martedì 3 maggio 2011

l’Unità 3.5.11
Il segretario Pd a Cagliari. Una città su cui scommettere per la svolta a sinistra. Come a Olbia
In Sardegna «possiamo vincere». E su Veltroni: «Scimmiottare Berlusconi non è affar nostro»
«Dalle urne avremo sorprese e il governo dovrà tenerne conto»
«Dalla Sardegna può arrivare un segnale importante a livello nazionale», dice il leader del Pd. Che ripete: le amministrative devono far capire che bisogna smetterla di occuparci di «equilibri comprensibili solo a Radio Padania».
di Simone Collini

«Dalle urne usciranno delle sorprese. E il governo non potrà non tenerne conto». Pier Luigi Bersani segue con attenzione l’evolversi della situazione in vista del voto parlamentare sulle mozioni riguardanti la Libia. Ma c’è un altro voto a cui guarda con anche maggior attenzione, quello amministrativo di metà mese. Il leader del Pd non ha mai creduto che il governo potesse cadere sui raid aerei, mentre è convinto che le elezioni comunali possano mandare un avviso di sfratto a una coalizione che sta in piedi solo per interessi privati. «Non lavoriamo per spallate, ma auspichiamo che da questo voto venga un segnale inequivocabile che così non si può più andare avanti, che bisogna smetterla di occuparci dei problemi di uno solo e di equilibri comprensibili solo a Radio Padania, che dobbiamo cominciare a discutere di lavoro, redditi, servizi».
Per questo mentre tra Roma, Arcore e via Bellerio va in scena una trattativa che per lui avrà come unico risultato «coprire di ridicolo il nostro Paese», Bersani vola in Sardegna per sostenere i candidati sindaci del centrosinistra. «Sono fiducioso sulla possibilità di vincere qui», dice arrivando a Cagliari. «Da qui si può dare un contributo forte al centrosinistra anche a livello nazionale». Già, perché mentre tutti i riflettori sono puntati sulle sfide di Milano, Torino, Bologna e Napoli, non sarà da sottovalutare il risultato di Cagliari e Olbia. Due città in cui il centrosinistra non è mai riuscito ad aggiudicarsi il sindaco, ma che stando ai sondaggi diffusi prima del blackout informativo potrebbero dare un segnale in controtendenza.
In entrambe le città i candidati non sono espressione del Pd, ma Bersani non sembra darvi peso. A Cagliari è in corsa Massimo Zedda, trentacinquenne consigliere regionale di Sinistra e libertà che alle primarie ha battuto il senatore Pd Antonello Cabras. Il suo partito si impegnerà al massimo nonostante la sconfitta ai gazebo? Risponde Bersani: «Non amo sentir parlare di sconfitte nelle primarie. I contendenti qui non sono avversari. Con tutta la nostra convinzione sosterremo il candidato del centrosinistra. Su questo non ci sarà una sbavatura». Quanto a Olbia, dove Bersani si sposterà oggi per questa due giorni sarda, il candidato sostenuto dal Pd è l'ex sindaco Pdl Gianni Giovannelli, fuoriuscito dal partito di Berlusconi dopo un duro scontro e ora a capo di una sorta di coalizione di salvezza civica. Un laboratorio in vista dell'ampia coalizione? «Non sperimentiamo alleanze politiche alle amministrative – risponde – davanti a temi come l'imparzialità della pubblica amministrazione, la trasparenza, la legalità siamo aperti e generosi rispetto a qualsiasi convergenza».
Se il centrosinistra riuscirà a raggiungere l'obiettivo di espugnare le roccaforti sarde della destra, sarà anche perché è «unito e con un Pd tutto assieme in campo». Un aspetto sottolineato da Bersani rispondendo a chi gli chiede del ruolo che potrà avere Renato Soru, recentemente assolto nel processo sulla pubblicità della Regione sarda. Il leader del Pd si dice «felice che tutte le energie tornino in campo»: «Non c’è dubbio che Soru rimarrà protagonista della nostra vita politica, è un dirigente che ha un profilo sardo e nazionale e vedremo insieme a lui quale può essere il modo migliore di impegnare questa energia». E l'uscita di Walter Veltroni sula necessità di una verifica interna dopo il voto e di coinvolgere maggiormente alcune singole personalità? Di questo Bersani non vorrebbe parlare.
Anche perché, come spiega poco dopo in una saletta della sede del Pd regionale, «certi arzigogoli agli italiani interessano il giusto, soprattutto alla vigilia di un voto e quando la gente ci chiede grande unità. Ne discuteremo dopo. Non vorrei che il berlusconismo ci fosse entrato in vena. Ricordiamo come abbiamo fatto quando abbiamo vinto le elezioni. Scimmiottare Berlusconi non è affar nostro, altrimenti rischia di vincere l'originale».

l’Unità 3.5.11
Ai danni del berlusconismo si aggiungono quelli di una involuzione economica e sociale che ha investito l’intero pianeta. Il Pd deve proporre una nuova visione politica
Oltre la crisi
La vera sfida: tornare al futuro
Nel mondo è in atto una rivoluzione conservatrice senza precedenti. Un partito riformista come il Pd ha il compito di affrontarla comunicando con chiarezza alternative e valori
di Alfredo Reichlin

La politica, se vuole tornare a mordere, deve raccontare ai cittadini, specie i più giovani, quello che sta accadendo nel mondo
Lo sapevamo, ma è davvero tremenda questa lunga agonia del “Cavaliere”. Assediato da eventi che non è più in grado di dominare, quest’uomo si difende bruciando i raccolti e avvelenando i pozzi. Il problema politico anche per evitare lo sfascio della compagine nazionale è quello di ridare al Paese fiducia e guida. Una guida non soltanto politica, intellettuale e morale. Essere noi la forza costituente capace di porre su nuove basi il futuro della nazione italiana.
A me sembra che, finalmente, questa strada maestra il Partito democratico l’abbia imboccata. E a questo punto è la realtà nella sua terribile asprezza che rende ridicola la chiacchiera politica sulle alleanze. Noi a chi dobbiamo parlare se non all’insieme del popolo italiano? Il popolo italiano non è una accozzaglia di individui che si definisce in base alle sigle di partito o alle “facce” che si esibiscono in Tv. È un popolo, il quale sente tutta l’incertezza del suo futuro. Ecco perché per dirigerlo bisogna dire bene chi siamo e se l’Italia di domani ha ancora bisogno di una sinistra, e quale.
L’impresa non è facile perché i partiti non si inventano. Sono vitali e contano se sono storicamente necessari, se “fanno storia”, se è chiara la loro funzione nella vita nazionale. Bisogna rispondere, quindi, ad un interrogativo cruciale. Qual è oggi la nostra “funzione”? A fronte di quale grande problema di riforma esso si pone come necessario? Certo la risposta deve partire dall’Italia e, come da anni qualcuno di noi va dicendo e scrivendo, si tratta di creare uno strumento capace di affrontare quella che non è una crisi come tante altre, ma un rischio di dissoluzione della nazione italiana. L’Italia non è un’isola e la sfida che si pone davanti è un enorme e inedito problema sociale e umano. Vogliamo davvero un partito “a vocazione maggioritaria”? Bisogna allora sapere (questo a me sembra il cuore della discussione) che un programma riformista moderno non esiste, non morde se non ha il coraggio di misurarsi con quella profonda rivoluzione conservatrice che domina il mondo da trent’anni.
Non scopro nulla, dico una ovvietà. Ma la ripeto perché forse non ci siamo ancora capiti bene sulla natura di quella svolta. Domandiamoci perché la politica non morde. Solo per insipienza oppure perché si tratta di qualcosa che configura i termini di un nuovo conflitto? Un conflitto di portata storica tra le forze del progresso e quelle della reazione, e un conflitto tale che ridefinisce anche i soggetti, noi compresi. È per questo che il Paese si chiede chi siamo ed esita a riconoscerci come alternativa. Perché insieme alla più gigantesca redistribuzione della ricchezza tra i continenti e dentro i continenti questo conflitto ha investito la vita, le libertà, il destino, il tessuto della società europea. Ha rotto il compromesso tra capitalismo e democrazia, ha posto fine al “cittadino” riducendolo alla misura del consumatore, ha contrapposto l’individuo alla società. In definitiva è questo fenomeno grandioso di portata mondiale che ha creato l’antipolitica, ha scavato questo solco tra i partiti e la gente e che ha reso la sinistra impotente, dato lo squilibrio sempre più profondo tra la potenza dell’economia finanziaria e il potere della politica, cioè la possibilità degli uomini di decidere del loro destino.
Sono solo accenni per dire una cosa su cui non so quanti concordano. Non si tratta di una delle tante modificazioni del capitalismo. È una sfida senza precedenti ai fondamenti storici del compromesso sociale, e quello scambio tra guadagno personale e diritti sociali, tra capitale e lavoro su cui si è retta la moderna società capitalistica e la cosiddetta economia sociale di mercato. Non credo di esagerare. Quando le attività finanziarie (cioè la speculazione in borsa e le scommesse su titoli incartati su altri titoli) sono arrivate a superare di tre/quattro volte le attività reali, e quando sulla spalle dei produttori della ricchezza reale (produzione non significa solo produzione di oggetti ma di creatività umana e della complessità del tessuto sociale) grava l’onere di remunerare una rendita enorme e parassitaria, non possiamo non chiederci, non solo su quali basi reali, ma su quale legittimazione etica si regge la società di oggi. Io penso che questo sia il passaggio nuovo. È etico-politico, non soltanto economico. E anche certi economisti dovrebbero ricordare che dopotutto l’economia è un rapporto tra uomini, non tra cose. Enormi ricchezze si creano sul debito, cioè giocando su risorse inesistenti. Ma chi paga i debiti? Quei debiti non sono pagati da chi li ha fatti ma dal denaro pubblico e dal “valore aggiunto” creato dal lavoro. Ovunque il debito privato si trasforma in debito pubblico. Ma allora di che riforme parliamo? Quale nuovo compromesso sociale è pensabile (prima il risanamento e poi lo sviluppo) quando il sistema finanziario sottrae il risparmio alla produzione di quei beni pubblici (formazione, capitale umano) i quali rendono poco nell’immediato ma senza i quali non esisterà mai lo sviluppo? Aumenterà solo l’ingiustizia. Ecco perché il riformismo è di fronte a una cosa diversa dall’economia sociale di mercato, ovvero dalle civiltà che ha avuto come centro l’Europa, cioè un luogo dove il comando della società e della vita umana non dipendeva solo da una oligarchia del denaro fatto col denaro, ma anche dal genio e dalla libertà dell’imprenditore, dal sindacato, dallo Stato, da movimenti ideali e culturali.
Ci sono alternative? Questa è la domanda che mi assilla. Dico alternative concrete, democratiche non il sogno di una rivolta disperata. Io credo che la risposta stia in una dimensione nuova della politica. Penso che dovremmo liberarci dei fantasmi di un modello che in realtà non può più funzionare: l’idea di una società guidata dall’alto. La politica nel mondo di oggi richiede un protagonismo nuovo delle masse. E quindi non solo un programma concreto, ma una rivoluzione intellettuale e morale che parli ai giovani di problemi di questa natura, che poi sono quelli che creano il precariato e oscurano il loro futuro. Il messaggio da mandare ad essi è semplicissimo: riappropriatevi delle vostre vite.
Ecco, io vedo qui un campo enorme di iniziativa di un nuovo partito. Un campo molto vasto perché si rivolge, non solo ad una parte, ma all’intera società. E non a parole, in quanto si pone il problema di coniugare le ragioni della libertà individuale con quelle della comunità. Costruire una nuova comunità umana: questo è il nostro compito, non “solo” costruire un nuovo Stato. Chi difende l’individuo senza storia e senza diritti uguali non capisce che gli uomini non esistono se non in quanto stanno dentro una storia e un legame sociale. Spetta a noi lottare perché essi tornino ad essere persona e ad appropriarsi delle loro vite. Questo è il riformismo. È anche un nuovo linguaggio, meno politicistico e meno economicistico. Del resto che cosa è stato nella storia l’atto di nascita del Riformismo se non la costruzione di una vasta rete sociale di solidarietà, di cooperazione, di lavoro collettivo, ad opera di socialisti come di cattolici? In tutt’altri termini, in tutt’altra scala, anche oggi questo è riformare. È rendere possibile un nuovo umanesimo. Ecco perché io penso che la presenza cattolica sia parte costitutiva del Partito democratico: perché sta nelle cose e nella lotta di oggi la necessità profonda di riunire l’umanesimo cristiano con la lotta per l’emancipazione dell’uomo che fu propria della tradizione socialista.
Vorrei quindi fosse chiaro che il tema che sollevo è qualcosa di molto diverso dall’idea di un classico spostamento a sinistra oppure del ritorno al vecchio scontro sociale. È invece quello di capire meglio il rapporto sempre più stretto, sempre più complesso (questo è il punto) nel mondo moderno tra una economia sempre più dominata dal bisogno di nuovi beni e di un più qualificato capitale sociale e un potere finanziario che in pratica lo nega. È decrepita la vecchia contrapposizione cara ai “liberal” tra Stato e Mercato, è diventata anche poco significativa la vecchia contrapposizione socialista tra profitto e salario. Lo sfruttamento è ben altro: riguarda il lavoro ma investe la condizione umana, la vita, i modi di pensare, i territori. Io credo stia qui il ruolo storico e la base sociale di un partito nuovo. Ed è questo che comincia ad emergere dalle cose.


La Stampa 3.5.11
Secondo il Viminale i giudici di Strasburgo  «Hanno fatto un po’ di confusione». La discussione nel prossimo consiglio dei ministri
Maroni: nuovo decreto per le espulsioni
Il ministro prepara norme che possano superare i rilievi della Corte europea
di Francesco Grignetti

La Giustizia europea ha bocciato il reato di immigrazione clandestina. E però il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, intende «assolutamente reintrodurre» la norma in quanto l’espulsione diretta è «l’unico rimedio per contrastare in modo efficace l’immigrazione clandestina». In questi giorni il ministro non ha mancato di polemizzare con la decisione europea, come anche ieri: l’espulsione diretta dei clandestini a questo punto è «resa di fatto impossibile da un intervento della Corte di Giustizia Europea che ha fatto un po’ di confusione». E’ perciò in preparazione un provvedimento del ministero dell’Interno che dovrebbe basarsi su due capitoli fondamentali. Uno, ripristinare le espulsioni immediate. Due, superare una sentenza della Corte costituzionale che nei giorni scorsi aveva bocciato il potere di ordinanza da parte dei sindaci. Ci sarà un decreto legge già al prossimo consiglio dei ministri.
Il secondo provvedimento, anche questo «allo studio del ministero», dovrà «ovviare al problema della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale una norma introdotta nel primo pacchetto sicurezza». Il ministro si riferisce al potere di ordinanza dei sindaci «che è stato molto utile». Ma quella della Corte Costituzionale è stata una «censura più di metodo che di merito e, per questo, facilmente superabile attraverso lo strumento legislativo». Con l’occasione, il ministero dell’Interno metterà mano a «un quadro complessivo» delle norme che riguardano la polizia locale. «Non è giusto che abbia uno stato giuridico di quando non aveva i compiti che ha oggi», riconosce il ministro.
E intanto alla frontiera italo-francese i controlli restano sempre severi. Circa 50 immigrati tunisini, pur provvisti di permesso temporaneo di soggiorno, sono stati respinti perché non avevano sufficiente denaro per poter espatriare. Ora protestano con uno sciopero della fame a Ventimiglia.
A Lampedusa, sono 1.750 gli immigrati sull’isola dopo la partenza, l’altra sera, della nave «Flaminia» della Tirrenia che ha portato via 1.500 profughi verso diverse strutture di accoglienze. Soltanto un centinaio degli immigrati di quelli sull’isola sono tunisini, mentre tutti gli altri provengono da Paesi dell’Africa subsahariana e sono fuggiti dalla Libia, pertanto saranno trasferiti in centri per richiedenti asilo.
A Ventimiglia i tunisini respinti al confine dalla Francia entrano in sciopero della fame

l’Unità 3.5.11
Feste «sacrosante»
C’è bisogno di un «tempo senza tempo» per risanare la nostra vita

Il senso della pausa nasce da un riferimento al privato (la casa), condiviso con altri. Oggi però in un’epoca di sovraffollamento e di iper-comunicazione, si aspira a stare tranquilli con i propri cari. Un bisogno di riposo ineludibile per gli umani che non sono macchine...
di Stefano Bolognini, psicoanalista, presidente SPI (!)
Mi telefona un collega da Madrid, e il discorso cade sulle polemiche italiane riguardo al 1 ̊maggio: negozi chiusi o aperti? L’amico cade dalle nuvole; in Spagna mi spiega se il 1 ̊ maggio è una domenica, il lunedì viene reso automaticamente festivo, e nessuno ci trova da ridire. Per gli spagnoli è fuori discussione.
Al di là degli aspetti politici connessi, che spesso sono contingenti, giocati su base nazionale e difficilmente leggibili in contesti molto differenti, i miei pensieri evadono dalla politica (ma ci torneranno), per esplorare il senso della festa e del tempo ad essa collegato. Dunque: pare che «festa» (stessa radice latina di feriae) derivi dal greco estiào/festiào=«accolgo ospitalmente», «festeggio banchettando»; e ben più anticamente dal sanscrito vastya=«casa, abitazione». La festa dunque nasceva con un riferimento al privato (la casa), reso condiviso con altri, di solito per celebrare tutti insieme qualcosa o qualcuno. In effetti, le feste religiose e civili hanno spesso mobilitato all’incontro grandi masse di persone, chiamate a celebrazioni e a riti collettivi. Eppure, si ha la sensazione che qualcosa sia profondamente cambiato rispetto al passato.
Si percepisce un certo contrasto con la massima aspirazione di molte persone al giorno d’oggi, che è quella di potersene stare finalmente tranquilli per conto proprio o al massimo con poche, selezionate persone (i propri cari, qualche amico). Rispetto agli antichi, viviamo in un’epoca di sovraffollamento e di iper-comunicazione: tra viaggi, cellulari, Skype, meeting e briefing,
Ipod e Ipad, Facebook e compagnia cantante, l’individuo raggiunge presto il livello di saturazione sociale e da quel punto in poi non ne può più; desidera stare per conto suo. Ha bisogno della festa, certo; ma non nel senso di re-infilarsi nel gruppone per celebrare qualcosa o qualcuno, bensì per farsi in santa pace i fatti propri.
C’è un prototipo fisiologico di questo bisogno di base (tanto sano da essere letteralmente sacrosanto): è il bisogno universale di ritirarsi e di dormire. Le persone sane percepiscono e soddisfano periodicamente il desiderio di «ritiro» nel sonno: una condizione equivalente al ritorno allo stato intrauterino, con ritiro degli investimenti dalla realtà esterna e con l’avvio di quel naturale reset automatico che è il sognare, volto a digerire, a metabolizzare quello che si è incamerato durante il giorno nelle attività della veglia. È un bisogno ineludibile, che va rispettato: togliere artificialmente il sonno ( e dunque il sogno) agli individui (la cosiddetta «privazione ipnica») significa condurli progressivamente all’impazzimento programmato.
In modo meno diretto e meno drammatico, sottrarre il tempo del riposo alle persone significa privarle della possibilità di lasciarsi andare – pur senza dormire – al piacere del funzionamento preconscio, tanto più accessibile quanto meno il soggetto è impegnato in attività che richiedono la sua piena partecipazione attentiva e operativa.
Nei giorni di festa le persone si dedicano più facilmente a cose distensive e meno conflittuali; oltre a chi si dedica al dormire, c’è chi va a correre in bicicletta e chi zappa l’orto, chi legge un libro e chi va a trovare un amico, chi armeggia su un motore e chi sistema l’armadio o la cantina. Molto spesso la festa consente un certo grado – parziale – di regressione funzionale: si fanno cose che tengono abbastanza fuori gioco la parte professionale di sé; e i pensieri vanno un po’ per conto loro, fuori dai binari della operatività coatta e della performance competitiva.
Mi tornano in mente le vacanze dell’infanzia e della prima giovinezza, quando l’assenza della scuola (il nostro lavoro di bambini e di ragazzi) generava senza sforzo mattinate e pomeriggi senza tempo. Da piccoli si perdevano (o meglio, si guadagnavano) ore e ore a fare quello che ci pareva, astratti dalla realtà e assorti a leggere giornalini, giocare con le macchinine o i soldatini, correre per il cortile impersonando varie figure (cowboys o altri avventurieri) in base a copioni spontanei nati lì per lì, rudimentali ma del tutto soddisfacenti. Il tempo spariva, per ricomparire ufficialmente solo col richiamo della mamma per la cena.
Pure da ragazzini il tempo della festa era un «non-tempo»: le partite di calcio al campetto dell’oratorio erano interminabili, si andava avanti per ore ed ore fino allo sfinimento, con le formazioni che mutavano di tanto in tanto quando qualche genitore veniva a prelevare un attaccante o un difensore per imperscrutabili necessità famigliari, ma il collettivo non si fermava mai, perlomeno fino a che ci si vedeva. Il tempo era segnalato solo dall’arrivo del buio; e tutto ciò era formidabile. Cosa – ricordo benissimo di cui eravamo consapevoli anche allora, e non solo adesso per rimpianto idealizzante postumo: eravamo immaturi, sì, ma non scemi.
Anche il tempo della lettura (non quello dello studio!...), della lettura libera, nelle feste o nelle vacanze della giovinezza, era un tempo «senza tempo»: la full immersion in un romanzo ci faceva immedesimare con i protagonisti e con l’ambiente, e spesso i genitori si ritrovavano a cena con un ragazzo o una ragazza in stato di semi-trance, con gli occhi persi nella Russia di Guerra e pace o nel Borneo di Sandokan e Yanez.
Il preconscio «beveva» quelle storie con avidità assoluta, il preconscio creava e sognava, libero da doveri e da compiti precisi; e il resto del Sé introiettava, elaborava, costruiva silenziosamente; il bambino cresceva, il ragazzo evoluiva, in quelle sane e necessarie atmosfere regressive che anche le lingue straniere hanno connotato con espressioni culturalmente nobili e rispettose: «zeitlos», «timeless», «hors du temp», ecc.
Oggi noi soffriamo, a mio avviso, di una colossale turlupinatura propinataci dalla tecnologia: siamo nella malaugurata condizione di poter OTTIMIZZARE IL TEMPO. Grazie ai mezzi di comunicazione possiamo programmare ogni minuto del nostro tempo organizzandoci in modo da non avere tempi vuoti; possiamo predisporre incontri, attività e impegni a ritmo continuo, stipandoli a forza anche negli intervalli più intimi e privati. Non ci sono più i cosiddetti «tempi morti», ma il sospetto è che a volte quelli fossero i momenti più vivi e più aperti della nostra esistenza, al di fuori dell’imperativo frenetico «Produzione! Produzione! Produzione!» recitato persecutoriamente da Charlie Chaplin in Tempi moderni. Ora, per tornare alla poli-
tica (beninteso, nel senso dilettantesco e del tutto generico con cui posso farvi riferimento io, che so abbastanza poco di economia complessa): capisco benissimo che oggi i Cinesi o i Coreani o chissà chi altro ci stiano dando dei punti grazie alla loro iper-produttività a basso costo che li rende così competitivi. Non entro nel merito della quantità media di lavoro necessaria al giorno d’oggi per mantenere un buon livello produttivo e commerciale; tengo conto del fenomeno ben noto per cui a certe persone piace più lavorare che riposarsi, anche per sfuggire al contatto con pensieri e rapporti più temuti che desiderati; e arrivo a considerare anche l’esistenza delle cosiddette «nevrosi della domenica», che sono note agli psicoanalisti fin dai tempi di Freud.
Ciononostante, se da psicoanalista dovessi dare un consiglio ai governanti e ai cittadini, direi: rispettate il tempo della festa. È un tempo «sacrosanto», non per motivi religiosi o civili, ma per fondamentali ragioni di sanità del vivere. Gli uomini non sono macchine meccaniche, sono organismi psico-biologici delicati e complessi ed hanno bisogno di riposarsi per poter lavorare, di poter dormire per poter essere ben svegli, di coltivare aree di ritiro benefico per poter re-investire energie sul mondo esterno.
C’è un tempo per il lavoro e un tempo per il riposo, c’è un tempo per gli altri e un tempo per sé, e conviene non perdere il contatto con questa ritmicità del tutto naturale.

La Stampa 3.5.11
Abusi sulle pazienti Arrestato psichiatra
di F. Pol.

Medico e violentatore. Con il camice bianco avvicinava le sue vittime scelte tra le pazienti più giovani, con sedativi e ansiolitici le costringeva a fare quello che voleva. C’è voluto quasi un anno di indagini, ma alla fine i carabinieri di Lodi hanno smascherato un medico psichiatra di 55 anni, in forza all’ospedale di Codogno. Il gip di Lodi ha disposto il suo fermo, il medico è finito agli arresti domiciliari con l’accusa di violenza sessuale pluriaggravata. I casi accertati sono due, ma i carabinieri credono che siano molti di più e hanno lanciato un appello a tutte le donne passate in quel reparto del nosocomio di Codogno.
Perchè alla fine questa vicenda è venuta fuori per caso. Per le confidenze di una giovane paziente italiana di appena vent’anni che lo scorso giugno ha raccontato a un’altra donna, ricoverata nello stesso reparto, di avere subito pesanti attenzioni sessuali da parte del medico, stimato e apparentemente irreprensibile camice bianco. Anche l’altra paziente, pochi anni di più, ha ammesso di avere subito le stesse violenze. Da qui la denuncia ai vertici dell’ospedale che hanno poi avvisato i carabinieri.
Il sospetto che il medico possa avere abusato di altre donne è più che fondato. Dalle indagini è emerso che il medico iniziava a tormentare le sue vittime quando erano ricoverate nel suo reparto a Codogno, ma poi continuava le violenze anche durante le visite e la fondamentale terapia successiva alle dimissioni.


Corriere della Sera 3.5.11
Femministe di sinistra sedotte dallo scientismo
Il vuoto ideologico colmato dalla fiducia nella tecnica
di Paolo Mieli

Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta il Partito comunista italiano (dal 1991 Partito democratico della sinistra) ha modificato radicalmente il proprio modo di guardare alle questioni morali connesse con la vita umana. Un giovane storico, Andrea Possieri, già autore di un eccellente lavoro sugli ultimi anni del Partito comunista, Il peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (1970-1991), pubblicato dal Mulino, ha ora studiato come è avvenuto, passo dopo passo, questo Cambiamento di senso comune sui temi bioetici (così il titolo del suo saggio che esce nel libro, curato da Lucetta Scaraffia, Bioetica come storia. Come cambia il modo di affrontare le questioni bioetiche nel tempo, per le edizioni Lindau). Il racconto prende le mosse da una lettera pubblicata su «Noi Donne» il 3 dicembre del 1972. All’epoca la rivista — espressione dell’Unione donne italiane, un’organizzazione collaterale al Pci — era diretta da Giuliana Dal Pozzo e la pagina delle lettere serviva a dar conto alle lettrici (ma anche ai lettori) di un universo, quello femminile, in grande trasformazione. «Credo che la vera liberazione, la vera uguaglianza, può arrivare soltanto con la scienza e con la tecnica» , scriveva Marianna T. su «Noi Donne» . Per poi così proseguire: «Che cosa è che differenzia radicalmente l’uomo dalla donna e concede a lui di lavorare come vuole? Il fatto che lui non deve fare figli, non ha disturbi mensili, non ha da crollare sotto il peso della gravidanza o da allattare i bambini e così via. Ebbene si passi questa incombenza alle macchine, ovvero alle incubatrici. Prima o poi dovrà pur essere possibile mettere in un’incubatrice un uovo femminile e un seme maschile, e tornare nove mesi dopo a ritirare il bambino; se ne parla ancora per scherzo, ma non credo sia più difficile che andare sulla luna. A questo punto non ci sarebbero più che delle differenze insignificanti, fra l’uomo e la donna. Mi rendo conto che questa rivoluzione biologica sarebbe sconvolgente, per i suoi effetti psicologici; ma d’altra parte non mi sembra affatto necessario che, per il semplice gusto di restare "donna"nel senso tradizionale della parola, si abbia da soffrire anche fisicamente» . Desta interesse, scrive Possieri, il fatto che una rivista come «Noi Donne» , «certo non assimilabile al movimento femminista — che all’opposto, in quegli anni, polemizzava duramente con le scelte e le posizioni politiche dell’Udi — né tantomeno alle teorie filosofiche del femminismo radicale di marca anglosassone, accogliesse nelle sue pagine un richiamo a visioni politico-culturali del tutto estranee alla storia del movimento delle donne di estrazione marxista» . In realtà qualcosa aveva già cominciato a muoversi tra il 1967 — all’epoca della commercializzazione (ma solo a scopo terapeutico) della pillola anticoncezionale di Pincus — e il 1968, anno del movimento studentesco nonché dell’enciclica di Paolo VI Humanae Vitae, che condannava ogni forma di controllo delle nascite. «Noi Donne» — fino a quel momento incentrata sulle tradizionali rivendicazioni emancipazioniste— cominciò ad occuparsi dei temi relativi alla cosiddetta «maternità consapevole» : fecondazione in provetta, coppie di fatto. Fu in quel momento che un deputato socialista, Gianni Usvardi, iniziò una battaglia per cancellare il divieto di far propaganda a favore del controllo delle nascite. Affiancato in ciò dall’Associazione italiana per l’educazione demografica (nata a Milano nel 1953) presieduta da Luigi De Marchi. E soprattutto dal Partito radicale di Marco Pannella, al quale De Marchi aveva aderito. Nel marzo del 1971 la Corte costituzionale stabilì l’incostituzionalità dell’articolo 553 del codice penale, che vietava la propaganda e l’uso di qualsiasi mezzo contraccettivo, prevedendo fino a un anno di reclusione per chi si fosse reso responsabile di tale reato. Quella sentenza determinò una svolta. Ma ancora più importante fu il risalto che il periodico dell’Udi, nel gennaio del 1973, riservò all’attività del medico di Baltimora John Money, il quale per primo aveva formulato il concetto di identità di genere. Di che si trattava? Simone de Beauvoir nel suo famoso libro Il secondo sesso (Il Saggiatore) aveva scritto: «Donna non si nasce, lo si diventa» . Money volle dimostrare scientificamente quell’assunto e ne nacque un libro dal titolo Uomo, donna, ragazzo, ragazza, edito in Italia da Feltrinelli. La dimostrazione si basava sul caso dei due gemelli Reimer, omozigoti nati in una cittadina canadese nel 1965. Che tipo di dimostrazione? Nel tentativo di circoncidere uno dei due piccoli, il medico aveva compiuto un errore e aveva provocato un danno irreparabile al pene del bambino. I genitori disperati si erano rivolti al dottor Money (che avevano visto in un programma tv nel corso del quale il medico aveva reclamizzato la propria capacità di trasformare l’uomo in donna) e gli avevano chiesto aiuto. Money era intervenuto sul neonato, gli aveva asportato i testicoli e gli aveva costruito chirurgicamente un organo genitale femminile. Gli venne anche assegnato un nome da bambina, Brenda. Da questo momento in poi Brenda, avendo un gemello con lo stesso patrimonio genetico, sarà la prova vivente che non sono i geni, bensì l’educazione e qualcosa di indotto — capelli lunghi, bambole, gonne, nastrini, vestiti di pizzo — a fare la donna (o l’uomo). «Noi Donne» scopre il «caso Money» e, per la penna di Giulietta Ascoli, dedica articoli su articoli alla questione, che acquista una valenza rivoluzionaria. Sulle pagine della rivista viene attribuita al dottor Money la prestigiosa qualifica di «uomo emancipato» . La pubblicazione in Italia del libro di Money (che verrà tre anni dopo) consacrerà la tesi che l’essere maschio o femmina non è deciso dalla natura bensì dalla società. A questo punto si rende necessaria una breve digressione. Chi sia interessato a sapere come andò a finire quella storia, deve assolutamente leggere uno straordinario libretto di Giulia Galeotti (anche lei, tra l’altro, ha scritto, per Bioetica come storia, un interessante saggio; è sulla concezione dei disabili a partire dall’Ottocento: a un progressivo riconoscimento dei loro diritti è corrisposta la tentazione di disfarsi della loro costosa presenza attraverso tecniche di controllo prenatale). Il libro della Galeotti che si occupa del «caso Money» si chiama Gender Genere. Chi vuole negare la differenza maschio-femmina? L’alleanza tra femminismo e Chiesa cattolica ed è stato pubblicato poco tempo fa dalle edizioni VivereIn. Racconta di come il ragazzo di nome Brenda, dopo un po’, si sia istintivamente rifiutato di seguire la terapia ormonale del dottor Money, che avrebbe dovuto trasformarlo «definitivamente» in donna. Di come crescendo abbia preso sempre più i tratti del maschio e del fatto che, quando il padre gli rivelò la sua storia, abbia subito un autentico shock. Brenda decise a quel punto di amputarsi il seno e di assumere un nome maschile, David. Tentò una prima volta, senza successo, il suicidio. Si sottopose poi a un intervento per la ricostruzione del pene. Iniziò a uscire con le ragazze. Sposò Mary, già madre di tre figli. Ma David non riuscì a trovare un equilibrio. A questo punto raccontò la propria storia al giornalista John Colapinto per un libro che avrà successo negli Stati Uniti, ma non sarà tradotto in Italia. Finché, all’età di 38 anni, David-Brenda si uccise. Una storia spaventosa. Ma all’epoca in cui se ne occupa «Noi Donne» quello di Money sembra un esperimento perfettamente riuscito e la vicenda di David Brenda viene presentata come un caso esemplare. Vengono poi (1978) la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza; la prima bimba concepita in provetta (Louise Brown, luglio 1978); il boom dell’ecografia (in uso al policlinico Gemelli di Roma già dal 1971). Per l’aborto, sulla rivista dell’Udi si dà grande risalto al metodo di aspirazione Karman, che viene presentato come «fisicamente poco traumatizzante» , un intervento che richiede «un’attrezzatura abbastanza semplice» e «una spesa relativamente esigua» : una tecnica «sperimentata positivamente da molte donne» , di per sé «in grado di eliminare angosce e paure» . Un articolo racconta così l’arrivo in uno spazio Aied di un «giovane ostetrico» londinese esperto di Karman: «L’annuncio della sua presenza, il sapere che avrebbe operato ininterrottamente dalle otto del mattino alle nove di sera, ha richiamato all’ospedale una grande quantità di donne che speravano, dopo tante tribolazioni e pellegrinaggi inutili, di ottenere l’aborto» . «Noi Donne» dà risalto alle ricerche dello psicanalista argentino Arnaldo Rascovsky, che «dimostrano» l’esistenza dell’apparato psichico del feto solo a partire dal quarto mese di vita. Ricerche che, provando «indirettamente» che prima del quarto mese non esiste una vita psichica del nascituro, confermano «la validità etica e giuridica della legislazione vigente» in materia di aborto. «Quello che soprattutto ci deve interessare» , scrive la rivista comunista, «è questo: la scienza ci ha aiutato a sapere con certezza che entro il terzo mese l’aborto non è un fatto così traumatico come alcuni vorrebbero indurre a pensare» . E siamo al referendum sull’aborto (17 maggio 1981). Per questa fase va menzionata un’altra rivista «più teorica» che fa capo direttamente alla sezione femminile del Pci: «Donne e Politica» , nata nel 1969 su iniziativa di Adriana Seroni che la dirige fino al 1981. Secondo Possieri, «Donne e Politica» assomigliava soprattutto nel primo periodo della sua diffusione, dal 1969 al 1977, «più a un bollettino di stampo cominternista che a una moderna rivista politica; rigorosamente in bianco e nero, con un’impaginazione a colonne, senza nessuna presenza iconografica e con alcuni interventi concepiti come dei saggi con tanto di note esplicative, non si prestava, certamente, a una larga diffusione di massa (solamente a partire dal dicembre 1977 venne inserito, per la prima volta, del "materiale illustrativo"e furono tolte le note a fondo pagina)» . Dura era la contrapposizione di questa rivista al movimento femminista e il tema dell’emancipazione femminile era strettamente collegato al rapporto tra le donne e il mondo del lavoro. Nell’agosto del 1980, quando ormai si capisce che il referendum sull’aborto non può più essere evitato, «Donne e Politica» pubblica un dossier sul tema in questione, preceduto da un duro editoriale della Seroni contro «radicali e clericali» , contro Marco Pannella e Carlo Casini, accusati di aver voluto il referendum con «argomentazioni assai diverse» ma con un obiettivo comune: «la distruzione o il profondo snaturamento della legge sull’aborto» . «Noi Donne» , invece, si distingue per la capacità di portare in primo piano i temi bioetici. Di qui in poi il periodico dell’Udi è per circa un quindicennio «un grande incubatore di idee di valori, di esperienze umane e di progetti politici che ha avviato» , sottolinea Possieri, «un processo di inculturazione politico simbolica di issues e parole d’ordine, esterne alla tradizione del movimento operaio, che lentamente iniziano a innestarsi sul nucleo storico della cosiddetta identità comunista» . Al referendum del 1981, come era già accaduto nel 1974 per il divorzio, il fronte laico vince. «Noi Donne» esulta. Solo nell’aprile del 1982 allorché presso l’Accademia delle Scienze di Parigi il professor Etienne-Emile Baulieu, allievo di Pincus, presenta la pillola Ru486 che «sostituendosi al progesterone» impedisce che l’ovulo fecondato si impianti «nell’utero» , solo in quel momento il periodico dell’Udi solleva dubbi. Dubbi di ordine etico, perché «con questi preparati l’aborto sarebbe interamente gestito dalla donna, senza ospedalizzazione, senza traumi fisici, senza interferenze mediche, senza giudizi di chicchessia» , quindi si sarebbe potuto correre il rischio di tornare all’aborto «privato» e di «perdere quanto dolorosamente e faticosamente» le donne avevano conquistato attraverso la legge sull’interruzione di gravidanza. Ma la rivista continua a svolgere un ruolo decisivo, una sorta di «avanguardia» politico-culturale «nella ricezione e nella diffusione dei temi bioetici rispetto ai tradizionali luoghi di elaborazione culturale dei due grandi partiti della sinistra» . Questo ruolo di avanguardia è caratterizzato da tre nomi: in primo luogo Annamaria Guadagni, poi Mariella Gramaglia e infine Franca Fossati, che dirigono «Noi Donne» a partire, rispettivamente, dal 1981, dal 1985 e infine dal 1991. «Donne e Politica» si mette sulla scia di «Noi Donne» , dapprima sotto la direzione di Lalla Trupia, che nel 1981 prende il posto della Seroni. Poi con Livia Turco che succede alla Trupia, diviene responsabile della sezione femminile del Pci (lo sarà anche nel Pds) e, dopo un vivace confronto con il Centro culturale Virginia Woolf di Roma, fa approvare dal Partito comunista il documento dal titolo «Dalle donne la forza delle donne. Carta itinerante» che accetta il pensiero della «differenza sessuale» elaborato dal gruppo milanese della Libreria delle donne. E qui riprende la discussione sulla pillola Ru486, sulla quale erano stati avanzati i dubbi di cui si è detto. Verso la fine degli anni Ottanta, quelle obiezioni iniziali vengono considerate non più attuali. E si allargano le frontiere entro la quali la nuova etica fa proseliti. «Noi Donne» intervista la sottosegretaria alla sanità, la socialista Elena Marinucci, che dichiara di aver sollecitato la casa farmaceutica Roussel-Uclaf «a rendere disponibile in Italia la pillola per abortire» . Nel 1987 l’Udi promuove un sondaggio tra le proprie militanti nel quale il 27 per cento risponde di essere favorevole alle nuove tecniche di fecondazione assistita. Un’analoga indagine, l’anno successivo, vede salire questa propensione al 60 per cento. «In definitiva» , scrive Possieri, «quello che si delineò tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta fu l’incontro sul terreno comune dei temi bioetici tra almeno tre differenti tradizioni politiche: innanzitutto, la cultura femminista e quella emancipazionista che avevano trovato una nuova sintesi politico simbolica nella Carta delle donne; in secondo luogo, la cultura politica di marca liberal socialista che propose un nuovo patto sociale per una ridefinizione dell’etica pubblica ed elaborò un concetto di bioetica laica che includeva al suo interno molte battaglie tipiche del femminismo; e, infine, la cultura politica d’estrazione gramsciana che, dopo aver visto nascere la discussione di questi temi bioetici all’esterno del Pci, finì per essere il luogo politico che ne avrebbe ereditato le idee e i progetti, soprattutto dopo lo shock sistemico del 1989-1993» . Con il marxismo in crisi, «alla bioetica veniva affidata, dalla nostra "era delle incertezze", non solo la missione di strutturare una logica di razionalità laica che risolvesse le questioni specifiche della disciplina, ma anche il compito di proiettare le aspettative più in là, chiedendo a questa stessa razionalità laica di fungere da paradigma interpretativo per affrontare dilemmi etici di ogni tipo» . Gli interventi su «MicroMega» e su «Notizie di Politeia» di Remo Bodei e Maurizio Mori, assieme alle tesi di Umberto Veronesi (esposte nel libro Colloqui con un medico, a cura di Giovanni Maria Pace, pubblicato da Longanesi), diedero corpo dottrinale a nuove forme di pensiero laico. Nuove? Queste forme di pensiero in realtà riportavano alla luce «la forma primigenia e aggiornata del marxismo ottocentesco, ovvero lo scientismo» ; si assisteva così alla nascita di una costruzione politico-culturale che, è opinione di Possieri, «prevedeva non solo la creazione di un’opinione pubblica favorevole a ogni innovazione tecnico-scientifica, ma anche uno slittamento delle opinioni morali, che si muovevano verso una sempre maggiore apertura al relativismo» . È lo slittamento morale di cui ha efficacemente trattato Jacques Ellul ne Il sistema tecnico (Jaca Book). Cioè— come scrivono nella prefazione a Bioetica come storia Sergio Belardinelli, Edoardo Bressan e Lucetta Scaraffia— «la tendenza tipica delle società tecnologiche ad accettare sempre in modo acritico le innovazioni tecniche, anche se, alla nascita, sono oggetto di condanna generale» . Dopo un certo lasso di tempo, in genere cinque o dieci anni, «la novità sembra divenuta inevitabile e la spinta a essere moderni fa il resto inducendoci ad accettarla, anche se le riserve non sono sciolte» . A provocare questo mutamento «è il confronto con gli altri Paesi, dove spesso le novità sono accettate in anticipo; e se altrove hanno dato cattiva prova, nella loro attuazione, non se ne tiene conto» . È la tendenza a fare della scienza un’ideologia, forse l’unica sopravvissuta, e quindi ad affidare alle tecnica il compito di creare nuovi valori, una nuova etica del comportamento. «Una proposizione morale» , scrive Ellul, «verrà considerata valida per un dato periodo solo se sarà conforme al sistema tecnico, se concorderà con esso» . Anche se molto spesso, dopo anni, si scopre che i sospetti della prim’ora erano più che fondati e le obiezioni iniziali resistono al tempo che è trascorso. La resistenza iniziale, sostengono i tre prefatori a Bioetica come storia, molto spesso si basava su buone ragioni, a dispetto della circostanza che poi, rapidamente, queste ragioni sono state accantonate. Ricordarle a cose fatte, quando probabilmente l’innovazione è stata accettata ed è diventata «normale» , è sempre utile, perché offre una base critica per osservare le trasformazioni che la tecnica ci impone, e un pensiero critico nei confronti delle innovazioni tecnoscientifiche è molto difficile da elaborare» . La tecnica, fa notare Ellul, proprio quando sembra che risolva problemi, ne crea ogni volta di nuovi, «e ci vuole sempre più tecnica per risolverli» . Tutto ciò nella storia dell’ex Pci è servito a dare nuova linfa alla pianta primigenia che si era essiccata. «Il progressismo etico, l’entusiasmo per le tecnoscienze, ogni tecnologia che sembri confermare e rafforzare la libertà femminile» , scrivono Belardinelli, Bressan e Scaraffia, «si sono infatti rivelati utili per riempire il vuoto ideologico con cui si è trovata improvvisamente a fare i conti la sinistra, e sono stati quindi accolti con favore dalle stesse persone che fino a poco tempo prima li guardavano con diffidenza» . E non è detto, sostengono sia pure in modo non esplicito autore del saggio e prefatori del libro, che con questo «riempimento del vuoto» la sinistra ci abbia guadagnato. paolo. mieli@rcs. it

Corriere della Sera 3.5.11
Quelle vite sospese tra fisica e fiction
di Giulio Giorello

Ginevra: «Sa-int-Pierre, ecco la cattedrale, facciata neoclassica, l’interno a pietra nuda e nervature» . Al giovane ricercatore esperto in Big Bang e buchi neri non dispiace «quella austerità spoglia di ogni ornamento, il rigore tenace di Calvino, che aveva fatto sbiancare a calce affreschi e decorazioni» . Alla sua interlocutrice, una brillante giornalista venuta da Madrid per un’inchiesta sui «segreti della fisica» , invece, «tanto rigore fa l’impressione di essere figlio di un ostinato orrore» per l’esuberanza delle forme mondane. Ben presto, però, i due saranno reciprocamente affascinati da ben altra geometria, quella dei loro corpi illuminati dal desiderio. È tutto effetto di quella bizzarra «specie di energia» che ci spinge a persistere nella fatica dell’esistenza: gli addetti ai lavori la chiamano «energia del vuoto» ! La fisica contemporanea come metafora della vita: è il tema di fondo dell’ultimo romanzo di Bruno Arpaia (classe 1957), appunto intitolato L’energia del vuoto (Guanda, pagine 264, euro 16,50), un romanzo che unisce sentimento e avventura, sociologia e fantascienza, ma non rinuncia all’intrigo poliziesco e spionistico. Arpaia, però, guarda soprattutto allo scenario dispiegato dalla fisica più recente, emerso dopo le acquisizioni di grandi del Novecento come Einstein, Bohr, Heisenberg, Pauli o Dirac. Creatori ma anche distruttori di concezioni di spazio, tempo, materia ed energia che per secoli erano state considerate intoccabili. Un’altra figura femminile del romanzo di Arpaia— questa volta una prestigiosa ricercatrice — constata che tale rivoluzione concettuale finisce col rappresentare la rivincita del filosofo greco Eraclito, per cui «l’essere ama celarsi » , su Galileo, che pensava che il Libro del Mondo fosse un volume aperto a chiunque avesse la buona volontà di leggerlo, e perfino su Einstein, per cui l’unico mistero è che… non ci sono misteri, almeno per lo scienziato. Di fronte ai paradossi della meccanica quantistica, Einstein aveva una volta dichiarato che la realtà non poteva essere così «maligna» da ingannarci sempre; ma con le nuove trovate del dopo-Einstein essa ci pare sempre più come un prestigiatore che si compiace di stupirci. Di recente il fisico Stephen Hawking ha confessato di non sentirsi di escludere che gli esperimenti col Lhc (Large Hadron Collider), il più potente acceleratore di particelle mai costruito, che abbraccia la Ginevra del protestante Giovanni Calvino e passa sotto la Fernay dell’illuminista Voltaire, possano sconvolgere la costellazione delle teorie oggi ritenute valide costringendoci a rifare tutto da capo. E concludeva: «Ne sarei davvero felice» . Non tutti i professionisti della ricerca condividono però il fascino della sfida intellettuale. Il romanzo di Arpaia è ambientato proprio nei laboratori dello Lhc; e lo stesso intreccio (che qui non riveliamo per non privare il lettore del gusto della sorpresa) è un monito contro queste forme di conservatorismo e un omaggio alla filosofia della scienza di Popper, per cui gli scienziati onesti e audaci non temono le smentite dell’esperienza, anzi le cercano. Sono anche queste un dono di un Dio «clemente e misericordioso» . Quelli che invece si imbarcano in crociate in una testarda difesa dei loro preconcetti, magari al punto di truccare i dati, commettono un vero e proprio errore politico... Non a caso nel romanzo di Arpaia questi «mestatori» vengono strumentalizzati da una forma insidiosa di terrorismo fondamentalista che non sopporta la spregiudicata indipendenza degli scienziati.
Il libro di Bruno Arpaia, «L’energia del vuoto» , Guanda editore, sarà presentato domani a Parma, ore 18, Palazzo del Governatore in piazza Giuseppe Garibaldi

Repubblica 3.5.11
Firenze, prescrizione per don Cantini. Ma i pm censurano l´inerzia della curia
"Quel prete e vent’anni di abusi coperti dai silenzi della Chiesa"

FIRENZE - Per almeno venti anni don Lelio Cantini, parroco della chiesa fiorentina Regina della pace, ha abusato di bambine e adolescenti «a lui affidate in nome della fede», spesso usando il Cantico dei Cantici come «arma di avvicinamento» per carpirne l´innocenza. Per il pm Paolo Canessa e il gip Paola Belsito le violenze sono certe, numerose e gravissime. Ma non sono più punibili perché non sono state raccolte testimonianze oltre il ‘93. E dunque i reati si sono prescritti. Non sarebbe finita così se la Chiesa fiorentina non fosse stata sorda alla richiesta di aiuto, di giustizia e verità delle vittime, una delle quali denunciò i fatti all´arcivescovo Piovanelli già nel lontano 1975. Responsabile dell´«assordante silenzio» della Curia è stato anche - secondo i magistrati - il vescovo ausiliare Claudio Maniago, già allievo di don Cantini, che non prestò ascolto ai suoi ex compagni di parrocchia e che le indagini collocano anche al centro, nel ´96, di un festino sado-maso. Solo dopo che, nel 2007, le denunce delle violenze trovarono spazio su «Repubblica», don Cantini, che oggi ha 88 anni, è stato punito dalla Chiesa con la riduzione allo stato laicale. Amaro il commento delle vittime: «Da un punto di vista giuridico è un´archiviazione, ma nella sostanza è una vera sentenza di condanna», dice Francesco Aspettati, portavoce del gruppo, sottolineando come «le vittime attendano ancora dalla Curia «un gesto pubblico di riconciliazione, che riconosca le responsabilità della Chiesa fiorentina per quanto accaduto alla Regina della pace e per non aver preso nella dovuta considerazione le nostre denunce». «All´attivo c´è solo la riduzione di Cantini allo stato laicale, ma almeno si è fatta luce su una verità terribile durata quarant´anni» commenta Mariangela Accordi, che ha raccontato la sua drammatica vicenda ad Annozero. «Mi aspettavo l´archiviazione» dice un altro del gruppo, Andrea Mancaniello, «ma almeno l´inchiesta ha certificato come vero e oggettivo tutto quello che, non creduti, avevamo sempre detto».
(f.s. - m.c.c.)


Repubblica 3.5.11
La bellezza scandalosa
Ecco perché nella bibbia la donna è superiore all´uomo
di Erri De Luca

Nel suo nuovo libro Erri De Luca rivisita il ruolo femminile nell´Antico Testamento
Eva esce con grandezza dalla conoscenza dell´albero del bene e del male
Mosè, Geremia e Giobbe, cercano di sottrarsi al compito divino che hanno ricevuto

Nella storia sacra gli uomini afferrati dalla divinità e caricati da un suo annuncio, cercano di sottrarsi.
Mosè prova a scansarsi per invalidità, è balbuziente: «O Adonai non sono uomo di parole io, né da ieri né da prima di ieri e neanche da quando la tua parola è al tuo servo: che pesante di bocca e pesante di lingua io sono» (Esodo/Shmot 4,10).
La richiesta di essere riformato è respinta: «Chi ha messo una bocca all´Adàm e chi renderà muto o sordo o vedente o cieco, non io Iod? E adesso vai e io sarò con la tua bocca e ti insegnerò ciò che dirai» (Esodo/Shmot 4,11 e 12).
Sarò con la tua bocca: ogni altra obiezione è superflua, eppure Isaia dice di avere labbra impure, Geremia di essere troppo ragazzo per andare a parlare davanti agli anziani, Giona senza neanche opporre una scusa s´imbarca per la direzione opposta a quella della missione. Infine costretti o convinti accettano, perché l´unico sbaraglio salutare è l´obbedienza.
Le donne, queste donne, non vacillano in nessun punto. Nessuna di loro, che neanche hanno avuto il conforto di una profezia, di una voce diretta, esita. Vanno contro le regole e sacrificano la loro eccezione. Il loro slancio è più solido di quello dei profeti, sono le sante dello scandalo. Non hanno nessun potere, né rango, eppure governano il tempo.
Sono belle, certo, ma per dote sottomessa a uno scopo solo appena intuito. Hanno il fascino insuperabile di chi porta la propria bellezza con modestia di pedina e non con vanto di reginetta da concorso.
Hanno un traguardo, una missione in cuore e la perseguono inflessibili. La scrittura sacra dell´Antico e del Nuovo Testamento, opera maschile, rende omaggio a loro.
La bellezza femminile è un mistero che strugge il pensiero e i sensi. È scritto che Adàm conobbe Eva/Havvà. Attraverso l´esperienza fisica del contatto e dell´abbraccio raggiunge la conoscenza di lei, della sua perfezione. Non è scritto il reciproco, lei non ha bisogno di conoscere Adàm. Lui è estratto dalla polvere, lei dal suo fianco. La natura maschile qui è fatta di materia inerte riscattata dal soffio della divinità. Eva/Havvà proviene da una lavorazione successiva, un secondo intervento della divinità. Esce dal fianco dell´uomo addormentato, ma non bell´e fatta come la dea Atena dal capoccione di Zeus. Le cose stanno invece: «E costruì Iod Elohìm il fianco che ha preso dall´Adàm per (farne) donna» (Bereshìt/Genesi 2,22). C´è il verbo costruire, opera che interviene a perfezionare la parte tolta all´uomo, per produrre Eva/Havvà. È la costruzione della bellezza. L´uomo è qui un semilavorato rispetto alla donna, il prodotto finito dell´alta chirurgia della divinità.
Il verbo "vaìven", e costruì, è un verbo di fabbrica e di figli. Ha lo stesso valore numerico di "hàim", vita. La vita nella scrittura sacra è opera di costruzione. Distruggerla è demolizione.
Donne sterili come Sara e Rachele danno la loro serva in prestito ai mariti dicendo: «Sarò costruita da lei». Il verbo "banà", costruire, dà voce alla parola figlio, "ben".
Con la fabbrica di Eva/Havvà la divinità aggiunge la bellezza al mondo. Nelle lingue che ho frequentato, meno di dieci dunque un campione insufficiente, la parola bellezza è sempre femminile.
La sua superiorità di fronte all´uomo è tale che la divinità impone alla donna di provare attrazione per l´uomo: «E verso il tuo uomo la tua piena» (Bereshìt/ Genesi 2,16): deve esserci in lei una piena, una tracimazione di acque che scavalcano argini, questo è il significato della parola ebraica "teshukà", piena. Senza questa condanna a farsi piacere l´uomo, non sussisterebbe il genere umano. Eva/Havvà esce grandiosa dall´assaggio della conoscenza del bene e del male, ma zavorrata dal peso di provare attrazione per l´uomo. È la sua imperfezione. Le donne portano la bellezza. Ogni generazione femminile si impegna a onorare la dote assegnata. Il corpo femminile si perseguita con accanimento per esaltare la qualità.
Il maschile che gliela invidia reagisce esagerando la sua differenza virile o sforzandosi all´opposto di essere femminile. Il maschile davanti al femminile sbanda.
Le civiltà si sono specializzate nei minuziosi canoni dell´attrazione fino a differenze mostruose.
Il torturato piedino giapponese, l´ingrasso o il contrario, lo scarnificato dimagrimento: il corpo della donna è sotto la pressa di uno stampo variabile, per adeguarsi all´icona prescritta. La dannazione di provare attrazione per l´uomo la sottomette al capriccio estetico maschile. Dopo aver detto: «E verso di lui la tua piena», la divinità aggiunge: «e lui governerà in te». Non su te ma in te: sarà il suo criterio e gusto a governare dentro la donna, che piegherà la sua bellezza, la torturerà per obbedire a quello.
La storia della civiltà si può ridurre alla storia dell´asservimento della bellezza femminile.

l’Unità 3.5.11
Musica & pace: Barenboim oggi suona Mozart a Gaza

Prendete uno dei più illustri direttori d'orchestra del pianeta. Aggiungete una cinquantina di musicisti provenienti da compagini di livello mondiale (Scala inclusa). E trasferite tutti nella Striscia di Gaza: ecco servita l'ultima sfida di Daniel Barenboim, bacchetta israelo-argentina celebre per il genio musicale e per l'adesione alla causa della pace. Un concerto da grand soiree teatrale in una sala attrezzata. Ad annunciarlo è stato ieri a sorpresa un comunicato dell’Onu: l’esibizione è prevista per stasera, in tarda mattinata, nella modesta sede del Museo Archeologico di Gaza. Barenboim dirigerà un'ensemble radunata per l'occasione l’«Orchestra per Gaza» della quale hanno accettato di far parte fra gli altri musicisti della Scala di Milano, dei Berliner e della Filarmonica di Vienna. Pagine di Mozart.

domenica 1 maggio 2011


Napolitano sul Primo Maggio appello ai sindacati: "Ritrovino le ragioni dell´unità"
Repubblica 1.5.11
Camusso, leader della confederazione: continueremo a non firmare accordi che vengono imposti senza trattativa
"Giusto il messaggio del Quirinale ma nessuno chieda passi indietro alla Cgil"
di Luisa Grion


"Ci sono due novità rispetto al passato: un governo che ci divide e i precari giovani e adulti"
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ROMA - «E´ un appello giusto», la mancata unità rende il sindacato più debole ed è ora di cercare regole comuni e trovare la via per rilanciare occupazione e sviluppo. Ma chi travisando il messaggio del Quirinale pensa che «la conflittualità si possa risolvere chiedendo semplicemente alla Cgil di fare un passo indietro» si sbaglia. Così Susanna Camusso, leader del principale sindacato italiano, commenta le parole del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Segretario, di fasi difficili, ce ne sono state tante anche il passato. Perché ora i sindacati non riescono a fare quel paziente lavoro di tessitura che permetteva di sanare i conflitti? Cos´è cambiato?
«Ci sono due novità rispetto al passato. La prima è che ci siamo trovati di fronte ad un governo che lavora per la divisione del sindacato, fatto che non ha precedenti nella storia di questo paese. La seconda è la dimensione della crisi occupazionale che stiamo affrontando: c´è il problema dei giovani, alla quale il Presidente ha posto giustamente attenzione, ma c´è anche il problema di chi è precario o senza lavoro in età adulta. Per uscire da questa situazione è necessaria una grande capacità innovativa, bisogna lavorare sulle proposte. Ma in fase di grandi incertezze è tutto più difficile».
Il governo ha le sue colpe, lei dice. E la Cgil ha mai sbagliato? Non si è mai alzata troppo presto da qualche tavolo contrattuale?
«E´ possibile che abbia fatto qualche errore, ma se penso alla prima rottura sindacale, all´accordo separato sulla scuola del 2008 e alle Finanziarie che vi hanno fatto seguito, alle volte che da soli abbiamo denunciato manovre - sottoscritte da Cisl, Uil e Confindustria - che punivano il lavoratori e non creavano sviluppo mi dico che non abbiamo sbagliato. Ci hanno chiesto di mettere la firma su documenti già pronti, elaborati senza alcuna trattativa, consegnati un quarto d´ora prima. Accettare sarebbe stato ingiusto, anche dal punto di vista deontologico. Non si può pensare che tutto si risolva chiedendo alla Cgil di fare un passo indietro».
Questo grado di conflittualità sindacale è inevitabile?
«Le differenze sono vere e contrariamente a quanto avviene in ambito politico la rissosità non si può ricomporre con le pratiche di compravendita cui il Parlamento ci ha ultimamente abituato».
Da dove si ricomincia allora?
«Dobbiamo metterci d´accordo su come si eleggono le rappresentanze e su come ci si conta. Dobbiamo trovare regole comuni e puntare ad un cambio di passo, ad una vera politica della crescita».
Con il governo c´è qualche spiraglio?
«Le parole del ministro Sacconi non vanno in quel senso: lui pensa che la funzione sindacale sia quella della complicità, non quella della rappresentanza degli interessi. Continua a chiedere ai giovani di accontentarsi, prosegue nella destrutturazione dei diritti e delle prospettive. Non dico debba stare dalla parte dei sindacati, ma penso che dovrebbe stare dalla parte del lavoro e del welfare».
Lei dice che l´appello del Quirinale è giusto, Bonanni della Cisl e Angeletti della Uil plaudono allo stesso modo. Il presidente Napolitano si è lamentato di come i suoi appelli siano accolti con ipocrisia istituzionale. Sarà così anche in questo caso?
«Spero proprio di no, non possiamo far finta che le divisioni non indeboliscano il sindacato e gli appelli all´unità ci arrivano anche dai nostri iscritti. Oggi, primo maggio, saremo insieme a Marsala nel 150esimo dell´Unità d´Italia: il valore del lavoro è il punto da cui ripartire».

il Fatto 1.5.11
La “festa” dei disoccupati
Il Primo maggio con 2 milioni senza impiego Napolitano: “L’Italia sia più fondata sul lavoro”
di Salvatore Cannavò


   È un Primo maggio un po' complicato quello che si tiene oggi: cade di domenica, a solo una settimana dalle vacanze di Pasqua, costretto a fronteggiare il “fuoco amico”, oltre che potenzialmente oscurato dalla cerimonia di beatificazione di Karol Woitjla, Però, guardando al numero delle iniziative e all'atteggiamento deciso dai sindacati, è un Primo maggio che tiene botta. Ci saranno i cortei, la manifestazione nazionale unitaria a Marsala, il classico Concerto-ne di piazza San Giovanni a Roma. Tutto questo accade quando i dati Istat ricordano che il 28,6 per cento dei giovani fra i 18 e i 29 anni è senza lavoro e che la disoccupazione ha raggiunto l’8,3 per cento nel mese di marzo (circa 2 milioni di persone).
CI SARÀ ANCHE il 1° maggio alternativo della MayDay milanese. E c'è il Primo maggio istituzionale, celebrato ieri dal Presidente della Repubblica che ha ricevuto i segretari di Cgil, Cisl, Uil e Ugl e che ha mandato alcuni segnali chiari. Innanzitutto, la centralità dell'articolo 1 della Costituzione, quello che fonda la Repubblica sul lavoro e che il deputato del Pdl, Remigio Ceroni vorrebbe modificare. “Non bisogna esserlo di meno” ha chiosato Napolitano, “ma di più”. E “lo sviluppo economico e la sua qualità sociale – ha aggiunto il Capo dello Stato – la stessa tenuta civile e democratica del nostro paese passano attraverso un'ulteriore valorizzazione del lavoro, in tutti i sensi”. Napolitano ha poi lamentato “l'ipocrisia istituzionale” con cui vengono generalmente recepiti i suoi appelli riferendosi però anche alla necessità di raggiungere il pareggio del bilancio pubblico nel 2014. Secondo messaggio del presidente della Repubblica, stavolta a uso e consumo dei leader sindacali presenti, è stato ancora più netto: non litigate e ritrovate l'unità perduta. “È impossibile l'individuazione di interessi e di impegni comuni?” ha chiesto a Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. “Si teme davvero che possa prodursi un eccesso di con-sensualità, o un rischio di cancellazione dei rispettivi tratti identitari e ruoli essenziali?” Camusso, Bonanni e Angeletti hanno voluto sottoscrivere l'invito mettendo l'accento proprio sulla giornata di oggi che è, secondo il segretario Cgil, la “festa dei lavoratori e non delle organizzazioni sindacali” e che, “speriamo possa fecondare in tutti la possibilità di prendersi le responsabilità che ci competono, tutti insieme” come ha detto Bonanni.
MA GLI ELEMENTI di divisione sono ancora sul tappeto: la vertenza Fiat, i diversi rapporti con il governo e con Confindustria o, ancora, il fatto che il prossimo 6 maggio la Cgil farà uno sciopero generale guardato con ostilità dalle altre confederazioni. Cgil, Cisl e Uil, in ogni caso, terranno la loro manifestazione unitaria a Marsala, puntando sul “lavoro per unire il paese” con un chiaro riferimento ai 150 anni dell'unità d'Italia. La manifestazione partirà alle 9 in piazza Piemonte per percorrere via dei Mille e concludersi in piazza della Repubblica. Alle 11 il comizio dei leader sindacali.
A Roma, ci sarà il Concertone di piazza San Giovanni con Inno di Mameli e Bella Ciao. Cortei sindacali si svolgeranno in tutta Italia, in particolare a Torino dove il 1 maggio ha sempre avuto un significato particolare e dove la manifestazione ha il patrocinio di Comune, Provincia e Regione. Ci saranno però anche le divisioni, come a Bologna, dove la Cgil ha deciso di festeggiare da sola. Dissidi anche a Napoli dove non ci saranno cortei né comizi, ma solo uno spettacolo in piazza Dante. Corteo unitario anche a Milano, alle 9,30 da Porta Venezia a Piazza Duomo mentre nel pomeriggio si svolgerà la manifestazione alternativa di precari, studenti, migranti, centri sociali, sindacalismo di base e autoconvocati Cgil.
"VOGLIAMO DIRLO ben chiaro, dicono i promotori, i precari e le precarie chiedono l’opposto di quella politica di sacrifici che volete imporci. Vogliamo cavalcare la tigre della precarietà e dimostrare che tutti insieme possiamo diventare un problema per chi ci sfrutta". Infine Firenze. Il corteo attraverserà le vie del centro e si concluderà in piazza della Repubblica. Previsti, oltre a quelli dei segretari provinciali, anche gli interventi dei delegati del commercio, come risposta alla decisione del sindaco Matteo Renzi, di consentire l'apertura dei negozi. Una posizione che ha visto la ferma opposizione del segretario Cgil, Camusso, costretta a difendersi dal “fuoco amico” proveniente dallo stesso Pd. Non a caso, si è chiusa venerdì, proprio a Firenze, la campagna "La festa non si vende", lanciata dalla Filcams Cgil per combattere la totale liberalizzazione delle aperture domenicali e festive nel commercio. E ieri sera il Pd toscano ha sentito il bisogno di dichiarare che oggi “sarà nelle piazze delle manifestazioni dei lavoratori e dei precari”.

il Fatto 1.5.11
Primo maggio: chi divide i lavoratori fa il gioco della destra
di Furio Colombo


Oggi è il primo maggio, che dite, festeggiamo? Sarebbe la festa del lavoro, ricordo di un giorno in cui, in un tempo passato e tramontato, c’era chi si prestava a sparare sui lavoratori in sciopero. Tempi barbari e primordiali, quando aveva ragione solo il più potente e il più ricco. Ma poi sono venuti i sindacati, i diritti, le leggi, il rispetto, un senso di uguaglianza non economica ma giuridica e morale, che è l'altra faccia della democrazia.
Eppure c’e in giro chi non ha mai lavorato però va in giro a dire: ma quale festa? Il lavoro si festeggia lavorando. Logico, no? Non secondo la Bibbia. In quel Libro (e, per quel che se ne sa, in ogni altro testo sacro del mondo) a un certo punto Dio, per celebrare il lavoro fatto, riposa. E non secondo la legge americana, ovvero legge e tradizione del Paese di riferimento del capitalismo nel mondo. In quel Paese è stabilito che il primo martedì di settembre si celebra il “Labor Day” ovvero “il giorno del Lavoro”. E quel giorno, nella cosmopolita città di New York, celebre per la sua fama di non chiudere mai, di non dormire mai, non vi aspettate di trovare un ristorantino crumiro (si diceva così un tempo di chi rifiutava di partecipare a uno sciopero) aperto e pronto a servirvi.
Allora che senso ha, in un Paese molto meno capitalistico degli Usa e fondato quasi solo sul controllo monopolistico e familiare della ricchezza, con pochi lavoratori relativamente al sicuro, e tutti gli altri allo sbando, levare la voce con la fierezza degli infaticabili e dire che solo lavorando si celebra il lavoro, e che la festa (persino se cade di domenica) è una contraddizione, e anzi un pretesto per ridurre la produzione di ricchezza nazionale?
UNA RAGIONE C’È, ed è molto importante. Se si resta, almeno in apparenza, all’interno del sistema democratico, occorrono espedienti intelligenti, e complici culturali, per compiere la missione di togliere di mezzo il lavoro ovvero i sindacati, ovvero per cambiarne la natura. Entra in campo, molto prima che la realtà sveli il vero volto di una situazione, che si chiamerà “precariato”, l’ambigua parola “flessibilità”. È toccato al giornalista giapponese Hiroko Tabuki raccontarci, dal Giappone, la parabola del lavoratore precario, nei giorni di Fukushima: “La terra tremava, le ciminiere sembravano fili d’erba scossi dal vento, Masayuki Ishizawa stentava a restare in piedi sul terreno oscillante mentre cercava di allontanarsi dal reattore n. 3. Ma al cancello principale il personale di guardia lo ha fermato, ha chiesto i documenti, ha rifiutato di farlo uscire. ‘Ma lo Tsunami? Non vedete che arriva lo Tsunami?’. Il fatto è che Masayuki Ishizawa è solo uno delle migliaia di lavoratori precari che non dipendono dalla Tokyo Electric Power, l’impresa che gestisce il reattore, ma da gruppi che hanno vinto appalti. Sono tutti lavoratori che, in situazioni normali e senza emergenza, sono esposti a radiazioni sedici volte più alte dei lavoratori regolari della Tokyo Electric Power”.
Tutto il resto è l’immensa disgrazia che segue. Ma un principio è stabilito. Nasce un ordine di prestatori d’opera inferiore, che riproduce il sistema delle caste indiane.
Ora la seconda mossa. Bisogna persuadere i nuovi “intoccabili” che la loro controparte non è l’astuta organizzazione padronale, non sono i politici di sostegno a quella intelligente strategia del risparmio sui costi del lavoro. No, il vero nemico è l'altro lavoratore, quello che viene prima (ovvero da un’altra epoca) e ha un contratto stabile e normale.
Sentite Mario Deaglio, economista e docente: “I precari, in grande maggioranza giovani, diventano lavoratori cuscinetto che assorbono direttamente i colpi della crisi e quindi forniscono un riparo ai lavori più sicuri degli altri. Il caso più evidente è quello della Alitalia, quando per i dipendenti a tempo indeterminato si negoziò una lunghissima, dunque privilegiata cassa integrazione, mentre i precari rimasero a bocca asciutta”. (La Stampa, 16 aprile). Dunque non è una trovata dei manager e dei nuovi investitori avere inventato la spaccatura fra un’azienda sicura (la “good company”) e una su cui scaricare tutti i debiti (la “bad company”). E non è l’inevitabile applicazione di un precedente contratto a imporre la cassa integrazione per i lavoratori assunti prima della invenzione del precariato.
DETTO COSÌ, tutto è pronto per lo scontro generazionale, che prenderà il posto della lotta di classe, o almeno del confronto, che per natura non può essere facile, fra lavoro e proprietà. Adesso se la vedano i lavoratori. Infatti conclude Mario Deaglio nel-l’articolo citato: “Si stanno così creando le condizioni per una frattura orizzontale sempre maggiore tra un Paese normale composto di persone sopra i quarant’anni e un Paese precario composto di persone sotto i quarant’anni, alle prese tutti i giorni con difficoltà economiche gravi”. Ecco dunque il nuovo tipo di scontro, che potrebbe avere tre effetti desiderabili per ogni conservatore che sia anche un buon giocatore: mette sotto accusa i sindacati, spacca ogni opposizione di sinistra (fra chi cede alla sirena del precariato come modernità e chi resta dalla parte del lavoro). E impegna i giovani a combattere gli anziani (che intanto li stanno mantenendo) sicuri che gli operai anziani, e non gli imprenditori, siano gli esosi e i conservatori di un passato ormai insopportabile. Ecco dunque chiarito un piccolo mistero. Perché, in un Paese un po’ ipocrita e incline alla celebrazione di tutto, adesso si condanna la festa del lavoro? Ma perché se non togli il mito e il valore del lavoro resti legato a quella strana cosa chiamata “sinistra” in cui il lavoro era il fondamento di un legame fra tante persone non facilmente trasformabili in “audience”. Per governare nel modo nuovo di una destra senza scrupoli e senza pesi inutili bisogna liberarsi del lavoro. Qualcuno comincia con il Primo maggio. Qualcuno deve dire di no

La Stampa 1.5.11
“Più unità, l’appello è giusto” Ma c’è imbarazzo nei sindacati
Sacconi attacca: la Cgil dovrebbe avvertire che il mondo è cambiato
di Alessandro Barbera


Quando, di fronte a più di duecento persone fra leader ed ex, il Capo dello Stato ha affondato il coltello nella piaga, nei volti della prima fila degli ospiti si è materializzato l’imbarazzo. Da Susanna Camusso a Raffaele Bonanni, da Luigi Angeletti a Maurizio Sacconi, seduto solo qualche sedia più in là. Un imbarazzo così palpabile che alla fine della cerimonia, di fronte ai cronisti, le risposte a quella richiesta di unità “senza ipocrisia” altro non sono apparse come la conferma di una distanza difficilissima da colmare. «Un appello giusto, perché ha ragione quando dice che bisogna partire dalle ragioni di ognuno» (Camusso). «Una sollecitazione importantissima, speriamo di trovare sempre elementi di unità» (Bonanni). «Un richiamo doveroso e fondato, ma niente è gratis» (Luigi Angeletti). «Spero che le confederazioni ritrovino l’unità, ma non possiamo essere indifferenti rispetto al fatto che Cisl, Uil e Ugl hanno saputo assumere responsabilità non facili. Anche la Cgil dovrebbe avvertire che il mondo è cambiato» (Sacconi).
Dai contratti alla vicenda Fiat, fino alle recenti polemiche sul primo maggio, mai come in questo momento le distanze fra le grandi sigle sindacali sono state cosi ampie. In ossequio ai festeggiamenti per i 150 anni, e per la felicità di Napolitano, oggi i tre leader si incontreranno insieme a Marsala. Il titolo della manifestazione è un po’ generico: «Il lavoro per unire il Paese». Il motivo di tanta genericità è presto detto: nonostante l’arrivo alla guida della Cgil di un nuovo segretario, negli ultimi mesi le questioni che dividono le confederazioni non hanno fatto che aumentare. Le proteste prima, e le iniziative legali della Fiom contro gli accordi separati firmati con la Fiat, hanno ulteriormente allargato gli steccati non solo con Cisl, Uil e Ugl, ma anche con molte sigle autonome.
«Non c’è dubbio che le relazioni sindacali si basino sul dialogo costruttivo, ma i problemi non si risolvono nelle aule dei tribunali», diceva ieri, non a caso, il direttore generale di Confindustria Giampaolo Galli. Per capire lo stato di salute dell’unità sindacale basta dare un’occhiata alle iniziative per il primo maggio in giro per l’Italia. Perché nonostante la manifestazione di Marsala, in molte città la Cgil sfilerà lontana dai cugini di Cisl e Uil. Intendiamoci: non è la prima volta, e anzi, in alcuni casi l’aver deciso di unire i festeggiamenti del primo maggio a quelli per l’unità d’Italia ha evitato ulteriori spaccature. In Veneto ad esempio, dove l’anno scorso c’erano state molte iniziative separate, all’ultimo – almeno nei grandi centri - sono state evitate. «Questa volta abbiamo recuperato persino Treviso», dice soddisfatta la segretaria regionale della Cisl veneta Franca Porto. E però le divisioni – complici le crisi aziendali – quest’anno hanno raggiunto Regioni come l’Emilia e la Toscana. A Ferrara è ormai una tradizione. Manifestazioni separate si registrano a Pisa, Massa, Livorno e Lucca. Per la prima volta dagli anni cinquanta, quest’anno si sono separate le sorti dei sindacati anche a Bologna. La Cisl ha festeggiato ieri, mentre il sindacato che fu di Di Vittorio si incontrerà oggi, in solitudine, a Piazza Maggiore. «Abbiamo tentato di evitarla, ma i vertici bolognesi della Camera del Lavoro non hanno sentito ragioni», abbozza il segretario della Cisl emiliana Giorgio Graziani. Nella Cgil c’è ovviamente chi, come Giorgio Cremaschi, canta vittoria: «Questa storia del primo maggio tutti insieme è una colossale ipocrisia. Di che parliamo, di Garibaldi? La scelta della manifestazione unitaria a Marsala è una enorme stupidaggine, si doveva fare semmai a Termini Imerese».
In alcune città l’unità della piazza prevarrà sulle ragioni delle divisioni sulle grandi questioni: a Torino Cgil, Cisl e Uil marceranno insieme nonostante le diversità di vedute sul referendum che, fra poche ore, deciderà il futuro della Bertone. Per non parlare del paradosso di fondo, quello che vede festeggiare questo primo maggio dopo un botta e risposta fra Cgil e Cisl sul senso della festa e alla vigilia di un grande sciopero nazionale che venerdì prossimo vedrà la Cgil manifestare contro il governo e - di fatto - le scelte delle altre confederazioni.

il Riformista 1.5.11
Il riformismo in questo Primo Maggio
di Emanuele Macaluso

http://www.scribd.com/doc/54306668

Repubblica 1.5.11
La richiesta di ridiscutere la linea del partito irrita il vertice. Letta: parliamone dopo aver vinto le elezioni
Pd, gelo sulla "verifica" di Veltroni Bersani: ora i problemi degli italiani
di Giovanna Casadio


Sul web critiche all´ex segretario. La replica: voglio costruire, non accusare
La frecciata di Civati: "Certi leader dovrebbero fare meno interviste e volantinare di più"


ROMA - Un giro di telefonate e di sms. Tutti dello stesso tenore: «Non dare seguito a polemiche, nessun commento a Veltroni». Il segretario del Pd Bersani, il vice Letta, la presidente Bindi, Franceschini, D´Alema, i big della maggioranza hanno deciso che all´intervista al Foglio - in cui l´ex segretario, ora leader della minoranza Modem, ha lanciato l´ennesima sfida («Dopo il voto verifica sulla linea del Pd») - andava risposto con la congiura del silenzio. Al limite repliche laconiche. Rosy Bindi: «Non voglio commentare una proposta che riguarderà il post-amministrative. Lo farò semmai dopo le elezioni». Enrico Letta: «Dal quinto comizio veneto della giornata, dico che dei problemi sollevati da Veltroni ne discuteremo dopo avere vinto le elezioni». E lo stesso Bersani fa sapere che «per ora si parla dei problemi seri degli italiani, a cominciare dal lavoro», è tempo di stare pancia a terra. Confronto interno, congresso anticipato, cambio di linea? La sindrome di Tafazzi... come farci del male: mormorano in segreteria. Insomma, gelo.
A suffragare i malumori della maggioranza ci sono anche i commenti sul sito facebook di Veltroni. Un fiume in piena di critiche. Sospettose: «Ogni volta che Berlusconi è in difficoltà arriva qualcuno a dargli una mano». Esortative: «Ci vuole unità». Ironiche: «Milano ringrazia». Arrabbiate: «Tornatene in Africa». I veltroniani precisano: «È stata una intervista leale - dice Walter Verini -. Nasce giovedì, quando Giuliano Ferrara telefona a Veltroni. E comunque Walter chiede una riflessione "con" Bersani mica "contro". Pone anche il tema del ricambio». Nel senso che sponsorizza Renzi, Zingaretti e Chiamparino («Sono il futuro»). Matteo Renzi, sindaco di Firenze, il "rottamatore", solitamente irriverente, questa volta risponde: «Io sono a disposizione con molta umiltà». «Il Gianburrasca si veste da bravo ragazzo», osservano i veltroniani. Poi ci sono gli attacchi alzo zero di Giorgio Merlo, vicino a Franceschini: «A quindici giorni dalle amministrative arriva puntuale, come sempre dall´interno, una raffica di contestazioni alla guida del Pd di turno. Veltroni danneggia e aiuta Berlusconi». Per Sandro Gozi è «un´intervista al momento sbagliato». Soprattutto in un momento in cui, ragiona Gozi, «a Milano il risultato elettorale è aperto, forse riusciamo ad andare al ballottaggio, chi può comprendere una discussione su cambi di linea, congressi eccetera? Inoltre se un partito che in tre anni ha cambiato tre segretari chiede un congresso anticipato, allora vuol dire che è pronto a chiudere i battenti». Altra notazione: «Renzi e Zingaretti dovrebbero scrollarsi di dosso i kingmaker e dire: ci vuole il ricambio ma facciamo da soli, grazie».
Colti di sorpresa, e presi dalla campagna elettorale, anche gli altri due leader di Modem, Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni che ieri hanno sentito Veltroni. «Walter è pure lui impegnato in giro per l´Italia a fare campagna per il Pd», sottolineano i veltroniani, tanto per precisare che non rema affatto contro. Anzi. Pippo Civati se la prende con la bulimia da interviste dei leader: «Dovrebbero farne meno, e volantinare di più».

il Riformista 1.5.11
La “verifica” nel Pd
Il gelo di Bersani verso Veltroni Sospetti su Renzi
Il Chiampa a Walter: «Non lavoro per una corrente»
di Tommaso Labate

http://www.scribd.com/doc/54306668


il Fatto 1.5.11
Non sono fatti vostri
di Lidia Ravera


Un deputato, prima di accanirsi contro la Costituzione, si è sfogato con la moglie e l’ha spedita all’ospedale. Un capo di governo ha pagato le prestazioni sessuali di una minorenne e l’ha sottratta alla tutela cui aveva diritto. Un direttore di telegiornale, forse, ha procacciato quarti di carne fresca femminile per una clientela di anziani sessualmente incontinenti. Qualcuno ha qualcosa da dire? No, no, per carità... Se hai qualcosa da dire sei bigotto, bacchettone & liberticida. La frase degli spiriti illuminati, che tutto comprendono e digeriscono, è questa: “Un uomo in casa sua (o in casa del suo indiretto superiore) può fare quello che vuole”. Variazione spericolata: “Basta che faccia bene il suo lavoro”, che magari è governare. E mettiamo pure che sia bravissimo a governare (sarebbe già un sollievo), siamo sicuri che possa fare quello che gli pare a casa sua? Che cos’è una casa? Uno spazio extraterritoriale, una zona franca, un paradiso morale in cui ogni regola è sospesa, ogni obbligo decade e nessuno paga per quello che fa (o non fa)? Una volta ci regnavano le donne, sul focolare (almeno lì, almeno a parole). Adesso la donna, nel chiuso delle sue stanze, torna a essere umile ancella. Dietro quella metafisica porta chiusa, quella che separa il privato dal pubblico, l’uomo è padrone. Può coprirti di ridicolo o di schiaffi, ma se tutto avviene lì, in tinello o nella tavernetta, magari nel corso dell’orgiastico riposino del guerriero, nessuno lo “può giudicare nemmeno tu”, come cantava Caterina Caselli, in un’altra era geologica. È una conquista recente del nostro Paese, questa sanatoria del peggio, estesa a chiunque abbia abbastanza potere per scansare almeno un paio di comandamenti. Dio, evidentemente , è dalla loro parte. Noi laici, costretti a comportarci bene per mancanza di protezioni altolocate, continuiamo a fare i conti con la nostra coscienza. Come ai tempi in cui si gridava contro chi era “a sinistra in piazza, a destra nel letto”. E giù feroci lezioni di perfezione relazionale! Avessimo quattro soldi da parte varrebbe la pena di lanciare un’Opa sulla Famiglia per conquistare il primo fra i suoi “valori”: l’impunità domestica.

Repubblica 1.5.11
L’Europa smarrita e l’immigrazione
di Nadia Urbinati


Nel suo mezzo secolo di vita l´Europa ha cercato di diventare un modello di nuova cittadinanza. Teorici e giuristi hanno parlato addirittura di un nuovo paradigma di libertà politica capace di dissociare la cittadinanza dall´appartenza nazionale, una rivoluzione non meno radicale di quella del 1789. Ma messo alla prova del flusso di migranti, il mito europeo si appanna. Gli Stati nazionali tornano protagonisti, le diplomazie bilaterali prendono il sopravvento, le frontiere tornano a chiudersi, le scaramucce di certificati e rimpatri si susseguono. Di fronte agli sbarchi dei profughi del mondo, l´Europa non sembra più certa di voler essere il laboratorio di una nuova cittadinanza. E forse, la recentissima decisione della Corte di Giustizia della Ue di bocciare la norma italiana che prevede il reato di clandestinità va letta come un invito dell´Europa dei diritti all´Europa della politica di rivedere la sua strategia sull´immigrazione.
Ma a dispetto di ciò che l´Europa vuole o non vuole, in un modo o nell´altro i migranti sono ormai parte della sua identità, di quello che è e sarà. Sono il banco di prova del mito europeo e della civiltà democratica. Soprattutto i migranti senza-Stato (stateless), un fenomeno globale relativo a persone senza una nazionalità comprovata. Per ragioni diverse: o perché lo Stato dal quale provengono ha cessato di esistere a causa di guerre civili, o perché chi scappa ha dovuto tenere segreta l´identità per non subire repressione a causa della propria fede religiosa. Nel ventesimo secolo, la pulizia etnica venne realizzata riducendo ebrei e membri di alcune minoranze nazionali europee allo stato di non-cittadini nei paesi dove erano nati, con l´esito ben noto di poterli così deportare ed eliminare in massa. Senza Stato ovvero alla mercé del potente di turno.
Nel 1954 le Nazioni Unite hanno adottato la Convenzione sugli stateless tesa a prevenire che persone fossero o restasse senza uno Stato. Nel 1961 molti paesi, tra i quali il nostro, hanno sottoscritto la convenzione impegnandosi a garantire la nazionalità a persone apolidi nate nel loro territorio. La guerra in Iraq e in Afghanistan, le guerre civili nell´Africa sub-sahariana, le rivoluzioni anti-autoritarie nei paesi arabi hanno comportato un aumento prevedibile dei migranti, rifugiati che scappano la fame e la violenza, che chiedono asilo. Migliaia di uomini, donne e bambini, per piccoli scaglioni o uno ad uno, a piedi o con mezzi di fortuna pagati a prezzi di strozzinaggio, sono da anni in movimento, scappando spesso dalle guerre che i paesi verso i quali vanno sono impegnati a combattere. Un fatto di grande interesse è che tra questa umanitá di senza-Stato sembra configurarsi una nuova identità politica, nata negli interstizi della legge: di quella oppressiva degli stati di provenienza e di quella che incontrano negli stati d´approdo, dove sono dichiarati subito illegali. Senza-Stato e senza legge: è in questa identità paranomica che sta prendendo forma una nuova espressione di identità politica, di cittadinanza senza-Stato, ovvero non come appartenenza istituzionalizzata ma come azione di auto-determinazione alla libertà; cittadinanza come forma di democrazia nascente in quanto denuncia radicale di una condizione di assoluto assoggettamento, di rivendicazione non di diritti umani semplicemente, ma di diritti civili e politici.
I migranti hanno per convenzioni internazionali i diritti umani fondamentali: diritto al soccorso umanitario e medico. Vita minima: questo significa avere diritti umani. Come ha scritto Hannah Arendt in pagine esemplari, ai migranti non è riconosciuto uno spazio legale-politico, ma solo uno spazio naturale; non è riconosciuto il diritto di organizzarsi ma solo di sopravvivere. Chi fa parte della categoria umana semplicemente è caduto nella natura, se così si può dire, fuori della famiglia delle nazioni e dello stato. Persone senza protezione da parte di un governo, nate nella «razza sbagliata», perseguitate non perché hanno fatto qualcosa ma perché sono ciò che sono. La non esistenza legale –poiché senza documenti – costringe i migranti a farsi politicamente attivi fuori della legge. Ancora da Arendt: il paradosso per gli umani protetti dai diritti umani è che per essere rispettati nei diritti devono diventare oggetto di repressione. Violando le leggi si guadagnano l´ingresso nel sistema della legge e acquistano diritti civili – quello alla difesa nei processi o a un trattamento che esclude violenza e tortura – che da ‘liberi´ non avrebbero, perché non-cittadini. La novità di questi ultimi anni, a partire dalla rivolta in Grecia nel dicembre 2008, è che i migranti hanno mostrato di voler usare anche una lingua politica, di volere esercitare una qualche forma di cittadinanza, mettendo in pratica quello che il mito europeo ha predicato soltanto. È successo a Rosarno all´inizio del 2010, quando i lavoratori africani stagionali si sono organizzati per reagire alla loro semi-schiavitù. è successo recentemente in Australia, dove in un campo di detenzione più di trecento migranti hanno deciso di fare lo sciopero della fame per parlare con persone autorizzate del governo Australiano e ottenere di non essere rimpatriati in Afghanistan, da dove erano scappati; hanno chiesto interlocutori con autorità di trattativa, proprio come facciamo noi cittadini quando vogliamo fare sentire la nostra voce. Ma a noi quella voce è concessa dalla costituzione. A loro è negata, nonostante i diritti umani. In questi casi recenti, pur nella differenza delle circostanze, i migranti hanno manifestato una chiara auto-proclamazione di soggettività politica, un passo importante perché un´ammissione esplicita che i diritti umani non danno il potere di contrastare ciò che dallo stato di rifugiati è lecito aspettarsi, ovvero il rimpatrio. Non essere rimpatriati è una richiesta che proviene dall´avere non i diritti umani semplicemente, ma una voce politica. Ma quale cittadinanza è possibile fuori dallo spazio statale? L´ordine giuridico, anche quello europeo che pure ha l´ambizione di essere sovranazionale, non contempla un´identità politica al di fuori dello Stato. Eppure questi migranti agiscono come se fossero cittadini, e così facendo avanzano una richiesta di diritto politico come esseri umani (reclamano una cittadinanza cosmopolita). È questa l´importante novità che sta emergendo dai recenti movimenti di migranti senza-Stato. La loro è una sfida importante alle forze progressiste e democratiche dell´Europa poiché indubbiamente le esigenze ragionevoli di regolare i flussi migratori devono potersi combinare a un progetto che riconosca una dignità di cittadinanza ai migranti, come capacità riconsciuta di proporre e contestare, di trattare e avere una rappresentanza, al di là e indipendentemente dall´appartenenza ad un corpo politico. Partire da una lettura non pregiudiziale di queste esperienze è la condizione minima per cercare di trovare soluzioni giuridiche e politiche che diano dignità ai migranti e nello stesso tempo facciano avanzare l´idea di una comunità politica europea che non sia solo un mito.

il Fatto 1.5.11
Oggi Wojtyla beato in una Roma stanca
La festa unisce solo i fedeli
di Marco Politi


I romani si sono già un po’ stancati della beatificazione. Troppa enfasi, troppa glorificazione, troppi documentari, troppi aneddoti raccontati da chi si vuole scaldare al sole di Wojtyla.
Dice il teologo Hans Kueng che Giovanni Paolo II è stato il Papa “più contraddittorio del XX secolo, che non merita di essere presentato ai fedeli come un modello”. Combattente per la pace e i diritti umani e repressore delle donne e dei teologi.
Ma da ieri è iniziata la lenta invasione dei pellegrini e nelle colonne di zainetti, bandiere, giacche a vento, cappellini e mappe dell’urbe sventolate come ventagli si scopre che non c’è “un” Wojtyla nell’immaginario dei fedeli e dei curiosi bensì un caleidoscopio di ricordi e di impressioni strettamente personali.
LA TRENTENNE romana che lamenta l’“overdose di celebrazione” è la stessa che si tiene stretto Giovanni Paolo II come figura di “guida e di pastore”. L’avvocato spagnolo , appena arrivato in vista del cupolone michelangiolesco, scandisce che è stato una “persona buona per tutti”. Che vuol dire per tutti, chiediamo? “Nel suo cuore teneva tutto il mondo, non soltanto i cattolici”. Nella folla si rintraccia l’impronta di un Wojtyla al di là dei dibattiti storici e teologici. La biologa cinquantenne di Agrigento non è più la giovane scout, che nel 1993 faceva il servizio d’ordine quando il pontefice levò il suo grido contro la mafia. “Gli strinsi la mano perché già sapevo che era un santo”. L’impressione più forte? “Il suo modo di pregare. Intenso. Si estraniava da tutto”. È quello che pensa un’agnostica, che non frequenta le chiese: “Si vedeva che ci credeva e questo te lo faceva amare anche se eri in disaccordo su tante cose”. Un pellegrino ricorda la sua spiritualità e che “parlava con fermezza”. Madre e figlia, venute dal Costarica, si parlano sopra l’un l’altra: “Emanava una magia… la luce di un amore… se lo penso mi viene la pelle d’oca”. La storia è fatta anche di questo. Il riflesso di percezioni. Torna spesso il tema dell’universalità, il superamento delle frontiere. “Ha lasciato il suo segno nella Chiesa per la semplicità e la capacità di toccare i cuori di cattolici e non cattolici – confida un prete brasiliano finito a fare il parroco a Vienna – Un uomo che parlava la lingua degli uomini”.
C’È CHI RICORDA il suo impegno per la famiglia o i valori essenziali: amore, dignità, rispetto per la vita. E chi sottolinea l’apertura alle chiese cristiane e alle altre fedi. “Non escludeva”, commenta un fedele. “Non so descriverlo”, farfuglia arrossendo un ragazzo bavarese. Un tecnico cileno si ferma a spiegare: “Un uomo di pace, che unificava. Un’anima speciale diversa dagli altri papi. Io non sono praticante ma ho avvertito in lui una letizia nel dolore”. I pellegrini polacchi sono un capitolo a parte. All’ombra di una bandiera francese un nonno franco-polacco dichiara: “Un santo patriota. Per me contano Wojtyla, Wyszynski, Walesa”. Una giovane ragazza del coro di Varsavia è più articolata: “Ci ha insegnato l’amore per il prossimo, l’orgoglio di essere polacchi e al tempo stesso di essere umili”.
C’è il giovane croato curioso, arrivato per stare in mezzo alla folla e sentire l’emozione come adrenalina e la signora di Bari, che aspetta una grazia e al nome di Wojtyla associa un “senso di pace, serenità, disponibilità”. Dalle cinque del mattino molti giovani si assieperanno attorno a piazza san Pietro dopo avere passato una veglia al Circo Massimo ascoltando l’ex segretario di Wojtyla cardinale Dziwisz, l’ex portavoce Navarro e la suora miracolata suor Marie-Pierre Simon. Altri fedeli avranno trascorso una notte bianca in preghiera, fermandosi nelle otto chiese rimaste aperte a oltranza.
Si attende un milione. Con gli occhi fissi nel momento decisivo: quando dal balcone della basilica sarà srotolato lo striscione con l’immagine di Karol beato.
 B., un mestiere di pr, non ci sarà. Ma lo rievoca per il suo appello: “Non abbiate paura”. Gli è rimasto impresso, perché “questo è un secolo di paure e di angosce”.

il Fatto 1.5.11
Il merchandpaping intorno al Vaticano
Statuette, accendini, medaglie e persino l’olio extravergine, prezzi gonfiati per gli stranieri
di Federico Mello


Santi e paccottiglie, accendini Zippo del papa e fede autentica; vino “Santa Messa” e una scritta a caratteri cubitali sotto il porticatodelBernini:“Spalancate le porte a Cristo”.
Sacro e profano si mescolano a Piazza San Pietro alla vigilia del giorno più atteso dai cattolici del mondo. Epicentro di tutto – in una Roma caotica vicino alla basilica e deserta nelle vie periferiche – è Borgo Pio, quartiere “santo” della Capitale: fino agli anni del duce un dedalo di viuzze dove perdersi tra sottane e mendicanti (effetto studiato per accrescere lo stupore arrivati davanti alla maestosità di San Pietro); oggi zona spaccata in due da una via della Conciliazione che da venerdì, in poche ore, con muri di telecamere che si alzano in ogni angolo, ha preso il testimone mediatico da Westminster Abbey.
A borgo Pio ristoranti e fast food si chiamano “Habemus delitias” e “Il Papalino”. I negozi di articoli religiosi sono ad ogni numero civico, la merce a disposizione pronta a soddisfare ogni fantasia, le commesse snocciolano prezzi in polacco, inglese, slovacco e croato (“so’ quelli che vengono di più”). Suore, preti e comuni fedeli fanno la spesa con dei cestelli.
DA COMANDINI, un enorme drugstore religioso all’ingrosso, bisogna fare anche mezzora di fila per entrare: un’addetta alla porta smista il traffico. Dentro si trovano pacchi da cento santini a 4,20 euro; statue per ogni gusto e portafoglio (dai 60 ai 400 euro); rosari in ogni foggia; bustine di medagliette in latta ordinate su una scaffaliera in stile ferramenta e divise per tema: “Perpetuo soccorso”; “Fatima”; “Maria Addolorata”; “Gesù risorto”. Nel firmamento dei santi, oltre al sempre lodato Francesco da Assisi, sono quelli più moderni a spiccare. Padre Pio, Maria Teresa di Calcutta e, naturalmente, l’ultimo arrivato: Karol Wojtyla. Di Giovanni Paolo si celebra il ricordo con la “benedizione da ascoltare” (sei euro): basta schiacciare per sentire la voce ferma del Papa; magneti da frigorifero ; busti da scrivania in più dimensioni; riproduzioni per mensole; monete commemorativa in simil oro (3,50 euro); poster per ogni cornice. I santini del papa polacco, alle tre del pomeriggio, sono terminati. Eppure basta inoltrarsi poco e si capisce che a borgo Pio niente è rimasto intentato per offrire un ricordo ai turisti della Roma Vaticana. I negozi di souvenir si sono sbizzarriti. Ci sono gli accendini di Wojtyla, le magliette (“sei sempre vivo nei nostri cuori”; “santo subito”); le tazze da latte; le tazzine da caffè; le penne; i calendari; i portachiavi; i braccialetti; le acquasantiere; gli orologi; i portapillole; le cartoline; i ceri (anche quello “ecologico”); i ditali; adesivi e specchietti apribili a forma di cuore. C’è l’olio extra-vergine di oliva: una lattina a 3 euro con stampigliato sopra il volto del pontefice e la scritta: “Roma primo maggio 2011. Beatificazione di Papa Giovanni Paolo”. Più ci si avvicina al tempio, però, e più una fede sincera e popolare spazza via i mercanti. Un gruppo di messicani scandisce emozionato: “Giampaulo/ Secundo/ te quiera/ todo el mundo”. Ragazzi venuti dal Galles suonano le loro chitarre e cantano con voce da Oasis: “Come praise de Lord”, mentre le groupies dell’Oratorio li accompagnano battendo le mani e distribuendo un volantino con i testi della canzoni. Comincia a piovere. Stretti vicini alle transenne, come se riparassero dalla pioggia, a decine bivaccano composti indossando cerate rigorosamente bianche.
NON C’È DUBBIO: sono felici, anche – o forse proprio perché – dovranno passare la notte all’addiaccio nella piazza più speciale al mondo. Là c’è via della Conciliazione ma sembra Times Square a New York. Lingue ed etnie; microfoni e maxischermi si mescolano in un patch-work globale. Le bancarelle qua sono poche. Ma non manca Emanuele che sembra nato per vendere oggetti sacri. Ha una rarità di successo e un po’ blasfema. La statua di Wojtyla con la testa ciondolante: la tocchi e continua a ballare in un moto che sembra perpetuo. Sulla bancarella fa bella mostra di sé una statua simile con le fattezze di Totti. Costo di quella del papa? “Per gli stranieri so’ 30 euro – e fa vedere il prezzo stampigliato sotto – ma per te italiano so’ 15”. La prendo. “Ahò passami er Gongolo”. Wojtyla, là a casa sua, meriterebbe più rispetto. Ma ora è santo: tutto vede e tutto (forse) perdona.

il Riformista 1.5.11
E il peggior dittatore del continente fa scalo a Roma direzione Vaticano
di Chiara Privitera

http://www.scribd.com/doc/54306668

Corriere della Sera 1.5.11
L’epos greco fonda l’Occidente
Uno spirito laico differenzia la polis dal misticismo degli asiatici
di Eva Cantarella


«Che i poemi omerici siano grandissima poesia, è superfluo dire. Che siano un documento storico è cosa meno nota, che ha dato origine a non poche controversie: si può credere» , chiedeva ad esempio lo storico Henri-Irénée Marrou, al racconto di eventi proiettati in un passato così irreale nel quale «persino le bestie parlano» ? Cosa, questa (che le bestie parlino, in Omero) assolutamente innegabile. Non solo parlano, conoscono anche il futuro: Xanto, il cavallo di Achille, predice al suo padrone la morte. Ma questo non toglie che l’epos sia un documento storico. Precorrendo non di poco l’idea che la storia vada intesa come il patrimonio culturale di una comunità, già Vico (Principi di Scienza nuova), scriveva che Omero è «il primo storico, il quale ci sia giunto di tutta la gentilità» . Nella specie, lo storico che trasmette la memoria di quella Grecia nella quale, scrive Gaetano Parmeggiani, affondano le radici «della nazionalità europea» : la Grecia della ragione, radicalmente diversa dall’Oriente istintivo e mistico, dalla quale parte «quel filone di pensiero che corre da epoca e luoghi remoti — la Tessaglia o la Ionia sullo scorcio del secondo millennio avanti la nostra era— fino ai giorni di cui abbiamo diretta esperienza» . Affermazione, bisogna dire, non poco perigliosa. Contrapporre la ragione greca alla cultura orientale è facilmente classificabile come eurocentrismo. Ma proprio per questo, oggi, è interessante leggere un libro così decisamente controcorrente (Gaetano Parmeggiani, Lo scudo di Achille, Sellerio). La razionalità dei greci, come ben noto, venne messa in discussione — sono ormai quarant’anni— da I greci e l’irrazionale di Eric Dodds, che avanzava forti dubbi sul fatto che la Grecia fosse l’unico isolotto di razionalità nel gran mare teistico della cultura antica. Il libro contribuì non poco a smantellare la credenza nel cosiddetto «miracolo greco» , alla cui storicità, successivamente, sferrò un attacco feroce un libro di Martin Bernal: Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilisation. Secondo Bernal quelle che abbiamo sempre considerato conquiste intellettuali dei greci, dalla filosofia alla teoria politica, dall’arte alla storiografia, nacquero, in realtà, per merito delle popolazioni asiatiche e africane. I greci si sarebbero limitati a recepirle. Le radici della civiltà occidentale, insomma, andrebbero cercate nella cultura afroasiatica. La nostra convinzione che le origini della civiltà occidentale siano indoeuropee sarebbe la conseguenza di una falsificazione storiografica, perpetrata a partire dalla fine del Settecento, quando l’Europa— escludendo «altri» , che europei non erano— volle costruire un monumento a se stessa, facendo della Grecia il luogo della sua prodigiosa adolescenza. Impossibile ripercorrere il dibattito che seguì, al termine del quale (al di là della denuncia degli eccessi e dei non pochi veri e propri errori di Bernal) a Black Athena è giusto e doveroso, comunque, riconoscere di aver non poco contribuito a far accettare, anche ai più recalcitranti, l’innegabile esistenza di influssi orientali sulla cultura greca. Ma Parmeggiani la pensa diversamente: furono i filosofi greci, scrive, che nel VI secolo a. C. innalzarono «quel baluardo che difenderà a lungo l’Occidente dal misticismo orientale» . Ed è greco «quell’umanesimo laico, limpido, che è la matrice del pensiero moderno» , a suo giudizio già presente nell’epos: i poemi omerici, sostiene, sono laici. E al di là di ogni discussione sui debiti della Grecia verso l’Oriente (sulla cui misura si possono avere opinioni diverse, ma che non possono essere negati), su questo punto ha molte ragioni dalla sua. Il comportamento dell’individuo omerico è ispirato alla necessità sociale di ottenere dai suoi pari il riconoscimento dell’onore (time). Null’altro esiste, per lui, dopo la morte, se non il ricordo dei posteri. Questo rivelano i poemi, «raffinata, coerente e organica enciclopedia che raccoglie il bilancio di un’epoca» , scrive Luciano Canfora nella introduzione al libro. E lo scudo di Achille, è, a ben vedere, il cuore di questa enciclopedia. Le scene di vita cittadina, su di esso scolpite, sono i momenti fondamentali della vita di una polis: un matrimonio, un processo, l’aratura di un campo, una vendemmia… È una polis interamente antropocentrica, quella omerica, «in cui gli dèi non sono che uomini, appena un po’ più grandi del vero» . Che le opinioni certamente radicali del suo autore vengano o meno condivise, vale la pena leggere questo libro che— pregio non da poco— induce a ragionare e ripensare criticamente molte delle proprie certezze. Anche se alla fine ne dovessero uscire confermate.

Corriere della Sera 1.5.11
Dove si nasconde l’armonia musicale
di Armando Torno


Da sempre si è cercato di spiegare, di comprendere l’armonia. Attraverso taluni miti greci o in quelle poesie dove Hölderlin sa ghermire i suggerimenti degli dèi, nella filosofia di Leibniz— che credeva in una particolare comunicazione tra le sostanze spirituali che compongono il mondo — o in quella società del futuro di Fourier: gli uomini, insomma, hanno sognato disperatamente di incontrarla. Cos’è? È possibile evocarla, possederla, conservarla? Si tratta di una sorta di «connessione» come vorrebbe Omero nell’Odissea o è «ordine» , «legge» secondo la solenne rivelazione del Prometeo di Eschilo? Platone nel Convivio la trasfigurò, unendola indissolubilmente alla «sinfonia» ; secoli dopo Plotino chiudeva, nella prima delle sue Enneadi, quel volo nei cieli considerando l’armonia musicale un riflesso sensibile di una legge metafisica. E ora di Susan Elizabeth Hale è tradotto il fascinoso saggio Spazio sacro, suono sacro (Mediterranee, pp. 328, e 24,90), in cui la musicologa nota negli Usa e in Gran Bretagna esplora i misteri acustici dei luoghi sacri per scovare quell’armonia che i filosofi hanno descritto e i musici sono a volte riusciti a recare tra noi. Invita a incontrarla nelle grotte preistoriche, dove le immagini furono dipinte sulle pareti dotate di maggiore risonanza; oppure nelle piramidi egiziane, dove non mancano camere sonore; o ancora la vede aggirarsi nella cappella di Rosslyn, in Scozia, dove i codici armonici suggellati nelle arcate lavorano eternamente per ricrearla e abbracciarla. La ricerca di armonia è un bisogno che non conosce requie. Questo saggio della Hale è un’odissea nei misteri e nell’impossibile, dagli stupa tibetani alle cattedrali gotiche. Nelle quali, sussurrano gli iniziati, qualcuno ha racchiuso ancora dei miti greci.

Corriere della Sera 1.5.11
Il libro di Luciana Castellina
La giovinezza comunista di una diciottenne borghese
di Antonio Dibenedetti


C’era una volta il Pci, quello delle lotte operaie e antifasciste. C’era una volta una ragazzina dal cuore borghese, magra come un chiodo e curiosa delle cose più grandi di lei. Questo libro di Luciana Castellina, La scoperta del mondo, racconta con ironia e franchezza la storia del loro incontro trasformatosi in amor-passione. Ci sono, a fare da testimoni d’un ménage dal lungo prologo, l’Italia degli anni di guerra e poi la Roma davvero mitica del 1945 e dintorni. Intervengono così nella narrazione, portati dal vento della liberazione, i giovani intellettuali, i pittori fra bohème e impegno, i grandi politici. Ci sono i quartieri alti, i licei chic e c’è la scoperta della realtà sottoproletaria. Là, nell’inferno delle borgate. E tutto, in questo diario romanzato, si fa racconto con semplicità e senza i trucchi, senza le reticenze d’una atteggiata innocenza. La narrazione prende avvio il 25 luglio 1943. Luciana quattordicenne, in vacanza a Riccione, sta giocando a tennis con Anna Maria Mussolini. Si, proprio con lei, la figlia del Duce. Residenti a Roma, Luciana e Anna Maria sono state per anni compagne di scuole e si sono ritrovate per caso al mare. Hanno dunque tantissime cose di cui parlare. All’improvviso, però, il loro pigro palleggio viene interrotte. Una guardia dice qualcosa a Anna Maria e lei, scusandosi col dire «devo andare via subito» , sparisce inghiottita da tutto quello che il suo cognome comporta in quelle ore. Storia e cronistoria d’una progressiva rinuncia alla condizione ma non alla cultura borghese, La scoperta del mondo della Castellina inizia non a caso ricostruendo un avvenimento legato al tramonto della dittatura mussoliniana. Il lettore non si aspetti tuttavia d’incontrare nelle pagine che seguono, imbastite tutte su episodi di vita vissuta, tiritere politiche o sofismi ideologici. L’autrice, ormai congedatasi da una storica militanza nella sinistra più intransigente, scrive queste sue pagine godendo d’una scoperta della leggerezza come fuga dal superfluo, come rinuncia alle bellurie e agli indugi ridondanti. È diretta, essenziale. Si avverte nel libro un piacere quasi fisico di ritrovare se stessi, resuscitando momenti cruciali del proprio vissuto giovanile. Non mancano, qua e là, ritratti icastici e pungenti. Così Togliatti che, confrontato maliziosamente a Tito, viene vestito da professore e spogliato almeno in parte del suo carisma. Di Guttuso si legge che «non ha la faccia né del pittore, né del comunista» . C’è poi una bonaria caricatura di Pajetta che, incaricato di ammonire Luciana per essersi comportata con palese indisciplina, le parla di Lenin in termini così severi e dotti da essere per lei incomprensibili. La pagina forse più sofferta? Quella in cui la Castellina ricorda, senza infingimenti, che cosa abbia significato nel 1947 per una diciottenne di buona famiglia iscriversi al Pci. Illuminanti, a coronamento del discorso, una citazione di Cesare Pavese e un’altra di Elio Vittorini. Sul piano letterario il libro si vale di una felice trovata. Luciana Castellina autrice riesce a fare di Luciana Castellina, protagonista in prima persona delle vicende raccontate, un vero e proprio personaggio. In altre parole stabilisce con questa sua omonima un rapporto molto franco e disinvolto, superando felicemente narcisismi, timidezze e scrupoli che non di rado gravano sui protagonisti delle narrazioni d’ispirazione autobiografica.
Il libro: Luciana Castellina, «La scoperta del mondo» , ed. nottetempo, pagine 296, € 16,50

Corriere della Sera 1.5.11
Mao grande traditore di Marx nell’occhio della mia cinepresa
di Carlo Lizzani


Soltanto un grande attore shakespeariano potrebbe regalarci lo sguardo perplesso, sulla Cina di oggi, di un immaginario Karl Marx risorto dalle ceneri. Uno sguardo capace di trasmetterci— tutti insieme — tanti significati. Compiacimento nel ritrovarsi davanti a un paesaggio ottocentesco (capitalismo emergente, aggressivo a lui così familiare). E quindi possibile tema per la scrittura di un nuovo Manifesto. Oppure sgomento, ironia, sarcasmo. Ma anche amarezza e sdegno: «Allora, se il mondo va ancora così, tutto quello che ho scritto non è servito a niente! Chi leggerà più i libri miei e del mio amico Engels?» . E invece, come è noto, intorno alla figura di Marx e alle sue opere, da non pochi anni si è riacceso l’interesse vivo di tanti studiosi, storici, sociologi. In occasione del riemergere delle sue ceneri, mi sembra giusto ricordare, però, i responsabili della sua sepoltura. Altro che i pensatori liberali o i fascismi! Il primo a scheggiarne la pietra tombale, ad attenuarne la voce, troppo in sintonia con il mondo industrializzato e così lontano da una Russia ancora contadina, fu Lenin. E gli fu complice Stalin, come responsabile del definitivo spostamento dell’asse rivoluzionario dalle zone più avanzate e industrializzate del mondo a quelle contadine, tutte da collettivizzare nel modo più rapido possibile e rendere funzionali a uno sviluppo industriale accelerato. Con i costi che sappiamo. Ma la sepoltura spettacolare, clamorosa di Marx sotto tonnellate di granito ideologico, fu dovuta a quel Mao, la cui icona continua a sorriderci maliziosa (o sinistra?) da sei decenni. Ne ho ancora il rimbombo nelle orecchie, perché il cinema mi portò a soggiornare per ben dodici mesi in Cina, tutto il 1957. Un anno chiave che avrebbe visto il declino della stagione dei «Cento fiori» e i primi segnali del «Balzo in avanti» : il processo di industrializzazione accelerato. Che avrebbe portato — dal ’ 58 a tutti gli anni Sessanta— alla catastrofe dell’acciaio fuso in milioni di fornelli casalinghi (quindi praticamente inutilizzabile) alla rottura con l’Unione Sovietica e a una soluzione dei conflitti di classe (operai-contadini) più rigida e spietata di quella pilotata da Stalin nella «patria del socialismo» durante gli anni Trenta. Il soggiorno del 1957 in Cina me lo consentì la realizzazione di un lungometraggio documentario destinato alle sale cinematografiche (come accadeva allora per certe opere non fiction ma di particolare spettacolarità). Un’avventura straordinaria dovuta a vari fattori. Il grande successo di un mio film, Cronache di poveri amanti, doppiato e diffuso in tutta la Cina nel 1956. La stagione dei «Cento fiori» , che ho ricordato, e che permetteva per la prima volta l’apertura di quel Paese all’occhio di un regista occidentale. E il coraggio di una produzione, l’Astra dei fratelli Ferranti e di Leonardo Bonzi, che aveva saputo cogliere la curiosità verso il fenomeno Cina da parte di tanto mondo occidentale anche lontanissimo da simpatie comuniste. Il titolo, inciso nelle targhette dei tanti premi ricevuti in Italia e all’estero: La muraglia cinese (mi restano nella memoria, emozionanti, due incontri che ebbi a Pechino con Curzio Malaparte, allora malato terminale, assistito con grande scrupolo dai medici e dalle autorità cinesi). Come tante volte ho ricordato, il cineasta — non per particolare perspicacia, ma per la natura stessa del suo lavoro — si trova, qualche volta, a poter cogliere, più dell’inviato speciale o del diplomatico, le vibrazioni, i segnali anche più tenui che l’onda lunga della storia deposita giornalmente nelle microstrutture della vita quotidiana. Si viaggia, si lavora, si mangia, si dorme, ci si logora nelle attese dovute in ogni parte del mondo alle burocrazie locali, e tutto con gli stessi ritmi: noi e gli ospiti, noi e l’ «altro» . Nel nostro caso, due assistenti e due interpreti cinesi, per dodici mesi, notte e giorno, accanto a me e ai miei tre collaboratori italiani. È questo tipo di lavoro, di convivenza, che favorisce il processo di percezione di certe lontane risonanze della storia nelle increspature della vita quotidiana. E in Cina fu, poi, ancora più favorito dal fatto che, viaggiando per mesi dal Nord al Sud, dall’Ovest all’Est, dallo Sinkiang, alla Manciuria, dalla Mongolia allo Yunnan, navigando giorni e giorni lungo il fiume Giallo o il fiume Azzurro, osservando usi e costumi delle tante etnie conviventi in quel Paese (uiguri, manciù, mongoli, miao, tibetani) vedevo manifestarsi nei miei accompagnatori (cinesi di Pechino) sia pure in forme non sempre facili da decifrare, il mio stesso stupore, lo stesso consenso, lo stesso sgomento e forse gli stessi interrogativi: come si sarebbe coniugato il marxismo-leninismo appreso e digerito a dosi massicce a Pechino o a Shangai (scusate se continuo ad usare la grafia dell’epoca) con quell’oceano contadino e a volte tribale che andavamo attraversando? Certo, segni positivi della rivoluzione di Mao li vedevo dappertutto, una povertà dignitosa, ma anche un grande entusiasmo. Una voglia di pulizia e di solidarietà. Ma fu in quella esplorazione a tappeto del pianeta Cina che maturai anche le prime risposte agli interrogativi miei e di tanti intellettuali marxisti di quel tempo. Interrogativi che venivano dai fatti di Budapest e dall’eco delle inquietudini che cominciavano a investire tutto il mondo dell’Est e della stessa Unione Sovietica. In quei mesi passati in Cina non avevo visto uno spillo, un chiodo, unmanufatto di metallo, un tronco di binario che non fosse di provenienza dall’Est europeo o da Mosca. E mi aveva colpito anche la presenza capillare — laddove era in opera una struttura industriale nuova, un ponte, una diga— di ingegneri e tecnici russi, cecoslovacchi, ungheresi e tedeschi della Ddr. Un travaso di mezzi enorme che allora sembrò, quando se ne veniva a conoscenza— e io lo toccavo con mano— la contropartita di un evento storico nuovo e straordinario: l’ingresso in campo di 600 milioni di comunisti! (tanti erano allora i cinesi). Era fatta! La proporzione in densità di popolazione, tra aree ancora a regime capitalistico, ed aree ad economia socialista era rovesciata! E già gran parte del mondo ex coloniale o ancora coloniale guardava a Pechino. Ma dopo sette mesi già scrivevo nel mio diario (una parte di questo diario «cinese» occupa 70 pagine della mia autobiografia: Il mio lungo viaggio nel secolo breve, Einaudi, 2007): «Lan Chow, 3 agosto 1957. Ho sentito, qui in Cina, che la rivoluzione è divenuta "la rivoluzione degli alleati". Con l’ingresso impetuoso della Cina nel socialismo, e la discesa di tutti i popoli semicoloniali sul fronte della lotta antimperialista, i contadini poveri e gli agglomerati umani sottosviluppati— invece che "truppe di rincalzo"— sono divenuti protagonisti della rivoluzione mondiale. I confini esatti tra la funzione egemonica della classe operaia, oramai numericamente una minoranza all’interno di questo enorme campo, e quella ausiliaria delle grandi masse contadine arretrate sono in continuo movimento, con implicazioni politiche, economiche, culturali di enorme portata, che per ora mi sfuggono. Credo però che sfuggano anche a molti teorici del marxismo...» . Insomma, si è passati dal leninismo (alleanza con i contadini) allo stalinismo (costruzione del socialismo con la trasformazione dei contadini in operai). È questa la fase che sta attraversando la Cina. Stalinismo in Cina? Quanti si meraviglieranno. Eppure è così. Era così perché la Cina doveva cominciare— finito l’aiuto massiccio del blocco socialista a guida sovietica— a fare da sola. Al ritorno dalla Cina, e proprio, ancora, da intellettuale marxista, iniziai la mia personale battaglia per un dibattito serio sul fenomeno Cina. E le anomalie che cominciavano a derivarne sia a est che a ovest. Ma chi poteva ascoltarmi? Quei seicento milioni di nuovi «comunisti» apparivano, anche al mio Pci, una contropartita più che sufficiente per le tante sconfitte subite dal marxismo-leninismo nelle aree avanzate e industrializzate dell’Occidente. Si faceva strada l’idea che le prospettive marxiane, sconfitte nel cuore del capitalismo, avrebbero vinto con l’accerchiamento di quel cuore, insomma delle metropoli. Un assedio da parte del mondo socialista già così popoloso e delle masse sterminate di poveri di tutto il pianeta, sempre più assetate di giustizia, avrebbero un giorno messo in ginocchio Londra e New York, Parigi, Francoforte e Roma. Ne parlai con Paletta, con Longo, ma mi apparvero — pur amichevolmente — distratti. O stupiti. Un povero cineasta, pur amato e stimato, come poteva pretendere l’apertura di un dibattito di tali proporzioni? Ma ancora più patetica dovette apparire la mia posizione a quegli intellettuali e a quei giovani che via via, e in tutto il mondo, raggiungendo il culmine dell’entusiasmo nel ’ 68, e fino agli anni Settanta e Ottanta, avrebbero fatto di Mao il nuovo idolo rivoluzionario moderno, spregiudicato ma umano e non più ingessato come Lenin o Stalin. Finalmente l’autentico erede di Marx! Che tragico fraintendimento! E per me quante conferme — da tutto il mondo del comunismo reale, e dalle aree ex coloniali entrate nell’orbita cinese — di quella deriva stalinista di cui avevo percepito i primi segni in Cina, nel ’ 57. I dissesti tragici in Cina della «Rivoluzione culturale» , ultimo capolavoro del mao-stalinismo. E, intorno, forme sempre più folli, grottesche o tragiche di manipolazione del marxismo. Il comunismo dinastico della Corea del Nord e, al sud, la pazzia omicida di Pol Pot. E in Africa povere bandiere rosse a coprire spesso squallide dittature militari, solo il ricordo di tanti eroici e sinceri risvegli rivoluzionari. L’Angola di Agostino Neto straziata da trent’anni di guerra civile. Quante volte ho invidiato gli studiosi che nel corso dell’ultimo mezzo secolo hanno seguito queste vicende a tavolino, sia pure con scrupolo e passione. A volte anch’essi affascinati da Mao e dal suo libretto rosso. E quante volte mi sono detto, hegeliano nostalgico, meglio essere ciechi piuttosto che vedere certi aborti della storia, certe rotture incomprensibili della sua linearità. O sordi per non sentire quel rimbombo sinistro che ancora mi raggiunge da quell’esperienza sul campo. Una Cina di cui conservo anche tanti ricordi preziosi, e che mi ha lasciato legami di affetto profondi col suo popolo. Oggi così impegnato— scherzi della storia — a riproporre un capitalismo a guida comunista ancora più spregiudicato di quello che ispirò gli studi di Marx ed Engels. E ancora sotto lo sguardo (beffardo? malizioso?) della più sensazionale icona del Novecento.

Corriere della Sera 1.5.11
Ernesto Sabato, l’ultimo eroe
Arte, scrittura, ma anche impegno: le indagini sui desaparecidos
di Cesare Segre


È morto mentre si preparava ai festeggiamenti per i suoi cent’anni (era nato a Rojas il 24 giugno del 1911). Da tempo Ernesto Sabato s’era isolato nella sua casa di Santos Lugares (periferia di Buenos Aires), colpito severamente dalla malattia. Ripensava certo alla sua gioventù, alla laurea in fisica a La Plata, al suo lavoro presso la Fondazione Curie a Parigi, alla borsa di studio al MIT di Boston, e alla ricerca sui raggi cosmici; e poi alle sue prime simpatie per gli anarchici, e alla virata verso la letteratura, ai suoi libri, pochi ma talora imponenti, come Sopra eroi e tombe (1961), il capolavoro, o come L’angelo dell’abisso (1974) — meno voluminoso Il Tunnel (1948); e a quelli che facevano corona attorno, di critica, di riflessione (magnifiche le pagine sul tango), di ricordi, come Prima della fine (1998). Rievocava certo gli anni angosciosi trascorsi a indagare sui «desaparecidos» , nella Commissione nazionale che lo aveva avuto presidente, dopo il ritorno dell’Argentina alla democrazia, e la stesura della relazione finale (pubblicata con il titolo Nunca más «mai più» ). Tutti gli occhi del paese erano stati fissi su di lui, mentre le madri e le vedove dei «desaparecidos» facevano le loro ultime manifestazioni. In quei momenti, si era persino ammutolita la proverbiale, approssimativa leggenda di una sua rivalità con l’altro grande scrittore argentino, Borges, leggenda che ora si ripresenta, addirittura in queste prime ore di lutto (alludo a un articolo su «La Voz» ). Le vicende biografiche rispecchiano la vastità e varietà degli interessi di Sabato, che non sopportava di essere definito soltanto scrittore. Ricordo un nostro incontro a Washington, in cui mi espresse il suo scetticismo sul mito del progresso, citandomi, con esatta informazione, gli orrori del Medio Oriente e della Bosnia, il traffico di bambini latinoamericani, i disastri prodotti dalla globalizzazione; conosceva le statistiche sulla fame nel mondo, e si domandava se il neoliberalismo dominante sia in grado di migliorare qualcosa. Nei suoi scritti di attualità prevaleva un atteggiamento razionale, tanto razionale da sfociare nello scetticismo; ma in quelli narrativi la ragione si confrontava sempre con l’irrazionale, che pareva anzi un possibile vincitore. Specialmente in Sopra eroi e tombe, Sabato ha inventato un antimondo sotterraneo, ostile al nostro mondo: una luminosa Buenos Aires, descritta con partecipe realismo, cela una vita sotterranea, che si svolge in caverne, pozzi, grotte, fognature, tane di mostri. L’antimondo manda oscuri messaggi, tramite creature diaboliche, spesso ciechi, visti come una setta esiziale, impegnata a scalzare la nostra ragione. Ecco insomma il Male. Sabato mette in movimento una fantasia costruttiva, che si rivela in un progetto rigoroso; ma il mondo delle tenebre, agìto da una diversa fantasia, pare voler comunicare con noi tramite magia, telepatia, messaggi enigmatici. Anche questi contengono delle verità, dato che spingono a una discesa verso le Madri, una discesa al termine della quale i tunnel e le caverne finiscono per sostituire simbolicamente l’utero. Una sessualità primigenia attira e confonde gli uomini della luce, tanto che l’incesto è la molla dei personaggi principali, attori di incesti verticali (genitori-figli) e orizzontali (fratelli), e il detonatore della tragedia finale. Ma il male non è solo registrato e censito. C’è anche, nel romanzo, una decisa apertura alla storia, presente e passata, della nazione. Il mitico generale Lavalle, vinto in una delle numerose guerre d’indipendenza dell’Argentina, compie un’epica ritirata con i suoi fedeli per sottrarsi alle truppe dei governativi; una ritirata che continuerà anche dopo la sua morte, perché le truppe di Lavalle proseguiranno, portando con loro il suo cadavere. E la lotta per la libertà che Lavalle incarnava nel passato, nel mondo contemporaneo viene da Sabato simboleggiata in Che Guevara (anch’egli argentino, si ricordi), di cui ricostruisce, con una polifonia di testimonianze, la cattura e l’assassinio. Lo sforzo di Sabato è quello di trovare un senso alle cose. Anche il protagonista del Tunnel, Castel, vede il mondo ricomporsi e riordinarsi nel momento in cui l’amante María focalizza un particolare di un suo quadro sfuggito a tutti. Quando però la sua lucida paranoia lo porterà a uccidere María, di cui ha scoperto segreti dolorosi, ma anche fantasticato turpi moventi, il mondo ripiomberà nel caos. La ricerca del senso passa attraverso la creazione di uno stile realista e fantastico insieme. Sabato lo aveva anche asserito in termini generali: è l’arte stessa che attua la sintesi di realismo e fantasia, perché «in lei si coniugano tutte le facoltà dello spirito umano, essendo essa un regno intermedio fra il sogno e la realtà, fra l’inconscio e il conscio, tra sensibilità e intelligenza» .

Corriere della Sera 1.5.11
Integrazione La recitazione offre benefici sia alle persone fragili sia ai «normali»
La lezione di una «Banda di matti»
di Ruggiero Corcella


Potete chiamarli con i loro nomi d’arte: Yamakasi; l’Homme le +; Ed &ses Envolées voilées; Fifì &ses Bouts d’ficelles; Mine de Ren; l’Acrobate et ses BBB; Dandy One, Roi du Rb; Dandy Two Ping; Papy One, Homme orchestre; Papy Two, Prince Royal; The Magician. A loro scapperà uno sguardo compiaciuto o al massimo una di quelle risate, grasse o cristalline, che in Belgio stanno trascinando il pubblico. Sono la "Banda dei matti", spina dorsale di Complicités, spettacolo a metà strada fra teatro e circo con una particolarità: la compagnia è composta da 11 artisti disabili mentali, dai 25 ai 57 anni, e sette artisti professionisti (un musicista, un acrobata, un giocoliere, un equilibrista un break-dancer e due attori). Complicités arriverà anche in Italia e aprirà "Mirabilia", il Festival internazionale di teatro urbano in programma a Fossano (Cuneo) dall’ 8 al 12 giugno. Sarà l’occasione per godersi il risultato di un lavoro estremamente ambizioso, durato tre anni e con un budget di produzione superiore ai 300 mila euro in partenariato europeo. In Belgio, l’accoglienza di pubblico e di critica è stata entusiastica. Ma sarà anche l’occasione di toccare con mano il livello di bravura e di professionalità raggiunto dagli artisti della "Banda dei matti". Dal 2007 al 2010, Kirill, Thomas, Edouardo, Sarah, Virginie, Claudia, Lionel, Philippe, Axel, Michel e Damjan hanno lavorato in media dalle 5 alle 7 ore al giorno fianco a fianco con i colleghi "normali", creando appunto quelle complicità nate da un approccio fisico e naturale alla scena da parte di tutti e poi portate sul palco. Teatro, danza, numeri acrobatici da circo e musica sono le tante discipline toccate all’interno dello spettacolo. U n risultato di alto livello, frutto di un percorso che dimostra ancora una volta come la disabilità possa diventare non un ostacolo ma un’occasione di crescita. In Belgio lo ha capito in primo luogo il Créham, uno dei due centri co-produttori dello spettacolo. Il Créham (acronimo per Créativité et Handicap mental) è nato nel 1979 a Liegi ed ha aperto i battenti nel 1983 anche a Bruxelles. Si tratta di una vera e propria accademia d’arte per persone con handicap mentali. Attraverso laboratori creativi, tenuti da professionisti, e sulla base di un progetto artistico viene sviluppato un lavoro da proporre al pubblico. Dal Créham, tanto per fare il nome più noto, è uscito Pascal Duquenne, l’allora 25enne ragazzo Down che nel 1996 vinse al Festival di Cannes come migliore attore protagonista assieme a Daniel Ateuil suo partner nel film "L’ottavo giorno"del belga Jaco Van Dormael. L’altro centro motore di Complicités è stato Espace Catastrophe, un centro internazionale di ricerca e creazione di arte circense, sorto nel ’ 95 sempre a Bruxelles. «Dopo aver praticato differenti discipline, dalle arti plastiche alla musica, al teatro e alla danza— spiega Véronique Chapelle, direttrice di Créahm Bruxelles— ci è venuta voglia di allestire uno spettacolo di circo. Lavorando con i disabili mentali da numerosi anni, abbiamo avuto l'opportunità di osservarli nel loro percorso artistico. Ciò che ci ha lasciato il segno, tra le altre cose, è l'umorismo di cui danno spesso prova. Questo umorismo ci tocca, ci fa ridere per la sua generosità e la sua semplicità» . Il Créham ha cercato un partner e Catherine Complicités è uno spettacolo di teatro e circo (nella foto un’attrice della compagnia). Andrà in scena a Fossano (Cuneo) l’ 8 e il 9 giugno nell’ambito del festival «Mirabilia» . Lo show dura dai 75 ai 90 minuti. È accompagnato da una mostra fotografica di Jean François Rocher Magis, direttrice artistica di Espace Catastrophe si è mostrata interessata al progetto. A fine 2007, sono stati organizzati alcuni laboratori per capire quanti tra i disabili mentali che frequentavano il Créham fossero interessati alla proposta. Nei sei mesi successivi c’è stata la selezione dei candidati e a conclusione undici sono stati invitati a "entrare in pista". Per Catherine, un vulcano di idee con la fissa della contaminazione tra generi artistici, è stata la prima esperienza con persone disabili mentali. «Ma è stato da subito un regalo, — racconta con entusiasmo — un'opportunità rara di poter vivere degli incontri artistici ed umani differenti, fuori dal comune. I primi incontri con gli artisti del Créahm hanno solo confermato le mie impressioni: sincerità, spontaneità, umorismo, ritorno all’essenziale, precisione implacabile, generosità, capacità incredibile a vivere il momento presente, poesia, tenerezza da vendere» . Tra i compagni di viaggio si sono aggiunti artisti noti a livello europeo come l’attore Jean Luc Piraux e il polistrumentista Max Vandervorst, i coreografi Jordi Vidal e Maria Clara Villa Lobos e il mago Miguel Cordoba. La preparazione è stata lunga, proprio per dare allo spettacolo il tempo giusto di maturazione. «Volevo che lo spazio di espressione dello spettacolo restasse interamente libero e spontaneo — aggiunge Catherine Magis che ha già lavorato in l’Italia —. Volevo che ogni artista trovasse semplicemente il suo posto per quello che era. E mi sono subito convinta che gli 11 della "Banda dei matti"non avrebbero faticato ad adattarsi allo spettacolo che andavano a creare, lasciando libero corso al loro immaginario di matti» appunto!» . E adesso sì, hanno anche un "mestiere": artista di spettacolo, con tanto di cachet per ogni rappresentazione ma ad una tariffa che corrisponde ad una tabella speciale altrimenti perdono i loro sussidi. Sotto la grande struttura metallica da circo, storie e sogni degli attori di Complicités scorrono con linguaggi sempre diversi. «Io vorrei raccontare che vado a sposarmi su una barca al mare del Nord col mio fidanzato Philippe» sussurra Virginie, trapezista e sognatrice. In fondo, lei e tutti gli altri della "Banda dei matti"invitano solo ad oltrepassare le frontiere che separano il normale dall’anormale, l’ordinario dallo straordinario, la differenza dall’indifferenza, il sogno dalla realtà. Almeno per una sera. Semplice.

Corriere della Sera 1.5.11
Iniziò Basaglia coi laboratori in manicomio
Poi mille realtà, ma con pochi fondi
di R. Cor.


Teatro e handicap non sono un connubio nuovo in Italia. Anzi. Il nostro Paese vanta una tradizione trentennale, che prese impulso dai laboratori teatrali di Franco Basaglia all’interno dei manicomi. Proprio in quell’ambito si formò il progetto dell’Accademia della follia di Claudio Misculin, una compagnia formata da "matti", una delle esperienze più note all’estero. Altrettanto nota è la compagnia di Pippo Delbono, che ha portato sul palco Bobò, un sordomuto che Delbono conobbe nel manicomio di Aversa. E ancora il Teatro Patologico di Dario D’Ambrosi a Roma. «In generale però da noi c’è un’eccessiva polverizzazione di attività— dice Claudio Bernardi, docente di Antropologia teatrale all’Università Cattolica di Brescia —. Abbiamo la ricchezza della boscaglia, che soffoca però la crescita del baobab» . Insomma, una miriade di attività, molte a livello amatoriale, e finanziamenti sempre più ridotti rendono difficile mantenere una struttura professionale in qualche modo paragonabile a quella belga del Créham (vedi sopra). Sembrano irripetibili esperienze come «Evangelio» (liberamente ispirato al Vangelo secondo Matteo di Pasolini), il primo spettacolo teatrale in Italia con attori "normali"e portatori di handicap allestito nel ’ 95 dal regista Enzo Toma con la compagnia del teatro Kismet di Bari da lui diretta per un decennio, portato su tutti i palchi nazionali e anche all’estero a Tokyo. «Da noi si resta legati a una visione di queste iniziative come teatro di ricerca— sottolinea Toma —. La cosa faticosa è che ogni volta bisogna ricominciare da capo, perché non abbiamo mai risorse per sviluppare un progetto organico» . Così è accaduto al Kismet che, come racconta l’attuale direttrice artistica Teresa Ludovico, da un anno ha dovuto sospendere il suo percorso "sociale"per mancanza di fondi comunali. La carenza di finanziamenti aveva già decretato nel 2002 la fine di un’esperienza unica come il Festival nazionale di teatro e handicap al Franco Parenti di Milano, con il coinvolgimento della Ledha (Lega per i diritti degli handicappati). «Possibile che non ci sia un mecenate o una fondazione che voglia investire culturalmente in questo settore solo perché ci crede?» si chiede Angelo Fasani, presidente di Anffas Milano e vicepresidente di Ledha, che dell’iniziativa al Parenti fu uno dei trascinatori.

Repubblica 1.5.11
Il romanzo del rivoluzionario da giovane
Materialismo comico e socialismo surreale
Karl prima di Marx
di Michele Serra


Aveva diciannove anni e odiava le convenzioni: per questo scrisse un breve romanzo satirico in cui si faceva beffe di borghesi, aristocratici e intellettuali. Era un ragazzo molto diverso dall´uomo che avrebbe scritto "Il Capitale" e dalla figura severa tramandata dall´ortodossia. Ora quel libro viene ripubblicato con le vignette disegnate dall´amico di una vita, Friedrich Engels

Quando, nel 1929, venne alla luce Scorpione e Felice, abbozzo di romanzo umoristico scritto dal diciannovenne Karl Marx quasi un secolo prima, le varie accademie del realismo socialista non ne furono certo entusiaste. D´accordo, si trattava di trenta paginette scritte da uno studente vivace e irriverente (un Marx non ancora marxista...). Quasi uno scherzo letterario, dedicato al padre e in seguito tenuto in pochissimo conto anche dal suo autore. Ma che il fondatore del "socialismo scientifico" avesse esordito con un testo così sideralmente distante dai dogmi ingessati che il futuro clero comunista avrebbe edificato sulle (alle) sue spalle, non era una sorpresa di poco conto.
Forse anche per questa inclassificabilità - oltre che per l´esilità letteraria - Scorpione e Felice ebbe una vita editoriale molto in sordina. Eccezion fatta per l´Italia, dove questa curiosa operina ora esce per Editori Riuniti, corredata dai disegni satirici del sodale Friedrich Engels, da una nota di Claudio Magris (scritta per il Corriere della sera nel 1968) e da una bella prefazione di Gabriele Pedullà.
 he ci introduce nel clima letterario e culturale della Germania della prima metà dell´Ottocento: le irrequietudini romantiche, il rifiuto del classicismo, l´enorme popolarità di Sterne e del suo Tristram Shandy. Proprio di Sterne il giovane Marx è un convinto epigono quando prende a scrivere il suo tentativo di romanzo parodistico, anzi di parodia del romanzo, puntando sulla destrutturazione dei luoghi comuni narrativi e sul continuo auto-stravolgimento della trama, che saltabecca da una situazione a un´altra, da un personaggio all´altro, facendosi beffe della compiutezza formale del romanzo classico. Quasi surrealisticamente, tanto che Pedullà, nella sua prefazione, fa notare che nel vastissimo e variegato mondo della cultura comunista novecentesca, solo Breton e i surrealisti sarebbero stati in grado di apprezzare quello scritto marxiano tanto anomalo e inatteso.
Per il lettore moderno è molto difficile cogliere i riferimenti satirici al mondo politico-culturale dell´epoca: la satira ha quasi sempre un´alta deperibilità perché i modelli che cita e stravolge si sono nel frattempo estinti, o consumati. Si coglie bene, invece, lo spirito beffardo, anti-accademico, con il quale il ragazzo Marx mette in scena la sua storia strampalata e inconclusa. Si va dalla parodia della pomposità accademica (sull´etimologia di un nome l´autore spende tre noiosissime pagine, facendo il verso alla pedanteria di chissà quale professorone dell´epoca), alla demolizione quasi goliardica del sentimentalismo. In certi passaggi quasi si indovina nell´autore il futuro Marx "ufficiale", lo svelatore della struttura economica e sociale come motore primo (e spesso occulto) delle idee e dei comportamenti umani (la sovrastruttura). Accade quando i personaggi provano sentimenti che l´autore, perfidamente, attribuisce subito dopo a disturbi corporei o intoppi comunque fisici, divertendosi a ricondurre alla carne vile quegli ideali e quelle passioni che allora (e non solamente allora) la letteratura descriveva come spirituali, eteree. Fino alla scenetta finale, nella quale si pratica un clistere al cane Bonifacio (chiamato San Bonifacio dal religiosissimo padrone) e si stabilisce - sono le ultime parole del libro - un collegamento tra «ostruzione intestinale del cane e profondità delle idee», beffa anti-idealista che al giovane Karl dovette sembrare impagabile.
Testo a parte, è evidente che l´importanza di Scorpione e Felice sta soprattutto nello stridente contrasto tra l´icona severa e incombente del Padre Marx, sorta di nume barbuto per qualche generazione di uomini e donne di ogni parte del mondo, e il concetto stesso di umorismo. Pedullà fa notare che il forse più insigne tra i critici letterari marxisti di tutti i tempi, Lukacs, deprezzò Sterne e il Tristram Shandy mano a mano che consolidava il suo lavoro sul realismo socialista come probabile ritorno alla "totalità umana" dei classici. Come se - detto in parole semplici - l´umorismo non fosse all´altezza della serietà dell´impegno politico, né fosse in grado, procedendo per frammenti, per rotture di schemi, di dare dell´umanità una visione "totale".
È in parte vero: alla base dell´umorismo c´è il senso del limite, che nelle sue varie espressioni (da una parte il pudore, all´altro estremo il cinismo) suggerisce di non cedere ad alcun tipo di "totalità". Eppure Heinrich Heine, poeta romantico tedesco molto amato e frequentato da Karl Marx, vedeva in Sterne «un umorismo assoluto, nel quale si fondono sublime e ridicolo». Sublime e ridicolo, le due facce della medaglia umana, come in un successivo e fortunato aforisma (forse di Karl Kraus) viene detto anche meglio: il comico è solo il tragico visto di spalle.
E in fin dei conti, anche se il Marx apprendista satirico fu, come emulo di Sterne, molto approssimativo e svogliato, sapere che esordì come umorista lo risarcisce, almeno in parte, dell´uso super-strutturato che i suoi emuli fecero del suo pensiero, ossificandolo in precetti para-religiosi che avrebbero trovato degna parodia in Scorpione e Felice. È destino, peraltro, di molti culti umani vedere il fondatore trasfigurato in idolo, e un clero trasformare, nei secoli, l´energia intellettuale degli inizi in una cupa costruzione dogmatica - cioè in puro potere.
Ovvio che i sacerdoti del marxismo, nella loro esegesi, non abbiano mai tenuto in gran conto il giudizio (non neutrale ma molto partecipe) che la figlia Eleanor diede del padre Karl Marx: «Era il più allegro e giocondo di tutti gli uomini». Se non un quinto fratello Marx (ad honorem), certo non un minaccioso pontefice.

Repubblica 1.5.11
«Proletari di tutto il mondo divertitevi!»
Destra e sinistra non sappiamo dove sono
di Karl Marx


Manca la definizione, la definizione. Chi potrà definirla, chi potrà esaminare quale sia la parte destra e quale la sinistra? E tu dimmi, mortale, da dove viene il vento, oppure se sul volto di Dio c´è un naso, e io ti dirò che cos´è destra e che cos´è sinistra. Null´altro che concetti relativi, è come bersi la follia, la furiosa pazzia, insieme alla saggezza!
Oh! Vano è ogni nostro sforzo, illusione è la nostra nostalgia, fino a che non avremo penetrato che cos´è destra e che cos´è sinistra, giacché a sinistra metterà i capri, a destra invece gli agnelli. Se si gira, se prende un´altra direzione, poiché di notte ha fatto un sogno, allora i capri staranno a destra e i devoti a sinistra, secondo le nostre misere vedute. Perciò definiscimi che cos´è destra e che cos´è sinistra, e l´intero nodo della creazione sarà sciolto, Acheronta movebo, dedurrò con precisione dove andrà a stare la tua anima, da questo concluderò inoltre su quale livello tu sei ora, poiché quel rapporto originario apparirebbe misurabile, in quanto la tua posizione sarebbe determinata dal Signore.
m a il tuo posto quaggiù può essere misurato secondo lo spessore del tuo capo, mi gira la testa, se comparisse un Mefistofele, diventerei Faust, poiché è chiaro che tutti noi, tutti siamo un Faust, in quanto non sappiamo quale parte sia la destra, quale la sinistra, la nostra vita è perciò un circo, corriamo tutt´intorno, cerchiamo da tutte le parti, finché cadiamo sulla sabbia e il gladiatore, la vita appunto, ci uccide, dobbiamo avere un nuovo redentore, poiché - tormentoso pensiero, tu mi rubi il sonno, mi rubi la salute, tu mi uccidi - non possiamo distinguere la parte sinistra dalla destra, non sappiamo dove si trovano...
Lotta di classe
Me ne stavo seduto pensieroso, misi da parte Locke, Fichte e Kant e mi dedicai a una profonda ricerca per scoprire in che modo una lisciviatrice può essere connessa al maggiorascato, quando mi trapassò un lampo che, affastellando pensieri su pensieri, illuminò il mio sguardo e apparve davanti ai miei occhi una configurazione luminosa.
Il maggiorascato è la lisciviatrice dell´aristocrazia, poiché una lisciviatrice serve solo per lavare. Ma il lavaggio sbianca, dando così una pallida lucentezza al bucato. Allo stesso modo il maggiorascato inargenta il figlio primogenito della casa, dandogli così un pallido color argento, mentre agli altri membri imprime il pallido colore romantico della miseria.
Chi fa il bagno nei fiumi, si getta contro l´elemento scrosciante, combatte la sua furia e lotta con braccia vigorose; ma chi siede nella lisciviatrice vi rimane chiuso e contempla gli angoli delle pareti. L´uomo comune, vale a dire colui che non ha la magnificenza del maggiorascato, combatte con la vita impetuosa, si tuffa nel mare rigonfio, e con il diritto prometeico ruba perle alle sue profondità; magnificamente gli compare davanti agli occhi l´interna configurazione dell´idea, e audacemente crea, ma il signore del maggiorascato fa soltanto cadere le gocce su di sé, teme di slogarsi le membra e perciò si siede in una lisciviatrice.
Trovata la pietra filosofale, trovata!
Autocoscienza
Giungemmo a una casa di campagna, era una bella notte, blu scura. Tu eri appesa al mio braccio e volevi staccarti, ma io non ti lasciavo, la mia mano ti legava, come tu avevi legato il mio cuore, e tu lasciasti che io ti tenessi.
Io mormorai parole piene di nostalgia e dissi la cosa più alta e bella che un mortale possa dire, poiché non dissi nulla, ero sprofondato intimamente in me, vidi sorgere un regno, il cui etere fluttuava così leggero, eppure così pesante, e nell´etere c´era un´immagine divina, la bellezza stessa, come io un tempo l´avevo presagita - ma non riconosciuta - in audaci sogni fantasiosi, sfavillava lampi di spirito, sorrideva, e tu eri l´immagine.
Mi meravigliai di me stesso, poiché ero diventato grande attraverso il mio amore, imponente; vidi un mare infinito, in cui non mugghiavano più flutti, aveva guadagnato profondità ed eternità, la sua superficie era cristallo, e nel suo oscuro abisso erano appuntate tremule stelle dorate, che cantavano canzoni d´amore, che irradiavano ardore, e il mare stesso era caldo!
Se quella strada fosse stata la vita!
Baciai la tua dolce, morbida mano, parlai d´amore e di te. Una nebbia leggera fluttuava sul nostro capo, il suo cuore andò in frantumi, pianse una grande lacrima, essa cadde fra noi, ma noi la sentimmo e tacemmo.
La miseria della filosofia
Giacevano davanti a me sul tavolo, proprio quando io mi lambiccavo il cervello sul perché l´ebreo errante sia un berlinese di nascita e non uno spagnolo, ma vedo che questo coincide con la controprova che devo fornire, per cui noi, per amor di precisione… non vogliamo fare nessuna delle due cose, ma ci accontentiamo dell´osservazione che il cielo sia negli occhi delle signore, ma che gli occhi delle signore non si trovano in cielo, da cui risulta che ad attrarci non siano tanto gli occhi quanto piuttosto il cielo, poiché non vediamo gli occhi, ma soltanto il cielo che è in essi.
Se ci attraessero gli occhi e non il cielo, allora ci sentiremmo attirati dal cielo e non dalle signore, poiché il cielo non ha un occhio solo, come è stato osservato sopra, ma non ne ha nessuno, bensì esso stesso è null´altro che un infinito sguardo d´amore della divinità, l´occhio mite e melodioso dello spirito di luce, e un occhio non può avere un occhio.
Il risultato finale della nostra ricerca, perciò, è che noi ci sentiamo attirati dalle signore e non dal cielo, perché non vediamo gli occhi delle signore, ma senz´altro il cielo che è in essi, sicché ci sentiamo dunque, per così dire, attratti verso gli occhi perché non sono occhi, e perché Aasvero, l´errante, è berlinese di nascita, poiché è anziano e malaticcio e ha visto molti paesi e molti occhi, ma continua pur sempre a sentirsi attirato non dal cielo, bensì dalle signore, ed esistono soltanto due magneti, un cielo senza occhio e un occhio senza cielo.
L´uno sta sopra di noi e ci attira verso l´alto, l´altro sotto di noi e ci attira nelle profondità. Ma l´Aasvero è attratto con forza verso il basso, altrimenti fluttuerebbe eternamente sulla terra? E fluttuerebbe eternamente sulla terra, se non fosse un berlinese di nascita e non fosse abituato alle distese di sabbia?
Traduzione Cristina Guarnieri © Editori Riuniti Srl