basta giudicare il modo in cui hanno gestito l´Expo per mandarli a casa. A Napoli lo scandalo dei rifiuti ha raggiunto livelli intollerabili, alla faccia dei proclami del premier».
Quindi, secondo lei, se perde in queste città il Cavaliere deve sloggiare da Palazzo Chigi? Un po´ come fece D´Alema dopo la sconfitta alle regionali del 2000?
«Lasciamo perdere i paragoni. Noi siamo una classe dirigente che ha manifestato tutt´altra sensibilità democratica e istituzionale. Berlusconi avrebbe dovuto dimettersi già da tempo: la coalizione che ha vinto le elezioni non c´è più, e il premier ha dovuto assoldare altri parlamentari che ora è costretto a ripagare con i posti da sottosegretario. Insomma: le condizioni politiche per le dimissioni sarebbero maturate da tempo. Ma è chiaro che se ora Pdl e Lega perdono, soprattutto al Nord, lo scenario cambia radicalmente. Se i cittadini ribadiscono con il voto ciò che il Parlamento ha già certificato, Berlusconi dovrà prenderne atto. Per questo mi appello a tutte le opposizioni: concentriamo i nostri sforzi su questa campagna elettorale, riduciamo al minimo le polemiche. E stabiliamo una vera e propria "disciplina repubblicana": ai ballottaggi si marcia uniti, senza se e senza ma».
Ma qual è l´alternativa a Berlusconi? Di ipotesi ne avete formulate tante. L´Alleanza democratica con chi ci sta? Il patto tra Pd, Terzo Polo e sinistre?
«Questa è un´impostazione datata e controproducente, che non ci aiuta a risolvere il problema. Abbiamo di fronte una sfida di portata costituente. Dobbiamo dare una prospettiva di ricostruzione futura del Paese. Le macerie del berlusconismo sono enormi: regole democratiche devastate, principi di legalità calpestati, istituzioni svilite. Dobbiamo mettere in campo un progetto di rilancio dell´economia e della crescita, dopo gli ultimi dieci anni sprecati dal berlusconismo. Spetta a noi del Pd fare tutto questo, con una proposta che deve essere rivolta innanzi tutto ai cittadini italiani e che miri ad unire il più ampio schieramento democratico possibile. Quando si andrà a votare per il governo del Paese la nostra proposta politica mostrerà tutta la sua forza, e con essa dovranno misurarsi tutti gli altri partiti».
E il «governo di decantazione» proposto da Veltroni e Pisanu come lo giudica?
«È stata una proposta positiva. Ed è lodevole che il senatore Pisanu abbia condiviso la proposta di Veltroni. Ma purtroppo mi pare che le repliche siano state durissime: possiamo proporre qualunque soluzione, ma finchè Berlusconi dimostrerà di non volersene andare e continuerà ad imprigionare la sua maggioranza asservendola ai suoi interessi, sarà tutto inutile. Per questo, insisto, per noi non c´è altro spazio politico se non quello di batterlo alle elezioni».
Sarà anche il momento sbagliato per discuterne, ma il mito dell´autosufficienza del Pd è già stato sfatato una volta. Di alleanze dovrete pur ragionare, prima o poi...
«È evidente che il nodo che dobbiamo sciogliere è gigantesco: qui non si tratta solo di liberarsi di Berlusconi, ma di uscire dal berlusconismo, e da una certa idea di bipolarismo malato che ha condizionato la storia repubblicana di questi anni. Ed è altrettanto evidente che un compito di questa portata richiede il contributo di forze diverse, moderati e progressisti. Il centrosinistra da solo non basta, anche se ora forse sarebbe in grado di vincere le elezioni. Ormai ci è richiesto uno sforzo più ampio, e un progetto-Paese che guardi a un orizzonte più largo».
Vi manca solo un dettaglio: il nuovo leader...
«Non ricadiamo nel solito errore, anche questo figlio del berlusconismo, che ci ha precipitato in una sorta di presidenzialismo di fatto, con tutti i suoi riti e i suoi miti. Noi non stiamo cercando un candidato per le presidenziali. Non dobbiamo scegliere un altro "uomo della provvidenza", da contrapporre al Cavaliere. Per fortuna viviamo in una repubblica parlamentare. Il nostro leader è Bersani. Come lui stesso ha detto, la scelta del candidato alla guida al Paese dovrà essere coerente con la prospettiva politica che sottoporremo agli elettori e condivisa da tutte le forze che la sosterranno».
È vero che avete già offerto la candidatura a Casini?
«Io non ho offerto niente a nessuno, e questa visione mercantilistica della politica non mi appartiene».
C´è un ultimo problema. E se per «liberarsi di Berlusconi» lo si eleggesse al Quirinale? A destra e a sinistra c´è chi ha proposto addirittura questo. Lei che ne pensa?
«Per me è una prospettiva ancora più impensabile e nefasta del suo permanere alla guida del governo. Come ha dimostrato in questi mesi Giorgio Napolitano, la presidenza della Repubblica è un ruolo ancora più essenziale nel nostro sistema, per la tenuta della coesione nazionale e per il rapporto tra cittadini e istituzioni. Se a quella carica dovesse assurgere chi non gode della fiducia della stragrande maggioranza degli italiani, l´effetto sarebbe devastante. Chi pensa a uno scenario simile, in realtà, prospetta un´ipotesi che porterebbe a un conflitto politico-istituzionale insostenibile. È giusto che si sappia: anche questo è uno degli elementi della posta in gioco delle prossime elezioni».

il Fatto 28.4.11
I professionisti del precariato
In teoria sono freelance, in pratica dipendenti senza alcuna tutela
Una ricerca della Cgil racconta il dramma dei lavoratori autonomi. il 25% guadagna meno di 10mila euro all’anno
di Eleonora Voltolina


Per entrare nel mondo del lavoro ci sono tre strade. La prima è quella standard: cercare un posto da dipendente, sempre più raro. La seconda, mettersi in proprio creando un business e trasformandosi in imprenditori, malgrado il sistema bancario non offra facilmente credito ai giovani senza la garanzia degli indispensabili, onnipresenti genitori. La terza è inserirsi nel mercato come “freelance”, offrendo le proprie competenze a chi ne abbia bisogno e sia disposto a pagarle. Per chi sceglie, o viene costretto a scegliere, quest’ultima strada – un elenco sterminato ed eterogeneo: dagli avvocati ai commercialisti , dai consulenti ai promotori, dagli architetti ai geometri, e poi ancora psicologi, musicisti, pubblicitari, traduttori, giornalisti… – si apre un futuro di autonomia, senza l’obbligo di timbrare il cartellino o di concordare le ferie, ma soprattutto di rischio, perchè il guadagno di ogni mese dipenderà da quanto i propri servizi saranno richiesti, quanto puntuali i pagamenti, quanto fedeli i clienti.
UN FUTURO oggi caratterizzato da grande incertezza e dal pericolo che il lavoro autonomo diventi uno altro bacino di precari: come conferma la ricerca “Professionisti: a quali condizioni?”, appena svolta dall'Ires – l’Istituto ricerche economiche e sociali – su un campione di quasi 4 mila persone.
Tra gli autonomi i ricercatori dell’Ires individuano tre sottoinsiemi: quelli a rischio di precarietà, i liberi professionisti con scarse tutele e quelli affermati. Peccato che nell’ultima fascia finisca solamente il 20 per cento degli intervistati, con una spiccata quanto ovvia prevalenza di maschi over 45, lasciando il restante 80 per cento in una situazione quantomeno difficile. Si legge nella premessa, curata dal responsabile professioni della Cgil Davide Imola, che in Italia esistono quasi 9 milioni di partite Iva, di cui 6 milioni e mezzo attive. Ogni anno se ne aprono 200 mila, e secondo l’Isfol quelle false, che mascherano cioè un lavoro subordinato, sono ben 400 mila. Le partite Iva rappresentano oltre due terzi del campione: la ricerca ne è quasi una radiografia, da cui emerge che nella maggior parte dei casi si è autonomi per forza o per esplicita richiesta del datore di lavoro. I freelance per scelta sono infatti meno della metà. Lavorano più dei subordinati, quasi nove ore al giorno, sono più sotto pressione e guadagnano troppo poco: uno su quattro porta a casa meno di 10mila euro all'anno.
LE PROSPETTIVE retributive si fanno via via più cupe a seconda del settore – i professionisti della cultura e dello spettacolo sono quelli messi peggio – e la soglia dei 30 mila euro, che significa almeno 2.500 euro al mese, viene superata solo dal 17,2 per cento dei professionisti. A questo si aggiunge una disparità nella relazione con i committenti: spesso la contrattazione non esiste, e o si accettano le condizioni proposte o si resta senza lavoro.
Altro punto dolente, il tempo incredibilmente lungo che si impiega per cominciare: si arriva alla professione a 28 anni e mezzo, dopo ben quattro anni di gavetta costellati di “fasi di studio, disoccupazione, praticantato, tirocini e stage”. E prima di riuscire a ottenere un compenso si lavora gratis in media quasi un anno: la gerontocrazia comincia proprio qui, quando centinaia di migliaia di giovani lavorano senza potersi però rendere indipendenti e autonomi.
Insomma in Italia la terza strada è accidentata da un canale d’ingresso troppo lungo e pieno di insidie, prospettive di guadagno deprimenti, costante necessità di essere aiutati dai genitori (oltre la metà degli intervistati ammette di ricevere aiuti), preoccupazione per un futuro previdenziale dai contorni fumosi (per uno su sette non è addirittura versato alcun contributo pensionistico), e un’altissima probabilità che il “professionista autonomo” lo sia per scelta di qualcun altro e non sua.
C’è dunque urgenza di un’azione forte non soltanto rispetto alla definizione di standard retributivi (i giornalisti sono in testa nel richiederli, e a ragione: alcune testate pagano vergognosamente meno di dieci euro per articolo) ma anche rispetto all’accesso, al welfare e alla pressione fiscale. Un’altra grande sfida che sindacati, ordini professionali e associazioni di categoria non possono più esitare a raccogliere.

La Stampa 28.4.11
Palestina, pronto l’accordo tra Hamas e Abu Mazen
Ultimatum di Netanyahu: “L’Anp scelga, o Israele o gli estremisti”
La mediazione è stata svolta dall’Egitto e prevede un nuovo governo ed elezioni
di Aldo Baquis


Nel nuovo Medio Oriente in ebollizione, è il turno dei palestinesi di balzare alla ribalta con l’annuncio a sorpresa di un accordo politico tra Fatah e Hamas che chiude anni di lotte intestine, in vista della possibile proclamazione a settembre di uno Stato indipendente all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Regista di questa manovra, che ha colto Israele di sorpresa, è l’Egitto, che ha fatto leva sulle recenti manifestazioni popolari a Gaza e Ramallah a favore di una riunificazione della leadership politica palestinese. Si chiude così la crisi iniziata nel 2007, con il putsch di Hamas e l’espulsione del presidente Abu Mazen dalla Striscia.
In mattinata il nuovo capo dei servizi segreti egiziani Murad Murafi ha convocato al Cairo alcuni esponenti di primo piano di Hamas e di Fatah e, dopo alcune ore, le parti hanno annunciato un accordo di massima in cinque punti, che sarà suggellato fra una settimana al Cairo da Abu Mazen e dal leader di Hamas, Khaled Meshal. L’accordo prevede: la composizione immediata di un nuovo esecutivo dell’Autorità nazionale palestinese formato da figure «nazionali»; l’indizione di nuove elezioni presidenziali e politiche nei Territori entro un anno; l’inclusione di Hamas nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp); la molto complessa riunificazione degli apparati di sicurezza a Gaza (legati a Hamas) e in Cisgiordania (addestrati dagli Stati Uniti, e filo Fatah); la liberazione dei prigionieri politici palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.
L’annuncio dell’intesa fra al-Fatah e Hamas è giunto a Gerusalemme nel tardo pomeriggio, poche ore dopo che nel Sinai settentrionale un commando di sabotatori aveva fatto saltare in aria - per la seconda volta in due mesi - un tratto del gasdotto che rifornisce di gas naturale egiziano Israele e Giordania. Queste forniture (che forse ora cesseranno del tutto) rappresentano il 40% del fabbisogno israeliano di energia e in passato erano assurte a simbolo delle relazioni bilaterali. Sempre ieri Israele era impegnato ad analizzare il moltiplicarsi delle voci in Egitto che invocano l’abrogazione (totale o parziale) degli accordi di pace. «L’Egitto deve comprendere che gli accordi internazionali vanno rispettati» ha detto il premier Netanyahu.
Comprensibile dunque l’asprezza della prima reazione del premier nell’apprendere l’evoluzione nella posizione di Abu Mazen. «L’Anp deve capire che non è possibile che ci sia la pace con Israele e con Hamas - ha detto Netanyahu -. Hamas anela alla distruzione dello Stato di Israele, e lo dichiara apertamente. Spara razzi sulle nostre città, sui nostri bambini. Spero che l’Anp faccia la scelta giusta e punti alla pace con Israele. Sta all’Anp decidere».
Immediata la replica di Hamas: «Israele non ha nulla a che vedere con la riconciliazione palestinese e in passato è stata di ostacolo», ha dichiarato al Cairo il portavoce dell’organizzazione, Taher al-Noono.
Ma anche la Casa Bianca ha subito ribadito che il riconoscimento di Israele da parte di Hamas - «un’organizzazione terrorista che colpisce i civili» - è una condizione imprescindibile.

Corriere della Sera 28.4.11
Toraldo Di Francia, un fisico umanista
di Edoardo Boncinelli


Q uando vengono a mancare certe personalità, non è rilevante che siano morte quanto piuttosto che siano vissute, e abbiano arricchito con la loro presenza questo nostro «viver terreno» . Fisico, filosofo della conoscenza, umanista e uomo di cultura di statura leonardesca, Giuliano Toraldo di Francia è stato una di queste personalità, e adesso ci lascia all’età di 94 anni, dopo aver traversato quasi un secolo di vita e di passioni intellettuali. Fiorentino di nascita e, a differenza di Dante, di costumi, Toraldo di Francia (qui in una foto giovanile) è stato uno dei più grandi fisici della nostra epoca, dedicandosi sia alla ricerca che all’insegnamento, prima dell’ottica, conosciuta da lui come da pochi altri, poi delle radiazioni elettromagnetiche in generale, come della relatività e dell’elettronica quantistica, nomi arcani di materie che lui sapeva rendere vivissime e quasi trasparenti al nostro intelletto. Perché erano trasparenti al suo, instancabile indagatore della realtà in tutte le sue forme. Ho detto tante volte che ci vuole più lucidità e immaginazione a contemplare la realtà com’è davvero, tutta avvolta nei misteri dei quali la natura si compiace, che nel fingersela e inventarsela. Toraldo è stato tutta la vita un esempio di un occhio al quale niente era celato: «vedeva» dentro un laser come dentro una molecola in rotazione, dentro un fluido come dentro l’inferno di una stella. O dentro il purgatorio di una cellula. Da questo punto di vista il suo capolavoro è rappresentato da L’indagine del mondo fisico (Einaudi, 1976), un libro senza uguali che parla della fisica, sia quella fondamentale che quella vertiginosa, ma anche del suo fondamento conoscitivo: la fisica è così, sembra dirci, perché noi siamo così. Con queste premesse non stupisce che nella seconda parte della sua vita egli si sia messo a studiare i fondamenti stessi della conoscenza scientifica, sia quella intrinsecamente problematica rappresentata dagli abissali dilemmi proposti dalla fisica quantistica, sia quella più consueta e quotidiana del significato della parola «misurare» . Ne sono usciti, tra gli altri, Le teorie fisiche (Bollati Boringhieri, 1981) e Introduzione alla filosofia della scienza (Laterza, 2000), entrambi scritti a quattro mani con la compagna di queste sue audaci peregrinazioni, Marisa Dalla Chiara. Negli ultimi anni della sua vita Toraldo era soprattutto un filosofo della scienza, mai dimentico di essere un fisico, ma orgoglioso di fare fruttuose escursioni nelle ardue selve del pensiero filosofico contemporaneo. Non si seppe invero nemmeno limitare a questo. In numerosi interventi, tanto sui quotidiani (collaborò al «Corriere» dal 1981 al 1984) quanto in pubblicazioni specifiche, volle dire la sua anche sulle più scottanti questioni del presente, portando sempre la luce del suo intelletto, la sua onestà intellettuale e una certa dose di buon senso, che costa tanto poco, ma può essere a volte così utile. Ne nacque ad esempio Il rifiuto. Considerazioni semiserie di un fisico sul mondo di oggi e di domani (Einaudi 1978) e diversi altri godibilissimi libretti da intendere come testimonianze di bruciante intelligenza. Appassionatissimo di musica classica, non ha mai cessato di ascoltare e frequentare le maggiori personalità del Lied romantico europeo, dell’amicizia di molte delle quali si onorava. Leggeva più spesso che poteva i classici italiani e quelli di altre letterature, spesso in lingua originale. Diventato amico del figlio Cristiano, oggi affermato architetto, ho frequentato nella prima giovinezza la sua casa di Bellosguardo a Firenze, dove ho visto passare personaggi di grande rilievo della scienza e delle arti di tutto il mondo. Là ho ascoltato sempre musica meravigliosa e sbirciato libri che hanno costituito i fondamenti delle mie personali letture di ieri e di oggi. Posso dire di averlo frequentato da vicino, anche se la sua statura mi incuteva grande soggezione. È stato in tutto e per tutto il mio Maestro. Non sono mai riuscito, anche in tarda età, a dargli del tu. Ma oggi posso contravvenire a tale autodivieto e dire: Grazie Giuliano, per quello che hai fatto e per quello che hai rappresentato. Per me e per noi tutti.

Repubblica 28.4.11
Addio a Toraldo di Francia scienziato e divulgatore
È stato un pioniere di un’arte assai poco diffusa nel nostro paese
di Piergiorgio Odifreddi


Alcuni decenni fa, quando ancora la divulgazione scientifica anglosassone non aveva la diffusione che ha oggi, in Italia c´era qualcuno che già se l´era inventata e che la praticava con successo. Era l´epoca in cui usciva la rivista Le Scienze (fondata alla fine degli anni Sessanta da Felice Ippolito e che è stata diretta fino a poco tempo fa da Enrico Bellone, recentemente scomparso) tesoro inestimabile per gli italiani appassionati. Ebbene, proprio allora, avevamo la fortuna di avere, sommersa ma decisiva, anche un´altra divulgazione, meno giornalistica ma altrettanto affascinante: quella praticata da accademici isolati come Giuliano Toraldo di Francia, morto ieri a 94 anni.
L´avevo incontrato nel 1975: ero un giovane appena laureato che stava affrontando un dottorato di logica. Eravamo ad un convegno a Santa Margherita Ligure e passeggiavamo sul lungo mare di questa cittadina: lì ci colpì una coppia singolare. Lei, Maria Luisa dalla Chiara Scabia, filosofa della scienza, e lui, il professor Toraldo di Francia, signore alto magro e brizzolato. I due camminavano insieme cantando arie d´opera. La stessa seria leggerezza e competenza, il professore la metteva nelle sue ricerche e nei suoi libri. Professore emerito di fisica superiore all´Università di Firenze, era stato anche direttore dell´Istituto di ricerche sulle onde elettromagnetiche del Cnr e presidente della Società italiana di fisica dal 1968 al 1973. E mentre stava nell´accademia scriveva libri che spiegavano a tutti come funzionava la scienza: da L´amico di Platone (Vallecchi, 1985), a La scimmia allo specchio (Laterza, 1988) fino a Un universo troppo semplice. La visione storica e la visione scientifica del mondo (Feltrinelli, 1990). Si occupava di meccanica quantistica e ci sapeva spiegare la filosofia che c´era in quelle teorie. Fino all´ultimo ha saputo mantenere il suo umorismo: a 90 anni partecipava ancora a molte iniziative e all´ultima a cui l´ho visto si lamentava perché alcuni guai fisici l´avevano costretto a smettere di giocare a tennis.
La sua figura è stata importantissima: in un paese che ha spesso affidato la divulgazione scientifica a giornalisti di formazione umanistica lui rappresentava una felice anomalia. Insieme a Roberto Vacca e a Tullio Regge è stato un grande pioniere, mettendo in pratica una cosa semplicissima che però non faceva nessuno. E cioè: pur essendo professori e universitari si può cercare di spiegare a tutti la bellezza della fisica, dell´astronomia o della chimica. Così se oggi la situazione è molto cambiata lo si deve proprio a loro. Ora gli scienziati "scendono in campo", scrivendo sui giornali, facendo conferenze per il largo pubblico, partecipando ai festival e andando anche in tv. Ma il merito è di persone come Toraldo di Francia, nato nel 1916 a Firenze, figlio e padre di un´altra Italia. Bisognerebbe non dimenticare mai la sua lezione.

Repubblica 28.4.11
La pennichella dei neuroni che ci fa dormire a occhi aperti
Le pause sono di 50-100 millisecondi. Il test dimostra che i due stati non sono impermeabili
di Elena Dusi


Sembra che sia sveglio, ma il cervello troppo stanco manda a dormire un gruppo di neuroni alla volta. Come i delfini e alcuni uccelli migratori fanno riposare un solo emisfero per non dover interrompere il loro viaggio, così il nostro cervello si difende dalla stanchezza con pennichelle talmente brevi (meno di un decimo di secondo) e limitate a piccoli gruppi di cellule da non intaccare lo stato di veglia generale.
Nell´esperimento dell´università del Wisconsin i topolini mantenevano gli occhi aperti, camminavano e cercavano di afferrare delle palline di zucchero. L´elettroencefalogramma indicava senza ombra di dubbio uno stato di veglia. Eppure gli elettrodi usati per osservare alcuni gruppi di neuroni della corteccia cerebrale li trovavano a volte addormentati.
«Dopo una veglia molto lunga alcuni neuroni si "spengono" brevemente, come avviene nel sonno» scrivono su Nature di oggi i ricercatori Usa guidati dagli italiani Chiara Cirelli e Giulio Tononi. «Durante questi periodi di "sonno locale" gli animali sono attivi e vigili. Ma fanno sempre più fatica a raggiungere le palline di zucchero che gli abbiamo messo vicino».
Le isole di siesta nel cervello iniziano ancor prima che ci si senta assonnati e aumentano con le ore di veglia. «Le pause dei neuroni durano circa 50 o 100 millisecondi» spiega Tononi. «E il fenomeno opposto avviene quando dormiamo. Quando le ore di sonno diventano soddisfacenti, i neuroni cominciano gradualmente a mostrare i segni dello stato di veglia».
La scoperta dimostra che sonno e veglia non sono condizioni impermeabili fra loro. E che il cervello non è un unicum, ma può comportarsi in maniera diversa non solo tra un´area e l´altra, ma anche fra un gruppo di neuroni e l´altro all´interno della stessa area. L´esperimento è stato condotto in due zone della corteccia cerebrale, la parietale e la motoria, con elettrodi molto precisi fissati per alcuni giorni sulla testa dei roditori. «Monitorando un gruppo di una ventina di neuroni - dice Cirelli - ne abbiamo trovati 18 attivi, mentre 2 alternavano attività e silenzio come avviene durante il sonno».
Se un neurone si addormenta ogni tanto il cervello può continuare a funzionare bene. «Ma il problema è subdolo» spiega Tononi. «Può darsi infatti che quel singolo neurone sia fondamentale per l´attività che stiamo svolgendo. La sua assenza finisce così col causare una défaillance. Nel caso dei roditori, le palline di zucchero non vengono più raggiunte con regolarità. In quello degli uomini, le cellule che vanno off-line possono provocare decisioni sbagliate. Ecco perché quando siamo stanchi commettiamo più errori pur essendo complessivamente svegli».
Le prime a cadere addormentate sono probabilmente le cellule più sfruttate durante il giorno. «Nei nostri studi precedenti - spiega Tononi - abbiamo osservato che i neuroni più sollecitati nelle ore di veglia accumulano molte nuove sinapsi e collegamenti. Il sonno serve proprio a sfrondare questi "rami" in eccesso e ad alleggerire il cervello dalle connessioni meno utili. È probabile che questo avvenga anche a livello dei singoli neuroni. Quando il peso delle esperienze vissute e del lavoro svolto durante il giorno diventa eccessivo, finiscono col cadere addormentati, indifferenti a quel che fa il resto del cervello».

Repubblica 28.4.11
Zizek: da Lacan al cinema riscopriamo il sogno
Il sistema capitalista globale, tra crisi ecologiche, squilibri interni e aumento di divisioni ed esclusioni, è al suo punto zero: eppure non ha senso parlare di "decadenza"
Il Ventunesimo secolo sarà dei soggetti "post-traumatici" È la tesi del filosofo sloveno in "Vivere alla fine dei tempi"
di Antonio Gnoli


In pochi anni le generazioni che hanno vissuto il Novecento e che con esso si sono confrontate, hanno combattuto e interrogato in linea con la modernità (e perfino con la postmodernità), sembrano aver dilapidato quel patrimonio di idee e di esperienze come mai in epoche precedenti era accaduto. È come se il nuovo secolo lungi dal tentare una continuità con il precedente faccia di tutto per staccarsene, per mostrarsi radicalmente diverso o quanto meno indifferente al proprio passato. In che modo dunque ci si può predisporre all´analisi dei nostri tempi se questi tempi sembrano refrattari all´uso delle categorie consuete?
Prendete un pensatore come Slavoj Zizek, un tipo gioviale - per via delle fattezze fisiche, gli amici lo hanno soprannominato "l´orso di Lubiana" - uno che gira il mondo e che quando riflette non si accontenta degli schemini liberal-democratici o postmoderni, ma va dentro alle questioni con molta determinazione e qualche originalità, ebbene perfino Zizek ha dovuto fare un grande sforzo di ripensamento del proprio lavoro come dimostra il suo nuovo libro il cui titolo è già la spia di un disagio: Vivere alla fine dei tempi. Quali tempi, vi chiederete. E la risposta non può che essere il tempo globale, quello che tutto avvolge e ricomprende sotto una stessa cifra, sotto una stessa bandiera, sotto un medesimo sentire. E che per reazione ha prodotto localismi impensabili solo qualche decennio fa. Mai un secolo, o meglio un millennio, si è aperto con così tante paure e angosce, neppure nei tempi più bui, neppure in quell´attesa di catastrofe millenaristica che segnò la svolta dell´anno Mille. Eppure il libro di Zizek non è una riflessione sulla decadenza, non va confuso con quelle opere, alla Spengler per intenderci, che parlavano di inesorabili tramonti nei quali l´Occidente era ormai destinato. Vivere alla fine dei tempi è semplicemente vivere nei nuovi tempi, quelli che oggi ci appartengono e dai quali difficilmente riusciremo a evadere.
Dunque tuffatevi nella lettura di queste seicento pagine - a volte geniali e a volte confuse - ma senza immaginare che lì si trovi la soluzione al problema, perché il problema semplicemente non risponde più alle sollecitazioni consuete, alle interrogazioni tradizionali. Wittgenstein, a suo tempo, parlò di "crampi linguistici". Ecco: è come se Zizek riproponesse quella scena: la muscolatura dei concetti e delle parole si è contratta, irrigidita e facciamo molta più fatica a camminare, cioè ad analizzare il percorso. Naturalmente nel libro ritroviamo alcuni temi cari a Zizek: il suo marxismo duro ed eterodosso, la sua passione per il cinema (soprattutto hollywoodiano), le cui trame sono le nuove narrazioni capaci di popolarizzare la nostra vita concettuale; infine Jacques Lacan: il maestro, il punto di riferimento che attraverso la triade Immaginario, Simbolico, Reale ci offre una possibile e plausibile spiegazione del mondo. Nel leggere i testi di Zizek mi sono chiesto da dove nascesse questo interesse (diciamo pure fedeltà) al cinema e alla psicoanalisi e la risposta è che entrambi ci offrono virtualmente un´altra vita, un´altra occasione di godimento (di eccedenza libidinale) nei riguardi di un reale che ha perso i tratti della riconoscibilità. Abbiamo perciò bisogno dell´inconscio, del sogno, del magma invisibile e sotterraneo per riprendere contatto col mondo.
Fin qui, verrebbe da dire, siamo ancora al Zizek innamorato del moderno e dei suoi grandi interpreti: Cartesio, Kant, Hegel, Marx, Freud. Ma in Vivere alla fine dei tempi qualcosa è mutato, qualcosa è accaduto alla nostra civiltà, al sistema globale del capitalismo che sta andando dritto verso un apocalittico punto zero. Quattro sono le emergenze: il collasso ecologico, la riduzione biogenetica degli umani a macchine manipolabili, il controllo digitale totale sulle nostre vite, la crescita esplosiva delle esclusioni sociali. In fondo non è affatto vero che stiamo esportando democrazia e che stiamo andando verso società più egualitarie. Il quadro che ci si prospetta è quello di una violenza sconosciuta in passato e che si realizza attraverso le speculazioni finanziarie e le catastrofi di vario tipo (naturali, fisiche, mentali). Con quali conseguenze? Se il secolo Ventesimo è stato dominato dal soggetto scabroso (titolo di un libro di Zizek), cioè un soggetto che interroga, che mette in dubbio ed è capace di reagire anche con durezza alle avversità, il Ventunesimo secolo porrà al centro il soggetto post-traumatico. Si tratta di una figura di "sopravvissuto" alla violenza (rifugiati, clandestini, vittime del terrorismo, sopravvissuti ai disastri naturali, e perfino i malati di Alzheimer), la cui nuova identità simbolica è prodotta interamente dal trauma subito. E allora si capisce bene la frase per cui «l´11 settembre ha segnato la fine della postmodernità, la fine dell´epoca dell´ironia e della correttezza politica». Il nuovo soggetto che avanza è dunque agli occhi di Zizek uno sconosciuto che non ha più legami col proprio passato. Inquietante, verrebbe da osservare. Ma su questa entità misteriosa che cosa il pensiero può dire di nuovo? Mi ha colpito una frase di Zizek: «Il mio sogno è avere una casa composta solo di spazi secondari e luoghi di passaggio - scale, corridoi, bagni, ripostigli, cucine - senza soggiorno né stanze da letto». In fondo la vita intellettuale dell´"orso di Lubiana" è molto simile al suo credo architettonico: un pensiero inospitale, dove le soste sono emergenze brevi e non esistono più luoghi nei quali trovare un riparo sicuro.

Repubblica 28.4.11
"Rinascere dopo il collasso la coscienza sociale fa i conti con l´apocalisse"
La prima reazione è il rifiuto. Poi subentrano la rabbia, la depressione Alla fine ci si rassegna e si prova a ripartire
di Slavoj Zizek


Anticipiamo un brano di "Gli spiriti del male nelle regioni celesti", introduzione a Vivere alla fine dei tempi, edito da Ponte alle Grazie.
La premessa di base di questo libro è semplice: il sistema capitalista globale si sta avvicinando a un apocalittico punto zero. I suoi "quattro cavalieri dell´apocalisse" comprendono la crisi ecologica, le conseguenze della rivoluzione biogenetica, gli squilibri interni al sistema stesso (problemi con la proprietà intellettuale; imminenti lotte per materie prime, cibo e acqua), e la crescita esplosiva delle divisioni ed esclusioni sociali. [...] La verità fa male, e noi cerchiamo disperatamente di scansarla. Per spiegare come questo accada, possiamo rivolgerci a una guida inaspettata. La psicologa di origine svizzera Elisabeth Kübler-Ross ha proposto il celebre schema delle cinque fasi dell´elaborazione del lutto, conseguente, ad esempio, alla scoperta di avere una malattia terminale: rifiuto («Non può succedere, non a me»), collera («Perché succede proprio a me?»), venire a patti («Se potessi almeno vivere fino a vedere la laurea dei miei figli»), depressione («Sto per morire, e quindi chi se frega di tutto») e accettazione («Visto che ormai non lo posso combattere, tanto vale che mi prepari »). [...] È possibile scorgere le stesse cinque figure nel modo in cui la nostra coscienza sociale prova ad affrontare l´imminente apocalisse. La prima reazione è di rifiuto ideologico; la seconda è esemplificata da esplosioni di collera di fronte alle ingiustizie; la terza comporta dei tentativi di venire a patti; poi arrivano la depressione e la chiusura in sé stessi; infine, dopo essere passato per questo punto zero, il soggetto non considera più la situazione come una minaccia, ma come la possibilità di un nuovo inizio. I cinque capitoli si riferiscono a questi atteggiamenti. Il primo capitolo analizza le modalità dominanti di offuscamento ideologico, dagli ultimi blockbuster di Hollywood fino alle false (rimosse) visioni apocalittiche (l´oscurantismo della new age ecc.). Il secondo capitolo esamina le proteste violente contro il sistema globale, e in particolare l´ascesa del fondamentalismo religioso. Il terzo capitolo si concentra sulla critica dell´economia politica, e propone un appello per la ripresa di questa componente centrale della teoria marxista. Il quarto capitolo prende in considerazione l´impatto dell´imminente collasso nei suoi aspetti meno consueti, come l´emergere di nuove forme di patologie del soggetto (il soggetto "post-traumatico"). Infine, il quinto capitolo individua i segni dell´emergere di una nuova soggettività emancipativa, e isola i germi di una cultura comunista in tutte le sue diverse forme, ivi comprese le utopie letterarie o di altro tipo (dalla comunità dei topi di Kafka al collettivo dei reietti freak nella serie tv Heroes).

Perché l’amore omosessuale in Italia è ancora uno scandalo
di Michela Marzano

Quarant’anni di battaglie
di Angelo Pezzana

Tollerare non basta
di Michele Smargiassi


l’Unità 28.4.11
Will e Kate
Tra despoti e tabloid Dio salvi l’Inghilterra dal kolossal nuziale
Eventi mediatici I soldati di Sua maestà che marciano nelle strade vuote di Londra per le prove, i giornali che parlano della sposa nuda (in sogno), fans avvolti nell’Union Jack: così si mette in scena un paese in crisi profonda
di Roberto Brunelli


Strano. Dal tormentone dell’incubo della principessa nuda alla certezza scientifica del primo figlio entro dodici mesi dal fatidico sì, la prima monarchia mediatica della storia sta per essere benedetta dinnanzi a qualche miliardo di telespettatori nonostante gli oscuri ma limpidissimi insegnamenti della storia medesima. Mentre Londra è invasa da militari in uniforme da cerimonia, spitfire nel cielo e mezzo milione di «royal fans» in attesa che, domani mattina, si compia il destino di due ragazzi chiamati Will & Kate, è come se nessuno si ricordasse, in questa eccitatissima Inghilterra dominata come non mai dalle televisioni e dai tabloid, della trucida lezione di Diana, uccisa dai miasmi della ribalta. Sì, perché mediatico è lo scopo di questo «matrimonio del secolo», volto a rilanciare la monarchia e la «cool Britannia» in profonda crisi, mediatico è il parterre degli invitati e mediatica è la costruzione dello spettacolo nuziale, degna dei più tremendi pomeriggi in tv è l’esposizione orgasmica dei «retroscena» e dei «segreti di palazzo».
È l’Inghilterra più postmodernamente retriva quella che si mette in scena: ieri centinaia di soldati di Sua Maestà avevano invaso Londra per le prove generali della grande parata di venerdì. Una scena vagamente surreale: tutti in uniforme da cerimonia a sfilare per le strade vuote della capitale, da Parliament Square a Buckingham Palace, mentre intanto due Tornado e due Typhoon saettavano per i cieli della capitale inglese. Alla parata hanno partecipato una banda (che però non suonava, data l’ora) nonché svariate carrozze e limousine, tra cui la Rolls Royce con ciu la povera Kate Middleton sarà portata a Westminster Abbey insieme al padre, e la Glass Coach, la carozza di cristallo, messa in campo se dovesse piovere come Dio comanda. Il bello è che per arrivare all’altare, Kate camminerà lungo la navata dell’abbazia di Westminster attraverso un viale di alberi: per la precisione aceri, alti sei metri e pesanti oltre mezza tonnellata, più due carpini, scelti come illustrano con commosso entusiasmo i mezzi d’informazione «per potenziare l’effetto medioevale dello scenario».
Fortuna che doveva essere un matrimonio «low profile». Finora, di low profile, per non dire «cheap» c’è solo il vino... un bianco di Chapel Down, un’azienda del Kent, secondo quanto riferiva ieri il Daily Mail, bottiglie che costano dalle 8.50 alle 14 sterline. Altrettanto cheap, se non peggio, il parterre dei ben 1900 invitati, che oltretutto rischiano di provocare non pochi problemi alla buona riuscita del «royal wedding»: per cui, accanto a Elton John, Joss Stone, Mr. Bean ed un certo numero di ex premier conservatori (ma non i laburisti Brown e Blair), ci sarà un vario florilegio di despoti, dal re dello Swaziland che ogni anno aggiunge una nuova vergine al proprio harem di mogli, al principe saudita Abdul-Aziz fino agli ambasciatori di Iran e Corea del Nord. «Gente che sarà seduta accanto a Elton John, ma che nel loro paese lo sbatterebbero in gattabuia perché è gay», come ha scritto due giorni fa il Guardian, che insieme all’Independent sta assicurando l’unico controcanto alle cosiddette «nozze del secolo», con in più varie associazioni per i diritti umani che stanno promettendo di inscenare proteste nel bel mezzo della gran festa. L’Italia? Bisognerà cercare col binocolo: oltre all’ambasciatore Alain Giorgio Economides, ci saranno, che si sappia, solo il marchese Vittorio Frescobaldi e il conte Paolo Filo della Torre nonché Carlo di Borbone, in quanto erede del casato dell’ex regno delle due Sicilie.
Ma che importa mai, quando il resto delle televisioni di tutto il mondo si sta scatenando con dirette, fiction, salottini da chiacchiera, ricostruzioni, breaking news: così, mentre a centinaia tra cui maree di mocciosetti e file di vecchietti stanno accalcati davanti a Westminster Abbey avvolti nelle Union Jack seduti sulle seggioline pieghevoli e vestiti come degli alberi di Natale, i giornali si scatenano con un vasto catalogo di bizzarrie: va forte l’«incubo ricorrente» della futura principessa Kate che una «gola profonda» avrebbe rivelato al Sun. Ovvero, l’ex timida ragazza oggi chiamata a rivitalizzare le sorti della corona inglese sognerebbe di ritrovarsi completamente nuda davanti all’altare. «Come mamma l’ha fatta!», esultano i programmi di gossip. Alle sue spalle, un’esterrefatta regina Elisabetta, il principe Filippo e due miliardi di persone che la guardano sui loro televisori in salotto. Poi c’è un tale, sedicente «ex confidente di Lady D.», che si dice matematicamente certo che Kate scodellerà un real principino nel giro di un anno. La prova è nella storia: dice il tale che sia la regina Vittoria che la regina Elisabetta che Diana sono tutte rimaste incinta non più di dodici dal giorno delle nozze. È la verità divina del tabloid, bellezza, e tu non puoi farci niente.

L’Osservatore Romano 28.4.11
"Habemus Papam" di Nanni Moretti ovvero il dubbio senza interlocutore
Una capacità smarrita
di Emilio Ranzato


    Il cardinale francese Melville (Michel Piccoli) è solo uno dei tanti chiamati a riunirsi in conclave. E tale, probabilmente, vorrebbe rimanere. Nonostante una vita dedicata alla preghiera e una fede ancora solida, quando a sorpresa viene eletto Papa non sa se riuscirà a onorare un compito così gravoso.
    Il ripensamento è però tardivo, la fumata bianca c'è già stata, il mondo intero aspetta soltanto di conoscere l'identità del nuovo Pontefice. Sospeso clamorosamente l'annuncio, bisogna correre in fretta ai ripari. Si prova dunque a chiamare in Vaticano il noto psicanalista Brezzi (Nanni Moretti).
    Un po' per i vincoli posti alla sua indagine introspettiva, un po' per l'handicap di conoscere già la peculiarità del paziente, Brezzi preferisce però delegare l'incarico alla ex moglie (Margherita Buy), a sua volta psicanalista, che nulla ovviamente sa di Melville. Mentre l'insolito ospite rimane "prigioniero" in Vaticano per questioni di discrezione, intrattenendosi giovialmente con i cardinali, Melville farà perdere le proprie tracce, cominciando a girovagare per Roma alla ricerca di una risposta interiore.
    Ciò che si imputava a Moretti fino a qualche anno fa, ossia di indulgere in un eccessivo narcisismo, di monopolizzare l'attenzione dello spettatore con la sua personalità, oggi gli si sta rivolgendo contro. Nel senso che non riesce più a sottrarsi dallo schermo senza compromettere il risultato complessivo dei suoi lavori. A Moretti, insomma, non sta riuscendo ciò che è riuscito a Woody Allen a partire da metà carriera, ossia relegare efficacemente il proprio alter-ego cinematografico a comprimario, a spettatore, o addirittura cancellarlo del tutto.
    Lungi dall'essere opere comiche o leggere, pur se costellate da tanti momenti esilaranti di cui tutti conserviamo nella memoria almeno una battuta, i suoi film fino a Caro diario hanno descritto la solitudine e il disorientamento dell'individuo in un'Italia prima reduce dalle laceranti divisioni politiche, quindi adagiata in una bambagia piccolo borghese priva di valori e falsamente confortante.
    I tic, le manie, le nevrosi del suo personaggio di sempre diventavano così le lenti attraverso cui guardare una realtà che perdeva i suoi punti di riferimento, senza permettere allo spettatore di giudicare se erano le prime a deformare la seconda o viceversa, in una dialettica fra oggettivo e soggettivo molto stimolante. Era un cinema orgogliosamente autistico e perfettamente autonomo, proprio perché faceva del suo ripiegamento su se stesso - ivi compreso quel narcisismo in fin dei conti funzionale - un aspetto fondamentale della propria poetica. Si trattava, inoltre, di un'unità di sguardo che felicemente si sposava con la pulizia stilistica dei film più maturi, con un'economia di linguaggio che in La messa è finita raggiungeva un culmine quasi bressoniano.
    Dopo Aprile, flusso di coscienza che replicava pallidamente Caro diario, Moretti ha cominciato però a optare per un cinema più composito, forse più complesso ma non altrettanto riuscito, frutto di un lavoro di squadra in sede di sceneggiatura probabilmente inopportuno. In particolare, l'idea di spostare fuori da sé il fulcro delle crisi di volta in volta raccontate non ha pagato, e Habemus Papam lo conferma.
    Chiedere a Moretti di impersonare questo Pontefice sconquassato dai dubbi sarebbe stato troppo, ma ci si aspettava che svolgesse almeno il ruolo di contraltare dialettico, che conducesse fino in fondo quella battaglia che una battuta iniziale del film sembrava propiziare: "Il concetto di anima e quello di inconscio non possono coesistere".
    Invece, chissà perché, forse per un eccessivo pudore, Moretti si tira indietro anche da questo compito, lasciandolo alla ex moglie interpretata da Margherita Buy, un personaggio e un'attrice piuttosto sprecati. Anziché creare un parallelismo fra le due rinunce, produce in tal modo un doppio effetto negativo. Da una parte lo psicanalista rimane inutilmente da solo con i cardinali, dando vita a siparietti anche divertenti ma spogliati del significato che avevano un tempo nel cinema morettiano, e che non diventano mai, dunque, proiezione di qualcosa di più ampio. Dall'altra il Papa dubbioso perde un interlocutore che non sia la sua enigmatica coscienza, e viene abbandonato al centro di una drammaturgia troppo inerte. Di conseguenza solo la sentita interpretazione di Piccoli lo rende intenso e, a tratti, persino commovente.
    L'amara allegoria finale affidata al teatro di ?echov - asilo di esistenze sprecate e di utopistici riscatti - è anche appropriata, ma è troppo ermetica e colta. Tanto da apparire un escamotage più che una soluzione veramente ispirata. Nel frattempo, anche qui lo sguardo non si è mai allargato. Il vacillare di Melville non è diventato una paralisi morale del mondo, come invece il sapore apocalittico dell'epilogo vorrebbe adombrare. I momenti riusciti del film si concentrano dunque in singole intuizioni: la solennità del conclave in contrasto con gli umanissimi comportamenti dei suoi protagonisti; la canzone che si diffonde contemporaneamente per gli appartamenti vaticani e per le strade di Roma; l'ombra della controfigura del Pontefice, in parte inquietante, in parte rassicurante. Infine, l'idea di fondo di mischiare le carte di un mondo millenario senza però volerle stravolgere.
    Gli ingredienti messi in scena, quindi, ci parlano ancora di un autore che non fa fatica a stagliarsi sulla media del cinema italiano contemporaneo. A essersi smarrita è la capacità di comporre quegli ingredienti in un congegno efficace. Almeno da quando Moretti ha smesso di scriversi i film da solo. E di accogliere per intero dentro di sé le crisi che ci racconta.

mercoledì 27 aprile 2011

l’Unità 27.4.11
Verso un documento delle opposizioni per dimostrare che sulla Libia il governo non ha maggioranza
Di Pietro critica il Colle. Finocchiaro: «Inaccettabile». Bersani sul vertice con la Francia: «Noi a tappetino»
Il Pd vuole votare comunque «Staniamoli»
Bersani chiama gli altri leader dell’opposizione: votare in Parlamento un documento per dimostrare che il governo non ha maggioranza in politica estera. Il leader Pd sul vertice tra Italia e Francia: «Ci siamo messi a tappetino»
di Simone Collini


«Dobbiamo obbligare il governo a venire in Parlamento e verificare se ha o no una maggioranza in politica estera». Dopo essere stato informato delle ultime esternazioni di Umberto Bossi sulla Libia, Pier Luigi Bersani si attacca al telefono e chiama prima Dario Franceschini e Anna Finocchiaro, poi anche i leader di Udc, Fli e Idv. Il ragionamento, in ognuno dei colloqui telefonici, è lo stesso: l’opposizione non può restare inerte di fronte a un governo spaccato su una crisi internazionale e sull’impiego dei nostri militari.
A TAPPETINO
Bersani già era nero per il modo in cui era andato il vertice tra Italia e Francia: «Non c’è un solo dossier nel quale non abbiano vinto loro, forse solo il buon nome e la stima internazionale di cui gode Mario Draghi ci eviteranno un cappotto micidiale visto che dai temi industriali all'immigrazione fino al tema del nucleare noi ci siamo messi proprio a tappetino». E non ci è voluto molto per giungere a un accordo con gli altri leader dell’opposizione su un documento da presentare in Parlamento e mettere ai voti, così da far emergere che sui raid promessi dal premier nei colloqui internazionali il governo non è sostenuto dalla sua maggioranza.
Questa mattina il confronto dovrà andare avanti, perché è ancora da decidere sia la forma del documento (ordine del giorno, mozione o risoluzione) che il contenuto, visto che Antonio Di Pietro è contrario a sottoscrivere la posizione espressa da Giorgio Napolitano: «Bombardare una nazione non ci pare possa essere considerato uno sviluppo né naturale né costituzionalmente corretto», dice il leader dell’Idv, subito bacchettato da Anna Finocchiaro («parole stonate e inaccettabili»). L’ex pm, contrariamente a Pd, Fli e Udc che si riconoscono nelle parole del Capo dello Stato (per Bersani «la risoluzione Onu votata è già capiente»), avrebbe voluto un nuovo voto perché le Camere «non hanno mai autorizzato la guerra ad un’altra nazione». Ma di fronte alla crepa aperta tra Pd le Lega ci è voluto poco a mettere da parte le differenze e a convergere (nonostante l’Idv abbia già presentato una sua mozione) sull’iniziativa comune.
«Dopo le ultime parole di Bossi sulla Libia che certificano che in politica estera non c’è una maggioranza, mi pare davvero difficile immaginare che il Parlamento non si esprima con chiarezza», dice Franceschini, che ha contattato gli altri capigruppo dell’opposizione a Montecitorio. Le comunicazioni di oggi alle commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato da parte dei ministri Frattini e La Russa «non possono bastare», secondo il presidente dei deputati Pd, che questa mattina si riuniscono per discutere i prossimi passi. Malumori per i raid aerei, soprattutto tra gli ex-ppi, non mancano tra i Democratici. Ma sono messi a tacere, almeno per ora, grazie anche all’intervento del Quirinale.

l’Unità 27.4.11
Intervista ad Ali Abd-al-Aziz Al-Isawi
«Finalmente l’Italia ha deciso di fare ciò che
da tempo chiedevamo»
di Umberto De Giovannangeli


La decisione italiana va netta scelta di campo. Il campo giusto». A sostenerlo è Ali Abd-al-Aziz al-Isawi, ex ambasciatore di Gheddafi in India, oggi «ministro degli Esteri» del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) di Bengasi. Sul campo, il centro dei combattimenti resta Misurata. «A Misurata denuncia al-Isawi le milizie di Gheddafi continuano a sparare contro i civili. Ciò è l’ennesima riprova dell’inaffidabilità del dittatore. Aveva annunciato il ritiro delle milizie da Misurata, la realtà sono le decine di morti e i feriti di questi ultimi giorni». «I raid aerei da soli non sono in grado di proteggere i civili – ribadisce a l’Unità al-Isawi –. O la Nato ferma i carri armati del dittatore o dobbiamo essere messi in condizione di farlo da noi». Sul futuro della Libia post-Gheddafi, il ministro degli Esteri di Bengasi non sembra avere dubbi: «Non ci sarà spazio per i fondamentalisti –afferma deciso–. La nuova Libia sarà uno Stato democratico, pluralista, impegnato nel dialogo e nella cooperazione con gli altri Paesi dell’area del Mediterraneo». Questo per il futuro. Ma il presente in Libia è ancora segnato dalla guerra e dalla presenza del Colonnello e dei suoi figli. «La nostra posizione –rileva in proposito il capo della diplomazia di Bengasi– trova il sostegno degli Stati Uniti, di tutte le cancellerie europee, dei Paesi della Lega araba: non esiste trattativa con Gheddafi e i suoi figli. La loro uscita di scena è una condizione non negoziabile per qualsiasi trattativa». Parlare di Libia significa anche affrontare la questione dei migranti. «Nei recenti incontri a Roma -continua al-Isawiabbiamo documentato ai nostri interlocutori italiani la determinazione di Gheddafi di imporre a forza a migliaia di africani di imbarcarsi su carrette del mare verso le coste italiane. Sta usando migliaia di esseri umani per la sua sporca guerra. All’Italia diciamo: questo fenomeno è stato creato artificialmente da Gheddafi per impaurire e ricattare l’Europa».
Signor ministro, come valuta la decisione assunta dall’Italia di partecipare attivamente ai raid aerei contro le milizie e i centri di comando di Muammar Gheddafi?
«È ciò che avevamo chiesto all’Italia e a tutti gli altri Paesi della coalizione internazionale. Non possiamo che rallegrarci di questa decisione che, è bene sottolinearlo, è pienamente incardinata nella risoluzione 1973 delle Nazioni Unite. Non c’è nessuna forzatura, nessuno stravolgimento. Per tutelare i civili occorre colpire i centri di comando e le milizie del dittatore».
Da Misurata continuano a giungere notizie drammatiche...
«Le milizie di Gheddafi non smettono di bombardare e sparare contro i civili. La popolazione è terrorizzata. A Misurata le milizie di Gheddafi continuano a far uso di armi bandite internazionalmente, come le “cluster bombs” (bombe a grappolo)».
Ma le autorità di Tripoli avevano annunciato nei giorni scorsi il ritiro delle forze lealiste da Misurata... «È l’ennesima conferma dell’inaffidabilità di Gheddafi e della sua cricca. Lui gioca con le parole, è un maestro nell’arte della falsità. Gheddafi
comprende un solo linguaggio: quello della forza. Uscirà di scena solo quando avrà la consapevolezza di essere con le spalle al muro». Tradotto in concreto questo cosa significa?
«Significa intensificare le azioni militari. Con la consapevolezza che da soli i raid aerei, anche se intensificati, non sono sufficienti a garantire la protezione dei civili. A tutti i nostri interlocutori internazionali abbiamo ribadito la stessa cosa: non chiediamo truppe straniere sul territorio libico, ma di essere messi nelle condizioni di poter contrastare con efficacia le milizie di Gheddafi. In altri termini: o la Nato ferma i carri armati di Gheddafi oppure mette in condizione i nostri combattenti di poterlo fare. E per farlo non bastano armi difensive: i carri armati e l’artiglieria pesante di Gheddafi non si fermano certo con pistole o mitragliette».
Nei giorni scorsi, l’Unità ha documentato, con testimonianze dirette, la «guerra dei barconi» pianificata da Gheddafi contro l’Italia...
«Le cose stanno proprio così, ed è corretto parlare di “guerra dei barconi”. Gheddafi vuole usare come “bombe umane” migliaia di migranti africani costretti a forza a imbarcarsi su carrette del mare. Questa guerra è la prosecuzione di quella politica del ricatto all’Europa portata avanti da Gheddafi. Liberarsi di lui e della sua cricca è il modo più incisivo per affrontare il problema dell’immigrazione». Qualcuno teme che la Libia diventi un «califfato» di Al Qaeda...
«Ad agitare lo spauracchio di Al Qaeda è stato lo stesso Gheddafi, salvo poi minacciare di allearsi con i qaedisti. P posso assicurare che nella Libia del futuro non ci sarà spazio per i jihadisti. In Libia non esiste estremismo e il Cnt si impegna a contrastare con ogni mezzo gli interventi di Al Qaeda». C’è il rischio che lo stallo militare porti alla divisione in due Stati della Libia?
«No, questo mai. La Libia resterà unita e con Tripoli come capitale. La nostra non è stata, non è e non sarà mai una rivolta secessionista».

il Fatto 27.4.11
Chi ha tradito Tripoli
di Furio Colombo


Sto cercando di immaginare come sarà il capitolo Italia-Libia nei libri di Storia della Carlucci, cioè libri non comunisti. I protagonisti, come è noto, sono il sanguinario Colonnello Gheddafi, a cui ci lega ancora il più stretto trattato di fraterna amicizia (ratificato trionfalmente da un Parlamento quasi unanime, meno quattro gatti radicali e pochi cani sciolti); sono gli Insorti, che da due mesi vengono massacrati dal loro ex glorioso e celebrato leader; sono un presidente francese sotto elezioni che ha immediatamente capito che lo si notava di più se bombardava; sono un’alleanza detta NATO priva del tutto di visione politica al momento. E l’Italia. Il suo capo prima dice che non interviene, per non disturbare il Colonnello. Poi i nostri aerei volano come richiesto dalla NATO. Ma, ripete il ministro della Difesa tutto d’un pezzo, La Russa, “noi non bombarderemo mai”. Infine, passa da Roma un senatore americano importante e arriva a Palazzo Chigi. Ed ecco che il governo italiano, con la fierezza di chi non ce la fa più a tollerare le stragi a Misurata, proclama: “Bombardiamo anche noi”. Restiamo con tristezza, ai fatti. Primo, in tutto il mondo democratico che ha passato decenni a fare affari con la Libia non c’è uno, religioso o ateo, che abbia credibilità e forza per mediare. Qualcuno avrà ripensato con nostalgia al tempo in cui Pannella si batteva, con la Lega Araba e contro Gheddafi, per portar via Saddam Hussein dall’Iraq. Qualcuno avrà sperato in una guida ferma degli Stati Uniti, che hanno un presidente come Obama, premio Nobel per la Pace. Non è andata così. È un mondo in cui si deve chiedere un favore a Berlusconi e ti accorgi subito che stiamo vivendo in un mondo in cui, molto prima di dover correre in aiuto dei rivoltosi, si doveva correre in aiuto dei migranti fermati in mare, e tutti sanno cosa vuol dire: un cimitero nel Mediterraneo. Il Nordafrica chiedeva aiuto ben prima di Misurata. Ciò che chiedeva costa meno della guerra. Io sono fra coloro che vogliono correre in aiuto di chi si rivolta contro Gheddafi. Rimpiango che accada ora e in questo modo, e con la guerra come il solo strumento e dopo una lunga festa celebrata mentre Gheddafi stava già massacrando il suo popolo e incassando la sua taglia.

Corriere della Sera 27.4.11
Le bombe e la storia
Le bombe italiane e l’ombra del passato Per conquistare e poi «domare» la Libia compimmo massacri e crimini di guerra
di Gian Antonio Stella


Non dimenticare l’orrore di Taizerbo: ecco cosa deve tenere in mente ogni pilota italiano nel momento stesso in cui dovesse scaricare una bomba in Tripolitania.
Perché può darsi non avessimo altra scelta che accodarci alle scelte della Nato. Può darsi. Ma certo noi, in Libia, con la nostra storia, non possiamo permetterci errori. Perché laggiù, coi bombardamenti aerei, abbiamo lasciato ricordi da incubo. Fummo i primi nella storia mondiale, noi italiani, a scaricare esplosivi dal cielo. Accadde un secolo fa, l’ 1 novembre 1911, quando il genovese Giulio Gavotti, alla guida di un Etrich Taube («colomba di Etrich» , dal nome del suo creatore Ignaz «Igo» Etrich) comparve nel sole di Ain Zara, appena a sud di Tripoli. Avrebbe scritto alla madre: «Con una mano tengo il volante, coll’altra (...) estraggo una bomba e la poso sulle ginocchia. (...) Vedo due accampamenti vicino a una casa quadrata bianca uno di circa 200 uomini e, l’altro di circa 50. Poco prima di esservi sopra afferro la bomba colla mano destra; coi denti strappo la chiavetta di sicurezza e butto la bomba fuori dall’ala. Riesco a seguirla coll’occhio per pochi secondi poi scompare. Dopo un momento vedo proprio in mezzo al piccolo attendamento una nuvoletta scura» . Obiettivi militari? Civili? Gabriele d'Annunzio ne La canzone della Diana lo celebrò tonante: «S’ode nel cielo un sibilo di frombe /Passa nel cielo un pallido avvoltoio. /Giulio Gavotti porta le sue bombe» . Ma quelli, almeno, furono ordigni convenzionali. Facevano parte della guerra. Il peggio lo mostrammo due decenni dopo, nella repressione della rivolta contro l’occupazione. Culminata nelle marce forzate dalla Cirenaica verso i campi di prigionia allestiti nel deserto. La relazione ufficiale dei carabinieri sulla deportazione dell’intera tribù degli Auaghir fino al lager di Soluch, 350 chilometri di calvario, ferma il respiro: «Non furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava, veniva immediatamente passato per le armi» . Vecchi, donne, bambini: furono almeno 40 mila, ha ricostruito lo storico Angelo Del Boca, i libici morti nei campi italiani. Eppure non meno spaventosi furono i bombardamenti. Scrive ad esempio nel libro di memorie Ali sul deserto Vincenzo Biani, entusiasta di falciare pastori al pascolo: «Gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire le piste dei fuggiaschi e trovarono finalmente sotto di sé un formicolio di genti in fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si riscontra solo nelle masse sotto l’incubo di un cataclisma (...) e su di essa piovve, con gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava. Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le mitragliatrici. Funzionavano benissimo. Nessuno voleva essere il primo ad andarsene, perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo. E quando finalmente rientrammo a Sirte, il battesimo del fuoco fu festeggiato con parecchie bottiglie di spumante» . Un telegramma di Pietro Badoglio al vicegovernatore della Cirenaica Domenico Siciliani e a Emilio De Bono, ricorda nel libro L'Africa del Duce: i crimini fascisti in Africa Antonella Randazzo, «consigliava di essere spietati: "Si ricordi che per Omar al-Mukhtar occorrono due cose: primo ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe a iprite"» . E il consiglio fu rispettato alla lettera. Una volta, racconta il nostro Biani quasi divertito, «furono adoper a t e alcune bombe ad iprite, abbandonate dal tempo di guerra in un vecchio magazzino ed esse produssero un effetto così sorprendente che i bersagliati si precipitarono a depositare le armi» . Quale fosse l’effetto «sorprendente» di quelle bombe, vietate da tutte le convenzioni internazionali ma apprezzate da quel macellaio del maresciallo Rodolfo Graziani, lo leggiamo in un rapporto dei carabinieri dopo il bombardamento del 31 luglio 1930 dell’oasi di Taizerbo con 24 ordigni da 21 chili caricate a iprite, rapporto recuperato per il libro Genocidio in Libia da Eric Salerno. «Ieri ho interrogato il ribelle Mohammed bu Ali Zueia di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento a gas effettuato a Taizerbo» scriveva l’ufficiale, «Il predetto (..) arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, e seppe che quali conseguenze immediate vi sono quattro morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo coperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare, che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoriuscita di liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. Riferisce ancora che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il bombardamento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma tutte le parti del corpo ove le mani infette si posavano» . Che l’uso della iprite fosse comune negli attacchi quotidiani e addirittura nelle operazioni di polizia, esattamente come sarebbe stato poi in Eritrea, è confermato da un rapporto del governatore della Cirenaica Attilio Teruzzi del febbraio 1928: «Sembra che nello Zeefran Heleighima ribelli abbiano abbandonato quaranta tende, di cui venti coniche, in seguito ripetuti bombardamenti gas» . Non c’è dunque da meravigliarsi se Scek Arslan, nel libro Un esponente del Movimento panislamico, descrisse la conquista di Cufra con parole tremende: «La storia dell’umanità, anzi la storia dei barbari, non ha mai registrato fin adesso maggiori atrocità né più vili, né più selvagge di quanto hanno fatto, questa volta, gli italiani in Tripolitania e nella Cirenaica (...) Gli italiani si sono incamminati verso Cufra preceduti dagli aeroplani che incominciarono a lanciare bombe sulle abitazioni uccidendo gran numero di donne, bambini e vecchi...» . Conferma la Randazzo: «Si verificheranno per tre giorni violenze sfrenate e continui saccheggi da parte degli italiani sulla popolazione: fucilazioni indiscriminate, torture anche sui bambini e sui vecchi (ad alcuni vengono estirpati unghie e occhi), indigeni evirati e lasciati morire dissanguati, donne incinte squartate e feti infilzati, testicoli e teste portati in giro come trofei...» . È questa, purtroppo, la storia che abbiamo alle spalle. Questo è il ricordo, gonfiato poi da decenni di propaganda, che hanno di noi i libici. Sperare oggi che ogni nostra mossa sia dettata dal senso della misura, tanto più dopo il rovesciamento di un rapporto che aveva visto il Cavaliere baciar l’anello di Gheddafi, è il minimo: prudenza, prudenza, prudenza.

Corriere della Sera 27.4.11
Le crisi nordafricane e la questione palestinese
risponde Sergio Romano


Sarei lieto di sapere quali scenari e assetti politici mediorientali dovrebbero emergere dalle recenti rivolte popolari e cadute di regimi per favorire maggiormente la soluzione della decennale questione palestinese, che rappresenta uno degli ostacoli più seri alla pacificazione di tutta l’area mediorientale. Inoltre, la partecipazione del movimento dei Fratelli Musulmani alla costruzione democratica dello Stato egiziano, se la situazione evolverà in questa direzione, potrà influire sul destino dei tanti movimenti e gruppi di ispirazione fondamentalista sparsi nelle varie aree del Medio Oriente? Fabrizio Materi, Lecce Caro Materi, A lla sua prima domanda — quale sarà dopo le rivolte il paesaggio politico e istituzionale del Medio Oriente — sarebbe più facile rispondere se conoscessimo i nomi, i volti, le idee e il retroterra culturale di coloro che finiranno per guidare il movimento di protesta. Qualche prudente previsione è possibile in Egitto dove la transizione è nelle mani dell’esercito, vale a dire di una istituzione con cui abbiamo una certa familiarità. Le stesse considerazioni valgono per la Tunisia dove il governo, per il momento, è composto dai notabili meno compromessi con il regime di Ben Ali e assomiglia a quello che si costituì in Italia sotto la presidenza del maresciallo Badoglio dopo la caduta di Mussolini. In Libia, invece, le incognite sono molto più numerose delle certezze. I ribelli della Cirenaica parlano il linguaggio della democrazia perché è quello che ha maggiori possibilità di suscitare l’attenzione dell’Occidente e di rafforzarlo nella convinzione che il suo modello politico sia un passepartout universale. Ma non sappiamo se e quanto saranno democratici dopo la conquista del potere. I loro leader sono uomini coraggiosi e intelligenti, ma non possiamo dimenticare che sono stati sino all’altro ieri amici, sodali e collaboratori di Gheddafi. In Siria la crisi è ancora aperta, ma è difficile immaginare che il partito del potere sia disposto a fare un passo indietro con riforme non puramente cosmetiche. Nel Golfo Persico infine la situazione non è meno confusa, ma la regia sembra essere nelle mani dell’Arabia Saudita: una constatazione che suscita ottimismo fra i paladini della stabilità, pessimismo fra quelli delle riforme. Sul secondo punto evocato dalla sua lettera (la questione palestinese) osservo che qualcuno vorrebbe rimetterla all’ordine del giorno senza aspettare la fine di una crisi da cui potrebbero discendere nuove complicazioni. Questa è la posizione del presidente della Repubblica turca Abdullah Gul (International Herald Tribune del 22 aprile) e, a quanto pare, della stessa presidenza americana. Ma gli israeliani, pur essendone consapevoli, hanno un governo troppo diviso e sfaccettato per potersi muovere con la necessaria flessibilità. In questa situazione il leader palestinese Mahmud Abbas ha ricordato che il termine utile per la conclusione di un nuovo negoziato è settembre. Se non vi sarà un accordo entro quella data, i palestinesi si rivolgeranno all’Onu per chiedere che la sua assemblea riconosca il loro Stato nei confini del 1967: una decisione che avrebbe effetti pratici difficilmente prevedibili, ma metterebbe Israele in grave imbarazzo.

Repubblica 27.4.11
Siria, l’appello di Dera’a al mondo "Qui è un massacro, salvateci"
Al confine con la Giordania la disperazione di chi è scappato dalla città-martire
di Fabio Scuto


"Mi hanno detto che in città ci sono stati 200 morti e fra loro molti della nostra famiglia"
"I soldati vanno nelle case e portano via gli uomini Qualcuno è stato ucciso a freddo"

RAMTHA (frontiera giordano-siriana) - «E´ un massacro! E´ un massacro», urla disperato Massalmeh dopo aver contattato la sua famiglia che vive a Dera´a. Le notizie che ha ricevuto lo fanno cadere in ginocchio in mezzo alla strada, il telefonino finisce in terra, trema e piange disperato. «Mi hanno detto che in città ci sono stati duecento morti, e fra loro molti della nostra famiglia. Li stanno massacrando», urla disperato questo commerciante siriano che solo due giorni fa ha passato la frontiera per venire a fare acquisti in Giordania. Le voci dall´inferno di Dera´a arrivano col telefonino, sono in tanti nella città sotto la morsa dell´esercito di Assad ad avere schede telefoniche giordane, del resto la città martire della rivolta è una manciata di chilometri oltre la sbarra di questa frontiera chiusa per ordine di Damasco. Da due giorni a Dera´a spadroneggiano le truppe speciali di Damasco, migliaia di soldati sono per le strade appoggiati dai carri armati, i cecchini appostati sui tetti, i rastrellamenti si susseguono casa per casa. Dall´alba di lunedì le strade di questa cittadina di meno di centomila abitanti sono un campo di battaglia.
A Ramtha qualcuno cerca di confortare Massalmeh, altri prendono il telefonino e cercano di raggiungere parenti e amici dall´altra parte della frontiera. «Spari e esplosioni continuano da due giorni. I tank girano per le strade, i militari delle forze speciali vengono casa per casa e si portano via gli uomini, qualcuno è stato ucciso a freddo sul marciapiede», urla nel telefono Abdallah, che chiede di non pubblicare il suo nome intero per timore delle rappresaglie, «abbiamo paura ma lo dobbiamo dire a tutto il mondo, vi prego dovete venirci a salvare». Un altro numero e un´altra voce disperata. «Ci hanno tagliato l´elettricità, i telefoni fissi, l´acqua corrente, hanno anche sparato sulle cisterne che stanno sui tetti dei palazzi per farci morire di sete. Non abbiamo più nulla in casa, impossibile uscire per cercare qualcosa da mangiare, i miliziani sparano su qualunque cosa si muova».
Le strade di accesso alla città sono bloccate da carri armati e barricate, non arrivano rifornimenti di nessun tipo. Gli ospedali invasi da centinaia e centinaia di feriti non riescono più a far fronte all´emergenza, manca ormai tutto, anestetici, bende, garze, sangue. In tanti invocano una tregua umanitaria di qualche ora ma per adesso da Damasco non è arrivata nessuna risposta. Ma nella tenuta del regime di fronte all´ondata di proteste e alla feroce repressione ordinata dal presidente Bashar Assad si sarebbe aperta qualche crepa. C´è stata una lunga sparatoria intorno a una delle caserme principali della città, i soldati di leva si sarebbero rifiutati di intervenire contro la folla e di partecipare ai rastrellamenti dei civili, alcuni militari della Quinta divisione avrebbero disertato per unirsi alle proteste.
La mano dura del regime ha colpito ieri anche altre città. Forze di sicurezza fedeli al presidente Assad sono nelle strade che portano a Douma - un sobborgo alla periferia di Damasco - posti di blocco impediscono l´ingresso e l´uscita, ci sono numerosi mezzi militari con armi pesanti. A Banyas, sulla costa mediterranea, ma anche a Jableh - nel nord - in migliaia ieri sono scesi nelle strade al grido di «Libertà, libertà» in solidarietà con gli abitanti di Dera´a. Dalle due caserme di Banyas non è uscito nessun mezzo militare, ma la popolazione denuncia che truppe meccanizzate stanno prendendo posizione sulle colline circostanti e si teme che la prossima città su cui si abbatterà la repressione sia proprio Banyas.
Il regime, incurante delle pressioni internazionali, va avanti per la sua strada con la «soluzione militare» per tentare di fermare le proteste che da sei settimane scuotono la Siria. Caccia aperta nelle città agli oppositori e agli attivisti dei diritti umani, basta il possesso di un telefono satellitare per essere accusati di «avere contatti con entità straniere ostili», essere bollati come «traditori» e scomparire nelle carceri speciali. Il lifting delle leggi speciali in vigore dal 1963 annunciato da Assad è stata solo una manovra per guadagnare tempo. Dominato dai membri della minoranza alawita, il regime deve la sua sopravvivenza alla lealtà delle Forze speciali e servizi segreti che vengono da quei ranghi, se andasse incontro alle richieste della piazza segnerebbe la sua fine. Come Gheddafi in Libia, Bashar Assad ha deciso di resistere fino all´ultimo, portando la Siria verso la guerra civile.

l’Unità 27.4.11
Il costituzionalista Alessandro Pace: dal governo un trucco pro-atomo
«Ma il referendum può saltare solo se si cancella totalmente il nucleare»
«L’abrogazione era solo un bluff». L’ultima parola alla Cassazione
di Maria Zegarelli


Per il professor Alessandro Pace, costituzionalista, nonché curatore dei quesiti referendari per l’Idv, le parole pronunciate ieri da Silvio Berlusconi sul nucleare sono tesoro prezioso per la memoria a cui sta lavorando in vista del ricorso davanti all’ufficio centrale dei Referendum presso la Cassazione. «È la prova che l’emendamento presentato con il decreto omnibus per abrogare il piano al ritorno al nucleare è in realtà una moratoria mascherata. Berlusconi con le sue dichiarazioni ha ribadito che è una sospensione temporanea e che dopo la data del referendum si potrebbe ripartire con le centrali nucleari». Un bluff, niente altro che questo, secondo il noto costituzionalista che spiega dove si insinua lo spiraglio per confermare il referendum da una parte e per permettere al governo di tornare alla carica dall’altra. «È tutto scritto nel primo e nell’ottavo comma dell’articolo 5 che abroga il piano di realizzazione di nuovi impianti nucleari» spiega al telefono dalla Sicilia. Laddove, cioè, si scrive che “al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche” sulla sicurezza nucleare non si procede al piano di nuclearizzazione ma, entro un anno il Consiglio dei ministri (e non il parlamento) adotta «la Strategia energetica nazionale» anche alla luce delle valutazioni europee e internazionali sulla sicurezza delle tecnologie disponibili. Altrimenti detto: non si esclude affatto il ritorno all’atomo. È il combinato disposto di questi due commi che svela il trucco del governo: abrogare questo piano senza escluderne uno futuro, possibilmente fra un anno quando l’impatto emotivo della tragedia nucleare giapponese avrà perso il suo effetto e, soprattutto, quando anche il referendum sul legittimo impedimento sarà stato affossato dal mancato raggiungimento del quorum. «Tran-
ne che in questi due punti il resto dell’articolo 5 spiega ancora Pace è stato scritto per affossare il referendum, comma dopo comma». Altrimenti non si spiega perché la maggioranza al Senato ha bocciato il sub-emendamento presentato dall’Idv che prevedeva l’abrogazione della prima parte del primo comma che recita: «Al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche, mediante il supporto dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Ue» non si procede alla realizzazione del piano nucleare.
Per l’Idv sarebbe bastato partire da quel «non si procede alla definizione e attuazione» del programma energetico nucleare per abrogare davvero il ritorno all’atomo.
SECONDO LA LEGGE
«Il procedimento referendario è disciplinato dalla legge 352 del 1970 spiega Tania Groppi, docente di diritto costituzionale all’Università di Siena e prevede la possibilità che una nuova normativa, presentata prima della data del referendum, abroghi in maniera sufficiente quella oggetto della richiesta referendaria. Ed il punto è tutto qui: l’ufficio centrale del referendum riterrà sufficiente la normativa studiata ad hoc per affossare il referendum sul nucleare (pensando a quello sul legittimo impedimento)? «Come costituzionalista posso dire che il referendum può saltare soltanto se una legge abroga totalmente quella per cui era stato richiesto. Come semplice cittadina annoto che insieme al quesito sul nucleare c’è anche quello sul legittimo impedimento che interessa al presidente del Consiglio».

Repubblica 27.4.11
Sull’imbroglio decida la Consulta
di Stefano Rodotà


Sia lode al presidente del Consiglio. Con la disinvoltura istituzionale che lo contraddistingue ha svelato le vere carte del governo sul nucleare, carte peraltro niente affatto coperte. La frode legislativa, già evidente, diviene ora conclamata. Berlusconi è stato chiaro. Un tema tanto importante come il nucleare non può essere affidato a cittadini "spaventati" da quanto è avvenuto in Giappone, che debbono "tranquillizzarsi". Meglio, dunque, non far votare un popolo emotivo, disinformato. Gli abbiamo scippato con uno stratagemma un referendum che avrebbe reso impossibile per anni il nucleare, e ora abbiamo le mani libere per tornare in pista già tra dodici mesi. Gabbati i cittadini, ma rassicurati gli imprenditori, poiché il presidente del Consiglio si è premurato di dire che i rapporti tra Enel e Electricité de France andranno comunque avanti.
Un governo e una maggioranza senza dignità accantonano uno dopo l´altro gli strumenti della democrazia, non hanno neppure il pudore della reticenza, teorizzano il silenzio dei cittadini. Ma si può davvero restare passivi davanti a questo gioco delle tre carte istituzionali? Il famigerato emendamento approvato dal Senato diceva chiaramente quale fosse l´obiettivo che si voleva perseguire. Le parole di Berlusconi confermano l´interpretazione dei tanti che avevano sottolineato come la formale abrogazione delle norme sulle centrali nucleari fosse un espediente, anzi un imbroglio, per far sì che la politica nuclearista potesse continuare e per impedire che la partecipazione al voto di cittadini emotivi facesse raggiungere il quorum, consentendo così anche il successo del temutissimo referendum sul legittimo impedimento.
È bene ricordare i fatti. Quell´emendamento si presenta formalmente come una abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario. Ma il primo e l´ultimo comma dicono il contrario. Si comincia con lo stabilire che il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite "nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell´Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea". E alla fine si dice che lo farà entro dodici mesi adottando una "Strategia energetica nazionale", per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare, di cui peraltro si parla esplicitamente all´inizio dell´emendamento. Il Parlamento ha trangugiato senza batter ciglio questa brodaglia, ennesimo esempio dell´incultura politica e istituzionale che ci circonda.
Una volta che il decreto nel quale è stato infilato l´emendamento sarà stato convertito in legge, la parola passerà all´Ufficio per il referendum della Corte di Cassazione, che ha il compito di accertare se la nuova legge va nella direzione voluta dai promotori. Se la sua valutazione è positiva, il referendum non si tiene. Nel caso contrario, il referendum è "trasferito" sulle nuove norme e si va al voto. Dopo la clamorosa confessione pubblica del presidente del Consiglio, è dichiarato l´obiettivo di impedire il rispetto della volontà dei promotori.
A questo punto, però, le cose si complicano assai. Che cosa accadrebbe, infatti, se la Cassazione, prendendo atto della frode ai danni dei cittadini, decidesse di far tenere il referendum facendo votare pro o contro l´abrogazione dell´emendamento-imbroglio? Se gli elettori votassero sì all´abrogazione, cancellerebbero certamente le norme con le quali il governo ha voluto riservarsi di riprendere la politica nucleare a proprio piacimento. Ma cancellerebbero pure la parte dell´emendamento che abroga le attuali norme sul nucleare. Queste tornerebbero in vigore, ridando al governo, da subito, il potere di procedere sulla strada della costruzione delle centrali nucleari.
Come uscire da questo pasticcio? Facciamo un passo indietro. Nel 1978 la Corte costituzionale dovette affrontare appunto il problema di norme che, abrogando le disposizioni alle quali si riferiva il referendum, non rispettavano la volontà dei promotori. La soluzione fu trovata dichiarando l´incostituzionalità della norma della legge sul referendum che non prevedeva questa eventualità, e prevedendo il trasferimento del referendum sulle nuove norme. Ma, di fronte all´imbroglio attuale, questa strada non è praticabile, poiché produrrebbe l´esito paradossale di un voto referendario che si ritorce ancora di più contro l´intenzione dei proponenti. La Cassazione, allora, potrebbe sollevare la nuova questione, investendone la Corte costituzionale che, come nel 1978, dovrebbe cercar di porre riparo all´ennesima torsione alla quale il governo attuale sottopone le istituzioni.
Una parola sul modo in cui Berlusconi considera i cittadini, ai quali sarebbe precluso il diritto di votare in situazioni di emotività, di sostanziale incompetenza. Già in occasione del referendum sulla legge sulla procreazione assistita, nel 2005, uno degli argomenti adoperati per indurre all´astensione fu quello che sottolineava la complessità tecnica di taluni quesiti, che avrebbe impedito ai cittadini di esprimere una valutazione adeguata. Tutti questi sono argomenti pericolosissimi dal punto di vista democratico, perché subordinano la possibilità di votare al giudizio che qualcuno esprime sulla competenza di ciascuno di noi e mettono così "sotto tutela" la stessa sovranità popolare. In questi casi la via non è quella del silenzio forzato, ma dell´informazione adeguata, quella che produce lo "scientific citizen", il "cittadino biologico", cioè persone dotate dei dati che le mettono in condizione di formarsi una opinione critica. È un caso che la Commissione di vigilanza della Rai non abbia ancora approvato il regolamento sulle trasmissioni per i referendum, precludendo ai cittadini proprio quell´accesso all´informazione che li riscatterebbe dall´emotività?

Corriere della Sera 27.4.11
Sarkozy alza la voce con Berlusconi: basta attacchi sui tuoi giornali
Il racconto del Cavaliere sulle origini libiche del bunga bunga
di Maurizio Caprara


ROMA— Fuori, nei giardini che raccoglievano giornalisti e troupe televisive italiane e straniere, non si è sentito. Ma ieri nella sala di Palazzo Madama che ospitava il vertice bilaterale italo-francese presentato come occasione di pacificazione si è gridato. Le fonti sentite dal Corriere divergono su due interpretazioni: quanto Silvio Berlusconi si sia opposto con determinazione ai veri altolà di Nicolas Sarkozy. Una ha descritto un presidente del Consiglio arrendevole e un’altra più deciso. Entrambi tuttavia sono state convergenti nel descrivere un presidente francese infuriato, e un vertice del tutto privo dei sorrisi prodotti nella conferenza stampa dal «Cav» e da «Sarko» finale come copertina dell’evento da destinare al pubblico. Il capo di Stato francese si sarebbe presentato urlando, arrabbiato per la copertina del 31 marzo di Panorama, testata di Berlusconi. In una fase acuta delle tensioni tra Palazzo Chigi ed Eliseo sul da farsi riguardo alla rivolta contro Muammar el Gheddafi, e sulla sorte di migranti e profughi arrivati dal Maghreb a Lampedusa, il settimanale pubblicava un ritratto di Sarkozy vestito come Napoleone e titolava così: «Sarkofago -La guerra in Libia. Il presidente francese voleva trascinarci in un duello mortale. Ecco come l’Italia ha ridimensionato la sua smania di protagonismo» . Che per la missione sui cieli libici voluta dall’Eliseo Berlusconi abbia ceduto alle pressioni americane, britanniche e francesi per aumentare di numero e di funzioni gli aerei italiani, adesso autorizzati a far fuoco, non è bastato ad archiviare quella copertina. Sarkozy si è lamentato della descrizione del suo Paese data su molti mezzi di informazione italiani, in particolare del Cavaliere. Attacchi inaccettabili, secondo il presidente della Francia, uomo di destra che dietro le porte chiuse dell’incontro ha elencato al capo del governo e del centro destra italiano una lista di richieste con toni ultimativi. Su Parmalat e Lactalis, su altre aziende, sul resto. Una delle fonti presenti alla riunione riferisce che Berlusconi non avrebbe opposto particolari resistenze. Avrebbe incassato l’appoggio francese alla designazione di Mario Draghi per la guida della Banca centrale europea. Tuttavia, osserva, l’attuale governatore della Banca d’Italia gode all’estero di forza propria, la vittoria è relativa. Sta di fatto che il presidente del Consiglio italiano ha portato all’ordine del giorno del vertice il Bunga bunga. Berlusconi si è messo a spiegare la sua versione sull’origine gheddafiana di questa espressione (ormai nota in più parti del mondo per indicare le feste del Cavaliere con Ruby e altre). Sarko è parso in imbarazzo. Il ministro francese dell’Economia Christine Lagarde, donna elegante con i capelli argentati, si è girata dall’altra parte. Nella delegazione italiana c’è chi in privato ha definito quasi inaccettabili i toni di Sarkozy. La fonte che attribuisce a Berlusconi di aver tenuto di più il punto sulle questioni in agenda sostiene che il ministro dell’Economia Giulio Tremonti non ha gradito il sì di Sakozy a Draghi. Il presidente francese, che in pubblico ha citato Tremonti con garbo, avrebbe aggiunto: «So che il governo italiano ha una posizione, mentre Tremonti ne ha un’altra» . Niente male come vertice di pacificazione. Si vocifera che in maggio Bengasi, capitale dell’insurrezione libica, potrebbe essere visitata da Sarkozy, Berlusconi e il premier britannico David Cameron. Se è vero, non sarà facile un viaggio sullo stesso aereo.

l’Unità 27.4.11
Testamento biologico
Quest’Italia così lontana dall’Europa
di Carlo Troilo


Da domani al 29 aprile effettuerò un nuovo «digiuno di dialogo» con i deputati perché votino contro la legge sul testamento biologico. Oltre a ricordare loro la palese incostituzionalità della legge, vorrei richiamare l’attenzione su un grave pericolo. In queste settimane tutti hanno criticato – giustamente l’egoismo dell’Europa dinanzi al dramma dei migranti. Ma pochi si sono chiesti per quali ragioni (oltre a Berlusconi, che è già un ottimo motivo) i Paesi europei comparabili con il nostro ci guardano con sospetto. Questo avviene perché sulla laicità dello Stato e sui temi dei diritti civili l’Europa ci
avverte come diversi e lontani. Ebbene, questa legge, se approvata, ci renderebbe ancora più «diversi»: il solo Paese che non ha norme moderne sulle scelte di fine vita; che non riconosce alcun diritto alle unioni di fatto (danneggiando così soprattutto le coppie gay); in cui una legge incostituzionale sulla procreazione assistita costringe le coppie più abbienti a cercare all’estero una maternità sicura; dove la nostra valida legge sull’aborto viene sabotata da una stragrande maggioranza di ginecologi «obiettori di coscienza»; dove le carceri sono un luogo di morte; dove non si trovano mai i fondi per assicurare a decine di migliaia di malati terminali le necessarie cure palliative o per alleviare le pene di tre milioni di disabili.
Ma vi è un’altra differenza abissale con i Paesi europei comparabili, dove le Chiese non si intromettono nel processo legislativo. Da noi, nel 150 ̊ anniversario della Unità d’Italia, dobbiamo constatare che la «questione romana» si è riaperta ma rovesciata rispetto ai tempi di Porta Pia. Il Vaticano non è pago degli scandalosi privilegi finanziari concessi dallo Stato: duemila miliardi, cinque volte gli stanziamenti in favore di tutti i nostri Beni Culturali. Vuole dettare legge, ieri sulla procreazione assistita, oggi sul testamento biologico. Pochi esempi. Wojtyla minacciava di scomunicare i farmacisti che vendevano la «pillola del giorno dopo»; Ratzinger è arrivato a dire che spesso sono i ginecologi che spingono le donne ad abortire. Cardinali e Vescovi hanno definito «assassini» i medici che hanno aiutato Pier Giorgio Welby ed Eluana Englaro a trovare finalmente una «morte opportuna». Per Welby la vendetta è stata il rifiuto dei funerali religiosi, concesso negli stessi giorni a Pinochet. Per Eluana la vendetta è la legge Calabrò, che impedirebbe ai giudici di emanare sentenze umane e renderebbe obbligatorio il «sondino di Stato».
Recentemente un giornalista dell’Avvenire ha contestato le mie cifre (che ho verificato ai massimi livelli dell’Istat) secondo cui ogni anno 1.000 malati terminali si suicidano perché non possono ottenere l’eutanasia. Sono molti di meno, ha scritto , ipotizzando che siano poco più di 300. Cari teodem: 300 suicidi vi sembrano pochi? Non bastano per risvegliare in voi quello che a noi non credenti appare come il più nobile valore del cristiamesimo, la pietà?

l’Unità 27.4.11
In Aula oggi il ddl che vuole imporre l’obbligo di alimentazione e idratazione forzata
Sitin a Montecitorio del comitato Coscioni. Oltre duemila gli emendamenti presentati
Sul testamento biologico fretta elettorale di Pdl e Lega
Dibattito soffocato, il Pdl vuole procedere a colpi di maggioranza. Casini presenterà una richiesta di inversione dell’ordine dei lavori per accelerare l’iter del ddl. Marino: «Legge che viola la libertà di cura».
di Jolanda Bufalini


La legge che prevede l’obbligo di idratazione e alimentazione in ogni caso, escludendo che si tratti di un trattamento sanitario, torna oggi all’ordine del giorno dei lavori d’aula alla Camera. Al punto dieci, quindi con buona probabilità di slittare se non fosse che Pier Ferdinando Casini e l’Udc hanno cambiato idea rispetto alla capigruppo che ha votato l’ordine dei lavori. Il 19 aprile, a fronte della richiesta di Pdl e Lega di esaminare il provvedimento entro aprile, ad opporsi furono proprio l'Udc e il Pd. Ma, in seguito, il vice presidente dell'Udc alla Camera, Gian Luca Galletti rese nota la disponibilità del gruppo a lavorare «anche oltre i giorni e i tempi previsti». Poi l'annuncio di Casini che questo pomeriggio presenterà la richiesta, sostenuta da Pdl e Lega, di inversione dell’ordine del giorno. A questo punto, secondo il relatore di maggioranza Domenico Di Virgilio per i tempi sull’approvazione, tutto dipende dal documento economico finanziario per il quale l’Aula è prenotata giovedì, il presidente dovrà decidere se calendarizzare il testamento biologico venerdì per andare al voto, presumibilmente, la settimana successiva, oppure, se sarà rinviato il testo finanziario, «si potrebbe arrivare al voto venerdì stesso».
Una prospettiva che non piace affatto alle opposizioni che considerano il ddl anti-costituzionale, far questi il senatore Ignazio Marino: «Se non è incostituzionale dire che i pazienti sono costretti a sottoporsi a cure mediche io non so cosa lo sia». I deputati radicali eletti nelle liste del Pd ha presentato 2000 emendamenti, cercando così di scongiurare l’approvazione in tempi rapidi di un provvedimento che «in realtà ha bisogno di dibattito e di maturazione delle coscienze». 69 sono gli emendamenti presentati dall’Idv e altrettanti dal Pd, 49 quelli del gruppo e una ventina da parte dei singoli deputati. Fli ha presentato un emendamento sostitutivo di tutto il testo. Ma, prima degli emendamenti, in Aula si dovranno discutere le eccezioni di costituzionalità.
Dunque, nonostante l’accelerazione che la maggioranza tenta di dare al provvedimento, magari per trovare un tema su cui compattarsi rispetto ai tanti motivi di divisione, l’iter della legge, nello slalom con il documento economico-finanziario, potrebbe non essere facile. L’accelerazione alimenta i sospetti di strumentalità, per Margherita Miotto, capogruppo Pd agli Affari sociali: «L'uso che la destra fa del Ddl sul testamento biologico la dice lunga sulla loro strumentalità su questa materia. Impediscono che la discussione su un tema così delicato abbia la necessaria continuità. Hanno imposto il rinvio in Aula ad aprile in modo da soffocare il dibattito con i tempi contingentati, adesso sono presi da una improvvisa fretta.
In piazza Montecitorio, dalle 16, si svolgerà il sit in convocato dalla associazione Coscioni, parteciperà anche Ignazio Marino: «La maggioranza del Pdl deve spiegare perchè chi ha vinto le elezioni può sopraffare la libertà individuale sulla scelta delle cure mediche».

Repubblica 27.4.11
L’ambiguo rapporto Stato-Chiesa
risponde Corrado Augias


C aro Augias, lei ha parlato di recente del problema dell'insegnamento della religione nelle scuole. Non è necessario essere un giurista per capire che gli articoli 3 e 20 della nostra Costituzione sono in contrasto con i privilegi concessi alla religione cattolica. In particolare mi riferisco proprio all'insegnamento nelle scuole pubbliche. Tutto risale all'errore di Togliatti quando fece approvare l'articolo 7 che confermava il Concordato di Mussolini con la Santa Sede. La fretta di concludere lo spinoso problema aperto dal Vaticano, fece dimenticare ai costituzionalisti la contraddizione che si apriva con gli articoli 3 e 20. Il secondo errore lo fece Craxi nel 1984 quando modificò il Concordato. Il leader socialista si accontentò di una vittoria formale: venne cancellata la dicitura "religione di Stato". La Chiesa cattolica però conservò tutti i privilegi sostanziali. In particolare conservò il privilegio di scegliere o revocare gli insegnanti di religione (cattolica) pagati dallo Stato laico. Da noi insomma, tutte le religioni sono uguali, ma il cattolicesimo è il più uguale.
Gianfranco Dugo

Il famoso articolo 7, brevissimo, recita: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi». Con questo articolo i "Patti lateranensi" firmati da Mussolini nel 1929 entrarono nella Costituzione repubblicana anche se: «Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». I comunisti, ovvero Togliatti, votarono l'articolo per due essenziali ragioni: dopo un periodo di divisioni anche sanguinose tra italiani (si era nel 1947) parve saggio cercare una pacificazione anche sul terreno religioso. C'era poi la speranza che un atteggiamento conciliante avrebbe favorito la loro permanenza al governo. Dopo le elezioni del 1948, invece, date anche le pressioni degli Stati Uniti, il Pci venne cacciato. Nel 1984 Craxi cercò di adeguare i "Patti" del '29 ai tempi nuovi. Si scontrò però con la consumata diplomazia vaticana che riuscì, tra l'altro, ad ottenere il lucroso "8 per mille" in sostituzione dell'antiquata "congrua" pagata ai preti dallo Stato. Anche se non più "religione dello Stato" il cattolicesimo riuscì a mantenere ampi privilegi soprattutto in virtù della sua secolare presenza nella penisola. Nel 2011 e con i tumultuosi cambiamenti anche religiosi in corso, un nuovo e più equo Concordato (ancora meglio, nessun concordato) sarebbe auspicabile. Ma ci vorrebbe un governo consapevole di che cosa significhi vivere in una repubblica laica. Con l'aria che tira, temo che ogni cambiamento sarebbe in peggio, tanto vale restare nell'attuale ambiguità.

l’Unità 27.4.11
La leader Cgil «Per noi la politica deve essere strumento per migliorare le condizioni delle persone»
La ricerca di unità con Cisl e Uil «è un punto di riferimento perché un sindacato diviso è più debole»
Sciopero politico? Sì grazie Camusso: «Non è un’offesa»
La Cgil continua a preparare lo sciopero generale del 6 maggio. Fisco, lavoro, sviluppo sono i temi centrali della confederazione. Domenica Primo Maggio la manifestazione unitaria a Marsala.
di Valeria Tancredi


Uno sciopero politico? Non si offende Susanna Camusso, numero uno della Cgil che ieri a Bologna durante un incontro con i delegati in vista dello sciopero generale del 6 maggio ha voluto rispondere a chi «dice che sarà uno sciopero politico per denigrarlo ed esporlo a pubblico ludibrio».
E lo ha fatto ripercorrendo le tante ragioni che hanno portato il suo sindacato ad organizzare uno sciopero generale in solitudine: «Sì -rivendica il segretario generale quello del 6 maggio sarà uno sciopero politico perché per noi la politica deve tornare a essere quello straordinario strumento di miglioramento delle condizioni delle persone».
E la politica italiana attuale è, insieme alla crisi economica, ciò che più preoccupa il segretario generale che ha definito la politica industriale del Governo «inesistente», come dimostrano le iniziative «estemporanee» di Tremonti che invece di promuovere azioni che incentivino la ripresa continua a sfornare, insiste Camusso, «manovre depressive» come l’ultimo Def (documento di economia e finanza). Un Governo che secondo la leader sindacale rifiuta di fare l’unica mossa che servirebbe davvero: «Emanare il decreto per dare il via alla riforma fiscale». La leva fiscale infatti, ha detto Camusso: « È il primo strumento per riequilibrare la distribuzione ingiusta della ricchezza di questo paese che con questa crisi si è accentuata. Non è vero che non è aumentata la pressione fiscale, sono aumentate le tariffe e i beni anche di prima necessità. Tutto ciò va ad incidere in primis su lavoratori dipendenti e pensionati».
Difficile però che un Capo del governo che «fa ostentazione della sua ricchezza per dimostrare che lui può arrivare dove altri non arrivano» possa promuovere una fiscalità più equa, finalizzata a ridurre le diseguaglianze. E non c’è bisogno che Berlusconi arrivi al Quirinale per far venire i brividi alla Camusso che rabbrividisce già ora all’idea che sia Presidente del Consiglio.
In questo quadro dunque, riflette la leader sindacale, la mancanza di unità sindacale è un problema: «Noi siamo da sempre coscienti e convinti che un sindacato diviso è semplicemente un sindacato più debole. La ricerca dell'unità resta sempre il nostro punto di riferimento, poi ci misuriamo con le difficoltà e le differenze che ci sono». Difficoltà e differenze che a Bologna hanno portato la Cgil a decidere di festeggiare il 1 ̊ maggio senza Cisl e Uil, decisione che Camusso invita però a «non drammatizzare».
E il tema del lavoro per la Cgil non può essere slegato dal tema precarietà: «È giunto il tempo di restituire ai ragazzi e alle ragazze di questo paese il diritto di diventare adulti e alle loro famiglie di non essere l’unico ammortizzatore sociale». La strada però non può essere quella di rinunciare ai diritti perché, ha detto Camusso: «Per noi il lavoro è quello stabile e corredato da garanzie». Pollice verso quindi alla proposta di alcuni giuslavoristi del contratto unico con garanzie crescenti, appoggiata nel Pd da Ichino: «Critichiamo di quella proposta un’idea che non condividiamo cioè che per avere dei diritti devi toglierne a chi già ne ha in una sorta di logica redistributiva che in realtà è stato il modo in cui sono stati contrapposti i giovani agli anziani».

il Fatto 27.4.11
Picchiare le donne? Non è poi così grave
Non solo Ceroni: 3 milioni di vittime subiscono e non denunciano
di Beatrice Borromeo


Picchiare la moglie, secondo i nostri politici, si può. Nessuno, opposizione inclusa, ha avuto nulla da ridire sulla notizia data dal Fatto Quotidiano: l’onorevole Pdl Remigio Ceroni ha menato la consorte. Anche dopo la pubblicazione del referto medico del Pronto soccorso, che dimostra inequivocabilmente quanto accaduto, le scuse non arrivano: appare invece su Libero un’intervista al deputato Pdl in cui, poco elegantemente, Ceroni insinua che a pestare la compagna sia stato il padre (che non può replicare perché è deceduto). Il deputato, racconta, ha ricevuto tanta solidarietà, soprattutto dai colleghi di partito. E Ceroni conta anche sulla solidarietà della moglie: “Io non presenterò querela al Fatto, sarà lei ad agire nelle sedi opportune”. Ma una donna che prende le difese del marito non dimostra granché. Se i parlamentari studiassero i dati sulla violenza che si consuma tra le mura domestiche, quasi mai denunciata, forse sarebbero meno solidali con Ceroni e sentirebbero la necessità di fare (almeno) qualche dichiarazione.
IO NON PARLO. Nel mondo, oltre il 90 per cento delle violenze perpetrate su una donna dal suo partner non vengono denunciate. E, anche se in Italia mancano dati ufficiali, la tendenza a tacere sembrerebbe essere la stessa: lo confermano al Fatto sia il ministero delle Pari opportunità che le associazioni. Racconta Antonella Faieta, avvocato del Telefono Rosa: “Le donne che vengono da noi per essere aiutate lo fanno, in media, dopo oltre dieci anni di violenze subìte in silenzio”. E, per lo più, si recano nei centri di assistenza per informarsi: “Se mio marito mi prende a schiaffi dopo una lite, può considerarsi reato?”. In Italia oltre 7 milioni di donne tra i 16 e i 70 anni ha subito, almeno una volta nella vita, un episodio di violenza fisica o sessuale. I legali del Telefono Rosa spiegano che non passa giorno senza che si presentino ragazze con occhi neri e nasi rotti: “Non si tratta di persone deboli. É un fenomeno trasversale”. Perché il pensiero spesso corre ai piccoli paesi, dove l’emancipazione, se è arrivata, non ha attecchito. Invece, dati alla mano, le storie che leggiamo sui giornali potrebbero capitare al nostro vicino di casa: basti pensare che il 36 per cento delle vittime di stupri, che spesso accompagnano le botte, ha una laurea. Il 64 per cento vive al Centro-Nord, il 42 per cento abita in aree metropolitane. E, soprattutto, nel 70 per cento dei casi l’autore della violenza è il convivente: ci sono circa 3 milioni di donne, in Italia, che sono state picchiate dal marito o dal compagno. Però non parlano, e in alcuni casi la legge è dalla parte degli aggressori.
Prendiamo il caso (vero) di Maria, che arriva al pronto soccorso con il labbro rotto da un pugno e un ematoma sulla fronte. É la prima volta, racconta ai medici, che il marito la picchia. Però non vuole sporgere denuncia, perché con lui ha due figli, perché lui minaccia di portarglieli via e perché, ne è certa, non capiterà più. In questa situazione non si può fare nulla: il reato di lesioni si persegue solo se la vittima sporge querela. E se denuncia e poi ritira non c’è possibilità di punire il marito.
Diverso è se i maltrattamenti sono continuati (in questi casi, come per lo stalking, la denuncia presentata non si può più ritirare): allora si può agire d’ufficio, il medico chiama la polizia e il giudice decide se allontanare il violento dalla famiglia. Oggi i divieti di avvicinamento in atto in Italia sono 2.629.
Ma quali garanzie ci sono che l’uomo non si vendichi sulla compagna che l’ha esposto? “L’allontanamento del violento – spiega l’avvocato Faieta – è una misura cautelare. Se lui torna, sta alla donna chiamare la polizia: anche per questo è nata la legge sullo stalking, così da mettere in carcere chi viola l’ordine restrittivo”.
BOTTE E STALKING. Quando una donna trova la forza di denunciare, capita spesso che subisca poi episodi di stalking (a proposito: su Ceroni il ministro Carfagna non ha nulla da dire?). Ogni mese, informa il ministero delle Pari opportunità, 547 persone vengono denunciate o arrestate per questo reato. L’85 per cento sono italiani e quasi il 90 per cento sono uomini.
Le minacce e gli insulti, raccontano nei centri di assistenza, sono sempre uguali: “Ti spezzo le gambe, ti porto via i figli, non farai più niente senza di me, quando ti vedo ti uccido”. E di solito sortiscono effetti proprio perché arrivano dopo anni di violenze. L’iter, spiega il Telefono Rosa, è questo: le botte cominciano da giovani, quando i due sono ancora fidanzati. Il periodo in cui l’uomo diventa più aggressivo è durante la gravidanza: la donna incinta è più vulnerabile, non vuole crescere un figlio da sola. Si abitua quindi più facilmente a essere picchiata, per motivi spesso futili: non ha apparecchiato la tavola, ha parlato troppo durante una cena, si è messa l’abito sbagliato. Seguono periodi di calma, ma la rabbia – dicono gli assistenti sociali – si manifesta di nuovo”.
La ribellione avviene, di solito, “quando vengono coinvolti nelle liti anche i figli che prendono le difese della madre”. Denunciare conviene. E non solo perché la violenza domestica è la prima causa di morte accidentale (nel 2009 la Banca mondiale ha anche dichiarato che “il rischio di subire violenze domestiche o stupri è maggiore del rischio di cancro o incidenti”). I tempi della giustizia, almeno per questi reati, si sono accorciati e la prima udienza viene solitamente fissata entro un anno. In quattro o cinque si può avere una sentenza di Cassazione. Nel frattempo la vittima viene assistita: il piano nazionale antiviolenza varato a gennaio ha stanziato 20 milioni di euro per aprire 80 nuovi centri distribuiti in tutta Italia.

l’Unità 27.4.11
La sua nuova fortuna legata alle letture pubbliche. Di Benigni, ma non solamente
Innovatore e reazionario È il suo mix, per noi oggi misterioso. Ora arrivano i Meridiani
Così lontano così vicino Un enigma chiamato Dante
A scuola è una presenza sempre più remota. In piazza trionfa con le letture di Benigni (e non solo). Ed ecco arrivare a compimento il poderoso lavoro dei Meridiani, l’opera omnia col massimo dei commentarii
di Giulio Ferroni


Davvero singolare è il modo in cui si è andata definendo negli ultimi anni la presenza di Dante nel nostro paese, nell’universo linguistico che egli con potenza eccezionale ha contribuito a fondare: per certi versi la sua opera si è sempre più allontanata, con una riduzione ed emarginazione nella scuola e nella diffusa coscienza culturale, per altri versi essa si è riproposta in vivissima attualità attraverso letture pubbliche e performance appassionate (e non solo da parte di Benigni). E con tanta tempestiva attualità si può ripetere oggi l’attacco dell’invettiva del VI canto del Purgatorio, che proprio Benigni ha recitato qualche giorno fa a Torino all’inaugurazione di Biennale Democrazia («Ahi, serva Italia, di dolore ostello», con quel che segue). Lontanissimo o attualissimo, Dante dà luogo comunque a una vastissima serie di studi in tutto il mondo, che toccano non soltanto la Commedia, ma anche le opere cosiddette «minori», di cui sempre più si riconosce il legame inscindibile col capolavoro: in un percorso umano e letterario segnato da un moto ascensionale, vigorosamente proteso verso un esito assoluto. Formidabile punto d’arrivo di tanti studi e ricerche degli ultimi decenni è ora il Meridiano con l’edizione delle Opere diretta da Marco Santagata, di cui è appena apparso il primo volume (pp. CCXLVIII+1690), che contiene tre opere più esplicitamente «letterarie», cioè Rime, Vita nova e De vulgari eloquentia, curate con ampie introduzioni e fittissima annotazione (le cui dimensioni possono anche sgomentare il lettore non predisposto) rispettivamente da Claudio Giunta, da Gugliemo Gorni (grande critico e filologo recentemente scomparso) e da Mirko Tavoni. L’introduzione di Santagata sul perno delle opere «minori» ruota verso un’interpretazione generale dell’opera dantesca, che segue proprio la coerenza e la fulminea densità del percorso che conduce dalla prima apparizione di Beatrice nella Vita nova (è la grafia definita da Gorni nell’edizione Einaudi del 1996, i cui materiali vengono qui in gran parte riproposti, con un testo molto diverso da quelli della «classica» edizione critica di Michele Barbi, che recava la grafia Vita nuova) alla visione di Dio alla fine della Commedia. Non a caso il primo capitolo dell’introduzione s’intitola Sistematicità e coerenza, mentre gli altri chiamano in causa La componente intellettuale, Varietà e sperimentalismo, Il fuoco del sistema: Santagata collega l’inesauribile «tendere in avanti» di Dante alla costruzione di un’autobiografia disposta sotto il segno dell’eccezionalità, proiettata in una immagine mitica di sé e rivolta verso un orizzonte profetico. Tante marche tracciate dalle opere precedenti, tanti diretti riferimenti di Dante alle proprie vicende personali, tante rivendicazioni di autenticità, inviterebbero «a leggere l’intera Commedia come concepita da un autore che si sente profeta». Dante profeta viene ad azzerare «la differenza tra realtà e finzione», ponendosi come arci-personaggio, capace di riassumere e moltiplicare in sé tutte le modalità possibili dell’essere personaggio; e nel grande poema definisce un nuovo tipo di rapporto con il pubblico, rivolgendosi non più (come in parte accadeva nelle opere precedenti) ad un «pubblico già selezionato in precedenza (i poeti d’amore, gli studiosi, i nobili appassionati di poemi e romanzi cavallereschi, i devoti), ma a tutti». Il suo impegno sperimentale, la sua apertura all’«innovazione» (che agisce sia sul piano della lingua che su quello dell’invenzione) appaiono comunque a Santagata in netto contrasto con l’approdo politico-sociale della Commedia, rivolto ad una vera e propria «controrivoluzione», con un progetto di ritorno ad una «nobiltà» originaria, in opposizione al contemporaneo «dinamismo sociale», da lui visto come «degenerazione dei costumi»: la Commedia si troverebbe a «mettere una cultura nuova, una lingua nuova, un nuovo modo di percepire e rappresentare la realtà al servizio della tradizione», consumando una paradossale vendetta contro la «modernità» rappresentata da Firenze, la patria che aveva condannato l’autore all’esilio. È ovvio che questo Dante reazionario socialmente e rivoluzionario letterariamente non permette facili identificazioni per il lettore contemporaneo: e i saggi introduttivi alle tre opere qui raccolte sembrano variamente confermare questo suo arretrare in lontananza. Così fa l’introduzione alle Rime di Claudio Giunta, con acuta attenzione al vario sviluppo, fino al mondo contemporaneo, della lirica e delle concezioni dell’amore: vi si mostra da una parte l’originalità con cui la lirica dantesca, a differenza dei precedenti antichi e medievali, ha conquistato lo spazio dell’intimità; ma dall’altra, guardando al presente, vi si suggerisce un distacco dalla sopravvalutazione, da Dante prolungatasi fino a noi, dell’amore come segno supremo dell’umano destino (amore-agape) e spinta verso l’assoluto (che oggi finalmente ci troveremmo a poter sostituire con la semplice gioia dell’eros). Certo questi e gli altri ricchissimi dati interpretativi che il volume propone meriterebbero di essere a lungo considerati e discussi: essi susciteranno ampia attenzione e discussione nel mondo degli studi danteschi, anche perché questo Meridiano sembra ambire a porsi come un modello «definitivo» di commento ai vari testi. Si attende un secondo volume, dedicato al Convivio e un terzo, con le altre opere latine e un poemetto dalla controversa identificazione, il Fiore (la cui paternità dantesca è ora negata con ben misurate e convincenti ragioni da un rigoroso saggio di Pasquale Stoppelli, Dante e la paternità del “Fiore”, Salerno editrice, €.14,00). Resta il fatto che opere capitali come questo Meridiano, nell’atto stesso in cui portano un contributo imprescindibile agli studi e penetrano anche con nuovi elementi dentro le più sfuggenti pieghe dei testi danteschi, vengono a farceli sentire un po’ più lontani, in una sorta di gelida impenetrabilità. Ma questa è forse la condizione attuale della filologia e della storiografia letteraria.

l’Unità 27.4.11
Da Leopardi a Cordero «Gli italiani? Schiavi dell’oggi e del futile divertimento»
Individualisti, dediti solo a svaghi e chiesa, senza sentimento del futuro: così nel suo celebre «Discorso» Leopardi dipingeva gli italiani quasi due secoli fa. Franco Cordero riprende il testo e lo legge alla luce dell’oggi
di Gaspare Polizzi


Ci si interroga sull’assenza, in Italia, di indignazione contro il malcostume e l’illegalità diffusi. Certo, come gli altri Paesi dell’Occidente anche la nazione italiana è priva «d’ogni fondamento di morale, e d’ogni vero vincolo e principio conservatore della società», Nel processo di annientamento di fedi e valori della modernità gli Italiani sono però arrivati al capolinea, dissolvendo ogni principio morale e vincolo sociale in un distruttivo individualismo di massa, nel quale vige l’unico principio che suona «ciascuno fa come meglio crede».
MESSE E DIVERTIMENTI
Nella società italiana le uniche forme di aggregazione sono «il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese»: «Essi (gli Italiani) dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia». Così scriveva Giacomo Leopardi tra la primavera e l’estate del 1824 nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, negli stessi giorni in cui componeva il «terribile» Dialogo della Natura e di un Islandese. Se intendiamo il passeggio alla maniera delle distrazioni turistiche e dei viaggi, traduciamo gli spettacoli e i divertimenti nei format televisivi con giochi e veline, lasciando al suo posto secolare la Chiesa, apriamo uno sguardo impietoso sul nostro presente.
Non soltanto manca in Italia l’opinione pubblica, «regolarmente incerta e senza regola; incostante», «varia e mutabile ogni giorno», «le più volte ingiusta, favorevole al male e a’ mali», ma manca anche «ogni sorta di attività» che comporti la ricerca di un obiettivo e la «speranza nell’avvenire»; priva di illusioni e di aspettative, «or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente».
Ora Franco Cordero, in un libro prezioso (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani seguito dai pensieri d’un italiano d’oggi, Bollati Boringhieri 2011) propone una ristampa molto opportuna del Discorso, integrata da un ampio e coraggioso saggio di ricognizione su Gli ultimi due secoli della malata. Niente di più sensato del riconoscimento che il quadro antropologico descritto da Leopardi non è mutato e del fatto che, se di unità e identità d’Italia si deve tornare oggi a parlare sfruttando al meglio e per il futuro l’occasione del 150 ̊, riformulare la diagnosi di questa «malata» cronica non può che aiutare per una possibile, e sperabile, prognosi.
CINQUE CAPITOLI
Cordero ci offre in cinque ampi capitoli una rassegna ragionata di vicende che – dall’unità d’Italia a oggi – confermano e arricchiscono il quadro delle miserie italiane fornito da Leopardi, tracciano un vademecum che orienta nella società italiana, tramite cronache politiche, sociali e culturali che mettono in scena i miti d’Italia, da Carducci a D’Annunzio, da Giolitti a Prezzolini e a Papini, da Martinetti a Salvemini, e poi il Carnevale nero di Mussolini e del fascismo, per finire con i Tristia, che conducono alla resistibile (ci si augura) ascesa di un «giovane businessman d’anima concupiscente avvolta in sette pelli» che diventa «monarca assoluto della televisione commerciale», di «un pirata, nel cui lessico ‘politica’ significa dominio, lucri, impunità», che «invecchiando perde ogni cautela, torvo e violento».
Ecco il malcostume degli Italiani denunciato da Leopardi: un consenso che poggia su «spettacoli e divertimenti » («tra i suoi elettori meno d’uno su tre sfoglia qualche giornale; in compenso ingoiano almeno tre ore d’ipnosi televisiva quotidiana»). Ma si tratta del radicamento progressivo di una malattia che attecchisce perché «l’organismo italiano, malato, non sviluppa anticorpi».
Ci voleva un giurista dalla penna fine e graffiante per renderci, con contenuti rinnovati, la medesima disincantata diagnosi leopardiana, che rischia di spingere alla solitudine del metafisico, piuttosto che all’impegno del «filosofo di società». E tuttavia, «Il disincanto stimola meccanismi volitivi: non foss’altro, è questione estetica; abitiamo un mondo sordido, ritocchiamolo in meglio».

Repubblica 27.4.11
La buona memoria
Così continua la lezione di Levi
di Stefano Bartezzaghi


L´idea è quella di produrre cose utili: non solamente conservazione ma anche trasmissione di sapere vivo
Tre anni fa è stato fondato il centro dedicato all´autore di "Se questo è un uomo": un modo diverso di ricordare
In luoghi come questo si scopre come, lontano dai rituali, si possa fare cultura
L´ultimo saggio uscito da qui è quello di Bucciantini sul male microscopico

Nel tardo pomeriggio dello scorso 11 novembre, a Torino, il professor Massimo Bucciantini prendeva la parola sul tema «Esperimento Auschwitz». La sua era la «Lezione Levi» per il 2011: la seconda di un ciclo organizzato dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi e inaugurato nel 2010 da un italianista di Cambridge, Robert Gordon.
Come già Gordon, anche Bucciantini teneva la sua lezione nell´aula magna (intitolata a sua volta a Primo Levi) della facoltà di Scienze dell´Università di Torino: una sala vasta e austera, sormontata da una riproduzione della tavola mendeleviana degli elementi, nota a tutti i chimici e a tutti i lettori leviani sotto il nome di «sistema periodico». Gli scranni dell´aula erano fittamente popolati da alcune classi del liceo scientifico Galileo Ferraris, docenti e studenti universitari, giornalisti, membri della Comunità ebraica, funzionari della casa editrice Einaudi, lettori (chissà quanto «semplici»). Un´altra Italia, meno nota a giornali e tv; un´Italia, come Levi diceva di sé, «normale, di buona memoria». Alligna una vasta e sospetta retorica che fa apparire la memoria, secondo i casi, necessaria, doverosa, faticosa, rituale, vana: ma come possa essere «buona» è diventato difficile ricordarselo.
Un esempio – non nella teoria ma nei fatti – viene proprio dal Centro Primo Levi, che è stato fondato tre anni fa da diversi enti pubblici e privati (dalla Regione Piemonte alla famiglia Levi, passando per la Compagnia di San Paolo e la Comunità Ebraica); è presieduto da Amos Luzzatto e diretto dallo storico Fabio Levi (non un parente). Robert Gordon, che a Primo Levi e alle Virtù dell´uomo normale aveva già dedicato un importante libro (pubblicato in Italia da Carocci), ha fatto notare come nel linguaggio leviano ricorresse l´aggettivo «utile». Le anime belle considerano l´«utilità» come una qualità disdicevole perché non disinteressata. Ma rivestire interesse non è forse un´ottima cosa, nel mondo per nulla diafano delle idee? Per la memoria, proprio l´utilità è una sorta di condizione di senso: notarlo ha grande importanza, nei tempi in cui per memoria si può intendere anche una macchina che comprime in pochi millimetri quadri intere biblioteche (di cui non sempre sappiamo cosa farci).
Il Centro conserva una buona memoria dello scrittore a cui è intitolato, perché produce cose utili: un sito (www.primolevi.it), una biblioteca, un archivio, l´annuale «Lezione Levi», una collana editoriale con Einaudi (è appena uscito il libro che raccoglie, ampliata e in versione sia italiana sia inglese, la lezione di Bucciantini: sarà presentato al Salone del Libro di Torino). Ecco a disposizione tutte le opere di Levi, traduzioni, saggi, recensioni, audiovisivi... Si tratta di conservare tali materiali o di renderli utili? La bibliografia su Primo Levi, che riceve cure strenue e minuziose dall´italianista Domenico Scarpa, raccoglie ogni testo, anche minimo, dedicato a Primo Levi: lo censisce, lo indicizza con parole-chiave e lo mette a disposizione degli studiosi, tramite un catalogo che si consulta liberamente nel sito.
Negli anni Sessanta e Settanta, per studiare Primo Levi bastava andare nel centro (urbano) di Torino e fare qualche telefonata e qualche passeggiata tra librerie, biblioteche e archivio Rai ed Einaudi. Passano gli anni, si accumulano testimonianze sempre più frammentate e disperse per il mondo: oggi, per renderle utili occorrono strumenti telematici e informatici, la memoria e il lavoro di una persona sola non basterebbero. Proprio la nozione informatica di «memoria» ci aiuta a comprendere che la memoria non è solo conservazione, ma è anche energia, velocità, selezione, possibilità estesa di confronto e collegamento. Né l´utilità va immaginata come una sorta di imbuto che porta energia e risorse dalla collettività a un gruppo ristretto di studiosi. È in realtà una clessidra, o un prisma in cui la luce converge per venirne ritrasmessa e irradiata.
Come sono stati impiegati i mezzi del Centro Studi, da Massimo Bucciantini? Storico della scienza all´università di Siena-Arezzo, Bucciantini si era già cimentato sulla letteratura italiana del Novecento con un libro su Italo Calvino e la scienza (edito da Donzelli). Ora, oltre a ricordare i rapporti che tra Calvino e Levi intercorsero proprio sui temi scientifici, ha descritto Levi come lo scrittore che ha saputo adoperare gli strumenti sperimentali del «separare, pesare e distinguere» e ha così raccontato Auschwitz non solo come inferno angoscioso, anus mundi, orrore storico, ma come sede di un esperimento scientifico estremo sull´uomo. Riproducendo nella sua mente e nella sua scrittura tale esperimento nazista e impegnando per i quarant´anni che separano Se questo è un uomo da I sommersi e i salvati la propria intelligenza analitica per coglierne gli aspetti essenziali, Primo Levi ha scoperto l´esistenza della «zona grigia», isolata come un nuovo elemento chimico da posizionare nel Sistema Periodico delle costanti antropologiche: il male non si circoscrive, non si separa dal suo opposto, non è macroscopico ma microscopico.
Questo non serve (solo) agli italianisti per capire Levi. Ai suoi tempi leggere Se questo è un uomo è servito all´anti-psichiatra Franco Basaglia per il suo impegno nella lotta contro la segregazione manicomiale, vinta con la legge che porta il suo nome. Oggi leggere Levi serve per capire, come conclude Bucciantini, che «Quel mondo laggiù e il nostro sono uniti da un vasto e imprevisto camminamento».
Colpiti da un´epidemia di amnesia gli abitanti di Macondo consultano etichette per ricordarsi il nome degli oggetti. Ah, quanto minore scrittore e anche meno fine semiologo di Levi è Gabriel García Márquez! Se la memoria funzionasse così, davvero terremmo solo nomina nuda. Se Levi e Auschwitz fossero etichette e se dovessimo rileggere Levi al fine di ricordarci di Auschwitz staremmo freschi. Neppure capiremmo alcuna delle sue parole: perché come non c´è etichetta fuori da un sistema di memoria, non c´è memoria fuori dal desiderio di comprendere cioè che non abbiamo mai conosciuto, o fuori dalla necessità di esprimerlo.

Repubblica 27.4.11
Luca Zevi, il suo nuovo libro, e il progetto per un edificio dedicato alle vittime a Roma
"Il nostro museo della Shoah non può essere solo un monumento
"Vorremmo dare l’idea di continuare a fare i conti con una vicenda che non si è conclusa"
di Francesco Erbani


Su quanto una memoria o più memorie tengano in piedi una comunità nazionale e su quale sia la natura di questa memoria –quanto conti il dolore, per esempio – discutono storici (Guido Crainz e Giovanni De Luna) e riflettono saggisti (un nome per tutti: Tzvetan Todorov). Ma anche un architetto come Luca Zevi prova a interrogarsi sugli "usi e gli abusi della memoria". Dal dopoguerra in poi, ma in particolare negli ultimi decenni, le città europee, e non solo, hanno arricchito il proprio paesaggio di edifici che custodiscono memorie. Ma come le custodiscono?
Luca Zevi, figlio di Bruno, progettista e professore universitario, in Conservazione dell´avvenire (Quodlibet, pagg. 186, euro 16) espone una serie di riflessioni sullo stato della città in generale, sul fenomeno della megalopolizzazione, e segnala come dall´esperienza storica ebraica vengano utili indicazioni per regolare la crescita urbana. Ma, a partire sempre dalla tradizione ebraica e dal suo rapporto intenso e non feticistico con il passato, rilegge criticamente il modo in cui l´architettura ha consegnato in un edificio le proprie idee di memoria – dallo Jüdisches Museum di Berlino, realizzato da Daniel Libeskind, all´Holocaust-Denkmal che, sempre a Berlino, ha disegnato Peter Eisenman, fino al progetto di Ground Zero a New York. E rilancia una sua idea di qualche anno fa, quella di un Museo delle Intolleranze e degli Stermini nel quale, dice, «si indaghi sulla genesi di questi fenomeni, nella convinzione che siamo tutti reali o potenziali attori di azioni discriminatorie e che, per cercare di non esserlo, è necessario lavorare su se stessi e collettivamente».
In alcuni casi lei vede prevalere, invece, un elemento di monumentalizzazione. È il caso di Berlino.
«Lo Jüdisches Museum è molto efficace: qualche tempo fa una mia amica mi ha detto di essersi sentita, percorrendone l´interno, come gli ebrei che fuggivano nei boschi senza riuscire a vedere né quel che avevano davanti né quel che c´era indietro. Ma quel museo sembra voler esporre soprattutto se stesso, più che ospitare un´esposizione. Trionfa nella città come un grandioso memoriale dello sterminio, più che come luogo di conoscenza e di riflessione sull´ebraismo tedesco».
In qualche modo corrisponde al profilo stesso di quella memoria, la memoria della Shoah. O no?
«Certamente. In più c´è da considerare quanto la Germania abbia vissuto in modo contrastato con quella memoria. Ma, a prescindere da Berlino, io osservo che dagli anni Novanta del Novecento sia fiorita in modo impressionante la "memoria letterale". Prenda l´Holocaust-Denkmal, l´immensa distesa di parallelepipedi di cemento realizzata a pochi passi dalla Porta di Brandeburgo. Ha un impatto urbano grandioso. La Shoah vi assume una dimensione monumentale e tendenzialmente sovrastorica, nascondendo quella "banalità del male" i cui germi sono ancora presenti fra noi. E poi c´è un aspetto poco convincente di carattere urbanistico».
Quale?
«Il nazismo, come gli altri totalitarismi novecenteschi, ha imposto edifici enfatici nel cuore delle città, in cui dominasse la componente inquietante. La sfida di un´architettura democratica dev´essere quella, invece, di creare luoghi che contribuiscano a integrare, che non dominino l´ambiente circostante, che siano spazi pubblici, occasione di vita sociale».
E questo ruolo possono svolgerlo anche edifici che custodiscono memorie?
«Prenda Yad Layeled, il museo della Shoah destinato ai bambini all´interno di un kibbutz a nord di Israele. È ai margini dell´abitato, racconta lo sterminio coniugando la storia del luogo, la sua natura, e innestandosi in un progetto, quello del kibbutz, appunto, che è un modello sociale ed esistenziale. Ma, restando all´Italia, si può citare il monumento ai Caduti delle Fosse Ardeatine, realizzato nel 1949 dagli architetti Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini e Nello Aprile e dagli scultori Mirko Basaldella e Francesco Coccia. È un esempio di poetica moderna, sia architettonica che artistica, che si sposa perfettamente e delicatamente con un ambiente storico, quello dell´Appia antica, con le memorie di quel luogo e della tragedia che lì è avvenuta, offrendo una testimonianza emozionante, ma non clamorosa».
Lei ha realizzato il Memoriale ai caduti del bombardamento di San Lorenzo, a Roma – una fascia luminosa con i nomi delle vittime che corre lungo i bordi di un´aiuola nel parco del quartiere. È a questi criteri che si è ispirato?
«Abbiamo cercato un approccio sommesso, una specie di "progetto al negativo" perché la memoria di una ordinaria tragedia di guerra, che ha ucciso millesettecento civili, spingesse a considerare il bene supremo della pace».
Tempo fa lei propose un Museo delle Intolleranze e degli Stermini, un museo che consentisse, appunto, il dialogo fra diverse memorie, senza che la Shoah, come lei sottolinea, perdesse il carattere di "massima tragedia che la storia umana abbia conosciuto". Che cosa ne è stato di quel progetto?
«Fu un´idea nata alla fine degli anni Novanta. Ne parlammo con Veltroni, allora ministro dei Beni culturali, e Ciampi, ministro del Tesoro. Poi cadde il governo Prodi e tutto fu accantonato».
In qualche modo quel progetto è riemerso nel Museo nazionale della Shoah, che dovrebbe vedere la luce a Roma, in Villa Torlonia, e al quale lei sta lavorando.
«Una volta chiuso il progetto definitivo ci sarà l´appalto e ci vorranno un paio di anni per realizzarlo. È una grande scatola nera, con i nomi delle vittime italiane dello sterminio nazista, che sarà sospesa sulle nostre teste quasi a indicare come i germi di quella immane e incomparabile tragedia incombano ancora su di noi. Vorremmo trasmettere la sensazione di continuare a fare i conti con una vicenda che non è conclusa, se è vero, come penso sia vero, che i nostri giorni siano attraversati da inauditi fenomeni di intolleranza e di sopraffazione».

Repubblica 27.4.11
Ai Weiwei
Quando l’arte fa paura al potere


L´enorme spazio della Turbine Hall, il locale delle turbine della ex centrale elettrica in cui ha sede la Tate Modern di Londra, è notoriamente difficile da riempire. Solo una ristretta schiera di artisti non si fa inibire creativamente da tanta immensità e, padrona dei misteri della dimensione, sa esprimere qualcosa di interessante anche dovendolo declinare in molto grande. In passato in questo spazio ha trionfato il minaccioso ragno gigante di Louise Bourgeois.E il maestoso Marsyas di Anish Kapoor, una struttura a forma di corno musicale realizzata in un materiale che voleva ricordare la pelle del satiro scorticato vivo da Apollo.
Nell´ottobre scorso l´artista cinese Ai Weiwei ne ha ricoperto il pavimento con i suoi Semi di Girasole, 100 milioni di minuscoli elementi realizzati in porcellana da un maestro artigiano, diversi l´uno dall´altro, un´installazione strana, nella migliore accezione surrealista del termine, una sorta di inesplicabile tappeto della vita. Sui semi il pubblico doveva camminare, ma, altra stranezza, si è scoperto che, se calpestati, essi rilasciavano una polvere sottile, potenzialmente nociva per i polmoni. Questi simboli della vita potevano, a quanto pare, essere pericolosi per gli esseri viventi, così i visitatori sono stati costretti a camminare lungo il perimetro dell´opera transennata.
L´arte può essere pericolosa. Molto spesso la fama si è rivelata un rischio per gli artisti. L´opera di Ai non è polemica - tende al mistero, ma la sua enorme statura di artista (ha collaborato come consulente al progetto del "nido", lo stadio delle olimpiadi di Pechino e recentemente la rivista Art Review lo ha inserito al tredicesimo posto nella classifica delle 100 personalità artistiche più importanti del mondo) gli ha consentito di prendere posizione a difesa dei diritti umani in Cina e di denunciare le frequenti inadeguatezze del governo di fronte ai disastri, come nel caso dei bambini vittime del terremoto del 2008 nella provincia Sichuan o degli incendi a Shanghai nel novembre scorso. Le autorità lo hanno già perseguitato in passato ma ora sono passate ad una nuova pericolosa offensiva.
Il 4 aprile scorso Ai è stato arrestato mentre si imbarcava su un volo per Hong Kong. Hanno fatto irruzione nel suo studio prelevando computer e altri oggetti. Da allora il regime ha permesso che fossero rese pubbliche le sue "imputazioni" - evasione fiscale, pornografia - accuse che chi conosce l´artista non reputa credibili. A quanto pare, irritato dalle prese di posizione del suo più famoso articolo di esportazione, finora protetto dalla sua stessa fama, il regime ha deciso di farlo tacere nel modo più brutale.
A peggiorare le cose giunge notizia che Ai ha iniziato a "confessare". È urgentissimo che venga rilasciato e i governi del mondo libero hanno chiari doveri a proposito.
Ai non è l´unico artista cinese nei guai. Al grande scrittore Liao Yiwuè stato negato il permesso di recarsi negli Usa per partecipare al Pen World Voices Festival of International Literature, che avrà inizio lunedì a New York e si teme che possa essere il prossimo bersaglio del regime. Tra gli altri spiccano Ye Du, Teng Biao e Liu Xianbin - condannato il mese scorso alla detenzione per incitamento alla sovversione, la stessa accusa mossa al premio Nobel Liu Xiaobo, che sta scontando undici anni di carcere.
La vita degli artisti è più fragile delle loro creazioni. Il poeta Ovidio fu esiliato da Augusto in un luogo sperduto sul Mar Nero, Tomis, ma la sua poesia è vissuta oltre l´impero romano. Osip Mandelstam morì in un campo di lavoro stalinista ma la sua poesia è vissuta oltre l´Unione Sovietica. Federico García Lorca fu ucciso dalle squadracce del Generalissimo Franco ma la sua poesia è sopravvissuta a quel regime tirannico.
Forse possiamo puntare sulla vittoria dell´arte contro i tiranni. È degli artisti di tutto il mondo, in particolare quelli che hanno il coraggio di opporsi all´autoritarismo, che dobbiamo occuparci ed è per la loro sicurezza che dobbiamo lottare.
Non tutti gli autori o gli artisti hanno la volontà o la capacità di svolgere un ruolo pubblico e chi lo fa rischia l´ingiuria e la derisione anche nelle società libere. Risero a suo tempo di Susan Sontag che si esprimeva senza peli sulla lingua sulla guerra di Bosnia, quasi come se Sarajevo fosse "roba sua". Risero di Harold Pinter per le sue tirate contro la politica estera americana e il suo "socialismo allo champagne". E fu con maligna soddisfazione che si apprese che Günter Grass, famoso intellettuale pubblico e fustigatore dei governi tedeschi, aveva taciuto di aver militato come coscritto per un breve periodo nelle Ss alla fine della seconda guerra mondiale. L´amicizia di Gabriel García Márquez con Fidel Castro, e gli stretti rapporti tra Graham Greene e Omar Torrijosa Panama, fecero dei due autori dei bersagli politici.
Quando gli artisti si avventurano in politica la loro reputazione e integrità non è mai esente da rischi. Ma fuori dal mondo libero, dove la critica al potere è quanto meno difficile e nel peggiore dei casi del tutto impossibile, personalità creative come Ai e i suoi colleghi sono spesso le sole ad avere il coraggio di dire la verità contro le menzogne dei tiranni. Ci sono voluti i samizdat per scoprire la verità sulle brutture dell’Unione Sovietica. Oggi il governo cinese incarna la massima minaccia mondiale alla libertà di espressione, quindi abbiamo bisogno di Ai Weiwei, Liao Yiwu e Liu Xiaobo.
(Traduzione di Emilia Benghi)

l’Unità 27.4.11
L’esperimento Ams alla ricerca di antimateria, materia oscura e strana
C’è molta Italia nell’ultimo viaggio dello shuttle Endeavour che, salvo imprevisti, partirà venerdì 29 aprile dal Kennedy Space Center alla volta della Stazione Spaziale Internazionale, in orbita a 400 chilometri di altezza.
di Pietro Greco


Italiano è Paolo Nespoli, uno degli astronauti che riceverà l’equipaggio dello shuttle. Italiano è Roberto Vittori, uno degli astronauti che viaggerà con Endeavour. Ma per la gran parte italiano è, soprattutto, il rivelatore Ams (Alpha Magnetic Spectrometer), lo strumento che – come dicono all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – porta la Big Science nella «casa spaziale comune».
Ams è uno spettrometro molto particolare. Progettato per rilevare la presenza di una serie di particelle elementari che è pressoché impossibile incontrare sulla Terra o anche produrre nei grandi acceleratori. Gli obiettivi di Ams in realtà sono tre: rilevare antimateria, materia oscura e materia strana. Il primo tipo di materia di cui andrà a caccia Ams, l’antimateria, è conosciuta da poco (non più di ottant’anni) ma molto bene sulla Terra. È costituita di particelle (antielettroni, antiprotoni, antineutroni) del tutto simili a quelle della materia ordinaria – fatta di elettroni, protoni e neutroni – con una sola differenza: hanno carica elettrica opposta.
L’antimateria si produce ogni qual volta, dal vuoto quantistico, si produce materia. Inoltre ogni colta che una particella di materia ne incontra una di antimateria si annichilano. Queste affermazioni generano una domanda cui i fisici cercano di rispondere: perché allora nell’universo c’è materia – perché nella battaglia cosmica ha vinto per ragioni ancora non chiare o perché la fuori ci sono stelle e galassie di antimateria? A questa domanda fondamentale Ams cercherà di trovare una risposta. Il secondo tipo di materia che Ams cercherà è chiamata «materia oscura». Oscura nel doppio senso: perché non la vediamo e perché non ne conosciamo la natura. Sappiamo – se le nostre teorie cosmologiche sono giuste – che là fuori
ce ne deve essere tanta: solo il 4% del cosmo, infatti, è costituito da materia ordinaria, oltre un quarto è costituito da questa «materia oscura» e la restante parte è costituito da «energia oscura». Ams ha il compito di dare un grosso contributo ad attenuare la nostra ignoranza sugli elementi costitutivi dell’universo. Il terzo tipo di materia di cui Ams sarà a caccia è detta «materia strana» ed è costituita da particolari tipi di quark.
Perché l’esperimento Ams, diretto dal premio Nobel Samuel Ting, parla bene l’italiano? Per molti motivi. Perché il vice responsabile è l’italiano Roberto Battiston, perché hanno dato un contributo determinante a realizzarlo i fisici e i tecnici dell’Infn e dell’Asi, perché molta tecnologia è stata prodotta in Italia, anche da piccole e media aziende. A dimostrazione che in questo nostro strano paese, malgrado tutto, sappiamo ancora eccellere in molti settori scientifici di punta. Una capacità che costituisce un patrimonio da non disperdere.
CHE COS’È E CHE COSA INDAGHERÀ
Ams (Alpha Magnetic Spectrometer) è un rivelatore di particelle progettato per essere collocato sulla ISS, l’avamposto dell’uomo nello spazio, che orbita a 400 km di altezza. Il suo compito è quello di intercettare e identificare con i suoi rivelatori tipi di particelle elementari che non si possono riprodurre sulla Terra con gli acceleratori. Particelle che potrebbero rivelare l’esistenza di antistelle e antigalassie o darci qualche indizio in più sulla natura della materia oscura, che dovrebbe costituire circa un quarto di tutto l’Universo. Ams registrerà il passaggio di decine di miliardi di raggi cosmici provenienti dalle profondità dello spazio, misurandoli prima che si scompongano o si annichiliscano nell’interazione con l’atmosfera del nostro pianeta. Setacciando e analizzando questa enorme quantità di dati con tecnologie avanzatissime, i ricercatori sperano di trovare tracce preziose di questa materia sconosciuta, di poterla misurare e comprendere, in uno straordinario sforzo scientifico e di conoscenza.

La Stampa TuttoScienze 27.4.11
Intervista
“Parte il cacciatore dell’Universo invisibile”
Dopodomani verrà lanciato con lo shuttle l’esperimento “Ams” Dovrà scoprire i segreti della materia oscura e dell’antimateria
di Gabriele Beccaria


Sei giorni per portarlo in orbita e installarlo sulla Stazione Spaziale e poi il settimo - come in un’epifania biblica - inizierà a raccogliere dati e li invierà a Terra. L’occhio sull’Universo e sui suoi misteri sta per partire: l’appuntamento è per dopodomani, a bordo dello shuttle «Discovery». Grande quanto un autobus, pesa quasi 7 tonnellate e costa 1 miliardo e mezzo: si chiama «Ams», acronimo di Alpha magnetic spectrometer», ed è un peccato che ingegneri e scienziati non gli abbiano trovato un nome più evocativo, adeguato all’enfasi della sua missione.
Professor Roberto Battiston, lei è viceresponsabile dell’esperimento ideato con il Nobel Paul Ting e coordinatore italiano: «Ams» dovrà rispondere a domande da brivido sul passato e sul futuro del cosmo, legate alla ricerca di 3 tipi di materia: l’antimateria, la materia oscura e la materia «strana».
«E’ così. La prima domanda è questa: se nei primi momenti dell’Universo c’era una perfetta simmetria, con tante anti-particelle quante particelle, che fine hanno fatto le prime? Sappiamo che almeno una parte su 10 miliardi di materia è sopravvissuta all’annichilazione iniziale, e questa parte siamo noi e l’Universo visibile, ma allora dov’è la corrispondente parte di antimateria?».
Finora quale risposta ci si è dati?
«L’antimateria potrebbe essere sparita, perché la simmetria nascosta delle leggi della fisica l’avrebbe fatta “morire” più facilmente della materia. Finora, però, non abbiamo trovato indizi di questa possibilità. Un’altra teoria è che si sia creata un’isola di antimateria, anche se non la vediamo, perché, quando studiamo le galassie più lontane, non capiamo se siano fatte di materia o antimateria».
Che cosa vi aspettate di scoprire?
«O l’antimateria è davvero scomparsa, e in questo caso dovremo concentrarci sul perché, oppure - e sarebbe un esito clamoroso - vedremo qualche antinucleo di carbonio, ossigeno o elio e potremo dedurre che ce ne sono quantità enormi in qualche zona lontana dell’Universo».
Perché l’esito sarebbe clamoroso?
«A parte l’idrogeno e l’elio, gli atomi della tabella di Mendelev sono stati costruiti nel cuore delle stelle attraverso fusioni ad altissima temperatura tra atomi leggeri. Succede anche nel Sole: quando morirà, espellerà frammenti di materiali pesanti, che a loro volta si ricompatteranno in nuove stelle, che genereranno atomi ancora più pesanti, dal ferro all’uranio. La storia della Terra e dell’evoluzione è esattamente questa: una serie di trasformazioni realizzate in grandi fucine nucleari. Se trovassimo anche un solo antinucleo di carbonio o di ossigeno, significherebbe che ci sono delle antistelle al lavoro, che realizzano gli stessi processi di cui parlavo, ma a partire dall’antimateria».
Basterebbe un solo antinucleo?
«Sì. Avremmo l’indicazione che ne esistono quantità enormi, con intere galassie e “isole” nell’Universo. Sarebbe una scoperta straordinaria».
Seconda questione: la materia oscura: esiste e come la si trova?
«E’ noto che nell’Universo esiste una massa invisibile 6 volte maggiore di quella che vediamo e che emette luce. Ecco perché è stata chiamata materia oscura: non sappiamo che cosa sia, ma determina la forza gravitazionale delle galassie. Ora stiamo cercando in tanti modi le sue particelle: sulla Terra, nei laboratori del Gran Sasso, per esempio, e nello spazio, studiando le distorsioni delle distribuzioni dei raggi cosmici noti».
Il terzo tipo di materia che cercherà di intercettare «Ams» è quella «strana»: che caratteristiche ha?
«Se ne parla a proposito delle stelle di neutroni: quando una stella troppo grossa implode, può produrre un “nocciolo” che non è più formato di atomi, ma è un unico e gigantesco nucleo atomico di neutroni. I fisici teorici hanno dimostrato che questi neutroni potrebbero contenere un tipo particolare di quark, i quark “strani”».
E che stelle sarebbero?
«Sarebbero stelle debolmente cariche e frammenti di queste stelle potrebbero arrivare sulla Terra con caratteristiche peculiari: una massa molto grossa, 100 volte quella di un nucleo di idrogeno, ma una carica elettrica debolissima. Ecco perché saremmo di fronte alla materia “strana”: vìola il rapporto di equivalenza tra protoni e neutroni nella massa atomica. Ma non basta ancora. A parte antimateria, materia oscura e materia “strana”, la ragione più affascinante che ci spinge a fare tutte queste misure di precisione è la speranza di scoprire qualcosa che non ci aspettiamo: la logica che ci guida è la sorpresa».
Sorprese che rivoluzioneranno la concezione dell’Universo?
«Viviamo un momento storico incredibile: se apriamo i libri di testo, dobbiamo ammettere di conoscere meno del 4-5% del bilancio materiaenergia dell’intero Universo, mentre c’è un 95% di cui sappiamo di non sapere nulla. Stiamo andando un po’ alla cieca, ma le domande esistono».
E per tentare delle risposte quando comincerete a leggere i dati in arrivo dai 650 computer di «Ams»?
«Prestissimo. Il braccio robotico dello shuttle consegnerà “Ams” a quello della Stazione e sarà questo a collocarlo a un’estremità della struttura orbitante: a quel punto ci sarà un clic, anche se nello spazio non si sentirà, e si attiveranno tutte le connessioni elettriche, dando immediatamente il via all’esperimento».
In pratica, che cosa osserverete?
«A differenza di un telescopio che deve mettere a fuoco un “pezzo” di cielo, e si tratta di un’operazione che richiede tempo, “Ams” dovrà misurare e identificare le particelle che lo attraversano: già dopo pochi minuti dall’accensione vedremo subito se tutto funziona regolarmente».
Sarà un diluvio di dati, giusto?
«In effetti si tratta di un ritmo impressionante, anche 2 mila particelle al secondo che satureranno i software e in tempo reale riempiranno i database per la consultazione. Poi seguirà la seconda fase, con l’analisi raffinata delle caratteristiche delle particelle stesse: ci vorranno settimane, mesi e anche anni, soprattutto per gli eventi più rari e anomali, che richiederanno lunghe catene di verifiche e controlli».
All’esperimento partecipano 600 ricercatori di 16 nazioni e 60 sono italiani: è un ruolo di primo piano.
«Sì. Il nostro è un contributo molto importante - che vale il 25% del progetto - grazie all’Infn e all’Asi e per questo avremo un accesso facilitato ai dati e per molto tempo: “Ams” sta per diventare parte integrante della Stazione e quindi funzionerà almeno fino al 2020 e forse fino al 2028. Non ci sono elementi di consumo a bordo: si spegnerà quando si spegnerà la Stazione».

Repubblica 27.4.11
Gli scienziati americani ora fuggono in Europa
Entro fine anno chiuderà la storica macchina Tevatron nel laboratorio di Chicago
In Svizzera invece si lavora a pieno ritmo accanto all´acceleratore attivo dal 2009
di Elena Dusi


Il taglio dei finanziamenti negli Usa sta portando centinaia di studiosi a collaborare con il centro di Ginevra Così la battaglia per scoprire le particelle potrebbe vincerla il Vecchio Continente

Gli esploratori della natura ora seguono la rotta inversa di Cristoforo Colombo. Lo studio dei segreti più intimi della materia attraverso i grandi acceleratori di particelle sta migrando dagli Stati Uniti all´Europa. E centinaia di fisici percorrono in questi mesi un sentiero inedito per la storia della scienza: dalla sponda ovest a quella est dell´Atlantico.
Chiuderà a fine anno per il mancato rinnovo dei fondi pubblici la storica macchina americana Tevatron, del laboratorio Fermilab di Chicago. Funziona invece a pieno ritmo, con ottimi risultati e un ottimismo alle stelle l´acceleratore Lhc del Cern di Ginevra. Da cui è appena trapelata la notizia di una possibile traccia del bosone di Higgs. L´unica fantomatica particella che mancherebbe ai fisici per completare il quadro dei componenti fondamentali della materia - e la cui caccia è oggetto di competizione fra Ginevra e Chicago - potrebbe aver lasciato una traccia in uno dei rivelatori di Lhc: Atlas. Si tratta di un´impronta poco chiara, la cui interpretazione è a livello molto embrionale. La portavoce di Atlas, l´italiana Fabiola Gianotti, ha smentito in maniera categorica di aver messo le mani sul bosone di Higgs (soprannominato la "particella di Dio" perché spiegherebbe come mai la materia attorno a noi è dotata di una massa). E il fatto che la notizia sia trapelata per vie poco ortodosse (in forma anonima attraverso un blog) ha creato malumori fra gli scienziati di Atlas. Ma nessuno a Ginevra si perita di dire che la scoperta del bosone di Higgs potrebbe arrivare entro l´anno.
Il tramonto del laboratorio americano (Tevatron aveva effettuato le prime collisioni di particelle nel 1985) e la fioritura di quello europeo (l´attività scientifica di Lhc è partita nel 2009) alimenta la migrazione dei fisici. «Da mesi è iniziato il trasferimento. Già alcune centinaia di scienziati del Fermilab hanno ottenuto anche l´affiliazione a uno degli esperimenti del Cern. È chiaro infatti che Lhc sarà la macchina del futuro» spiega Sergio Bertolucci, direttore della ricerca al Centro di Ginevra ed ex vice-presidente dell´Istituto nazionale di fisica nucleare italiano. «L´amarezza c´è, non possiamo nasconderla» commenta da Chicago uno dei pionieri di Tevatron, Giorgio Bellettini, professore emerito all´università di Pisa e scienziato dell´Istituto nazionale di fisica nucleare. «Eravamo alle soglie di scoperte importanti, in procinto di poter dare indicazioni sul bosone di Higgs. Fermarci ora, a poca distanza dal traguardo, è molto triste. Sorprende che l´America decida di ammainare la bandiera in uno dei campi più prestigiosi della scienza, si tratta di una scelta inedita per questo paese. Se negli anni Venti e Trenta il cuore della fisica era infatti l´Europa, alla vigilia della guerra l´asse della ricerca si era spostato negli Stati Uniti». Non è un caso che il laboratorio di Chicago sia intitolato a Enrico Fermi.
A Lhc d´altronde oggi c´è lavoro per tutti. «E la competizione non mancherà neanche dopo la chiusura di Tevatron» spiega Paolo Giubellino, portavoce di Alice, un altro esperimento di Lhc. Alle collisioni fra protoni alla velocità della luce che avvengono nel grande anello di 27 chilometri al confine franco-svizzero guardano infatti quattro immensi rivelatori (oltre ad Atlas e Alice, anche Cms e LHCb). «I dati raccolti da un esperimento - spiega Giubellino - vengono continuamente confrontati con gli altri, e questo dà validità ai nostri risultati».
C´è poi il futuro lontano a cui guardare. «La fisica di oggi va avanti per grandi progetti ed è naturale che sia globalizzata» spiega Bertolucci. «Nessun paese da solo può sostenere sforzi come la costruzione e il mantenimento di Lhc, per non parlare dell´analisi dell´enorme mole di dati scientifici. Con le sue scoperte, l´acceleratore del Cern ci indicherà la strada da seguire in futuro. A quel punto saranno forse gli Stati Uniti a realizzare l´apparecchio della prossima generazione. E noi fisici non ci faremo problemi a fare le valigie per l´ennesima volta».

La Stampa TuttoScienze 27.4.11
Un manuale da zero a cinque anni: «Attenti a ciò che fate. È questo il periodo decisivo che influenzerà tutta la loro vita»
Consigli per il cervello dei figli
Musica, emozioni e niente bugie: che cosa rivelano le ultime ricerche
di Elisa Frisaldiu


Che cosa devo fare per proteggere lo sviluppo di mio figlio durante la gravidanza? Come ci si deve comportare di fronte a un bambino di quattro anni che racconta una bugia ogni due ore? Quali comportamenti devo seguire perché mio figlio possa essere felice? E anche intelligente? Gli scienziati iniziano a dare le prime risposte.
Molte sono raccolte nel saggio «Naturalmente intelligenti», che rivela, attraverso aneddoti affascinanti e divertenti, le tappe dello sviluppo del cervello dalle prime settimane fino ai cinque anni e spiega come fare in modo che tutto avvenga senza intoppi. L'autore, John Medina, professore alla University of Washington, si occupa di biologia molecolare e dello sviluppo, è un appassionato di genetica dei disordini psichiatrici ed è il papà di Josh e Noah, due ragazzi alle soglie dell'adolescenza.
LE PROVE . «Ciò che si fa nei primi cinque anni di vita di un figlio - e non solo nel primo anno - influenzerà profondamente il suo comportamento adulto», sottolinea. E a dimostrare quanto l'ambiente può essere importante nell'educazione dei bambini è l'«HighScope Perry Preschool Study», una ricerca cominciata nel 1962 che ha coperto quattro decenni di vita di 123 bambini del Michigan, a partire dall'età prescolare. Non si deve dimenticare, però, che nessun tipo di educazione potrà mai cambiare il fatto che il 50% delle potenzialità di un figlio sono il risultato della sua componente genetica. «La buona notizia è che, in veste di genitori, altro non si può fare se non del proprio meglio. Detto questo, sono convinto, anche come genetista, che si possa esercitare sul comportamento dei figli un' influenza molto maggiore di quanto in genere si pensi». Un compito impegnativo che ha radici inscritte nell'evoluzione.
L’ESSERE BIPEDI . Torniamo indietro a quando l'Homo sapiens ha dovuto sviluppare un restringimento del canale pelvico per riuscire mantenersi in equilibrio su due gambe. Per le donne ciò ha significato parti dolorosi, spesso con esito fatale. Si è quindi rapidamente messa in moto, secondo quanto teorizzato dai biologi evoluzionisti, una sorta di competizione tra l'ampiezza del canale pelvico e le dimensioni del cervello. Risultato finale? I neonati vengono alla luce con un cervello non del tutto sviluppato e quindi non possono sopravvivere in assenza di cure parentali attente e continue.
Se la sopravvivenza rappresenta per il cervello la massima priorità, la sicurezza è l'espressione più importante di tale bisogno. Può essere sconcertante rendersene conto, ma i neonati tengono d'occhio il comportamento dei genitori sin dall'istante in cui vengono al mondo. «Qualcuno mi sta toccando? Qualcuno mi nutre? Chi sono i miei riferimenti?». I bambini hanno a disposizione una ristretta finestra temporale per creare dei legami sicuri e di dipendenza «produttiva» con le persone che in quel momento si prendono cura di loro. Se ciò non accade, possono subire danni alla sfera emozionale con effetti anche a lungo termine. «L'attaccamento alle figure di riferimento può avvenire nei confronti di qualsiasi adulto che soddisfi i bisogni di sicurezza del bambino - dice Medina -. Indipendentemente dal genere sessuale».
L’INTELLIGENZA . Il professore ritiene siano ben cinque gli ingredienti fondamentali della nostra intelligenza, nessuno dei quali misurabile dagli attuali test del QI: desiderio di esplorare, capacità di controllare i propri impulsi, creatività, comunicazione verbale e capacità di verbalizzare le emozioni.
Grazie agli studi che lo psicologo Walter Mischel fece alla fine degli Anni 60, sappiamo che per un bambino la capacità di controllare il proprio desiderio di gratificazione, come resistere per 15 minuti alla tentazione di assaggiare una dolce, è un fattore predittivo del futuro rendimento universitario, assai migliore del QI. Indica in che misura il bambino è in grado di filtrare i pensieri distraenti, concentrandosi invece sull'obiettivo principale.
Inoltre, quanto prima un bambino impara a dare un nome alle emozioni che prova, invece di esserne sopraffatto, tanto più sarà in grado, da adulto, di stabilire relazioni empatiche e profonde con gli altri. Insomma, avrà una chance in più per essere felice. «Se i vostri figli sono circondati da persone che sanno parlare di ciò che provano, anche loro impareranno a verbalizzare le emozioni e questo si rivelerà utilissimo per voi quando loro entreranno nella pubertà!», confessa Medina.
LA PRATICA . Ci sono suoni e odori che hanno un miracoloso effetto calmante su vostro figlio e possono diventare antidoti per le crisi di pianto. Probabilmente si tratta degli stimoli che il bambino ha percepito mentre era nell'utero e che quindi gli trasmettono protezione e sicurezza.
Un’altra informazione preziosa riguarda le bugie. A quattro anni i bambini ne dicono una ogni due ore circa; a sei una ogni 90 minuti. Il gioco inizia quando, intorno ai 36 mesi, si rendono conto che i genitori non sono sempre in grado di leggere nella loro mente. Con piacere (oppure orrore) scoprono di poter dare false informazioni senza che, necessariamente, papà e mamma se ne accorgano. «Non vedo niente di sbagliato nel riprendere un bambino che racconta bugie, ma questo rimprovero raggiunge la massima efficacia se gli adulti smettono di mentire», aggiunge lo studioso.
LA PSICHE . Un altro suggerimento riguarda la psicologia: con la nascita di un figlio, per la coppia, è probabile sperimentare alcuni di quelli che il professore definisce i «quattro calici dell'ira»: carenza di sonno, isolamento sociale, carico ineguale di lavoro, depressione. Le coppie che hanno relazioni solide, connotate dall'empatia, hanno le più elevate probabilità di far crescere dei bambini intelligenti e felici.
Infine, mettete da parte i soldi per pagare 10 anni di lezioni di musica: suonare uno strumento, cantare o ballare, purché la musica entri a far parte delle esperienze di vostro figlio. È dimostrato che questa pratica aiuta i piccoli a percepire le emozioni altrui.

La Stampa TuttoScienze 27.4.11
L’evoluzione insegna l’ottimismo ragionevole
Emozioni e gelidi computer
di Maurilio Orbecchi


I colori che rendono la nostra vita piena di bellezza non esistono in natura, ma sono il prodotto dell' interazione tra alcune lunghezze d'onda e il sistema occhio-cervello. Nonostante questo dato, qualunque fisico continua a rimanere incantato dai colori di una giornata d'autunno.
Sapere che certi fenomeni sono differenti da come appaiono non intacca il modo di percepirli, perché il cervello umano funziona a moduli relativamente indipendenti. La conoscenza cognitiva riguarda, infatti, parti del cervello differenti da quelle coinvolte nella percezione, che continueranno a funzionare in modo sostanzialmente autonomo.
Le nostre peculiarità si sono sviluppate a contatto con la natura percepita dall'Homo sapiens nel corso della sua evoluzione e rimangono le stesse nel mondo odierno, da allora enormemente mutato. Se perdessimo la dimensione psicologica che ci definisce, e che si è formata per le esigenze dei cacciatori-raccoglitori da cui ci siamo evoluti e adeguassimo il cervello alla tecnologia odierna, diverremmo simili a dei gelidi computer. In altre parole diverremmo disumani.
Fortunatamente, per come è strutturato il cervello, la cosa non può avvenire. La cultura scientifica non può sostituire le sensazioni immediate.
Si limita ad aggiungersi alla nostra conoscenza di base ogni volta che gli studi ci forniscono risultati convincenti. Uno dei casi in cui la vita emotiva e la conoscenza acquisita possono entrare in conflitto è la valutazione del male, se sia in diminuzione o, come appare a molti, in aumento.
Un cittadino che si guarda attorno non può che pensare che le cose stiano andando in modo pessimo: ragazze violentate e uccise, criminalità organizzata, abusi su minori, politici corrotti, nazionalismi, integralismi, guerre... Se da una parte è vero che una sola violenza o un singolo omicidio è sempre di troppo, occorre però capire se le cose erano davvero migliori in altri tempi, o in altre culture.
Anche qui, la conoscenza che si basa sulla ricerca ci dice che le cose sono molto differenti da come le percepiamo. Il motivo sta nel fatto che noi, in definitiva, siamo un po' autoreferenziali. Lo sviluppo di quest'atteggiamento nel passato ha aiutato la sopravvivenza dei nostri progenitori in un ambiente ostile. Per aggirare la parte egoista della nostra psicologia, che ci porta a pensare che gli altri stiano meglio, occorre dunque utilizzare indicatori neutri e confrontarli con epoche diverse.
Gli studiosi che fanno queste ricerche trovano dati evidenti sul fatto che gran parte dell'umanità, oggi, vive meglio che in qualunque epoca passata: aspettativa di vita, malattie, nutrizione, comfort ambientale, servizi igienici, potabilità dell'acqua, sicurezza sociale, soprusi politici, numero degli omicidi e numero delle guerre, sviluppo economico. Anche gli indicatori culturali portano in questa direzione: alfabetizzazione, numero dei diplomati e dei laureati, libri pubblicati, spettacoli di teatro e di musica, visitatori dei musei e delle mostre.
L'illusione che ci fa credere che le cose vadano male raggiunge probabilmente il suo apice quando abbiamo a che fare con ciò che troviamo maggiormente disumano, ossia gli omicidi e le guerre. Eppure anche qui le ricerche ci mostrano non solo che gli omicidi sono in costante discesa, ma perfino che il decennio appena finito è stato quello con meno morti - percentualmente alla popolazione - di tutta la storia moderna, e molto probabilmente della storia dell'umanità.
Se le curve di sviluppo manterranno l'andamento dell'ultimo secolo, ossia se le innovazioni tecnicoscientifiche non cesseranno e la libera circolazione delle idee e dei beni non sarà bloccata, è ragionevole supporre che anche la parte dell' umanità che non è ancora stata sufficientemente beneficiata dallo sviluppo, lo sarà nei prossimi decenni.
Oggi la possibilità di comunicare istantaneamente le proprie idee e i propri risultati sembra imprimere un'ulteriore accelerazione al miglioramento della vita. Per questo, evoluzionisti come Matt Ridley, che presenta alcuni di questi dati nel libro «The Rational Optimist», (Harper Collins), di prossima pubblicazione in Italia da Rizzoli, invitano a guardare con ragionevole ottimismo al futuro.

Maurilio Orbecchi Psicoterapeuta RUOLO: E’ SPECIALISTA IN PSICOLOGIA CLINICA IL LIBRO:MATT RIDLEY «THE RATIONAL OPTIMIST» - HARPER COLLINS

La Stampa TuttoScienze 27.4.11
Misteri L’origine dell’uomo
Togli qualcosa allo scimpanzé e cosa ottieni? L’essere umano
“La nostra evoluzione si è scatenata dalla sottrazione di Dna”
di Luigi Grassia


Solo il 4% di differenze tra le due specie Via i geni che limitavano lo sviluppo cerebrale e determinavano alcune peculiarità sessuali
Non è necessario creare nuove caratteristiche, basta silenziarne alcune esistenti

I tipi giusti sono loro, gli scimpanzè, non noi; perché nell’àmbito della grande famiglia antropomorfa noi esseri umani abbiamo un patrimonio genetico «mutilato» rispetto all’antenato scimmiesco comune, mentre gli scimpanzè, che sono i nostri parenti più stretti, hanno conservato un genoma di serie A. Le scoperte più recenti al riguardo vengono da una squadra di biologi della Penn State University (Usa), guidata dal professor Philip Reno, e mettono le radici in un fatto ben noto e digerito dalla scienza, cioè che lo scimpanzè e l’uomo hanno in comune il 96% del Dna. E fin qui tutto ok. Anzi, sappiamo pure che 7 milioni di anni fa le due specie ne avevano in comune addirittura il 100%, cioè erano una specie sola (che viveva in Africa, e soltanto lì). Poi lo scimpanzè e l’uomo hanno cominciato a differenziarsi. Non è successo dall’oggi al domani. È stata una faccenda molto lunga, un milione di anni durante i quali i proto-scimpanzè e i proto-uomini hanno continuato (saltuariamente) a incontrarsi e ad accoppiarsi, e persino a generare ibridi, ma con frequenza via via minore, finché le due specie sono risultate così diverse che il rapporto sessuale è diventato impossibile.
Studio sistematico Se questo era già conosciuto a grandi linee, quel che mancava finora era uno studio sistematico di che cosa, in concreto, fosse cambiato nel Dna dell’una e dell’altra specie: quel 4% di Dna che fa gli uomini diversi dagli scimpanzè in che cosa consiste, di preciso? Qui è saltata fuori la grossa sorpresa della ricerca della Penn University. Si è scoperto che gli esseri umani si sono via via differenziati dagli scimpanzè non tanto sviluppando nuove caratteristiche (benché pure questo sia avvenuto) quanto piuttosto buttando via, una dopo l’altra, almeno 510 porzioni del patrimonio genetico dell’antenato-scimmia comune.
Quasi tutte le soppressioni che ci rendono diversi dagli scimpanzè riguardano il cosiddetto Dna di controllo o di regolazione, cioè quelle sequenze che organizzano il genoma e «decidono» se, in che modo e quanto un gene debba essere attivo. Ebbene, da un certo momento in avanti sempre più pezzi di Dna di controllo proto-umano sono spariti e questo ha disattivato, spento, silenziato, porzioni sempre più grandi del genoma originario, e da ciò sono derivati cambiamenti drastici nell’essere umano che stava assumendo una sua fisionomia. I geni possono anche rimanere nei nostri corpi, identici a quando noi eravamo scimmie, ma funzionano in maniera diversa se vengono a mancare pezzi del Dna di regolazione; è come se un apparato elettrico fosse controllato da più interruttori ma poi qualcuno di questi sparisse: l’apparecchio continuerebbe a esistere e a lavorare, ma alcune delle sue funzioni sarebbero soppresse. In teoria la selezione naturale avrebbe potuto spazzare via questi cambiamenti, che invece si sono rivelati compatibili con l’ambiente e, anzi, vincenti. Siamo sopravvissuti, e anche bene.
Ma che cosa è stato mutato, «silenziando» pezzi di genoma nell’essere umano? Sono molti i fattori che hanno sempre più marcato la differenza fra «loro» e «noi». Per esempio, esiste una sequenza di Dna che negli scimpanzè uccide le eventuali cellule tumorali presenti nel cervello, e limita anche la dimensione del cervello stesso, in modo che non sia compromessa la struttura fisica complessiva dell’animale; la corrispondente parte di genoma negli esseri umani è tuttora presente, ma parzialmente disabilitata, e questo ci ha permesso, in milioni di anni, di accrescere gradualmente il volume del nostro cervello (ma ci ha reso anche più vulnerabili ai tumori cerebrali). Non era detto a priori che il cambiamento fosse un vantaggio, ma ci è andata bene.
La modifica più curiosa in assoluto ha tolto agli esseri umani certe formazioni di cheratina (la sostanza di cui sono fatte le unghie) che invece sono presenti sull’organo sessuale maschile degli scimpanzè e delle altre scimmie antropomorfe. Queste formazioni hanno vari scopi, fra cui quello di accelerare l’eccitazione maschile; la loro scomparsa nell’uomo ha reso meno veloce l’eccitamento sessuale maschile, ha diminuito di conseguenza il numero degli accoppiamenti, e ha favorito il passaggio dai rapporti sessuali di branco a quelli di coppia, un passo fondamentale nella nostra evoluzione bio-sociale.
Questa nuova visione va compresa in un quadro più ampio. Fino a qualche anno fa speravamo di poter collegare ogni specifico gene con una singola caratteristica animale o umana; ma ora sappiamo che a moltiplicare i possibili collegamenti intervengono la presenza di una gerarchia nel Dna, la plasticità indotta da quello di controllo e probabilmente molti altri fattori. Il professor Reno conclude: «Non credo che sveleremo presto tutti i legami fra i geni e quello che ci rende diversi dagli scimpanzè. Stiamo solo schizzando un abbozzo». La natura umana è complessa e il suo mistero potrebbe non essere mai esposto tutto alla luce del sole. Di certo adesso sappiamo di più sulla nostra parentela con gli scimpanzè.

La Stampa 27.4.11
Chiude in India l’ultima fabbrica di “typewriter”: ora tutti usano il computer
La macchina per scrivere svelava l’inconscio
di Marco Belpoliti


Poco più di centocinquanta anni è durata la macchina per scrivere. Da quando un novarese, Giuseppe Ravizza, l’aveva pensata e realizzata per aiutare la scrittura dei non vedenti. Adesso la sua invenzione, contestata da un altro creatore americano, si è estinta. L’ultima fabbrica, localizzata in India, chiude: non ci sono più ordini. Tutti, o quasi tutti, oggi scrivono con il computer. Oppure a mano, con la penna o la matita, dal momento che l’unico vero concorrente della videoscrittura è il quaderno, o piuttosto il moleskine. Il mondo meccanico viaggia verso l’esaurimento.
L’immaterialità ha avuto la meglio.

Ma cosa ci abbiamo guadagnato con la fine della tastiera meccanica? Di sicuro ora si fa meno fatica. Chi ha avuto modo di imparare a scrivere sulle macchine tradizionali - spesso con solo due dita - sa quanta energia occorresse per battere sui tasti, per sollevare il carrello, per imprimere le maiuscole, per dare alla riga un ritmo accettabile.
La scrittura mentale seguiva, almeno inizialmente, il ritmo dei colpi dei polpastrelli sui tasti, e la fine della riga, vera unità di misura, era raggiunta da un suono: Dling! Si andava a capo, e si ripartiva con il filo dei pensieri. Ma c’erano gli errori da correggere: a mano, o ribattendo tra una riga e l’altra, oppure ricorrendo alla gomma da cancellare, ai fogli del correttore Pelikan, e da ultimo al «bianchetto». Una vera battaglia campale, combattuta sui fogli A4, contro i tasti amici e nemici a un tempo, dal dattilografo, sia esso sconosciuto impiegato o invece celebre scrittore. La macchina per scrivere è stato il principale strumento di comunicazione in un’epoca che, almeno per l’Italia, in letteratura va da Pirandello a Pier Paolo Pasolini. Lo scrittore siciliano componeva ancora a mano i suoi testi, poi li dattilografava con la macchina. Il poeta e cineasta in una celebre foto di Dino Pedriali appare chino sui fogli, a fianco della sua fedele Lettera 22. Si può dire che l’immagine dello scrittore, oltre a quella del reporter e del giornalista, sia legata alla presenza dello strumento meccanico, cui corrispondeva nella fabbrica di carta degli uffici la schiera delle dattilografe, schiave della tastiera, che battevano a ritmo frenetico: catena di montaggio di fogli e documenti che hanno riempito gli archivi prima di sperdersi nel vento, o più spesso nelle discariche. Il computer al contrario è leggero e silenzioso. Il foglio di carta immaginario che si apre davanti allo scrivente è pressoché infinito, senza inizio senza fine. La prosa scritta a mano è senza dubbio differente da quella ottenuta a macchina, e questa, a sua volta, diversa da quella elaborata con il personal. La prima avanza al ritmo del polso e delle dita, che descrivono sul foglio cerchi e linee arcuate, seguendo il mondo delle cicloidi, proprio della scrittura occidentale: pensieri sinuosi, arzigogolati, svolazzanti. La scrittura meccanica, impressa dai muscoli delle braccia sui tasti, si produce invece a scatti, dura e pura come il suo ritmo: lettera dopo lettera, parola dopo parola, la frase si compone tra assemblaggi forzati e spaziature necessarie. La scrittura con il computer, al contrario, appare decisamente magica: pura apparizione di lettere. L’immaterialità della videoscrittura è tuttavia a metà strada tra le due. Possiede due nature in una sola: appare dal fondo bianco senza sforzo, ma è pur sempre composta di «caratteri». Per questo i pensieri somigliano a lampi nel buio, meglio nel bianco del foglio virtuale. Si vola, senza fatica e senza resistenza, per pagine e pagine. Se le vecchie macchine per scrivere hanno salvato gli uomini e le donne dall’incombente mondo delle turbe grafiche (tremolio, atarassia, pause, corea), evitandoci l’esperienza dell’agitazione e del turbamento in agguato nella scrittura a mano, che non a caso i grafologi erano in grado di leggere come un fondo oscuro, sfiorando i tasti del personal computer, touch, noi ora sembriamo privi di spessore. Come le lettere che raduniamo sul visore, noi scriventi siamo puri effetti di superficie. È probabile che con le macchina per scrivere si estingua ciò che in noi è profondo: l’inconscio. Dopo il personal ci attende la telepatia: puro pensiero senza più mediazioni materiche. Scrivere e pensare coincideranno. La profondità sarà inabissata nella superficie, e la mente simile a un foglio. Noi stessi solo un foglio che si distende nel tempo e nello spazio. Seppur a termine.

l’Unità 27.4.11
Un’indagine sull’universo femminile firmato da Elisabetta Pandimiglio e Daria Menozzi
Fuori dalle convenzioni sociali che vogliono soltanto madri, mogli e lavoratrici...
Orgogliosamente non mamme Un doc sulle donne senza figli
Si intitola «Cattive» il documentario, ancora in fase di riprese, di Elisabetta Pandimiglio e Daria Menozzi dedicato alle donne che scelgono di non avere figli. Ma non per la carriera o per impedimenti personali...
di Gabriella Gallozzi


Donne senza figli. Non per accidente, non per favorire la «carriera». Né tanto meno per l’assenza di un padre. Ma per scelta. Consapevole. In barba ad ogni «inquietante retorica sulla maternità». Donne «cattive», insomma, fuori dalle scelte convenzionali, rassicuranti (madre, moglie, lavoratrice) e dai luoghi comuni sociali. Ritornati in voga ancora più forti in quest’Italia di veline ministre e casi Ruby che ha perso ogni memoria di conquiste e dignità.
E Cattive, infatti, è il titolo provvisorio di un documentario, al momento in fase di lavorazione, firmato da Elisabetta Pandimiglio e Daria Menozzi, due autrici che nel territorio del reale hanno scavato a lungo, mai in modo precostituito, ma sempre al servizio di una ricerca etica e stilistica, come nel caso de I diari della Sacher, prodotti da Nanni Moretti. È proprio in quell’occasione che le due registe «cattive» si sono incontrate. Ed ora si ritrovano con questo nuovo lavoro da loro prodotto, insieme a Gianluca Arcopinto e Altera doc, a partire da un’esperienza comune, anzi una scelta, quella di non aver fatto figli, appunto.
«Più volte mi sono accorta che quando dici di aver rinunciato alla maternità le persone ti guardano in modo strano», racconta Elisabetta Pandimiglio, tra le fondatrici di Telefono Rosa e le prime frequentatrici del gruppo «Controparola». «Quasi non ti credono prosegue pensano che tu abbia un deficit. Che tu sia strana. È come se non fossi una donna completamente perché non corrispondi ad uno stereotipo che poi è tutto maschile, poiché resta quella la cultura dominante. Una cultura che colpevolizza chi esce dai ranghi. Che ti fa sentire una donna così cattiva da non voler essere madre».
La voglia di girare Cattive, prosegue Elisabetta Pandimiglio, c’era già da un po’ di tempo. Ma si è concretizzata ora «un po’ come desiderio di fare un bilancio su quella che è stata anche una scelta generazionale. E comunque non certo un rimpianto». Le due registe vengono da lì, dagli anni del femminismo, certamente, quando si parlava di «maternità libera e consapevole». E, infatti, le loro protagoniste che si raccontano attraverso interviste molto libere, sono donne comprese tra i 40 e i 55 anni che vivono a Modena, Firenze, Roma. L’obiettivo del film, però, ribadiscono le registe, «non è certo quello di dimostrare una tesi, ma al contrario fare una vera e propria indagine per capire cosa c’è di comune in una scelta così personale». Tanto più in Italia dove «il bombardamento sulla retorica della maternità è tale da portare a scelte forzate o così tardive da arrivare ai casi delle madri nonne». O ancora a quelli più estremi e tanto «amati» dalla cronaca nera delle madri assassine.
Un’indagine, insomma, intorno ad una nuova aria che tira. O forse che torna a tirare. Ad un sentire delle donne decise a nuove scelte di libertà i cui segnali si «catturano» qui e là in giro per il mondo. Negli Usa, per esempio, dove il movimento «Child-free» si interroga su un nuovo possibile stile di vita senza figli e che, forse per la prima volta, indaga sulla maternità non più individualmente ma socialmente. E così in Europa, in Inghilterra e in Francia dove a porre nuovamente la questione è un nome storico del femminismo come Elisabeth Badinter nel suo Le conflit. La famme et la mère che pone come via di fuga, o meglio di libertà per la donna, proprio la scelta di non avere figli. Una scelta che inizia ad evidenziarsi anche dalle statistiche italiane: tra le nate nel ‘60 il 15% non ha figli e la percentuale sembrerebbe in crescita anche per le donne classe ‘64.
Si tratta, insomma, di pioniere di un nuovo femminismo? A Daria ed Elisabetta non interessano le etichette, quanto piuttosto l’analisi approfondita della realtà, come sempre hanno fatto nel loro lavoro. E ancor più in questo caso in cui si tratta di restituire all’universo femminile uno spazio di verità, mai di questi tempi così mistificato.

l’Unità 27.4.11
Notte Bianca a Firenze: sabato la cultura fa le ore piccole


Decine di eventi disseminati in tutto il centro per 12 ore no stop della notte bianca di Firenze. Chiusura a Palazzo Vecchio con cappuccino e brioche. Piazza Annigoni trasformata in un orto urbano; un vero e proprio bosco su Ponte alla Carraia; piazza del Cestello per una sera libera dalle auto che diventa un circo situazionista; maratona jazz nel piazzale degli uffizi e musica elettronica alla Specola; una serata teatrale per i bambini alla Pergola; Riverboom, ovvero Firenze vs il mondo, mostra fotografica negli spazi di affissioni pubbliche.
Questi alcuni dei numerosi eventi (oltre un centinaio) previsti per sabato prossimo, 30 aprile, per la seconda edizione della Notte Bianca. Per 12 ore il centro di Firenze e alcune zone della periferia diventano palcoscenico per performance, installazioni, concerti, mostre, teatro, presentazioni e incontri. Anche i musei faranno le ore piccole, da Palazzo Vecchio (tutta la notte) agli Uffizi (fino a mezzanotte) passando per Palazzo Strozzi e Bardini. Filo conduttore: la cultura contemporanea e quanto di meglio la città e le sue produzioni artistiche possono offrire in questo campo. Con apertura e chiusura ideale proprio a Palazzo Vecchio: la Notte inizia infatti con la lectio magistralis di Maurizio Ferraris (ore 18) e termina il mattino dopo alle 6, con cappuccino e brioche caldi. Ma se quasi tutto si esaurirà nell'arco di una notte, alcune installazioni rimarranno per tutto maggio: per esempio Orto-grafia, l'orto urbano a Piazza Annigoni a cura di Memo studio. Tutti gli eventi, ingresso ai musei compresi, sono gratuiti.

il Fatto 27.4.11
Renzi, perché Firenze è così brutta?
di Caterina Soffici


Caro Sindaco Matteo Renzi, va bene rotta-mare, polemizzare, svecchiare, tirare fendenti e fare il ganzo ogni settimana in televisione. Ma farebbe meglio ad affacciarsi ogni tanto dalla sua aurea finestra di Palazzo Vecchio e guardare giù. Se la città che ho visto in questi giorni è il suo biglietto da visita, non mi sembra un granchè. Non sa quanto mi dispiace scrivere queste cose. Per due motivi. Primo, perché quando lei è diventato sindaco ho sperato veramente che un giovane rottamatore avrebbe fatto bene a questa città da troppi anni vittima di se stessa e di amministratori scellerati. Secondo, perché noi fiorentini della diaspora coltiviamo un’idea della città molto alta, quasi platonica. Siamo come gli innamorati cornuti che non si rassegnano anche quando l’amato bene consuma il tradimento sotto i loro occhi. Più li deludi, più si incaponiscono. La città del nostro immaginario è di una bellezza struggente, è la capitale dell’arte e della cultura, quella che ci invidiano da tutto il mondo. Ogni volta che torniamo la troviamo invece sempre più grigia, abbacchiata e sciatta di come l’avevamo lasciata. E quindi, essendo fiorentini, dopo la tristezza ci monta la rabbia. E sa cosa che cosa fa rabbia più di tutto? La sciatteria, la mancanza di gusto, il menefreghismo. Non è solo una questione di assedio del turista di massa e di mancanza di soldi, che sono le scuse di sempre. Roma è caotica, sudicia ma vitale. Venezia è un parco giochi per gondolieri, ma a suo modo vitale. Caro Sindaco, Firenze sembra un morto che cammina. E’ questione di metterci l’anima e la testa. Le faccio qualche esempio. E’ così impossibile impedire che la capitale del Rinascimento diventi la capitale del cemento armato? Perché fare una colata a forma di vela per costruire una pensilina del bus quando basterebbe una tettoia di ferro battuto? Ed è proprio necessario riempire i viali di cordoli spartitraffico in cemento altezza d’uomo che non sfigurerebbero come barriere anticarro in un check point di Beiut? Come in un paese appena uscito dal socialismo reale, siete riusciti anche a disseminare la città di fioriere di cemento. Nella patria del cotto e dei vasi dell’Impruneta avete permesso il proliferare di cubi grigi inguardabili, alcuni addirittura sponsorizzati dalle banche, come l’obbrobrio in via Isola delle Stinche, davanti a Vivoli, la gelateria più segnalata dalle guide turistiche del globo, metà giornaliera di qualche migliaio di golosi. Anche lì è la fiera del cassonetto, con coreografia di graffiti sui muri e una rastrelliera dove giacciono scheletri di biciclette pre-alluvione spolpati dai ladruncoli. Non ci vorrebbe molto a portarle via e a dare un po’ di decoro alla piazza. L’arredo urbano, caro Sindaco, anche se il termine può farle schifo, è una cosa importante. Come il decoro. Non si può permettere che Firenze si riempia di insegne al neon, lampeggianti di ogni colore, con scritte talmente kitsch da far rimpiangere la celebre rubrica di “Cuore”. Arredo e decoro non sono chiacchiere per esteti. In una città come Firenze la forma è sostanza. E qui meritano un capitolo intero i cassonetti della spazzatura : brutti e puzzolenti oggetti di plastica grigia con il coperchio blu piazzati nei posti più improbabili e in vista. Non c’è piazza che non ne sfoggi una sfilza di tre o quattro, proprio nel centro. Piazza Pitti, Piazza Santa Croce, Piazza santa Maria Novella, Piazza Santo Spirito. Tutta Firenze è un monumento, obietterete, quindi dove li mettiamo? Intanto cominciamo a escludere le piazze. Poi si può anche studiare di tornare al vecchio sistema di raccolta. Lo fanno a Londra, con dieci milioni di abitanti. Ho gioito caro sindaco, del suo blitz in piazza del Duomo contro la tramvia. Bene ha fatto a chiudere alle macchine. Ma il centro storico non è solo il Duomo. Basta girare l’angolo per infilarsi in alcuni vicoli con scrocio sul cupolone del Brunelleschi, ridotti a pisciatoi a cielo aperto nei quali non si riesce neppure a entrare per l’insopportabile puzzo di urina. E lo stesso intorno a via Tornabuoni, agli Uffizi, ai Lungarni. Per non parlare della pensilina della stazione, altro pisciatoio all’aperto e bacheca per centri sociali e studenti in cerca di una stanza da condividere. Cosa penseranno gli stranieri che scendono da un treno ed è la prima cosa nella quale si imbattono? Si ricorda la famosa bretella del Galluzzo, la galleria che doveva risolvere la viabilità a sud? Sono sei mesi che i lavori sono fermi. Sul muro qualcuno ha scritto: “Icchè s’aspetta lo scudetto per aprire questo tunnel? Piacciconi!” E un altro gli ha risposto: “Tranquilli, fate pure i vostri comodi, tanto siamo ultimi”.Per fortuna ai fiorentini l’unica cosa che non manca è la battutaccia. Purtroppo la sottile ironia in questo caso non basta.